Generare in comune. Teorie e rappresentazioni dell'ibrido nel sapere zoologico dei Greci e dei Romani 8860170362, 9788860170361

Di cosa parlavano veramente i Greci e i Romani quandi si riferivano a quelli che noi chiamiamo oggi "ibridi"?

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Generare in comune. Teorie e rappresentazioni dell'ibrido nel sapere zoologico dei Greci e dei Romani
 8860170362, 9788860170361

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LETTERATURA CLASSICA

Collana fondata da Giusto Monaco e diretta da Giusto Picone 30

Pietro Li Causi

Generare in comune Teorie e rappresentazioni dell’ibrido nel sapere zoologico dei Greci e dei Romani

PALUMBO

Volume pubblicato con i fondi MIUR (PRIN anno 2005)

© Copyright by G. B. Palumbo Editore & C. Editore S.p.A. - 2008 Proprietà letteraria dell’Editore Stampato in Italia

ISBN 978-88-6017-036-1

INDICE

PREMESSA

11

INTRODUZIONE

13 13 13 14 15 15 16

1. Scenari 1.1 Primo scenario 1.2 Secondo scenario

2. Giri lunghi: attraversare i confini, esplorarli 2.1 Ibridi microscopici, ibridi macroscopici 2.2 Ibridi e confini: mutamenti di prospettiva (e metamorfosi dell’oggetto) CAPITOLO 1

Zoologie dello sguardo e del luogo, zoologie filosofiche. Il sapere sugli animali nel mondo antico 1. Principi di etnobiologia 1.1 Una breve ricognizione: i ranghi delle classificazioni popolari nella griglia di Berlin/Guasparri 1.2 Vicini all’esperienza, lontani dall’esperienza: alcune osservazioni sull’uso della griglia di Berlin/Guasparri

2. Corpi, luoghi, animali: l’animale come spazio visivo localizzato 2.1 Principi di senso comune: raccontare il corpo animale come spazio visivo etologicamente connotato 2.2 Luoghi e animali

3. Una scienza senza tassonomia: cenni di storia (parziale) della “zoologia” antica 3.1 3.2 3.3 3.4

Il vivente indistinto: gli animali nel discorso dei Presocratici Demiurghi, zoogonie, dicotomie: l’animale residuale di Platone La svolta aristotelica L’eredità di Aristotele. Caratteristiche della zoologia di età alessandrina (ed imperiale)

4. Conclusioni

25 27 27 30 32 33 37 43 43 46 49 62 68

CAPITOLO 2

Pensare gli ibridi nella cultura greca: caselle opache, animali antonomastici, metafore 1. Koinogonia e “generazione in comune”: il lessico (opaco) dell’ibridazione in Grecia 2. Animali antonomastici: il mulo 3. Il mulo e la moicheia: incroci animali e adulteri umani 4. Uccelli adulteri e adulteri divini 4.1 L’aquila detta gnesios (e le proiezioni dell’ideologia ateniese) 4.2 Ibridi di donne e di dei: la generazione di Pan

5. Come fanno gli animali a commettere adulterio?

71 71 74 75 76 77 79 82

5

6. Umano atto animale: la generazione in comune 7. Conclusioni (e osservazioni)

87 90

CAPITOLO 3

Fra adulterio, eugenetica ed assimilazione: l’ibridazione animale nella cultura romana 1. Il vocabolario latino dell’ibridazione 1.1 Hybrida, nothus, insiticius 1.2 Altri termini (la coppia bigener/insiticius)

93 93 93 94

2. Leoni adulterati: un esempio di incrocio animale nella storia naturale romana

98 99 104 3. Un’eugenetica possibile: adulteri che non sono adulteri e nascite speciali 106 3.1 Ibridi di uomo e di dio 106 3.2 La storia di Marzia, Catone e Ortensio 108 3.3 I cani-tigre dell’oriente favoloso 110 4. Latte interspecifico e cavalle tosate: l’ibridazione come assimilazione 113 4.1 L’adulterio programmato come pratica di selezione dei tratti 113 4.2 Avvicinare ciò che è lontano: zoo-tecniche (simboliche) dell’antichità 114 5. Il tabù della doppia natura (conclusioni) 119 2.1 I leoni sono generosi 2.2 Adulteri umani, adulteri animali

CAPITOLO 4

L’invasione dei mostri. Le teorie sull’ibridazione e il dibattito sull’esistenza dei centauri

121 124 1.1 Aristotele e i mostri dellAfrica: una razionalizzazione esclusiva 124 1.2 L’eredità dell’amato maestro: le razionalizzazioni di Palefato 128 1.3 Percorsi autoriferiti di antropopoiesi 129 1.4 Il varco dimensionale. Ovvero: sono le donne che generano i mostri! 131 1.5 Altri centauri, altre negazioni: Lucrezio e Galeno 135 2. Le vie dei mostri: brecce nella fortezza dell’umano 143 2.1 Un modello ideale: il centauro scomponibile di Senofonte 143 2.2 La razionalizzazione (incompleta) di Empedocle e le critiche di Aristotele 145 2.3 Manipolare le teorie: la krasis fra uomo e asino in Eliano 148 2.4 Aristotele rivisto e corretto: la Natura elastica di Plinio 150 2.5 L’invasione dei mostri (e l’antropopoiesi rovesciata di Plutarco) 154 2.6 Donne che continuano a generare mostri: Isidoro di Siviglia 158

1. Negazioni e processi antropopoietici

CAPITOLO 5

Ibridi animali, ibridi umani 1. Un falso antenato 2. Gli hybridae fanno parte dei bigenera (oppure degli ambigenae) 3. Gli ibridi sono “umani” 3.1 3.2 3.3 3.4

6

Gaio Antonio Ibrida (e Catilina) Un cognomen immotivato Un cognomen motivato Le strategie retoriche di un “ibrido”

161 162 164 166 166 171 176 178

Indice

3.5 Un invito a cena

4. Una romanità da non inquinare 4.1 Il fiume carsico dell’identità esclusiva 4.2 Plinio e le razze degli uomini

182 183 183 185

CAPITOLO 6

Noi, gli antichi. Digressioni conclusive 1. Pasifae, il toro e Dedalo: sfondi mitici, tecniche e (supposti) antenati 2. Il mito della purezza e la paura dell’ibridazione: analogie e differenze fra i patrizi romani e gli scienziati fascisti 3. Casi difficili: un’esplorazione dello scenario vicino 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5

Ritorno al primo scenario Il misticismo della natura e la nuova teodicea La parola alla scienza Il minotauro senza corna Squarciare il velo del silenzio: e gli animali?

4. Ansie, preoccupazioni, risate e sorrisi

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Testi Studi (e altro)

189 189 193 195 196 197 202 204 208 211 213 213 217

INDICE DEI PASSI CITATI

239

INDICE DEI NOMI E DEGLI AUTORI MODERNI CITATI

247

INDICE DEGLI ARGOMENTI E DELLE COSE NOTEVOLI

251

Indice

7

A mio padre, alle sue lotte.

PREMESSA

Il presente volume è il frutto di una ricerca che si colloca nell’ambito del PRIN sul Lessico enciclopedico degli animali nella cultura greca e romana che ha coinvolto le Università di Siena, Palermo, Torino e Trieste.1 Ad esclusione dei capitoli 5 e 6, che compaiono qui per la prima volta, il resto delle unità riprende, rielabora ed espande una serie di scritti da me già pubblicati nel corso di questi anni o che comunque sono in corso di pubblicazione. In particolare il capitolo 1 è l’esito di due lezioni che ho svolto su invito di Isabella Tondo per il laboratorio didattico sul simbolismo del corpo da lei tenuto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo nell’anno accademico 2003-04. Una sezione significativa di queste lezioni è in corso di pubblicazione su Athenaeum. Il nucleo originario del capitolo 2 è formato dall’intervento da me tenuto presso l’Università di Rostock nell’ambito del convegno dal titolo Tier und Mensch in der Antike, organizzato da Annetta Alexandridis e Lorenz Winkler-Horacek e già pubblicato, in versione ridotta, in un numero speciale degli Annali Online dell’Ateneo di Ferrara (Li Causi 2007). Sono comunque confluite, in questa sezione del libro, alcune delle osservazioni che è possibile trovare in un mio articolo comparso sul primo numero della rivista Storia delle Donne (Li Causi 2005). Il capitolo 3 riprende invece parte dell’intervento da me tenuto al seminario dal titolo Zoomania, organizzato al centro A. M. A. di Siena da Maurizio Bettini, Simone Beta e Cristiana Franco. Tale intervento è attualmente in corso di pubblicazione negli Atti di quelle giornate di studio. 1. Cfr. http://www.ricercaitaliana.it/prin/dettaglio_prin-2005100340.htm.

11

Infine, il nucleo originario del capitolo 4 è costituito dalla mia relazione nell’ambito del congresso internazionale intitolato Buoni per pensare. Gli animali nel pensiero e nella letteratura dell’antichità organizzato presso il Collegio Ghislieri dell’Università degli Studi di Pavia da Fabio Gasti ed Elisa Romano. Le abbreviazioni degli autori e dei testi latini sono tratte dal Thesaurus linguae Latinae (Th. l. L.), mentre per gli autori e i testi greci ho preferito fare ricorso al Diccionario Griego-Español (DGE), piuttosto che al Liddell-Scott, per il semplice fatto che è possibile reperire facilmente in rete le liste.2 Sono molte le persone che desidero ringraziare per avere discusso con me di alcuni dei temi che sono stati trattati nel volume o semplicemente perché mi sono state vicine e mi hanno sostenuto in tutti questi anni con il loro affetto e la loro amicizia. Le cito una per una: Giusto Picone, Rosa Rita Marchese, Patrizia Pinotti, Roberto Pomelli, Gianni Guastella, Angela Andrisano, Valeria Andò, Andrea Cozzo, Giordano Lipari, Letizia Gulino, Elisa Romano, Maurizio Bettini, Dinora Corsi, Cristiana Franco, Isabella Tondo, Nicola Cusumano, Anna Angelini, Salvatore Sinatra, Bruno Arini, Nicolò Ratto, Abele Gallo, Nicola Foderà, Gaspare Li Causi, Chiara Insinga, Irene Li Causi. Ringrazio inoltre Daniel Lee per avermi fornito personalmente il file in alta definizione della sua opera qui riprodotta. Sarò poi grato a chiunque, una volta letto il volume, vorrà sottopormi domande di chiarimento, osservazioni, dubbi, consigli ad uno dei due seguenti indirizzi di posta elettronica: [email protected]; [email protected].

2. http://www.filol.csic.es/dge/. Ho comunque preferito mantenere per esteso il titolo di alcune opere (come ad es. i trattati plutarchei contenuti nei Moralia).

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Premessa

INTRODUZIONE

«Happy is he who lives to understand, Not human nature only, but explore All natures, – to the end he may find The law that governs each; and where begins The union, the partition where, that makes Kind and degree, among all visible Beings“ W. Wordsworth, The Excursion

1.

Scenari

1.1 Primo scenario La living-room di una casa italiana costruita negli anni ’90 dello scorso secolo. A illuminare la penombra, uno schermo al plasma che trasmette una scena vista più volte. Un corpo liquido, tondeggiante. Apparentemente una goccia d’acqua. La goccia è ferma. Ma fluttua in una sorta di immobilità dinamica e insieme organica. Non è possibile capire se sia l’inquadratura ad essere incerta, se siano le mani dell’operatore che esitano mentre seguono l’obiettivo, o se è la goccia che vive di vita propria, palpitando. Dopo pochi istanti, un altro corpo viene immesso nel nostro campo visivo, da destra. È una sorta di cannula oblunga e diritta, con la punta troncata in diagonale. È trasparente anch’essa, come la goccia, ma il suo moto non è pulsante. Avanza da destra verso sinistra, in un lento incedere orizzontale. La cannula preme sulla goccia, che si flette, piegandosi su di sé. È entrata dentro la cellula, l’ha perforata. 13

Si vede quindi, dentro la siringa trasparente, un puntino romboidale con una piccola appendice alla sua destra, un corpo con la coda troncata che lentamente viene spinto dentro la cellula che è ritornata tondeggiante, dopo avere assunto, per alcuni istanti, la forma di una C. È uno spermatozoo, che viene immesso nell’ovulo. L’icona in movimento della fecondazione artificiale, il corpo stesso che si è fatto paesaggio. Un paesaggio che tuttavia sembra essersi staccato dai corpi organici e che descrive un mondo apparentemente parallelo e autonomo rispetto alle nostre vite. La scena viene ripetuta una seconda volta. Mentre scorrono le immagini, la voce fuori campo di un cronista racconta – con un tono che tradisce una preoccupazione, che sembra però affettata – che in un laboratorio di un College inglese una equipe di scienziati ha creato l’uomo-bovino: «disco verde all’embrione chimera», dice la voce. Poi continua: «un ibrido. Al 99,9 per cento umano, allo 0,1 per cento animale. In vita per non più di 14 giorni. Utilizzato a fini di ricerca sulle cellule staminali per la cura del morbo di Parkinson, dell’Alzheimer, del diabete. Il DNA di un paziente affetto da una di queste malattie impiantato all’interno dell’ovulo vuoto di un coniglio o di una mucca».1 1.2 Secondo scenario Una biblioteca specialistica di una università del sud d’Italia. Un libro con impressi caratteri greci è aperto sul tavolo. Le pagine che lo studioso sta leggendo raccontano un aneddoto avvenuto in una campagna che si immagina brulla, risalente al VI secolo prima della nascita di Cristo. Un giovane mandriano ha interrotto il convivio di sette uomini che l’autore qualifica come sapienti per condurli a vedere, con i loro occhi, una scena inusitata. Una cavalla ha partorito, nel podere di Periandro, un mostro dalle fattezze insieme umane ed equine: «la parte superiore, fino all’attaccatura del collo, e le mani avevano forma umana, il resto era equino e piangeva con la voce di un bambino appena nato». Il personaggio chiamato Diocle spiega a Periandro che si tratta di un prodigio divino e aggiunge che sono stati gli dei a mandare questo segno per comunicare ai mortali che c’è una qualche contaminazione da espiare con un rito di purificazione. Un altro personaggio, cui è dato il nome del filosofo Talete, ha però una versione diversa. L’aneddoto si chiude così con una battuta 1. Servizio del TG1 (visionabile su http://it.youtube.com/watch?v=7nU73s ARXdI).

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Introduzione

di spirito: «le prescrizioni di Diocle, caro Periandro, le potrai seguire con calma – dice Talete – per parte mia ti consiglio di non servirti per le cavalle di mandriani così giovani, oppure di dar loro moglie».2

2.

Giri lunghi: attraversare i confini, esplorarli

2.1 Ibridi microscopici, ibridi macroscopici In entrambi gli scenari proposti fa la sua comparsa la forma di ibridazione che percepiamo come la più estrema, la più deviante, la più pericolosa: quella che coniuga l’animale con l’umano e che fa vacillare le nostre nozioni comuni di identità biologica. L’oggetto, a distanza di secoli, può sembrare lo stesso, ma a pensarci bene ci sono alcuni piccoli dettagli, apparentemente insignificanti che cambiano il punto di vista. L’inquadratura dell’oggetto infatti muta completamente da uno scenario all’altro, così come non sono identiche le reazioni e i toni delle voci fuori campo: il giornalista da un lato, Plutarco dall’altro. L’ibrido di cui si parla nel primo scenario, che alimenta le paure dei tecnofobi contemporanei e che nello stesso tempo è al centro delle estetiche postumanistiche del teriomorfo, si staglia nell’orizzonte di quello che Roberto Marchesini ha chiamato il somato-landscape, vale a dire il corpo pensato come un paesaggio da abitare ed osservare mediante le tecniche di ingrandimento e di sondaggio del medicalimaging.3 La creazione dell’ibrido è dunque una realtà innanzitutto microscopica, cellulare, laddove invece, nel secondo scenario, l’incrocio di uomo e animale si manifesta in tutta la sua scultorea (e macroscopica) fragranza. Se dunque gli ibridi degli antichi potevano essere il frutto di passioni zoorastiche, i nostri ibridi e le nostre chimere sono sempre più oggetti di laboratorio, minuscoli ma al contempo minacciosi. La zoorastia, in altri termini, per noi, è diventata unicamente un sottogenere della pornografia, venendo a perdere le pericolose implicazioni procreative che gli antichi le attribuivano. Cosa, questa, che implica che al ventre della donna si sia di fatto andato sostituendo, nella generazione della mostruosità, la matrice asettica del laboratorio. 2. I passi citati sono tratti da Plutarco (Plu. Septem Sapientium Convivium 149 C 14-D 3 e E 5-8). Una versione analoga del medesimo racconto si trova comunque anche in Phaedr. 3, 3, 1-17, dove però la battuta è posta nella bocca di Esopo e l’ibrido mostruoso è un incrocio di uomo e agnello. Su questi due passi rimando a Tondo 2007, 181 ss. e, per Plutarco, Lo Cascio 1997, 204 s. 3. Marchesini 2002, 207 ss. (ma cfr. anche, dello stesso autore, Il corpo come paesaggio, in http://www.estropico.com/id112.htm).

Introduzione

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Sommatoria di corpi non omofili, guazzabuglio combinatorio, l’ibrido di Plutarco tuttavia non desta – come si è visto – alcuna preoccupazione nel filosofo Talete. L’aneddoto ha infatti la medesima struttura della barzelletta oscena, da chiudere con una battuta di spirito che metta in mostra e sveli il fondo nascosto di una sessualità esplosiva e incontenibile; così esplosiva e incontenibile da non potere che scatenare il riso di chi ascolta: «Mi sembrò dunque che, a sentire queste parole, Periandro si rallegrasse parecchio. E infatti scoppiò a ridere e diede un bacio a Talete abbracciandolo». (Plu. Septem Sapientium Convivium 149 E 9-11)

C’è un motivo per questa differenza di reazioni e di punti di vista? E poi, siamo sicuri che in fondo il nostro sguardo non modifichi l’oggetto stesso? 2.2 Ibridi e confini: mutamenti di prospettiva (e metamorfosi dell’oggetto) Riflettere sull’uomo-bovino della biogenetica e sull’uomo-cavallo della letteratura greca significa riflettere, in fondo, sulla stessa linea di confine fra l’umano e l’animale. Linea di confine che, nella cultura contemporanea comincia ad essere sempre più percepita come qualcosa di tenue e sfumato. L’esperienza delle biotecnologie, la riflessione post-umanistica e il dibattito etico e giuridico sui diritti degli animali, in tal senso, ci aprono orizzonti nuovi, trasformando quello che prima era un limite in una sorta di spazio mobile e fluttuante.4 Tanto fluttuante da scomparire, o da spostarsi – talvolta – all’interno della sfera stessa dell’umano, per venire – all’occorrenza – finanche “indossato”. Penso ad esempio alle maschere animali di artisti come Matthew Barney (cfr. fig. 1), o al lavoro di Daniel Lee, che, nella serie dei Manimals (cfr. fig. 2), deforma volti e corpi di uomini fino ad ottenere immagini plastiche di creature ibride che non hanno più nulla né dell’umano né dell’animale, ma che – al contempo – continuano ad essere il frutto della mescolanza dell’umano e del-

4. Sulle biotecnologie contemporanee cfr. Marchesini 1999, 95 ss. (ma anche Marchesini 2002, 404 ss.). Un manifesto del postumanesimo, che vuole scardinare i confini dell’umano in una continuità liberamente percorribile in ogni senso fra umano, animale e macchina, è ad es. Haraway 19992, 39 ss. Per una bibliografia in lingua italiana sul postumanesimo cfr. http://www.mediazone. info/site/_files/postumano/bibliografia.pdf. Per un quadro sul dibattito giuridico-filosofico relativo ai diritti degli animali, in una visione che tende ad essere sempre più orizzontalistica, cfr. ad es. Steiner 2005, 4 ss. e Valastro 2007, 119 ss.

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Introduzione

l’animale.5 Una mescolanza, questa, che ricorda per certi versi l’idea antica della krasis e che – contrariamente a quanto avveniva, ad esempio, per i mostri della mitologia greca – non è più la giustapposizione superficiale delle parti che compongono le chimere e i centauri, ma si presenta immediatamente come paradosso ontologico, come porta aperta alla possibilità di una “natura terza” che coniuga fondendoli tra di loro non soltanto i tratti delle specie vicine e affini (come ad esempio avviene con il cavallo e l’asino che generano il mulo), ma anche quelle estremamente lontane e che, se da un lato ci rivela in tutta la sua potenza l’appeal irresistibile del teriomorfo, dall’altro – ennesimo paradosso – ci invita a riflettere sulla sua culturalità, sul suo essere non più “dato”, ma “oggetto costruito”.

Fig. 1: Matthew Barney, Cremaster 4: The Loughton Candidate, 1994.

Fig. 2: Daniel Lee, Manimals: 1962, The year of the Tiger, 1993.

Se infatti la linea di confine fra l’umano e l’animale (e dunque anche fra la natura e la cultura) può essere spostata, o anche interiorizzata, o messa in scena perfino sul corpo stesso dell’uomo, se dunque può – in altre parole – venire “manipolata”, è evidente che tale linea può essere intesa anche come il risultato di ciò che ogni singola cultura costruisce ed elabora a partire dagli apparati simbolici di cui dispone. Se dunque è chiaro che esistono e sono presenti, nelle culture, dei confini più o meno netti fra la sfera dell’umano e quella dell’animale, 5. Per la biografia e le opere dei due artisti citati, oltre che Vergine e Verzotti 2004, 230 e 292, cfr. rispettivamente www.daniellee.com e www.cremaster.net. Più in particolare sulla nozione del corpo come “topografia delle ibridazioni” nell’arte postmoderna si vedano anche le osservazioni di Marchesini 2002, 238 ss.

Introduzione

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credo che sia importante vedere non tanto quali siano, quanto cercare di capire come vengano costruiti e manipolati.6 Ebbene, dal mio punto di vista, la disseminazione di immagini ibride è in questo senso anche uno dei tanti modi attraverso cui il confine può essere costruito e rappresentato. È per questo che, per cercare di capire le differenze tra uno scenario e l’altro, cercherò non soltanto di analizzare teorie, credenze e processi simbolici relativi all’ibridazione nel mondo antico, ma tenterò anche di comprendere quale idea di natura e di umanità (e di animalità) veicolino quelli che saranno gli oggetti della mia ricerca. Per potere fare ciò, però, credo sia opportuno tenere conto, oltre che dei confini che gli antichi hanno costruito fra l’umano e l’animale (e fra le specie in genere), anche di un altro confine, non meno scivoloso e ambiguo. Quello fra l’antico e il moderno. Studiare le culture dei popoli del passato, non significa tanto «studiare i nostri antenati», riconoscendo in essi una sorta di «estensione analogica di un noi reticente»,7 quanto individuare barriere culturali fra loro e noi. Ed è solo dopo che abbiamo riconosciuto la specificità di tali barriere che, terminato il viaggio di esplorazione nel passato, possiamo tentare di usare l’antico per pensare la nostra contemporaneità (ed eventualmente – laddove sia possibile – per agire al suo interno, cercando di cambiarla). Nello specifico, condurre un’indagine sulla rappresentazione dell’ibrido significa riconoscere che con il mutare degli scenari teorici, culturali e tecnologici di riferimento mutano non solo i processi simbolici che vengono attivati, ma, per certi versi, la natura stessa dell’oggetto del nostro studio. Un esempio banale può essere costituito, in tal senso, dalla rappresentazione dell’ibrido di uomo e animale nell’arte. Si è accennato poc’anzi a come, nelle raffigurazioni antiche, l’incrocio di uomo e animale (penso ad esempio al centauro o al satiro, ma anche all’uomo-cavallo che viene mostrato a Periandro) venisse immaginato, tendenzialmente, come un prodigio combinatorio di parti assemblate, e dunque come una coesistenza impossibile di morfologie non omofile. Al contrario, invece, gli ibridi di Matthew Barney o di Daniel Lee sono qualcosa di completamente diverso rispetto alle forme che sono state unite per crearli. Essi rappresentano – come ho già detto prima – una sorta di natura terza, in cui l’incontro fra l’umano e l’animale non è più stridente e illogico. 6. Un esempio di metodo, in questo senso, è l’intervento di C. Franco, Animali e costruzioni di genere nel mondo antico, in corso di pubblicazione negli Atti del Convegno Tier und Mensch in der Antike, tenutosi a Rostock dal 7 al 9 aprile del 2005. 7. L’espressione fra virgolette è tratta da Guastella 1999, 92.

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Introduzione

Se dunque la morfologia dei centauri e delle chimere dei Greci nasce – salvo rari casi8 – da una logica di “giustapposizione” degli spazi (cfr. ad es. fig. 3 e fig. 4), i volumi e le masse dei Manimals dell’arte contemporanea sono invece la risultante di spazi e di masse che, più che assemblarsi, si compenetrano e si informano gli uni degli altri. E dunque, al contempo, sono anche il frutto di un’idea completamente diversa della natura e dello spazio. Come presupposto della realizzazione di tale idea, tuttavia, non è soltanto necessario che esista una certa qual attrazione nei confronti del teriomorfo – attrazione che viene per lo più riconosciuta come transculturale9 –, ma è altresì necessario che ci sia una determinata tecnica che permetta quella determinata realizzazione dell’oggetto ibrido e che tale tecnica – nello stesso momento in cui viene applicata – ne influenzi il concetto. Molto più che la pratica teatrale del camuffamento, molto più dell’idea antica della krasis (vale a dire la fusione temperata e ben amalgamata di elementi diversi che formano un elemento terzo), nelle opere di Daniel Lee, ad esempio, c’è indubbiamente l’influenza delle tecniche informatiche di image processing e di ritocco fotografico.10

Fig. 3: Fidia, Metopa del Partenone (V sec. a.C.). London, British Museum.

Fig. 4: “Gruppo pontico”, ceramica etrusca (VI sec. a.C.). Orvieto, Fondazione per il Museo Archeologico “Claudio Farina”.

8. L’eccezione, nel mondo antico, è costituita per certi versi dall’onocentauro di cui parla Eliano (NA 17, 9), che viene descritto per certi versi come un composto omogeneo e ben amalgamato di umano ed equino. A tale proposito cfr. par. 2. 2 del cap. 4. 9. Cfr. ad es. Marchesini 2002, 121-128; 178-285 e 235-238. 10. Sulle tecniche usate da Daniel Lee per realizzare i suoi Manimals cfr. l’intervista all’artista realizzata da K. Pietrasik per la rivista DIGIT nel 2002 (visionabile al seguente link: http://www.daniellee.com/DIGIT.htm). Dal punto di vista concettuale è oltremodo interessante comunque il fatto che l’artista dichiari di essersi ispirato alla chirurgia plastica (un dato, questo, che – sia detto per inciso – lo accomunerebbe per certi versi agli esperimenti del Dottor Moreau, protagonista de L’isola del dottor Moreau di H. G. Wells): cfr. http://www. daniellee.com/DigitArt.htm.

Introduzione

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Il morphing (così come anche il medical imaging e la visione microscopica) può cambiare i connotati simbolici del mostruoso così come tradizionalmente inteso e, nello stesso tempo, disegnare nuovi scenari possibili per l’idea stessa di natura e di identità.11 Si pensi poi – volendo continuare a parlare di tecniche – a quanto sia diventata complessa e articolata la terminologia scientifica adottata per distinguere le varie tipologie di ibridazione a seguito degli avanzamenti dell’ingegneria genetica contemporanea. Se prima, infatti, sulla scia della sola differenza tassonomica fra razza e specie, si distingueva semplicemente fra l’“ibrido” e il “meticcio” (intendendo per il primo il frutto dell’incrocio di due esseri di specie diversa, e per il secondo il frutto di un incrocio di due razze diverse della medesima specie), oggi in zootecnia si parla anche di “creature mosaico” e di “chimere” o anche di “cibridi”, vale a dire dei frutti della procreatica di laboratorio che vengono generati a partire dallo sfruttamento del fenomeno di totipotenzialità delle cellule presenti nella fase cosiddetta “pre-embrionale” di un individuo.12 Individuo che – sia detto per inciso – diventa sempre più passibile di essere pensato come la radice organica «da declinare attraverso la protesi tecnologica».13 Le tecniche, infatti, non soltanto modificano la nostra maniera di classificare e inquadrare la realtà, ma anche le nostre coordinate valoriali e simboliche. Accade dunque che se per Galeno il centauro – come vedremo – era non solo impensabile, ma anche inutile e disfunzionale,14 per il pensiero post-umanista, invece, esso diventa per certi 11. Si pensi ad esempio che il morphing è la tecnica usata per la creazione dell’icona di Luther Blisset, co-individuo e sabotatore mediatico autore di saggi, dischi, fumetti, romanzi e provocazioni varie (per un manifesto del collettivo cfr. Blisset 2000). 12. Per “totipotenzialità” si intende la capacità dei nuclei delle cellule embrionali di dare origine a cellule di qualunque tipo (cosa, questa, che permette, in fase pre-embrionale, la fusione di cellule di due o più specie diverse). La fase della totipotenzialità dura sei giorni e precede quella della cosiddetta “unipotenzialità”, quando cioè le singole cellule cominciano a differenziarsi sviluppando ognuna distinti organi o apparati (cfr. comunque Marchesini 1999, 109). 13. La citazione è tratta da Marchesini 2002, 237. Gli animali mosaico sono il frutto di una fusione di pre-embrioni di due (o più) pre-embrioni della stessa specie (una sorta di “ibrido intraspecifico” che presenta il corredo genetico non più di soli due genitori, bensì di quattro o più genitori), mentre le chimere sono il prodotto della fusione di due (o più) pre-embrioni di specie diverse. Per tale distinzione cfr. Marchesini 1999, 109-11. I “cibridi” sono invece embrioni «ibridi citoplasmatici […] nei quali il nucleo di una cellula umana, per esempio della pelle, viene inserito nell’ovocita animale svuotato quasi completamente del suo patrimonio genetico» (cfr. P. Giongo, Ibridi animale e uomo: i nuovi embrioni, in «Il Corriere della sera» 3. 7. 2007). 14. Cfr. Gal. De usu partium 3, 1: 3, 171, 3-172, 10 Kuhn (per cui cfr. par. 1. 5 del cap. 4).

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Introduzione

versi il progetto da proporre. Secondo Stelarc, ad esempio, «quel che oggi è intrigante non è la distinzione corpo-mente, ma la separazione corpo-specie».15 Si delinea così la possibilità di una sorta di eugenetica dell’ibridazione, che avrebbe come fine quello di «superare l’omologazione della specie ovvero l’unicità del progetto umano, per dar vita a una multiformità di subspecie umane più o meno differenti nelle funzioni, nei comportamenti, nelle vocazioni, nelle potenzialità percettive e cognitive».16 In uno scenario del genere l’uomo non sarebbe più – come siamo abituati a pensare dalla zoologia classica – un sistema chiuso, bensì un sistema aperto e “compatibile” costruito sulla base di una serie multipla di eteroriferimenti.17 Affrontare scenari simili richiede profondità. E la profondità, talvolta, più che da un approccio diretto ai problemi, può scaturire da quello che l’antropologo Francesco Remotti, riprendendo un’espressione di Clyde Kluckhohn, chiama “il giro più lungo”, vale a dire lo studio dell’alterità lontana la cui comprensione può determinare effetti di ritorno inattesi per la comprensione del “vicino”.18 Nel mio caso il giro più lungo parte – per uno scherzo del destino che mi ha voluto classicista – dai Greci e dai Romani. Più in particolare il “viaggio” comincia con una domanda apparentemente semplice: «di cosa parlavano veramente i Greci e i Romani quando si riferivano a quelli che noi chiamiamo, in senso lato, ibridi?». Rispondere a questa domanda – sulla quale si impernierà la trattazione del presente volume – implica che ci si muova su più livelli di indagine. Innanzitutto bisognerà partire da una analisi dei lessemi, per cercare di capire se esistano, volta per volta, termini espliciti per indicare l’oggetto in questione (e per capire come lo indichino e – laddove siano presenti – secondo quali modalità metaforiche); quindi bisognerà analizzare – laddove sia possibile – le teorie relative alla generazione interspecifica. Indagine, questa, rispetto alla quale le spiegazioni colte elaborate all’interno del discorso filosofico e della naturalis historia verranno trattate insieme alle (e alla stessa stregua delle) cosiddette teorie folk, dal momento che – come è ormai ampiamente riconosciuto – 15. Cfr. Stelarc 1994, 65. 16. Cfr. Marchesini 2002, 237-8. 17. Per l’idea di uomo come sistema compatibile cfr. Marchesini 2002, 237 ss., la cui posizione, in merito, sembra essere intermedia rispetto agli estremismi biomoratistici di Jonas 1991 da un lato e l’entusiasmo ipertecnofilo di Engelhardt 1999 dall’altro (cfr. anche Marchesini 2002a, 109 ss.). 18. Cfr. Remotti 1990, 13-43 (C. Kluckhohn, Lo specchio dell’uomo, Garzanti, Milano 1979, 20 è citato da Remotti a p. 13).

Introduzione

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spesso il rapporto fra i due ambiti, apparentemente distinti, è strutturato in modo circolare. Una volta che saranno portate alla luce le “conoscenze” in merito alla zoologia antica dell’ibridazione (e in merito alla zoologia antica tout court),19 sarà dunque possibile tentare di illustrare i percorsi simbolici che, a partire da queste teorie, sono costruiti in seno a culture che presentano scenari, orizzonti di esperienza e percorsi simbolici diversi dai nostri; percorsi che spesso influenzano, manipolandola, la stessa elaborazione delle teorie. Si tratterà in questo senso di analizzare non solo come l’ibridazione venga vista e percepita dallo sguardo degli insiders, ma anche come venga “usata” e quali meccanismi ideologici attivi. Il primo capitolo del libro sarà una sorta di percorso propedeutico che mirerà a fornire al lettore alcuni principi generali di etnozoologia, a tratteggiare un quadro di insieme della visione dell’animale nel mondo antico e, successivamente, a illustrare le linee di sviluppo dei saperi zoologici settoriali sull’animale all’interno della filosofia e della storia naturale dei Greci e dei Romani. Una volta fornito questo quadro, nel secondo capitolo verranno investigati i lessemi, le perifrasi e le metafore che la lingua greca utilizza per parlare di ibridazione. Sarà qui possibile vedere come la riproduzione interspecifica, per gli antichi, venga pensata secondo gli stessi principi etnobiologici che stanno alla base della moicheia; cosa, questa, che realizza una zona di interscambio simbolico fra la sfera dell’umano e la sfera dell’animale. Il terzo capitolo, a partire dall’analisi del vocabolario dell’ibridazione nel mondo latino, oltre ad analizzare le zone di interscambio simbolico che si attivano fra antroposfera e zoosfera, mostrerà come – sulla base del tabù della doppia natura – le pratiche zootecniche dell’incrocio possano essere pensate a Roma ora come violazioni e adulterazioni delle specie viventi, ora come realizzazioni eugenetiche cui arrivare a partire da percorsi di “assimilazione” interspecifica. Il dibattito relativo alla possibilità della realizzazione di incroci fra esseri umani e animali sarà poi al centro del quarto capitolo, dove verranno passate al vaglio alcune teorie razionalistiche che, pur ammettendo una (talvolta) prodigiosa produttività delle ibridazioni interspecifiche, escludono dalle generazioni in comune proprio gli esseri umani, che vengono costruiti e pensati come separati rispetto al resto degli zoia ed autoriferiti. 19. Uso qui il termine “conoscenza”, molto meno etnocentrico di “credenza” (cfr. a tale proposito Good 1999, 43 e Li Causi 2003, 43 ss., spec. 46). Mi capiterà altre volte nel corso del volume di utilizzare spesso il termine classico. Chiedo però al lettore di tenere presente questa nota ogni volta che ciò sarà fatto.

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Introduzione

Tali teorie negazioniste, comunque, come si vedrà nella seconda sezione del capitolo, si trovano di fatto a convivere con una serie di teorie folk che continuano a perpetuare le credenze relative alle possibilità dell’agglomerato di uomo e animale. Nel quinto capitolo, quindi, cercherò di fare vedere come il termine hybrida latino (antenato diretto del nostro “ibrido”), indicante inizialmente soltanto il meticcio fra cinghiale e maiale (e successivamente ogni incrocio di varietà domestica e selvatica della medesima specie) venga utilizzato come cognomen per indicare individui sui quali ricadeva ora lo stigma di una natura ambigua, ora quello dell’origine incerta o comunque interetnica. Il termine in questione, come tenterò di mostrare, si inserisce nell’alveo di una sorta di fiume carsico che attraversa la storia di Roma e che è formato dalla confluenza di una serie di rappresentazioni dell’identità che vedono la romanità come esclusiva ed autoriferita. Nel sesto capitolo, infine, a partire dai dati ricavati dalla ricerca sul mondo antico (e dopo un breve cenno alle teorie razziste elaborate dal nazifascismo), tenterò di analizzare, a mo’ di conclusione, un caso di bioetica contemporanea. Più in particolare, prendendo spunto dal dibattito sollevato dalla creazione a fini terapeutici di ibridi citoplasmatici di uomo e animale, vorrei tentare una riflessione non soltanto sulle analogie e le differenze che è possibile rilevare fra gli scenari dell’antichità e quelli della contemporaneità, ma anche sui risvolti etici, politici (ed economici) che regolano oggi il nostro rapporto con gli ibridi.

Introduzione

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CAPITOLO 1

Zoologie dello sguardo e del luogo, zoologie filosofiche. Il sapere sugli animali nel mondo antico

«E, com’è risaputo, i bambini di tutto il mondo vanno per natura d’accordo con gli animali. Non vedono nessuna linea divisoria. È qualcosa che bisogna insegnare loro, così come bisogna insegnare loro che è giusto ucciderli e mangiarli». J. M. Coetzee, La vita degli animali

Parlare degli atteggiamenti relativi all’ibrido animale nel mondo antico implica che si parli della “zoologia” di due culture diverse dalla nostra – quella greca e quella latina – che operano in un regime pre-linneano e che, ovviamente, non conoscono ancora l’ingegneria genetica (anche se – come si vedrà nel corso delle pagine successive – adottano determinati accorgimenti zootecnici per la generazione incrociata forzosa di animali addomesticati o comunque in cattività).1 Usare il termine “zoologia” a proposito dei saperi degli antichi sugli animali è in questo senso estremamente rischioso. La prima cosa di cui bisogna tenere conto, infatti, è che né i Greci né i Romani hanno mai usato questo vocabolo, che è di fatto un neologismo coniato dai moderni. Quando parliamo di “zoologia degli antichi”, pertanto, non facciamo altro che affidarci ad una comoda astrazione traduttiva che può creare un corto circuito con la nostra idea di zoologia, e, di conseguenza, un anacronismo. Il rischio che si corre è di essere affetti da quello che Cambiano ha chiamato il “miraggio delle origini”, quella particolare patologia della ricezione secondo cui l’antico viene let1. Cfr. ad es., per le strategie che i Romani adottavano per arrivare alla riproduzione incrociata di cavalli e asini, i passi citati nel par. 4 del cap. 3.

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to, attraverso il moderno, quasi come una sua continuazione, laddove invece, anche se in presenza di molte analogie, sono per lo più gli elementi di discontinuità quelli che hanno il peso maggiore.2 Un primo elemento di discontinuità in questo senso sta nel fatto che mentre nel panorama delle scienze moderne la zoologia è una disciplina oggetto di insegnamento accademico con un proprio patrimonio di metodologie, routine e finalità di ricerca, nel mondo antico anche quando – a partire da Aristotele – è possibile individuare un discorso settoriale sugli animali, tale discorso non si inquadra mai all’interno di un unico paradigma che si impone ai posteri. Se infatti nella zoologia contemporanea abbiamo un quadro di operazioni e di routine che si è affermato, all’interno del quale si gioca il conflitto delle ipotesi e delle interpretazioni dei vari studiosi, per l’antichità sarebbe forse più corretto parlare di un conflitto di paradigmi concorrenti, o anche di quella che Arnaud Zucker ha chiamato la “dispersione dell’animale” all’interno di quello che è da considerare a tutti gli effetti un sapere polifonico e pluriprospettico.3 Sugli animali esistono diversi punti di vista che non sono, ovviamente, soltanto, quelli dei filosofi della natura, ma anche quello dei medici, dei sacrificatori, dei trattati di dietetica, dei trattati di cinegetica e così via. Studiare gli ibridi, all’interno di questo quadro composito, significherà dunque essere consapevoli di avere a che fare non con la zoologia degli antichi, quanto piuttosto con una etnoscienza, vale a dire – nell’accezione data al termine da Giorgio Raimondo Cardona – con un corpus di saperi le cui parti non necessariamente sono in armonia le une con le altre, né tanto meno devono essere immutabili, ma che tuttavia, nonostante le differenze, le anomalie e le incongruenze, può presentare elementi di omeostasi.4 2. Cfr. Cambiano 1988, 3 ss. (ma cfr. anche Romano 1999, 21, che parla del rischio di un approccio teleologico in base al quale «… tutto ciò che non serve a spiegare quello che è venuto dopo va sacrificato, ma va anche emarginato tutto ciò che da un lato non è compatibile con una continuità lineare, dall’altro non è riducibile ad un principio unitario»). 3. Cfr. Zucker 2005 a, 7. 4. L’omeostasi è, secondo definizione da dizionario (N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Milano, Zanichelli 199612, s. v.), «la capacità di un organismo o di un insieme di organismi di mantenere in un relativo equilibrio stabile le caratteristiche del proprio ambiente interno». Cfr. a questo proposito Cardona 1985, 37: «Non abbiamo certezze; solo un principio d’ordine generale ci mostra che le conoscenze, le strutture, le istituzioni di un gruppo devono necessariamente tendere ad una forma di omeostasi per poter funzionare; anche frammenti discordanti vengono col tempo ricondotti ad un generale criterio di funzionamento; e trattandosi di saperi sul mondo e non di costruzioni arbitrarie, pur nella diversità della ricezione degli stimoli, possiamo attenderci che le risposte non siano in numero illimitato, ma tendano a ricadere entro combinazioni ridotte, scelte tra le più funzionali».

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Generare in comune

Quello che vorrei fare in questo capitolo, prima ancora di esplorare il tema dell’ibridazione (e dell’ibridazione estrema di uomo e animale), è cercare in prima istanza di esporre alcuni di questi elementi che è possibile riscontrare sia nell’ambito dei saperi diffusi sugli animali sia – in parte – in quello dei saperi settoriali. Una volta fatto questo, quindi cercherò di tratteggiare un profilo di storia delle “zoologie filosofiche”, vale a dire di tutti quegli insiemi di conoscenze riflesse e settoriali che in qualche modo tendono a sganciarsi dal senso comune o che comunque, pur partendo da esso, mirano ad approfondirlo, sistemarlo o rielaborarlo.5 Prima di avviare un percorso specifico sulla zoologia antica (o meglio sulle “zoologie” antiche) è però opportuno – a mio avviso – illustrare alcuni principi che è possibile ricavare a partire dalle ricerche contemporanee sull’etnobiologia e sulle classificazioni folk.

1.

Principi di etnobiologia

1.1 Una breve ricognizione: i ranghi delle classificazioni popolari nella griglia di Berlin/Guasparri Gli studi più recenti sui saperi e le scienze popolari sembrano concordi nell’affermare che esiste una facoltà innata nella mente umana atta a classificare gli oggetti animati sulla base di ranghi (ranks) di senso comune gerarchicamente ordinati a partire dai quali è possibile attivare percorsi di inferenza o di induzione sul mondo dei viventi.6 5. L’accezione di “senso comune” che qui sto usando è quella di Atran 19962, 5 ss. Si tratta dunque – è bene precisarlo – di uno strumento euristico lontano dall’esperienza elaborato a partire dalle riflessioni di cognitivisti e antropologi. È comunque opportuno segnalare che esistevano nel mondo antico teorie specifiche sulla communis opinio e sulle koinai ennoiai (nozioni che in alcuni punti possono essere sovrapponibili all’idea che i cognitivisti hanno di “senso comune”). Per un quadro generale su queste teorie antiche cfr. Mauro 2004, 101 ss. (visionabile anche su www.dif.unige.it/sto/documentiScaricabili//sensoComune.doc). Più in particolare, per la teoria aristotelica degli endoxa cfr. Pritzl 1994, 21 ss. (ma cfr. anche Berti 1989, 24 s. e Gregoric 2007), per le riflessioni degli Stoici sulle koinai ennoiai, ma anche per il riuso ciceroniano, cfr. Brittain 2005, 199 ss. o anche gli studi ormai classici di Sandbach 1930, 44 ss. e Obbink 1992, 193 ss. 6. Il consenso sull’individuazione delle categorie in questione è unanime. Tuttavia sono individuabili tre distinte posizioni sull’origine di tali categorie: per Berlin 1973, 259 ss., Rosch e Mervis 1975, 573 ss. esse sono un riflesso delle strutture del mondo che “guidano” la mente umana nell’attività cognitiva. Per Hunn 1982, 830 ss. e Murphy e Medin 1985, 289 ss. invece tali categorie sono una proiezione della struttura della mente su un ambiente circostante altrimenti indistinto, laddove invece Atran 2006, 1 ss., López, Coley, Atran, Medin, Smith 1997, 251 ss. si dovrebbe pensare ad una sorta di interazione fra ambiente e “mente”.

Capitolo 1. Zoologie dello sguardo e del luogo, zoologie filosofiche…

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Secondo lo schema che Andrea Guasparri ha recentemente rielaborato a partire dalla griglia formulata per la prima volta da Brent Berlin (cfr. p. 30), i ranghi che è possibile individuare, in ogni classificazione vernacolare, sono i seguenti:7 RV: Regno vernacolare (folk kingdom o unique beginner) FV: forma di vita (life-form) SG: speciema generico (generic species o generic-specieme) ES: etno-specie (folk-specific) EV: etno-varietà (folk-varietal) Il RV indica il grado più alto della gerarchia tassonomica ed individua sempre uno e un solo taxon (ad es. animale, pianta). Il livello della FV (ad es. insetto, pesce, uccello, serpente, quadrupede, albero, erba, cespuglio) è quello all’interno del quale diversi SG sono raggruppati in classi mutualmente esclusive che vengono organizzate sulla base di marche lessicali contrastive. Il rango della FV, in questo senso, si individua a partire dalla condivisione ora di una singola dimensione (il possesso o meno di scaglie, le modalità della locomozione, la taglia, etc.) ora di più dimensioni simultaneamente riscontrabili in gruppi classificati, proprio per questo, come affini.8 Lo SG, che – secondo quanto mostra Atran (2006, 6 ss.) – è il punto focale a partire dal quale ogni cultura organizza la rete delle proprie conoscenze biologiche e delle proprie classificazioni, è la risultante di una immediata partizione del mondo dei viventi in morfotipi comportamentali identificabili,9 ovvero in modelli tridimensionali di comportamento che permettono di riconoscere differenti esemplari come individui dello stesso tipo (gatto, cane, giraffa). Solo per fare un esempio, riconosciamo subito un cane, e lo raggruppiamo assieme agli altri cani che abbiamo conosciuto, a partire dal fatto che condivide con essi una serie di tratti, morfologici ed etologici, e determinate capacità motorie. Il motivo per cui viene adottata la dizione di SG, anziché quelle distinte di “specie vernacolare” o “genere vernacolare”, consiste essenzialmente nel fatto che la distinzione fra genere e specie non risulta essere un universale antropologico, dal momento che non tutte le culture studiate la adottano.10 Quello che è stato notato, anzi, è che in moltissimi gruppi di interesse antropologico, le cui classificazioni

7. Guasparri 2007, 71 (cfr. Berlin, Breedlove e Raven 1973, 215). 8. Cfr. anche Atran 19962, 6. 9. Cfr. Atran 19962, 5 ss. (che comunque adotta la dizione di generic-specieme) e, per la nozione di morfotipo comportamentale, Eco 1997, 106 ss. 10. Cfr. Atran 2006, 6, il quale ricorda che «for humans, the most phenomenally salient species […] belong to monospecific genera in any given locale».

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Generare in comune

nascono a partire dall’osservazione immediata dell’habitat di riferimento dei singoli gruppi umani, la nozione di genere e specie risulta del tutto coestensiva.11 Essa semmai emerge unicamente in seno alla cultura europea a seguito dell’era delle scoperte geografiche, quando cioè cominciano a svilupparsi inventari di esseri viventi che si aggiungono a quelli locali.12 Se comunque RV, FV e SG sono per lo più indicate a partire da tassonimi primari – vale a dire da lessemi non composti come cane, gatto, volpe –, non così avviene per ES e EV, per le quali si usano di norma tassonimi secondari che si costruiscono, a partire da un tassonimo generico invariante, mediante l’aggiunta di un determinante linguistico variabile (cfr. ad es. quercia nera o rosa canina).13 Come è possibile vedere dallo schema (cfr. p. 30), la ES è il livello immediatamente inferiore rispetto allo SG, mentre a sua volta la EV si colloca ad un rango ancora più in basso rispetto alla ES (mastino napoletano nano, gatto siamese a pelo lungo).14 Lo schema di Guasparri ci fa comunque vedere che, in particolare nelle culture basate soltanto sulla conoscenza dell’habitat e della fauna locali, a partire dal secondo rango è possibile individuare alcuni taxa dei livelli inferiori che si trovano ad occupare la posizione immediatamente superiore. Si può infatti realizzare l’eventualità che all’interno di una cultura ci siano, ad esempio, speciemi generici che sono conosciuti come gli unici rappresentanti della loro FV, e che quindi si trovano ad occuparne il livello. Solo per fare un esempio, questo è il caso del serpente, che risulta essere l’unico rettile di cui sono a conoscenza i Dorze dell’Etiopia.15 Quello che accade per l’agglutinamento di posizioni nel caso di SG e FV può comunque accadere, come si vede bene, anche per tutti gli altri livelli immediatamente inferiori. Una dinamica di questo tipo ci fa comprendere pertanto che, nonostante i ranghi etnotassonomici siano categorie universali, ogni cultura li organizza in una maniera che è specifica della stessa.

11. Cfr. Atran 19962, 28. 12. Cfr. Atran 2006, 6. Per un report più dettagliato si veda comunque Atran 1987, 195 ss. 13. Sulla differenza fra tassonimi primari e tassonimi secondari cfr. Guasparri 2007, 72 (spec. n. 15 per i riferimenti bibliografici). 14. Oltre alle categorie rese visibili dallo schema di Berlin e Guasparri, esistono anche categorie intermedie (“coperte” o “latenti”) non solo fra il rango della FV e quello dello SG, ma anche fra gli altri ranghi. A tale proposito cfr. Berlin, Breedlove e Raven 1973, 216 e Cardona 1985, 104. 15. Cfr. Sperber 1975, 13, una cui versione aggiornata, con una prefazione aggiunta, si trova in lingua inglese su www.dansperber.com/hybrids.htm

Capitolo 1. Zoologie dello sguardo e del luogo, zoologie filosofiche…

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Livello 0

RV FV1

Livello 1

FV2

FVn

SG3 SG4 SG5 SG6… SGm SGn ES1

Livello 2 Livello 3

ES5

ES6

Livello 4

EV1 EV2

ES7

SG1 ES2

SG2 ES3

ES4

SGj ESi

ESj

ES8 ESm ESn EVm…

EVn

Schema ad albero di Berlin/Guasparri (Guasparri 2007).

Un altro dato su cui vale la pena riflettere, peraltro, è che i ranghi non sono da confondere con i taxa. Scott Atran, ad esempio, avverte che: «Biological ranks are second-order classes of groups (e.g. species, family, kingdom) whose elements are first-order groups (e.g. lion, feline, animal). Ranks seem to vary little, if at all, across, cultures as a function of theories or belief systems. In other worlds, ranks are universal but not the taxa they contain. Ranks represent fundamentally different levels of reality, not convenience».16

Laddove una divisione in ranghi è universalmente presente e riconoscibile in ogni gruppo umano, i nomi dei taxa variano dunque da cultura a cultura e, in alcuni casi, possono anche non essere esplicitamente indicati a partire da marche linguistiche dedicate. 1.2 Vicini all’esperienza, lontani dall’esperienza: alcune osservazioni sull’uso della griglia di Berlin/Guasparri La griglia di Berlin e Guasparri è senz’altro utile per fare emergere, all’interno dei contesti oggetto di studio, la maniera in cui la conoscenza biologica di senso comune può essere organizzata. È a partire da essa che – secondo il quadro descritto da Scott Atran – si sviluppano “suscettibilità di secondo livello” specifiche di ogni singola cultura, vale a dire teorie e forme di conoscenza sul mondo come ad esempio la “scienza”, il simbolismo animale, o anche il totemismo, tutti oggetti che Atran – sulla base del modello dell’epidemiologia delle rappresentazioni elaborato da Dan Sperber – descrive come “patogenesi cognitive” che sono frutto di metaconoscenze e metarappresentazioni.17 16. Cfr. Atran 2006, 4. 17. Cfr. Atran 19962, 212 ss. (ma cfr. anche Atran 2006, 4), secondo il quale scienza, religione, mito, simbolismo, totemismo, benché presentino esiti e “narrazioni” del mondo differenti, si sviluppano come metaconoscenze (e quindi

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Generare in comune

Partire dalle classificazioni del senso comune in questo senso permette di studiare comparativamente le differenze o le affinità fra le diverse maniere attraverso cui ogni singolo popolo organizza le proprie credenze sul mondo dei viventi. Un dato che mi sembra opportuno mettere in rilievo è però che, se le griglie etnobiologiche possono essere usate come strumento euristico per individuare in ogni cultura – escluse le categorie latenti – un minimo di sei ranghi entro i quali inquadrare tassonomicamente gli enti naturali, le lingue antiche sembrano essere strutturate – come ho mostrato altrove – per procedere in maniera duale, isolando solo due livelli per volta.18 Questo, ovviamente, non significa che i Romani (o i Greci) identificavano unicamente due ranghi. Semplicemente però al livello vicino all’esperienza dei “parlanti” non ci sono marche linguistiche dedicate per distinguere univocamente i singoli ranghi e costruire così schemi ad albero come quello del modello di Berlin/Guasparri. Solo per fare un esempio, nelle classificazioni imbastite da Plinio nella Naturalis Historia, il solo termine genus (associato al plurale genera o a species, che di fatto è usato semplicemente come una variante stilistica rispetto a genus stesso) basta e avanza per spostarsi lungo i rami dell’albero della classificazione popolare, isolando singole porzioni di quello che noi e soltanto noi – sulla base di strumenti “lontani dall’esperienza” – costruiamo come un quadro ad albero. Quello che voglio dire, in altri termini, è qualcosa che rischia di apparire banale, ma che forse non è inutile ricordare, e cioè che laddove l’antropologo sente l’esigenza di costruire un quadro complessivo e sinottico delle tassonomie delle culture che studia, l’insider ovviamente tali tassonomie, più che studiarle e ricostruirle, in genere le pratica e le parla e quindi le dà per scontate. Sono, appunto, dati di senso comune. Il rischio, nella ricostruzione di grafici ad albero, è pertanto quello di pervenire alla creazione di un oggetto astratto che non ha alcuna pertinenza rispetto agli interessi e alle finalità degli attori di una singola cultura. Come è stato da più parti riconosciuto, del resto, quello che sembra importante per i discorsi zoologici dell’antichità non è tanto fissare i dati su tabelle sintetiche, quanto semmai individuare – per mezzo di un processo di specificazione crescente – la “socome rappresentazioni di secondo grado) che poggiano sulle conoscenze di primo livello fornite dal senso comune. Per l’epidemiologia delle rappresentazioni cfr. Sperber 1999, 15 ss.; spec. 81 ss. (su cui rimando a Li Causi 2003, 33 ss.). 18. Cfr. a tale proposito, per l’ambito latino, P. Li Causi, I genera del genus (e le species). Appunti per una lettura etnobiologica della Naturalis historia di Plinio il Vecchio, in corso di pubblicazione in G. Picone e M. Bettini (a cura di), GENUS/GENOS, Palumbo, Palermo. Per l’ambito greco cfr. invece Zucker 2005, 106 ss.; spec. 303 s.

Capitolo 1. Zoologie dello sguardo e del luogo, zoologie filosofiche…

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stanza” degli oggetti (o meglio, degli SG).19 La divisione in tal senso, più che un mezzo per individuare rapporti mutualmente esclusivi in senso orizzontale ed inclusivi gerarchicamente in senso verticale (come avviene nelle tassonomie) è più che altro – quando viene usata – uno strumento logico finalizzato alla definizione di uno e un solo oggetto.20 La cosa che interessa ai discorsi zoologici dell’antichità, infatti, non è tanto costruire tabelle tassonomiche, quanto piuttosto descrivere le nature dei singoli animali (o, nel caso di Aristotele, le singole differenze degli animali) che si vanno inventariando secondo percorsi di individuazione di specificità singole e uniche. Un altro dato banale, che però è forse opportuno mettere in evidenza, è che se Atran parla di due diversi livelli cognitivi, che sono quello primario del senso comune e quello metaconoscitivo delle scienze o del simbolismo (che vengono considerati, come si è visto, sviluppi patogenetici del senso comune), nei trattati zoologici dell’antichità e, più in generale, nei discorsi sugli animali non è sempre possibile distinguere nettamente i due livelli, dal momento che abbiamo a che fare già con testi e saperi in azione, in cui le conoscenze di secondo livello sono già operative e in cui spesso la mera descrizione di ciò che il senso comune percepisce è influenzata da meccanismi ideologici, simbolici e metaforici.

2.

Corpi, luoghi, animali: l’animale come spazio visivo localizzato

Nelle pagine precedenti si è visto come in ogni cultura il punto focale a partire dal quale si costruiscono i saperi sugli animali sono gli speciemi generici. Ho anche accennato a come lo stesso uso delle divisioni e delle classificazioni – organizzato in modo duale – sia sempre funzionale all’individuazione di tratti specifici e singolari molto più che di sistema. Nei paragrafi che seguono, invece, cercherò di mostrare quali erano i criteri di identificazione delle nature degli speciemi generici e le modalità di discorso che abitualmente venivano attivate su di essi in quello che potremmo considerare il “sapere diffuso” sugli animali dell’antichità prima della grande svolta aristotelica. Un sapere diffuso che però, come vedremo, uniforma di sé gli stessi saperi “settoriali”.

19. Cfr. P. Li Causi, I genera del genus (e le species), cit. e Zucker 2005, 106 ss. 20. Anche nel caso della Historia animalium di Aristotele, Pellegrin 1982, 96 s. afferma che più che di classificazione si dovrebbe parlare di un percorso di specificazione crescente. Sul valore strumentale delle classificazioni nella zoologia greca si veda poi Zucker 2005, spec. 101 s.

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Generare in comune

2.1 Principi di senso comune: raccontare il corpo animale come spazio visivo etologicamente connotato 2.1.1 Sguardi macroscopici, “scienze” macroscopiche Bisogna ricordare che la “scienza” degli antichi è principalmente una scienza “storica”, basata quindi su strumenti come la opsis (la vista) e, in sostituzione di essa, la akoé (l’udito e quindi, di conseguenza, il sentito dire). Niente di più lontano, dunque, dalla scienza contemporanea, il cui orizzonte di esperienza – come scrive Cardona – «si basa su strumenti e metodi che trasferiscono su un piano diverso e irraggiungibile l’osservazione umana: analisi chimiche, microscopi, raggi», che «spostano il fronte su cui combatte l’osservatore troppo al di là delle possibilità dell’uomo non scienziato».21 La base per gli sviluppi dei saperi scientifici e delle credenze o dei saperi simbolici – così bene investigati da studi come quelli di Maurizio Bettini o Cristiana Franco22 – poggia, come si è già detto, sulle percezioni immediate del senso comune. Ciò implica che le modalità dello sguardo sull’animale che vengono attivate dagli osservatori antichi (siano essi gli storici e i viaggiatori o filosofi che – come Aristotele – ispezionano con finalità sistematiche il mondo dei viventi) sono potentemente macroscopiche. Nella conoscenza della natura, qualunque sia il suo grado, il primo sguardo sul mondo è quello dell’occhio, un organo al di là del quale non si può andare (se non con l’udito o la semplice congettura). 2.1.2 Una physis tutta da guardare (e di cui “sentire parlare”) Parlare della physis di un animale, prima ancora che investigare le archai – come vedremo che avviene per i Presocratici –, significa principalmente parlare di un campo visivo. La physis – dice Galeno nel II sec. d.C. – è, fra le altre cose, anche «la forma del corpo» (t¬n to„ sÎmatoj Ädûan).23 E dunque identificare uno zoion (uomo compreso), in una società in cui non si conosce il DNA, significa avere a che fare principalmente con la sua apparenza fisica, con il suo aspetto esteriore.24 21. Cfr. Cardona 1985, 35. 22. Cfr. Bettini 1998 e Franco 2003. 23. Cfr. In Hippocratis Aphorismos Commentarii 17 B 532, 6-8 K. Sul concetto di natura in Galeno cfr. Kovacic 2001, 320, Moraux 1981, 87 ss. e Jouanna 2003, 229 ss. Per una bibliografia generale sui concetti di physis e natura cfr. comunque Hadot 2006, 15 n. 1. 24. A proposito delle marche di identificazione degli individui cfr. Vernant 1982, 119 ss. e Frontisi 1993, 3 ss. per il mondo greco e, per il mondo romano, Bettini 2000, 314 ss.

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Gli esseri animati sono dunque principalmente degli spazi, dei corpi che appaiono, le cui parti vengono subito mappate in quello che potremmo chiamare un modello 3-D.25 Illuminante, in tal senso, è il paragone fra anatomia e geografia istituito da Strabone in 2, 1, 30: «Questo è infatti ciò che si può rimproverare ad Eratostene: così come una dissezione katà melos si differenzia da una dissezione katà meros (per il fatto che una prende in considerazione parti del corpo che hanno un contorno naturale, in base ad un tratto o ad una articolazione significativa (¶rîrÎsei tinã kaã t›pJ shmeiÎdei) – tant’è che proprio per questo si dice: “avendolo tagliato membro a membro” – mentre nell’altro tipo di dissezione non avviene niente di tutto questo; e così noi ci avvaliamo ora di una maniera di sezionare ora di un’altra, a seconda delle circostanze e dei bisogni), alla stessa maniera in geografia se bisogna dividere in parti tenendo conto dei dettagli, allora si devono tenere presenti, come modello, le dissezioni che vengono fatte katà melos piuttosto che quelle che vengono fatte a caso. Questo tipo di dissezione infatti permette di tenere conto dei contorni significativi e dei limiti chiari che sono necessari al geografo. Una zona è ben definibile, quando è possibile delimitarla per mezzo di fiumi, di montagne, per mezzo del mare o ancora per via del popolo che vi abita o dei vari popoli che sono in essa presenti, o per la sua grandezza o per la forma, là dove sia possibile. In ogni caso comunque al posto di una definizione geometrica, può bastare una definizione semplice e globale. Per quanto riguarda le dimensioni, basta dare la più grande larghezza e la più grande lunghezza (per il mondo abitato, ad esempio, si tratta di 70.000 stadi per la lunghezza e di larghezza un po’ meno della metà della lunghezza). Per quanto riguarda la forma invece, basta rappresentare il paese per mezzo di una figura geometrica (ad esempio la Sicilia si può rappresentare con un triangolo) o per mezzo di qualche altra forma conosciuta (ad esempio l’Iberia per mezzo di una pelle di animale, il Peloponneso per mezzo di una foglia di platano). Più grande sarà il territorio sezionato in questa maniera, più bisognerà considerare globalmente le diverse sezioni». (Str. 2, 1, 30)

In polemica con Eratostene, Strabone «auspica una “anatomia” geografica che salvaguardi l’integrità delle “membra” del corpo terrestre suddividendole sulla base di chiare delimitazioni: fiumi, montagne, mare, razza, serie di razze, dimensioni, forme»,26 e nel delinea25. Per il modello 3-D, inteso come l’insieme delle istruzioni e dei tratti che rendono possibile la costruzione di un tipo cognitivo di un essere vivente (ma anche di un oggetto) cfr. Eco 1997, 106 ss. e Atran 19962, 29 ss. Nel corso di questa trattazione chiamerò “morfotipo comportamentale” l’unione del modello 3D con la descrizione dei tratti etologici dei vari animali in questione. 26. Cfr. Jacob 1996, 926 ss. (ma cfr. anche Jacob 1993, 393 ss.).

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re questo progetto di una nuova geografia, esente dagli eccessi geometrici di quella eratostenica, ha fatto ricorso ad una distinzione già presente nell’introduzione alla Historia animalium di Aristotele (486 a 5-487 a 1), ovvero quella tra mere, vale a dire le parti geometriche del corpo, e mele, cioè le parti “reali” del corpo, quelle definite in base ai contorni naturali delimitati da quelle che Strabone chiama “articolazioni significative”. L’animale viene dunque identificato principalmente da quella che potremmo chiamare una visione gestaltica, fondata cioè sulla percezione visiva immediata delle forme degli esseri in questione.27 Tracce di questa visione gestaltica comune allo sguardo antico le troviamo anche in Democrito, che, all’inizio della Piccola cosmologia, dice che ©nîrwp’j ùstin Ÿ pßntej ädmen, vale a dire che «l’uomo» – ma, a questo punto ogni essere animato – «è ciò che tutti conosciamo (perché abbiamo visto)», esprimendo così quella che potremmo chiamare una sorta di visione di senso comune, tipica di tutte le classificazioni folk.28 Questo sguardo nudo che mira al campo visivo del vivente è peraltro presente nell’incipit stesso della Historia animalium di Aristotele, laddove si precisa che «le differenze degli animali possono essere secondo il modo di vita, le attività, il carattere, le parti» (487 a 10 s.). Quelle che – come si vedrà meglio più avanti – Aristotele indica come determinazioni portanti del suo discorso (la visualità, i tratti cinestetici, sociali ed etologici, le “attività”, il biotopo, il modo di vita, il carattere) sono tutti i tratti che caratterizzano quelli che gli antropologi chiamano i morfotipi comportamentali, ovvero i tipi cognitivi visualmente orientati, cinematizzati ed eticamente connotati che costituiscono la base principale della conoscenza degli ambienti e delle faune locali in tutte le culture popolari. Prima ancora che Aristotele formalizzasse e riorganizzasse in senso “scientifico” l’uso di queste determinazioni, del resto, esse erano comunemente usate, ad esempio, nelle descrizioni di animali esotici ed ignoti operate da geografi e storiografi. Si legga ad esempio il seguente passo di Erodoto sul coccodrillo:29 «Questa è la natura dei coccodrilli. Nei quattro mesi più freddi dell’inverno il coccodrillo non mangia nulla; è un animale a quattro 27. Per la Gestalt come principio di classificazione folk cfr. Atran 19962, 17 ss. 28. Cfr. Democr. B 165 DK: S. E. M. 7, 267: Epicur. fr. 310. Per la vista come organo della percezione del senso comune cfr. Atran 19962, 1 ss. 29. Per la rappresentazione antica delle eschatiai tes oikoumenes (i margini estremi del mondo) cfr. Romm 1992, 1 ss. Per le conoscenze sugli animali esotici in Grecia cfr. invece Bodson 1998, 143 ss.

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zampe che vive nella terraferma e insieme nelle paludi; depone le uova e le fa schiudere nella terraferma e passa la maggior parte della giornata all’asciutto; la notte invece la passa nel fiume: la temperatura dell’acqua, infatti, è più alta rispetto a quella dell’aria aperta e della rugiada. [2] Di tutti gli esseri che conosciamo, è quello che da più piccolo che è diventa più grande; le uova che depone non sono molto più grandi di quelle delle oche e il piccolo nasce in proporzione all’uovo; crescendo, tuttavia, può arrivare a misurare fino a diciassette cubiti e anche di più. [3] Ha occhi di maiale, denti grandi e sporgenti, in proporzione rispetto al corpo. È il solo di tutti gli animali a non avere la lingua e in più non riesce a muovere la mascella inferiore. In compenso è l’unico animale ad essere capace di fare combaciare la mascella superiore con quella inferiore. [4] Ha artigli potentissimi e la sua pelle è squamosa e praticamente invulnerabile sul dorso. In acqua è cieco, ma all’aria aperta è dotato di una vista acutissima. Dato che passa la sua vita in acqua, quando esce ne riporta la bocca tutta piena di sanguisughe. Gli altri uccelli lo evitano, ma il trochilo vive in pace con lui, dal momento che gli è di grande aiuto. [5] Quando infatti il coccodrillo passa dall’acqua alla terraferma e se ne sta a bocca spalancata (è solito farlo rivolgendosi verso lo zefiro), allora il trochilo gli entra nella bocca e inghiotte tutto d’un fiato le sue sanguisughe. Al coccodrillo piace essere aiutato e per questo non fa alcun male al trochilo». (Hdt. 2, 68)

In questa descrizione pare proprio che lo storiografo greco, seppure con un certo gusto per il thauma (il mirabile), segua alla lettera le marche di differenza aristoteliche.30 Del coccodrillo, infatti, viene descritta una “mappa completa” in tre dimensioni, che appunto fissa i tratti del morfotipo comportamentale, e dunque anche l’habitat e i modi di riproduzione. La physis del coccodrillo, la sua natura, viene così definita da tutto ciò che di questo animale è percepibile mediante opsis ed akoé. L’unica differenza con il discorso aristotelico sta nel fatto che, mentre in Erodoto i tratti morfotipici sono tutti co-occorrenti e divengono i capitoli di una voce che ha come tema focale lo speciema generico dell’animale, in Aristotele il punto centrale del discorso diventeranno – come si vedrà più avanti – le determinazioni stesse che finiscono per essere unità organizzative di un progetto multidimensionale che procede per raggruppamenti secondo assi di divisione. Se in altri termini nel discorso storiografico tradizionale le marche morfotipiche, etologiche, comportamentali ed ecologiche sono

30. Innumerevoli descrizioni simili a quella di Erodoto ricorrono anche nella sezione zoologica della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Cfr. ad es. la descrizione dei cammelli di nat. 8, 67 s (su cui si veda l’analisi di Bodson 1997, 331 ss.).

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usate per definire lo speciema generico, fornendone la mappa, in Aristotele sarà come se i singoli eide (e dunque i singoli speciemi generici) definissero le singole determinazioni di differenze, che diventano il tema centrale del discorso. La logica sarà pertanto completamente capovolta: laddove nel discorso comune bios, praxeis, moria e ethe sono usati come oggetti per mappare l’animale nella sua singolarità, nello Stagirita, al contrario, saranno i singoli speciemi generici che verranno usati come dati per mappare un discorso associativo e dissociativo sulle singole determinazioni. La base cognitiva di partenza è comunque comune ad entrambi i tipi di discorso e consiste nella visione gestaltica del vivente. Non è un caso in questo senso che fra i lessemi di secondo ordine per parlare di insiemi omogenei di animali ci siano ad esempio eidos in greco (la cui radice è *#id-: “vedere”) e forma in latino, spesso usato come sinonimo di species, termine anche questo che rimanda alla dimensione dell’aspetto.31 2.2 Luoghi e animali La natura gestaltica (e per certi versi uditivo-narrativa) del sapere animale costituisce – come si è visto sopra – una sorta di campo omeostatico che risulta essere omogeneo sia dal punto di vista della zoologia aristotelica, sia dal punto di vista del sapere diffuso riscontrabile, ad esempio, nelle descrizioni degli storiografi. L’unica cosa che cambia semmai è il modo di organizzare il discorso a partire dai dati del senso comune. Per comprendere un animale, tuttavia non basta vederne le parti. Ogni essere animato è pur sempre una forma, ma una forma che si muove (e che quindi possiede tratti cinestetici specifici) e agisce (in base a determinati pattern etologici) in un topos reale. È questa, solo per fare un esempio, l’unica differenza che Aristotele segnala fra ogni essere vivente e i mostri fantastici, come l’ircocervo, la sfinge e il centauro:32 «Similmente è necessario che chi studia la natura acquisisca informazioni anche in relazione al luogo, per capire […] se esso esiste oppure no, e per capire in che modo esista e cosa sia. Tutti, infatti, ammettono che le cose che sono si trovano in qualche luogo (e che il 31. Oltre che Th. l. L. ss. vv., cfr. per la coppia genus/species P. Li Causi, I genera del genus (e le species), cit. Per la coppia eidos/genos cfr. invece Zucker 2005, 211 ss. con relativa bibliografia. Sui termini indicanti “forma” nel lessico della biologia aristotelica cfr. infine Bodson 2003, 363 ss. 32. Per l’ircocervo (la sfinge e il centauro) in Aristotele cfr. anche APr. 49 a 24; APo. 89 b 32; 92 b 7. Su questi passi cfr. Sillitti 1980, 9 ss. e Ebbesen 1997, 534 ss.

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non-essere non è da nessuna parte: dove si trova infatti l’ircocervo oppure la sfinge?) (tÿ g™r m¬ ⁄n o‹damo„ eênai: po„ gßr ùsti tragûlafoj ƒ sfàgx;)». (Arist. Ph. 208 a 27-31)

La physis di un essere animato, dunque, è percepita immediatamente come un oggetto localizzato. Parlare di un vivente significa, oltre che descriverne le parti, collocarlo, inserirlo in un locus all’interno del quale esso è proiettato in un sistema di relazioni che possono essere interspecifiche, zooantropologiche o ecologiche. In altri termini, la descrizione di un animale coincide con la descrizione di contesti che, prima ancora di essere pensati – come avverrà con i Presocratici – in termini di interrelazione dinamica fra essere e habitat, sono a tutti gli effetti i luoghi che lo riguardano e che costituiscono la scena sulla quale agisce, come un personaggio, il suo eidos con la sua morphé (forma). Erodoto, del resto, nel descrivere la physis del coccodrillo, non ritiene esaurito il suo compito non appena ha terminato di raccontare ai Greci (che presumibilmente non erano ancora abituati a frequentarlo autotticamente) come è fatto questo essere. Lo storico sente infatti l’esigenza di dilungarsi a tratteggiare quello che altrove ho chiamato il contesto sintagmatico dell’animale, parlandoci dei rapporti che intrattiene con altre bestie a lui ecologicamente vicine: il trochilo e, più avanti, gli uomini egiziani.33 L’essere animato, dunque, esiste perché è visibile e perché ha luogo. E questo luogo è in comune rispetto ad altri speciemi generici con i quali vengono intrattenute relazioni di diverso tipo. Lungi dall’essere semplicemente uno sfondo, però, il luogo, secondo un paradigma etnografico ampiamente diffuso nel mondo antico, può anche influenzare la natura di ogni vivente.34 Come infatti esistono animali che si trovano solo in alcune regioni, allo stesso modo alcuni speciemi generici si trovano un po’ dappertutto, ma presen33. Per “contesto paradigmatico” intendo l’insieme dei descrittori analogici e dei rapporti di similitudine che legano un animale oggetto di discorso con altri animali che servono strumentalmente ad ostenderlo; con l’espressione “contesto sintagmatico” invece mi riferisco alla rete di animali contigui che sono raggruppati o affiancati paratatticamente all’animale in questione nell’ordine della scrittura e del testo. Per esempi in proposito cfr. comunque Li Causi 2003, 177 s. 34. Mi riferisco al modello del determinismo climatico ambientale (per cui cfr. ad es. Borca 2003, 11 ss.; ma anche Sassi 1988, spec. 111 ss.; Oniga 1995, 23 ss. e Oniga 1998, 93 ss.; Li Causi 2006, 44 ss.), secondo il quale la natura funziona in maniera “regolare” nelle caselle climatiche che riguardano il centro del mondo (la Grecia per i Greci, l’Italia per i Romani), ma viene gradatamente a sgranarsi mano a mano che ci si allontana verso caselle climatiche estreme. Tale modello, di origine ippocratica, diventa poi luogo comune in tutto il mondo antico (cfr. ad es. Borca 2003, 69 ss.).

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tano volta per volta varietà diverse di forma e di aspetto. E tali varietà di forma e di aspetto vengono in qualche modo determinate proprio da fattori climatico-ambientali. Cosa, questa, di cui, come dimostra il passo di Pausania che sto per citare, i Greci – ma anche i Romani – erano perfettamente consapevoli: «D’altro canto io penso che se uno volesse attraversare le zone più lontane della Libia, dell’India o dell’Arabia, alla ricerca degli stessi animali che è possibile trovare in Grecia, alcuni non li troverebbe affatto, altri invece avrebbero un aspetto del tutto differente, dal momento che l’uomo non è l’unico essere che muta il suo aspetto con il mutare del clima e della zona. Gli altri esseri viventi, infatti, si comportano allo stesso modo. Ad esempio, l’aspide libico, se paragonato a quello egiziano, ha un colore diverso, mentre in Etiopia ci sono aspidi di colore nero, esattamente come accade per gli uomini». (Paus. 9, 21, 5-6)

Il sapere antico dà quindi per scontato che le physeis e le naturae siano diverse zona per zona, proprio perché la Physis e la Natura operano in maniera diversa in diversi settori del mondo abitato e non abitato. La natura, in altri termini, viene vista come una sorta di categoria sistemica, soggetta a diverse variabili, fisiche, biologiche, climatiche e ambientali;35 idea, questa, che – come si vedrà più avanti – porta tendenzialmente ad allargare le maglie della disponibilità a credere a fatti e dati incontrollati che giungono proprio dalle zone meno conosciute del mondo e dove si sa per certo che le leggi di natura risultano essere sgranate: «Per quanto riguarda gli animali rari non bisognerebbe dare giudizi affrettati né d’altro canto bisognerebbe subito rigettare le notizie che ci giungono come false. Io, ad esempio, pur non avendone mai visto uno, credo che i serpenti alati esistano. Credo inoltre che sia vera quella notizia che riferisce di un uomo frigio che portò in Ionia alcuni scorpioni che avevano ali in tutto simili a quelle delle locuste». (Paus. 9, 21, 6)

Il medesimo orientamento di buon senso epistemologico (o meglio: di “flessibilità” epistemologica), legato probabilmente ad una comune credenza relativa alla topicità delle forme di vita, si trova ad esempio in Cicerone, che nel De natura deorum scrive: Omnia tollamus ergo quae aut historia nobis aut ratio nova adfert. Ita fit ut mediterranei mare esse non credant. Quae sunt tantae animi angustiae ut, si Seriphi natus esses nec umquam egressus ex insula, in qua lepusculos vulpeculasque saepe vidisses, non crederes leo35. Cfr. n. 34 di questo cap.

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nes et pantheras esse, cum tibi quales essent dicerentur, si vero de elephanto quis diceret, etiam rideri te putares. (Cic. nat. deor. 1, 88)

«Eliminiamo dunque tutte le conoscenze che o la ricerca storica o le nuove riflessioni filosofiche hanno apportato. Quello che ne viene fuori è che tutte le persone che vivono nelle terre non bagnate dal mare non dovrebbero credere all’esistenza del mare. Un simile atteggiamento di ristrettezza mentale è tale che, se tu fossi nato a Serifo e non avessi mai messo un piede fuori da quest’isola, nella quale hai spesso visto leprotti e volpicelle, non crederesti di certo all’esistenza dei leoni e delle pantere, qualora qualcuno ti venisse a descrivere le loro caratteristiche fisiche, e se poi qualcuno dovesse parlarti dell’elefante, di certo crederesti che si stia prendendo gioco di te».

Se dunque è possibile che in luoghi che non conosciamo esistano forme di vita difficili da immaginare, può diventare facile pensare l’impensabile e credere l’incredibile:36 Nam Fauni vocem equidem numquam audivi: tibi, si audivisse te dicis, credam, etsi Faunus omnino quid sit nescio. (Cic. nat. deor. 3, 15)

«io non ho mai udito la voce di un fauno, ma se tu dici di averla sentita, ti credo, anche se non so assolutamente cosa sia un fauno».

Prima ancora che oggetti del discorso settoriale del sapere biologico, gli esseri viventi sono dunque forme da vedere e oggetti di cui sentire parlare, tramite la akoé. Ecco dunque che se degli animali familiari si può dire semplicemente – come fa Democrito – che sono “ciò che vediamo” e “conosciamo” immediatamente a partire dai nostri sensi, gli animali lontani e invisibili diventano oggetto di racconti che si strutturano come un campo dove necessariamente deve entrare in gioco il potere sociale dell’autorità.37 Gli animali lontani sono per lo più quelli di cui si parla e quelli di cui si vuole sentire parlare, proprio perché sottratti al senso nudo del nostro sguardo. Sono le notizie che colmano i racconti di viaggio e che insieme li rendono memorabili. Ecco che dunque gli animali, proprio perché deterministicamente legati ai topoi in cui vivono e agiscono, diventano, soprattutto nei casi di zone esotiche e lontane, metonimici rispetto ad esse. Hic sunt leones dicevano del resto i Romani per indicare l’Africa, percepita come luogo lontano della ferinità opposta alla civiltà. Questa relazione per certi versi biunivoca fra l’essere vivente e il luogo è quella che fa sì che proprio gli animali presenti in un solo luo36. A tale proposito cfr. Li Causi 2003, spec. 218 ss. 37. Su queste dinamiche cfr. Romano 1998, 137 ss. e Li Causi 2003, 218 ss.

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go diventino in qualche modo l’ipostatizzazione vivente dei suoi confini, e li marchino come oggetti mnemotecnici. È questo, ad esempio, uno dei motivi per cui Filostrato, quando si tratta di raccontare il viaggio in India di Apollonio di Tiana, parte proprio dalle interviste che il taumaturgo avrebbe fatto ai bramani sugli animali tipici del luogo: «Apollonio quindi fece questa domanda: “c’è qui un animale chiamato “martichoras”?”. Iarca, di rimando, chiese: “E quale sarebbe la physis di questo animale? Cosa hai sentito dire in proposito? È verosimile infatti che si dica qualcosa a proposito del suo aspetto”. “Cose enormi ed incredibili” rispose Apollonio “si dicono del martichoras: ad esempio si dice che sia un animale a quattro zampe, ma che abbia il viso di un uomo, che sia della stessa taglia del leone, ma che abbia sulla coda peli lunghi un cubito e muniti di aculei, che lancia come se fossero frecce contro quanti gli danno la caccia”». (Philostr. VA 3, 45)

Iarca, il capo dei Bramani, risponde di non avere mai sentito parlare del “martichoras”, operando così una vera e propria revisione di un microsapere locale, e – sia detto per inciso – permettendo ad Apollonio, secondo la sottile strategia autoritativa messa in atto da Filostrato, di sostituirsi come fonte degna di fede agli indografi che lo hanno preceduto.38 Tuttavia, dopo avere negato l’esistenza del mostro di cui aveva parlato per la prima volta Ctesia, il sacerdote indiano conferma l’esistenza dei grifoni che estraggono l’oro; dato, questo, che la tradizione storiografica greca a partire da Ctesia ed Erodoto ha sempre associato alla geografia indiana:39 «Relativamente all’oro che estraggono i grifoni, non si tratta che di pietre punteggiate da chiazze dorate, a guisa di scintille, che l’animale fende con la forza del suo becco ricurvo. Questi animali si trovano davvero presso gli Indi e si ritiene che siano sacri al Sole; quando gli Indiani vogliono rappresentare il sole, infatti, aggiungono alle immagini di questa divinità una quadriga di queste bestie, che per dimensioni e forza vengono paragonate ai leoni. I grifoni, del resto, confidando nella superiorità garantita loro dalle ali, sono soliti attaccare questi animali, e inoltre sono capaci di essere superiori agli elefanti e ai serpenti giganti. Non sono capaci di volare per lunghi tratti, ma coprono distanze pari a quelle degli uccelli che fanno brevi voli. Non sono coperti di penne, come è tipico degli uccelli, ma le loro ali sono formate da un tessuto di membrane del colore del fuo38. A tale propostito cfr. Li Causi 2003, 291 ss. 39. Per i grifoni, oltre che Ctesia FGrHist 688 F 45, 26 ed Hdt. 3, 116, cfr. ad es. Aesch. Pr. 804 ss.; Luc. VH 1, 11; Ael. NA 4, 27, Philostr. VA 6, 1; Plin. nat. 7, 10; Sol. 15, 22. Sul grifone come “conoscenza” e come “dato storico” nel mondo greco cfr. Mayor 2000, 15 ss.

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co e di conseguenza, muovendole con un movimento circolare, riescono a volare e a combattere piombando dall’alto. Solo la tigre, dal momento che la sua velocità è pari a quella vento, riesce a resistere a questa belva». (Philostr. VA 3, 48)

I grifoni, dunque, assieme ad altre presenze fantastiche e strane, rappresentano l’India; e, di converso, il clima indiano in qualche modo li spiega, dal momento che è noto a tutti i Greci che la natura in quella zona opera secondo norme diverse rispetto a quelle in vigore nelle caselle climatiche che interessano il centro del mondo.40 In questo modo l’animale si trasforma in una sorta di pinax, in un indicatore mnemotecnico che facilita la memorizzazione di un certo luogo e ne veicola in maniera emblematica caratteri fisici e antropologici.41 Penso – solo per citare un caso esemplare – all’andamento della digressione erodotea sull’oro degli Indiani (Hdt. 3, 98 ss.). In questo lungo passo, come è stato recentemente notato, lo storico di Turi scioglie e riannoda continuamente fili narrativi e descrizioni, diluendo il tutto con lunghe interruzioni, iperbati, reticenze, e appendendo nel frattempo al filo della narrazione principale, che vede come protagonisti i cacciatori d’oro indiani e le formiche giganti, una serie di medaglioni che illustrano dati e nozioni specifiche (e più o meno mirabolanti) sull’India.42 La formica indiana, dunque (così come fanno i grifoni o il manticora e in genere tutti gli animali “strani” che si trovano in zone marginali del mondo), illustra, e nello stesso tempo singolarizza e localizza uno spazio – il deserto indiano – che senza la sua presenza sarebbe uniforme e indistinto, e dunque indescrivibile.

40. Per il determinismo climatico cfr. n. 34. Sul clima indiano cfr. Hdt. 3, 104, 2-3; D. S. 2, 35, 3 ss.; Str. 15, 1, 20; Curt. 8, 9, 12-13; 9, 1, 11; Sen. nat. 5, 18, 2; Lucan. 4, 62-67; Plin. nat. 7, 21 ss.; 9, 4-5; Sol. 52, 1 ss. Per la spiegazione delle “anomalie” biologiche dell’Etiopia in Plinio cfr. 6, 187 ss. (cfr. Ballabriga 1986, 156 ss.). Più in generale, per le rappresentazioni dell’Etiopia cfr. anche Str. 17, 1, 3 (generi di vita); 15, 1, 24 (il clima); 2, 5, 33 (l’Etiopia come landa deserta); 15, 1, 25 (l’Etiopia come l’India); D. S. 3, 2, 1 (sul clima); 3, 3, 1 ss. (sui generi di vita); 3, 35, 1 ss. (sugli animali memorabili); Plin. nat. 32, 143 (sulla scarsa conoscenza della fauna etiopica); 8, 32; 8, 35; 8, 69; 8, 72 ss.; 8, 107; 8, 131; 8, 199; 8, 216 (animali memorabili dell’Etiopia); 10, 1; 10, 3; 10, 74 (uccelli); 12, 17; 12, 101; 13, 43 (piante); Mela 3, 85 ss; Sol. 30, 14. 41. Una contiguità fra il “discorso geografico” e la mnemotecnica antica è stata notata già da Jacob 1996, 926 s. Più in generale per l’arte della memoria nel mondo antico cfr. Penny Small, 1997, spec. cap. 7. 42. Cfr. Li Causi e Pomelli 2001-02, 177-246.

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3.

Una scienza senza tassonomia: cenni di storia (parziale) della “zoologia” antica43

Nelle pagine precedenti ho cercato di individuare alcuni elementi di omeostasi che si ritrovano, come minimo comune denominatore, sia nelle “zoologie diffuse” dell’antichità che in quelle settoriali. Nella prospettiva di Cardona, tuttavia, non basta individuare tali elementi in comune per potere arrivare a comprendere l’etnoscienza di una cultura diversa dalla nostra. Verosimilmente, anzi, quegli elementi sono spesso – come hanno mostrato gli studi dei cognitivisti – in comune con quelli di tutte le altre culture del mondo. Che del resto l’identificazione degli speciemi generici sia prima di tutto gestaltica, ecologica, etologica e cinestetica è un dato che Atran mostra come universalmente ricorrente in ogni popolazione umana.44 Per potere cominciare ad individuare le specificità e le differenze, l’obiettivo cui suggerisce di mirare Cardona è quello di procedere tentando – per quanto possibile – di sommare aritmeticamente tutti i saperi, le credenze e le teorie che all’interno di una singola cultura sono stati espressi, senza tentare di annullare o di marginalizzare gli elementi che possono sembrare disarmonici e incongrui fra di loro.45 È per questo motivo che, dopo avere messo in evidenza le regole di identificazione degli speciemi generici ritengo che sia adesso opportuno proporre almeno un quadro sintetico della storia delle teorie riflesse sugli animali degli antichi. Si tratterà, in questo caso, non di vedere come gli animali vengano immediatamente percepiti (e cosa permettano di percepire), bensì quali siano le ipotesi e le metariflessioni che si costruiscono su di essi, quali i campi di indagine, quali le eziologie, quali i temi e i percorsi di ricerca. 3.1 Il vivente indistinto: gli animali nel discorso dei Presocratici Prima che l’animale venga costruito come oggetto autonomo di investigazione, bisogna aspettare Aristotele. Alcune riflessioni sugli zoia comunque – senza volere considerare le testimonianze dell’epica e

43. Per quanto riguarda il quadro della storia della zoologia greca, ad eccezione di una sezione in cui riprendo una porzione di un mio articolo in corso di pubblicazione sulla rivista Athenaeum, mi baso esplicitamente, per i parr. che seguono, su Zucker 2005, 45 ss. 44. Cfr. Atran 19962, 5 ss. 45. Cfr. Cardona 1985, 36.

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della favolistica – sono già presenti nella trattazione dei Presocratici (in particolare in Empedocle e Anassagora).46 Tali riflessioni sono però soltanto il frutto di un discorso che si rivela periferico e marginale rispetto al quadro di ricerca di questi primi filosofi, che consiste nell’investigazione delle archai, vale a dire dei principi fondamentali della natura tutta. La preoccupazione principale dei Presocratici è quella di comprendere la base di tutte le cose che sono presenti nel mondo e ridurre ad essa tutti gli enti, compresi – appunto – gli zoia. La ricerca che viene fatta verte principalmente su come gli esseri vengano generati. Il tipo di generazione che interessa è comunque molto più quella, per così dire, filogenetica che quella embriologica, e dunque la zoogonia molto più che i meccanismi della riproduzione (che sono comunque tenuti in conto e ispezionati).47 Le barriere e i confini fra i viventi, tuttavia, non risultano ancora ben delineati. Il termine zoion, infatti, non solo compare piuttosto tardi (nel VII secolo a.C.), ma la sua estensione risulta essere – almeno fino al V sec. a.C. – del tutto indefinita, fino al punto da comprendere anche gli uomini e le piante. Gli zoia di cui si parla sono pertanto “esseri animati” molto più che “animali”,48 in quello che potremmo considerare un quadro di contiguità assoluta e universale, in cui non solo le piante hanno sensibilità, ma gli animali sembrano anche forniti di una qualche forma di intelligenza.49 Ma c’è di più. Come ha infatti rilevato Arnaud Zucker, non solo gli animali sono vagamente distinti dagli altri esseri viventi, ma «la diversità delle specie fra loro è trattata solo come un aspetto del polimorfismo della materia e messa né più né meno sullo stesso piano delle differenze sessuali fra maschio e femmina».50 La generazione delle forme viventi per di più non solo è il frutto della complementarità fra i sessi e dei loro cicli riproduttivi, ma è anche soggetta a continue metamorfosi. Un’idea, questa, sulla base della quale si afferma un quadro di radicale instabilità del mondo (e sul-

46. Per la zoologia in Anassagora ed Empedocle cfr. rispettivamente Zucker 2005, 52 ss. e 54 ss. 47. È il caso della zoogonia di Empedocle (cfr. Fr. 7 Gallavotti: B 59 e 61 DK), per cui cfr. Zucker 2005, 46. 48. Cfr. Wolff 1997, 157 ss. 49. Cfr. Zucker 2005, 48. Il primo ad usare il termine alogon per l’animale sarà Democrito, nel V sec. a. C. (cfr. ad es. B 164 DK, o anche A 116 DK). 50. L’espressione fra virgolette è tratta da Zucker 2005, 49. La traduzione di tutti i passi citati da questo saggio è mia.

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la quale poggiano, ad esempio, le teorie pitagoriche sulla metempsicosi o quelle empedoclee sulla metensomatosi).51 Le specie non sono dunque oggetti fissi e isolati per mezzo di rigide barriere riproduttive, bensì «stati provvisori della materia».52 Il che determina, come conseguenza, che in un quadro del genere non ha senso parlare di classificazione o, ad esempio, di rapporti di iperonimia e iponomia fra le classi, come avviene esplicitamente nella zoologia linneana.53 L’apporto dei Presocratici, semmai, consiste – come mostra Arnaud Zucker – nell’invenzione di un vocabolario teorico «basato sulla costituzione di coppie di contrari che permettono una analisi razionale e sistematica dei corpi a partire da distinzioni fisiche fondamentali, basate sulle diverse qualità: freddo, caldo, umido, secco».54 Si delinea così una visione “ecologica” del vivente, in cui l’animale viene concepito come il prodotto di una krasis (vale a dire una fusione di principi fisici elementari) posto in una relazione dialettica e complessa con il cosmo e con il proprio habitat.55 La terminologia fisica vertente sugli elementi, tuttavia, non è l’unico apporto della riflessione di filosofi come Empedocle o Anassagora. Zucker infatti mette in risalto come, soprattutto con il primo, si sviluppi un principio di moriologia. Il filosofo siciliano, infatti, elabora una teoria embriologica in base alla quale gli esseri si formano per agglomerazione di parti anatomiche. Ognuna di queste parti, peraltro, non solo ha funzioni differenti rispetto alle altre, ma – analogamente a come avverrà con Aristotele – è di fatto una base per investigare le differenze con gli animali di altre specie. L’unica differenza con lo Stagirita sarà che mentre per questi l’equivalenza analogica delle parti in specie diverse sarà indice di un’identità funzionale, in Empedocle, tale omologia è vista come una vera e propria identità costitutiva dal punto di vista fisico, legata quindi ad un medesimo principio che accomunerebbe mammiferi, pesci, uccelli, piante.56 51. Un esempio tipico dell’idea di instabilità della natura si trova ad es. in Diog. Apoll. B 5 DK. Ma cfr. anche la famosa teoria evoluzionistica di Anassagora, per cui l’uomo discenderebbe da primigenie creature aquatiche (A 42 DK). Per queste teorie cfr. Zucker 2005, 50 (ma anche 50 n. 17). 52. Traduco fra virgolette un’espressione di Zucker 2005, 50. 53. Cfr. Zucker 2005, 55-59. L’unica classificazione che ha – solo a prima vista – tratti di sistematicità presente in testi greci antichi è quella degli uccelli in Ar. Av. 227-262. Per questa classificazione cfr. Zucker 2005, 98-101. 54. Cfr. Zucker 2005, 60. 55. Cfr. Zucker 2005, 65. 56. Cfr. Zucker 2005, 67 s.

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3.2 Demiurghi, zoogonie, dicotomie: l’animale residuale di Platone Anche all’interno dell’opera di Platone gli animali divengono episodicamente oggetto di discorso. Cosa che avviene secondo due distinti approcci, il primo – espresso nel Protagora e nel Timeo – relativo al problema della zoogonia, il secondo – enunciato principalmente nel Sofista e nel Politico – relativo ai processi dicotomici per arrivare alla definizione degli enti. Per quanto riguarda il Protagora, la nascita degli animali, avvenuta per volere divino, è raccontata (in 320 d ss.) come una mixis (una mistione) di terra e fuoco e «di tutti gli elementi che sono composti da terra e fuoco» (320 d 3: tÒn ÷sa purã kaã g– kerßnnutai). Una volta ottenute le “forme” a partire da calchi fatti in seno alla superficie terrestre, il demiurgo Epimeteo assegna una serie di qualità a questi esseri, ma finisce per esaurirle nel momento in cui arriva all’uomo. Se dunque tutti gli animali hanno chi velocità, chi forza, chi folte coperte di peli, l’uomo è invece nudo e privo di attributi. Per rimediare all’errore di Epimeteo, Prometeo decide allora di rubare ad Efesto e ad Atena la entechnos sophia (vale a dire il sapere tecnico) e di donarla a quest’essere manchevole di tutto (321 d 1). Come è visibile già da una prima lettura del testo, l’attribuzione delle qualità specifiche ad ogni singolo animale avviene secondo criteri di compensazione ed uguaglianza. Il dato più rilevante consiste però nel fatto che – come ha mostrato Zucker – la diversità anatomica è frutto accidentale del caso e diventa «del tutto insignificante e inesplicabile»,57 come se le differenze fra le specie fossero del tutto non pertinenti, e come se l’unica differenza degna di rilievo fosse diventata quella fra l’uomo da un lato e la classe di tutti gli animali visti come blocco compatto dall’altro, in quella che Roberto Marchesini ha chiamato una sorta di “enfatizzazione prospettica”.58 Tale enfatizzazione prospettica, mirante a costruire un cardine assiologico in base al quale l’animale è connotato come ente residuale rispetto all’uomo è comunque ancora più evidente nelle zoogonie parallele del Timeo. Qui, in una prima fase (39 e 10-40 a 2), Platone racconta la nascita del cosmo e l’apparizione dei primi zoia, che sono rispettivamente la stirpe celeste degli dei (o‹rßnion îeÒn gûnoj), la stirpe dei volatili (pthnÿn kaã ¶erop’ron), la “forma” degli animali acquatici (†nudron eêdoj) e infine gli animali di terra che hanno i piedi (pezÿn d° kaã cersaéon). 57. Cfr. Zucker 2005, 78 s. 58. Cfr. Marchesini 2002, 15 ss. e Tonutti 1999, 104.

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Il passo in questione è degno di nota, perché – come fa notare Zucker – la nozione di animale che viene proposta, nonostante faccia riferimento ad un criterio ecologico di partizione, appare in aperta rottura con le posizioni dei Presocratici. La classe degli zoia infatti comprende gli dei, ma esclude le piante.59 L’uomo sembrerebbe qui classificato assieme a tutti gli altri animali terrestri, ma il quadro che viene dato poco più avanti ci orienta verso tutt’altra direzione. Dopo avere illustrato la nascita dell’essere umano, e avere spiegato quale sia la natura della sua anima (la cui funzione più alta è quella votata al pensiero e al philosophein), Platone – per bocca del pitagorico Timeo – racconta il modo in cui sono stati generati tutti gli altri animali.60 Questi, con grande forza visionaria, si immaginano formati sulla base di un processo redistributivo secondo cui le anime degli uomini defunti si vanno progressivamente a dislocare nei corpi di animali occupanti volta per volta gradini sempre più bassi della scala gerarchica delle forme di vita (dalla donna – presentata qui come la prima degenerazione dell’umano –, fino agli animali acquatici, che rappresentano l’ultimo gradino della scala della natura). In questo passo famoso, se da un lato i destini dell’uomo e dell’animale vengono intrecciati, dall’altro la morfologia corporea e la destinazione ambientale degli esseri viventi vengono concepiti come segni ed effetti di una degradazione irreversibile delle anime umane, che – laddove nella vita precedente non si è registrato alcun accesso alla filosofia – finiscono per animalizzarsi e perdere l’uso delle facoltà più elevate del proprio genere (che sono quelle del pensiero). Se dunque da un lato – come avveniva con i Presocratici – viene ribadita la continuità che lega gli uomini e gli animali in un unico grande genere, dall’altro la morfologia delle due classi (quella umana e quella animale) viene progressivamente differenziata in relazione alla simmetria alto/basso. L’animalità dunque non diventa altro che una degradazione dell’umano, un prodotto privo di essenza e specificità proprie, la cui radice originaria è sempre il corpo (e l’anima) dell’uomo.61 In altri termini, come fa notare Arnaud Zucker, se l’uomo è l’unico ente a partecipare dell’essere, l’animale è il frutto oscuro del divenire.62 In un quadro del genere, l’animale non è pertanto qualcosa da investigare nella sua specificità, e anche in quella che è l’elaborazione 59. Cfr. Zucker 2005, 70 (il quale fa notare che in Pl. Ti. 77 b 2 i vegetali sono comunque indicati come zoia). 60. Cfr. Ti. 90 e ss. 61. Cfr. Zucker 2005, 72 s. (ma cfr. anche Pinotti 1994, 101 ss.) 62. Cfr. Zucker 2005, 73.

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del metodo dicotomico – nonostante diverse classi di animali vengano ripetute volte chiamate in causa63 – non diventa mai il vero centro focale dell’interesse. Il metodo in questione viene definito esplicitamente, per la prima volta, nel Fedro (265 d 3 ss): «Uno: abbracciare in uno sguardo d’insieme e ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato affinché definendo ciascun aspetto si attinga chiarezza intorno a ciò di cui s’intenda ogni volta insegnare. Come anche adesso nel caso di Amore, siccome l’abbiamo definito, bene o male che lo si sia fatto, il nostro discorso ha potuto raggiungere chiarezza e coerenza con se stesso. FEDR.: E qual è l’altro procedimento che dici, o Socrate? [e] SOCR.: Consiste nella capacità di smembrare l’oggetto in specie, seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne alcuna parte come potrebbe fare un cattivo macellaio. Ma, per fare un esempio dei due discorsi di poco fa, essi riducevano tutti gli elementi che compongono l’irrazionale del pensiero in un’unica forma, analogamente a [266a] quanto avviene in un corpo che, pur essendo unico, si dirama naturalmente in membra doppie e omonime – e sono designate come arti di destra e di sinistra –; così anche gli elementi dell’insania sono stati considerati nei due discorsi come un’unica forma naturale in noi. Il primo discorso, tagliata via la parte sinistra, e sezionando ancora, non cessò finché non scoprì in tutte quelle sezionature un certo amore definito sinistro, e non lo coprí di vituperi del tutto legittimamente. Ma l’altro menandoci alle forme di delirio che stanno alla destra, ci scoprì un certo amore, omonimo del primo, ma divino, e, messocelo in evidenza, lo ha preso a lodare come autore di beni [b] grandissimi per noi. FEDR.: È verissimo!».64 (Pl. Phdr. 265 d - 266 b)

La proposta che Platone fa – per bocca di Socrate – è quella di associare e dissociare insiemi di concetti secondo il procedimento ascendente della synagoge (ovvero della unione) e quello discendente della diairhesis (divisione). Come fa notare Zucker, il secondo procedimento potrebbe virtualmente portare ad un percorso classificatorio sistematico, proprio perché sulla sua base sarebbe possibile costruire vere e proprie tabelle sinottiche in cui fissare graficamente rapporti orizzontalmente esclusivi e verticalmente inclusivi fra taxa.65

63. Cfr. Pl. Plt. 261 d 1 ss. e Sph. 220 a 7 ss. 64. La traduzione del passo è quella di P. Pucci, tratta da Platone, Opere complete (CD-Rom a cura di G. Iannotta, A. Manchi, D. Papitto), Laterza, Milano 1999. 65. Per il procedimento dieretico in Platone cfr. Zucker 2005, 106-111.

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Il punto però è che in Platone, il procedimento della dieresi funziona soltanto percorrendo gli snodi di un albero immaginario verso il basso ed eliminando i rami che vengono via via contrapposti come oggetti solo marginalmente pertinenti alla identificazione del definiendum. Accade poi che le opposizioni simultanee non seguono mai criteri gerarchici ed omogenei, mentre le classi che individuano sono artificiali e, soprattutto, strumentali. Ad impedire di fatto che il metodo della dieresi venga usato per costruire una vera e propria classificazione zoologica (e dunque una zoologia sistematica) è in fondo la concezione stessa del filosofo, che vede l’animale come un oggetto residuale. In questo quadro, anche quando in dialoghi come il Politico e il Sofista, la dicotomia è fortemente imperniata su esempi animali, quello che capita è sempre che la classificazione che viene imbastita «non è una classificazione autonoma», ma solo «la tappa di un progetto al quale è interamente sottomessa: un pretesto per la dimostrazione di un metodo che mira alla definizione di un concetto astratto».66 3.3 La svolta aristotelica 3.3.1 Dividere le differenze (dalle idee agli speciemi generici) La pratica platonica della dicotomia – come è noto – sarà oggetto di pesanti critiche da parte di Aristotele.67 Non solo infatti le divisioni del Politico o del Sofista procedono per privazioni (mirando a definire gli oggetti per assenza di qualità), ma sono per giunta incapaci di produrre – nella prospettiva adottata dallo Stagirita – definizioni sintetiche dei viventi, dal momento che l’esclusione progressiva di un ramo per volta porta all’individuazione di un unico asse di divisione, definendo così solo in modo parziale l’oggetto. La proposta che in questo senso Aristotele fa per rimediare a questa limitazione, più che il rifiuto della dieresi in sé, sarà l’individuazione sintetica di determinazioni zoologiche correlate e simultanee, in quello che si potrebbe definire uno sguardo polidimensionale, in cui più assi di divisione sono considerati.68 La dieresi, però, non sarà più – come era avvenuto nel Politico e nel Sofista – uno strumento per dividere gli animali secondo l’indivi-

66. Traduco e parafraso liberamente da Zucker 2005, 122. 67. Per la critica aristotelica della dicotomia cfr. ad es. Top. 122 b 25 ss.; 143 b 11-32; Metaph. 1039 a 24 ss.; 1042 a 11 ss.; 1069 a 26 ss.; APo. 90 a 35 ss.; APr. 24 b 18 ss.; 46 a 31 ss.; PA 639 a 29 ss.; 642 b 4 ss. (per cui cfr. Zucker 2005, 124 ss., ma anche Carbone 2002, 45 ss.). 68. Cfr. Zucker 2005, spec. 128.

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duazione di diaphorai (vale a dire di differenze). Verrà infatti utilizzata, secondo quella che si rivela come una vera e propria rivoluzione copernicana, come un mezzo per dividere queste differenze stesse. Gli oggetti del discorso saranno dunque insiemi provvisori (e artificiali) di animali raggruppati secondo distinte dimensioni che sono principalmente il bios (vale a dire le condizioni di vita), le praxeis (le attività, come ad esempio la riproduzione, o la locomozione), l’ethos (il carattere), ma soprattutto i moria (le parti anatomiche),69 tutte marche che di fatto fanno parte delle istruzioni per l’identificazione dei morfotipi comportamentali. Ciò che però allontana ancora di più Aristotele da Platone è la sua prospettiva, che si rivela diametralmente opposta, e proprio per questo rivoluzionaria in merito all’individuazione della sede della ousia (sostanza). Se infatti Platone vedeva i generi come qualcosa di precedente, e dal punto di vista logico e dal punto di vista ontologico, rispetto alle specie, lo Stagirita – come è stato recentemente osservato – «vede invece nella specie l’attualizzazione di una forma che non esiste che in potenza nel genere».70 In altri termini, se in Platone la sede dell’essenza è il mondo delle idee, per Aristotele essa invece è individuabile in quelli che gli studiosi di etnobiologia contemporanea chiamano gli speciemi generici (SG), quando non addirittura nel singolo individuo che volta per volta rappresenta il singolo speciema generico.71 3.3.2 Una zoologia a base folk Il fatto che Aristotele individui negli speciemi generici la sede della sostanza (ousia) implica – come è stato riconosciuto già da Scott Atran – una forte adesione al senso comune e quindi al quadro delle classificazioni popolari comunemente diffuse, così come è stato esposto nel paragrafo 1 di questo capitolo,72 laddove invece la percezione 69. Per la divisione delle differenze basata su molteplici assi di divisione, oltre che Zucker 2005, 128 ss., cfr. Pellegrin 1982, 123, il quale, sulla centralità e l’importanza della moriologia in Aristotele, è intervenuto a più riprese fino a estremizzare le proprie posizioni in Pellegrin 1990, 37 ss. 70. Cfr. Zucker 2005, 139. 71. A tale proposito Zucker 2005, 139 ss. insiste particolarmente sulla possibilità – ipotizzata dallo Stagirita in PA 644 a 29 ss. – di condurre uno studio zoologico per successione di singole monografie sui singoli speciemi generici. Sull’idea aristotelica di forma come “entità individuale fornita di una sostanza individuale” cfr. Cooper 1990, 84. (ma anche Furth 1990, 85 ss., che ritiene che l’idea aristotelica di forma sia specifica molto più che individuale). 72. Cfr. Atran 19962, 83 ss. Bisogna comunque segnalare che per diversi anni il problema della “tassonomia” in Aristotele è stato una vera e propria vexata quaestio, innanzitutto perché nella Metafisica e nell’Organon l’uso di termini come genos ed eidos implica sempre un rapporto fisso di iperonimia, e poi perché

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immediata della realtà per Platone era vista di fatto come una “selva di somiglianze” fonte di inganno.73 Tale adesione, peraltro, si rispecchia nelle scelte dello Stagirita di rispettare i sistemi di denominazione largamente condivisi nella lingua di tutti i giorni, laddove invece le dicotomie platoniche facevano un largo impiego di neologismi.74 Come infatti è stato recentemente mostrato, le determinazioni aristoteliche ricavate dalle differenti classi di differenze non si iscrivono in una prospettiva tassonomica (e quindi in una logica mutualmente esclusiva sul piano orizzontale e verticalmente inclusiva), ma sono semplicemente «qualità discriminanti (diaphorai) combinabili e cumulabili in maniera flessibile».75 Ne consegue che tutte quelle determinazioni linguistiche – come ad esempio zootokonta (vivipari) o ootokonta (ovipari) – che a prima vista potrebbero sembrare classemi, se non addirittura taxa, non sono altro, in realtà, che aggettivi sostantivati usati al fine di raggiungere un alto grado di economia discorsiva.76 In altre parole, laddove Aristotele usa termini come karcharodon (animale a denti aguzzi) o pterotón (volatile), lo fa più per evitare ripetizioni o, anche, per evitare di elencare volta per volta numeri elevati di speciemi generici, che per creare una norma linguistica fissa o, addirittura, un lessico scientifico e tassonomico. Tali classemi, comunque, vengono utilizzati per mettere in correlazione caratteristiche di insiemi di animali ricavati sul momento e, talvolta, anche come mezzo euristico per costruire inferenze su oggetin APo. 93 b 35 ss. vengono di fatto date quelle che sembrano istruzioni per la costruzione di una vera e propria classificazione tassonomica. L’uso di una vera e propria tassonomia (specialmente nel De generatione animalium) è stato affermato da Lloyd 1961, 59 ss. Appena un anno dopo comunque Balme 1962, 81 ss. notava che nelle opere biologiche c’era una alternanza fra un uso rigido della coppia di termini genos/eidos e un uso “volgare”. Pellegrin 1982, passim ha tentato di unificare l’orizzonte logico con quello biologico dello Stagirita sostenendo che genos ed eidos sono sempre in un rapporto stabile di iperonimia, ma non si riferiscono mai a livelli fissi della realtà: sarebbero dunque finalizzati a costruire una classificazione (delle parti più che degli animali), ma non una tassonomia. Recentemente Zucker 2005, 210 ss. è ritornato sulla questione, concludendo che non solo non esiste una tassonomia nell’opera biologica di Aristotele, ma che neanche la classificazione stessa è un oggetto pertinente per lo Stagirita, dal momento che la moriologia – cui soprattutto in Pellegrin 1990, 37 ss. si dà un importanza centrale e assoluta – è finalizzata allo studio dell’animale in sé nella sua individualità. 73. L’espressione fra virgolette è tratta dal titolo del saggio di Viano 1985 (cfr. spec. 66 ss.). 74. Cfr. Zucker 2005, 122. Un esempio di neologismo platonico è proprio quello relativo alla riproduzione incrociata (cfr. Plt. 265 d 9 s., per cui cfr. par. 1 del cap. 2). 75. Cfr. Zucker 2005, 178 (che qui è tradotto dal francese). 76. Cfr. Zucker 2005, 178 ss.

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ti e fenomeni invisibili. È il caso, questo, ad esempio, del raggruppamento degli ootoka kai enaima kai tetrapoda (ovipari, sanguigni e quadrupedi: ovvero i nostri sauri), i cui tratti comuni, una volta riassunti e generalizzati, permettono di inferire, per analogia con la lucertola (e quindi con un animale noto e familiare) e con tutti gli altri membri della classe, alcune notizie relative agli organi interni di un animale “lontano dallo sguardo dei Greci” (e quindi difficilmente ispezionabile) come il coccodrillo.77 Prive di un valore sistematico, le determinazioni linguistiche hanno dunque una funzione strumentale e provvisoria. Sono mezzi per accrescere il sapere sui viventi e, nello stesso tempo, espedienti per organizzare i dati in maniera economica. I classemi, per di più, non individuano classi naturali. Le uniche classi che vengono presentate dal filosofo come aventi un corrispettivo in natura, e cui si attribuisce una realtà oggettiva, sono appunto quelle del senso comune: gli speciemi generici (SG) e alcune forme di vita (FV) riconosciute dalla tradizione popolare, che sono gli ornithes (uccelli), gli ichthyes (i pesci) e i kete (gli animali marini di grossa taglia), che vengono indicati come facenti parte dei megista gene (i grandi generi).78 Per il resto, tutti gli altri classemi riguardano raggruppamenti artificiali e strumentali che non hanno alcun referente oggettivo nel mondo reale, ma che vengono utilizzati come meri attributi. In questo quadro, dal momento che la classificazione è già data – e coincide per larghi tratti con quella desumibile dai modelli descritti dagli antropologi – non ha alcun senso per Aristotele articolarne una ex novo. Il suo fine non è questo, bensì quello di utilizzare i classemi come sistemi per stabilire – come si è già visto – correlazioni e dissociazioni all’interno del mondo dei viventi. L’adesione alla classificazione folk derivante dalle percezioni immediate del senso comune, però, come si è già visto alcune pagine addietro, viene articolata in modo nettamente diverso, ad esempio, rispetto ad Erodoto. 3.3.3 Aristotele: l’animale come oggetto deculturalizzato e delocalizzato L’animale degli antichi, come si è visto nel paragrafo 2 di questo capitolo, oltre che essere determinato da un topos, in qualche modo lo riempie e, proprio per questo, a sua volta lo determina, salvandolo dall’horror vacui dell’incomunicabilità e proiettandolo nella culturalità del dicibile e dell’umano. 77. Cfr. HA 502 b 28-503 a 15 (su cui rimando a Li Causi 2003, 117 ss.). 78. Cfr. Zucker 2005, 232.

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Un meccanismo, questo, che è possibile proprio perché la zoologia non settoriale prearistotelica (e in genere prefilosofica) è essenzialmente una tipologia di discorso digressiva, che mira a svelare e ostendere l’ignoto o, comunque, il mirabile. Quando gli capita di parlare del cammello, del resto, Erodoto dichiara esplicitamente di non volerlo descrivere, «dal momento che» – così dice – «i Greci lo conoscono»,79 e si limita soltanto a elencare pochi dati (evidentemente poco noti al suo tempo) relativi alle ossa femorali, alle ginocchia e alla natura particolare del suo membro volto all’indietro. La zoologia, proprio perché – prima di Aristotele – è solo discorso marginale e periferico rispetto ai generi che la contengono (la historia o la geografia) si presenta dunque come un testo in appendice ad altri discorsi, come un’interfaccia che ha una funzione vicaria rispetto alla opsis. I cani, i maiali, i cavalli, e in generale tutti gli animali familiari ai Greci, non hanno motivo di essere descritti, proprio perché la loro physis gestaltica è davanti agli occhi di tutti: anzi, per parafrasare Democrito, perché i cani, i maiali, i cavalli sono ciò che tutti conosciamo (perché abbiamo visto). Ed è proprio nello scardinare queste logiche che la zoologia aristotelica si presenta come rivoluzionaria ed originale. Essa infatti, per la prima volta, assume le vesti di un discorso slegato dai luoghi e dal “tempo” della storiografia e dell’etnografia. Per Aristotele, infatti, il sapere sugli animali sarà anche la sistemazione di saperi noti, e non più, come è nel caso del cammello di Erodoto, mera addizione progressiva di nozioni nuove e ignote. Per la prima volta per Aristotele anche la natura del cane e dei cavalli diventa indagabile, a testimonianza di una rottura di equilibrio omeostatico lungo secoli, se non forse millenni. Ecco perché, benché sia noto a tutti come è fatto il cammello, nella Historia animalium si sente l’esigenza di riassumerne la physis: «Rispetto agli altri quadrupedi, i cammelli presentano una caratteristica loro propria, la cosiddetta gobba sul dorso. I cammelli battriani sono però diversi da quelli arabi: i primi infatti hanno due gobbe, i secondi una soltanto, mentre presentano nella parte inferiore del corpo un’altra gobba, simile a quella superiore, sulla quale si appoggia il resto del corpo quando s’inginocchiano. Il cammello poi ha quattro mammelle come il bue, una coda simile a quella dell’asino, e l’organo genitale rivolto all’indietro. E ha un ginocchio in ogni arto; esso non possiede numerose articolazioni, come dicono alcuni, bensì si tratta di un’apparenza dovuta alla contrazione dell’addome. L’astragalo è simile a quello del bue, ma è fragile e piccolo in rapporto alle sue dimensioni. Il cammello è artiodattilo ed è privo degli 79. Cfr. Hdt. 3, 103.

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incisivi superiori. Il suo piede è diviso nel modo seguente: vi è una piccola fenditura che parte da dietro e giunge fino alla prima articolazione all’estremità delle dita; e vi è anche qualcosa che si stende attraverso le fenditure, come nelle oche. Il piede è inferiormente carnoso, come quello degli orsi, ed è perciò che, quando i cammelli vengono utilizzati in guerra, si mettono loro calzari di cuoio se soffrono ai piedi». (Arist. HA 499 a 13-30)

Il passo in questione riporta integralmente proprio quelle nozioni che Erodoto aveva sottinteso. Lo storico di Turi infatti non menziona mai la gobba, né tanto meno istituisce una divisione fra i cammelli battriani e quelli arabi,80 non descrive le mammelle dell’animale, né si sofferma a parlare della dimensione degli astragali o delle caratteristiche della dentatura. Tutte cose che lo Stagirita ritiene invece di dover fare. Se dunque la “zoologia” erodotea era una zoologia della singolarità, intimamente legata alla unicità e alla discontinuità dei luoghi, se era una “scienza” che si limitava ad offrire informazioni di complemento rispetto ai dati posseduti dalla società autoctona rispetto al locutore, in Aristotele tutti gli animali (anche quelli più comuni) da un lato diventano oggetto di generalizzazione e ricapitolazione, dall’altro si inseriscono nell’ambito di un sapere sintetico e, verrebbe quasi da dire, “enciclopedico” nel senso più pieno e tradizionale del termine.81 In questo senso lo scarto fra lo spazio e il luogo diventa evidente: l’animale, anziché essere prevalentemente un marcatore di luogo (o marcato dal luogo), è diventato sempre più prepotentemente uno “spazio” (o un volume) uniforme da suddividere katà mere,82 uno spazio da sezionare in profondità e secondo criteri che, pur legati alla visione di senso comune, cominciano già a superarla. L’animale, in altri termini, è da suddividere non più soltanto katà mele, e cioè (come del resto avveniva anche nella zoologia prearistotelica) secondo i contorni naturali immediatamente visibili, ma anche in virtù di crite80. È comunque da notare che una divisione di una classe di animali in due differenti sottogruppi (ES) è presente in Hdt. 3, 113, 1 in cui si parla di d›o gûnea ‘íwn. 81. Il fatto che le “singolarità etnografiche” per certi versi perdano, nella Historia animalium, il loro statuto di “fatti storici” è un problema che meriterebbe, in altra sede, una riflessione più approfondita. Per la nozione di “enciclopedia” cfr. Eco 1984, spec. par. 5, 2. 82. A questo proposito Thom 1990, 491 ss. ha paragonato l’analisi degli anomeomeri alla descrizione di quelli che in matematica vengono chiamati gli insiemi stratificati. Un simile raffronto chiarisce ulteriormente il punto di vista aristotelico: l’animale non è più un indicatore di luogo, bensì uno spazio (e un volume) da scomporre in strati di diverse dimensioni e dalle diverse conformazioni.

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ri maggiormente astratti (katà meros).83 Esattamente come lo spazio può essere “smembrato” in base alla sua physiké perigraphé (il suo contorno naturale) immediatamente percepibile o, diversamente, essere tagliato in sphragides, in maniera analoga le parti degli animali possono essere suddivise in mele e poi in mere anomeomere e quindi omeomere.84 Come del resto era già stato anticipato nell’incipit della Historia animalium (486 a 5-487 a 1), le parti degli animali non sono più unicamente quelle visibili nella Gestalt, cioè nella forma immediatamente percettibile, ma anche quelle invisibili, vale a dire le parti interne e i tessuti. L’animale diventa così lo “spazio” interno ed esterno, privato di ogni natura mnemotecnica ed etnografica. Il cammello, infatti, nonostante sia legato a due luoghi (la Battriana e l’Arabia) non serve ad illustrarne le singolarità etnografiche. Al contrario la menzione di questi due topoi risulta funzionale ad una classificazione politipica dell’animale e serve dunque da mero espediente denominativo per l’individuazione di due diversi eide (intesi come elementi distinguibili in base all’aspetto esteriore) dello stesso genos (inteso come “insieme”).85 Ecco che allora ogni riferimento a culture “altre” viene spazzato via, ogni memoria etnografica viene anzi espressamente occultata, esattamente come avviene, tendenzialmente, per quello che potremmo chiamare il sapere antropologico relativo agli animali e per la sfera delle loro funzioni di uso. Per il resto, nel passo in questione si fa soltanto un breve accenno all’abitudine in base alla quale “quando i cammelli vengono usati in guerra, si mettono calzari di cuoio se hanno male ai piedi” (499 a 28-30). Il dato, però, non viene presentato come una curiosità singolare, perché serve semmai a spiegare meglio la natura dei piedi dell’animale, e non certo per raccontare imprese straordinarie di cammelli in guerra.86 È ovvio infatti che, se l’animale è diventato uno spazio neutro da sezionare e nello stesso tempo viene occultato sistematicamente il luogo in cui esso vive e che contribuisce a differenziare e rendere disomogeneo, esso non è più buono per pensare intrecci narrativi simili a 83. Come si è visto dalla lettura di Str. 2, 1, 30 si intuisce che la dissezione katà mele sarebbe uno “smembramento” secondo le caratteristiche fisiche dell’animale, mentre la partizione katà mere sarebbe una ulteriore partizione in base a criteri meramente quantitativi e astratti. 84. Per la distinzione che Aristotele fa fra mere e mele cfr. HA 486 a 5 ss. 85. Per il concetto di eidos e genos in Aristotele, oltre che Pellegrin1982, 73 ss., cfr. Zucker 2005, 211 ss. 86. Sull’uso di cammelli in guerra in Hdt. cfr. 7, 83, 2; 125. Cfr. inoltre 9, 81, 2 per i cammelli dati in dono a Pausania.

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quello, per esempio, che vede come protagonisti i myrmekes giganti di Erodoto (3, 98 ss.):87 descrivere e sezionare un animale (anche se mentalmente e in astratto), isolarlo dalla singolarità del suo habitat, significa, in fin dei conti, renderlo oggetto. Conoscere un animale significa non più “raccontarlo” (e quindi “vederlo” o “sentirne parlare”), bensì descriverlo in base a criteri partonomici delocizzati.88 Tale descrizione tuttavia, pur partendo dall’analisi dei morfotipi comportamentali, comincia a diventare sempre più complessa, dal momento che le parti dell’animale non coincidono più unicamente con la sua superficie visiva e sono diventate anche organi interni, liquidi e umori. 3.3.4 Aristotele: le funzioni dell’anima Fin qui ho cercato di sottolineare uno scarto essenziale fra il sapere prearistotelico e quello aristotelico. Il fatto che in Aristotele l’essere animato non sia più soltanto un marcatore mnemotecnico di diversità etnografica è senza dubbio un assunto che turba l’ordine omeostatico precedentemente individuato, ma c’è ancora di più. Aristotele non solo mette in crisi i cardini di un sapere che si fondava unicamente sulla pertinenza dell’inusitato (giacché il noto, l’uomo come il cammello, per dirla con Democrito ed Erodoto, è ciò che tutti conosciamo), ma, pur muovendo da essa, mette in crisi la stessa visione di senso comune secondo la quale il sapere zoologico si fonderebbe sulla percezione immediata degli oggetti visibili. Operazione, questa, che può risultare più chiara a partire dalla lettura del seguente passo, per il quale tengo ampiamente presente il recente commento di Andrea Carbone: «Se ciascuno degli animali e delle parti consistesse nella struttura e nel colore (t¸ scømati kaã t¸ crÎmati), allora direbbe correttamente De87. Labarrière 2000, 120 ss. ha dimostrato come gli stessi libri “etologici” della Historia animalium (libri VIII e IX) non siano da vedere come semplici “favole” o situazioni narrative da mito, ma come “des arguments initialement construits pour servir une enquête sur les diverses formes d’intelligence”. In particolare, l’autore (ibid.) ha dimostrato come il racconto del cammello che uccide il cammelliere dopo essere stato costretto ad accoppiarsi con la madre (HA 630 b 31-631 a 1) sia in realtà da spiegare in base alla teoria della phantasia e alle investigazioni psicologiche sulla vendetta fatte in Rh. 1378 b 8 ss. 88. Per la distinzione di “spazio” e “luogo” mi rifaccio qui a Farinelli 1993, 43 ss. (ringrazio Marco Picone per avermi messo a parte delle sue riflessioni a partire da questo testo e per avermelo indicato), ove per “luogo” si intende tutto ciò che è “antropologicamente connotato”, disomogeneo, discontinuo, “anisotropo” (ovvero – nell’accezione dell’autore – che si può osservare da differenti punti di vista), mentre per “spazio” si intende tutto ciò che è “geometricamente neutro”, omogeneo, continuo, uniforme, “isotropo” (che si può osservare a partire da un unico punto di vista: quello del geografo). A proposito della relazione fra topos e “meraviglioso” cfr. anche Jacob 1981 135 e Jacob 1980, 135 ss.

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mocrito; è evidente, infatti, che intenda così. Dice per certo che a ognuno è chiaro che cosa sia l’uomo secondo la forma (t¬n morføn), poiché esso è conoscibile per la struttura e per il colore. Eppure anche il cadavere [35] ha la stessa forma della struttura, e ugualmente non è uomo. E, nella stessa maniera, è impossibile che sia una mano quella foggiata in qualche modo, come di bronzo o di legno, tranne che [641 a] per omonimia, come il medico dipinto. Infatti non potrà compiere la propria funzione (†rgon), né così i flauti di pietra la propria, né il medico dipinto. In modo uguale a queste cose, nessuna delle parti del cadavere è ancora tale, intendo dire ad esempio l’occhio o la mano. Dunque Democrito ha trattato l’argomento in modo troppo semplice, nella stessa maniera in cui un falegname potrebbe parlare di una mano di legno. In questo modo infatti anche i fisiologi espongono la generazione e le cause della struttura: plasmata da alcune potenze (¤p’ tinwn g™r ùdhmiourgøîhsan dunßmewn). Ma, come il falegname parlerà di scure o di trapano, così ognuno di essi parla di aria o di terra; tranne per il fatto che il falegname è migliore, giacché non gli sarà sufficiente dire soltanto che per un colpo del suo attrezzo si è prodotta o una cavità o uno spianamento, ma dirà perché (di’ti) ha dato un certo colpo e per quale fine (tànoj üneka); dirà la causa, in che modo allora una tale cosa si generi in quanto alla forma. [15] È chiaro dunque che costoro non si esprimono in modo corretto, e che si deve dire che l’animale è siffatto, e riguardo ad esso anche che cosa sia (tà), quale sia (poé’n ti) e ciascuna delle parti (tÒn moràwn ükaston), come nel caso della forma del letto. Se poi questo che si deve dire è anima (yukø), o una parte (mûroj) di anima, o che non è senza anima (di certo quando l’anima si separa non c’è più l’animale, e nessuna delle parti rimane la stessa, tranne che per la sola struttura, come i mitici esseri che furono pietrificati), se dunque le cose dovessero stare così, sarebbe proprio del fisico trattare e aver conoscenza dell’anima, e se non di tutta, almeno quanto a questa stessa parte per la quale l’animale è tale; e ancora sarebbe del fisico studiare che cos’è l’anima o [25] questa stessa parte, e riguardo agli accidenti, secondo tale sua sostanza, poiché d’altra parte anche la natura si dice ed è in due modi, come materia o come sostanza, e questa è anche come in movimento e come fine. Di certo l’anima dell’animale è siffatta, tutta o una certa parte di essa. Sicché in questo modo, [30] per quel che concerne la ricerca intorno alla natura, si dovrebbe parlare dell’anima più che della materia, tanto più che la materia è come natura a causa dell’altra, piuttosto che il contrario: infatti il legno è letto o tripode, poiché è in potenza queste cose».89 (PA 640 b 29-641 a 32)

Secondo Aristotele non ci si può più fermare alla descrizione del solo morfotipo di un animale. È logico dunque che un animato, non può 89. La traduzione è di Carbone 2002, ad l. (che tengo presente anche nel commentare il passo in questione).

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più essere, come aveva sostenuto Democrito (e come avevano implicitamente continuato a pensare le descrizioni di storiografi come Erodoto o, dopo Aristotele, di autori come Eliano),90 semplicemente ciò che tutti vedono. Né tanto meno basta – questo lo si può leggere tra le righe – riempire determinate marche di descrizione per prendere in esame l’etologia e i tratti cinetici degli animali. Tutte cose, queste, che possono andare bene per ostendere in maniera vicaria gli animali ignoti, ma che certo non possono portare alla conoscenza della natura intrinseca e sottostante di tutti gli esseri animati, ovvero alla conoscenza della loro ousia. Viene dunque sgretolato il modello dell’animale come spettacolo (o come semplice statua vivente etologicamente connotata), cosa, questa, che viene sottolineata fra l’altro anche mediante il ricorso alle metafore tratte dalla pratica artistica. Nella prospettiva dello Stagirita, dunque, se non si studia l’anima di un essere animato, non sarà mai possibile distinguere un cadavere (che non è più uno zoion, o meglio lo è solo per omonimia) da un vivente. Ecco il motivo per cui ad una concezione composizionale delle parti del corpo (e dello spazio dell’animale) si va ad aggiungere una concezione teleologica e funzionale. Definire e mappare le parti del vivente, come si evince anche dalla lettura di Metafisica 1036 b 28 ss.,91 rimane comunque pur sempre importante, dal momento che l’esame partonomico – esattamente come era stato indicato nel proemio della Historia animalium (486 a 5 ss.) – viene sempre visto come il punto di partenza necessario per definire i diversi livelli di ordinamento dell’essere vivente (specifico, generico ed analogico). La partonomia, in altri termini, serve a definire quelli che qui Aristotele chiama il che cos’è e il qual è, serve cioè a dire che un uomo è un animale, ma anche quale animale è.92 Successivamente all’individuazione delle parti però si deve passare a tre diversi livelli di indagine miranti ad esplicare il principio formale dell’essere in questione. Si deve cioè, come spiega Andrea Carbone, «1) enunciare qual è l’anima dell’animale; 2) fare riferimento ad una certa parte dell’anima, 3) chiarire che senza anima non è possibile che vi sia animale».93 90. Sulle caratteristiche generali del discorso zoologico di Eliano cfr. ad es. Li Causi 2003, 257 ss. 91. Metaph. 1036 b 28-32.: «l’essere animato è qualcosa di percettibile, e senza il movimento non è possibile definirlo. Per questo motivo non è neppure possibile definirlo senza spiegare in quale modo si trovino le sue parti. Non in tutti i casi, infatti, la mano è parte dell’uomo: ad esserlo è unicamente quella mano che è in grado di portare a termine la propria funzione, dal momento che è animata. Quando invece non è animata, allora non è nemmeno una parte». 92. Cfr. Carbone 2002, 511 ss. 93. Cfr. Carbone 2002, 513.

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Il modello di senso comune del morfotipo comportamentale, quindi, non basta più. Bisogna individuare tutte le forme della causalità naturale che permettano di individuare in un essere animato l’anima (la psyche) come atto e forma di un corpo costituito da parti.94 Si tratta dunque di un programma per la prima volta veramente “settoriale” che individua e delinea un metodo che potremmo, secondo una metafora interpretativa da non prendere alla lettera, chiamare “scientifico”, non tanto nella misura in cui è simile alla zoologia moderna, quanto per lo sforzo di creare un sistema “specialistico” e quindi alternativo rispetto a quello dei discorsi comuni e diffusi sugli animali. 3.3.5 Una implicita classificazione assiologica: la scala naturae in Aristotele Volendo uniformare le basi cognitive su cui Aristotele si muove sulla griglia di Berlin e Guasparri illustrata nello schema di p. 30, potremmo dire che si potrebbe individuare un regno vernacolare (RV) indicato con il tassonimo zoion, quindi alcune FV naturali (i cui tassonimi sono ad es. ketos, ichthys, ornis) e a seguire tutti i distinti speciemi generici (e le loro varietà). Il termine zoion comprende al suo interno anche l’uomo che è spesso il punto di riferimento, quando non il centro assoluto, di tutte le associazioni e dissociazioni di diaphorai. A prima vista si potrebbe credere che si sia ritornati alla indistinzione dei Presocratici, in realtà però non è così. Se infatti non è individuabile alcun progetto di tassonomia scientifica all’interno delle opere biologiche aristoteliche, è comunque possibile intravedere – come ha mostrato Arnaud Zucker – una vera e propria classificazione assiologica, che non è mai esposta esplicitamente, ma che comunque sembra attraversare sotterraneamente tutte le riflessioni e tutte le argomentazioni zoologiche dello Stagirita. Il sistema che viene trasversalmente costruito – e che Zucker ha individuato – sembra infatti basarsi su un asse principalmente igrotermico, secondo il quale gli animali sono tanto più perfetti quanto più sono la risultante armonica di una krasis di caldo e umido e quanto più sono privi, nel loro composto, di terra (cfr. p. 60).95

94. Ho ampiamente citato e parafrasato Carbone 2002, ad l., aggiungendo pochissimo di mio. 95. Sul caldo, che oltre che essere principio fisico, è anche principio “psicologico” e generatore di anima e di vita cfr. Althoff 1992, 271 (su cui cfr. Zucker 2005, 158 ss.).

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Categorie

Umidità

Uomini, quadrupedi vivipari, cetacei

+ (vivipari)

Uccelli, serpenti, quadrupedi ovipari Selake

Secchezza

+ (uovo) + (vivipari)

Calore

Freddo

Composizione

+ (prodotto completo)

– terra

+ (prodotto completo)

– terra

+ (prodotto completo)

– terra (uovo molle)

Pesci a scaglie, crostacei

+ (ovipari)

+ (ovipari)

+ terra (uovo duro)

Cefalopodi

+ (ovipari)

+ (prodotto non compiuto)

– terra (uovo molle)

Insetti

+ (larvipari)

+ (prodotto non compiuto)

+ terra

Schema della classificazione assiologica degli animali in Aristotele (Zucker 2005).

In questo quadro, peraltro, la perfezione dei frutti della generazione diventa un indice del grado di perfezione dello speciema generico stesso. Per cui quanto più i neonati sono partoriti completi di membra, tanto più alto sarà il grado dello speciema generico in questione. Ecco pertanto che i vivipari si trovano ad un grado più alto degli ovipari, e questi, a loro volta sono più in alto ancora dei larvipari. Come è facilmente deducibile dalla tabella,96 il quadro che si determina è quello di una continuità progressiva in cui l’uomo e tutti gli altri animali sono elementi di un unico insieme sovrapposto che è quello degli zoia. L’insieme degli zoia però è strutturato secondo un grado gerarchico di perfezione che va da quello più basso degli insetti, che sono umidi, freddi, composti di terra e larvipari, al più alto, che è quello dell’uomo. Vediamo dunque che se da un lato Aristotele non mira apertamente a costruire una tassonomia gerarchicamente ordinata secondo principi di mutua esclusione e di inclusione verticale, dall’altro lato –

96. La tabella che qui ripropongo è la traduzione di quella proposta da Zucker 2005, 162. È bene ricordare in nota, comunque, che l’idea della scala gerarchica della natura come “invenzione” della filosofia platonica e aristotelica è stata avanzata per la prima volta da Lovejoy 197613, 52-59 (ripreso, fra l’altro, da duBois 1991, 11-4, che ha analizzato il passaggio nella filosofia greca dal modulo dell’analogia e della polarità a quello della gerarchia come una risposta al collasso di valori successivo alla guerra del Peloponneso).

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senza allontanarsi dalle categorie della visione folk del senso comune, e senza mai considerare il resto degli animali come un elemento residuale (come aveva fatto Platone) – elabora una classificazione implicita che si rivela potentemente antropocentrata.97 L’elevato grado di continuità interna di questo schema trasversale e sotterraneo risulta peraltro misurabile laddove vengono presi in considerazione, dallo sguardo del filosofo, i cosiddetti ibridi classificatori (o dualizers), quegli esseri cioè che, all’interno del microsistema dei raggruppamenti artificiali, vengono presentati come enti che condividono tratti comuni a più di una classe: la spugna, che ha tratti del vegetale e insieme dell’animale, il pipistrello, che fa parte ad un tempo della classe dei volatili e dei tetrapoda (quadrupedi), la foca, che è un animale acquatico, ma anche terrestre.98 Molti studiosi – come ad esempio lo stesso Lloyd – hanno messo in evidenza l’estrema elasticità, da parte dello Stagirita, nel considerare quelle che appaiono come le manifestazioni più strabilianti della natura o comunque i dati problematici (o anche favolosi).99 È stato comunque Arnaud Zucker a mostrare come gli animali che amphoterizousin (alla lettera “che stanno dall’una e dall’altra parte”), lungi dall’essere presentati come enigmi biologici o come eccezioni rispetto ad una regola tassonomica, sono considerati dallo Stagirita, all’interno del paradigma di continuità progressiva riscontrabile nelle sue opere, come esseri di intersezione fra diversi stadi della scala naturae.100 Interfacce fra due classi, questi animali si presentano come gradini di una continuità che non si interrompe e di una natura che sembra non procedere mai per salti da una classe ad un’altra: essere con le zampe atrofizzate, la foca è l’anello di raccordo fra i pesci e i quadrupedi, quadrupede imperfetto da un lato ed animale superiore ai pesci dall’altro.101 Un paradigma, questo, che – mutando le classi di riferimento – si può ripetere per il pipistrello, lo struzzo, la stessa spugna.102 97. Sulla separazione fra umano e animale (privato del logos) come pensata all’interno del regno animale cfr. comunque Labarrière 2005, spec. 225 ss. 98. Per la foca e il pipistrello (spesso trattati in coppia) cfr. ad es. HA 492 a 25 s.; 498 a 31 s.; 487 b 23 ss.; 490 a 5-8; 501 a 22; 566 b 27; 594 b 28-30; PA 697 b 1 ss.; GA 781 b 23; IA 714 b 10 ss. Per la spugna cfr. invece HA 487 b 9; 548 a 28 ss.; PA 681 a 11. 99. Cfr. Lloyd 1996, spec. 82 ss. (ma si vedano anche Li Causi 2002, 136 ss. e Li Causi 2003, 136 ss. per i dati più marcatamente paradossali e “favolosi”). 100. Cfr. Zucker 2005, 224 ss. L’atteggiamento aristotelico rispetto agli ibridi classificatori sembra confermare peraltro una tendenza comune a tutte le classificazioni popolari, che consiste appunto nel normalizzare con estrema facilità le eccezioni (cfr. a tale proposito Sperber 1975, 5 ss.). 101. Cfr. Zucker 2005, 227. 102. Per lo struzzo cfr. PA 697 b 14 ss.; GA 749 b 17.

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3.4. L’eredità di Aristotele. Caratteristiche della zoologia di età alessandrina (ed imperiale) 3.4.1 Gli speciemi-generici (e i temi) prima di tutto: Teofrasto ed Aristofane di Bisanzio È stato per molto tempo un luogo comune quello di considerare le trattazioni post-aristoteliche sugli animali come frutto di una sorta di medioevo zoologico, come prodotti di approcci privi di metodo e quindi – di conseguenza – manchevoli di qualsivoglia dignità “scientifica”.103 In realtà, però, nel suo lavoro più recente, Arnaud Zucker ha cercato di smontare questo pregiudizio, mostrando come invece gli esiti successivi all’opera di Aristotele siano da vedere piuttosto come in linea di continuità rispetto al suo programma. Zucker, in particolare, mostra come la moriologia – diversamente da come la pensa Pellegrin – non fosse il fine ultimo dello Stagirita, ma una sorta di esito intermedio per arrivare a quella che sarebbe dovuta essere una trattazione monografica o tematica su singoli animali.104 A confermare questa ipotesi, peraltro, oltre alcune evidenze interne all’opera di Aristotele, è proprio l’opera di Teofrasto, suo allievo e immediato successore nella direzione del Peripato. Questi, infatti, parallelamente alle ricerche sulle piante e sui minerali, in cui viene replicato il piano di lavoro sistematico della zoologia del maestro, conduce, in singoli trattati divisi l’uno dall’altro, una serie di ricerche su temi specifici (le differenze di voci degli animali, la “gelosia” degli animali, le differenze degli animali legate al luogo, etc.).105 I temi che Teofrasto tratta – e l’approccio – non sono del tutto originali. Già Aristotele, infatti, aveva disseminato, nelle sue opere biologiche, osservazioni su simili argomenti, così come già nei Problemi era presente il metodo di affrontare singole tematiche di storia naturale attraverso l’individuazione di cause isolate. Gli esiti cui però si giunge adesso sono del tutto diversi: la configurazione di quelle che Zucker ha chiamato “classi trasversali” fa infatti sì che il taglio della trattazione sia sempre meno biologico e sempre più di natura etologica. Gli animali, nella prospettiva teofrastea, che prende piede e va affermandosi in età alessandrina, smettono di essere “oggetti” di studio e cominciano a diventare per la prima volta soggetti psicologici 103. È stata questa, ad es., la posizione di Vegetti 1979, 66. 104. Cfr. Zucker 2005, 138 s. (che basa la sua argomentazione su PA 644 a 29 s.) e Pellegrin 1990, 37 ss. 105. Per i titoli dei trattati monografici di Teofrasto cfr. D. L. 5, 49-50 ed Ath. 2, 63 c; 3, 105 d; 7, 314 b-c; 7, 312 b; 7, 317 f; 9, 387 b.

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autodeterminati dei quali è possibile investigare le azioni e le motivazioni, in quello che sempre più diventa uno “specchio dell’uomo” da trattare anche secondo modalità ludiche ed “affettive”.106 Al contempo comunque, laddove cominciano ad essere “soggetti”, gli animali diventano anche oggetto di approcci parziali e pratici, secondo un processo di spezzettamento tematico, come avviene nelle varie trattazioni di dietetica e di gastronomia, di iologia, di alieutica, di cinegetica, che anziché considerare gli animali secondo una prospettiva sinottica e sintetica, valorizzano gli aspetti specifici e monodimensionali dell’indagine.107 Quello che insomma si realizza, molto più che un’involuzione, è una sorta di riorganizzazione epistemologica, che comunque affonda pur sempre le sue radici nell’eredità del Peripato.108 L’enorme mole di dati sviluppata nelle opere biologiche di Aristotele è ormai diventata, più che un modello teorico, una sorta di repertorio da sfruttare per condurre indagini sempre più specialistiche su singoli temi e a partire da prospettive sempre più specifiche e analitiche. In questo quadro, la classificazione del mondo dei viventi, laddove sarà presente, risulterà sempre più orientata dall’interesse pratico e dall’angolo visuale di riferimento (le diete, l’arte culinaria, la vivisezione) e sempre di più la tassonomia – e l’uso dei classemi più in generale – sarà vista come un oggetto di specifico interesse filosofico (logico e metafisico), che uscirà definitivamente – fino a Linneo e ai sistematisti moderni – dal campo di interesse della zoologia.109 Così come cambieranno le finalità, comunque, cambieranno anche le forme della trattazione, che saranno sempre più pratiche e aperte, fino al punto di sostituire alle rubriche delle determinazioni aristoteliche (bioi, praxeis, ethe, moria), l’uso – sperimentato a partire dai lessici specialistici dei filologi alessandrini – dell’elenco alfabetico degli animali.

106. Su Teofrasto cfr. Zucker 2005, 255 ss. 107. Per un quadro generale su questo genere di opere cfr. Zucker 2005, 270 ss. (Mnesiteo e la convergenza fra dietetica e gastronomia); 282 ss. (l’ittiologia e l’alieutica); 292 ss. (Galeno e la medicina). 108. Così anche Parker 1984, 175. 109. Zucker 2005, 303 fa notare come le riflessioni sulla classificazione in seno al Peripato, dopo Aristotele, avverranno sempre in ambiti che riguardano la metafisica e la logica, e mai la zoologia. Il fatto poi che l’opera zoologica fosse considerata dagli allievi del Peripato così autoevidente da non necessitare forme di commento è testimoniato dal fatto che i primi commentatori delle opere biologiche compaiono durante l’età bizantina (Filopono e Michele di Efeso). Tutt’al più si avranno riassunti, come quello di Aristofane di Bisanzio. Per un quadro sulla sistematica di età moderna cfr. Atran 19962, 123 ss.

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Un esempio assai eloquente è poi l’opera di Aristofane di Bisanzio, che scriverà un’Epitome dell’opera biologica di Aristotele.110 In quest’opera si comincia elencando alcuni classemi sviluppati dallo Stagirita (Epit. 1, 1, 1 ss.), dopo di che, dopo avere trattato una sola delle praxeis prese in considerazione nella Historia animalium (la generazione), si dichiara di omettere lo studio dei larvipari, perché costituiscono una classe infima «che non merita di essere studiata» (Epit. 1, 155, 2, 3: o‹k ©xion Üstoràaj). Quello che si afferma così è un criterio di importanza differenziale nella classe dei viventi, che permette a suscettibilità simboliche antropocentrate di diventare filtro per la selezione degli argomenti all’interno di opere specialistiche (un criterio, questo, su cui si regolerà ad esempio Plinio il Vecchio per sistemare i dati). Dopo avere parlato nel primo libro delle funzioni della riproduzione, Aristofane passa nel secondo libro a parlare di vivipari e nel terzo e nel quarto di ovipari. Il corso della trattazione segue però un percorso del tutto aleatorio. L’organizzazione tematica infatti viene abbandonata e si comincia a procedere animale per animale. I classemi dunque – come fa notare Zucker – lungi dall’essere insiemi artificiali ritornano alla funzione – che era già stata tipica della letteratura arcaica – di aggettivo qualificativo. Non esistono più gli amphodonta (animali con due file di denti) come classe artificiale, bensì – ad esempio – l’elefante che è un amphodon e polyschides (con il piede scisso) che ha due denti aguzzi sopra (cfr. Epit. 2, 68).111 Se pertanto nell’opera biologica di Aristotele, pur essendo gli speciemi generici la sede dell’ousia, era comunque il livello delle correlazioni fra esse che veniva investigato, adesso, a partire dall’età alessandrina (ma già – come si è visto – da Teofrasto) gli animali diventano da un lato vero e proprio oggetto del discorso e strumento di apertura aleatoria dello stesso, dall’altro “soggetti” le cui azioni sono da investigare. 3.4.2 La paradossografia e il dibattito sull’intelligenza degli zoia. Eliano e Plinio Un altro dei filoni della zoologia post-aristotelica è quello della paradossografia. L’iniziatore del filone è unanimemente considerato Antigono di Caristo, che lavora – a partire da quell’immenso repertorio che era diventata la summa biologica aristotelica – selezionando i dati e privandoli del loro contesto eziologico.112 110. Per Aristofane di Bisanzio cfr. Zucker 2005, 305 ss. le cui osservazioni riporto nel testo principale. 111. Cfr. Zucker 2005, 310 s. 112. Per un quadro generale sulla paradossografia antica cfr. Giannini 1963, 246 ss. e Giannini 1964, 99 ss.

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Antigono, in altri termini, elimina i commenti più strettamente biologici e particolarizza le notizie, isolandole e facendole diventare fonte di meraviglia; il tutto con il crisma dell’autorità che proviene da Aristotele, che spesso viene citato come fonte che avvalora la veridicità di ciò che viene detto.113 Le notizie che colpiscono, comunque, come avviene con Aristofane di Bisanzio, sono sempre presentate in ordine sparso. Il discorso è parcellizzato, aleatorio e puntiforme e l’effetto che crea nel lettore è – attraverso la logica dello “strano ma vero” – quello di suggerire l’immagine di una natura estremamente creativa nel disporre, sullo scenario del mondo, nature sempre più singolari, sempre meno correlate fra loro e sempre meno correlabili attraverso il sistema sintetico delle diaphorai. La logica della parcellizzazione, peraltro, si trasmette sempre di più anche al dibattito filosofico sull’intelligenza degli animali che coinvolge gli Stoici da un lato – sostenitori dell’assenza di intelletto in quelli che appunto sono chiamati aloga – e gli Accademici dall’altro, il cui esponente di punta è Plutarco, che in una serie di trattati monografici (il De esu carnium, il Bruta animalia ratione uti, il De sollertia animalium) riconosce invece forme di logos negli zoia.114 Chi interviene nel dibattito usa spesso i medesimi exempla tratti da un repertorio comune e interpretati e commentati in senso diametralmente opposto (è il caso del cane che sceglie la sua strada di fronte a un bivio, che viene usato come esempio tipico di comportamento istintivo da un lato e come segno di capacità logico-deduttive dall’altro).115 In ogni caso, ancora una volta – secondo una logica che è comune a tutti i discorsi zoologici post-aristotelici – gli animali non sono più parte di un sistema, ma sono casi singoli e personificati, se non addirittura casi limite usati all’interno di un genere epidittico che mira a persuadere il lettore ora dell’una ora dell’altra tesi, figure esemplari atte a rifondare in un senso o nell’altro l’identità di una classe tutta – quella degli zoia – che viene contrapposta, per mezzo di nuo-

113. Cfr. Jacob 1981, 121 ss. (ma vedi anche Zucker 2005, 311 ss.). 114. Per il dibattito sull’intelligenza animale, oltre che Dierauer 1977, spec. 199 ss. e Sorabji 1993, 7 ss. segnalo i vari interventi di Labarrière (ad es. Labarrière 1990, 405 ss.; Labarrière 1997, 259 ss.; Labarrière 2000, 107 ss.; Labarrière 2003, 13 ss.), raccolti in Labarrière 2005. Sul dibattito intervengono anche autori latini come ad esempio Cicerone (per cui cfr. Rocca 2003, 11 ss.), ma anche Lucrezio (per cui rimando ad es. a F. Tutrone, Lucrezio, gli animali, la guerra, in corso di pubblicazione negli atti del Convegno Zoomania. Animali, ibridi e mostri nella cultura antica, svoltosi a Siena il 4 e il 5 giugno del 2007). 115. Cfr. ad es. Plu. De sollertia animalium 969 B 6 ss. (ma anche S. E. P. 1, 69; Ael. NA 6, 59; Porph. Abst. 3, 6). Su questo passo cfr. D. Magini in Del Corno 2001, ad l.; Dierauer 1977, 222 e Sorabji 1993, 26.

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ve e contrastanti forme di enfatizzazione prospettica, a quella degli anthropoi, gli uomini. Anche se diventa soggetto autonomo ed intraprendente, l’animale continua a servire un quadro sempre più antropocentrato, in cui la riflessione sulle virtù animali è di fatto un portato della riflessione sulla virtù tout court. La logica che prevale in ogni caso non è mai quella del sistema, ma per così dire quella del “ritratto”, più o meno eticizzato, di quelle figure singole e singolari che sono diventate gli animali. Una logica, questa, che – anche attraverso il lavoro di abili divulgatori latini come Turranio Gracile, Trebio Nigro o Valeriano, ma anche naturalisti seri come Alessandro di Mindo116 – finisce per influenzare anche opere enciclopediche di più ampio respiro, come ad esempio il De Natura animalium di Eliano o la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Civis Romanus nato a Preneste, Eliano scrive in greco una monumentale opera il cui obiettivo principale è quello di indagare, appunto, le caratteristiche di singoli animali, che però si trovano disperse nel corso dell’opera e a volte trattate in libri differenti. Le notizie raccolte sono di varia natura, ma tutte hanno il medesimo fine: stupire il lettore e, nella maggior parte dei casi, farlo riflettere su come gli aloga, che quindi – secondo la prospettiva cara agli Stoici – non hanno ragione, siano molto più capaci degli uomini – che invece sono muniti di logos – di comportamenti morali.117 Benché la mole dell’opera si avvicini ad eguagliare, in quantità di pagine, quella di alcuni lavori biologici di Aristotele, ogni traccia del quadro interpretativo del filosofo di Stagira è comunque scomparsa. L’animale non è più oggetto di indagini fisiche, chimiche e moriologiche. Più che l’ousia degli animali, come fa notare Arnaud Zucker, la nuova zoologia di Claudio Eliano si occupa delle physeis, dove il termine physis non indica più il medesimo oggetto passibile delle indagini eziologiche dei Presocratici, ma è diventato sinonimo di idiotes, ovvero di “particolarità” da descrivere affastellando notizie su notizie.118 Lo zoion, con Eliano, diventa pertanto un essere psicologico più 116. Turranio Gracile, Trebio Nigro e Valeriano, dei quali non ci è giunta alcuna opera, sono espressamente citati come fonti da Plinio (nat. 9, 11; 9, 89; 9, 92-3; 10, 5). Su di loro, e sul rapporto con Plinio, cfr. Romano 1994, 11 ss. Su Alessandro di Mindo, figura di naturalista che però non disdegna talvolta i toni paradossografici, usato come fonte da Eliano, cfr. Wellmann 1891, 481 ss. 117. Per Eliano, cfr. ad es. – oltre che le considerazioni presenti nell’Epilogo e nel Prologo dell’opera – NA 4, 1, in cui si cita l’esempio della pernice che non sopporta di lasciarsi sconfiggere da un avversario davanti allo sguardo del partner (a tale proposito cfr. Li Causi 2003, 261 ss., con la relativa bibliografia citata). 118. Cfr. Zucker 2005, 317 (ma vedi anche Zucker 2001-02 per una pregevole edizione con commento di Eliano).

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o meno assimilato all’uomo, non più però – come accadeva ad esempio con il frammento della ginecogonia di Semonide o nella favolistica119 – attraverso un percorso simbolico e intuitivo, ma attraverso una esplorazione che pretende di essere apertamente naturalistica e che affonda le sue radici nella filosofia. Un discorso analogo si può fare per Plinio il Vecchio, che, all’interno della sua monumentale enciclopedia, che costituisce la summa del sapere romano, inserisce una vasta sezione di ben quattro libri sulla zoologia (VIII, IX, X e XI). Ognuno dei libri è dedicato ad una forma di vita (FV), l’VIII ai quadrupedi, il IX agli animali acquatici, il X agli uccelli. L’XI libro rompe comunque l’ordine tematico delle classi naturali, dal momento che la prima sezione è dedicata agli insetti, il resto invece alle parti degli animali, che però non vengono trattate in un quadro sistematico e rigidamente moriologico, bensì secondo un ordine, che, analogamente a quanto accade con la paradossografia, si rivela aleatorio. Se poi le classi naturali delle FV si susseguono in ordine libro per libro, all’interno di ogni macrosezione, ancora una volta si preferisce il discorso sparso isolando uno speciema generico per volta e affastellando a proposito di esso marche di identificazioni e le più disparate notizie curiose.120 La logica di Plinio, molto più di quanto accade per Eliano, è una logica dell’inventario. La finalità di elencare tutti gli esseri esistenti nel mondo non si traduce però in una esigenza di classificarli. Plinio, infatti, utilizza in maniera disinvolta e asistematica la coppia di termini formata da genus e species, che pure nella riflessione dei grammatici e dei retori latini aveva ricevuto – su impulso dell’opera logica di Aristotele – una sistemazione teorica.121 L’elenco degli animali più strani di tutte le parti del mondo risulta semmai il portato della logica della parata e del trionfo: mostrare agli occhi del lettore il potere cognitivo di Roma, che ha svelato oggetti ed enti di natura che si sottraevano allo sguardo della civiltà e che ora possono finalmente sfilare in pompa magna per le strade dell’Urbe o essere esibiti nei circhi.122 119. Cfr. Fr. 7 West, su cui cfr. Lanata 2000, 7 ss. e Zucker 2005, 319 s. 120. Per l’opera di Plinio più in generale cfr. Beagon 1992, spec. 124 ss. per la zoologia, e Naas 2002. Per le marche di identificazione nella sezione zoologica cfr. Bodson 1997, 331 ss. 121. Sulla classificazione “asistematica” in Plinio – e sull’uso dei termini genus e species nella sua opera rimando a P. Li Causi, I genera del genus (e le species), cit. 122. Cfr. a questo proposito Citroni Marchetti 1991, 73; Romano 1998, 137 ss.; Li Causi 2003, 202 ss. (con relativa indicazione di passi). Ma, per il metodo di lavoro di Plinio, cfr. anche Naas 1996, 305 ss. e 2002, 69 ss.

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Se però Roma, nella sua capacità di “vedere” ogni essere esistente viene equiparata alla Natura, la Natura, personificata, ha in più la capacità di continuare la sua opera creatrice e metamorfica.123 L’enumerazione di tutti gli animali del mondo è infatti – come ammette Plinio stesso – un’impresa illusoria, dal momento che la Natura, soprattutto ai margini del mondo, produce sempre qualcosa di nuovo (e soprattutto di “singolare”).124 Ecco dunque che a secoli di distanza rispetto alle elaborazioni dei Presocratici, il mondo dei viventi ritorna ad essere – seppure a partire da prospettive completamente diverse – un magma in continua trasformazione, un oggetto instabile e metamorfico.

4.

Conclusioni

Il quadro che emerge da questa ricognizione condotta su due fronti (le percezioni immediate del senso comune da un lato e le teorie riflesse dall’altro) è ovviamente frastagliato e rischia di risultare perfino dispersivo. È tuttavia possibile evidenziare alcune costanti che sembrano essere in comune sia allo sguardo settoriale della “zoologia” specialistica antica sia a prospettive che sono più immediatamente riconducibili al senso comune. È vero che soprattutto il discorso aristotelico è un discorso che mira a “deculturalizzare” e “delocalizzare” la forma visibile degli animali, rendendoli spazi neutri e oggettificati e che, attraverso le generalizzazioni permesse dal sistema dei raggruppamenti, con la sua opera comincia uno sforzo di investigazione di zone e temi fino ad allora poco frequentati (le parti interne, le funzioni, le cause).125 In entrambi i casi, comunque, come si è visto, il sapere sugli animali è sempre un sapere macroscopico e fisico molto più che microscopico e “chimico”. A prescindere dai punti di vista e dalle maniere di organizzare il discorso (che possono essere più o meno strutturate o sistematiche o più o meno lontane dal senso comune), l’animale in Grecia e a Roma è sempre e comunque un oggetto che si guarda (o, nel caso di Plinio, si “mostra”) e di cui – soprattutto se “lontano” – si “sente parlare”, così come – proprio perché ha un ethos, oltre che un bios, dei moria e delle praxeis – può diventare un soggetto che agisce di cui raccontare le azioni e le peculiarità. L’animale, in altri termini, si può tra123. Sul processo di personificazione della natura nel mondo antico cfr. Hadot 2006, 15 ss. (per Plinio cfr. spec. 24 ss.). 124. Cfr. nat. 32, 143 (su cui cfr. Li Causi 2003, 72 n. 168 e 212 n. 44). 125. Cfr. par. 3. 3 di questo cap.

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sformare in un “personaggio” che funge – ora attraverso il filtro della filosofia, ora intuitivamente (come accade nelle similitudini omeriche o nelle ginecogonie) – da specchio dell’umano, quando non, addirittura, da antagonista o modello esemplare per l’uomo stesso. A questa sua natura di “specchio”, è legato comunque anche il dato dell’immediata contiguità ontologica e biologica fra l’antroposfera e la zoosfera, una contiguità che fissa al contempo una continuità che viene spezzata – o “orchestrata” in maniera assiologica e antropocentrica – soltanto quando ci si sposta sul versante antropologico e culturale, quando cioè si deve marcare su un piano etico o comunque ideologico una distanza da un “parente scomodo”, che può venire rappresentato, appunto, come un umano degradato. Ci sono comunque altri due dati che a me sembra opportuno mettere in rilievo e che – come si vedrà più avanti – influenzano di peso le credenze relative all’ibridazione. Il primo è quello che riguarda la topicità dell’animale, il quale – ora sulla base delle investigazioni fisiche sulle polarità degli elementi (caldo/freddo, secco/umido, etc.) ora sulla base di luoghi comuni – viene sempre visto come un oggetto sistemico che intrattiene relazioni biunivoche con i luoghi in cui vive e la cui natura può essere determinata proprio da questi luoghi. Il secondo dato è invece quello che riguarda la natura instabile e metamorfica della realtà; visione, questa, che, come un fiume carsico, emerge con i Presocratici e ritorna in superficie con le nuove concezioni diffuse della Natura (e della Physis) che emergono in età imperiale (ad esempio in Plinio). Sarà proprio questa idea dell’instabilità della natura che, come vedremo, favorirà la circolazione incontrollata di credenze relative agli ibridi di uomo e animale. Prima di potermi occupare di essi sarà però opportuno cercare di capire quali sono gli atteggiamenti relativi all’ibridazione che è possibile evidenziare in seno alla cultura greca da un lato e in seno a quella latina dall’altro.

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CAPITOLO 2

Pensare gli ibridi nella cultura greca: caselle opache, animali antonomastici, metafore

«Gli animali sono creature con le quali non pratichiamo il sesso, è in questo modo che li distinguiamo da noi. Il solo pensiero di praticare il sesso con loro ci fa rabbrividire. È a questo livello che sono impuri, tutti quanti. Non abbiamo niente a che spartire con tutti loro. Teniamo separato il puro dall’impuro». J. M. Coetzee, La vita degli animali «Umano atto animale» P. G3. R., Casi difficili

1.

Koinogonia e “generazione in comune”: il lessico (opaco) dell’ibridazione in Grecia

È chiaro che i Greci avevano i loro ibridi, primo fra tutti il mulo. Ciononostante non esiste nella lingua greca un termine che possa essere sovrapponibile all’italiano “ibrido”. Solo nel caso del Politico di Platone incontriamo un aggettivo sostantivato che in qualche modo potrebbe risultare sovrapponibile e che dunque potrebbe fare pensare all’esistenza di una categoria esplicita: si tratta di koinogenes, che troviamo menzionato nella seguente battuta posta da Platone in bocca allo Straniero: «Vuoi dunque dividere in base all’unghia fessa e, come si dice, all’unghia unita, oppure sulla base della koinogonia e dell’idiogonia?». (Pl. Plt. 265 d 9-10)

L’ambito del discorso è chiaramente dicotomico e l’asse di divisione che dovrebbe strutturare la diairhesis richiede che si distingua71

no diversi insiemi di esseri in base al criterio della riproduzione. Mentre la koinogonia indica il frutto di un accoppiamento in comune fra esseri appartenenti a gene diversi (ciò che noi comunemente chiamiamo riproduzione incrociata), la idiogonia indica il prodotto dell’accoppiamento di esseri – appunto – del medesimo genos.1 Se tuttavia Socrate il giovane ha bisogno di una definizione supplementare per potere scegliere fra le due alternative propostegli dal suo interlocutore, è molto probabile che i due termini in questione fossero neologismi platonici, o, comunque, parole di uso oltremodo raro al tempo in cui il dialogo viene ambientato (e probabilmente anche nel tempo in cui viene composto): «SOCR. G.: Che intendi dire? STR.: Intendo dire che i cavalli e gli asini per natura generano l’uno dall’altro (pûfuken ùx ¶llølwn genn≠n) … SOCR. G.: Sì! STR.: … invece gli altri animali mansueti che fanno parte del gregge dei glabri sono non mescolabili l’uno rispetto all’altro per genos (¶mig°j gûnei prÿj ©llhla)». (Pl. Plt. 265 d 12- e 5)

È dunque solo dopo avere ascoltato questa precisazione che Socrate il giovane sembra comprendere a pieno il significato del gioco classificatorio che gli viene proposto dallo Straniero. Cosa, questa, che ci permette di rilevare una prima differenza profonda fra i nostri usi linguistici e quelli degli antichi. Laddove noi abbiamo un termine dedicato (“ibrido” o anche “incrocio”), si intuisce chiaramente, sulla base del passo appena preso in esame, che, nella comunità di parlanti a cui fa riferimento Platone, per indicare l’ibridazione si fa ricorso a perifrasi che indicano più che altro il frutto di un processo, vale a dire ciò che viene prodotto dal generare l’uno dall’altro (ùx ¶llølwn genn≠n, ex allelon gennan) o anche del mischiarsi l’uno con l’altro o l’uno in relazione all’altro (prÿj ¶llølwn, pros allelon).2 Bisogna tuttavia ricordare che queste stesse formule erano tutt’altro che inequivocabili, dal momento che il generare ex allelon poteva indicare, anche per uno stesso autore, ora la riproduzione incrociata, ora la riproduzione sessuata tout court. Solo per fare un esempio, Aristotele, quando deve dire che gli animali dalla coda con lunghi crini (lophouroi) possono incrociarsi 1. Nel corso di questo capitolo, anziché utilizzare sempre la terminologia “lontana dall’esperienza” proposta dalle griglie antropologiche (per cui cfr. lo schema di p. 30), cercherò il più possibile di non tradurre i termini genos ed eidos. 2. Ex allelon genesis peraltro, oltre che indicare tecnicamente la riproduzione animale, può indicare in Aristotele la generazione degli elementi gli uni dagli altri, per riunione o per separazione (Metaph. 988 b 33).

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anche se sono di eidos diverso, dice per l’appunto che «si accoppiano e generano gli uni dagli altri» (‘ce›ontai kaã gennÒntai ùx ¶llølwn). E tuttavia, anche quando deve riferirsi alla riproduzione sessuata dei muli della Siria – che non devono essere confusi con i muli greci – parla sempre di generazione ex allelon: «Esiste in Siria un animale chiamato emiono (mulo); si tratta di un animale di un altro genos rispetto alle mule che vengono generate dai cavalli e dagli asini, ma ha il loro medesimo aspetto, come gli asini selvatici somigliano agli asini domestici, e derivano il loro nome da una certa rassomiglianza con la mula greca. Questi animali, come gli asini selvatici e come gli stessi muli, si distinguono per la loro velocità. Questi emioni, inoltre, generano l’uno dall’altro (gennÒntai ùx ¶llølwn)». (Arist. HA 580 b 1-6)

Se dunque Socrate il giovane riesce a capire quello che gli sta dicendo lo straniero non è perché questi gli spiega che la koinogonia è la generazione ex allelon di asini e cavalli. Detto così, infatti, avrebbe anche potuto lasciare intendere che la koinogonia fosse semplicemente la riproduzione sessuata tout court, da distinguere, ad esempio, dalla generazione spontanea.3 E dunque, per banalizzare, Socrate il giovane avrebbe pure potuto capire che la koinogonia avviene quando un cavallo genera un cavallo o quando un asino genera un asino, vale a dire quando un animale genera un essere del medesimo genos o del medesimo eidos attraverso l’accoppiamento di un maschio con una femmina. Quello che rende comprensibile il termine koinogonia è piuttosto la definizione del suo contrario: l’idiogonia, vale a dire la riproduzione degli animali non mescolabili l’uno rispetto all’altro per genos. Generare ex allelon, dunque, non sembra essere un’espressione specializzata per la riproduzione interspecifica, ed indica semplicemente una coppia di elementi che fanno qualcosa in comune. E questi elementi possono essere ora due zoia di sesso diverso appartenenti al medesimo genos, ora due esseri di due diversi gene.4 Una cosa analoga, del resto, avviene anche per il verbo meignumi (mischiare) e per altri termini che ne condividono la radice; termini che, a seconda del contesto, possono indicare ora l’atto sessuale in sé, ora la riproduzione incrociata. Solo per fare un esempio, fra le occorrenze che mi è stato possibile reperire in questo ambito a partire dall’investigazio3. Cfr. ad esempio Arist. Pr. 898 b 4-5, dove per generazione ex allelon si intende proprio la generazione sessuata, da distinguere da quella spontanea. 4. Fra i passi raccolti con l’ausilio del TLG mi limito unicamente a citare Pl. Phd. 71 b 9 (per la generazione sessuata); Arist. GA 759 b 20 s. (relativamente al problema della generazione delle api); Metaph. 988 b 31 (sul modo in cui i quattro elementi si generano gli uni dagli altri).

Capitolo 2. Pensare gli ibridi nella cultura greca…

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ne del TLG, vorrei ricordare un passo del De semine di Galeno (2, 1: 4, 603, 15 s. K) in cui, per riferirsi alla generazione interspecifica, il medico greco usa l’espressione ùpimixàa tÒn úterogenÒn zÎwn (epimixia ton eterogenon zoion: mescolamento di animali eterogenei), ove l’uso del genitivo di specificazione indica che il solo termine epimixia evidentemente non basta per fare capire che si intende parlare di ibridi.5

2.

Animali antonomastici: il mulo

La nozione di ibrido nel mondo greco risulta quindi oltre modo opaca. Pur essendo consapevoli dell’esistenza di processi di ibridazione, infatti, i Greci dovevano attivare dispositivi linguistici compositi e tendenzialmente non marcati per poterne parlare. Molto più comune, invece, era il ricorso ad animali che occupavano – per così dire – antonomasticamente quella che si presentava come una casella vuota o comunque – come si è già notato – tendenzialmente implicita. Dato, questo, che non ci deve stupire in una cultura in cui, come si è visto nel capitolo precedente, gli strumenti di classificazione – anche laddove il discorso diventa marcatamente settoriale – non si discostano di molto dalle griglie del senso comune e dalle tassonomie folk. È dunque naturale che ad un classema artificiale come potrebbe essere quello di “ibrido” (o, secondo il neologismo platonico, di koinogenes) si preferisca l’evidenza immediata degli speciemi generici. Gli animali che venivano usati in tal senso erano – solo per citarne alcuni – i cani-tigre dell’India, gli ibridi di cane e di volpe, ma soprattutto il mulo.6 Animale, quest’ultimo che Platone è costretto a citare per potere spiegare al suo interlocutore cosa sia un animale koinogenes. Allo stesso modo – per fare un altro esempio che a mio avviso è illuminante – Erodoto nel primo libro delle Storie racconta che, per profetizzare la nascita di Ciro, che sarebbe stato il frutto di un “incrocio” di due stirpi diverse, Apollo aveva alluso, per l’appunto, alla futura comparsa di un re-mulo.7

5. Cfr. anche Plu. De curiositate 520 C, che cita l’espressione euripidea (Fr. 996, 1 Nauck) symmikton eidos (forma mischiata) per indicare i mostri del foro dei prodigi a Roma (per cui cfr. Li Causi 2003, 202 ss.). 6. Cfr. ad es. Arist. HA 606 b 17 ss.; GA 746 a 29 ss. Per la credenza secondo cui gli tutti uccelli (ad eccezione delle aquile dette gnesioi) sono predisposti alla riproduzione interspecifica cfr. HA 619 a 8 ss. (per cui cfr. par. 4. 1 di questo cap.). 7. Hdt. 1, 91 (per cui cfr. par. 5 di questo cap.).

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Generare in comune

3.

Il mulo e la moicheia: incroci animali e adulteri umani

Se dunque il mulo è l’ibrido per eccellenza e per antonomasia, non penso che sia del tutto inutile, al fine di cominciare ad esplorare gli atteggiamenti culturali del mondo greco in merito all’ibridazione, fare emergere le suscettibilità simboliche che intorno a tale animale si concentrano. A tal fine, in questa sede, prenderò in esame un passo tratto dal De Natura animalium di Eliano in cui si riportano le parole di Democrito a proposito della nascita del primo mulo della storia: Democrito sostiene che il mulo […] non è un prodotto della natura (mø g™r f›sewj poàhma), ma un artificio fraudolento dell’intelligenza umana e del suo ardire adulterino (¶ll™ ùpinoàaj ¶nîrwpànhj kaã t’lmhj Èj ¨n eäpoij moicidàou ùpitûcnhma to„to kaã klûmma). Credo – dice il filosofo – che sia stato per un caso che una cavalla violentata da un asino l’abbia generato, e che gli uomini, avendo appreso da questo atto di violenza, siano arrivati ad avvalersene abitualmente per la produzione di muli. Egli dice che sono soprattutto gli asini libici di grossa taglia a montare le cavalle. Non però quando queste hanno ancora la loro criniera, bensì quando sono state tosate. Le persone che si intendono della monta di questi animali sostengono infatti che le cavalle non sopporterebbero di sottomettersi a tali stalloni quando si trovano ancora in possesso dell’ornamento della criniera».8 (Ael. NA 12, 16)

Il mulo è dunque poàhma […] t’lmhj Èj ¨n eäpoij moicidàou, vale a dire che è il frutto di una sorta di moicheia.9 O meglio, è frutto di una violenza occasionale, che, studiata e riprodotta dagli uomini, viene trasformata in qualcosa di simile ad un “adulterio”. Un adulterio che, peraltro, si presenta come seriale e sistematico.10 8. Cfr. Democr. A 151 DK. 9. Si ricordi – solo per fare un esempio – che in Menandro la protagonista della Perikeiromene (Glicera) viene tosata dal compagno Polemone proprio a seguito di una sua presunta relazione adulterina con quello che si rivelerà essere suo fratello. Si potrebbe dunque ipotizzare che l’accenno alla tosatura della cavalla nel passo di Eliano (NA 12, 16) rimandi ad una delle punizioni che si potevano infliggere alle donne sedotte. È comunque certo che la rasatura fosse una delle punizioni possibili per il moichos (cfr. ad es. Ar. Ach. 849). In ogni caso pare evidente che il taglio forzato dei capelli fosse un “marchio” di abbassamento di status (sull’acconciatura come cultural marker e segno di identificazione fisiognomica cfr. Bartman 2001, 1 ss.). 10. Voglio ricordare in nota che il mulo è una figura spesso associata, quasi metonimicamente, ai satiri nella pittura vascolare greca. In un caso addirittura, nel motivo iconografico del satiro che assale una figura femminile per usare su di lei violenza, il soggetto cavalca proprio un ibrido di cavallo e asino. Per il repertorio iconografico in proposito cfr. Isler-Kerényi 2004.

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Ora, è chiaro che il senso di questo passaggio dallo “stupro” all’“adulterio metaforico” (che è anche un passaggio dalla natura alla cultura) sta tutto nella strategia zooantropologica che l’autore vuole perseguire. Quando infatti Eliano – ripetendo le parole di Democrito – pensa all’adulterio della cavalla e dell’asino, intende in realtà alludere al fatto che è l’uomo, e non gli animali, a commetterlo – per così dire – “per interposto animale”.11 La logica che si può intravedere nel passo appena citato consiste nel mettere in atto un meccanismo che potremmo chiamare di proiettività rovesciata. La psicologa Mary Midgley ha spiegato come sia tipico dell’uomo scaricare sull’animale (o anche sullo straniero) le componenti inaccettabili della propria personalità, al fine di costruire un’immagine assolutamente positiva di sé e giustificare le proprie ritorsioni su quello che viene percepito come “altro”.12 Ebbene, in Eliano in molti casi avviene esattamente il contrario. Capita infatti molto sovente, nel De Natura animalium, che sugli aloga vengano ad essere proiettati non i vizi dell’uomo, ma le sue virtù, al punto che spesso è l’animale a comportarsi da “uomo ideale”, tanto che, quando agisce da bestia quale è, lo fa perché – come avviene in NA 12, 16 – ha introiettato (in parte anche subendoli) modelli umani. Ecco dunque che per pensare l’atto dell’asino che si accoppia con una cavalla è possibile fare ricorso al modello della moicheia o dello stupro, e, dunque, a qualcosa di culturale che si sovrappone alla naturalità del biasmos e la supera, come se l’animale non fosse capace, senza il modello e l’ingiunzione umani, di commettere atti – seriali – contro natura (una natura che – è bene ribadirlo – viene ovviamente intesa come norma ideale antropocentrata).13

4.

Uccelli adulteri e adulteri divini

La metafora della moicheia ricorre soltanto altre due volte nei testi che ho raccolto a partire dal CD ROM del TLG. Siamo dunque di fronte ad una attribuzione linguistica che non sembra essere particolarmente produttiva. 11. Sull’uso di animali “prossimi all’uomo” come estensione simbolica del suo operato si veda Franco 2003, 116 s. (da cui mutuo fra l’altro l’espressione fra virgolette). 12. M. Midgley, Perché gli animali. Una visione più umana dei nostri rapporti con le altre specie, Feltrinelli, Milano 1985 (cit. in Battaglia 1999, 17). 13. Il rapporto animale/umano che sembra sotteso alla lettura del passo si basa su una opposizione fra i due poli in termini di casuale/volontario e occasionale/seriale. Per il resto, sulla ferinità degli animali esotici (come ad es. il manticora) e l’uso zooantropologico degli animali familiari in Eliano rimando a Li Causi 2003, 261-268.

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Il dato quantitativo, tuttavia, non ci deve sorprendere, non solo perché la sua portata è sempre da ridurre alla perdita definitiva di gran parte del patrimonio librario antico, ma anche perché – come insegna Klyde Kluckhohn – sono spesso i rimasugli, le credenze marginali ad aprire gli squarci attraverso i quali è possibile indagare i meccanismi delle culture diverse dalla nostra.14 Al numero limitato di testimonianze, peraltro, si deve associare il fatto che queste si trovano depositate lungo un arco di tempo molto esteso, che va dal V sec. a. C. (Democrito) fino al II-III sec. d. C. (Luciano ed Eliano).15 4.1 L’aquila detta gnesios (e le proiezioni dell’ideologia ateniese) Il primo autore che dopo Democrito attribuirà la moicheia ad animali sarà Aristotele, in una sezione della Historia animalium in cui si fa cenno ad una strana teoria sulla filogenesi di tutti gli uccelli: «Esiste ancora un altro genos di aquila, vale a dire quella detta gnesios. Si dice infatti che queste aquile si distinguano dalle altre aquile e anche dagli altri uccelli perché sono le uniche ad essere, per l’appunto, gnesioi, vale a dire di razza pura. Gli altri gene sono frutto di mescolamenti e di adulteri l’uno per mezzo dell’altro (mûmiktai kaã memoàceutai ¤p’ ¶llølwn), sia che si tratti di aquile, sia di sparvieri, sia di uccelli di taglia piccolissima». (HA 619 a 8-11 – corsivo mio)

Il passo è inserito in un contesto in cui si parla delle differenti varietà delle aquile. Fra queste spicca, appunto, quella dell’aquila detta gnesios (“pura”, ma anche “legittima”), che, unica fra tutti gli uccelli, non è frutto di accoppiamenti interspecifici.16 Ebbene, per riferirsi a quella che noi chiamiamo ibridazione sarebbe bastato dire semplicemente che questo tipo di aquila non pratica la mixis hyp’allelon (il mescolamento l’uno dall’altro). Tuttavia la formula usuale viene arricchita con il riferimento alla moicheia, aggiungendo, quindi, un’ombra umana sulla classificazione che viene qui operata: gli altri uccelli praticano l’“adulterio” fra di loro, ma l’aquila gnesios no. Se dunque tutti gli altri uccelli sono nothoi, l’aquila gnesios, in quanto legittima, ha una stirpe pura e incontaminata.

14. Cfr. C. Kluckhohn, cit. (in Remotti 1990, 21). 15. Cfr. i passi citati nella sezione immediatamente successiva. 16. Una versione di questa credenza riportata da Aristotele si trova anche in Plin. nat. 10, 8. Sul termine gnesios, indicante il figlio legittimo e “puro” cfr. Ogden 1996, 14 ss.

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Non sappiamo sulla base di quale esperienza, o di quale logos, l’autore del libro (che per alcuni non è Aristotele)17 sia arrivato a questa conclusione “selvaggia”, tuttavia è curioso notare come la distinzione fra aquile gnesioi e il resto degli uccelli abbia qualche punto in comune con quella classificazione etnoantropologica secondo la quale ad Atene, a partire dal V secolo a. C., si comincia a operare una netta distinzione fra gli Ateniesi, visti come gli unici dei Greci ad essere puri per nascita e autoctoni, e tutti gli altri Greci, che invece sono percepiti come frutto di mescolanze continue.18 Come ha rilevato recentemente Daniel Ogden tale antropologia folk comincia a diventare “militante”, e a radicarsi nell’immaginario degli Ateniesi, proprio in concomitanza con la promulgazione della legge del 451 sulla cittadinanza; legge, questa, in base alla quale, come è noto, si nasce cittadini solo se entrambi i genitori sono cittadini, diversamente il bambino è un nothos, e, dunque, un non ateniese.19 Non so se sia pensabile dimostrare che il passo aristotelico in questione è stato direttamente influenzato dalle ideologie in voga nell’Atene periclea e postpericlea. Certo, un mero ragionamento cronologico potrebbe portarci a supporlo. E tuttavia – si sa – la cronologia, talvolta, gioca brutti scherzi. Una cosa, però, credo si possa affermare. Mi sembra infatti di poter dire che sia l’idea della famiglia ateniese come “fabbrica di autoctoni”, sia la distinzione fra aquile “pure” e aquile “adultere”, condividono una medesima strategia simbolica, che si basa sulla naturalizzazione di rappresentazioni culturali e, più in particolare, di norme ideali; una strategia secondo la quale soltanto gli esemplari perfetti di una classe possono essere ascritti a quella classe, laddove invece quelle che Dan Sperber chiama le “eccezioni statistiche” sono viste come oggetti problematici da porre ai margini della classificazione.20 Nel caso delle aquile, in particolare, opera più o meno esplicitamente una entozoologia che si va a modellare su quella che, per usare una formula dell’antropologo Francesco Remotti, potremmo chiamare una antropologia del giro breve, vale a dire una classificazione secondo la quale gli uomini si distinguono in “noi” dai tratti veramente umani e “altri” dalle connotazioni bestiali, malate, mostruose o, appunto, ibride.21 17. Sulla questione dei libri pseudo-aristotelici della Historia animalium – spesso attribuiti a Teofrasto – cfr. Zucker 2005, 263 ss., il quale fa notare che comunque gli antichi li consideravano scritti dal filosofo di Stagira. 18. Cfr. Th. 2, 36, 1; Lys. 2, 17-18; Pl. Mx. 237 b-d; D. 60, 4; Isoc. 4, 2425; E. fr. 360 Nauck, 5-13; Apollod. 3, 14, 1-2 e 5-6 (per cui cfr. Ogden 1996, 166 ss. e Loraux 1998, 41 ss.). 19. Ogden 1996, 166 ss. 20. Cfr. Sperber 1975, spec. 22 ss. 21. Cfr. Remotti 1990, 13 ss.

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Ebbene, l’aetologia del IX libro della Historia animalium, sarebbe dunque una sorta di aetologia del giro breve, secondo cui le “vere” aquile sono quelle che non si accoppiano per mezzo di altri uccelli e che non corrompono il loro sangue e la loro stirpe creando nothoi, vale a dire bastardi adulterini, ibridi.22 Ecco dunque che la metafora della moicheia, lungi dal veicolare nozioni e conoscenze specialistiche relative all’ibridazione, proietta un’ombra lunga umana che culturalizza – antropocentricamente – la natura e, vice versa, naturalizza una serie di norme ideali umane trasferendole al mondo degli animali. È così che la moicheia, vizio notturno che – secondo Aristotele – è tipico degli uomini arricchiti che pretendono di essere alla moda,23 diventa un tratto tipico di un genos nel suo insieme (tutti gli uccelli), mentre la “capacità di riprodurre esseri identici e puri”, che – è bene ricordarlo – sarebbe il fine ultimo a cui vorrebbe arrivare l’ideologia della generazione ateniese,24 si proietta come caratteristica naturale di una sola varietà di uccelli che si distingue da tutti gli altri. 4.2 Ibridi di donne e di dei: la generazione di Pan È comunque significativo che il termine moichidion venga usato anche da Luciano nel dialogo fra Ermes e Pan (DDeor. 8, 2) per fare riferimento al frutto di una nascita speciale rivisitata con toni grotteschi e paradossali. A qualificarsi come moichidion è Pan, che rivela ad Ermes, senza tanti giri di parole, di essere suo figlio: «PAN. Salve, o padre Ermes! ERM. Salve anche a te. Ma come faccio io ad essere tuo padre? PAN. Non sei per caso Ermes Cillenio? ERM. Eccome! Ma tu, come fai a essere mio figlio? PAN. Sono frutto di adulterio (moicàdi’j eÄmi), generato da te in una maniera del tutto eccezionale. ERM. Per Zeus, forse sei stato generato da un becco che ha commesso adulterio con una capra (trßgou äswj tinÿj moice›santoj aêga). Come fai infatti ad essere mio figlio con quelle corna, con quel naso, con quella barba irsuta e con le zampe e l’unghia fessa di un becco e con quella coda sulle natiche?». (DDeor. 8, 2, 1)

Ermes non crede a quanto gli dice Pan e ipotizza, per schernirlo, che il mostro che ha davanti a sé sia il frutto di un “accoppiamento adulterino” fra due ovini.

22. Sul concetto di nothos nel mondo greco cfr. Ogden 1996, spec. 14 ss. 23. Cfr. Rh. 1391 a 17-19; 1401b 24; 1416 a 24. 24. Cfr. Campese 1983, 16 ss.; Campese 1997, 96 ss.

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Pan, però, non ha tanta voglia di scherzare ed ha la ferma intenzione di essere riconosciuto dal suo padre naturale. «PAN. Puoi prenderti gioco di me quanto vuoi, o padre, ma facendo così non fai altro che gettare discredito su tuo figlio e su te stesso. Sei tu infatti che hai generato una prole simile, io non ho colpa. ERM. E allora dimmi anche chi è tua madre. O forse non mi sono accorto che stavo avendo una relazione adulterina con una capra? PAN. Non hai commesso nessun adulterio con nessuna capra. Cerca piuttosto di ricordare se non ti è capitato in Arcadia di usare violenza su una fanciulla libera. Che fai? Ti mordi il dito? Cerchi di ricordare? Non sai che rispondere? Sto parlando proprio di Penelope, la figlia di Icario». (DDeor. 8, 2, 1)

Ermes, però, ancora non è convinto. E si chiede come mai un dio possa avere generato un mostro simile ad una bestia. Ed ecco la risposta di Pan: «PAN. Ti riferirò il racconto che mi ha fatto la stessa Penelope. Quando mi spedì in Arcadia, infatti, “O figlio – mi disse– tua madre sono io, Penelope spartana, ma devi sapere che tuo padre è un dio, Ermes, figlio di Maia e di Zeus. E se sei cornuto e con le zampe da becco, non te la prendere a male. Quando infatti tuo padre si è unito a me, aveva assunto la forma proprio di un becco, per non essere scoperto. Per questo motivo tu sei venuto fuori simile a un becco”». (DDeor. 8, 2, 2)

Il riferimento alla moicheia è senza dubbio spia di un intento parodico dell’autore. È noto infatti che nel mondo antico gli “adulteri” degli dei non vengono stigmatizzati e dunque non vengono mai considerati alla lettera degli “adulteri”, proprio perché, al contrario – come si vedrà più avanti – sono atti fondativi di nobilitazione delle stirpi umane.25 Quella che viene condotta da Luciano è dunque una strategia di abbassamento e di umanizzazione comica del divino. È comunque interessante notare che la moicheia ancora una volta si intreccia con il biasmos – vale a dire con lo stupro e la violenza – e ad esso sembra sovrapporsi secondo un modello che appare analogo a quello che avevamo già visto per il caso della mula di Eliano. Soltanto che stavolta le cose sono un po’ più complicate. A praticare la moicheia interspecifica, innanzitutto, non sono semplici animali (come ha ipotizzato – e sperato fino all’ultimo – Ermes). Anzi, si potrebbe anche dire che gli elementi in gioco sono un po’ più di una

25. Ad es. il termine moicheia non viene usato mai in riferimento alle scappatelle di Zeus. Relativamente all’eugenetica delle ibridazioni di uomo e dio cfr. comunque par. 3. 1 del cap. 3.

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semplice coppia perfetta di non omofili. Non solo, infatti, ad accoppiarsi sono un dio e una donna, ma per di più il dio che si unisce alla donna, usandole violenza, assume forme teriomorfiche che riproduce nel figlio che ne viene fuori. La moicheia che entra in scena nel passo di Luciano è dunque un vero e proprio guazzabuglio genetico, una sorta di caos riproduttivo che coinvolge ben tre regni, quello animale, quello umano e quello divino, e che finisce per imbarazzare lo stesso Ermes, dio degli intrighi e dell’ambiguità, tanto che, al termine del dialogo, accetta di riconoscere il figlio illegittimo, ma lo prega di non diffondere la voce della sua paternità: «ERM. Sai, figlio mio, qual è il primo favore che mi puoi fare? PAN. Ordina, o padre; poi me la vedrò io. ERM. Vieni da me e mostrami il tuo affetto, ma bada di non chiamarmi padre, se qualcuno ascolta». (DDeor. 8, 2, 4)

La forma mostruosa di Pan in qualche modo è la cifra simbolica del destino di tutti i figli illegittimi nella Grecia antica: riconosciuti dai padri ma, di fatto, abbandonati a se stessi e privati dell’eredità e dei diritti civili.26 Mostri del genere non possono che essere “figli di donna”. Uno statuto, questo, che in Grecia viene avvertito come perturbante, se non addirittura come impossibile, visto che, secondo le teorie antiche sulla riproduzione, sono sempre i padri a generare, o comunque a dare il contributo più importante alla procreazione.27 Ed è proprio su questo zoccolo duro biologico (ma anche giuridico) che evidentemente sta giocando Luciano, il quale, nel momento in cui replica un modulo mitico tipico della tradizione greca, vale a dire quello che prevede l’unione di una donna mortale con un dio dell’Olimpo che ha assunto fattezze animali (penso ad esempio al mito di Europa o al mito di Leda),28 vi applica, razionalizzandolo in ma26. Per lo statuto giuridico dei bastardi nello sviluppo della legislazione ateniese cfr. Ogden 1996, 32 ss. 27. A tale proposito cfr. Lesky 1951, 1344 ss., Sissa 1983, 120 ss.; Pomata 1994, 299 ss.; Grimaudo 2003, 6 ss.; Bonnet-Cadilhac 1997, 92 ss. (si vedano però anche le osservazioni di Cooper 1990, 55 ss. sui movimenti dei katamenia femminili secondo Aristotele, che comunque non cambiano il quadro potentemente androcentrico individuato per l’embriologia antica dagli studi di Campese 1983, 15 ss.; Manuli 1983, 147 ss. e Sissa 1983, 81 ss.). 28. Héritier-Augé 1993, 131 ss., ha fatto notare che il contatto o l’unione con il mondo animale sembra essere, nella mitologia greca, tendenzialmente una prerogativa della donna. La studiosa, infatti, ha rilevato come nei racconti mitici di allevamento di bambini da parte di genitori ferini, gli animali che svolgono la funzione di nutrice siano per lo più mammiferi di sesso femminile. Analogamen-

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niera volutamente grottesca e paradossale, le leggi di natura del mondo degli umani; leggi secondo le quali, per l’appunto, la forma del figlio è determinata dal padre più che dalla madre.29 È la biologia, dunque, entrata di prepotenza nel mito, che inchioda Ermes. Il dio che si era trasformato in becco per non lasciarsi scoprire, lascia paradossalmente un segno evidentissimo del suo misfatto sul corpo di Pan, che è fatto della natura biforme che aveva il dio nel momento in cui lo ha concepito. Abbiamo dunque incontrato il primo dei tanti mostri interspecifici eccezionali che popolano l’immaginario degli antichi. Nel ribadire che è lungi dalle mie intenzioni esplorare sistematicamente le storie mitiche,30 un primo dato – sul quale tornerò più avanti – può essere comunque messo in rilievo: quel guazzabuglio genetico ed eccezionale che è Pan è frutto della zoorastia di una donna, della sua estrema disponibilità (forzata) a varcare i confini riproduttivi dell’antroposfera. Per il resto, rimane da capire perché nel caso di Ermes e di Penelope, ma anche nel caso del mulo e delle aquile, venga attivata la metafora della moicheia. Si tratta di vedere, in altri termini, quali sono i tratti che permettono al meccanismo metaforico di scattare, in che maniera operano e quali effetti simbolici producono. Per cercare di rispondere a queste domande, credo che non sia inutile rivedere, anche se in maniera sommaria, la definizione del concetto di moicheia.

5.

Come fanno gli animali a commettere adulterio?

I dizionari, in genere, traducono moicheia con “adulterio”. Tale traduzione, tuttavia, non è del tutto esatta e rischia di creare degli errori prospettici non indifferenti, dal momento che, laddove nell’accezione moderna l’adulterio è inteso come un atto compiuto insieme da un uomo e da una donna, nel mondo greco la moicheia è un crimine sessuale di cui solo il maschio è responsabile come parte attiva. Nella lingua greca, infatti, non esiste un corrispettivo femminile di moite, nel caso di simbiosi sessuali fra il divino e l’umano che avvengono mediante la metamorfosi in animale di un dio o nel caso di unioni fra esseri umani e animali tout court, a venire coinvolti sono sistematicamente mortali di sesso femminile. In altri termini, se nel mito greco è possibile che umani di sesso maschile si uniscano a dee (è il caso, ad esempio, di Venere e Anchise), non avviene mai che umani di sesso maschile si uniscano ad animali. Al contrario, sono sempre donne – come Pasifae o Leda – a praticare la zoorastia. 29. Cfr. n. 27 di questo cap. 30. Per le storie mitiche relative alle nascite speciali cfr. Romani 2004, 43 ss.

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chos (come avviene in latino, dove esiste, invece, il termine moecha), e, solo per fare un esempio, la donna che tradisce il marito non può essere indicata come “adultera”, bensì come complice della moicheia o, al passivo, come moicheuomene.31 Se però c’è consenso sul fatto che la moicheia sia da intendere come un crimine tutto al maschile, un vivace dibattito era sorto, all’inizio degli anni ’90, per definire l’estensione del termine nell’Atene classica, proprio in relazione alle figure femminili che potevano essere oggetto dell’attività del moichos. A tale proposito, David Cohen, in Law, Sexuality, and Society, aveva avanzato la tesi rivoluzionaria secondo cui, ad Atene, la moicheia era percepita unicamente come violazione dei confini maritali.32 Tale interpretazione si andava a scontrare con le conclusioni, divenute ormai classiche, di Kenneth Dover, secondo il quale l’atto del moichos, per la legge ateniese, era invece da intendere, secondo una accezione allargata, come seduzione di mogli, madri vedove, figlie non sposate, sorelle e nipoti di un cittadino.33 Questa tesi è recentemente tornata in auge, mentre non mi risulta che abbiano avuto fortuna le conclusioni di Cohen. In particolare, in uno studio del 1998, Cynthia Patterson corregge ampiamente le posizioni dell’autore di Law, Sexuality, and Society, proponendo, per la cultura ateniese (che costituirebbe così un unicum nel mondo antico), un ritorno all’accezione allargata della moicheia.34 Ciò che però a me sembra interessante è che la Patterson, nel confutare le tesi di Cohen, asserisce che il crimine della moicheia non sia da intendere principalmente come una violazione dell’onore del marito, quanto come un atto riprovevole che colpisce l’oikos sia nella sua sfera privata che nella sua sfera pubblica.35 Nel dimostrare questo, fra l’altro, la studiosa si basa sull’etimologia, largamente accettata, che riconduce il termine moichos ad omeicho, vale a dire “urinare”, inteso come forma gergale di sostituzione per “eiaculare”.36 31. A tale proposito Patterson 1998, 116-125, ma anche Cohen 1991, 99-100. 32. Cohen 1991, 99-130, il quale, benché riconosca la natura “maschile” della violazione, di fatto creava un forte senso di assimilazione fra la moicheia degli Ateniesi e il nostro “adulterio”. 33. Questa accezione allargata del termine è stata condivisa da quanti hanno studiato la moicheia dopo Dover 1974, 209. Fra questi Cantarella 1976, 131159 (per ulteriori informazioni bibliografiche vedi Cohen 1991, 101). 34. Oltre che la Patterson 1998, 116-125, all’interpretazione “estesa” di moicheia sono tornati, fra gli altri, Cantarella 1991, 289-296 e Johnston 2002, 250 s. 35. A tale proposito Patterson 1998, 115-25. 36. Per l’etimologia di moichos Chantraine 19992, ad l. A tale proposito la Patterson 1998, 122-125, si limita a rilevare come moichos sia un termine “volgare”, nobilitato, ai nostri occhi, dal fatto che venisse usato anche nei tribunali e

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Sulla base di questa etimologia, la Patterson corregge l’assunto di Cohen, secondo il quale, per i Greci il moichos sarebbe una sorta di “campione” di un gioco a somma zero, in cui chi conquista una donna vince tutto l’onore, chi invece non riesce a mantenerne il controllo perde tutto.37 E tuttavia, se da un lato si dimostra che, in quanto “urinatore”, il moichos non venisse affatto percepito positivamente dalla cultura greca, dall’altro lato non mi pare che l’autrice di The Family in Greek History, si preoccupi di ricostruire la “genetica selvaggia” che si cela dietro la concezione greca della moicheia.38 In altri termini, se dalle pagine del saggio della Patterson risulta chiaro che il moichos non è soltanto e semplicemente colui che tradisce la philia coniugale, o che la moicheia non sia da intendere unicamente come un “furto notturno”,39 rimane tuttavia inspiegato il motivo per cui, nell’immaginario dei Greci (e degli Ateniesi), l’adulteroseduttore sia percepito come un uomo che urina dentro una donna con la quale non gli è permessa alcuna relazione. A venire in nostro aiuto, a tale proposito, ci sono gli studi (compiuti prevalentemente sul versante latino) di Maurizio Bettini, Gianni Guastella, Lucia Beltrami e Francesca Mencacci, i quali hanno mostrato come l’adulterio nel mondo antico sia percepito come una colpa che ha come conseguenza la generazione di figli la cui identità risulta dubbia o composita (o anche, eventualmente, di gemelli eterozigoti).40

nelle leggi, senza però mettere in rilievo la “genetica selvaggia” che sottosta alla rappresentazione dell’adultero-seduttore come “urinatore”. Si noti peraltro che l’urina simboleggia la generazione di un figlio (e dunque un atto conseguente all’inseminazione) anche nella semeiotica onirica degli assiri (Oppenheim 1956, 265; Bottero 1982, 12). Patrizia Pinotti mi fa anche notare che l’atto dell’urinare è notoriamente un mezzo che alcuni animali usano per marcare il territorio, e quindi potrebbe essere interpretato – nel caso dell’adulterio – come un gesto simbolico per impadronirsi di un territorio altrui. Un’immagine, questa, che peraltro potrebbe coniugarsi facilmente con l’idea del ventre della donna visto come terreno fertile da arare (cfr. ad es. Plu. Cat. Mi. 25, 4). 37. Cohen 1991, 160-70. 38. Il fatto che il moichos venga percepito negativamente dalla cultura greca, dal mio punto di vista, spiega, ad esempio, il motivo per cui un dio che si accoppia con una donna mortale non viene mai chiamato moichos (per cui cfr. par. 3. 1 del cap. 3): il contatto con il divino infatti non può essere percepito come agente di contaminazione (a tale proposito si vedano ad es. le osservazioni contenute in Morb. Sacr. 13: 6, 386 L). Il moichos sulla base delle conclusioni della Patterson 1998, 122-5, sarebbe dunque sempre percepito come “di rango inferiore” rispetto alla famiglia di appartenenza della donna moicheumene. 39. Cfr. Cohen 1991, 99-130 e Patterson 1998, 116-125. 40. Guastella 1985, 49-123; Mencacci 1996, 10-18 e 37-46; Beltrami 1998, 42-56; Bettini 2002, 88-92. Per il mondo greco, inoltre, si veda anche Pomeroy 1978, 91 s., che individua nella moicheia una minaccia all’identità “familiare” di un individuo.

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Secondo l’etnobiologia degli antichi ricostruita da questi studi, nel caso in cui la donna violata fosse una donna sposata (secondo l’accezione ristretta), l’atto del moicheuein, per l’appunto, verrebbe a generare una vera e propria contaminazione, dal momento che il seme emesso dall’adultero andrebbe a mescolarsi con il seme del legittimo marito che ha impregnato in precedenza la donna che ha partecipato alla moicheia.41 Definire l’identità del nascituro sarebbe, quindi, in questo caso, un problema serio. Nella migliore delle ipotesi, infatti, il figlio generato dalla donna dovrebbe affrontare una serie di prove di identità per potere stabilire con certezza chi dei due inseminatori sia il suo vero padre. Nella peggiore delle ipotesi, invece, ci si troverebbe davanti ad un caso di vera e propria identità “ibrida” e corrotta, dal momento che, secondo la teoria folk dell’agglutinamento del seme,42 il bambino nato sarebbe – per usare un termine della biotecnologia contemporanea – una vera e propria “creatura mosaico”, in cui – per così dire – le “informazioni genetiche” del padre legittimo andrebbero ad agglutinarsi e confondersi con quelle che provengono dal moichos. In uno scenario del genere, peraltro, si potrebbe immaginare che il moicheuein potesse essere visto come un’azione “contaminante” anche nel caso in cui la donna moicheuomene non fosse ancora sposata (nel caso, cioè, in cui si dimostri l’uso di un’accezione allargata del termine). In un’eventualità simile, il seme-urina del moichos avrebbe infatti “macchiato” irrimediabilmente la linea del sangue del genos a cui la donna apparteneva.43 41. Per la teoria dell’agglutinamento del seme nel mondo antico Mencacci 1996, 14-18 e Bettini 2002, 92-99 (ma si veda anche Ogden 1996, 199-200, che però considera “dorica” la teoria della doppia immissione del seme). Si vedano comunque anche i passi presi in considerazione da Parker 1983, 95 n. 84 (in cui si fa riferimento alla “contaminazione” del letto nuziale): E. Hipp. 1266; Or. 575; Hel. 48; cfr. Hec. 365 s.; AP 3, 5, 2. Wilgaux 2006, spec. 344 ss. ha ipotizzato – sulla base di alcune occorrenze del termine symphyes – che nel mondo antico fossero diffuse teorie teleogoniche, in base alle quali si pensava (fino alla prima metà del XX secolo) che durante l’accoppiamento residui di liquido seminale maschile si andassero a depositare nel ventre della donna. Tale liquido, per l’appunto, avrebbe potuto fondersi con altro liquido seminale immesso successivamente. Una chiara prova della permanenza dello sperma maschile nelle vie genitali femminili è comunque in Gal. De semine 1, 2: 4, 515, 4 ss. K (per cui cfr. Bonnet-Cadilhac 1997, 111 ss.). 42. A tale proposito Bettini 2002, 92. 43. Per la logica della contaminazione cfr. soprattutto Guastella 1988, 68 ss. (che si occupa esplicitamente della “contaminazione della stirpe” conseguente all’adulterio nel mondo latino). Per rimanere sul versante latino, si ricordi che in Catull. 67, 29 s. risulta evidente l’associazione fra l’inseminazione dell’adultero e l’atto dell’urinare (egregium narras mira pietate parentem/ qui ipse sui gnati minxerit in gremium: «mi narri il caso unico e mirabile di pietas di un padre/ che ha “pisciato” nel ventre del figlio da lui generato»).

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È a partire da queste nozioni etnobiologiche che si può comprendere in che senso un animale possa essere un moichos. La generazione in comune l’uno con l’altro di speciemi generici animali differenti, infatti, è il frutto di una “violazione” di confini specifici operata da esseri non omofili. E gli effetti di tale violazione evidentemente sono percepiti come analoghi rispetto a quelli operati dall’adulterio degli umani, visto dai Greci (così come anche dai Romani) come un vero e proprio operatore di disordine e confusione parentale.44 Come i moichoi violano i confini di una casa e di una famiglia (di un genos)45 per accoppiarsi con una donna di proprietà di un genos diverso dal proprio, gli animali “adulteri” violano i confini del proprio genos per accoppiarsi con animali di gene diversi e generare esseri nuovi dai caratteri compositi (e contaminati), che non riproducono più i tratti tipici di una stirpe. Ma c’è ancora qualcosa di più. La proiezione umana del modello dell’adulterio ci lascia intravedere in trasparenza un’idea delle specie degli animali che si incrociano come poste su piani asimmetrici o comunque come collocate su una scala di valore. Se è vero, infatti, che l’adulterio per i Greci è un atto prevalentemente maschile che la donna “patisce”, di conseguenza la metafora della moicheia lascia intendere che, dei due animali di gene diversi che si accoppiano, ce ne è uno che è “l’adulteratore” e l’altro che è l’animale la cui stirpe – e la cui identità – vengono “adulterate”. Una differenza, questa, che è possibile rilevare, solo per fare un esempio, dalla lettura del testo di Erodoto cui sopra abbiamo accennato. Il Lossia – secondo la spiegazione che viene menzionata nel testo delle Storie – si è riferito a Ciro chiamandolo “il re mulo”, proprio perché questi «è nato da due genitori che non erano della stessa razza. Sua madre infatti era più nobile e il padre inferiore: la prima infatti era meda e figlia di Astiage, re dei Medi; il secondo invece era un persiano, dominato dai Medi, che, pur essendole inferiore in tutto, sposò la sua sovrana».46 (Hdt. 1, 91, 5-6)

Se dunque Ciro è un “mulo” è perché l’accoppiamento fra il rampollo di una stirpe dominata e una donna della razza dominante può essere pensato perfettamente nei termini di un accoppiamento tra un 44. Vedi n. 40 di questo cap. (e cap. 3) 45. Patterson 1998, 47. 46. La percezione “verticale” dell’ibridizzazione spiegherebbe perché, nel mito greco – ad eccezione di casi irriverenti e grotteschi come quello di Luc. DDeor. 8, 2 – gli dei che si accoppiano con donne mortali, come si è visto, non vengono mai chiamati moichoi: il seme degli dei, infatti, non “adultera” la stirpe, bensì (come del resto nota anche Bettini 1996, VII-XLIII) la nobilita.

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asino e una cavalla, in base ad un meccanismo totemico secondo il quale gli animali possono essere buoni a classificare gli uomini o i comportamenti umani.47 Tale meccanismo, comunque, può scattare – nel caso del testo di Erodoto – solo perché gli animali che vengono usati come “marcatori di classificazione” sono pensati dall’immaginario comune come posti su gradi diversi della scala naturae. In altri termini, laddove noi siamo portati a pensare banalmente l’ibrido – in senso lato – come un miscuglio generico di oggetti eterogenei, nella rappresentazione greca si attiverebbe invece uno schema secondo cui l’ibrido non sarebbe da leggere semplicemente come un animale dalla doppia natura, bensì come il frutto di un processo secondo cui la stirpe di un essere classificato come nobile o comunque superiore viene sminuita e – per certi versi – annacquata attraverso il contatto con il liquido impuro (il seme-urina) proveniente da un esponente di una stirpe meno nobile.48 Idea, questa, che – è bene precisarlo – non potrebbe esistere se non esistesse contemporaneamente una rappresentazione della natura vista ora come un insieme di opposte polarità (che esprimono un’opposizione fra semplice e complesso o, altrimenti, fra positivo e negativo, buono e cattivo), ora – soprattutto a partire dall’elaborazione filosofica del V sec. a. C. (e in special modo, come si è visto, con Aristotele) – come una vera e propria scala gerarchicamente strutturata in cui ci si sposta gradualmente dall’inferiore al superiore.49

6.

Umano atto animale: la generazione in comune

Fra gli animali e gli uomini vengono dunque istituiti dei canali di rispecchiamento che possono essere percorsi nell’uno e nell’altro senso. Come l’idea della scala naturae (o dell’opposizione bipolare maggiore/minore) è buona per marcare (e “naturalizzare”) le differenze sociali fra le stirpi nella società umana e – di conseguenza – per distinguere la classe delle donne “accessibili” da quella delle donne “non accessibili” (che di fatto nell’oracolo citato da Erodoto vengo47. Un meccanismo analogo è stato individuato da Lanata 2000, 17 per la famosa satira delle donne di Semonide (fr. 7 West). Si noti peraltro che nella medesima satira la donna di status elevato viene paragonata proprio alla cavalla (v. 57, ma cfr. anche Thgn. 993 ss.). 48. Relativamente al tabù della doppia natura per i Greci si vedano le considerazioni di Aristotele sull’impossibilità di esistenza del tragelafo: a tale proposito cfr. n. 32 cap. 1. 49. Vedi ad es. Pl. Ti. 91 e-92 a (su cui. duBois 1991, 135 e Pinotti 1994, 105-22), ma anche Arist. HA 539 a 6-8 (per la scelta di usare l’uomo, visto come metro di paragone rispetto agli altri zoia).

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no implicitamente pensate come “cavalle”), così l’adulterio degli umani diventa buono per pensare l’ibridazione degli animali. Ed in tal senso è interessante notare come proprio nel caso della metafora della moicheia il meccanismo analogico, basato, come si è già visto, su un effetto di proiettività, determini una sorta di straniamento che rende gli animali, appunto, altro da sé. Essi infatti, accoppiandosi al di fuori del proprio genos, diventano in qualche modo uomini (in senso figurato) per il fatto stesso che un tabù umano viene applicato ad essi e da essi (o meglio: per mezzo di essi) violato. È tuttavia curioso notare anche come questo modello conosca quella che potremmo chiamare un’inversione simbolica. Come infatti gli animali “adulteri” vengono per certi versi umanizzati attraverso il ricorso alla metafora, allo stesso modo gli uomini che cercano relazioni con gene diversi dal proprio assumono i tratti della bestialità.50 E questo non solo nel caso della zoorastia, vale a dire quando i gene diversi sono gene animali, ma anche nel caso delle semplici relazioni extramaritali che violano i confini delle case o delle famiglie umane (o, anche, nel caso in cui si uniscano uomini e donne facenti parte di famiglie di status sociali diversi). In altri termini, mentre l’adulterio degli animali umanizza, l’adulterio degli uomini, così come ogni altro crimine sessuale da essi commesso, in qualche modo viene percepito come una regressione allo stato ferino. Solo per fare un esempio, infatti, Aristotele, quando nell’Etica Nicomachea vuole spiegare il motivo per cui l’impetuosità (thymos) non è da ritenersi propriamente una forma di coraggio (andreia), opera un’interessante analogia proprio con i meccanismi che possono essere attivati dalla brama degli adulteri: «Anche l’impetuosità (îum’n) riconducono al coraggio (ùpã t¬n ¶ndreàan). Si crede abitualmente, infatti, che siano coraggiosi anche coloro che – come le belve che si scagliano contro chi le ha ferite – agiscono per mezzo dell’impetuosità, per il semplice fatto che anche i coraggiosi sono dotati di impeto. L’impetuosità del resto ha la facoltà di spingere in sommo grado ad affrontare i pericoli, tanto che anche Omero dice “vigore impresse al suo impeto” e “il furore e l’impeto destò”, ed inoltre “la violenza aspra salì su per le narici”, e poi ancora “ribollì il sangue”. Sembra infatti che tali espressioni vogliano alludere al risveglio dell’impetuosità e allo slancio. E dunque, se i coraggiosi agiscono in nome del bello, mentre l’impetuosità collabora con loro, le bestie invece agiscono spinte dal dolore, o perché sono state ferite o perché hanno paura. Esse infatti se si trovano in una foresta [o in una palude] non si spingono avanti. Non c’è dunque coraggio in loro quando, mosse dal dolore e dall’impetuosità, si spingono contro il pericolo senza preoccuparsi degli effetti tremen50. A tale proposito Bodéüs 1997, 247-58.

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di in cui possono incorrere. Se così fosse, del resto, anche gli asini sarebbero coraggiosi quando sono affamati, dal momento che non si allontanano dal loro pascolo neanche a forza di percosse. Ed anche gli adulteri, mossi dal desiderio sfrenato, compiono molte azioni audaci (kaã oÜ moicoã d° di™ t¬n ùpiîumàan tolmhr™ poll™ drÒsin)». (Arist. EN 1116 b 23-1117 a 2).

Mentre l’andreia è una virtù vera e propria, ed è tipica dell’uomo, il thymos in realtà è solo un analogon rispetto ad essa, e, aspetto più rilevante, è tipico degli animali. Gli animali, dunque, compiono azioni coraggiose non perché hanno coraggio, ma perché spinti dal thymos. Analogamente, gli adulteri osano azioni tolmerà, non perché dotati di andreia, ma perché guidati dall’epithymia. In una asserzione del genere gioca un parallelismo poco più che implicito secondo il quale il thymos sta agli animali così come l’epithymia sta agli “adulteri”. I moichoi vengono così spostati, da questa proporzione, nella colonna degli animali e le loro azioni audaci vengono equiparate alle azioni che gli animali commettono in preda all’impetuosità. La moicheia, quindi, viene concepita come una sorta di zona grigia di confine, come una pratica che sposta continuamente attributi dell’umano sull’animale e viceversa. Come un territorio di scambio e di passaggio in cui una pericolosa contiguità fra l’umano e l’animale si manifesta innestando meccanismi alterni di proiettività. Un fenomeno, questo, che viene permesso da una affordance particolare, vale a dire dal fatto che uomini e animali – il cui statuto ontologico non è concepito come divergente dai Greci, almeno in biologia51 – hanno in comune proprio la generazione:52 «È opinione comune che fra uomo e donna ci sia un sentimento di philia conforme a natura (filàa… kat™ f›sin). L’uomo, infatti, più che essere un animale politico è un animale portato a vivere in coppia, in quanto, rispetto alla città, la famiglia è qualcosa che viene prima ed è più necessaria. Inoltre la generazione di figli è cosa più comune agli esseri animati (teknopoiàa koin’teron toéj zˆoij). Tuttavia per gli altri esseri la coabitazione è finalizzata unicamente

51. Wolff 1997, 157-80. 52. Il medesimo argomento è presente anche in ambito latino (si veda ad es. Cic. off. 1, 54). Per affordance (tratto dall’inglese to afford, “permettere”) intendo qui un tratto che permette ad un determinato oggetto, o a un determinato ente di natura, un uso (o un riuso) simbolico. A tale proposito cfr. Bettini 1998, 202 ss., il quale porta l’esempio delle corna del toro, che, proprio per la loro conformazione, possono venire riprodotte – in diverse culture anche lontane fra loro – come impugnature di vasi e suppellettili.

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a questo scopo, mentre gli uomini coabitano non soltanto per procreare figli, ma anche per le cose necessarie alla vita». (Arist. EN 1162 a 16-22)

La procreazione della prole, dunque, è ciò che rende analoghi l’uomo e l’animale. E se l’uomo si distingue dagli altri zoia è perché per il suo speciema generico l’unione dei sessi ha anche altre funzioni (secondo il modello della “differenza antropologica” secondo il quale “l’uomo è un animale + x funzioni”).53 Per il resto, però, quando si tratta dei meccanismi di riproduzione della vita, come si vede anche nella Historia animalium e nel De generatione animalium, non si può parlare dell’uomo senza parlare dell’animale. Ed è proprio questo punto di intersezione fra i due regni, questo cono di ombre alterne che si incontrano, che permette al meccanismo della metafora di scattare.

7.

Conclusioni (e osservazioni)

Riassumendo, la categoria dell’ibridazione, in Grecia, è, come si è visto, una categoria opaca, per il semplice motivo che, nell’ambito di un sapere orientato sugli speciemi generici più che sull’elaborazione di classemi artificiali, era più facile che si facesse uso di perifrasi rese esplicite dal contesto, e di animali antonomastici, piuttosto che ricorrere a neologismi di difficile assimilazione. Pensare gli ibridi attivava poi meccanismi che rimandavano a proiezioni simboliche provenienti dalla sfera dell’umano. La metafora della moicheia, in particolare, ci mostra come l’ibridazione potesse essere pensata come una adulterazione delle specie attraverso il contatto indebito con un liquido contaminante: il seme/urina del moichos. Gli effetti della contaminazione, in questo senso, erano percepiti come un abbassamento di grado di un genos che assumeva su di sé, per mezzo dell’agglutinamento dei liquidi seminali di diverse specie, i tratti identitari di un genos immediatamente inferiore che lo inquinava e lo rendeva così irriconoscibile. Il dato particolarmente interessante – che si ricava comunque e silentio – è però che nessuno degli animali esistenti che sono frutto di ibridazione viene mai presentato, nei passi da me presi in esame in questo capitolo, come un essere paradossale in cui sono compresenti 53. Per il modello della “differenza antropologica” cfr. M. Wild, Michel de Montaigne und die anthropologische Differenz, in corso di pubblicazione negli Atti del Convegno Tier und Mensch in der Antike, tenutosi presso l’Università di Rostock dal 7 al 9 aprile 2005.

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due nature (come ad esempio accade con l’ircocervo o i centauri, dei quali Aristotele dice che sono inesistenti non perché muniti di due physeis incompatibili fra loro, ma proprio perché muniti di due physeis tout court).54 Il mulo è a tutti gli effetti uno speciema generico a sé stante, e non una semplice addizione aritmetica di parti. Il che implica che l’ibridazione non è vista come una anomalia classificatoria e che quindi la tassonomia folk dei Greci riesce ad immettere senza alcuna scossa i nuovi speciemi generici frutto di incrocio all’interno del proprio sistema attribuendo denominazioni specifiche appropriate: gli ibridi greci, in altri termini, sono tali dal punto di vista biologico molto più che dal punto di vista classificatorio. La cosa estremamente sorprendente è poi che l’ibrido dei Greci non è mai concepito come un vicolo cieco riproduttivo (la sterilità del mulo è anzi, per Aristotele, un’eccezione),55 e di fatto l’accoppiamento interspecifico viene concepito come un vero e proprio meccanismo di speciazione. Questo, ad esempio, è quello che si realizza nel IX libro della Historia animalium, dove, come si è visto, le serie delle moicheiai e delle mixeis di uccelli appartenenti a speciemi generici diversi diventano il motore dell’ornitogonia aristotelica, che spiega appunto come – per via di continui e ripetutti accoppiamenti interspecifici – si siano formate tutte le specie di uccelli esistenti. In questo senso, i frutti ibridati della generazione in comune, piuttosto che inserirsi in caselle marginali sono per certi versi percepiti – come la foca o il pipistrello di Aristotele di cui si è parlato nel capitolo precedente – come gradini intermedi fra gli speciemi generici che li hanno generati, ma mai come un vero e proprio speciema generico dalla natura doppia, dal momento che l’ibrido è da vedere come una vera e propria “lega” (che si riproduce), vale a dire come la realizzazione di un materiale di nuovo conio che si distingue netta-

54. Cfr. a tale proposito Sillitti 1980, 9 ss. 55. Cfr. Arist. GA 746 b 15 ss. e 747 a 23 ss. (ma cfr. anche Plin. nat. 8, 173; Plu. De sollertia animalium 962 B – per quest’ultimo passo cfr. D. Magini in Del Corno 2001, ad l.). A dire che tutti gli ibridi sono sterili sarà Plin. nat. 8, 173, che però da un lato dissemina la sua opera di notizie che riguardano l’estrema creatività della natura (cfr. par. 2. 4 del cap. 4), e dall’altro, due libri dopo, ci dice che gli aliaeti, uccelli generati dall’incrocio di diverse varietà di aquila, tengono molto alla purezza della loro stirpe (cfr. 10, 11-12), senza neanche porsi il problema del contrasto fra questa asserzione e la generalizzazione di 8, 173. L’idea di ibrido come vicolo cieco riproduttivo si afferma comunque con il naturalista Buffon alla fine del ‘700. Nonostante le teorie di Buffon, «rimaneva però il fatto che alcuni animali di specie apparentemente diverse erano interfecondi e che la loro prole poteva essere fertile o sterile» (Mazzolini 2004, 127).

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mente dai due materiali di origine, pur continuando a rassomigliare, in parte, ad entrambi. Un caso a sé sono comunque gli ibridi mostruosi del mito, a proposito dei quali è del tutto difficile poter comprendere una regola genetica che non sia quella del caos (la stessa regola che determina, solo per fare un esempio, che da Forco e Ceto possa venir fuori un mostro iperbolico e multiforme come Scilla, e che una nuvola possa partorire un centauro).56 Il passo lucianeo comunque (assieme a tanti altri miti in cui ci sono divinità in aspetto teriomorfo che si accoppiano con mortali di sesso femminile) illumina su una costante alquanto degna di nota, nel mostrarci come la donna possa essere percepita e rappresentata come una sorta di interfaccia fra la dimensione umana e quella animale (e divina). L’ultimo elemento che è possibile mettere in rilievo consiste infine nella contiguità che spesso emerge fra la moicheia e il biasmos. Sia nel caso del mulo di Democrito, che nel caso di Pan, non è di fatto possibile scindere l’idea dell’adulterio da quella della violenza; una violenza che, se nell’animale è occasionale, nell’uomo diventa violazione seriale (e, nel dio, segno di arbitrio totale). Il dato congiunto della violenza e dell’adulterio, comunque, ci deve fare riflettere. Esso infatti rivela che, se al livello della percezione immediata di senso comune l’ibridazione viene – come accade di norma in tutte le tassonomie folk – “normalizzata” e derubricata come processo di speciazione, al livello di secondo grado delle interpretazioni simboliche quella che non è mai una anomalia classificatoria è sempre e comunque una anomalia etica o il sintomo di una “deviazione” forzata del corso normale (o comunque ideale) delle cose.

56. Per Scilla come figlia di Forco e Ceto cfr. Hes. Th. 270-336. Esistono comunque diverse genealogie alternative, fra cui quella di Hom. Od. 12, 124, in cui si dice che Scilla è figlia di Crataide (cfr. a tale proposito Waser 1992, 1024 ss. e Stein 1927, 647 ss.). Per la genealogia dei centauri cfr. ad es. Pind. P. 2, 21 ss. e 44 ss.; Apollod. Epit. 1, 20; Serv. in Aen. 6, 286; D. S. 4, 69, 4-5; Palaeph. 1 (passo cit. in par. 1. 2 del cap. 4).

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CAPITOLO 3

Fra adulterio, eugenetica ed assimilazione: l’ibridazione animale nella cultura romana

«Live my life without a care Now I have become a fool Because I listened to the mule» Deep Purple, The Mule

1.

Il vocabolario latino dell’ibridazione

1.1 Hybrida, nothus, insiticius Dando il comando di ricerca dei traducenti latini per la parola “ibrido”, il CD-Rom del dizionario IL (Castiglioni Mariotti) segnala tre vocaboli. Sono nothus, insiticius e hybrida. La ricerca dei passi in cui ricorrono questi lemmi nel Th. l. L. e nel PHI5 riserva però alcune sorprese. Il termine hybrida (di cui mi occuperò per esteso più avanti) è infatti un falso antenato, dal momento che indica non tutti i tipi di incrocio, bensì soltanto il frutto della riproduzione incrociata del maiale selvatico e del maiale domestico.1 Calco latino del greco nothos, nothus, invece, indica i nati ritenuti materno ignobiles genere (Servius in Verg. Aen. 7, 283), vale a dire i figli che padri di lignaggio superiore hanno con donne di rango inferiore. Il termine, come si vede, si presta ad essere esteso all’ibridazione, tuttavia non mi risulta che venga mai usato, in ambito latino, per indicare enti generati da accoppiamenti tra esseri non omofili. Fra i loci da me raccolti, peraltro, solo in un caso nothus è riferito esplicitamente ad un animale. Si tratta di un paragrafo pliniano 1. Cfr. cap. 5.

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in cui si dà la notizia che gli Indiani usano gli elefanti di piccola taglia per arare. Questi elefanti, per l’appunto, sono chiamati dagli indigeni nothos: Indis arant minores, quos appellant nothos. (Plin. nat. 8, 3)

«Gli Indiani usano per arare elefanti di piccola taglia, che chiamano “bastardi”».2

Come si vede, il termine di origine greca, più che indicare un accoppiamento interspecifico, sembra rimandare qui all’idea dell’incrocio “intraspecifico” in base al quale si realizzano figli bastardi. L’idea della prole illegittima, però, non è da intendere alla lettera; essa piuttosto funziona come una marca metaforica per segnalare quella che si presenta come una deroga rispetto ai tratti identificatori di pertinenza del cosiddetto “animale perfetto”. Gli elefanti “bastardi” in questo senso, nel pensiero simbolico degli Indiani, sono presentati come tali al mero fine di segnalare quella che viene letta come una violazione rispetto ad una norma ideale statisticamente valida in natura che fissa come grandi le usuali dimensioni dell’animale.3 Essi, in altri termini, sono “bastardi” solo perché presentano alcuni tratti specifici non conformi rispetto all’attesa psicologica che identifica come “di grossa taglia” lo speciema generico dell’elefante. Se dunque il termine nothus potrebbe naturalmente prestarsi per indicare l’ibridazione animale, la lingua latina non sembra avere sfruttato questa affordance. Un diverso discorso si deve fare per insiticius, che può essere esteso, come si vedrà nel capitolo seguente, all’ibridazione animale, ma che, proprio in quanto derivato dal verbo insero (innesto), indica specificamente l’incrocio botanico. 1.2 Altri termini (la coppia bigener/insiticius) Relativamente ai traducenti forniti dal Castiglioni-Mariotti, dunque, è possibile concludere che se il primo è del tutto specifico e non estendibile a tutti gli altri ibridi, il secondo è scorretto (o comunque corretto solo in potenza) e il terzo non sicuramente univoco e di uso metaforico. La cosa sorprendente è però che, leggendo direttamente i libri VII-XI della Naturalis Historia di Plinio e sfogliando il De re rustica

2. La traduzione della maggior parte dei passi del libro VIII è quella di E. Giannarelli in Conte 1983 (talvolta però mi discosto da essa in alcuni punti per mettere meglio in evidenza gli oggetti della mia analisi). 3. Cfr. Sperber 1975, 22 ss. sulle dinamiche che trasformano in norma ideale le regole statisticamente valide.

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di Varrone, o anche facendo uno spoglio veloce di singoli lemmi del Thesaurus Linguae Latinae (Th. l. L.), è possibile individuare altre voci usate per l’ibridazione, che nella sezione della traduzione dal latino il CD-Rom de IL non registra. Si tratta di alienigena, ambigenus, biformis (e biformatus) e bigener. Come accade per la precedente triade, non tutti i termini di questa seconda lista tuttavia appaiono specializzati per indicare l’ibridazione. Alienigena, infatti, proprio perché indica genericamente ciò che è generato altrove, si può riferire a qualsivoglia elemento estraneo o proveniente dall’esterno (lo straniero, ad esempio, può essere indicato come alienigena).4 Il termine ambigenus, invece, indica chiaramente i frutti della riproduzione incrociata, ma la sua coniazione appare tarda e potrebbe inoltre essere un hapax, dal momento che l’unica attestazione che abbiamo è quella presente in Eugenio, vescovo di Cartagine nel V secolo d. C. (Mon. Germ. Script. Ant. XIV, p. 258).5 Abbiamo poi biformis e biformatus, il cui significato appare evidentemente gestaltico e che può essere utilizzato per indicare qualsiasi oggetto che presenti una duplicità di forme o tratti in eccesso, siano essi appunto gli ibridi mostruosi (per lo più del mito) siano essi, ad esempio, i busti di Giano.6 C’è infine bigener, indicante appunto ciò che è frutto di enti di genere differente. È questo, solo per fare un esempio, il termine che Varrone usa a proposito dei muli e dei bardotti: nam mul[t]i et item bigeneri atque insiticii, non suopte genere ab radicibus. (Varro rust. 2, 8, 1)

«I muli, infatti, e i bardotti sono animali ibridi ed effetto di un incrocio, non hanno una stirpe propria di derivazione».7

4. Cfr., oltre che i passi citati dal Th. l. L. s. v., Lucr. 1, 865; 1, 872; 1, 874; 5, 880 (dove comunque l’aggettivo è riferito alle membra degli animali e non agli animali stessi). 5. I versi del carme del vescovo Eugenio sembrano peraltro una resa poetica di Isid. Orig. 12, 1, 61 (per questi passi cfr. par. 2 del cap. 5). 6. Cfr., solo per fare alcuni ess., Verg. Aen. 6, 25 (il minotauro); 6, 286 (le Scille e i Centauri raffigurati nelle porte dell’Ade); Sen. Phaedr. 1172 (il toro marino che uccide Ippolito); Cic. Tusc. 2, 20, 19 (l’impeto biformatus dei centauri); Colum. 10, 1, 1, 427 (i Satiri e Pan); Hor. carm. 2, 20, 1 ss. (la metamorfosi del poeta in un essere biformis, metà uomo e metà cigno); Ov. fast. 1, 89 (Giano). Per altri passi cfr. Th. l. L. s. v. biformis. 7. Tutte le traduzioni dei passi di Varrone sono di Traglia 1974.

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Vediamo dunque che a differenza di quanto accade in seno alla cultura greca, la lingua dei Romani sembra avere strumenti meno opachi per parlare del processo di generazione fra esseri non omofili. Bisogna tuttavia fare due precisazioni. Innanzitutto il termine bigener, usato da Varrone in coppia con insiticius, non sembra assumere il rango di classema. Questi aggettivi infatti non sono usati – come accade ad esempio con i classemi artificiali di Aristotele – come aggettivi sostantivati a partire dai quali formare “insiemi” di animali; piuttosto vengono utilizzati semplicemente con una forte funzione attributiva e qualificativa. Si tratta dunque di marche specifiche. In seconda istanza, bisogna poi segnalare che agli aggettivi in questione Varrone sente l’esigenza di posporre l’espressione non suopte genere ab radicibus. Il che potrebbe significare che, evidentemente, senza questa ulteriore precisazione, i termini bigener ed insiticius sarebbero potuti risultare equivoci all’orecchio di un ascoltatore coevo. Relativamente a bigener, infatti, da una veloce ricerca sul PHI5 il termine non risulta attestato prima di Varrone. L’aggettivo usato dal poligrafo romano, dunque, sembra verosimilmente – con tutte le cautele che la parzialità del corpus di testi di cui siamo in possesso ci impone – un neologismo. A differenza però di quanto accade per il termine koinogenes usato da Platone nel Politico, bigener, invece, dopo Varrone, entra di diritto nel vocabolario latino. Una definizione chiara e precisa del termine la troviamo ad esempio in Festo (p. 30 Lindsay, il quale, come sappiamo per mezzo di Paolo Diacono, diceva che bigenera dicuntur animalia ex diverso genere nata, ut… muli ex equo et asina (“sono bigeneri gli animali che nascono da un diverso genus, come ad esempio quelli che nascono dal cavallo e dall’asina”). Sulla stessa linea troviamo poi Isidoro di Siviglia, il quale informa che il mulo (che è considerato un genus equorum) viene detto “bigenere” quod ex diversis nascitur (perché nasce da genera diversi).8 Se ne deduce quindi che, una volta entrato nell’enciclopedia degli antichi, il termine si era specializzato per indicare – anche se sempre con la valenza di attributo più che di classema – tutti i processi di accoppiamento interspecifico (come ad esempio il mulo, il bardotto, o anche gli incroci fra ovini, suini etc.). Se tuttavia bigener appare descrittivo e generico, non lo stesso mi sembra che si possa dire di insiticius. Laddove infatti il primo denota, il secondo connota.

8. Cfr. Isid. Orig. 12, 1, 56.

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Insiticius, che – come insitivus – deriva dal verbo inserere, è “ciò che si innesta”: si tratta dunque di una chiara metafora arboricola estesa al mondo animale. La riproduzione incrociata, in questo caso, viene pensata come l’innesto (insitio) di un virgulto esterno in un ceppo, la cui natura risulta così drasticamente mutata.9 L’immagine dell’innesto, tuttavia, proprio perché richiama alla mente l’idea dell’inserimento più o meno forzato di un elemento esterno rispetto alla stirpe (pensata come un “vegetale” fornito di radici),10 ha una valenza chiaramente negativa. A testimoniare tale valenza, peraltro, vorrei ricordare le pagine che Lucia Beltrami ha dedicato al sinonimo insitivus, usato metaforicamente in relazione a tutte quelle forme di adozione che vengono percepite, all’interno della cultura romana, come non giustificate e non accettabili perché non necessarie per la stessa sopravvivenza della stirpe o perché, addirittura, pericolose.11 Sempre la Beltrami, peraltro, fa notare nel corso del medesimo studio che, oltre che per le adozioni, la medesima parola poteva essere usata a proposito dei partus suppositivi, ovvero per tutti quei tentativi impropri e ingannevoli di estranei che cercano di inserirsi con malizia all’interno di stirpi non proprie.12 Solo per citare uno dei casi ricordati dalla studiosa potremmo menzionare la notizia di un tale Equizio, che – proprio perché si spacciava per figlio di Tiberio Gracco – Cicerone chiamava, sprezzantemente, insitivus Gracchus (Sest. 101). Se dunque bigener non ci dice nulla al livello della percezione simbolica e degli atteggiamenti culturali, il termine insiticius ci fa capire che animali come il mulo, per quanto utili e preferibili rispetto ai loro progenitori nel caso di determinate prestazioni, sono pur sempre percepiti come frutto di tecniche di manipolazione della natura non del tutto bene accette.13 L’insitio dell’ibridazione, in questo senso, è da leggere pur sempre come un inquinamento della stirpe, e dunque, come un adulterio.

9. Le diverse tipologie di innesto in arboricoltura sono illustrate, ad es., da Cato agr. 40-42. 10. Dalla lettura di Cato agr. 40 si percepisce chiaramente la difficoltà dell’ibridazione arboricola, che richiede cura e pazienza e difficilmente riesce senza l’adozione di determinate tecniche e accorgimenti. Sulla metafora del “ceppo” per indicare un gruppo parentale (e dunque una stirpe) cfr. Bettini 1991, 66 ss. 11. Cfr. Beltrami 1998, 38 ss. 12. I passi che Beltrami 1998, 38 ss. cita sono Sen. contr. 2, 1, 21; Val. Max. 9, 7, 1; 9, 15, 1-2; Cic. Sest. 101. 13. I muli erano preferiti ai cavalli perché come loro – e più di loro – adatti ai lavori duri, ma evidentemente meno riottosi (cfr. Varro rust. 2, 8, 2, Plin. nat. 8, 171).

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Una chiara testimonianza in questo senso è, ad esempio, quella di Isidoro che ci dice che la riproduzione incrociata di asini e cavalli è il frutto di una industria umana di natura adulterina: Industria quippe humana diversum animal in coitu coegit, sicque adulterina commixtione genus aliud repperit. (Isid. Orig. 12, 1, 58)

«È l’operosità umana che costringe animali di diverso genere ad accoppiarsi. In questo modo, per mezzo di una commistione adulterina si inventano nuovi genera».

Come avviene per le credenze relative al mondo greco, dunque, l’ibridazione è percepita come una “adulterazione” della stirpe per mezzo dell’innesto di un liquido (o di un germoglio) inferiore o comunque estraneo che contamina una linea di sangue (o un ceppo).14 Tale adulterazione, peraltro – esattamente come avveniva nel passo in cui Eliano (citando in NA 12, 16 Democrito) parlava della riproduzione incrociata del mulo –, è percepita come una sorta di adulterio che l’uomo commette per interposto animale, sostituendosi così alla natura e, dunque, violandone i confini nell’atto di creare qualcosa di nuovo. Nel momento stesso in cui l’ibridazione viene pensata non solo come un innesto forzato di un elemento estraneo, ma come un vero e proprio crimine sessuale, ecco però che, oltre che le piante e i vegetali in genere, anche gli umani – esattamente come avviene con il meccanismo della moicheia nella cultura greca – diventano buoni per pensare simbolicamente il mondo animale, proiettando su di esso il proprio sistema di valori e per certi versi le proprie ansie più profonde. Questo, solo per fare un esempio significativo, è quello che avviene nel caso della “adulterazione” della stirpe dei leoni, almeno così come ce la racconta Plinio.

2.

Leoni adulterati: un esempio di incrocio animale nella storia naturale romana

In una breve sezione dell’VIII libro della Naturalis Historia, si accenna alla generazione del leopardo, frutto per l’appunto di una riproduzione incrociata: 14. Sull’adulterio nel mondo romano cfr. la bibliografia cit. nelle nn. 40-43 del cap. 2. Ringrazio anche Anna Angelini per avermi segnalato che la relazione fra ibridismo e incrocio sessuale proibito ricorre anche nei testi biblici (cfr. ad es. Genesi 36, 24: Anah, il primo a far nascere un mulo da un asino e da una cavalla è frutto di una relazione incestuosa). Nell’ambito della cultura ebraica peraltro era proibito produrre muli, ma non usarli (cfr. a tale proposito Feliks 1996, 516 s.).

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Leoni praecipua generositas tunc, cum colla armosque vestiunt iubae; id enim aetate contingit e leone conceptis. Quos vero pardi generavere, semper insigni hoc carent; simili modo feminae. Magna his libido coitus et ob hoc maribus ira. (Plin. nat. 8, 42)

«Il leone maschio raggiunge il massimo delle sue qualità quando la criniera gli arriva a coprire il collo e le spalle. Un fenomeno simile si verifica, con il passare degli anni, per tutti i cuccioli che vengono concepiti dal leone. Per quanto riguarda invece i cuccioli maschi che sono stati generati dai pardi, questo segno di distinzione viene sempre a mancare (così come manca, allo stesso modo, per le femmine). Le leonesse infatti sono affette dal desiderio sfrenato di accoppiamento (cosa che provoca l’ira dei leoni maschi)».

Come è usuale in Plinio – e come è tipico di molta zoologia post-aristotelica –, il tono per mezzo del quale il dato viene presentato non è neutro. La griglia all’interno del quale il fenomeno di storia naturale viene inserito è infatti quella della paradossografia. Gli animali, all’interno di questa griglia, sono soggettificati: agiscono in regime di autodeterminazione (le leonesse provano desideri sfrenati) e provano passioni analoghe a quelle umane (l’ira dei leoni maschi). C’è comunque un termine che risulta interessante e che, forse non a caso, apre in posizione enfatica il passo. Si tratta di generositas. Il traduttore dell’edizione Einaudi che qui sto usando ha reso con “qualità”: in realtà questo vocabolo significa, come si vedrà tra poco, molto di più. Per comprenderne il senso, però, sarà opportuno fare una digressione sulla natura dei leoni. 2.1 I leoni sono generosi Le prime tracce dalle quali è possibile partire per saperne di più sul leone di Plinio potrebbero essere quelle che ci fornisce la fisiognomica.15 Mi avvalgo a tale proposito di un recente studio di Giampiera Raina, la quale mostra come il leone venga costruito – all’interno di tale sapere – come paradigma del maschile e del positivo, in contrapposizione alla pardalis, presentata come modello femminile per eccellenza.16

15. Per un quadro generale sul sapere fisiognomico nel mondo antico cfr. Raina 19942, 7 ss.; Sassi 1993, 431 ss. (ma vd. anche Sassi 1988, 56 ss.) e A. Zucker, La sémiologie animale dans les traités de physiognomonie grecque, in corso di pubblicazione negli atti del convegno Tier und Mensch in der Antike, svoltosi presso l’Università di Rostock dal 7 al 9 aprile del 2005. 16. Cfr. Raina 2003, spec. 58 s.

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Un passo esemplare, in tal senso, potrebbe essere il seguente, tratto dal De physiognomonia dello Pseudo Aristotele: «Stando così le cose, sembra che tra tutti gli animali il leone impersoni perfettamente il tipo del maschio. Ha infatti una bocca bella grande, il muso abbastanza squadrato, non troppo ossuto, la mascella superiore non sporgente, ma ben equilibrata con quella inferiore; il naso più grosso che sottile, gli occhi scuri lucenti infossati, non troppo rotondi né troppo oblunghi, di giusta grandezza, le sopracciglia belle grosse, la fronte squadrata, leggermente incavata a partire dal centro; dalla parte invece delle sopracciglia e del naso, sotto la fronte, una sporgenza, quasi una nube sovrastante. Sopra la fronte in corrispondenza del naso, ha dei peli che si ripiegano verso l’esterno come se fossero un ciuffo, e ha una testa delle giuste dimensioni, un collo bello lungo, proporzionato alla grossezza, coperto di biondi crini, non irti, ma neanche troppo arricciati; la zona delle clavicole è bella sciolta, più che compatta; ha spalle forti, petto vigoroso, dorso largo, un bel torace e una schiena robusta come si deve; l’animale è piuttosto smilzo nelle anche e nelle cosce; ha le gambe forti e muscolose, l’andatura vigorosa; tutto il corpo nerboruto e muscoloso, né troppo duro, né troppo umido. Cammina poi lentamente, incede a grandi passi e si muove nelle spalle quando avanza. Queste sono le caratteristiche fisiche; quanto all’animo poi è generoso e liberale, magnanimo e desideroso di vittoria, tranquillo (praÁ) e buono e incline a mostrare affetto nei confronti di eventuali alleati».17 (Phgn. 809 b 14-36)

Il leone viene qui pensato come un paradigma di metriotes, mesotes e di nobiltà, per mezzo di quello che la Raina indica come un meccanismo di semplificazione.18 Il sapere fisiognomico infatti procede per mezzo di una modellizzazione che seleziona i tratti della storia naturale astraendoli dal loro contesto e dalla loro eccezionalità per poi assolutizzarli come semeia (segni) che permettono di decifrare la psicologia umana per mezzo non più soltanto dei gesti e delle azioni, ma attraverso le somiglianze fisiche con i singoli animali. Si tratta in questo senso di una pratica di zoopoiesi che permette di usare la sfera animale come strumento per sostenere bisogni cognitivi e processi inferenziali dell’uomo.19 Per comprendere il senso di questa costruzione simbolica si può citare, ad esempio, il seguente passo della Historia animalium di Aristotele: 17. Tutte le traduzioni del testo pseudoaristotelico (e del De physiognomonia attribuito ad uno Pseudo-Apuleio) sono tratte da Raina 19942. Per altri loci in cui si parla del tipo psicologico del leone cfr. Arist. Phgn. 806 b 9 s.; 810 b 5; 811 a 15; 811 a 20 s.; 811 a 33; 811 b 35; 812 b 6. 18. Cfr. Raina 2003, 60. 19. Per la nozione di “zoopoiesi” cfr. Marchesini 2002, 123 ss.

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«E infatti il leone, quando ha fame, è oltremodo pericoloso, quando invece non ha fame o ha da poco finito di mangiare è docilissimo (pra’tatoj)».20 (Arist. HA 629 b 8 s.)

A proposito di questo passo aristotelico, la Raina fa notare la convergenza semantica presente fra il termine pra’tatoj e il praÁ di De physiognomonia 809 b 36. L’omogeneità fra i due testi nel parlare delle caratteristiche del leone è però solo apparente. Il passo del IX libro della Historia animalium, infatti, lascia chiaramente intendere che i comportamenti del leone che possono essere pensati analogicamente rispetto alla praotes degli uomini si realizzano soltanto in particolari condizioni, laddove nel De physiognomonia viene ascritta all’animale una virtù umana che diventa in qualche modo tratto definitorio della specie. L’operazione che viene compiuta, in questo senso, risulta essere una suscettibilità cognitiva di secondo livello, una metaconoscenza che assolutizza una definizione enciclopedica di un essere vivente facendola aderire alla sua definizione ideale antropomorfizzata.21 Tale definizione, peraltro, nel momento stesso in cui idealizza simbolicamente il leone, fissa delle caratteristiche che diventano buone per pensare la psicologia degli uomini e che, retroagendo sull’antroposfera, finiscono per individuarne paradigmaticamente i tratti ideali (che sono ovviamente sovrapponibili a quelli del maschile etnocentricamente connotato).22 L’aspetto più interessante, però, è che il medesimo meccanismo metaconoscitivo che agisce nel sapere fisiognomico ritorna nella Na-

20. Notizie simili in Plin. nat. 8, 48; Ael. NA 4, 34. 21. Quello fisiognomico ovviamente non è l’unico percorso simbolico che nell’antichità è possibile attivare sul leone. Si pensi ad es. a E. Or. 1554 s., dove Menelao chiama “leoni” Oreste e Pilade che hanno assalito Elena e preso in ostaggio la figlia Ermione, attivando così – dell’animale – una affordance del tutto negativa. Sulla base di questo e di tutti gli altri esempi che finora ho preso in considerazione, la tendenza sembrerebbe quella di risaltare le caratteristiche maschili e ideali del leone laddove questo si trova messo a confronto ora con la femmina della propria specie ora con altri speciemi generici animali. Quando invece entra in gioco la coppia uomo-leone, che istituisce così due termini di una analogia esplicita, i tratti che si attivano possono essere, come nel caso dei paragoni epici (per cui cfr. n. 28 di questo cap.), ora quello del coraggio e della furia guerriera (e in tal caso l’animale diventa specchio dell’umano in positivo, secondo un meccanismo analogo a quello del sapere fisiognomico) ora, come avviene nel caso dell’Oreste di Euripide, quello della ferocia (e in tal caso il leone diventa specchio dell’umano che si è “bestializzato” in negativo). Per riflessioni sull’antropomorfismo (non solo nel mondo antico) cfr. Tapper 1988, 47 ss., ma soprattutto Marchesini 2002, 85. 22. Cfr. A tale proposito Raina 2003, 61.

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turalis Historia di Plinio. Non è un caso, in questo senso, che il termine chiave per indicare la natura dei leoni sia, appunto, generositas. Per generositas si intende l’aderenza di un membro del genus al genus stesso.23 L’animale generosus in questo senso corrisponde – nella dizione di Sperber – all’animale perfetto, all’individuo prototipico della propria specie, vale a dire l’esemplare che presenta al massimo grado tutti i tratti salienti dello speciema generico cui appartiene. Se ne deduce pertanto, sulla base di questa definizione, che anche animali come il pardo, o come il cavallo o, ad esempio, la gallina possano essere generosi. In Plinio tuttavia la generositas sembra diventare, per il leone, una marca di definizione specifica del genus in questione. Il leone pliniano assume infatti una serie di tratti “regali” e nobili che per certi versi lo identificano con il notabile romano di buona stirpe. Un passo esemplare, in tal senso, potrebbe essere il seguente: Leoni tantum ex feris clementia in supplices. prostratis parcit et, ubi saevit, in viros potius quam in feminas fremit, in infantes non nisi magna fame. credit Iba pervenire intellectum ad eos precum; captivam certe Gaetuliae reducem audivit multorum in silvis impetum se mitigatum adloquio ausae dicere, se feminam, profugam, infirmam, supplicem animalis omnium generosissimi ceterisque imperitantis, indignam eius gloria praedam. varia circa hoc opinio ex ingenio cuiusque vel casu, mulceri alloquiis feras, quippe cum etiam serpentes extrahi cantu cogique in poenam verum falsumne sit, non vita decreverit. (Plin. nat. 8, 48)

«Fra le fiere solo il leone prova clemenza verso chi lo supplica; risparmia chi si prostra davanti a lui e, quando incrudelisce, infuria contro gli uomini piuttosto che contro le donne, e contro i bambini solo se ha tanta fame. In Libia si crede che essi riescano a comprendere il senso delle preghiere. Io stesso certo ho sentito una prigioniera reduce dalla Getulia dire che in un bosco era stato da lei respinto l’attacco di molti leoni, grazie al discorso che essa aveva osato fare, affermando di essere una donna, fuggiasca, malandata, supplice nei confronti dell’animale più forte di tutti (omnium generosissimi) e che su tutti dominava, una preda indegna della sua gloria. Varie sono le opinioni riguardo a questo, se sia secondo l’indole di ciascuna o per caso che le fiere si possono ammansire parlando con loro, giacché l’esperienza non è riuscita a stabilire se sia vero o no che anche i serpenti vengono attirati col canto e costretti a sopportare una punizione».

Il leone possiede dunque la clementia, vale a dire una di quelle doti che contraddistinguono gli uomini dotati di magnitudo animi 23. Cfr. Th. l. L. s. v.

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che, a fronte delle iniuriae subite, anziché manifestare la propria feritas – e reagire secondo i modelli di reciprocità del danno e controdanno –, scelgono la via della mansuetudo.24 Il versante della praotes del IX libro della Historia animalium, in questo senso, risulta qui in Plinio del tutto rovesciato. Se infatti nel passo aristotelico la tranquillità, la docilità e la mansuetudine sono visti come comportamenti eccezionali, nella Naturalis Historia, al contrario, è proprio la saevitia ad essere marcata come deroga rispetto alla norma. I leoni infatti incrudeliscono soltanto quando hanno fame.25 E per di più, anche in questi casi, la loro feritas risulta selettiva. Essi infatti non solo risparmiano i supplici, aderendo ad una norma morale (quella della clementia) tipica del Populus Romanus prima, e del princeps poi,26 ma per giunta, quando hanno deciso di attaccare, lo fanno a danno degli uomini piuttosto che a danno delle donne, uniformandosi per certi versi ai codici dei communia officia che regolano i conflitti internazionali.27 Quello che dunque sembra accadere in Plinio è che i saperi della fisiognomica – ma molto verosimilmente anche il ben noto modello “epico” del leone come immagine riflessa del guerriero nobile e ardimentoso – retroagiscono sulla sua storia naturale indirizzandone così i percorsi e le definizioni specifiche.28 A conferma di quanto detto, in questo senso, risulta eloquente il seguente passo: generositas in periculis maxime deprehenditur, non illo tantum modo, quo spernens tela diu se terrore solo tuetur ac velut cogi testatur cooriturque non tamquam periculo coactus, sed tamquam amentia iratus. (Plin. nat. 8, 50)

«la sua generositas [del leone] appare evidente soprattutto nei pericoli, non soltanto per il modo in cui, disprezzando le frecce, a lungo 24. Sulla clementia come inversione del modello del dono cfr. Beltrami 2005, 143 ss. (si noti peraltro che il leone – assieme all’elefante – viene presentato come animale paradigmatico proprio in Sen. clem. 1, 5, 5). Più in generale sulla generositas dei leoni cfr. Beagon 1992, 149 s. (che parla di una “popolarizzazione” pliniana delle marche di discorso aristoteliche per mezzo dell’antropomorfizzazione del mondo animale). 25. A tale proposito cfr. anche Plin. nat. 8, 49. 26. Sul passaggio dalla clementia Populi Romani alla clementia principis, oltre che Beltrami 2005, 148, cfr. ad es. Campanini 2004, 15 s. 27. È noto ad es. come fosse stato stigmatizzato a Roma (anche comunque per motivi politici) il massacro che Cesare aveva compiuto di Usipeti e Tencteri (donne e bambini inclusi). Cfr. a tale proposito Plu. Caes. 22; Cat. Mi. 51 (e Canfora 1999, 118 s.). Cfr. a tale proposito anche Cic. off. 1, 11. 28. Per i paragoni epici con il leone cfr. ad es. Hom. Il. 3, 23; 5, 161; 10, 485; 11, 113 etc., ma anche, per l’ambito romano, cfr. ad es. Verg. Aen. 9, 339.

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si difende col solo terrore che ispira, e quasi manifesta di essere costretto a combattere, e si getta a farlo non come se vi fosse spinto dal pericolo, ma come irato per la altrui follia».

Ancora una volta la generositas è trattata come una marca di definizione della specie. Il leone pliniano viene qui rappresentato come rispettoso dei codici dello ius belli dei Romani. Quando attacca, infatti, lo fa con coraggio e sprezzo del pericolo, ma soprattutto per legittima difesa, come se vi fosse costretto.29 Sono questi i motivi per cui il leone diventa buono per pensare i boni viri e, in un caso eclatante, li rappresenta – come ad esempio nel seguente passo pliniano – in maniera per certi versi allegorica: iugo subdidit eos primusque Romae ad currum iunxit M. Antonius, et quidem civili bello, cum dimicatum esset in Pharsaliis campis, non sine ostento quodam tempor, generosos spiritus iugum subire illo prodigio significante. (Plin. nat. 8, 55)

«Li sottomise al giogo e per primo a Roma li fece attaccare al carro Marco Antonio, proprio durante la guerra civile, dopo la battaglia combattuta nella piana di Farsalo, non senza un qualche riferimento prodigioso ai tempi, poiché quel portento indicava che gli spiriti nobili sopportavano il giogo».

I leoni aggiogati sono dunque un prodigium che sta a simboleggiare la crisi della Roma preimperiale. Antonio che incede sul carro, dopo avere domato i generosi spiritus dell’animale più nobile di tutti è il segno che gli uomini magnanimi e nobili (e dunque generosi) sono destinati a servire. 2.2 Adulteri umani, adulteri animali All’interno di un quadro in cui la figura del leone viene ideologizzata e trasformata in un paradigma antropocentrato, il passo sull’ibridazione dei leopardi non può non risentire di quelle che sono le proiezioni simboliche sulla figura di questo animale. Clemente, nobile, coraggioso, ardimentoso e “generoso”, il leone rappresenta l’immagine maschile, regale e guerriera per eccellenza. Per converso, la femmina del genus risulta presentare questi tratti in maniera assolutamente capovolta, secondo un paradigma am29. È noto come tutte le guerre intraprese da Roma siano viste, dai Romani, come guerre di difesa, le uniche – assieme alle guerre di ultio – viste come iustae (cfr. ad es. Cic. off. 3, 35). Più in generale sul bellum iustum nel mondo romano cfr. Sini 1991 (spec. 199 per il passo ciceroniano) o anche Zuccotti 2004, 1 ss., spec. 28 ss. (scaricabile anche su http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano04zuccotti.pdf).

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piamente attestato per l’antichità, la cui versione – in forma estrema ed assolutizzata – si può ritrovare, ad esempio, nel seguente passo del De physiognomonia: «Si deve dividere il genere degli animali in due sessi (eÄj d›o morfßj). Maschile e femminile, ascrivendo a ciascun sesso ciò che gli è congruo. Tra gli animali che noi prendiamo ad allevare, le femmine sono più docili e di animo più debole dei maschi, ma sono meno forti e più facili all’allevamento e all’addomesticamento. Perciò essendo di tal fatta, saranno anche meno focose dei maschi. E questo forse risulta chiaro anche sulla base della nostra esperienza personale, giacché quando ci lasciamo trasportare dall’istinto, siamo meno remissivi e molto determinati a non tirarci assolutamente indietro di fronte a nulla, ma siamo portati alla violenza e all’azione, in qualunque direzione l’istinto ci spinga. Mi sembra anche che le femmine siano più perverse dei maschi e più precipitose, ma meno forti […]. I maschi invece sono esattamente all’opposto di tutto ciò: il loro sesso ha una natura più coraggiosa e più onesta, mentre la natura della femmina è più paurosa e meno onesta». (Phgn. 809 a 28-39).

A fronte della nobiltà “maschile” del leone, si staglia l’infida femminilità della leonessa, che viene presentata come la più grande minaccia alla generositas della stirpe. Sulla riproduzione incrociata dei leopardi pertanto sembrano proiettarsi, come un’ombra, ansie e angosce di una società androcentrica, e dunque dell’ideologia gentilizia romana, che, nel momento stesso in cui si immagina – e vuole essere – generosa (nel senso di conforme all’identità della gens che deve essere riprodotta), proprio per questo teme l’inquinamento del sangue, la contaminazione, in altre parole: l’adulterium – e dunque l’incrocio – visto come perdita delle marche di riconoscimento.30 Quella che si viene a creare è dunque – analogamente a come si è visto che avviene nel mondo greco – una zona di interscambio di marche simboliche fra l’uomo e il leone che, nell’antichità, sembra presentare una lunga durata. Un segno di questo interscambio proficuo, nel mondo greco, potrebbero essere Agamennone e Clitennestra che Eschilo – in una mirabile similitudine animale – ci descrive rispettivamente come il leone tradito e la leonessa traditrice.31 La medesima immagine, peraltro, risulta produttiva anche a Roma, e viene ri30. A proposito di marche di riconoscimento, non è un caso che l’ “adulterio” delle leonesse con i pardi sia pensato come la produzione di leoni degeneri, privi della marca della iuba. Sull’adulterio e la contaminazione come perdita della riconoscibilità cfr. peraltro Guastella 1988, 29 ss. e 68 ss. 31. Cfr. Aesch. A. 1258 s. (l’animale cui Egisto, che giace con la “leonessa” Clitennestra, è assimilato non è tuttavia il pardo, bensì il lupo).

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presa – senza però fare riferimento alla metafora dell’accoppiamento interspecifico – nell’Agamemnon di Seneca.32 È difficile capire se Plinio, nel manipolare in 8, 42 la notizia riguardante la nascita dei leopardi, abbia tenuto presente questi modelli letterari, così come è difficile dimostrare – d’altro canto – se Eschilo per primo, e Seneca dopo, abbiano pescato nel patrimonio della storia naturale per imbastire le loro immagini. Il fatto è però che, in entrambi i casi, sia le elaborazioni letterarie che le notizie enciclopediche sembrano poggiare su una rappresentazione culturale comune, quella, appunto, che vede il leone come maschio idealizzato e la leonessa come femmina che, proprio in quanto tale, è infida, perversa e intemperante, fino al punto da realizzare l’incrocio che porta all’adulterazione della stirpe o comunque la distruzione stessa dell’aristeuon. Ritorna, dunque, il medesimo tratto che era emerso nel racconto di Luciano (cfr. cap. 2) e che individua nel femminile l’interfaccia del mutamento e della perdita dell’identità specifica.

3.

Un’eugenetica possibile: adulteri che non sono adulteri e nascite speciali

3.1 Ibridi di uomo e di dio Si è visto, finora, come la genetica folk che in Grecia e a Roma è sottesa all’ibridazione sia pensata come del tutto analoga alla dinamica dei contatti indebiti fra liquidi seminali che stanno alla base della moicheia e dell’adulterium. L’esplorazione dei miti che riguardano nascite speciali di creature semidivine, tuttavia, sembra rendere pensabile una prospettiva diversa se non addirittura diametralmente opposta. Laddove si racconta di donne che dividono lo stesso letto sia con uomini che con divinità (o che comunque si uniscono con dei), quella che si realizza, infatti, più che una contaminazione, è una vera e propria nobilitazione della stirpe che è venuta a contatto con la sfera superiore dei celesti.33

32. Cfr. Sen. Ag. 739 s. (Cassandra, nella sua profezia, descrive Agamennone come un leone che cadrà al morso della sua leonessa). 33. Per le nascite speciali di eroi semidivini (e in particolare di Ercole) cfr. Romani 2004, spec. 87 ss.; Bettini 1991a, 42 ss.; Bettini 1996, spec. XV ss. (ma cfr. anche P. Li Causi, Padri lontani, padri vicini. L’identità di Ercole e il ruolo di Giove e di Anfitrione nell’Hercules Furens senecano, in corso di pubblicazione su «Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici» 2007).

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È questo, ad esempio, il caso dell’Anfitrione plautino che, una volta che ha scoperto che l’uomo che ha giaciuto con Alcmena non era uno stregone tessalo, come credeva,34 bensì Giove in persona, accetta di buon grado la nascita dei gemelli Ercole e Ificle, dopo avere udito le seguenti parole per bocca del dio in persona: Bono animo es, adsum auxilio, Amphitruo, tibi et tuis: nihil est quod timeas. hariolos, haruspices mitte omnes; quae futura et quae facta eloquar, multo adeo melius quam illi, quom sum Iuppiter. primum omnium Alcumenae usuram corporis cepi, et concubitu gravidam feci filio. tu gravidam item fecisti, cum in exercitum profectu’s: uno partu duos peperit simul. eorum alter, nostro qui est susceptus semine, suis factis te immortali adficiet gloria. tu cum Alcumena uxore antiquam in gratiam redi: haud promeruit quam ob rem vitio vorteres; mea vi subactast facere. ego in caelum migro. (Plaut. Amph. 1131-1143)

«Fatti coraggio, Anfitrione: vengo in aiuto a te e ai tuoi. Non hai nulla da temere; gli indovini, gli aruspici, lasciali andare tutti: il passato e il futuro te li dirò io, e molto meglio di loro, perché sono Giove. Prima di tutto, ho posseduto il corpo di Alcmena, e con il mio amplesso l’ho messa incinta di un figlio. Anche tu l’avevi lasciata incinta, quando sei partito per la guerra: lei con un solo parto ha dato alla luce tutti e due i figli. Di questi, uno, quello che è nato dal mio seme, con le sue gesta ti darà una gloria immortale. Tu torna a voler bene ad Alcmena, come una volta. Non ha meritato che le venisse attribuita una colpa: è stata la mia violenza che l’ha costretta a farlo. Io torno in cielo».35

La syllechia (comunanza di letto) con la stirpe di Giove, peraltro, diventa vero e proprio motivo di orgoglio per l’Anfitrione tragico senecano, che nell’Hercules furens difende a spada tratta la versione tradizionale della nascita dell’eroe di fronte alle insinuazioni del tiranno Lico che vorrebbe invece razionalizzarla: partes meae sunt reddere Alcidae patrem genusque uerum. post tot ingentis uiri memoranda facta postque pacatum manu quodcumque Titan ortus et labens uidet, post monstra tot perdomita, post Phlegram impio sparsam cruore postque defensos deos 34. Cfr. Plaut. Amph. 1043. 35. Tr. it. Oniga 1991. Si noti comunque che nella versione plautina quello che si realizza nel ventre di Alcmena non è tanto un contatto tra i due liquidi seminali (quello umano e quello divino), quanto piuttosto una contiguità.

Capitolo 3. Fra adulterio, eugenetica ed assimilazione…

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nondum liquet de patre? mentimur Iouem? Iunonis odio crede. (Sen. Herc. f. 440-447)

«Spetta a me di ristabilire la verità sul padre e la nascita di Alcide. Dopo tante azioni memorabili di questo eroe, dopo che è stato pacificato grazie al suo braccio tutto quel che Titano vede da quando nasce a quando tramonta, dopo che tanti mostri sono stati domati, dopo che Flegra è stata cosparsa di empio sangue, e dopo che gli dei sono stati difesi, non è ancora chiaro chi è suo padre? Se mentiamo dicendo che è Giove, credi almeno all’odio di Giunone».36

Figure come quella di Ercole (la cui vicenda è analoga per molti tratti a quelle di Apollo e Dioniso) sono dunque, per così dire, figure di ibridi di uomo e di dio. Ma la cosa – nel caso del natus Alcmena (figlio di Alcmena) – non sembra venire percepita come un problema da alcuno dei personaggi del mito (se non da Giunone che perseguita il rampollo di Giove sottoponendolo a prove durissime che paradossalmente ne rivelano la vera identità).37 Per il resto, al di là delle peripezie che i figli semimortali di Zeus devono affrontare nel corso della loro carriera, la loro nascita non viene mai pensata ed indicata come un miasma (contaminazione) o come un adulterium, proprio perché il seme divino che li genera non è fonte di adulterazione, bensì, per l’appunto, di nobilitazione. Il criterio è sempre quello del contatto dei liquidi, soltanto che in questo caso il liquido che si aggiunge, diversamente da come accade per il seme del moichos, anziché macchiare, dona valore alla miscela che si immagina venga ospitata dal ventre della donna. 3.2 La storia di Marzia, Catone e Ortensio L’idea del contatto con un seme di natura superiore come mezzo di nobilitazione della stirpe deriva – come è facilmente intuibile – dal mito greco,38 che, come ha mostrato Silvia Romani, applica al mondo degli dei le medesime teorie e le medesime formulazioni che il sapere popolare e la filosofia naturale avevano elaborato a proposito della riproduzione.39

36. Tr. it. Rossi 1999. 37. Sulla persecuzione di Giunone in Sen. Herc. f. 1 ss. cfr. Li Causi 2006a, 118 ss. 38. Cfr. a tale proposito Mirto 1997, 27 ss. (la quale fa notare che, nella prospettiva della divinità, la creazione di parti gemellari è un mezzo per evitare il contatto con il seme umano “inquinante”. Per questo motivo Eracle, figlio di Zeus, deve essere distinto da Ificle, figlio di Anfitrione). 39. Romani 2004, 135.

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Generare in comune

L’idea che una donna già sposata potesse migliorare la natura del proprio nato unendosi ad un altro uomo forte e vigoroso era peraltro attribuita dai testi greci ai Lacedemoni, dei quali si diceva che di norma la mettessero in atto mettendo in comune le proprie donne.40 Il fatto che però tale pratica fosse relegata nel mondo del mito o nell’altrove vicino di Sparta ci fa comunque capire che la cultura ateniese di V secolo doveva prendere le distanze da quella che di fatto sarebbe potuta diventare una facile giustificazione della moicheia. Il quadro romano, in questo senso, non cambia di molto rispetto a quello Ateniese; tuttavia siamo a conoscenza di un caso limite – registrato a Roma – in cui si tenta di manipolare la logica sottesa all’idea dell’adulterium cercando paradossalmente di cambiarlo di segno. I personaggi coinvolti sono Marzia, Catone e Ortensio; la storia, in sintesi, può essere riassunta con le parole di Appiano, autore vissuto ai tempi di Traiano: «Catone aveva sposato Marzia, la figlia di Filippo, quando era ancora molto giovane; era molto attaccato a lei, e da lei aveva avuto dei figli. Tuttavia, la diede ad Ortensio, uno dei suoi amici, che desiderava avere figli ma che era sposato ad una donna sterile. Dopo che Marzia ebbe dato un figlio anche a lui, Catone la riprese di nuovo in casa, come se l’avesse prestata».41 (App. BC 2, 14, 99)

La richiesta che Ortensio fa della sposa dell’amico (che per giunta – come riferiscono altre fonti – era anche incinta) sarebbe di norma una pretesa controculturale facilmente destinata ad essere respinta.42 Sappiamo tuttavia che Catone finisce per cedere alle pressioni dell’amico. Nella versione della storia che compare in Plutarco si vede chiaramente come Ortensio aggiri il mos che vieta l’accesso alle donne sposate attivando un percorso riflessivo di manipolazione dello stesso. L’oratore infatti spiega che la cessione di Marzia realizzerebbe non una contaminazione bensì una unione fra due andres axioi, ovvero fra due uomini degni: «Gli uomini dabbene che mettono in comune la propria discendenza, […] – continuava l’oratore –, rendono la virtù imperitura e produttiva per le loro stirpi, e, per mezzo delle loro parentele, fondono meglio la città con se stessa (koinoumûnouj d° t™j diadoc™j ¶xàouj 40. Cfr. Plu. Comp. Lyc. Num. 3, 1-3. A proposito della “generazione in comune” presso gli Spartani in Plutarco si veda anche Lyc. 15 ss. (a tale proposito vedi Ogden 1996, 22 ss.). 41. La traduzione del passo è di Cantarella 2005, 115, cui rimando per gli altri passi che riportano la storia. 42. A tale proposito cfr. Li Causi 2007a, 203 ss.

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©ndraj tøn t> ¶ret¬n ©fîonon poieén kaã pol›coun toéj gûnesi, kaã t¬n p’lin a‹t¬n prÿj a¤t¬n ¶nakerann›nai taéj oÄkei’thsin)». (Plu. Cat Mi. 25, 6)

Il verbo che usa Ortensio è proprio koinoneo, ovvero “metto in comune”, lasciando intendere chiaramente che quello che lui vorrebbe realizzare è proprio l’incrocio delle stirpi. Tale incrocio, però, non sarebbe da intendere – nella sua prospettiva – come un vero e proprio adulterium, bensì come un contatto del seme proveniente da due individui di pari rango che darebbe vita ad una mescolanza non “turbativa”, bensì virtuosa e utile per la res publica. Ovviamente Ortensio è del tutto consapevole della natura insolita (atopos) della richiesta (cfr. Plu. Cat. Mi. 25, 5), ed è per questo che per aggirare la atopia deve attivare un percorso che è la cultura stessa a suggerirgli: nell’andare contro un mos che prescrive la non accessibilità delle donne sposate, si appoggia ad un altro mos che invece prevede che tutto si può fare in nome della morale civica. Ecco dunque che la prospettiva dell’adulterium viene completamente offuscata e si insinua, strisciante, la prospettiva dell’eugenetica. 3.3 I cani-tigre dell’oriente favoloso Non è questa la sede per occuparmi di come il gesto di Catone sia stato interpretato dai posteri.43 Il fatto che la strana storia fosse diventata argomento per le esercitazioni in utramque partem nelle scuole di retorica ci fa però capire che l’accaduto doveva essere percepito, più che come un costume abituale, come una sorta di zona grigia del mos, i cui contorni si rivelano – agli occhi degli antichi stessi – estremamente problematici.44 Dietro la problematicità dell’episodio è comunque possibile individuare – come si è visto – lo stesso quadro etnogenetico che prevede una diversa valutazione dei diversi liquidi seminali, a seconda della loro maggiore o minore nobiltà. Sulla base di questo meccanismo è dunque possibile pensare un ibrido come il frutto di un adulterium (e quindi di una adulterazione), così come è possibile pensarlo come un prodotto eugenetico. È il caso quest’ultimo dei favolosi cani-tigre dell’India e dei canilupo della Gallia di cui ci parla Plinio nella Naturalis Historia: E tigribus eos Indi volunt concipi et ob id in silvis coitus tempore alligant feminas. primo et secundo fetu nimis feroces putant gigni, ter43. A tale proposito cfr. Li Causi 2007a, 203 ss. 44. Cfr. ad es. Quint. 3, 5, 11 e 10, 5, 13. I discorsi in utramque partem (dall’una e dall’altra parte) sono i discorsi in cui si esplorano due prospettive contrapposte (per un quadro generale cfr. Granatelli 1990, 165 ss.).

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tio demum educant. hoc idem e lupis Galli, quorum greges suum quisque ductorem e canibus et ducem habent. illum in venatu comitantur, illi parent; namque inter se exercent etiam magisteria. (Plin. nat. 8, 148)

«Gli indiani vogliono che i loro cani nascano dall’incrocio con le tigri e per questo durante il periodo dell’accoppiamento legano le cagne nelle selve. Ritengono che dal primo e dal secondo parto nascano esemplari troppo feroci, allevano infine i nati della terza cucciolata. Lo fanno i Galli con i lupi, e le loro schiere di cani hanno ciascuna come capo e guida uno di questi incroci».

La notizia che l’enciclopedista romano riporta è probabilmente tratta, con alcune varianti, da un passo dell’VIII libro della Historia animalium sul quale si ritornerà più avanti. Si tratta di 607 a 2 ss. Qui Aristotele, per dimostrare che in natura è possibile l’incrocio interspecifico, racconta degli esperimenti che gli Indiani facevano con le tigri e i cani. Tuttavia, in seconda battuta, nel De generatione animalium (746 a 29 ss.), sulla base dei limiti da lui individuati per la riproduzione interspecifica, il filosofo greco finisce per razionalizzare il dato, dicendo che gli animali in questione non erano generati da un cane e da una tigre, bensì «da un animale selvaggio che assomiglia al cane e da un cane».45 La razionalizzazione aristotelica, tuttavia, non sembra giungere fino a Plinio, il quale – forse anche sulla base di una percezione più elastica dei foedera naturae46 – continua a dare credito alla versione secondo cui l’animale indiano è un ibrido generato da due esseri dalle nature estremamente dissimili. La cosa interessante comunque è che, sia nel caso degli ibridi di cane e di tigre che nel caso degli ibridi di cane e di lupo,47 i frutti dell’incrocio sono percepiti dagli antichi come animali nobili. Gli abitanti della Gallia, infatti, dice Plinio, usano i cani-lupo come capimuta, laddove invece una credenza ampiamente diffusa sia nel mondo greco che nel mondo romano attesta la mirabolante forza dei parti incrociati di cane e tigre. Di questa credenza rimangono tracce nel paragrafo immediatamente successivo della Naturalis Historia (8, 149), dove però, a causa della dinamica caotica dell’enumerazione pliniana, risulta impos45. Lanza e Vegetti 1971, 470 n. 123 ritengono, sulla base di questo dato, che HA 606 b 17 ss. sia un passo da ritenere inautentico, proprio perché i dati non coincidono con la versione del De generatione animalium. Tuttavia il criterio dell’incongruenza a me non pare di per sé sufficiente per giungere a simili conclusioni. 46. Cfr. par. 3. 4 del cap. 1 e par. 2. 4 del cap. 4. 47. Si noti che nella versione aristotelica di HA 607 a 2 s. si dice che gli incroci di lupi e cani sarebbero praticati a Cirene.

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sibile capire se il cane donato ad Alessandro Magno dal re dell’Albania sia un cane-tigre o meno.48 Resta comunque il fatto che le procedure impiegate per ottenere l’incrocio di cui si parla in 8, 148 sembrano chiaramente pratiche zootecniche di natura eugenetica.49 Che il percorso sia eugenetico, per di più, oltre che dagli effetti ottenuti (giusta dose – non eccessiva – di ferocia e di aggressività), risulta, a mio avviso, anche da un altro dato. Bisogna infatti osservare che la generazione del cane-tigre è marcata dal punto di vista del genere. Sia nell’VIII libro della Historia animalium che in Plinio, infatti, si specifica chiaramente che i cani indiani sono il risultato di un accoppiamento di una cagna con un esemplare maschio di tigre.50 Dietro questo dettaglio, apparentemente insignificante, è verosimile che sia all’opera un determinato quadro etnobiologico. Si deve infatti ricordare che la generazione, nel mondo antico, è sempre tendenzialmente concepita come paternità, anche nel caso di quelle teorie – come quella ippocratica – che riconoscono un qualche ruolo al seme femminile.51 Precisare che a concepire i cani-tigre dell’India sia un maschio di tigre, in questo senso, equivale a dire che la parte predominante nella natura dell’essere ibrido che viene formato è quella del felino, e che dunque il processo messo in atto è da pensare come una nobilitazione della stirpe canina attraverso l’innesto di un “germoglio” di tigre nel ceppo della madre,52 la cui prole viene resa – appunto – aggressiva e resistente fino all’inverosimile, oltre che – si suppone – facilmente addomesticabile. 48. In nat. 8, 149-150 si parla di un cane dalla forza prodigiosa donato dal re dell’Albania ad Alessadro Magno. Anche se comunque è difficile capire se questo cane sia identificabile con i cani tigre di cui si è parlato in 8, 148 (cosa che forse non era chiara neanche a Plinio) l’aneddoto che viene raccontato (l’animale che si rifiuta di scagliarsi contro tutte le belve che gli vengono presentate, al di fuori del leone) è comunque il medesimo che D. S. 17, 91, 8-92, Str. 15, 1, 30 ed Ael. NA 8, 1 raccontavano a proposito degli esemplari di cani-tigre dell’India che sarebbero stati donati ad Alessandro Magno dal re Sopeite (per cui cfr. Pomelli 2003, 147 ss.). 49. Termini ed espressioni che marcano la natura “eugenetica” di questo animale sono evidenti, ad es., in Ael. NA 8, 1, ove si dice che i cani generati dalla tigre sono partoriti da cagne di razza (eugeneis) e che sono orgogliosi di avere come padre un maschio di tigre (oèj pßresti patûra a‹ceén tàgrin) e che per questo motivo disdegnano di cacciare cervi e cinghiali (cfr. Pomelli 2003, 160 n. 24). Un uso simbolico di questo animale, che diventa paradigma di nobiltà (eugeneia) è poi in Pseudo Plutarco, Perì eugeneias 19 (per cui cfr. Pomelli 2003, 163 ss.). 50. Si noti comunque che qualsiasi marca di genere, a proposito degli ibridi canini, è eliminata in Arist. GA 746 a 34 s. 51. Cfr. la bibliografia cit. in n. 27 del cap. 2. 52. Ael. NA 8, 1 precisa ad esempio che non è inusuale che le cagne “nobili” scelte per generare i cani-tigre partoriscano vere e proprie tigri che non hanno nulla di canino.

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La marca di genere sembra così dare conto dei tratti dell’ibrido indiano, che evidentemente non possono scaturire da un accoppiamento di un cane con un esemplare femmina di tigre, dal momento che, evidentemente, più che essere pensato come un processo eugenetico, l’incrocio sarebbe stato spostato sul versante dell’adulterium, così come avveniva comunemente ogni qual volta si parlava di asini che montavano cavalle.53

4.

Latte interspecifico e cavalle tosate: l’ibridazione come assimilazione

4.1 L’adulterio programmato come pratica di selezione dei tratti L’ibridazione, in seno alla cultura latina, sembra dunque avere due facce. Sulla base delle credenze relative ai diversi gradi di generositas dei liquidi seminali specifici di ogni genus (e dunque degli stessi genera) è infatti possibile considerarla ora come adulterazione, ora come nobilitazione. Se il meccanismo eugenetico è evidente nel cane-tigre, un po’ più complesso risulta però il caso del mulo. A proposito di questo animale le variabili che entrano in campo sono infatti diverse. Da un lato, da un punto di vista assoluto e assiologico, esso è una “alterazione” dello speciema generico del cavallo (di cui Isidoro di Siviglia dice che i muli sono un genus), dall’altro lato però è proprio l’adulterazione che, dal punto di vista delle finalità pratiche che stanno alla base della produzione dell’incrocio, permette un percorso di selezione dei tratti pertinenti. Il mulo generato da un esemplare maschio di asino, infatti, produce – nell’ottica della biologia folk sottostante – un cavallo alterato ma perfettamente rispondente al fine per cui viene generato, mentre paradossalmente il mulo generato dall’incrocio di un cavallo con un esemplare femmina di asino risulta – come ci informano sia Plinio 53. Si ricordi poi che Plin. nat. 8, 174 indica nell’incrocio fra una cavalla e un asino selvatico addomesticato il prodotto migliore (veloce nella corsa, con zampe dure, anche se tendenzialmente indomabile), mentre in 8, 171 si dice chiaramente che la mula che nasce da un cavallo e da un’asina è «selvaggia e di una lentezza ribelle a qualsiasi stimolo» (effrenis et tarditatis indomitae), replicando i tratti di alterigia che il sapere fisiognomico antico attribuisce al padre (per cui cfr. par. 4. 2 di questo cap.). È interessante in tal senso la notizia riportata da Varro rust. 2, 8, 6, che ci dice che questo secondo tipo di ibrido era allevato a tutti effetti come erano allevati i puledri di cavallo; indice, questo, del fatto che non si faceva una reale distinzione, sul piano simbolico, fra il nuovo SG e lo SG del padre (cosa, questa, che avveniva – come afferma Ael. NA 8, 1 – anche con i figli delle cagne che si credeva che si accoppiassero con i maschi di tigre).

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che Varrone – eccessivamente riottoso e ingestibile, proprio perché l’animale che viene fuori riproduce i tratti del padre, cui il sapere fisiognomico attribuisce una alterigia e una altezzosità eccessive.54 Sia nel caso dell’eugenetica che nel caso dell’adulterazione, comunque, le tecniche della procreatica antica mirano – come cercherò di mostrare nei paragrafi seguenti – a realizzare un regime di vicinanza e di uniformità, rivelandosi così anche tecniche simboliche. Per capire come ciò possa avvenire dobbiamo ancora occuparci del mulo. 4.2 Avvicinare ciò che è lontano: zoo-tecniche (simboliche) dell’antichità Nel secondo libro del De re rustica Varrone dà chiare istruzioni per ottenere con successo un esemplare di mulo:55 pullum asininum a partu recentem subiciunt equae, cuius lacte ampliores fiunt, quod id lacte quam asininum ad alimonia dicunt esse melius. praeterea educant eum paleis, faeno, hordeo. matri suppositiciae quoque inserviunt, quo equa [ad] ministerium lactis cibum pullo praebere possit. hic ita eductus a trimo potest admitti: neque enim aspernatur propter consuetudinem equinam. (Varro rust. 2, 8, 2)

«Quando un puledro nato da un’asina viene alla luce, vien messo subito sotto una cavalla, perché il suo latte lo fa crescere meglio, in quanto dicono che il latte di cavalla è più nutriente di quello d’asina. Inoltre lo tirano su con paglia, fieno e orzo. Si dà anche cibo in maggior copia alla madre posticcia (matri suppositiciae), perché la cavalla possa offrire il suo allattamento come cibo al puledro. Questo, così cresciuto, a partire dai 3 anni di età può accoppiarsi (con le cavalle), cosa che non rifiuta di fare per la sua consuetudine con gli equini».56

Affinché l’esemplare maschio di asino non rifiuti di montare una cavalla, il poligrafo latino raccomanda di realizzare per tempo una sorta di addomesticamento reciproco fra i due animali di specie diversa.57 Questo addomesticamento, peraltro, viene realizzato mediante una pratica zootecnica che in molti suoi tratti ricorda certe 54. Cfr. n. 53 cap. 3. 55. Per altri esempi di incroci praticati dalla zootecnia latina cfr. Bodson 1995, 32 s. (che riporta gli esempi citati da Colum. 7, 2, 4 sulle tecniche per ottenere dagli ovini lana migliore attraverso la selezione e l’accoppiamento incrociato di varietà diverse). 56. La medesima notizia è riportata da Plin. nat. 8, 171. 57. L’addomesticamento reciproco – come si vedrà più avanti – avviene anche per gli incroci degli animali etiopici (per cui cfr. Plin. nat. 8, 42, analizzato al par. 2. 4 del cap. 4).

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pratiche di semi-adozione.58 La cavalla diventa nutrice dell’asino, che così si abitua a frequentare animali di genere diverso dal suo. Bisogna però dire che, oltre che essere un semplice mezzo di avvicinamento interspecifico, il latte potrebbe giocare un ruolo antropologico più profondo. Per capire come ciò possa avvenire cerco qui di riassumere i risultati di un articolo del 1997 di Roberto Danese, che ha ricostruito le teorie degli antichi in merito alla lattazione e, più in particolare, le credenze relative alle virtù del latte.59 Ebbene, secondo Aristotele (GA 776 a 26-776 b 21) il latte non sarebbe altro che il sangue mestruale della donna che viene cotto per mezzo di un impulso formativo del seme maschile. Tale credenza peraltro è riprodotta, in ambito latino, ad esempio in Varrone (Catus de liberis educandis fr. 8 Riese), che ritiene che il lac sia in realtà sanguinis spuma (spuma del sangue). Il fatto è però che tale “sangue” trasformato in liquido nutritivo assume, per gli antichi, tratti che vengono pensati come specifici della stirpe all’interno della quale il bambino o il cucciolo di animale vengono ad essere creati: «il latte, come il sangue che lega i membri della stirpe, porta in sé e trasmette, secondo i vari usi che se ne fanno, l’intensità dell’impronta formatrice del genitore quale si rivela nei caratteri acquisiti dal figlio, traducendosi anche in potenziale forza fecondatrice».60

Sappiamo peraltro che la fratellanza di latte, per gli antichi, era pensata come qualcosa che determinava una affinità biologica (e psicologica) fra i bambini che venivano allattati al seno di una stessa nutrice. Plutarco, ad esempio, racconta (Cat. ma. 20, 5) che la moglie di Catone il censore allattava i figli degli schiavi perché, così facendo, «ne plasmava i buoni sentimenti verso il figlio grazie alla condivisione del nutrimento».61 Una convinzione, questa della matrona, che trova credito anche nelle teorie colte di Favorino: quamobrem non frustra creditum est, sicut valeat ad fingendas corporis atque animi similitudines vis et natura seminis, non secus ad eandem rem lactis quoque ingenia et proprietates valere. (Fav. fr. 38 Barigazzi = Gell. 12, 1, 14)

58. Il termine altor, in latino, può indicare tanto una funzione del rapporto genitore/figlio (quella del nutrire) quanto la relazione non ufficiale di quasiadozione che intercorre in genere fra un pater familias romano e un suo alumnus nato generalmente da schiavi o da uomini affrancati che fanno o hanno fatto parte della familia (a tale proposito cfr. Corbier 1990, 16). 59. Danese 1997, 39 ss.; spec. 45 ss (ma cfr. anche Sissa 1983, 96 ss.). I passi che cito in questa sezione del capitolo (e le argomentazioni ad esso relative) sono tratti da questo saggio. 60. Danese 1997, 51 n. 38. 61. Tr. it. Danese 1997, 55.

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«perciò non a torto si crede che, come la forza e la natura del seme servano a modellare le somiglianze fisiche e caratteriali, anche le virtù e le proprietà del latte non servano per uno scopo diverso».62

Se ne deduce, quindi, che il latte, formato dalla cottura attivata dal sangue maschile, ne possiede, per i Romani, le doti creative, e che pertanto l’asino che beve il latte di cavalla venga in qualche modo “cavallizzato”. Lo scambio del latte dunque è una maniera per “assimilare”, nella sostanza (molto più che nella materia), ciò che non è simile e per trasmettere all’asino i mores dei cavalli, ma anche – per così dire – per dotarlo di un “corredo genetico” che ne plasmi l’alterità.63 L’assimilazione, tuttavia, può avvenire verso l’alto – come è nel caso della moglie di Catone il censore e dei figli degli schiavi – ma anche verso il basso. A tale proposito è molto eloquente il prosieguo del passo di Favorino: quae, malum, igitur ratio est nobilitatem istam nati modo hominis corpusque et animum bene ingeniatis primordiis inchoatum insitivo degenerique alimento lactis alieni corrumpere? Praesertim si ista, quam ad praebendum lactem adhibebitis, aut serva aut servilis est et, ut plerumque solet, externae et barbarae nationis est, si inproba, si informis, si inpudica, si temulenta est; nam plerumque sine discrimine, quaecumque id temporis lactans est, adhiberi solet. Patiemurque igitur infantem hunc nostrum pernicioso contagio infici et spiritum ducere in animum atque in corpus suum ex corpore et animo deterrimo? Id hercle ipsum est, quod saepenumero miramur, quosdam pudicarum mulierum liberos parentum suorum neque corporibus neque animis similes existere […] quoniam videlicet in moribus inolescendis magnam fere partem ingenium altricis et natura lactis tenet, quae iam a principio imbuta paterni seminis concretione ex matris etiam corpore et animo recentem indolem configurat. (Fav. fr. 38 Barigazzi: Gell. 12, 1, 17-20)

«Maledizione! Che ragione c’è allora di corrompere col nutrimento non familiare e degenere del latte altrui questa nobiltà dell’uomo che è appena nato e un corpo e un carattere formati inizialmente da principi ben disposti? Specialmente se costei, che impiegherete per fornire il latte, è schiava e di origini servili e, come spesso accade, straniera e barbara, se è incontinente, brutta, spudorata, ubriacona; infatti generalmente si è soliti scegliere senza far distinzione qualunque donna in quel momento abbia il latte. Sopporteremo dunque che questo nostro bambino sia danneggiato da un contatto insano e che immetta nel suo animo e nel suo corpo uno spirito che viene da 62. Tr. it. Danese 1997, 57 n. 50. 63. Per un quadro su credenze analoghe sui liquidi materni in seno ad altre culture cfr. Héritier 20002, 109 ss.

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un corpo e da un animo della peggior specie? È proprio per questo che spesso ci meravigliamo vedendo che i figli di certe donne pudiche non assomigliano ai loro genitori né fisicamente né caratterialmente […] perché è chiaro che nella crescita morale hanno un ruolo notevole il carattere della nutrice e la natura del latte, che, impregnata sin dal principio dalla concrezione del seme paterno, in base al corpo e al carattere della madre configura la nuova personalità».

La pratica del baliatico affidata a donne di rango infimo comporta dunque il rischio dell’innesto di liquidi contaminanti nel corpo del bambino, la natura del quale può venire addirittura riconfigurata e per certi versi riplasmata. Il bambino, in altri termini, assumendo – per contatto – alcuni tratti deleteri della balia che lo ha allattato, finisce per venire assimilato ad essa e, per così dire, per ibridarsi. Bisogna comunque immaginare che le dinamiche biologiche che riguardano la lattazione umana debbano essere attive anche nel caso degli animali. Nel caso dell’asino “cavallizzato”, ad esempio, è chiaro che quello che avviene è un percorso di “nobilitazione” (il latte della cavalla, del resto, come specifica Varrone in rust. 2, 8, 2, fa crescere meglio il puledro di asino) e che dunque il modello umano di riferimento deve essere evidentemente quello della matrona romana che allatta i figli degli schiavi. Al contrario dobbiamo immaginare che un cavallo allattato da un’asina subisca il processo inverso di degenerazione. Nel sapere fisiognomico antico, del resto, il cavallo e l’asino sono modelli che incarnano vizi completamente differenti, che possono essere pensati sulla base di una dicotomia basso/alto che colloca il cavallo sul versante della spocchia nobiliare e l’asino sul versante dell’umanità di basso rango; prova ne è, ad esempio, un passo del trattato De physiognomonia attribuito ad Apuleio, dove i due speciemi generici sono descritti uno di seguito all’altro nella seguente maniera: Equus animal erectum est atque exultans, in certando animosum, victoriae cupidum, non impatiens laboris. Homines ergo qui ad huius animalis speciem referuntur, capillo erunt tenso, rubeo, genas habebunt maiores, collum longius, nares magis patulas, labium inferius demissum, erunt calidi in venerem, iactantes sui, contentiosi nimium, sapientes minus. [119] Asinus animal est iners, frigidum, indocile, tardum, insolens, vocis ingratae. Qui ad huius animalis speciem referuntur homines necesse est sint cruribus crassis, longo capite, auribus crassis, longis, labiis demissis, voce deformi; qui sunt tardi, frigidi, penuriae atque iniuriae contemptiores. (Physiogn. 118 s.)

«Il cavallo è un animale altero e baldanzoso, impetuoso nella lotta, desideroso di vittoria, resistente alla fatica. Perciò gli uomini che rimandano al tipo di questo animale avranno capelli dritti, rossi, guance piuttosto grosse, collo assai lungo, naso piuttosto largo, lab-

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bro inferiore pendente; saranno focosi in amore, assai polemici, poco saggi. [119] L’asino è un animale pigro, inetto, indocile, lento, insolente, dalla voce sgradevole. È giocoforza che gli uomini che rispondono al tipo di questo animale abbiano le gambe grosse, la testa lunga, le orecchie grosse, lunghe, le labbra pendenti, una voce sgraziata. Sono lenti, inetti, sprezzanti delle privazioni e delle offese».64

Come risulta evidente dalla lettura del brano, il cavallo non è (come accade invece con il leone) un paradigma del tutto positivo;65 tuttavia, a fronte di alcuni tratti come la focosità e la mancanza di sapientia, il suo tipo presenta anche alcune marche tendenzialmente non disprezzabili o comunque sfumate.66 L’asino, per converso, si sposta sul versante della negatività assoluta. In ogni caso, bisogna anche notare che la negatività di cui sono segno i tratti cavallini non è mai la negatività attribuita ai tratti asinini. Se infatti il modello fisiognomico dell’asino sembra rimandare a caratteristiche decisamente e inequivocabilmente servili – quali la inertia, la mancanza di docilità, la lentezza e l’insolenza –,67 la tipologia del cavallo è associabile a tratti quali l’orgoglio e l’alterigia che sono tipici invece del modello dello sprezzo gentilizio. Chi è simile al cavallo, infatti è erectus, iactans, honoris et laudis cupidus (Physiogn. 46: «impettito, altero, amante di lodi e di onori»).68 Se però il cavallo può essere pensato come animale “altero” e “focoso”, e dunque troppo dissimile dall’asino, evidentemente non è solo quest’ultimo che deve essere assimilato al primo. Perché si possano incrociare con gli asini, infatti, le cavalle devono perdere la loro proverbiale alterigia.69 Come si è visto nel secondo capitolo, era stato Democrito, a dire che, perché una cavalla potesse unirsi con un esemplare maschio di asino bisognava che le venisse alterata l’identità. La perdita della criniera cui si fa allusione nel passo citato da Eliano, in questo senso, è chiaramente uno sfregio che conduce simbolicamente l’animale nella sfera dell’indistinzione, e che realizza la condizione paradossale – ti64. Tr. it. Raina 19942. 65. Cfr. ad es. Aristot. Phgn. 810 b 32 s. (si ascrive stoltezza a chi ha la parte superiore della schiena curva all’indietro come i cavalli); Physiogn. 48 (le labbra come quelle del cavallo in un uomo sono segno di inerzia); 76 (la schiena curva come quella dei cavalli come tipiche dell’adulatore). 66. Il cavallo in Physiogn. 46 viene descritto come amante di lodi e di onori. 67. Per i tratti dell’asino cfr. anche Aristot. Phgn. 808 b 36 s. (insolenza dell’asino e sfrenatezza sessuale); 811 a 26 e 811 b 24 s. (stupidità); 811 b 6 s. (codardia); 811 b 10 (lentezza); 811 b 31 e 812 a 8 (scarse capacità percettive); 813 a 31 s. (insolenza); Physiogn. 48 (inerzia); 83 (stupidità). 68. Tr. it. Raina 19942. 69. Si pensi ad es. alla famosa donna-cavalla della satira di Semonide fr. 7, 57 ss. West.

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pica, secondo Sperber (1975, 22 ss.), del dominio cognitivo del simbolismo animale – in base alla quale un essere che non presenta i tratti del proprio speciema generico, non fa più parte di esso. Se dunque la iuba del leone è il segno della sua generositas (che non a caso viene meno nei leopardi), la perdita della criniera da parte della cavalla diventa un mezzo per attivare una degenerazione. Come le donne troiane tosate che attendono di essere date in sorte ai Greci conquistatori, o come la Perikeiromene di Menandro,70 la cavalla viene dunque sfigurata e preparata così per il traghettamento verso l’alterità e verso quella novitas che sarà il mulo. Di tale “artificio adulterino” frutto della violenza umana tuttavia non c’è traccia in altri testi latini. Per preparare una cavalla alla monta dell’asino si ricorrerà al medesimo espediente che si usa per l’esemplare maschio di asino: il latte. O almeno così ci informa Plinio: ad tales partus equas neque quadrimis minores neque decennibus maiores legunt arcerique utrumque genus ab altero narrant nisi in infantia eius generis quod ineat lacte hausto. quapropter subreptos pullos in tenebris equarum uberi asinarumve eculeos admovent. (Plin. nat. 8, 171)

«Per questo tipo di incrocio si scelgono cavalle che non abbiano meno di quattro anni o più di dieci; si dice che gli animali di queste due specie si tengano lontani uno dall’altro, se non hanno bevuto da piccoli latte da un esemplare di quella specie con cui si accoppiano. Perciò al buio si tolgono loro i piccoli e si spingono alle mammelle delle cavalle e i cavallini a quelle delle asine».

È chiaro comunque che, nel caso della cavalla “asinizzata” l’assimilazione sarà un abbassamento di rango, un modo meno invasivo e meno violento di “tagliare la criniera”.

5.

Il tabù della doppia natura (conclusioni)

Come si è visto nei paragrafi precedenti la riproduzione che coinvolge due esseri appartenenti a due distinti speciemi generici, al di là della maggiore ricchezza lessicale che si registra sul piano denotativo, è pensata a Roma, così come in Grecia, come una “adulterazione” di una stirpe. La logica dell’adulterazione, esattamente come avviene in Grecia, scatena percorsi in cui antroposfera e zoosfera vengono ad incrociarsi in una zona di interscambio simbolica. Il caso dei leoni traditi dalle lo70. Per la Perikeiromene cfr. n. 9 del cap. 2. Per le troiane tosate prima di essere imbarcate come schiave prigioniere di guerra cfr. ad es. E. Tr. 142 (ma vd. anche Sen. Tro. 410, che rappresenta le donne troiane nell’atto di strapparsi i capelli, in quella che più che una pompé di donne catturate viene rappresentata come una cerimonia funebre).

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ro leonesse può infatti essere letto ora come una proiezione sul mondo animale di attese etiche, vizi e valori umani, ora – come avviene peraltro nei testi letterari che solo di sfuggita ho citato (Eschilo, Seneca) – come un antimodello che segna l’alterità assoluta di una ferinità che viene tendenzialmente (e implicitamente) identificata con il femminile. La logica dell’adulterazione, tuttavia, a partire dalla stessa base etnobiologica che la crea e la alimenta, può venire aggirata e manipolata al punto da generare, in inea con i modelli mitici delle nascite speciali, una dinamica che potremmo definire per certi versi eugenetica. È il caso, questo, dei cani-tigre dell’India o dei cani-lupo della Laconia. Tale logica alternativa, tuttavia, non sembra mai operare in modo assoluto, dal momento che per i fini della zootecnia non sempre il tratto della nobiltà dell’animale merita necessariamente di essere selezionato. È il caso del mulo che, come si è visto, se generato da un esemplare maschio di cavallo e da un’asina, diventa – secondo l’opinione comune registrata dalla storia naturale e dai trattati pratici di economia campestre – ingestibile. In ogni caso, nella misura in cui si devono creare animali artificiali per mezzo dell’incrocio forzato, le pratiche zootecniche sembrano operare secondo logiche simboliche profonde che tendono a mascherare l’unione di elementi eterogenei trasformandola in “unione di simili”. A proposito di tali percorsi di assimilazione (l’addomesticamento reciproco, la lattazione incrociata) è possibile ipotizzare una dinamica simbolica molto interessante. Quello che sembra emergere sullo sfondo è infatti un vero e proprio tabù che consiste nel rifiuto della compresenza di due distinte nature nel medesimo animale.71 Sulla base di questo tabù l’ibridazione deve essere trasformata e manipolata in modo tale da somigliare quanto più possibile alla normale riproduzione sessuata. L’alterità estrema e la novitas che si producono per mezzo dell’incrocio interspecifico vengono così processate (e “addomesticate”) in modo tale da essere ricondotte per certi versi all’identità, secondo un quadro che appare a prima vista come del tutto specifico della cultura latina.72 Secondo questo meccanismo è come se l’asino e la cavalla che producono il mulo fossero già, per certi versi, muli essi stessi. Muli che, ancora prima che dall’accoppiamento e dal parto, sono stati creati dallo scambio del latte e dall’assimilazione dei mores. 71. L’esistenza di questo tabù della doppia natura è attestata per Aristotele dallo studio di Sillitti 1980, 9 ss. (per cui cfr. anche n. 32 del cap. 1) Il quadro delineato in questo capitolo sembra però fare emergere un tabù di analoga natura anche per la cultura latina. 72. L’ipotesi meriterebbe comunque di essere verificata approfondendo ulteriormente lo studio della figura del mulo nel mondo greco.

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CAPITOLO 4

L’invasione dei mostri. Le teorie sull’ibridazione e il dibattito sull’esistenza dei centauri

«Si chinò ad accarezzargli la nuca con le antenne, facendogli venire la pelle d’oca, quindi se ne andò mentre lui ancora armeggiava con gli stivali» C. Miéville, Perdido Street Station

Con l’incremento del sapere geografico sui popoli lontani – e soprattutto con l’espansione progressiva del regno di Alessandro prima, di Roma dopo – aumentano le notizie relative ad animali mirabolanti,1 il cui aspetto sembra essere il frutto del bricolage di un demiurgo impazzito. Esemplare, in tal senso, è il tono di meraviglia che traspare dal seguente brano di Diodoro Siculo: «E la zona confinante con la Siria dà sostentamento a un gran numero di gagliardi animali selvaggi: e infatti, leoni e leopardi sono molto più numerosi e più grandi e di gagliardia superiore rispetto agli animali della Libia e si dà il caso che vi nascano, inoltre, quelle che vengono chiamate tigri babilonesi. [3] Essa genera anche animali dalla doppia natura e di aspetto composito, tra i quali quelli che hanno nome struzzocammelli: comprendono nella loro struttura, e in conformità con il loro nome, un misto di volatile e di cammello (fûrei d° kaã z¸a difu≈ kaã memigmûna taéj Ädûaij, Ún aÜ m°n ‘nomaz’menai strouîokßmhloi perieiløfasi toéj t›poij màgmata chnÒn kaã kamølwn ¶kolo›îwj t– proshgoràv), infatti hanno dimensioni analoghe a un cammello appena nato, la testa irta di peli 1. Cfr. a tale proposito Romm 1992, 108; French 1994, 105 ss. (che però a mio avviso erra nel prendere sul serio l’ipotesi della partnership scientifica fra Alessandro ed Aristotele); Beagon 1992, 128. N.B.: la tr. it. di D. S. 2, 50, 2-3 – cit. di seguito – è di M. Zorat (in Cordiano e Zorat 2004).

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sottili, gli occhi grandi e di colore nero, che non si differenziano per forma e per colore da quelli dei cammelli». (D. S. 2, 50, 2-3)

Il termine usato per qualificare questo stranissimo animale che è lo strouthokamelos (verosimilmente lo struzzo, sconosciuto prima del I sec. d.C.) è diphyes, traducibile in italiano con “dalla doppia natura”. L’aggettivo in questione, analogamente a come avviene con biformis in latino, è in genere usato per gli esseri del mito, gli esseri che, appunto, sono pensati come una accozzaglia di membra assemblate caoticamente. Non a caso, in questo senso, l’altro termine su cui Diodoro insiste poliptoticamente è proprio il verbo meignymi (mescolo), che, soprattutto a partire dalle elaborazioni filosofiche dei Presocratici, aveva cominciato ad essere usato in contrapposizione a kerannymi (mescolo in maniera profonda e temperata). Se infatti il frutto del kerannymi era la krasis, ovvero la mescolanza «totale e originante un corpo nuovo completamente omogeneo»,2 la mixis indicava il semplice contatto e la giustapposizione, anche casuale, di elementi che potevano avere vari gradi di eterogeneità. Che gli animali dei margini del mondo fossero visti anche a Roma come un’accozzaglia confusa, ne è prova poi anche il seguente passo oraziano: si foret in terris, rideret Democritus, seu diversum confusa genus panthera camelo sive elephans albus volgi converteret ora. (Hor. epist. 2, 1, 194-196)

«Se Democrito fosse ancora vivo, a vedere gli sguardi della folla attirati dagli elefanti bianchi o dagli strani incroci di pantere e cammelli, morirebbe dal ridere».

Dietro il velo della battuta, il riferimento divertito alla figura di Democrito è una spia di come i mirabilia animali che vengono dalle parti più remote del mondo possano essere visti. Prove viventi delle 2. Montanari 1979, 175, il quale però – in contrapposizione rispetto agli studi lessicografici tradizionali (per cui cfr. 21 ss.) – rileva che l’opposizione mixis/krasis dei filosofi è uno sviluppo posteriore, dal momento che il significato originario dei termini doveva essere, per krasis, di “mitigazione/temperamento” e “annacquamento”, mentre, per mixis, copriva un ambito semantico molto più vasto (compenetrazione reciproca, contatto reciproco, unione, sparpagliamento, suddivisione minuta, confusione/indistinzione, disordine). A tale proposito cfr. spec. 64 ss. e 134 ss.

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teorie atomistiche, i camelopardi e gli elefanti bianchi dimostrano, con la loro stessa esistenza, che gli speciemi generici che popolano il mondo sono frutto del caso. Un caso che però sembra avere anche non pochi tratti perturbanti, dal momento che, già a partire dagli Indikà di Ctesia, scritti nel IV sec. a.C., si favoleggiava dell’esistenza di esseri mostruosi in cui i tratti ferini sono mescolati con quelli umani. Esemplare, in tal senso, è il manticora indiano, di cui si diceva che possedesse un corpo di leone, una coda di scorpione munita di dardi e un volto umano con una triplice fila di denti.3 Alle numerose presenze di esseri mostruosi dei confini del mondo, poi, cominciavano ad aggiungersi una serie di ibridi avvistati, a partire almeno dal I sec. d.C., in zone della Grecia e dell’Italia: il tritone di Tanagra, ma anche l’ippocentauro della Tessaglia o le Nereidi comparse nelle coste del Portogallo.4 A spiegare l’esistenza di queste bestie paradossali che sempre più andavano affollando i trattati etnografici, geografici e paradossografici dei Greci e dei Romani, oltre che il caso, intervengono anche alcune teorie colte. Una, ad esempio, è quella del determinismo climatico-ambientale cui si è fatto riferimento nel primo capitolo di questo volume.5 Fra le altre teorie che possono essere chiamate in causa, però, ci sono anche le riflessioni e le ipotesi sviluppate dalla filosofia naturale in merito alla riproduzione degli animali e alle zoogonie. Sarà proprio di queste teorie che intendo occuparmi in questo capitolo. Prima di cominciare è però opportuno, forse, fare una breve premessa. L’indagine che mi accingo a condurre, infatti, parte anche dal presupposto in base al quale ogni teoria “scientifica” è anche una rappresentazione culturale. Ciò significa che ogni teoria scientifica, in quanto rappresentazione, e non mera e semplice riproduzione, del reale è soggetta ad analisi epidemiologica. Ogni teoria, infatti, nel momento stesso in cui viene trasmessa, è sottoposta (anche se con scarti minimi di significato) ad un duplice processo di risemantizzazione e di rifunzionalizzazione. In altri termini, ogni volta che una teoria viene riutilizzata di autore in autore, non abbiamo copie di questa teoria, bensì versioni. In 3. Per il manticora, oltre che il passo di Filostrato citato al par. 2. 2 del cap. 1, cfr. Ctesia FGrHist 688 F. 45, 15: Phot. Bibl. 45b 31-46 a 12 Henry; Arist. HA 501 a 8-501 b 1; Paus. 9, 21, 4; Plin. nat. 8, 75 e 101, Ael. NA 4, 21 (per cui cfr. Li Causi 2003, 17 ss.). 4. Per il tritone avvistato a Tanagra cfr. Paus. 9, 20, 4 ss. ed Ael. NA 13, 21 (cfr. Li Causi 2003, 283 ss., oltre che Mayor 2000, 231), per l’ippocentauro della Tessaglia, Plin. nat. 7, 35. L’avvistamento delle Nereidi in una costa del Portogallo è invece registrato in Plin. nat. 9, 9 (per questi passi cfr. Romano 1998, 137 ss.). 5. Cfr. spec. par. 2. 2 del cap. 1.

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tal senso, cercherò di mostrare come alcuni percorsi buoni per pensare (o anche per negare) l’esistenza di ibridi di uomo e animale e mostri paradossali in genere, pur continuando ad avere lunga vita e a venire trasmessi, varino completamente di significato ogni volta che vengono innestati in contesti diversi da quelli di provenienza.

1.

Negazioni e processi antropopoietici

1.1 Aristotele e i mostri dell’Africa: una razionalizzazione esclusiva Se nei passi che di Diodoro e di Orazio sopra citati l’unica cifra che permette di parlare dei mostri delle zone lontane del mondo è quella del caso, della meraviglia e dell’insensatezza, parallelamente, già in ambito greco, si affermano delle tendenze razionalizzanti. Mostri come quelli dell’Etiopia e dell’India, la cui somiglianza con le figure del mito è sorprendente,6 sono spiegati da Aristotele come frutto di continue ibridazioni: «In genere gli animali feroci sono più feroci in Asia; in Europa invece sono tutti più coraggiosi, mentre in Africa presentano una maggiore varietà di forme. A questo proposito c’è anche un proverbio che dice che l’Africa genera sempre qualcosa di nuovo e strano. Sembra in effetti che a causa della scarsa piovosità della zona gli animali si accoppino quelle volte che si incontrano presso i rigagnoli e che questo avvenga anche per gli esseri che non appartengono alla stessa razza». (Arist. HA 606 b 17-21)

Benché comunque il filosofo riconosca lo stato di laboratorio biologico all’Africa, per via delle condizioni climatiche estreme che di fatto abbattono le barriere interspecifiche e “addomesticano” gli animali l’uno rispetto all’altro, per l’ibridazione, anche nei casi dei margini estremi del mondo (le eschatiai tes oikoumenes), dove la natura sembra operare secondo leggi sgranate, sono pur sempre previsti dei limiti ben precisi:7

6. I pegasi sono diventati animali del presente etnografico dell’Etiopia in Plin. nat. 8, 72. In nat. 5, 44 si dice invece che i Satiri vivono sul monte Atlante (cfr. anche 6, 197). 7. Per altre versioni del “proverbio libico” cfr. Zen. 2, 51 Leutsch; Diogenian. 6, 11 Leutsch; Greg. Cipr. 2, 60 Leutsch; Apostol. 10, 75 Leutsch; Anaxil. fr. 27 Kaibel. È verosimile, ma non completamente dimostrabile, che un accenno a questo proverbio sia stato fatto nel trattatello del Corpus Hippocraticum su Arie, Acque e Luoghi (12: 2, 53-56 L), nella parte lacunosa relativa all’Egitto e alla Libia (a tale proposito cfr. Bottin 1986, 138 n. 30 e Borca 2003, 54 ss.).

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«L’unione è feconda solo quando la durata della gestazione è la stessa e quando la taglia di un animale non è molto differente da quella dell’altro. Questi animali infatti si addomesticano fra di loro proprio perché hanno bisogno di abbeverarsi ed al contrario degli animali delle altre zone del mondo hanno bisogno di bere più in inverno che in estate». (HA 606 b 22-25)

I limiti individuati da Aristotele, tuttavia, hanno tutta l’aria di derivare da quella che potremmo chiamare una “biologia selvaggia” e non, probabilmente, da un’osservazione diretta del fenomeno dell’ibridazione. Sappiamo infatti, ad esempio, che nel caso della gestazione del mulo, che come abbiamo visto per gli antichi è spesso presentato come l’ibrido per antonomasia, la durata della gravidanza nella cavalla inseminata da uno stallone asino è esattamente intermedia rispetto a quella delle due specie (11 mesi per il cavallo e 12 mesi per l’asino), e dura una o due settimane più a lungo rispetto a quella del cavallo.8 Se dunque asino e cavallo di fatto non hanno i medesimi tempi di gestazione, è possibile che dietro la storia naturale di Aristotele, apparentemente asettica, ci sia l’interferenza di una rappresentazione culturale che opera nel profondo e che (probabilmente anche inconsciamente da parte dello Stagirita) viene celata agli occhi del lettore.9 Aristotele, in altri termini, nel momento in cui sembra descrivere fedelmente quello che avviene nel mondo della natura, con molta probabilità tiene presente, e al contempo ricostruisce, una norma ideale. La cosa, del resto, può risultare più chiara se si prende in esame la trattazione sugli incroci interspecifici nel De generatione animalium. Ebbene, Aristotele, nel secondo libro di quest’opera, riprende le stesse osservazioni effettuate nella Historia, e amplia il ventaglio dei limiti previsti per la generazione dell’ibrido, aggiungendo a quelli della taglia e dei tempi di gestazione anche quelli della physis e dell’aspetto; tutti elementi, questi, che in una biologia in cui non si cono8. Ricavo la notizia dal seguente sito: http://www.agraria.org/zootecnia/ mulo.htm. 9. Aristotele spende il corrispettivo di ben sei pagine di edizione teubneriana del De generatione animalium (746 b 15 ss.) per spiegare la sterilità del mulo (tratto, questo, che viene visto come eccezionale rispetto a quella che per tutti gli altri ibridi viene individuata come la norma, vale a dire la capacità di riprodursi), e tuttavia evita sistematicamente di analizzare le cause che lo rendono sempre (e non eccezionalmente) somigliante sia al padre che alla madre. Sarà Galeno (De semine 2, 1: 4, 603, 15-604, 9 K) a usare l’esempio del mulo per ipotizzare una qualche azione del seme femminile (sia pure all’interno di un quadro ancora fortemente androcentrico). A tale proposito cfr. Li Causi 2005, 103 ss.

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sce il DNA, costituiscono – come si è visto – gli unici principi di identificazione (gestaltica) di uno speciema generico:10 «In base ad una legge di natura, l’accoppiamento si ha, di norma, tra animali dello stesso genos (gàgnetai d° ” sunduasmÿj toéj zˆoij kat™ f›sin m°n toéj ”mogenûsin); tuttavia ad accoppiarsi possono essere anche animali che hanno una natura simile e un aspetto non del tutto differente, qualora la loro taglia sia equivalente e siano uguali i tempi di gestazione. Per gli altri animali i casi simili sono rari: una cosa del genere, ad esempio, si può verificare anche per i cani, le volpi, i lupi. I cani d’India sono generati da un animale selvaggio che assomiglia al cane e da un cane. Un fenomeno analogo si è visto che accade anche con quegli uccelli che sono propensi al coito, come per esempio le pernici e i polli. Inoltre sembra che tra gli uccelli con le unghie ricurve, i falchi di specie diversa si uniscono tra di loro. Questo accade anche per alcuni altri uccelli. Quanto agli animali marini non si è osservato nulla che sia degno di attenzione; si crede tuttavia che gli angeli-razze nascano dall’accoppiamento del pesce angelo e della razza. Si dice anche che il ben noto proverbio sulla Libia, secondo il quale la Libia nutre sempre qualcosa di nuovo, sia tramandato perché in quella regione si accoppiano fra di loro anche animali non omofili. Dal momento che c’è poca acqua, incontrandosi tutti in pochi luoghi che hanno sorgenti, si accoppiano fra di loro anche animali che non sono dello stesso genos». (Arist. GA 746 a 29-746 b 11)

Ora, se la generazione incrociata nella Historia animalium veniva presentata come un fenomeno naturale raro e geograficamente marginale, che ha luogo soprattutto in una zona del mondo in cui, per i Greci, è normale ciò che altrove è eccezionale, nel passo del De generatione animalium l’ibridazione, pur essendo sempre considerata un’eccezione a una norma, risulta essere una eccezione generalizzata, tanto da venire proposta quasi come una tendenza statistica universalmente valida a fronte di un’altra tendenza universale (quella, appunto, secondo la quale l’accoppiamento avviene per lo più fra omofili). In altri termini, l’ibridazione, per Aristotele, viene enucleata dalla zona d’ombra del teratodes e della superstizione per essere ammessa con tutti i crismi nel mondo della natura. Non è una cosa mostruosa dunque – questo sembra essere il senso del passo appena letto – che gli animali di uno speciema generico si accoppino con animali di altri speciemi generici (a patto che non siano troppo dissimili). I cani, le volpi, gli uccelli, anzi, sembrano farlo con una certa frequenza, e per di più anche in zone che non sono le eschatiai.11 10. Sull’aspetto come principio di individuazione specifica cfr. parr. 1 e 2. del cap. 1. 11. Aristot. GA 746 a 29 ss.

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I frutti di accoppiamenti interspecifici, inoltre, possono anche allignare e, addirittura, creare nuovi speciemi generici che si differenziano definitivamente da quelli che li hanno generati per la prima volta (GA 746 b 12-15).12 Cosa, questa, in contraddizione con i principi logici esposti in 747 b 27-748 a 8, dove si dice, in sostanza, che «se A è il prodotto di B e C, A e A non possono produrre un altro A, perché questo contraddice la definizione “A è un prodotto di B e C”».13 Ebbene, questi principi, Aristotele li presenta come vuoti e troppo universali (748 a 7-8: o‰toj m°n oÂn ” l’goj kaî’lou làan kaà ken’j), dal momento che sa che quella che dovrebbe essere la norma logica, in natura, è in realtà solo un’eccezione: il mulo, che, a meno che non si tratti degli emioni della Siria,14 può essere generato soltanto da una cavalla e da un asino e mai da due muli.15 Tuttavia, sebbene lo Stagirita sia consapevole del fatto che la natura segua leggi valide soltanto statisticamente (epì to poly) e che spesso non operi secondo logica (come nel caso della sterilità del mulo), relativamente ai limiti della taglia e dei tempi di gestazione si dimostra inflessibile. Se dunque da un lato il modello proposto rende più elastica la natura e razionalizza le presenze animali più sorprendenti, trovando per esse una eziologia, dall’altro esclude implicitamente quelle che di fatto sono da marcare come notizie troppo fantasiose: i centauri, e, più in generale, gli ibridi di uomo e di animale non possono esistere: «Si dice abitualmente che il nato ha la testa di caprone o di bue, e in casi simili relativi ad altri animali si dice che un vitello ha la testa di bambino o che la pecora ha la testa di bue. Tutti questi fenomeni accadono in virtù delle cause di cui già si è parlato, per cui nulla di ciò di cui si racconta esiste veramente: si tratta soltanto di somiglianze. 12. Cfr. a tale proposito anche Plin. nat. 8, 173. 13. Riporto la spiegazione del passo data da Lanza e Vegetti 1971, 927. 14. Aristot. GA 746 a 29. 15. Secondo quanto ci spiega la biologia contemporanea solo la femmina del mulo può essere occasionalmente fertile. Vedi ad es. http://www.agraria.org/ zootecnia/mulo.htm: «Non sono rari i casi di mule che hanno concepito e partorito soggetti vivi e vitali. Il numero dei cromosomi (2n) è pari a 64 nell’Equus caballus e 62 nell’Equus asinus. Nella mula, è probabile che, durante le fasi evolutive dell’ovulo, con l’espulsione dei globuli polari, possa restare nell’ovulo stesso un corredo cromosomico di tipo “cavallo”: se la fecondazione è dovuta a nemaspermi di cavallo, nascerà un puledro cavallino; se invece i nemaspermi sono di asino, nascerà un puledro mulo». La rara fertilità del mulo era comunque registrata anche dagli antichi (cfr. ad es. Arist. GA 748 b 20 ss., il quale però dice che in questi rari casi è sempre il mulo maschio ad essere fertile), che però tendevano a considerare questo fenomeno non un atto conforme a natura, ma un vero e proprio prodigio divino (cfr. ad es. Plin. nat. 8, 173; Hdt. 3, 151 ss.; Cic. div. 1, 36 e 2, 49).

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Cosa, del resto, che accade anche nei casi di esseri non menomati. Perciò, spesso, chi vuole prendere in giro una persona non bella, la paragona ora ad una capra che spira fuoco ora a un montone che muove all’assalto. Un esperto di fisiognomica, poi, riconduceva tutti gli aspetti a quelli di due o tre animali, e quando parlava, spesso riusciva a convincere. Che è impossibile che esista una simile anomalia, vale a dire che un animale si formi in un altro animale, lo dimostra il fatto che i tempi della gestazione dell’uomo, della pecora, del cane e del bue sono molto diversi fra loro. Ed è impossibile che ciascuno di questi esseri nasca in maniera difforme rispetto al tempo che è il suo proprio». (GA 769 b 13-25)

Tutto ciò che la tradizione teratologica ha tramandato come prodotti di accoppiamenti di uomini con animali in realtà non è che frutto di abbagli, di metafore prese alla lettera, di analogie che diventano identità. 1.2 L’eredità dell’amato maestro: le razionalizzazioni di Palefato Se dunque il polimorfismo dei mostri della Libia è perfettamente spiegabile sulla base della filosofia naturale (che riduce il tutto ad una incessante speciazione ibridata), i centauri, i minotauri e, in generale, le notizie sugli ibridi di uomo e animale per Aristotele non sono altro che processi comunicativi distorti. Un’idea, questa, che costituisce l’ossatura della mitografia composta da un suo allievo che, fra le altre cose, potrebbe anche essere stato il suo amasio.16 Sto parlando di Palefato, il quale, nell’introduzione al suo De incredibilibus, a proposito delle storie incredibili tramandate dalla tradizione dice da un lato che è impossibile che esistano gli esseri mitologici di cui si è sempre parlato, dall’altro lato però afferma, in base al principio secondo il quale un onoma rimanda sempre ad un referente reale,17 che è impossibile che si parli di certe cose se non sono accadute, semmai: «… qualcuna di queste storie, che sono accadute in passato, i poeti e i logografi l’hanno cambiata, rendendola ancora più incredibile e meravigliosa al fine di stupire gli uomini. D’altronde so per certo che non è possibile che le cose siano così come vengono raccontate. E tuttavia è questa la conclusione alla quale sono giunto: se le cose ritenute incredibili non fossero mai esistite, non sarebbero mai state raccontate». (Palaeph. praef.)

16. Cfr. Sud. Lex. s. v. Palaàfatoj (per notizie e informazioni relative a Palefato cfr. Festa 1902, XXXIII ss.; Stern 1996, vii ss. e Santoni 2000, 9 ss.). 17. Per un quadro generale e sintetico sul rapporto tra le parole e le cose nell’antichità cfr. Romeyer Dherbey 1983, 121 ss.

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Palefato, dunque, vuole dare uno statuto di verità ai miti, li vuole salvare; a patto però di normalizzarli, vale a dire a patto di applicare loro, forzosamente, leggi di natura che non funzionano più epì to poly (per lo più), come nel caso del suo maestro Aristotele, ma che vengono, per così dire, cristallizzate.18 Ecco dunque che i centauri sono esistiti, perché di loro si è parlato. Semplicemente però non bisogna credere che fossero veramente ibridi di uomo e cavallo partoriti da una nube. È più verosimile infatti pensare che fossero stati i primi uomini a cavalcare sul dorso dei loro cavalli senza usare il carro e che, se la tradizione ha dato loro la forma composita che conosciamo, ci deve essere stato, all’origine, un abbaglio, magari associato ad un collasso nella comunicazione dei dati: «Invitati dai Lapiti ad un banchetto, i Centauri finirono per ubriacarsi e rapirono le loro donne caricandosele sui cavalli e fuggendo verso la propria terra. Muovendo da qui facevano guerra contro di loro e, recandosi nottetempo a valle, tendevano loro delle imboscate. Quando poi si faceva giorno ritornavano ai monti dopo avere saccheggiato ed incendiato ogni cosa. E così, mentre ritornavano alla loro base, le persone che li vedevano a distanza, e di spalle, potevano distinguere unicamente il profilo dei cavalli senza le teste e il resto del corpo degli uomini senza le gambe. Quindi, a questa vista del tutto insolita, pronunciavano la seguente frase: “I Centauri vengono fuori da una nefele per saccheggiarci”. A partire da questa visione e da questa frase venne costruito artatamente il racconto fittizio secondo cui sul monte venne alla luce da una nefûlh, cioè da una nube, un essere che era insieme uomo e cavallo». (Palaeph. 1)

Un mostro in cui i tratti umani e animali si incrociano, dunque, non può che essere un errore percettivo o una metafora, ovvero un processo linguistico che ad un certo punto comincia ad essere inteso, per sbaglio, alla lettera. 1.3 Percorsi autoriferiti di antropopoiesi Nella costruzione biologica aristotelica, che influenza da vicino la vulgata di Palefato (che pure applica il quadro biologico del maestro in maniera spesso rigida e ingenua),19 è dunque impossibile 18. Veyne 1984, 83 ss. indica come “poliziesco” l’atteggiamento di critica del mito cui Palefato aderisce, proprio perché si basa sulla individuazione di “colpevoli”, che sono, nel suo caso, i poeti e i logografi (cfr. anche Santoni 2000, 19 ss.). Questo tipo di atteggiamento è tipico anche di Th. 1, 21; Philoch. FGrHist 328 F 1 e Agatharch. 7, 1-8, 10. 19. Un esempio dell’ingenuità di Palefato è chiaramente riscontrabile nella sua versione del mito del minotauro (Palaeph. 2), laddove si dice che è impossibi-

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che l’uomo e l’animale possano generare in comune. Anzi, il fatto di non potere generare ibridi ex allelon, per l’uomo diventa una sorta di campo di differenza che lo distingue da tutti gli altri zoia. La stessa cosa del resto succede – come si è già visto nel capitolo 2 – nel Platone del Politico, dove l’uomo fa indiscutibilmente parte della classe degli animali mansueti e glabri (t≈j leàaj ¶gûlhj: 265 e 4) che non mettono in comune l’atto della riproduzione con nessun altro speciema generico, mentre tutti gli altri animali, sia quelli mansueti e non glabri che quelli non mansueti, possono generare ex allelon. Se dunque nel Timeo si era proposta una continuità psicologica fra l’uomo e l’animale,20 anche qui, come in Aristotele, l’asse di divisione della koinogonia e dell’idiogonia marcano una opposizione netta fra uno zoion da una parte, l’uomo, e tutti gli altri zoia dall’altra parte. La generazione interspecifica, dunque, funziona per Platone, così come per Aristotele (e Palefato), come operatore antropopoietico, come principio di costruzione dell’umano e, implicitamente, come linea di demarcazione fra due sfere ontologicamente contigue, quella dell’umano, appunto, e quella dell’animale; due sfere che solo sulla base dell’etica (e quindi anche dei comportamenti sessuali) possono essere differenziate gerarchicamente.21 Ed è sulla base di questa costruzione, a mio avviso, che si può capire meglio cosa avviene nel caso della metafora della moicheia di cui si è già parlato in precedenza (cfr. cap. 2): nello stesso momento in cui un’ombra umana viene proiettata sul mondo animale, un vizio unicamente umano come l’adulterio viene classificato come tipico delle bestie e “scaricato” su di esse, per mezzo di un vero e proprio meccanismo di transfert.22 In altri termini, mentre gli animali possono continuamente inquinare le linee del sangue e modificare il proprio genos (questo è quello che succede, ad esempio, a tutti gli uccelli nel IX libro della Historia animalium e, secondo quanto si dice nel II libro del De generatione, a molti rapaci),23 gli uomini, per definizione, sono gli unici animali identici a se stessi che – per lo più – riproducono, senza adulterarle, le linee del proprio speciema generico. le «che una donna porti in grembo un feto di toro con le corna». Come infatti osserva la stessa Santoni 2000, 137 n. 31 i tori notoriamente, quando nascono, non hanno le corna. 20. Cfr. par. 3. 2 del cap. 1. 21. Per la nozione di antropoiesi (da intendere come costruzione simbolica dell’umano) cfr. la raccolta di studi curata da Calame e Kilani 1999 e in particolare l’intervento di Rivera 1999, 49-70, la quale analizza il versante dell’artificialità della linea di separazione tra sfera umana e sfera animale. 22. Sul meccanismo del transfert cfr. Battaglia 1999, 17. 23. Cfr. par. 4. 1 del cap. 2.

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1.4. Il varco dimensionale. Ovvero: sono le donne che generano i mostri! Quella che dunque viene sperimentata, nel laboratorio filosofico di Platone e Aristotele, non è tanto una semplice separazione fra natura e cultura. È qualcosa di più, dal momento che si assiste ad una vera e propria naturalizzazione della cultura umana e delle sue norme regolative. La linea che separa l’uomo dall’animale, infatti, non solo non deve ma, in base alle classificazioni operate dai due pensatori, neanche può essere superata.24 L’uomo, in altri termini, è – per così dire – condannato a quella che Lévi-Strauss, in un suo saggio giustamente famoso ha chiamato l’endogamia vera, vale a dire il rifiuto di riconoscere la possibilità del matrimonio al di fuori della comunità umana.25 Un rifiuto, questo, che ha effetti potenti nell’ambito della classificazione dei viventi, dal momento che la differenza uomo-animale, che la biologia in parte costruisce come una contiguità, o anche come un campo di differenze, viene totalmente ristrutturata e riscritta secondo principi gerarchici. Attraverso l’asse di classificazione dell’ibridazione, infatti, l’uomo e l’animale, che una tradizione abbastanza diffusa in Grecia aveva visto, prima di Socrate, come legati da rapporti di parentela diacronica e sincronica,26 vengono di fatto “inventati” e posti in gradini gerarchicamente opposti della scala assiologica dell’essere. L’uomo in alto, l’animale più in basso. Con un’unica differenza: se infatti per Platone l’animale è una degenerazione dell’umano, da vedere come un ente residuale, per Aristotele c’è sempre comunque un piano di continuità. L’invenzione dell’umano, dunque, come si può vedere, non è soltanto, come sostiene Francis Wolff,27 un prodotto della riflessione etica e antropologica. È anche il frutto di una proiezione dell’etica e dell’antropologia degli antichi su una biologia che viene anzi fortemente culturalizzata e che risente delle leggi e delle norme della comunità degli umani: una comunità che per i Greci tende ad includere esclusivamente i maschi, i Greci e i liberi. Aspetto, questo, di cui, come hanno dimostrato gli importanti studi svolti da Silvia Campese, 24. Ad una conclusione analoga sembra arrivare lo studio di Bodéüs 1997, 247 ss. sulla bestialità in Aristotele. Lo studioso infatti mostra come, secondo lo Stagirita, l’essere umano, anche quando si comporta in maniera “bestiale”, non regredisce allo stato di bestia alla lettera, ma mantiene i suoi tratti umani, differenziandosi sempre e in ogni caso dalle fiere. Anche in questo caso, dunque, sembra che per Aristotele l’essere umano non superi i confini della propria specie neanche quando si accoppia con animali. 25. Cfr. Lévi-Strauss 1978, 92 ss. 26. Cfr. ad es. gli approcci di Anassagora ed Empedocle (per cui, oltre che par. 3. 1 del cap. 1, cfr. Balaudé 1997, 31 ss.). 27. Wolff 1997, 157 ss.

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Giulia Sissa, Maria Michela Sassi, Paola Manuli e, più recentemente, da Sabrina Grimaudo, condiziona il modo in cui Aristotele elabora la sua teoria della riproduzione. Una teoria che, se da un lato nega la possibilità dell’incrocio per l’uomo, dall’altro inserisce un elemento animale e generico all’interno della sfera dell’umanità: la donna per l’appunto. A tale proposito, è stato ampiamente dimostrato come uno dei principali problemi dello Stagirita, al fine di proporre un modello ideale della riproduzione umana come generazione di “identici”, in linea con l’etnoantropologia dei Greci, sia proprio quello di negare – o comunque minimizzare – ogni contributo femminile relativamente al concepimento e alla formazione della prole. Ruolo attivo che era stato ipotizzato, invece, dalla teoria ippocratica del pangenetismo, la quale, ammettendo l’esistenza del seme femminile, finiva di fatto per vedere l’embrione come una sorta di “ibrido” composito del maschio e della femmina che si forma in seguito all’aggregazione dei liquidi seminali emessi dalle parti del corpo di entrambi i genitori.28 Questa teoria combinatoria, che viene tra l’altro ripresa da Empedocle e che in qualche modo doveva avere ispirato, se non altro per affinità, lo stesso Democrito,29 vedeva la creazione dei viventi come una vera e propria somma aritmetica di parti diverse. Un errore, questo – lo si intuisce – foriero di conseguenze paradossali per Aristotele, dal momento che, una volta che si ammette la teoria secondo la quale dalla somma di molteplici parti omogenee può venir fuori una nuova unità (cfr. GA 722 b 23-24), il passo è breve per arrivare a dimostrare anche in via del tutto teorica l’esistenza dei centauri, delle chimere e delle idre (cosa che del resto è in parte ipotizzata, seppure per un passato lontano, nella zoogonia di Empedocle).30 Il che equivale a dire, nella prospettiva dello Stagirita, che le cose che sono da natura e per natura non sono organizzate in vista di un fine, bensì so28. Per l’esposizione delle teorie pangenetiche, oltre che Arist. GA 721 b 6 ss., cfr. Hp. Aër. 14: 2, 59-60 Littré; Morb. Sacr. 2: 6, 364 L; Genit. 3 e 6-8: 7, 474 e 479-480 L; Morb. 4, 1 (= Nat. Puer. 32): 7, 542 L. Sulla trattazione di queste teorie in Aristotele cfr. Balme 19923, 140 ss. Più in generale cfr. Lesky 1951, spec. 1294 ss. (ma cfr. anche n. 27 del cap. 2). 29. Aristotele (cfr. GA 769 b 30 ss.) confuta la teoria democritea della doppia immisione di sperma (che attribuiva le malformazioni al seme, cioè alla parte “maschile”) e spiega le anomalie con la mancata sottomissione della “materia” (la parte “femminile”) alla forma (cioè al principio generativo fornito dal seme), mostrando come condizioni del genere si realizzino per lo più negli animali multipari (polytoka). La presenza di molti feti infatti – a detta di Aristotele – sarebbe da ostacolo al “completamento” e ai movimenti della generazione (cfr. GA 770 b 24 ss.). 30. Cfr. Fr. 7 Gallavotti (B 59 e 61 DK); ma vedi anche B 71, 4 DK; B 60 DK; B 62 DK; B 65 DK; B 67 DK (oltre che Aët. 5, 19, 5: A 72 DK).

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no rette dal caso, e che dunque è solo per un accidente che da un essere umano nasca un essere umano.31 Ebbene, quello che fa Aristotele è capovolgere questo assunto e, secondo meccanismi e processi che sono stati studiati a fondo e che non è il caso di riesaminare in questa sede, rendere norma statisticamente valida quello che, nella prospettiva di chi vede la generazione come una composizione, potrebbe essere un caso. La norma è che, per lo più, l’identità specifica viene salvaguardata. E a garantirne la continuità, in qualche modo, è proprio il maschio, che diventa il protagonista di una procreazione, che, come è stato già più volte ricordato, di fatto viene a coincidere con la paternità.32 Tuttavia Aristotele, come abbiamo visto en passant (GA 769 b 13 ss.), sa bene che i mostri possono essere generati anche da esseri umani. Semplicemente, egli dimostra che essi non possono più essere considerati come ibridi generati in comune con altre specie animali: si tratta soltanto di somiglianze, che possono essere comprese sulla base del modello esplicativo che viene delineato nel IV libro del De generatione animalium (763 b 20 ss.). In questa sede, come ha osservato, Françoise Héritier, vengono distinti tre diversi principi che regolano i meccanismi riproduttivi, vale a dire 1) il principio del genere maschile, 2) il carattere individuale, 3) l’impulso; principi che, in presenza di condizioni ottimali, determinano rispettivamente 1) la nascita di un maschio, 2) il carattere di un individuo particolare, 3) l’aderenza allo speciema generico di appartenenza.33 Tali principi, tuttavia, possono per accidente mutarsi nel loro contrario. Può cioè avvenire che: «quello che resta, una volta che gli impulsi si sono dispersi, e una volta che la materia non ha potuto essere dominata, è il carattere universale, vale a dire lo zoion». (Arist. GA 769 b 11-13)

È noto a tutti che, quando Aristotele parla di materia, si riferisce al contributo femminile alla generazione. La donna, secondo una nota formula, è “madre materia” che nutre. E quando tale “madre-materia” non ha potuto essere dominata dagli impulsi maschili, ecco che si genera il mostro. Le nascite eccezionali dunque sono spiegate secondo una eziologia biologica, che va a sostituirsi alle spiegazioni banali che dovevano circolare all’epoca, spiegazioni in base alle quali o si immaginavano (come avviene nel caso di Talete citato nello scenario 2 dell’intro31. Cfr. a tale proposito Arist. Ph. 198 b 10 ss. 32. Cfr. la bibliografia cit. in n. 27 del cap. 2. 33. Cfr. Héritier-Augé 1993, 128.

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duzione) episodi produttivi di zoorastia, o si ricorreva a ipotesi di stampo magico-religioso. In base alle teorie aristoteliche, dunque, i mostri non possono più essere concepiti come ibridi, proprio perché l’ibridazione sembra avere – come si è visto – regole assai selettive, né sono segni divini che allertano su uno stato contaminato del mondo da espiare. Il mostro è un teras, che non è più da concepire come un composto di uomo e di animale, non è più l’ibrido né l’atto semiotico del dio, bensì una vera e propria clonazione del femminile, un essere “generico” privo di forma specifica, perché nella lotta fra maschile e femminile quello che ha ceduto è stato il principio maschile portatore di ousia.34 La costruzione dell’uomo, nella biologia aristotelica, passa dunque attraverso un’antropologia dal giro strettissimo, che – come del resto viene esplicitato nella Politica35 – vede nel maschile l’elemento superiore per eccellenza. In una situazione del genere l’accoppiamento con il femminile è necessario, è pur sempre un atto dovuto per perpetuare la specie.36 E tuttavia il femminile costituisce un pericolo, una deriva verso mondi alieni che minaccia di fare riemergere la contiguità rimossa della sfera animale con la sfera umana.37 La donna, in qualche modo, pur non essendo più una forma degradata dell’umano (come era in Platone), è, in senso molto lato, l’ibrido, concepito non più come il mostro composito generato in comune, ma come l’informe, come la materia grezza dell’umano, che non può avere forma umana se non c’è l’intervento del demiurgo maschile che la modella. E la materia grezza dell’umano è, appunto, l’animale, lo zoion, l’essere “generico” comune a tutte le forme di vita che, cacciato dalla finestra dell’antropopoiesi aristotelica, proprio in virtù della continuità che lega l’umano all’animale, minaccia di ritornare dalla porta dell’utero femminile. Che dietro tale genetica “selvaggia” operi, nel profondo l’antica teodicea greca è una cosa che è stata dimostrata da Silvia Campese:38

34. La formula è stata usata per la prima volta da Héritier-Augé 1993, 128. La teoria della lotta fra principio maschile e principio femminile per la determinazione delle somiglianze compare per la prima volta in Alcmeone di Crotone (cfr. Lesky 1951, 1249). Sul modo in cui questa “lotta” viene riconfigurata in senso più marcatamente androcentrico da Aristotele cfr. Cooper 1990, 55 ss. Per il mostro come segno del divino nella religione greca cfr. Delcourt 1938, spec. 46 ss. 35. Cfr. Pol. 1253 a 19 ss.; 1254 b 10-14 (per cui cfr. Campese 1983, 17 ss.; spec. 22). 36. Cfr. GA 767 b 8 ss., su cui cfr. Campese 1997, 103 ss. 37. La contiguità con il mondo animale è un tema che ritorna spesso nella filosofia greca. Cfr. a tale proposito n. 28 cap. 2. 38. La dizione di “genetica selvaggia” ricorre in Héritier-Augé 1993, 124

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«Se [secondo la teodicea antica] le femmine partorivano mostri come sanzione dell’ingiustizia, ora esse lo fanno a causa dell’oltraggio alla norma biologica di cui la materia è responsabile».39

Aristotele, tuttavia, non si limita soltanto a sostituire la biologia “maschile” all’azione degli dei che sanzionano i misfatti umani e le contaminazioni con la mancata fissità della specie.40 Nel concepire la donna come materia grezza ed informe, infatti, egli non fa altro che elaborare una versione filosofica e razionale di una rappresentazione che opera in molti contesti dell’immaginario greco (e non solo greco). Si tratta del mito della donna selvaggia41, della donna vista come essere di confine fra molti mondi. Una donna animale che è ancora Pasifae che si unisce con il toro, ma che è anche Penelope, madre di Pan, che è costretta ad accoppiarsi con un dio che ha la forma di caprone, o, ancora, Europa che, in simbiosi con un toro che è Zeus, sa bene cosa le accadrà una volta che il mare sarà attraversato. 1.5 Altri centauri, altre negazioni: Lucrezio e Galeno 1.5.1 Le visioni del centauro: la razionalizzazione di Lucrezio La via aristotelica della razionalizzazione delle credenze relative agli ibridi eccezionali, secondo le quali tutti gli incroci – fra cui quello fra l’umano e l’animale – sono possibili, sembra avere lunga durata. È molto interessante, ad esempio, il fatto che nel I sec. a. C. Lucrezio usi, variandoli e aggiungendo nuovi elementi, argomenti che sembrano essere presi di peso da Aristotele e – come è stato recentemente ipotizzato – anche da Palefato stesso.42 Il poeta, nel V libro del De rerum natura, tratteggia un quadro zoogonico che per certi versi ricorda quello di Empedocle. All’interno di quelle che sono le successioni delle diverse ere, tuttavia, viene asserito con forza che «non ci furono mai Centauri» (5, 878: neque Centauri fuerunt) né possono essercene in alcun tempo (5, 878-880).

39. Cfr. Campese 1997, 104. 40. Cfr. Aeschin. In Ctesiphontem 111 (per cui cfr. Campese 1997, 102). Cfr. poi Granger 1987, 115 s., il quale mostra come sia del tutto inappropriato parlare di “fissità delle specie” in Aristotele. 41. Cfr. n. 28 del cap. 2. Per questo mito in culture diverse da quelle antiche cfr. Pinkola Estés 1993, 25 ss. 42. Che Lucrezio possa avere usato Palefato come fonte è stato ipotizzato da Schrijvers 1999, 31. Molto più avanti si spinge Tutrone 2006, 65 ss., il quale, sulla base di una serie di analogie presenti fra singoli passi aristotelici e singoli passi lucreziani, arriva a ipotizzare una conoscenza diretta del materiale dello Stagirita nell’autore del De rerum natura.

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Per quanto riguarda la fase primordiale del cosmo, Lucrezio mette in campo un’analogia con il corpo della donna e immagina che la terra sia come una madre che riesce a generare nel fiore dei suoi anni, ma che poi, sfibrata dalla vecchiaia (5, 826 ss.), non sia più in grado di farlo.43 Prima che la terra arrivasse a questo ultimo stadio, però, ci sono stati gli ultimi tentativi. Si tratta – per l’appunto – degli aborti mostruosi: portenti con facce e membra strane, androgini, creature prive di piedi o di mani, esseri senza bocca o senza occhi. Questi, però, al contrario dei tentativi descritti – come si vedrà fra poco – dalla zoogonia di Empedocle, non erano “buoi con torso di uomo”. La mostruosità dei tempi passati, infatti, rispetta secondo Lucrezio delle leggi di natura ben fisse, che non prevedono alcun contatto interspecifico. L’eccezione, in questo senso, sembra essere ridotta alle parti in eccesso o in difetto o alla semplice mancanza delle più importanti funzioni vitali, che impedivano, ad esempio, a queste creature paradossali di nutrirsi e di procreare; motivi, questi, a causa dei quali scomparvero presto dalla faccia della terra, senza riuscire a dare vita ad una continuità specifica.44 Il casualismo che Aristotele (in Ph. 198 b 33 ss.) rimproverava al filosofo presocratico viene dunque limitato da Lucrezio, dal momento che il quadro filogenetico che si prospetta non presenta alcuna forma di evoluzionismo, ma un semplice passaggio dalla fase della generazione automatica della terra alla fase della riproduzione sessuata. Gli speciemi generici, infatti, nascono differenziati e isolati l’uno rispetto all’altro già con il primo parto della terra e i loro tratti specifici sono fissati una volta e per sempre:45 Quare etiam tellure nova caeloque recenti talia qui fingit potuisse animalia gigni, nixus in hoc uno novitatis nomine inani, multa licet simili ratione effutiat ore, aurea tum dicat per terras flumina vulgo

43. La teoria secondo la quale la terra può generare automaticamente è molto diffusa nell’antichità (si pensi ad es. a Hes. Th. 116 ss.). Lo stesso Aristotele (GA 715 a 25) ammette che dalla putrefazione della terra possano essere prodotti tutti gli animali “che non sono generati da accoppiamento” (cfr. anche Cens. 4, 7). A tale credenza sono peraltro da ricollegare i miti ateniesi dell’autoctonia (cfr. n. 18 cap. 2). Per tale teoria in Lucrezio cfr. infine Schiesaro 1990, 102 ss. 44. Relativamente alle condizioni poste in natura per il propagarsi della specie cfr. Lucr. 5, 849 ss. L’argomento della “lotta per la sopravvivenza”, come si intuisce da Arist. Ph. 198 b 33 ss. doveva ricorrere in qualche modo anche in Empedocle. 45. L’idea della “fissità della specie” a proposito della teoria lucreziana esposta in 2, 700 ss. e 5, 878 ss. è ricorrente in molti commentatori (cfr. ad es. Giancotti 20025 e Ernout e Robin 19622, ad ll.).

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fluxisse et gemmis florere arbusta suësse aut hominem tanto membrorum esse impete natum, trans maria alta pedum nisus ut ponere posset et manibus totum circum se vertere caelum. nam quod multa fuere in terris semina rerum, tempore quo primum tellus animalia fudit, nil tamen est signi mixtas potuisse creari inter se pecudes compactaque membra animantum, propterea quia quae de terris nunc quoque abundant herbarum genera ac fruges arbustaque laeta non tamen inter se possunt complexa creari, sed res quaeque suo ritu procedit et omnes foedere naturae certo discrimina servant. (Lucr. 5, 907-924)

«Così, dunque, chi immagina che tali animali potessero nascere quando la terra era giovane e il cielo da poco formato, fondandosi soltanto su questo vano nome di gioventù, molte cose similmente può dire a vanvera; può dire che allora fiumi d’oro scorrevano sulla terra ovunque e che gli alberi comunemente fiorivano di pietre preziose o che nacque un uomo con membra tanto gigantesche da poter con un passo poggiare il piede di là da mari profondi e con le mani rotare intorno a sé tutto il cielo. Ché se la terra contenne molti semi di cose nel tempo in cui il suolo cominciò a produrre gli animali, questo tuttavia non è segno che si siano potute creare bestie miste fra loro e membra accozzate di esseri viventi, poiché le specie delle erbe e le messi e gli alberi rigogliosi, che tuttora pullulano in abbondanza dalla terra non possono tuttavia nascere intrecciati fra loro, ma ognuna di queste cose procede secondo un proprio modo e tutte per salda legge di natura conservano le differenze».46

Ad unirsi casualmente – e a generare le credenze relative ai centauri e agli ibridi di uomo e animale –, non erano le parti di diversi animali, bensì i simulacra che da essi venivano emanati e che potevano essere “avvistati” (così si spiega in 4, 722 ss.) in condizioni percettive di estrema confusione: principio hoc dico, rerum simulacra vagari multa modis multis in cunctas undique partis tenuia, quae facile inter se iunguntur in auris, obvia cum veniunt, ut aranea bratteaque auri. quippe etenim multo magis haec sunt tenuia textu quam quae percipiunt oculos visumque lacessunt, 46. La traduzione di tutti i brani lucreziani, ad eccezione di 4, 724-743, è quella di Giancotti 20025. Cfr. anche 2, 700 ss.

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corporis haec quoniam penetrant per rara cientque tenuem animi naturam intus sensumque lacessunt. Centauros itaque et Scyllarum membra videmus Cerbereasque canum facies simulacraque eorum quorum morte obita tellus amplectitur ossa; omne genus quoniam passim simulacra feruntur, partim sponte sua quae fiunt aëre in ipso, partim quae variis ab rebus cumque recedunt et quae confiunt ex horum facta figuris. nam certe ex vivo Centauri non fit imago, nulla fuit quoniam talis natura animantis; verum ubi equi atque hominis casu convenit imago, haerescit facile extemplo, quod diximus ante, propter subtilem naturam et tenuia texta. (Lucr. 4, 724-743)

«E dico innanzitutto che in ogni direzione vagano immagini sottili ovunque, in molti modi e in grande numero, che con grande facilità si uniscono nello spazio quando s’incontrano, come le ragnatele e le lamine d’oro, poiché in quanto al tessuto sono di gran lunga più sottili di quelle che vanno ad insediarsi negli occhi e che stimolano la vista. Così vediamo i Centauri e le membra di Scilla facce di cane come quelle di Cerbero e le immagini di quelli dei quali, ormai morti, la terra abbraccia le ossa; poiché si aggirano qua e là immagini di ogni sorta. In parte si formano spontaneamente nell’aria, in parte emanano invece dai vari corpi singoli in parte si originano dalle loro figure congiunte. E certo l’effigie del centauro non si stacca da un centauro vivo dacché in natura non è mai esistito un essere simile. Ma qualora si incontrino a caso, l’effigie dell’uomo e quella del cavallo si uniscono immediatamente e con facilità, come si è già visto, per la loro natura e la trama sottili».

Per il resto anche Lucrezio sembra rifiutare l’idea della generazione dell’ibrido come un guazzabuglio casuale di parti (cfr. ad es. 5, 890 s.). Non è possibile, infatti, che si formino esseri duplici natura et corpore bino ex alienigenis membris compacta (5, 879-880: «corpi che consistono di membra eterogenee con una doppia natura e un fisico doppio»).47 L’ibridazione infatti prevede, per Lucrezio (come avveniva per Aristotele) dei limiti estremamente selettivi. Innanzitutto è necessario che i cicli vitali dei due tipi di animali che si accoppiano siano gli stessi:

47. Sui limite della doppia natura cfr. i passi e la bibliografia cit. in n. 32 del cap.1.

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principio circum tribus actis impiger annis floret equus, puer haudquaquam; nam saepe etiam nunc ubera mammarum in somnis lactantia quaeret. post ubi equum validae vires aetate senecta membraque deficiunt fugienti languida vita, tum demum puerili aevo florente iuventas occipit et molli vestit lanugine malas. (Lucr. 5, 883-889)

«Anzitutto, nel giro di tre anni il focoso cavallo è nel suo fiore, ma il bambino per niente; ché spesso ancora cercherà nel sonno i capezzoli del seno materno colmi di latte. Poi, quando al cavallo per vecchiaia vengono meno le forze poderose e languiscono le membra per il fuggire della vita, solo allora il fanciullo raggiunge il fiore dell’età e comincia per lui la gioventù, che gli veste di morbida lanugine le guance».

Inoltre, a seguire, il poeta osserva che è impossibile che si uniscano animali che hanno modalità di accoppiamento diverse fra loro (5, 897: nec simili venere ardescunt) o che presentano caratteristiche etologiche differenti o che vivono in differenti habitat (5, 897). Ma soprattutto è impossibile che esseri che hanno una diversa diaita, un diverso genere di vita, possano dare alla luce prole (5, 898: neque sunt eadem iucunda per artus). In questo senso l’esistenza della Chimera risulta impossibile da pensare: quippe videre licet pinguescere saepe cicuta barbigeras pecudes, homini quae est acre venenum. flamma quidem cum corpora fulva leonum tam soleat torrere atque urere quam genus omne visceris in terris quodcumque et sanguinis extet, qui fieri potuit, triplici cum corpore ut una, prima leo, postrema draco, media ipsa, Chimera ore foras acrem flaret de corpore flammam? (Lucr. 5, 899-906)

«Spesso infatti si può vedere che le barbute capre ingrassano con la cicuta, mentre questa per l’uomo è violento veleno. Poiché, d’altra parte, la fiamma suole cuocere e bruciare i corpi fulvi dei leoni, tanto quanto qualunque altra specie di carne e sangue che esiste sulla terra, come sarebbe potuto avvenire che un unico essere con triplice corpo, nella parte anteriore leone, nella posteriore drago, nella mediana lei, la Chimera, spirasse per la bocca una fiamma violenta uscita dal corpo?».

1.5.2 Il centauro “impacciato”: la razionalizzazione di Galeno Sulla via della negazione di ogni possibilità di generazione di ibridi estremamente interspecifici si colloca anche Galeno (II sec. d. C.), il Capitolo 4. L’invasione dei mostri…

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quale però mostra – come aveva già notato Paul Veyne – un atteggiamento ambivalente. Il medico greco, infatti, laddove si tratta di ricordare le origini della sua disciplina, cita il centauro Chirone come fondatore, quando però il discorso diventa marcatamente settoriale rimane saldo il principio di incompatibilità già fissato da Aristotele e il centauro ritorna ad essere, a contesti mutati, un oggetto impossibile.48 I motivi per cui l’animale viene escluso dalla comunità con gli umani, sembrano tuttavia essere molto diversi rispetto a quelli usati nel De generatione animalium. Celebre, a tale proposito, è l’incipit del III libro del De usu partium, in cui Galeno riprende, amplificandoli, una serie di luoghi comuni relativi alla conformazione del corpo umano, la cui struttura testimonia una posizione elevata nella scala dell’essere:49 «L’uomo è l’unico di tutti gli animali ad avere avuto in sorte l’uso delle mani; organi, questi, adatti ad un essere vivente dotato di coscienza. Fra tutti gli animali che camminano, poi, è l’unico bipede che è stato dotato di posizione eretta, proprio perché possiede le mani. Dal momento poi che il corpo, in quanto necessario alla vita, è completato dalle parti che si trovano nel torace e nel ventre, e dal momento che ha bisogno di arti per camminare, gli arti posteriori sono stati fatti simili a quelli che ci sono nei cervi, nei cani, nei cavalli e in altri animali simili; cosa, questa, che contribuisce a renderli veloci». (Gal. De usu partium 3, 1: 3, 168, 1-169, 3 K)

Galeno si chiede per quale motivo l’uomo non abbia avuto in sorte, oltre all’uso delle mani, anche quattro gambe per correre ancora più velocemente come, appunto, i centauri. Alla domanda (ovviamente retorica) vengono date ben due risposte. La prima è che la mistione di uomo e cavallo è per natura impossibile,50 perché «quando anche dovesse realizzarsi un accoppiamento fra una cavalla e un uomo, l’utero della cavalla non porterà a compimento lo sperma umano» (De usu partium 3, 1: 3, 169, 13-15 K); la seconda è che, qualora, per assurdo, un essere con un corpo simile a quello del centauro dovesse venire alla luce e sopravvivere, senza dubbio la sua struttura fisica non gli permetterebbe di

48. È noto che Galeno, rispetto al centauro, adotti, forse anche inconsapevolmente, diversi programmi di verità (cfr. De optima secta ad Thrasybulum 3: 1, 110, 11-14 K; De placitis Hippocratis et Platonis 3, 8: 5, 356, 16 – 357, 7 K; Isagoge seu Medicus, 1: 14, 675, 1 s. K). A tale proposito, Veyne 1984, 74 ss. 49. Cfr. ad es. X. Mem. 1, 4, 11-12 (per cui cfr. Lanata 1994, 19 e 2000, 19 ss.; Brancacci 1997, 213 s.). 50. Sull’impossibilità che per Galeno la physis proceda casualmente cfr. ad es. In Hippocratis Aphorismos Commentarii 17 B, 532, 6-8 K.

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dedicarsi ergonomicamente alle occupazioni che sono tipiche dell’uomo:51 «Ammettiamo poi che si arrivi all’atto del concepimento e che sia possibile l’incrocio interspecifico di uomo e cavallo, e che sia possibile che un essere così assurdo e bizzarro venga portato a compimento: ebbene, una volta nato, non troveremo di certo alimenti adatti per nutrirlo. O forse la parte inferiore ed equina si dovrebbe nutrire di orzo e di erbe, mentre quella superiore di cibi cotti e umani? Sarebbe infatti meglio che questo essere avesse due bocche, una umana e l’altra equina. E se non mi inganno due dovrebbero essere i petti di questo essere. Il che ci porta a congetturare che due dovrebbero essere anche i suoi cuori. Ma ammettiamo anche di passare sopra a queste difficoltà, per quanto assurde esse siano: se si dovesse concedere che questo essere umano fornito di arti equini possa essere generato e possa sopravvivere, niente gli è possibile fare, essendo così strutturato, se non essere veloce. Ma anche qui la cosa non è così semplice. Dal momento che neanche in tutti i luoghi potrebbe avvalersi della sua velocità, che si potrebbe esercitare solo nelle pianure e nelle zone non impervie. Se infatti ci sarà bisogno di correre in salita o in discesa, o lungo un percorso obliquo o irregolare, la conformazione delle gambe umane risulterà di gran lunga migliore. Allo stesso modo a saltare, a superare rocce aguzze e ripide, e, in altri termini, a fare fronte a tutte le difficoltà che tutti i luoghi possono presentare, l’uomo sarà sempre più abile di quel mostro che è il Centauro. Vorrei poi vedere un Centauro che fabbrica una casa, o che costruisce una nave, o che striscia e si arrampica sull’albero di una imbarcazione, o che presta la sua opera per un lavoro marinaresco. Si comporterebbe certo in maniera assurda e disutile in ognuna di queste attività, e finirebbe per rimanere bloccato senza riuscire a fare nulla». (Gal. De usu partium 3, 1: 3, 171, 6-172, 12 K)

Il centauro, quindi – così come in genere qualsiasi altro ibrido di uomo e animale – è ancora impossibile per Galeno (almeno stando alla lettura di questo solo passo).52 Si noti però che – come si era già accennato – le spiegazioni fornite non sono più quelle aristoteliche. Galeno, infatti, sfrutta il motivo dell’incompatibilità alimentare fra due speciemi generici diversi; un motivo, questo, che come si è visto era già stato usato da Lucrezio nel quinto libro del De rerum natura (5, 899-906).53 Ma mentre in Lucrezio si fa51. Il passo di Galeno sembra per certi versi la risposta all’idealizzazione operata da X. Cyr. 4, 3, 17 ss., per cui cfr. par. 2. 1 di questo cap. (ma cfr. anche L’Allier 2004, 130, il quale peraltro fa notare che l’androgino platonico di Smp. 189d-193d ha funzioni e aspetto analoghi a quelli del centauro senofonteo). 52. Cfr. n. 48 di questo cap. 53. Lucrezio, come si è visto, aveva spiegato nel IV libro del De rerum natura l’origine della credenza nel centauro come dovuta all’unione dei simulacra

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ceva ancora riferimento ai limiti della taglia e del periodo di gestazione, qui non è possibile trovare alcun cenno relativo a queste leggi della natura. La spiegazione che viene data presuppone semplicemente il rigetto da parte della matrice (metra) di uno sperma di una specie diversa.54 Tale spiegazione, tuttavia, risulta incompleta, soprattutto se si pensa che in altri casi gli accoppiamenti fra animali di speciemi generici diversi possono essere fruttuosi. Galeno infatti sa per certo che «[…] la cavalla può accogliere il seme dell’asino e l’asina quello del cavallo» e conosce i casi analoghi dei cani, dei lupi, delle volpi (cfr. 3, 1: 3, 170, 10-12 K). Ci aspetteremmo dunque che si chiarisca il motivo per cui le metrai di un quadrupede possono accogliere e portare a compimento i semi di esemplari di speciemi generici diversi, ma non i semi dell’uomo. La nostra attesa, tuttavia, viene frustrata. Ed è fra l’altro curioso che Galeno si limiti a pensare all’impossibilità dell’accoppiamento fra una cavalla e un uomo, senza prendere in considerazione l’eventualità di un accoppiamento fra una donna e un cavallo. «La cavalla non potrebbe mai accogliere in fondo al suo utero il seme di un essere umano, dal momento che questi avrebbe bisogno di un organo genitale dalle dimensioni spropositate, e poi, anche quando lo dovesse accogliere, lo corromperebbe o immediatamente nell’atto di accoglierlo o non molto dopo». (Gal. De usu partium 3, 1: 3, 170, 12-15 K)

Il fatto è che dietro la mancata spiegazione dei processi di corruzione del seme non omofilo dell’uomo, prima ancora che un dato di esperienza (vale a dire il non avere mai visto – ovviamente – un centauro vivo), sembra celarsi un’impasse di natura culturale. I limiti della taglia e dei tempi di gestazione di marca aristotelica, come si è visto, non sono presi in considerazione. Del resto, poteva (ad esempio) essere diventato evidente, con il passare dei secoli, che un asino che montava una cavalla potesse essere di taglia inferioche si staccavano dal cavallo e dall’uomo e che, nel sonno o in stati di alterazione percettiva, potevano essere scambiati per centauri (4, 724 ss.). 54. Una tesi, questa del rigetto, che era già stata avanzata da Democrito, Alcmeone di Crotone ed Empedolce a proposito della sterilità dei muli (cfr.ad es. Alcmaeo B 3 DK; Emp. B 92 DK; Democr. A 149 e 151 DK e Arist. GA 747 a 23 ss.). Democrito ed Empedocle ritenevano però, diversamente da Aristotele, che tutti gli ibridi (e dunque non soltanto il mulo) fossero sterili (una tesi, questa, che anche la biologia e la genetica moderna hanno di fatto smontato: cfr. a tale proposito Arnold 1997, vi ss., che mostra come l’ibridazione naturale abbia una particolare forza creativa nel processo evolutivo degli organismi). Per un quadro più specifico sulle teorie della generazione in Galeno rimando tuttavia a Bonnet-Cadilhac 1997, 96 ss. e soprattutto a Grimaudo 2003, 17 ss.

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re rispetto ad essa, e che i tempi di gestazione delle femmine di questi due animali non fossero affatto identici.55 Il problema principale semmai è diventato quello relativo alla postura e alla struttura del corpo: l’uomo è proiettato verso l’alto e il davanti. Il cavallo è prono e con il petto rivolto verso il basso (cfr. ad es. 3, 1: 3, 168, 1 ss. K). Ebbene, dietro questa concezione dello spazio, apparentemente neutra, è ancora attiva – come del resto è chiaro nell’attacco del terzo libro dell’opera – una rappresentazione culturale molto forte e – è il caso di dirlo – “selvaggia”: la concezione secondo la quale negli uomini le archai (destra, davanti e alto) sono meglio differenziate rispetto alle dislocazioni spaziali meno nobili ad esse simmetriche.56 Ed è proprio in ragione di tale differenziazione che l’uomo viene pensato come ergonomico e funzionale in sommo grado rispetto a tutti gli altri animali.

2.

Le vie dei mostri: brecce nella fortezza dell’umano

2.1 Un modello ideale: il centauro scomponibile di Senofonte Il centauro è dunque concepito ancora una volta, dalla tradizione filosofica, come un incrocio impossibile, perché impossibile è per Galeno coniugare due dimensioni spaziali gerarchicamente opposte, ovverosia quella umana, orientata verso le posizioni nobili, e quella animale, in cui destra e sinistra, sopra e sotto, davanti e dietro risultano indistinti. Ancora una volta, dunque, maschio e umano si trovano proiettati su polarità positive che si oppongono a quelle negative dell’animale e – come ho mostrato altrove – della donna.57 In altri termini, ancora una volta in Galeno l’uomo viene costruito come diverso e gerarchicamente superiore rispetto agli altri zoia che si collocano su versanti dicotomicamente opposti. Ma c’è ancora qualcosa in più, che, peraltro, a ben rifletterci, accomuna Galeno a Lucrezio, ma anche a Palefato. Questi autori, infatti, continuano a pensare il centauro come se fosse l’ircocervo di Aristotele, vale a dire come un essere fornito necessariamente di due nature. Il centauro in altri termini, non solo è visto come un paradosso logico, ma è sempre un oggetto che tendenzialmente non può venire pensato se non come il frutto di una mixis più che di una krasis, ovvero di un assemblaggio disordinato e superficiale di nature e di membra.58 55. Cfr. n. 8 di questo cap. 56. Sulle modalità culturali di rappresentazione delle polarità dicotomiche in Grecia cfr. ad es. Lloyd 1993, 49-85. 57. Sulla diminuzione del femminile in Galeno cfr. Li Causi 2005, 105 ss. 58. Cfr. a tale proposito n. 2 del cap. 4.

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Tale assemblaggio poteva però anche fungere, proprio in virtù della duplicità delle nature, da modello paradigmatico. Questo ad esempio è quello che accade nella Ciropedia di Senofonte, dove – nel discorso che fa Crisanta in risposta alla proposta di Ciro di istituire un corpo di cavalleria nazionale – il centauro incarna l’ideale del guerriero perfetto, proprio perché in esso si coniugano razionalità umana da un lato, velocità e forza ferina dall’altro: «Fra gli esseri viventi non c’è nulla che abbia suscitato in me più invidia dei centauri, se è vero che erano in grado di decidere con l’intelligenza di un uomo e di foggiare con le mani ciò di cui avevano bisogno, ma possedevano anche la velocità e la forza di un cavallo per afferrare ciò che fuggisse e per abbattere ciò che opponesse resistenza. Ebbene, tutte queste risorse non le assommerò in me nel momento in cui diventerò un cavaliere?».59 (X. Cyr. 4, 3, 17)

Il discorso del collaboratore di Ciro potrebbe a prima vista sembrare qualcosa di molto simile ad un manifesto post-human, dal momento che la creatura mitica viene presentata come un modello funzionale che permette di superare alcuni limiti insiti alla natura umana attraverso l’eteroriferimento e la coniugazione con il ferino. Il seguito del discorso di Crisanta smentisce tuttavia questa impressione: «Potrò prevedere ogni cosa con la mia mente di uomo, con le mie mani porterò le armi mentre col cavallo partirò all’inseguimento e col suo impeto stroncherò l’avversario, ma non sarò legato al cavallo da un vincolo naturale, come i centauri (¶ll> o‹ sumpefukÓj dedøsomai Ïsper oÜ Üppokûntauroi)». (X. Cyr. 4, 3, 18)

Analogamente a come accadrà con Galeno, anche per Senofonte il centauro è un essere limitato, non tanto perché disfunzionale o impacciato, ma quanto perché – diversamente dall’uomo – legato indissolubilmente alla propria natura: «E certo è meglio che sia così, dal momento che ai centauri era precluso, immagino, lo sfruttamento di molte risorse escogitate dagli uomini e d’altra parte non potevano godere di molti piaceri riservati dalla natura al cavallo. [20] Io invece, se imparerò a cavalcare, quando sarò in sella farò ciò che facevano i centauri, ma quando sarò smontato mangerò, mi vestirò, dormirò come gli altri uomini. E dunque che altro sarò se non un centauro che si può scomporre e ricomporre? (Ïste tà ©llo ƒ diairetÿj Üppokûntauroj kaã pßlin s›nîetoj gàgnomai;)». (X. Cyr. 4, 3, 19-20)

59. Tutte le traduzioni dei passi senofontei sono di Ferrari 19972.

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Se dunque il centauro è costretto a convivere con la propria doppia natura ferina ed umana, il cavaliere può usufruire di questa duplicità – per così dire – a tempo determinato, scegliendo i momenti in cui coniugarsi e quelli in cui ritornare all’umano e alla sua comoda culturalità: il vestiario, il cibo, i ritmi del sonno e della veglia. Lo scenario proposto inizialmente viene dunque capovolto: il centauro è un ottimo paradigma euristico che permette di perfezionare l’arte della guerra acquisendo funzioni ed eccellenze che non fanno parte dell’umano e sommandole ad esso, ma paradossalmente, al termine del discorso, è il cavaliere umano che finisce per diventare il centauro perfetto, proprio in virtù della sua scomponibilità.60 Quanto all’esistenza del centauro, per Crisanta si tratta di qualcosa di avvolto nella nebbia dei misteri del passato. È esistito – forse – ma di lui non si può parlare se non ricorrendo a periodi ipotetici, imperfetti e parentetiche per mezzo delle quali si esprimono ragionevoli dubbi. Del passato nulla si sa con certezza. Certo è comunque che in alcuni autori il centauro diventa un mostro etnografico del presente. 2.2 La razionalizzazione (incompleta) di Empedocle e le critiche di Aristotele Si è visto come, a partire dalla riflessione aristotelica, si dipanino una serie di vie che portano alla negazione delle ibridazioni estreme e quindi alla razionalizzazione delle credenze relative all’esistenza di esseri simili a quelli del mito. Bisogna comunque aggiungere che le teorie razionalistiche cui si è fatto finora cenno non erano le uniche che circolavano nel mondo antico, e che l’orizzonte delle teorie e delle credenze era estremamente frastagliato per almeno due ragioni: da un lato – come si è già detto – non si era affermato, nell’ambito del sapere zoologico, un vero e proprio paradigma all’interno del quale gestire i conflitti delle interpretazioni, dall’altro la concorrenza fra le scuole filosofiche attivava piuttosto conflitti fra paradigmi che presentavano metodologie e finalità di ricerca del tutto contrastanti e spesso anche incomparabili fra loro. Il filo rosso che si dipana da Aristotele fino a Galeno, pertanto, non è da vedere come la mappa dell’intera antichità, quanto piuttosto come la testimonianza di una delle molteplici tendenze presenti. Per il resto bisogna dire che, in merito al problema delle ibridazioni 60. Cfr. a tale proposito L’Allier 2004, 132 sul cavallo, in Senofonte, come mezzo ad un tempo di superamento dell’umano e di messa in risalto della complessità dell’umano.

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estreme, un modello che doveva avere un’ampia circolazione (e con il quale sia Aristotele che Lucrezio stesso – come si è visto – avevano avuto a che fare) era sicuramente quello proposto da Empedocle nella sua zoogonia. Secondo quanto viene solitamente (e forse rischiosamente)61 ricostruito a partire dalle testimonianze e dai frammenti,62 il filosofo presocratico aveva distinto quattro fasi che coincidevano con il periodo della lenta ripresa della Philia dopo la sconfitta subita ad opera della Contesa separatrice (Eris). Nella prima fase venivano create a caso parti organiche separate e non accordabili fra di loro; nella seconda (di cui si parla in B 59 DK) queste membra cominciavano ad unirsi e a formare una serie di esseri fantastici forniti di più nature (gli “uomini con testa di bue” e i “buoi con teste di uomo”: gli ¶ndrofu≈ bo›krana e i bougen≈ ¶ndr’prJra);63 nella terza e nella quarta infine si creavano – in seguito alla vittoria definitiva della Philia sulla Eris – esseri completi forniti di un’unica natura che a poco a poco avrebbero generato altri esseri simili a se stessi. La teoria empedoclea, come ha già notato Gallavotti, è, a suo modo, una razionalizzazione delle credenze dei mostri mitici. Il filosofo, infatti, nega che esseri come il minotauro e i centauri possano esistere, tuttavia relega la loro esistenza in un passato lontano, facendoli diventare una tappa di quel percorso evolutivo che porta alla speciazione.64 La nascita degli speciemi generici, peraltro, è vista come la nascita di zoia che si differenziano per la natura del composto di elementi (la krasis) di cui sono generati; tali elementi, tuttavia, sono i medesimi per ogni essere vivente e, proprio per questo, sono concepibili come la base per un quadro estremo di contiguità e parentela che, prima di ogni cosa, è fissata dalla fisica stessa. L’impalcatura teorica della zoogonia viene messa in crisi da Aristotele, il quale nel De generatione animalium (722 b 17 ss.) osserva che è impossibile che, fosse anche in un passato lontano (la prima fa61. Cfr. Giannantoni 1998, 365 ss. 62. Cfr. Laurenti 1999, 221 ss. 63. Cfr. Fr. 7 Gallavotti: B 59 e 61 DK: «Ecco che molte teste sono germinate senza collo, / e si formavano braccia nude, sprovviste di spalle, / e gli occhi singoli vagavano deserti nella fronte. / E ancora membra solitarie […] / Ma dopoché maggiormente il nume con l’altro nume si abbrancava, / queste membra si combinavano come a ciascuna capitava, / ed altre in aggiunta a quelle si producevano in grande numero continuatamente; / così da generarsi molte forme con duplice volto e con duplice torace, / bovine razze di torsi umani; ed altre all’incontrario sorgere, / umane stirpi di cervici bovine, qua di maschio frammiste/ e qua di femminea natura, così scolpite nelle parti ombrose. / […] / Bovine zampe distorte con zoccolo indiviso […]» (tr. it. Gallavotti 19852). 64. A tale proposito cfr. anche duBois 1991, 68.

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se dello schema cosmologico di Empedocle), la terra sia stata popolata da “molte tempie senza collo” (cfr. B 57 DK), dal momento che – dice lo Stagirita – «una parte priva di anima e priva di vita non può conservarsi» (722 b 22-23: oflte g™r m¬ yuc¬n †conta oflte m¬ zwøn tina d›nait> ¨n sÎzesîai). L’interesse di Aristotele in questo passo è principalmente quello di attaccare sin dalle fondamenta la teoria della pangenesi.65 In particolare si tratta di evitare il paradosso in base al quale, ammettendo che il seme venga formato da tutte le parti del corpo di ciascuno dei genitori, si dovrebbero formare due feti (un maschio e una femmina) in tutto simili ai due genitori (cfr. GA 722 b 6 ss.). Aristotele riconosce che la teoria empedoclea (la teoria delle “tessere”), pur partendo da premesse analoghe a quelle della pangenesi, riesce ad evitare questo paradosso, ma dall’altro lato ricade nell’errore secondo il quale la generazione degli esseri viventi finisce per essere vista come una mera combinatoria di parti diverse; cosa che, dal punto di vista dello Stagirita, porterebbe a conseguenze del tutto paradossali. Se infatti si ammettesse che le parti vengono dalle parti, si potrebbe arrivare ad ammettere che dall’incrocio di esseri non omofili di qualsiasi sorta potrebbe venire alla luce un prodotto formato dalla mera somma di due “tessere” diverse. In altri termini, il mondo sarebbe pieno di ibridi mostruosi nei quali si verrebbe a realizzare – cosa del tutto impossibile per Aristotele – la compresenza di più nature diverse.66 Ma non è tutto qui. La teoria empedoclea, infatti, nell’ipotizzare l’esistenza dei mostri in un passato lontano, oltre ad ammettere che le cose che sono da natura e per natura non sono organizzate in vista di un fine (ma sono rette dal caso),67 viene a violare quella norma statisticamente valida secondo la quale la natura segue sempre (o per lo più) leggi fisse e, di conseguenza, non ammette variazioni nel tempo per l’ordine da lei tendenzialmente determinato.68

65. Cfr. n. 28 di questo cap. 66. Sull’impossibilità della compresenza di più nature in un unico essere cfr. ad es. GA 722 b 23-24. 67. Cfr. a tale proposito Arist. Ph. 198 b 10 ss. 68. Sulla natura come causa di ordine in Aristotele cfr. Lang 1998, 265 ss. (ma cfr. anche Giannantoni 1998, 392 s.). Bisogna segnalare il fatto che tale principio lo si ritrova in qualche modo banalizzato in Palaeph. praef.: «÷sa d° eädh kaã morfaà eÄsi leg’menai kaã gen’menai t’te, aå n„n o‹k eÄsà, t™ toia„ta o‹k ùgûnonto. eÄ g™r pote kaã ©llote ùgûneto, kaã n„n te gànetai kaã aÂîij †stai» (praef.: «tutte le specie e tutte le forme che si dice siano state generate in passato, e che ora non esistono più, in realtà non sono mai esistite; infatti se mai qualcosa è stata generata in altri tempi, la stessa cosa e viene generata ancora adesso e di nuovo lo sarà in futuro»).

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2.3 Manipolare le teorie: la krasis fra uomo e asino in Eliano La critica aristotelica al casualismo, come si è visto, viene estremizzata, e per certi versi banalizzata, da Palefato. Se infatti lo Stagirita ammetteva, in un orizzonte di leggi di natura valide statisticamente, una certa elasticità nel quadro dei viventi (che potevano anche essere frutto di metamorfosi e di limitate speciazioni incrociate), nell’autore del De incredibilibus, quello delle fissità delle forme di vita diventa un principio rigido. Sulla base di questo principio di origine peripatetica, tuttavia, la teoria empedoclea può diventare la prova che se sono esistiti nel passato, allora i centauri devono necessariamente esistere anche nel presente. Questo è, di fatto, quello che accade in Eliano, che, manipolandoli, fa diventare gli argomenti del filosofo presocratico prove decisive dell’estremo polimorfismo della natura: «Intervenendo anche lui a proposito delle caratteristiche degli animali, Empedocle, lo studioso della natura, sostiene che esistono alcuni esseri frutto di unioni fra animali di diversa natura e che presentano una fusione di membra di esseri discordi fra loro (>Empedokl≈j ” fusik’j fhsi, perã zˆwn Ädi’thtoj lûgwn kaã ùkeénoj døpou, gànesîaà tina sumfu≈ kaã krßsei morf≈j m°n dißfora, únÎsei d° sÎmatoj sumplakûnta). Questo è ciò che dice: “molte forme si generavano con duplice volto e con duplice torace, / razze di buoi con torsi umani; e poi al contrario nascevano / umane stirpi con teste bovine, frutto da un lato della mescolanza di membra di uomini / dall’altro di femminea natura, così scolpite nelle membra ombrose”». (Ael. NA 16, 29)

Eliano cita un excerptum della zoogonia (B 59 e 61 DK), ma, estrapolandolo dal contesto, ne stravolge completamente il senso. Quello che infatti in Empedocle era essenzialmente un modello diacronico volto a razionalizzare il passato mitico si trova ad essere dall’autore del De Natura animalium implicitamente attualizzato.69 I mostri a due teste, i vitelli con il corpo umano e i minotauri non sono più esseri che hanno popolato un mondo lontano nel tempo, ma diventano una possibilità del presente. Eliano fa infatti dire ad Empedocle che essi esistono (al presente: gànesîai) e non certo che sono stati i primi tentativi mal riusciti dell’opera creatrice della terra. Dell’esistenza dei centauri, poi, secondo Eliano era possibile trovare addirittura una prova vivente: «Esiste un essere che chiamano onocentauro: chiunque riesca a vederlo, potrebbe smettere di dubitare che sia esistita la razza dei cen69. Per il passo empedocleo citato da Eliano (fr. 7, 5-11 Gallavotti: B 59 e 61 DK) cfr. n. 63 di questo cap.

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tauri (kaã ta›thn ÷stij eêden, o‹k ¨n æpàsthsen ÷ti kaã Kenta›rwn f„la «n) e potrebbe smetterla di calunniare gli scultori che rappresentano la natura. Nel passato infatti è venuta davvero alla luce una razza simile di esseri che erano il prodotto della fusione di parti diverse di animali (¶ll™ kaã ùkeànouj ¡negken ” cr’noj krßsei swmßtwn o‹c ”moàwn únwîûntaj). Ad ogni modo non voglio occuparmi di questa questione: non mi interessa dire se i centauri siano veramente esistiti e se siano apparsi una e una sola volta, o se invece siano il frutto di quella fama che, più malleabile della cera e facile da sorbire, li ha plasmati e li ha creati per mezzo di una prodigiosa fusione di due metà equine e umane dando ad esse una sola anima». (Ael. NA 17, 9)

Prima di esporre il morfotipo comportamentale dell’onocentauro, Eliano prende posizione nel dibattito circa l’esistenza dei mostri del mito. Il tutto però viene fatto con un andamento altalenante (come se l’autore scrivesse di getto senza avere riflettuto prima sulla questione). In un primo momento dice che la bestia è senz’altro da assumere come semeion da opporre a chi nega l’esistenza degli ibridi del mito; quindi, a supporto di questa tesi, si appiglia ad un argomento – per così dire – empedocleo («¶ll™ kaã ùkeànouj ¡negken ” cr’noj krßsei swmßtwn o‹c ”moàwn únwîûntaj»); infine sospende il giudizio (o meglio: lascia intendere di voler sospendere il giudizio).70 Bisogna però dire che questa concessione allo scetticismo si rivela in qualche modo, se non fittizia, quanto meno labile. La porzione successiva di testo, infatti, comincia a poco a poco ad erodere questo atteggiamento di “buon senso epistemologico”: «Ma dell’animale di cui sto parlando queste sono le notizie che mi sono giunte all’orecchio: il suo viso somiglia a quello di un uomo e folti peli lo cingono. Al di sotto del viso, il collo e il petto sono anch’essi di forma umana; le mammelle sono sporgenti e collocate in mezzo al petto; le spalle, le braccia, i gomiti e, ancora, le mani […] il torace, fino ai lombi, ha anch’esso una forma simile a quella degli uomini; la schiena, i fianchi e le zampe posteriori sono molto simili a quelle di un asino; la pelle è di colore simile a quello della cenere, ma le parti che si trovano sotto i fianchi tendono leggermente al bianco. Le mani di questo animale possono essere usate in due modi: quando c’è bisogno di una corsa veloce, corrono in avanti rispetto alle zampe posteriori, cosa che rende questo animale non inferiore in velocità agli altri quadrupedi; quando poi ha bisogno di portare via qualche cosa o di metterla giù o di afferrarla e di stringerla, quelle che erano zampe si trasformano in mani; allora l’onocentau70. La sospensione del giudizio (epoché) è un atteggiamento tipicamente scettico, conseguente all’impossibilità di individuare criteri certi di verità (a tale proposito cfr. Striker 1974, 51 ss. e Cozzo 2001, 254 ss.).

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ro non cammina più, ma si siede. Questo animale inoltre è molto irritabile; se viene catturato, dal momento che non sopporta la schiavitù ed agogna la libertà di cui fino al momento della cattura aveva goduto, rifiuta ogni genere di cibo e si lascia morire di fame. Lo stesso Pitagora conferma queste notizie, proprio come testimonia Cratete di Pergamo nella Misia». (Ael. NA 17, 9)

Nel fornire al lettore il morfotipo comportamentale particolareggiatissimo dell’animale (avallato dalla auctoritas di Cratete di Pergamo e da quella di Pitagora), Eliano si affida ad una akoé che si fa sguardo e insieme effetto di realtà. Il lettore viene in un certo senso stordito dall’ostensione dei dati, che hanno il compito di produrre la prova vivente dell’esistenza, se non del centauro, quanto meno dell’onocentauro (vale a dire di un animale analogo). Per il resto, chi fosse convinto dell’argomento secondo il quale tutto ciò che è stato una volta esiste ed esisterà sempre (un argomento, questo che Eliano sembra conoscere, anche se forse non riesce a ricostruirne la paternità), potrebbe facilmente fare un ragionamento inverso: se c’è l’onocentauro adesso, vuol dire che c’è sempre stato. Eliano dunque, nel recensire in maniera confusa diversi approcci possibili sull’esistenza degli esseri mostruosi (quello di Empedocle, quello di Palefato e quello scettico), in qualche modo li amalgama fra loro e finisce, pur dichiarando di voler sospendere il giudizio, con il lasciare al lettore l’impressione che i centauri – così simili all’animale di cui si parla – potrebbero essere veramente esistiti e, di conseguenza, che possano in qualche modo continuare ad esistere. La prova dell’esistenza del centauro – che viene implicitamente confuso a tratti con l’onocentauro –, è però, a suo modo, se non una razionalizzazione, quanto meno una normalizzazione. Tale normalizzazione presenta tuttavia esiti inaspettati e in un certo senso del tutto nuovi. Se infatti Galeno, Lucrezio, Palefato (e in fondo lo stesso Senofonte) sembravano dimenticare il fatto che tutti gli ibridi che esistono in natura sono forniti di una natura (una natura che è pur sempre la risultante di due nature, ma che non è mai duplice), l’esistenza dell’onocentauro potrebbe suggerire che il centauro debba essere pensato non più come una mixis casuale di membra eterogenee, bensì come il frutto di una krasis. Il centauro, insomma, potrebbe esistere, a patto però che ne venga modificato il tipo cognitivo assurdo e paradossale cui ci ha abituato il mito. 2.4 Aristotele rivisto e corretto: la Natura elastica di Plinio Se Eliano manipola un set di teorie di diversa origine per dimostrare l’esistenza dei centauri, in nessuna sezione della sua opera comunque 150

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dice che essi siano il frutto dell’incrocio fra l’uomo e l’animale. L’onocentauro è a tutti gli effetti uno speciema generico, della cui origine nulla viene detto esplicitamente, così come nulla sappiamo di quello che lo scrittore di Preneste conosceva del dibattito sui limiti della generazione interspecifica. Più interessante, in questo senso, è l’operazione che compie Plinio il Vecchio, che proprio mentre si riallaccia ad Aristotele ne modifica completamente di segno le conclusioni. Le teorie aristoteliche sulla riproduzione incrociata vengono citate da Plinio a conclusione del passo sulla generazione dei leopardi di cui si è già parlato nel capitolo 3. A proposito di questi animali Plinio aggiunge che Africa haec maxime spectat, inopia aquarum ad paucos amnes congregantibus se feris. Ideo multiformes ibi animalium partus, varie feminis cuiusque generis mares aut vi aut voluptate miscente: unde etiam vulgare Graeciae dictum semper aliquid novi Africam adferre. (Plin. nat. 8, 42)

«Queste belve si vedono soprattutto in Africa, dal momento che, a causa della mancanza di acqua, tutti gli animali si ritrovano assieme nei pressi di quei pochi fiumi che esistono. Per questo motivo in questo luogo è possibile trovare una produzione multiforme di esseri, dal momento che i maschi di una specie si possono unire variamente, o con la forza o in virtù del desiderio di quelle di accoppiarsi, con le femmine di qualsivoglia specie. Da qui ha origine quel famoso proverbio dei Greci secondo il quale “l’Africa produce sempre qualcosa di nuovo”».

Plinio, come si vede bene, cita il proverbio per chiosare la credenza secondo la quale i leopardi sarebbero il frutto dell’accoppiamento fra i “pardi” (i maschi delle pantere) e le leonesse. Se infatti la proverbiale libido di queste ultime è indicata come una delle cause principali della nascita dell’ibrido,71 il fatto che i leopardi, rispetto ad altre zone dell’ecumene, si trovino in quantità maggiori in Africa è attribuibile unicamente a quelle ragioni climatiche che avrebbero generato il noto adagio e che, fra le altre cose, esattamente come aveva già avuto modo di notare Aristotele nell’Historia animalium (606 b 17 ss.) e successivamente nel De generatione animalium (746 a 29 ss.), sono alla base della multiforme varietà della fauna di questa zona. Ma mentre Aristotele, come si è già visto, legava la spiegazione del proverbio all’esposizione delle condizioni necessarie per la riproduzione incrociata (il periodo di gestazione, la medesima taglia, ma anche il reciproco addomesticamento), queste ultime vengono total71. Per la generazione dei leopardi, oltre che Plin. nat. 8, 63, cfr. Isid. Orig. 12, 2, 11 e Festo p. 30 Lindsay.

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mente ignorate dall’enciclopedista romano. L’omissione di questo particolare viene pertanto a rendere più elastica la visione delle tendenze generali della natura. Se prima la riproduzione interspecifica era limitata da leggi ben definite, adesso le maglie sembrano essersi allargate: la proliferazione di incroci mostruosi in questa zona estrema del mondo non solo è una norma statisticamente valida, ma non sembra presentare limiti di sorta: i cuccioli che si trovano in Africa (ma anche in altre zone marginali del mondo che presentano caratteristiche climatiche analoghe) possono avere le forme più impensate, dacché, come lascia intendere la versione pliniana del proverbio greco, ogni sorta di accoppiamento interspecifico può essere fruttuoso.72 Non è dunque inverosimile che, magari anche dopo una serie di prove e in seguito a più generazioni, in Africa (o in India), in virtù di chissà quale accoppiamento di chissà quali animali non omofili, si sia potuto generare lo speciema-generico del centauro. Vediamo dunque che la teoria aristotelica non è stata completamente dimenticata (Plinio del resto considera lo Stagirita come un auctor di tutto rispetto),73 ma, in virtù del nuovo contesto epistemologico, culturale e psicologico nel quale si trova ad essere inserita, nel momento stesso in cui essa viene trasmessa, finisce per presentarsi come totalmente variata, se non addirittura banalizzata e stravolta. Questa banalizzazione, del resto, è spiegabile con la curiosa interpretazione pliniana degli intenti dell’intera opera biologica aristotelica: Aristoteles diversa tradit, vir quem in his magna secuturus ex parte praefandum reor. Alexandro Magno rege inflammato cupidine animalium naturas noscendi delegataque hac commentatione Aristoteli, summo in omni doctrina viro, aliquot milia hominum in totius Asiae Graeciaeque tractu parere iussa, omnium quos venatus, aucupia piscatusque alebant quibusque vivaria, armenta, alvaria, piscinae, aviaria in cura erant, ne quid usquam genitum ignoraretur ab 72. La notizia della nascita di un centauro in Tessaglia data in Plin. nat. 7, 35 è una spia evidente di una credenza che doveva essere ampiamente diffusa, e cioè che ogni uomo di normali condizioni potesse accoppiarsi con animali e partorire ibridi (cfr. a questo proposito Mayor 2000, 240). Bisogna comunque dire che il centauro della Tessaglia, secondo la notizia riportata da Plinio, muore nel momento stesso della nascita, quasi a dimostrare l’esattezza delle teorie lucreziane (cfr. Lucr. 5, 837 ss.: ma Plinio era a conoscenza di queste teorie?). In ogni caso, se in luoghi come l’Etiopia o l’India era possibile che gli accoppiamenti interspecifici fossero all’origine della nascita di sempre nuovi speciemi generici, nel centro del mondo (o nelle zone adiacenti al nuovo centro del mondo – Roma – come la Tessaglia) essi producevano aborti (o esseri non classificabili e di breve durata) da “espiare” con riti religiosi (a questo proposito cfr. Beagon 1992, 146). 73. Oltre che Plin. nat. 8, 44 cfr., per Aristotele in Plinio cfr. 2, 91; 2, 150; 2, 220; 4, 65 s.; 4, 70; 5, 135; 7, 15; 7, 27; 7, 192; 7, 195; 7, 197; 7, 208; 8, 105; 8, 229; 9, 16; 9, 76; 9, 78 s.; 10, 32; 10 187; 11, 266; 11, 273; 18, 335 et al.

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eo. Quos percunctando quinquaginta ferme volumina illa praeclara de animalibus condidit. Quae a me collecta in artum cum iis, quae ignoraverat, quaeso ut legentes boni consulant, in universis rerum naturae operibus medioque clarissimi regum omnium desiderio cura nostra breviter peregrinantes. (Plin. nat. 8, 44)

«Cose diverse riferisce Aristotele, uomo del quale – almeno così la penso – è necessario che io parli, dal momento che ho intenzione di seguirlo in gran parte, visto che tratto di questi argomenti. Il re Alessandro Magno cominciò ad ardere dalla brama di conoscere la caratteristiche fisiche degli animali e ne affidò lo studio ad Aristotele, uomo di somma preparazione in ogni disciplina. In tutte le regioni dell’Asia e della Grecia erano ai suoi ordini alcune migliaia di uomini che vivevano di caccia, di uccellagione e di pesca e che erano preposti ai vivai, agli armenti, agli alveari, alle peschiere, alle uccelliere, perché nessun essere vivente fosse ignorato da Aristotele. Proprio interrogando queste persone Aristotele compose quei famosi volumi sugli animali (cinquanta all’incirca di numero). Ebbene, io ho qui riassunto le cose da lui scritte e le ho integrate con altre notizie delle quali non era a conoscenza e adesso chiedo ai miei lettori di accogliere bene il frutto del mio lavoro, quei lettori che, grazie alla nostra fatica in un tempo breve possono aggirarsi fra tutte le opere della natura e in mezzo a quelle notizie che hanno suscitato perfino la curiosità del più grande dei re».

Aristotele viene associato ad Alessandro quasi come suo partner scientifico. La cosa, ovviamente, è priva di senso storico, ma è tuttavia da considerare come una spia assai interessante, dal momento che lascia trasparire una maniera del tutto singolare di leggere l’opera dello Stagirita (ma anche la stessa spedizione in India del condottiero macedone).74 Associare Aristotele ad Alessandro significa dare alla marcia di Alessandro un crisma di – per così dire – “scientificità”.75 La marcia dei Greci in oriente, in base a questa interpretazione, è dunque finalizzata alla scoperta di nuovi esseri, alla volontà di getta-

74. La “storicità” del rapporto fra l’opera biologica aristotelica e l’interesse zoologico di Alessandro è stata sostenuta da Jaeger 19602, 448 (A questo proposito cfr. Romm 1992, 108 n. 54). Più recentemente French 1994, 105 ss., anche se in via meramente ipotetica, ha provato a prendere sul serio la partnership scientifica fra Alessandro ed Aristotele: Aristotele non avrebbe scritto la Historia animalium per Alessandro, ma – così sostiene French (il quale però pone in secondo piano molte delle fonti indografiche utilizzate dallo Stagirita) – le sue conoscenze sugli animali potrebbero essere basate in parte sulle relazioni che si faceva spedire dai militari macedoni all’estero. Per il rapporto fra Aristotele e Plinio cfr. comunque la bibliografia cit. da Naas 2002, 165 n. 279. 75. Per la lettura di Plin. nat. 8, 44, mi rifaccio in queste pagine a Romm 1992, 98 ss. e 107 ss. e riprendo un discorso già fatto in Li Causi 2003, 209 ss.

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re finalmente luce su quella che per secoli e secoli era stata una zona d’ombra del mondo. Grazie ad Alessandro il novero delle specie viventi poteva ormai avviarsi alla conclusione e toccava ad Aristotele rendere edotto il curioso sovrano circa le cause delle loro nature. La conquista dell’oriente diventa così, nell’ottica dell’interpretazione pliniana, soprattutto una conquista cognitiva: essa è vista come un accrescimento delle conoscenze scientifiche dei Greci voluto fortemente da Alessandro. Ma se questo è l’effetto dell’accostamento del nome di Aristotele a quello di Alessandro, al contrario accostare il nome del re macedone a quello dello Stagirita finisce per imporre, in un certo senso, una lettura mitica della sua opera “scientifica”. Il nome di Alessandro richiama infatti alla memoria i paesaggi favolosi e le bestie sensazionali dei margini del mondo. Anziché cancellare, ad esempio, il manticora o i grifoni dalla “geografia vera” dell’India, la spedizione del re macedone, che aveva accresciuto il gusto e l’interesse per il favoloso, nella prospettiva di Plinio finisce quasi per giustificarli.76 Se dunque Alessandro è il primo uomo dell’occidente ad avere visto i mostri del mare indiano e i favolosi cani-tigre di cui per la prima volta aveva parlato Ctesia,77 se dunque Alessandro è l’uomo dei mostri, l’opera di Aristotele non può che essere letta, fra le righe, come un inventario di esseri “mostruosi” e novissimi. Il lavoro dello Stagirita, in questa versione mitologizzata, diventa dunque, in un certo senso, un’opera di recensione dell’esotico e del meraviglioso.78 2.5 L’invasione dei mostri (e l’antropopoiesi rovesciata di Plutarco) In un quadro come quello appena delineato le teorie aristoteliche non sono che un granello in un mare sconfinato di sabbia. La natura cui credono Plinio ed Eliano è diventata una sorta di demiurgo fantasioso che tutto crea e tutto permette; ed ecco dunque che si spiega l’umorismo sardonico del Talete del secondo scenario. L’ibrido di uomo e animale non è, nel mondo antico, uno scandalo biologico, quanto piuttosto uno scandalo etico e antropologico (o, anche, un segnale degli dei).79 Gli incroci che la biologia moderna

76. «The results of his expeditions and their finds may have provided material for that basic human fascination for the strange and the new, giving it a fresh impetus which lasted into the following age of Rome» (Beagon 1992, p. 128). 77. Cfr. Plin. nat. 9, 5; 8, 148-149; Ctesia FGrHist 688 F. 45, 10. 78. Sulla recensione del meraviglioso in Plinio, da vedere come “messa in ordine” del mondo finalizzata alla “monumentalizzazione” dell’impero, cfr. le interessanti osservazioni di Naas 2002, 243 ss. (e 473 ss.). 79. Cfr. ad es. n. 87 di questo cap.

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ha pensato per lungo tempo come impossibili,80 sono nell’ottica degli antichi a portata di mano, soprattutto in condizioni estreme di marginalità (la Libia, l’India o lo stato semiferino dei mandriani). Se poi consideriamo che, oltre alle teorie colte che dibattevano circa la veridicità delle credenze tradizionali, ci dovevano essere anche teorie popolari (anche se è difficile, nel naufragio dei testi dell’antichità, rintracciarne poco più di qualche brandello), ecco che diventa possibile che il mondo si popoli di nereidi, di tritoni, di pegasi, di satiri, o anche – sulla base della testimonianza di Plinio – di ippocentauri: Claudius Caesar scribit hippocentaurum in Thessalia natum eodem die interisse, et nos principatu eius adlatum illi ex Aegypto in melle vidimus. (Plin. nat. 7, 35)

«L’imperatore Claudio scrive che in Tessaglia nacque un ippocentauro, e lo stesso giorno morì; anch’io, durante il suo principato, ne ho visto uno che gli era stato portato dall’Egitto, conservato nel miele».

Questo ed altri passi dimostravano che le vulgi opiniones erano vere. L’imperatore Claudio in persona esibiva – verosimilmente per connotare il suo status81 – un ippocentauro che gli era stato portato in dono dall’Egitto e che Plinio asseriva di avere visto con i propri occhi.82 Ma non è tutto qui. 80. Gli sviluppi delle biotecnologie (per cui cfr. ad es. Marchesini 1999, 102 ss.) hanno mostrato ad esempio che c’è una fase, detta pre-embrionale, nella quale, per un giro di 14 giorni le cellule che costituiscono un embrione si trovano in stato di totipotenzialità e possono essere mescolate con le cellule di qualsiasi altra specie. Arnold 1997, 13 ss. mostra poi come in biologia la definizione di specie sia stata spesso costruita, fino a tempi recentissimi, in modo tale da non classificare come ibridazioni naturali quelle che effettivamente erano tali, manipolando il concetto stesso così da presentare come accoppiamenti intraspecifici quelli che di fatto non erano tali. 81. Sugli animali esotici come “connotatori di status” cfr. Bodson 1998, 598 ss. 82. Plin. nat. 7, 35. Pare che anche Tiberio abbia nutrito interessi “criptozoologici” (cfr. Suet. Tib. 70, su questo passo vd. Mayor 2000, 145). Sul centauro portato in dono a Claudio cfr. Mayor 2000, 240: «immersion in honey would not only enhance authenticity but would prevent close inspection of the blurry illusion». A questo proposito la studiosa menziona un altro falso di cui ci reca notizia Luciano (Alex. 12 ss.): «taking as an example Lucian’s firsthand account of the phony human headed snake exhibit, we can guess that the Centaur was shown in a dimly lit room, and that viewers were hurried along to the exit before they could examine the hoax». Riguardo alla disponibilità a credere bisogna comunque segnalare che in alcuni passi Plinio si dimostra incredulo nei confronti di alcune notizie paradoxa. In tutti i casi però non vengono mai menzionati i motivi (e dunque i criteri di veridizione) in base ai quali queste notizie sono respinte o giudicate poco credibili (cfr. ad es. il caso dei versipelles in 8, 80 ss., a proposito del quale cfr. Li Causi 2003, 214).

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Oltre all’abitudine di esporre belve esotiche dai tratti eterogenei nei circhi e nei trionfi (il rufio, il chama, ma soprattutto la camelopardalis),83 c’è da ricordare l’esistenza nella Roma del I sec. d.C. di un forum prodigiorum di cui ci dà notizia Plutarco; per non parlare poi del tritone senza testa esposto nel tempio di Tanagra in Beozia di cui fanno menzione Pausania ed Eliano e che – stando a NA 13, 21 – sarebbe stato persino esaminato da un senatore romano di nome Demostrato.84 Insomma, nel periodo in cui Plinio scrive la Naturalis Historia, l’esistenza di esseri che prima erano visti come impossibili dalle teorie colte sembra essere diventata cosa certa, al punto che quelli che prima erano considerati i mostri mitologici del passato diventano adesso animali esotici del presente etnografico.85 La battuta di Talete, in questo senso, nasce dalla sagacia di un uomo che conosce la natura, e che sa che a creare l’uomo-cavallo non sono gli dei (o almeno non soltanto gli dei), bensì le possibilità che la natura stessa offre e che l’intemperanza dell’uomo non omette di cogliere. Plutarco, insomma, quando denuncia la bestialità del mandriano segnala l’incapacità dell’uomo di essere veramente tale che lo rende più “bestiale” delle bestie. Un tema, questo, che è riproposto nel Bruta animalia ratione uti, un’opera che, dietro il velo della finzione letteraria e del divertissement mitografico, ha la ferma intenzione di veicolare idee forti sul rapporto fra la sfera dell’umano e la sfera dell’animale. In questo trattatello Odisseo viene posto di fronte ad un suo vecchio compagno che ha subito la metamorfosi in maiale ad opera di Circe. Il vecchio compagno però non vuole tornare ad essere un umano, dal momento che – così argomenta mettendo in atto diverse strategie di proiettività inversa – gli animali posseggono tutte le virtù che gli uomini dovrebbero coltivare e possedere. Fra queste c’è anche, appunto, la virtù della temperanza: «Alle vostre intemperanze, neppure con l’aiuto della legge la natura è in grado di mettere limiti, anzi, rompendo gli argini come un fiume in piena, la lussuria umana turba, oltraggia, sovverte l’ordine naturale. Così ci sono stati uomini che hanno sperimentato l’unione con capre, scrofe e cavalle, e donne che hanno nutrito insane passioni per animali maschi; da accoppiamenti di tal fatta vengono fuori, penso, i vostri Minotauri ed Egipani, e le Sfingi e i Centauri. È pur

83. Cfr. Plut. De curiositate 520 C; Plin. nat. 8, 69-70. 84. Cfr. Paus. 9, 20, 4 ss. e Ael. NA 13, 21. Demostrato, autore di un trattato sulla pesca e di un’opera sulla divinazione, fu senatore romano nel II sec. d. C. (cfr. Maspero 1998, 779 n. 24). 85. Cfr. ad es. Plin. nat. 8, 72 (i pegasi) e 5, 7 (egipani e satiri).

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vero che costretti dalla fame, cani e uccelli hanno mangiato talvolta carne umana, ma nessuna bestia ha mai tentato di abusare dell’uomo a fini sessuali. Siete voi che, in questo come in molti altri casi, perseguendo il piacere fate violenza e oltraggio alle bestie».86 (Plu. Bruta animalia ratione uti 990 F 3-991 A 8)

Ecco dunque che l’antropopoiesi aristotelica viene completamente rovesciata: sono gli uomini che violano ogni sorta di norma morale, turbando, al contempo, l’ordine della natura e adulterando continuamente la propria specie, e non gli animali. Quella che viene messa in scena è l’antica teodicea greca, che Plutarco recupera non solo in questo trattatello dai toni immaginifici, ma anche nelle opere decisamente storiografiche, come, ad esempio, la Vita di Pericle, dove ammette che per la nascita portentosa di un unicorno possono andare bene ugualmente sia le spiegazioni naturalistiche di Anassagora che quelle religiose del sacerdote Lampone.87 Altrove Plutarco dice di non credere all’esistenza dei centauri,88 e tuttavia il discorso di Grillo sembra tradire una estrema disponibilità al mirabile, che ha sempre una causa naturale, ma anche una divina, e sulla base del quale si delinea il paesaggio di una contiguità biologica universale, in cui ogni speciema generico può incrociarsi indifferentemente con un altro e gli animali possono anche accoppiarsi con gli uomini e produrre frutti. Semplicemente però gli animali non lo vogliono, dal momento che l’ideale a cui tendono è quello che era stato costruito per l’uomo aristotelico (al quale peraltro la natura non sembrava dare altra scelta). In questo quadro sono gli uomini ad essere naturalmente indirizzati verso l’ibridazione e non più tutti gli altri esseri animati. In questo quadro, Eliano si può permettere di dire che il mulo è frutto di un “adulterio”, ma che tale adulterio è frutto principalmente della violenza perpetrata dall’uomo. In altri termini, mentre le responsabilità biologiche dell’ibridazione “adulterina” sono del cavallo e dell’asina, quelle morali sono tutte dell’uomo, che turba l’ordine della natura e umilia gli esseri viventi.

86. Tr. it. Zinato 1995. 87. Cfr. Plu. Per. 6, 1-5. Una lettura di questo tipo si può proporre anche per Septem Sapientium Convivium 149 E ss. Lo Cascio 1997, ad l. nota infatti che in effetti il destino della casata di Periandro (per cui cfr. Hdt. 3, 50-53) coincide con gli eventi che egli stesso riesce a vedere annunciati nella nascita dell’uomo-cavallo. 88. Cfr. ad es. Plu. De vitando aere alieno 830 D 13 ss.

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2.6 Donne che continuano a generare mostri: Isidoro di Siviglia Se dunque l’intemperanza degli umani crea centauri, minotauri ed egipani, vuol dire che la biologia non pone limite alcuno alla riproduzione interspecifica. L’uomo non ha bisogno di tecniche particolari per violare la natura, perché la natura è in sé estremamente violabile. L’antroposfera e la zoosfera sono dunque due aree contigue e continue e – tranne che in Aristotele, Platone e pochi altri autori che vogliono culturalizzare la biologia usandola come strumento per costruire antropopoiesi autoriferite – l’umano si separa dall’animale soltanto in virtù di leggi morali che peraltro i mortali non riescono a rispettare. L’autoriferimento dell’umano, in altri termini, viene tendenzialmente pensato in termini antropologici e culturali molto più che in termini biologici, dal momento che le vulgi opiniones, che finiscono per retroagire sulle teorie aristoteliche stesse, modificandole, attestano che uomo e animale possono incrociarsi. C’è comunque un momento a partire dal quale si comincia a pensare che la nascita dei mostri, oltre che per contatto zoorastico, possa avvenire anche in altri modi. Nel XII libro delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia è infatti possibile cogliere il residuo di una credenza in base alla quale il semplice immaginare alcune forme durante l’atto sessuale possa portare automaticamente alla loro produzione. Il meccanismo, secondo quanto riporta Isidoro, può avere sia esiti eugenetici, sia esiti mostruosi: Sicut et Iacob contra naturam colorum similitudines procuravit. Nam tales foetus oves illius concipiebant quales umbras arietum desuper ascendentium in aquarum speculo contemplabantur. [59] Denique et hoc ipsud in equarum gregibus fieri fertur, ut generosos obiciant equos visibus concipientium, quo eorum similes concipere et creare possint. Nam et columbarum dilectores depictas ponunt pulcherrimas columbas isdem locis, quibus illae versantur, quo rapiente visu similes generent. [60] Inde est quod quidam gravidas mulieres iubent nullos intueri turpissimos animalium vultus, ut cynocephalos et simios, ne visibus occurrentes similes foetus pariant. Hanc enim feminarum esse naturam ut quales perspexerint sive mente conceperint in extremo voluptatis aestu, dum concipiunt, talem et sobolem procreent. Etenim animal in usu Venerio formas extrinsecus intus transmittit, eorumque satiata typis rapit species eorum in propriam qualitatem. (Isid. Orig. 12, 1, 58-60)

«Fu così che Giacobbe procurò contro natura i colori che desiderava: le sue pecore infatti concepivano agnelli uguali agli arieti che le montavano, arieti il cui riflesso esse contemplavano in uno specchio d’acqua. [59] Lo stesso, a quanto dicono, si fa con le mandrie di ca158

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valle: si pongono cioè, cavalli di nobile razza dinanzi agli occhi delle partorienti, in modo che quest’ultime possano partorire e dare alla luce dei piccoli della stessa natura. Anche gli amanti delle colombe collocano nei luoghi che questi uccelli sono soliti frequentare delle splendide colombe dipinte, appunto perché le colombe, rapite da tale visione, generino dei piccoli altrettanto belli. [60] È per questo che alcuni proibiscono alle donne incinte la visione del volto di animali bruttissimi, come i cinocefali o le scimmie, per evitare, cioè, che esse, rivedendo tali volti nella propria mente, concepiscano figli dello stesso aspetto. Dicono, infatti, che la natura femminile è tale da dare alla luce una prole simile a ciò che hanno visto o immaginato allorché concepiscono, nell’estremo ardore del desiderio. L’animale, infatti, nel compimento dell’atto di Venere, interiorizza le forme esterne e, una volta saturo della loro immagine, adatta il loro aspetto alla propria natura».89

Il potere che la credenza citata da Isidoro attribuisce al femminile è immenso. Si ipotizza una teleogonia paradossale in cui non è più soltanto il ventre della femmina a impregnarsi delle forme diverse che possono venire trasmesse dai semi agglutinati, ma è la sua stessa immaginazione a modificare la sostanza e l’identità del nascituro. Se nelle teorie aristoteliche della generazione era solo la materia femminile che doveva essere irreggimentata e dominata, adesso anche la mens deve subire il medesimo destino, proprio perché la capacità che ne deriva di formare il feto è diventata perfino più grande di quella che è innata nel seme maschile. Ancora una volta, e sempre di più, da questo momento in poi, se gli umani sono predisposti a creare i mostri e a manipolare la natura,90 l’umano che più di tutti funziona come interfaccia verso la mostruosità e verso il guazzabuglio di forme è proprio la donna, secondo modalità che diventano sempre più iperboliche e per certi versi demiurgiche.91

89. Tr. it. Valastro Canale 2006. La notizia di Giacobbe è tratta da Genesi 30, 25-43. Notizie simili a quelle riportate da Isidoro si trovano anche in Hier. quaest. hebr. in gen. 30, 33 e 37-40. 90. Sulla prossimità fra umano e animale e sulla larga diffusione delle credenze medievali in base alle quali la zoorastia produce facilmente ibridi di uomo e animale cfr. Salisbury 1994, 9 ss., 83 ss. e 137 ss. e Voisenet 2000, 15 ss. 91. La credenza cui fa riferimento Isidoro ha una vita piuttosto lunga nella cultura occidentale (cfr. a tale proposito, Olmi 2004, 33 s., il quale riferisce una notizia riportata dal medico cinquecentesco Levinio Lemnio, che racconta di come una donna che si era accoppiata con il suo partner tenendo in mano una rana avesse dato alla luce un nato con la testa di rana).

Capitolo 4. L’invasione dei mostri…

159

CAPITOLO 5

Ibridi animali, ibridi umani

«La riduzione del corpo straniero a corpo bestiale è implicita nell’iconografia abituale dell’immigrato. Se la donna straniera è corpo da offendere […], l’uomo straniero è il corpo offensivo. Anche quando non compie delitti o non violenta le nostre donne, egli è sporco e sporca […], è fuori posto […], è aggressivamente osceno». A. Dal Lago, Nonpersone

L’antropopoiesi degli animalisti Plutarco ed Eliano, benché approdi ad esiti nettamente opposti rispetto a quelli di Aristotele, si rivela pur sempre come una costruzione antropocentrata. Gli zoia infatti – come abbiamo accennato nel capitolo 1 – tendono ad essere sempre meno animali e sempre più modelli di umanità. E benché siano diventati loro i detentori delle virtù, queste virtù sono pur sempre il riflesso di una ferinità ripudiata. Nei discorsi della zoologia etologica del II sec. d. C., infatti, le bestie sembrano condannate a non avere virtù specifiche che non siano riconducibili a modelli umani, e in più, secondo una tendenza che nel pensiero greco antico più volte affiora omeostaticamente, spesso continuano ad essere percepite sempre in blocco come “altri” in opposizione all’uomo. Secondo tale modello, presente in molte culture,1 ogni singolo speciema generico diverso dall’uomo viene ricondotto alla classe “animale” concepita nella sua interezza e, a discapito di ogni diffe-

1. Cfr. n. 58 del cap. 1.

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renza specifica, i medesimi tratti tipici dell’animalità vengono proiettati in animali diversi l’uno dall’altro. Questo modello può avere tre diverse derive, non necessariamente alternative l’una rispetto all’altra. La prima consiste nell’attribuire alla classe dell’animalità, concepita come blocco, caratteri positivi. È il caso, questo, di Plutarco e di Eliano. La seconda deriva è invece quella più usuale in molte culture, e consiste nell’attribuire alla classe degli animali tutti i tratti di segno negativo considerati come polarmente opposti ai tratti umani.2 La terza deriva, infine, consiste nel restringere ulteriormente il giro dell’umano e nell’attribuire lo stigma della bestialità ad esseri umani percepiti come “altri bestiali”. È di questa deriva che, in parte, intendo occuparmi in questo capitolo.

1. Un falso antenato Nell’elenco di lessemi latini che ho indicato nel capitolo 3 spiccava il termine hybrida, da cui deriva l’italiano “ibrido”.3 Ad un esame più attento, però, il termine in questione si rivela un antenato un po’ scomodo. Particolarmente illuminante, in questo senso è il seguente passo pliniano tratto dal libro VIII della Naturalis Historia, inserito in una sezione in cui si parla del genus dei maiali: In ullo genere aeque facilis mixtura cum fero, qualiter natos antiqui hybridas vocabant ceu semiferos, ad homines quoque, ut C. Antonium Ciceronis in consulatu collegam, appellatione tralata. (Plin. nat. 8, 213)

«In nessuna specie è tanto facile l’unione con il corrispettivo selvatico, e gli antichi chiamavano i piccoli così nati ibridi o semiselvatici, appellativo che passò anche agli uomini, ad esempio a Gaio Antonio, collega di Cicerone nel consolato».

Dalla lettura del passo si ha la sensazione che il termine usato da Plinio sia ormai caduto in desuetudine nel momento in cui la Naturalis Historia viene scritta, proprio perché l’autore ci informa chiaramente che si trattava di un uso degli antiqui. La cosa più interessante però è che il significato di hybrida non sembra affatto generico. Ad essere designati come hybridae, infatti,

2. Cfr. ad es. Tonutti 1999, 104 ss. 3. Cfr. ad es. Cortellazzo, Zolli e Cortellazzo 1999, s. v. ibrido (ma si veda anche Mazzolini 2004, 127).

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Generare in comune

non sono tutti gli animali frutto di incrocio, bensì – come si desume dal testo pliniano – soltanto i meticci di maiale e cinghiale.4 Generico sembrerebbe piuttosto l’aggettivo semiferus, che avrebbe potuto indicare in senso lato il meticcio, vale a dire ogni forma di incrocio fra due razze diverse del medesimo speciema generico, ma che gli antiqui – secondo quanto ci dice Plinio – di fatto usavano in maniera specializzata come sinonimo che si impone al posto di hybrida. Bisogna poi dire che laddove per la zootecnia contemporanea i meticci e gli ibridi in senso stretto sono due cose diverse,5 una simile distinzione, in seno alla tassonomia folk degli antichi, non doveva essere così naturale. Solo per fare un esempio, bisogna ricordare, a tale proposito, che Plinio tutte le volte che raggruppa in maniera gerarchica forme e tipologie animali utilizza il termine genus in maniera non differenziata e non marcata. L’accezione primaria del termine è ovviamente legata alla radice *gen∂ (la medesima che si ritrova in gens e in genero), che indica generazione; bisogna comunque riflettere sul fatto che genus per Plinio può indicare indistintamente ora uno speciema generico (e quindi un gruppo di identici) distinto contrastivamente su un piano orizzontale da tutti gli altri (la mosca, o il genus Elephantorum),6 ora una forma di vita (il “genere dei pesci”, distinto dal “genere degli uomini”),7 ora, anche, il genus di un genus sovraordinato, vale a dire una specifica tipologia che si differenzia dal4. L’etimologia di hybrida è incerta. Sicuramente è scorretta l’etimologia che riconduce il termine ad hybris greco (un’etimologia che spesso viene data per scontata, cfr. ad es. Marchesini 1999, 102). Il Th. l. L., s. v. associa senza molta convinzione hybrida a iber (mulo?), e al greco ¤bràj (un uccello notturno). Warren 1884, 501 s. ha invece ipotizzato, sulla base anche di Plin. nat. 8, 213, che il termini derivi dalla fusione delle radici ¤- (maiale) e Äbro- (cinghiale). Un termine da segnalare è comunque anche cicur, la cui accezione primaria – per cui cfr. Bodson 1995, 11 ss. –, è quella di “animale selvaggio nato in allevamento” (e quindi addomesticato), ma che secondo una notizia trasmessa da Festo (s. v. bigenera, p. 30 Lindsay) indica l’incrocio fra un esemplare femmina di maiale e un esemplare maschio di cinghiale. Il termine cicur in tal senso si oppone come termine marcato rispetto ad hybrida che sembra essere non marcato. L’uso di cicur potrebbe peraltro suggerire che il fine di questo tipo di riproduzione incrociata potrebbe coincidere con quello dell’addomesticamento della specie fera del cinghiale. 5. Cfr. par. 2 dell’introduzione. 6. Ad es. le mosche sono dette id genus animalium (Plin. nat. 8, 30). In questo caso genus è un “contrastive lexical mark” che distingue orizzontalmente una classe di oggetti da un’altra. Si parla poi di Elephantorum genus in nat. 8, 27. Si segnala poi 8, 42, in cui si parla delle femmine di ogni genus. Per l’uso del termine genus in Plinio rimando comunque a P. Li Causi, I genera del genus (e le species), cit. 7. Si pensi ad es. a genus piscium in Plin. nat. 9, 1 o genus humanum in pr. 11 o genus terrestrium di 9, 57.

Capitolo 5. Ibridi animali, ibridi umani

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le altre all’interno di una medesima classe gerarchicamente superiore che la contiene. In quest’ultimo caso, peraltro, il termine genus può essere usato sia per la classificazione dei viventi che per la classificazione degli oggetti inanimati (i “generi” del “genere” dei cammelli, ma anche i diversi “generi” di lana).8 Sullo sfondo di questa indistinzione lessicale si può pertanto dedurre che un termine come ad esempio bigener possa essere usato sia per quelli che noi chiamiamo ibridi in senso stretto che per i meticci, per il semplice fatto che la distinzione fra le due tipologie di incrocio, in una cultura pre-linneana in cui genere e specie sono coestensivi, è del tutto irrilevante. Semplicemente, l’idea dell’incrocio comprende una generazione ex diversis, senza distinguere i livelli tassonomici nell’ambito dei quali i diversa si vanno a collocare.

2.

Gli hybridae fanno parte dei bigenera (oppure degli ambigenae)

Laddove noi saremmo portati a tradurre con “ibrido” il termine latino hybrida, dunque, come si è visto nel paragrafo precedente, siamo in realtà davanti ad un tipo particolare di incrocio, se non addirittura ad uno speciema generico ben definito. È molto interessante, a tale proposito il seguente passo delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia: In animantibus bigenera dicuntur quae ex diversis nascuntur, ut mulus ex equa et asino; burdo ex equo et asina; hybridae ex apris et porcis; tityrus ex ove et hirco; musmo ex capra et ariete. (Isid. Orig. 12, 1, 61).

Fra gli animali sono detti bigenera quelli che nascono da animali non omofili, come ad esempio il mulo che nasce dalla cavalla e dall’asino, il bardotto, che nasce dal cavallo e dall’asina; gli hybridae che nascono dai cinghiali e dai maiali; il “titiro” che nasce dalla pecora e dal caprone; il “musmo” che nasce dalla capra e dall’ariete.

A conferma di quanto detto nel capitolo 3, Isidoro qui utilizza il termine bigener come una sorta di classema che gli permette di raggruppare assieme tutti gli esseri viventi che sono frutto di incrocio in-

8. Cfr. ad es. Plin. nat. 1, 8a, rigo 45 (de camelis, genera eorum); 1, 8a, 58 (i genera dei serpenti) e poi 1, 9a, 20; 1, 9a, 30; 1, 9a, 53; 1, 9a, 70; 1, 9a, 87; 1, 9a, 90; 1, 9a, 120. Interessante nat. 8, 38: insignia tamen boum ferorum genera: fra questi si distinguono i bisonti e gli uri, o anche 8, 215 (simiarum […] genera plura). Cfr. poi 1, 8a, 109 (genera lanae), dove il termine genus indica diverse “tipologie” della lana delle pecore.

164

Generare in comune

terspecifico. Come già si era dedotto dalla lettura di Plinio, l’hybrida è solo uno dei tanti bigenera che si possono ottenere per mezzo della zootecnia. Un elenco tassonomico analogo, peraltro, lo ritroviamo in Eugenio (Mon. Germ. Script. Ant. XIV, p. 258): Hae sunt ambigenae, quae nuptu dispare constant. Burdonem sonipes generat commixtus asellae. Mulus ab Arcadicis et equina matre creatus. Tityrus ex ovibus hircoque parente. Musimonem capra ex vervegno semine gignit. Apris atque sue saetosus nascitur hybris At lupus et catulae formant coeundo lyciscam. (Eugen. Tol. 42, 1-7)

«Questi sono, che da nozze ineguali sono prodotti, gli ambigeni: genera il bardotto il cavallo unito all’asina; il mulo da una madre equina creano gli Arcadi; il titiro vien generato da pecore, essendo il caprone padre; il musimone la capra lo genera da seme di ariete; l’ibrida nasce dai cinghiali e dal maiale; il licisca formano il lupo e le cagne accoppiandosi».

L’elenco è pressoché identico a quello di Isidoro, di cui il vescovo di Toledo era coevo, con la sola aggiunta del “licisca”.9 Altra variante è la sostituzione del termine bigener con il poetico ambigena. Sia nel caso di Isidoro che nel caso di Eugenio, comunque, vediamo l’attestarsi di una forma (non codificata né normalizzata) di classificazione in base alla quale si identifica un termine generico che ha la funzione di raggruppare in un’unica classe non, come avveniva nel Politico di Platone, tutti gli esseri che ammettono ibridazione, bensì – ed è una sfumatura non indifferente – tutti gli speciemi generici ibridi.10 Se dunque ambigena e bigener sono usati come classemi provvisori di ordine superiore, hybrida continua ad essere, nella sua accezione primaria, un tassonimo sotto-ordinato rispetto a questi due termini. La cosa che però sembra interessante è che tutti gli ambigenae e i bigenera che vengono elencati da Isidoro e da Eugenio sono frutto di incroci che avvengono all’interno di speciemi fortemente affini.

9. Cfr. Warren 1884, 501 s. 10. Cfr. par. 1 del cap. 2.

Capitolo 5. Ibridi animali, ibridi umani

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3.

Gli ibridi sono “umani”

Vorrei ritornare al paragrafo 213 dell’VIII libro della Naturalis Historia. Qui infatti Plinio ci informa che del termine hybrida esiste una seconda accezione. Hybrida infatti non è soltanto il meticcio di maiale e cinghiale, ma può essere usato anche come soprannome da affibbiare ad una persona. L’esempio citato dall’enciclopedista romano è quello di Gaio Antonio, detto appunto “Ibrida”. Oltre ad Antonio, comunque, ci sono altri “ibridi” umani più o meno famosi, come Quinto Vario, o ad esempio il Persio della Satira 1, 7 di Orazio. Vedremo però che anche il poeta Marziale ha rischiato – per certi versi – di diventare un hybrida a causa dello scherzo di un amico. Insomma, ancora una volta – come spesso accade quando si parla di ibridi nel mondo antico – si ha l’impressione di essere di fronte ad una intersezione simbolica, se non addirittura ad un uso totemico, che crea effetti di rifrangenza fra la zoosfera e l’antroposfera, addensando su quest’ultima significati che vale la pena esplorare. Per comprendere le dinamiche di questa intersezione mi occuperò, nelle pagine successive, delle vite e delle caratteristiche di alcuni di questi hybridae umani, analizzando le loro biografie e cercando di capire, caso per caso, sulla base di quali meccanismi si sia arrivati alla assegnazione del cognomen. 3.1 Gaio Antonio Ibrida (e Catilina) Figlio dell’oratore Marco Antonio, fratello più giovane di Marco Antonio Cretico, zio paterno e suocero del triumviro Marco Antonio, Gaio Antonio Ibrida si trovò, nel 64, a concorrere contro Cicerone per il consolato.11 Fra tutte le fonti che abbiamo a disposizione, l’autore che è più prodigo di notizie, a proposito di queste elezioni del 64 a. C. che ebbero luogo in un clima tesissimo, è senza dubbio Asconio Pediano, che ci racconta che i competitori di Cicerone, per quell’anno, erano stati, oltre che Antonio, altri quattro notabili romani, vale a dire Publio Sulpicio Galba, Lucio Cassio Longino, Quinto Cornificio, Gaio Licinio Sacerdote, ma soprattutto Catilina.12 Catilina ed Antonio erano comunque senza dubbio gli avversari più scomodi per l’Arpinate, e Asconio ci spiega perché: Itaque hi quattuor prope iacebant. Catilina autem et Antonius, quamquam omnium maxime infamis eorum vita esset, tamen mul11. Su Gaio Antonio Ibrida cfr. Klebs 1894, 2578 ss. 12. Ascon. tog. cand. 73 Clark.

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tum poterant. Coierant enim ambo ut Ciceronem consulatu deicerent, adiutoribus usi firmissimis M. Crasso et C. Caesare. (Asc. tog. cand. 73-74 Clark)

«Perciò per questi quattro uomini non c’erano quasi speranze di riuscita; invece Catilina e Antonio, sebbene la loro condotta di vita avesse cattiva fama più di ogni altra, avevano tuttavia molte possibilità. Infatti si erano alleati perché la candidatura di Cicerone al consolato fallisse, ricorrendo all’aiuto di due uomini molto solidi: M. Crasso e C. Cesare».13

Non è mia intenzione passare al vaglio la testimonianza di questo autore, né capire se effettivamente Catilina e Antonio furono utilizzati, nel 64 a. C., come burattini o come utili idioti. Basterà ricordare che il primo venne sconfitto e che il secondo divenne collega di Cicerone nel consolato del 63. Per il resto, mi interessa soltanto mettere in evidenza il modo in cui questi due personaggi vengono rappresentati dagli autori latini, a cominciare dai frammenti pervenutici dell’orazione In toga candida che Cicerone si trovò a pronunciare in senato contro di loro poco prima delle elezioni. In quell’occasione l’oratore aveva alluso ai legami che intercorrevano fra i due e uno dei loro oscuri manovratori, e in più si era soffermato sul passato violento di Catilina e sul processo intentato ad Antonio per le ruberie in Acaia:14 Stupris se omnibus ac flagitiis contaminavit; caede nefaria cruentavit; diripuit socios; leges quaestiones iudicia violavit – et postea: quid ego ut violaveris provinciam praedicem? Nam ut te illic gesseris non audeo dicere, quoniam absolutus es. Mentitos esse equites Romanos, falsas fuisse tabellas honestissimae civitatis existimo, mentitum Q. Metellum Pium, mentitam Africam: vidisse puto nescio quid illos iudices qui te innocentem iudicarunt. O miser qui non sentias illo iudicio te non absolutum verum ad aliquod severius iudicium ac maius supplicium reservatum! (Cic. tog. cand. 7-8: Asc. tog. cand. 77-78 Clark)

«[Catilina] si è macchiato di violenze e vergogne di ogni specie, si è imbrattato del sangue di una uccisione scellerata, ha spogliato gli alleati, non ha rispettato leggi, inchieste, processi. [8] Perché dovrei insistere sulle vessazioni da te [Antonio] inflitte alla provincia? Sei stato assolto: perciò non ho il coraggio di dire come ti sei comportato colà. Ritengo che abbiano mentito i cavalieri Romani, che fossero falsi i rapporti di una città onorevolissima, che abbia

13. Tutte le traduzioni dei passi tratti da Asconio Pediano sono di Puccioni 1971. 14. Asc. tog. cand. 75 Clark (ma cfr. anche Klebs 1894, 2578 ss. per altre testimonianze).

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mentito Q. Metello Pio, e abbiano dette menzogne gli Africani: e che quei giudici che ti hanno mandato assolto abbiano fatta, non so come, una considerazione diversa. Sei un disgraziato, se non comprendi che con quel processo non sei stato assolto, ma semplicemente riservato a un giudizio più severo e a una pena più grave».

La cifra con cui questi personaggi vengono presentati è quella della criminalità. Ma mentre le vessazioni di Antonio rimangono presunte – per via di un’assoluzione su cui l’oratore vorrebbe gettare più che un’ombra – la ferocia di Catilina è patente: Quod caput etiam tum plenum animae et spiritus ad Sullam usque ab Ianiculo ad aedem Apollinis manibus ipse suis detulit. […] Populum vero cum inspectante populo collum secuit hominis maxime popularis quanti faceret ostendit. (Cic. tog. cand. 9-10: Asc. tog. cand. 80 e 78 Clark)

«Lui stesso con le proprie mani, al Gianicolo al tempio di Apollo, portò a Silla quella testa ancora piena di vita. […] Mostrò poi in che conto tenesse il popolo quando, alla presenza del popolo, recise il collo di un uomo democratico al cento per cento».

Le azioni di Catilina si pongono dunque al di qua dell’umano e vengono presentate come del tutto controculturali. Cicerone rappresenta il concorrente come un tagliagole, uno sgozzatore avido di sangue caratterizzato da una sorta di feroce compulsività che lo spinge continuamente a violare gli avversari privandoli orrorificamente del segno stesso della loro umanità, vale a dire il caput.15 Ancora, il capo della congiura che l’Arpinate stesso sventerà, viene indicato, per mezzo dell’allusione al matrimonio con la figlia illegittima natagli da un adulterio, come un agente di disordine che viola la sacralità dei legami parentali: Cum deprehendebare in adulteriis, cum deprehendebas adulteros ipse, cum ex eodem stupro tibi et uxorem et filiam invenisti. (Cic. tog. cand. 20: Asc. tog. cand. 82 Clark)

«Quando venivi colto in flagrante adulterio, quanto tu stesso sorprendevi gli adulteri, quando col medesimo stupro ti procacciasti al tempo stesso una moglie e una figlia».

Se dunque Catilina viene connotato apertamente come un essere bestiale, crudele e disumano, la figura di Antonio, a confronto, rima-

15. Sul legame fra smembramento e il termine latino horror cfr. Cavarero 2007, 14 ss. (con relativa bibliografia sul mondo antico). Sullo smembramento del cadavere nell’Iliade cfr. invece Segal 1972. Sulle parti della testa e sul viso come marche di identificazione cfr. Bettini 2000, 314 ss.

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ne un po’ più in ombra in quella che per certi versi risulta essere una oscura ambiguità. Del tutto ambigua, del resto, è la sua condotta in relazione ai congiurati sia per quanto riguarda il periodo immediatamente precedente alla sua elezione, sia per quanto riguarda l’arco di tempo in cui, da console, fu coinvolto nella guerra contro l’esercito dei catilinari. Che prima dell’elezione avesse partecipato alla congiura è una notizia che apprendiamo da storici lontani dagli eventi, come Plutarco (Cic. 12) e Cassio Dione (37, 30 e 39), il quale ci racconta di come Antonio si fosse tirato indietro dal complotto per paura.16 Di lui, poi, Cicerone stesso, nella Pro Sestio, ci dice che «mai egli non volle, in quell’ora di estremo pericolo e minaccia per la città, né eliminare, mentendo, il terrore comune e il sospetto di molti su di sé, né placarlo dissimulando» (Sest. 8: numquam illum illo summo timore ac periculo civitatis neque communem metum omnium nec propriam non nullorum de ipso suspicionem aut infitiando tollere aut dissimulando sedare voluisse).17 La logica del collega dell’Arpinate sembra dunque attendista: in attesa di sviluppi, Gaio Antonio né porta avanti il piano dei congiurati né si schiera apertamente contro di loro, e soltanto più tardi – e per giunta grazie alle ripetute insistenze di Sestio e di Marco Petreio, uomini molto vicini a Cicerone – si convincerà a far fare qualche progresso alla campagna contro i seguaci di Catilina:18 Hic ego quid praedicem quibus hic rebus consulem quaestor ad rem gerendam excitarit, quos stimulos admoverit homini studioso fortas-

16. D. C. 37, 30 (tutte le traduzioni dei passi di Cassio Dione sono di Norcio 1997): «Ai più influenti e potenti dei suoi complici (c’era tra gli altri anche il console Antonio) egli impose il più empio dei giuramenti: avendo sacrificato un bambino e avendo pronunziato il giuramento sulle sue viscere, le mangiò insieme ai suoi compagni». La congiura di Catilina viene a conoscenza di Cicerone, cui inizialmente nessuno vuole credere. Quando però si venne a conoscenza delle macchinazioni in Etruria, si intentò a Catilina il processo per violenza. Cfr. a tale proposito D. C. 37, 32, 1-3: «Egli dapprima l’accolse senza alcuna preoccupazione, come un uomo che aveva la coscienza tranquilla; cominciò a prepararsi al processo, e si consegnò a Cicerone per essere sorvegliato affinché non fuggisse. [2] Non volendo Cicerone prenderlo in consegna, passò di sua volontà a vivere in casa del pretore Metello, affinché non fosse minimamente sospettato di macchinare disordini, in attesa di ricevere un valido appoggio dai congiurati che stavano in città. [3] Poiché il suo piano non faceva alcun progresso (infatti Antonio per paura si era tirato indietro e Lentulo era un uomo del tutto inetto), ordinò ai congiurati di radunarsi di notte in una casa». 17. La traduzione di tutti i passi della Pro Sestio è di C. Giussani in Ferrara 19982. 18. Cfr. Cic. Catil. 3, 14, in cui Sestio viene lodato per avere convinto molti catilinari ad abbandonare la congiura.

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se victoriae, sed tamen nimium communem Martem belli casumque metuenti? Longum est ea dicere, sed hoc breve dicam: si M. Petrei non excellens animus amore rei publicae, non praestans in re publica virtus, non summa auctoritas apud milites, non mirificus usus in re militari extitisset, neque adiutor ei P. Sestius ad excitandum Antonium, cohortandum, accusandum, inpellendum fuisset, datus illo in bello esset hiemi locus, neque umquam Catilina, cum e pruina Appennini atque e nivibus illis emersisset, atque aestatem integram nanctus Apuliae callis et pastorum stabula praedari coepisset, sine multo sanguine ac sine totius Italiae vastitate miserrima concidisset. (Cic. Sest. 12)

«Ma dovrò io qui ricordarvi in qual modo egli, questore, incitò il console a muoversi, quali stimoli esercitò per scuotere quell’uomo che da un lato doveva pur ambire alla vittoria, ma dall’altro temeva le sempre troppo incerte sorti della guerra? Sarebbe lungo esporre tutto ciò; ma questo brevemente io dirò: se nel suo luogotenente Marco Petreio non fosse vibrato un cuore fervente d’amore per la patria, una chiara virtù nell’esercizio della vita pubblica, una mirabile esperienza nell’arte militare; e se Publio Sestio non gli si fosse unito nello spingere Antonio, nell’esortarlo, nel rimbrottarlo, nel premere su di lui, si sarebbe lasciato in quella guerra trascorrer l’inverno, e Catilina, disincagliatosi dal gelo e dalle nevi dell’Appennino e raggiunta la piena estate, avrebbe potuto dar mano al saccheggio lungo i tratturi di Puglia e nelle stalle dei pastori, e non sarebbe crollato senza un nostro largo tributo di sangue e senza una tragica devastazione di tutta l’Italia».

L’adesione alla causa della res publica tuttavia avverrà anch’essa sotto il marchio dell’ambiguità e del tentennamento. Come ci racconta Cassio Dione, infatti,19 «Quando però [Catilina] seppe che Lentulo era stato giustiziato e si accorse che per questo molti dei congiurati lo avevano abbandonato, e Antonio e Metello Celere assediavano Fiesole impedendogli di muoversi in qualsiasi direzione, fu costretto a rischiare. I due eserciti nemici erano accampati separatamente: egli allora mosse contro Antonio, benché costui fosse di grado superiore a Metello e costui comandasse un esercito più forte. [3] Lo spinse a ciò la speranza che Antonio, essendo uno dei congiurati, si sarebbe lasciato battere. Antonio capì ciò; non sentendosi ben disposto verso di lui, perché ormai si trovava in difficoltà (infatti la maggior parte degli uomini regola le proprie amicizie e inimicizie sulla base dell’altrui forza e del proprio tornaconto), 19. Sulla guerra che Antonio condusse contro Catilina cfr. anche Sall. Catil. 56 ss. (che glissa sulla condotta del console e ci dice semplicemente che non poté partecipare allo scontro decisivo perché ammalato di gotta: 59, 4) e Liv. Per. 103; Obseq. 61; Flor. 2, 11; Eutr. 6, 15; Val. Max. 2, 8, 7; Plu. Cic. 22; App. BC 2, 7; D. C. 37, 40; Schol. Bob. p. 229.

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[4] e temendo d’altra parte che Catilina, vedendo gli avversari combattere con tanto accanimento, gli muovesse dei rimproveri e rivelasse qualcuno dei loro segreti, si finse malato e cedette il comando della battaglia a Petreio. [40, 1] Questi attaccò i nemici e uccise Catilina e altri 3000 combattenti, che si batterono con grande coraggio. Nessuno di loro fuggì, ma ciascuno cadde al proprio posto, tanto che anche i vincitori piansero la perdita subita dallo stato per la morte di sì valorosi e numerosi soldati, che, benché fossero stati uccisi giustamente, erano pur sempre cittadini romani e alleati. [2] Antonio mandò a Roma la testa di Catilina, affinché i Romani, avendo la prova che quell’uomo era morto, non avessero più paura, e per la vittoria fu proclamato imperator, quantunque il numero dei nemici uccisi fosse inferiore a quello fissato dalla tradizione». (D. C. 37, 39, 2-40, 2)

Nel momento in cui Gaio Antonio Ibrida potrebbe recidere ogni legame con i congiurati, dissipando così ogni sospetto, finisce per scegliere di non scegliere, salvo poi arrogarsi il merito della vittoria quando per i catilinari, morto il loro capo, non ci sarà più alcuna speranza. Allora Antonio compirà sul cadavere di Catilina il medesimo gesto feroce che più volte aveva compiuto Catilina stesso: la decapitazione. 3.2 Un cognomen immotivato I testi antichi giunti in nostro possesso purtroppo non ci spiegano il motivo per cui Gaio Antonio ad un certo punto sia stato chiamato Hybrida. Peraltro, non solo mai nessuno degli scrittori coevi del personaggio ha utilizzato il cognomen per riferirsi a lui, ma per di più il fatto che sia solo Plinio a riferirci il dato potrebbe anche indurci a pensare che tale cognomen sia stato usato per la prima volta post mortem.20 A farci propendere per questa ipotesi c’è in questo senso il fatto che dai frammenti e dalle testimonianze che ci sono giunti sulla orazione In toga candida non risulta che Cicerone – che pure altrove si avvale delle strategie di manipolazione dei cognomina codificate dal sapere retorico – abbia fatto ricorso alla pronominatio per colpire il suo avversario (come avviene invece, ad esempio, con Verre).21 20. Una prova in senso contrario sarebbe data da Carcopino 1951, 136 ss., il quale sostiene che la “troiana” (Teucris) di cui si fa menzione in Cic. Att. 1, 12, 1 sia in realtà un criptonimo dietro il quale si nasconde Gaio Antonio in persona, chiamato così sulla base del fatto che la “scrofa troiana” era una specialità culinaria (cfr. Macr. Sat. 3, 13, 13). 21. Sappiamo per certo che il sapere retorico aveva in qualche modo codificato le strategie di manipolazione dei cognomina. Nella Rhetorica ad Herennium (4, 42, 20), solo per fare un esempio, viene introdotta la figura della pronominatio, che consiste, per l’appunto, nell’usare, in sostituzione del nomen, un co-

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La ricerca dei tratti che fanno scattare il meccanismo della cognominatio, dunque, in assenza di suggerimenti che provengano dagli autori latini, non può che procedere sulla base di suggestioni e ipotesi più o meno vaghe e tendenzialmente indimostrabili. Ritengo tuttavia che non sia del tutto inutile portare avanti questa esplorazione, cercando di desumere, dai racconti e dalle notizie che circolavano su Antonio, tratti che possano essere ricondotti ora all’idea generica di ibrido che avevano i Romani, ora, più specificamente, ai singoli animali che generano l’hybrida, vale a dire il maiale e il cinghiale. Un elemento che potrebbe essere messo in evidenza, per esempio, consiste nel fatto che, come accade nel caso di tutti gli ibridi antichi, l’identità di Antonio è confusa e agglutinata: in lui non è possibile cogliere il confine fra l’umanità e l’estrema bestialità (che invece è la marca simbolica che caratterizza in maniera evidente i comportamenti di Catilina). Antonio oscilla fra la fedeltà alla res publica e la congiura e quindi, per certi versi, fra la sfera del domestico e quella del selvatico. E per di più, anche quando opta apertamente per la causa delle istituzioni e della patria, lo fa in una maniera perversa. Non solo infatti l’atto finale della guerra contro i congiurati si configura come il furto di una vittoria altrui, ma avviene replicando quel gesto disumano che era presentato da Cicerone come tipico del nemico: tagliare una testa ed esibirla. Quanto alla decisione di interrompere le pericolose frequentazioni con i catilinari (o comunque di non osteggiare troppo i loro persecutori), è probabile che sia avvenuta a seguito di una strategia di corruzione che Cicerone in persona avrebbe sapientemente portato avanti. Nel momento in cui furono sorteggiate le province per i consoli, infatti, ad Antonio era toccata la Gallia, mentre all’Arpinate era stata assegnata la ricchissima Macedonia, che fu usata dall’oratore come moneta di scambio per comprare la fedeltà (o, piuttosto, la neutralità) del collega. Antonio era pieno di debiti, e la prospettiva di vessare una provincia che si trovava lontano dagli sguardi dei senatori doveva essere per lui molto più attraente rispetto a quelle che ormai erano divenute le vaghe promesse di un complotto che per giunta era stato sventato.22 gnomen la cui motivazione o il cui significato recondito può innescare ora una laudatio ora una laesio nei confronti di una persona terza. Di tale figura retorica peraltro si avvale Cicerone in Verr. 2, 4, 57, dove il cognomen di Verre viene usato paretimologicamente per caratterizzare l’avversario come Homo venerius, in contrapposizione a Pisone Frugi, “uomo onesto”. In questo senso cfr. anche, ad es., Phil. 3, 16; 6, 11 o anche S. Rosc. 103; Quint. 5, 10, 30 s. Sui giochi di parole che Cicerone fa sui cognomina cfr. poi Matthews 1973, 20 ss. 22. Cfr. Carcopino 1951, 126 ss., il quale ipotizza che nello scambio anche Cicerone avesse giocato un ruolo poco limpido e che probabilmente la fama diffusa

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Bisogna poi ricordare che di Antonio si diceva che fosse uno sfrenato libertino dedito ad una vita di eccessi.23 Memorabile, in tal senso, la descrizione che ne fa Celio nel discorso di accusa per le malversazioni in Macedonia; discorso che ci viene riportato da Quintiliano: Namque ipsum offendunt temulento sopore profligatum, totis praecordiis stertentem ructuosos spiritus geminare, praeclarasque contubernales ab omnibus spondis transuersas incubare et reliquas circum iacere passim. [124] Quae tamen exanimatae terrore, hostium aduentu perceptu, excitare Antonium conabantur nomen inclamabant, frustra a ceruicibus tollebant, blandius alia ad aurem inuocabat, uehementius etiam nonnulla feriebat; quarum cum omnium uocem tactumque noscitaret, proximae cuiusque collum amplexu petebat; neque dormire excitatus neque uigilare ebrius poterat, sed semisomno sopore inter manus centurionum concubinarumque iactabatur. (Quint. 4, 2, 123-4 = Orat. Rom. Frag. 17, p. 483 Malcovati)

«Sorprendono infatti lui abbattuto nello stordimento del vino, che, mentre russa a pieni polmoni, rutta a raffica, e le sue illustri compagne dormire di traverso da tutte le parti sui letti, le altre giacere qua e là, intorno. [124] Esse tuttavia, percepito l’arrivo dei nemici, pur se senza respiro per il terrore, cercavano di svegliare Antonio, ne invocavano il nome, invano lo alzavano per la nuca, una lo chiamava con dolcezza parlandogli nell’orecchio, qualche altra lo colpiva anche con una certa forza; poiché di tutte loro egli riconosceva voce e tocco, tentava di abbracciare il collo delle più vicine; e in quanto svegliato, non riusciva a dormire, in quanto ubriaco, non riusciva a star sveglio, ma nell’intontimento del dormiveglia veniva girato fra le mani di centurioni e concubine».24

L’ubriachezza, la ghiottoneria e l’intemperanza sessuale potevano essere lette, nel mondo antico, come marche “maialesche”. Gli uomini la cui fisionomia può essere ricondotta al maiale, peraltro, nella tradizione della fisiognomica, oltre ad essere connotati come immundi, insatiabiles, voraces e inclini al delitto, sono indicati come stulti e dotati di scarse capacità percettive.25

dal collega che un liberto dell’Arpinate fosse mandato in Macedonia a riscuotere una percentuale del bottino (cfr. ad es. Plu. Cic. 12, 4; Cic. Att. 12, 1, 2) fosse vera. 23. A tale proposito cfr. Carcopino 1951, 137, che ricorda come la ghiottoneria e l’intemperanza sessuale fossero considerate dai Romani tipiche dei maiali. Un ritratto affine di Gaio Antonio a quello di Sestio riportato da Quintiliano è comunque già in Q. Cic. 8-9 (che sottolinea anche la pavidità del personaggio). 24. Tr. it. Corsi 1997. 25. Sulla proverbiale stupidità del maiale cfr. ad es. Cic. nat. deor. 2, 160; Clem. Al. Strom. 7, 34 (Cleante); Varro rust. 2, 4, 10; Plin. nat. 8, 207. Per il re-

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È indubbio che tutti questi tratti possono essere individuati nel Gaio Antonio che ci viene dipinto da Celio. Il console romano, infatti, proprio nel momento in cui dovrebbe stare all’erta, ci viene descritto come colto in balia dei suoi bassi istinti, che gli impediscono di percepire cosa sta avvenendo attorno a lui. Ci sono dunque alcuni elementi che potrebbero spiegarci il motivo per cui Antonio è diventato un hybrida: l’ambiguità del suo comportamento, la sua intemperanza “suinesca” e, soprattutto, la sua animalità “selvatica” che però, diversamente da quanto accade per Catilina, è addomesticabile e non presenta mai tratti di grandiosità. Se infatti Catilina è sempre caratterizzato da tratti di sublime ferocia, Antonio, per certi versi potrebbe rientrare nella categoria di quelli che la fisiognomica chiamava mwroblßptai, termine, questo, il cui significato ci viene spiegato dall’anonimo autore latino del De physiognomonia: Sunt quidam homines cum stultitia nocentes, qui graece dicuntur. Hi signorum non una ratione noscuntur. Nam interdum animalia signa gerunt, quae explorata atque perspecta dabunt etiam in uno homine utriusque rei intellectum. In quibusdam autem hominibus signa quidem sunt stultitiae, uerum eadem exasperata atque efferata. Quo igitur magis hoc clarum atque certum sit, respiciamus ad ea animalia quorum unum quidem genus est atque unum nomen, animus autem et corporis qualitas diuersa atque discreta. Nam quemadmodum ouis mansueta est, ita et alia animalia, ut asinus et capra et equus et sus et multa alia. Sed quae mansueta magis sunt, et molliora sunt ac leuiora et tranquilliora, quae vero ferociora, sicciora sunt et asperiora et uehementiora. Ita in hominibus ergo interdum stultitia ipsa ferocior, asperior, horridior est, interdum facilior ac lenior. Nec solam stultitiam putemus uel stultitiae signa hanc habere discretionem: sunt et alia uitia, quae in animi motibus denotantur; interdum nocentiora, sunt et sto, per le altre marche (tutte di natura negativa) che la tradizione fisiognomica attribuiva a questa bestia, cfr. Arist. Phgn. 808 b 36 (propensione all’eccitamento sessuale); 811 a 30 (scarse capacità percettive); 811 b 29 (ignoranza); 812 b 27 s. (stupidità); Physiogn. 14 (violenza); 17 (grettezza, sporcizia, voracità); 18 (il maiale qualificato come immundum, stultum, insatiabilem); 48 (il maiale qualificato come immundum, voracem, stultum); 53 (il maiale come propenso a commettere scelera). Di tutt’altro segno sono invece i tratti che la cultura greca (ma anche quella latina) attribuiscono al cinghiale, il quale è insieme modello epico dell’aristeuon e, assieme al leone, paradigma del maschile per eccellenza (cfr. a tale proposito Camerotto 2005, 117 ss. e Franco 2006, 12 ss.). Bisogna tuttavia notare che tali tratti non sembrano mai affiorare nell’hybrida (né negli umani cui viene assegnato il cognomen di hybrida). Che l’hybrida potesse essere pensato come un animale dotato anch’egli di scarsa capacità di comprendere i contesti (dunque come uno “stupido” o un “tonto”) lo si desume anche da un passo di Marziale (8, 22, 1-2) citato al par. 3.5 di questo cap.

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signorum duritia uel mollitia atque uel inaffectata simplicitate discernuntur atque noscuntur. Nam et hominibus duobus iniustis propositis alter mollius et affabilius, alter atrocius ac uiolentius iniustus existit. Et intemperantia est quaedam mollior, est et uehementior. Et qui molles sunt, pars mansueti, pars bruti atque effrenati sunt. (Physiogn. 104)

«Vi sono alcuni individui che sono malfattori e stupidi al contempo e in greco sono detti moroblaptai. Questi però non sono riconoscibili grazie a un unico tipo di segni. In effetti talvolta gli animali presentano dei segni il cui attento esame consentirà di comprendere la coesistenza di entrambi i difetti in un’unica persona. D’altra parte in alcuni uomini vi sono sì i segni della stoltezza, ma esasperati ed esacerbati. Perciò per maggior chiarezza e certezza, consideriamo quegli animali che appartengono a un’unica specie (quorum unum quidem genus est) e hanno un unico nome ma sono diversissimi per carattere e qualità fisiche. Infatti, come la pecora è un animale addomesticabile, così lo sono anche altri animali, quali l’asino, la capra, il cavallo, il maiale e molti altri. Ma i più addomesticabili sono anche più docili, più quieti e tranquilli, mentre i più indomiti sono più rudi, riottosi e veementi. Così tra gli uomini persino la stoltezza certe volte si manifesta in modo violento, aspro, rude, certe volte invece più mite e più lieve. Ma non crediamo che presentino questa polarità solamente la stoltezza o i segni della stoltezza: vi sono anche altri difetti che si riconoscono chiaramente nei sentimenti dell’animo; talvolta sono più cattivi, talvolta più moderati e si distinguono e si riconoscono per la forza o la debolezza dei segni o per la loro semplicità, sia essa naturale o ricercata e affettata. In effetti si prenda il caso di due uomini ingiusti: uno si può rivelare ingiusto, però con più mitezza e affabilità. Anche l’intemperanza può essere ora più mite ora più violenta. E anche gli effeminati sono alcuni tranquilli, altri insensati e sfrenati».26

Antonio, come Catilina, è un malfattore ed è ovviamente capace di nuocere, ma, diversamente da lui, è stupido e, come tutti i moroblaptai, ambiguo. La sua pericolosa ambiguità, tuttavia, come avviene nel caso degli asini, dei cavalli, della capra, ma anche, soprattutto, del maiale, è addomesticabile. Per questo dunque Antonio potrebbe essere un hybrida: ha tutti i tratti del suino, ma questi tratti oscillano fra la sfera della selvatichezza (che è, appunto, dei cinghiali) e quella della addomesticabilità. Antonio, in altri termini, è sì un iniustus, ma rispetto a Catilina, che è atrocior e violentior, è mollior e affabilior: può essere, insomma, manovrato e addomesticato, laddove invece il terribile capo dei congiurati deve necessariamente essere abbattuto. 26. Tr. it. Raina 19942.

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3.3 Un cognomen motivato Quelle che sono state presentate nel paragrafo precedente – è il caso di ripeterlo – sono soltanto ipotesi. In assenza di testimonianze esplicite in tal senso, ho cercato semplicemente di mostrare alcuni percorsi che la cultura latina avrebbe potuto attivare per motivare il soprannome di Gaio Antonio. Quanto ai motivi per cui Antonio sia stato soprannominato Hybrida, dobbiamo rassegnarci a poterli soltanto immaginare. Più fortunati siamo invece, in questo senso, con Quinto Vario Ibrida di cui sappiamo, grazie a Valerio Massimo, che venne chiamato così propter obscurum ius civitatis (8, 6, 4: «per avere acquisito in modo non chiaro il diritto di cittadinanza»).27 Della giovinezza di Quinto Vario non si sa molto se non che è legata alla sua permanenza in Spagna, sua provincia natale.28 Tutte le notizie che abbiamo su di lui, per il resto, sono legate alla lex Varia de maiestate che, promulgata nel periodo in cui era tribuno, venne usata – secondo una tradizione ostile al personaggio – come uno strumento di lotta politica per perseguitare Livio Druso o comunque i suoi seguaci.29 Cicerone, in particolare, tutte le volte che si riferisce a questi fatti rivela tutto il suo astio nei confronti di Vario, del quale si riconoscono le doti straordinarie di oratore, ma al quale non si perdona una condotta che viene indicata come foeda (de orat. 1, 117) e importunissima (nat. deor. 3, 81) e che peraltro, come l’Arpinate stesso avrà modo di ricordare, ha finito alla lunga per ritorcersi contro di lui. Sappiamo infatti che, per una tragica ironia della sorte, Vario venne accusato de maiestate e che fu condannato a morte proprio sulla base di quella legge che lui stesso aveva fatto varare.30 Anche nel caso di Vario, comunque, come probabilmente accadde per Antonio, l’uso del soprannome Hybrida dovette scattare assai tardi, se non addirittura post mortem, dal momento che lo troviamo menzionato soltanto da un autore lontano dagli eventi come Valerio Massimo. 27. Su Quinto Vario Ibrida cfr. Gundel 1955, 387 ss. 28. Come rileva Beltrami 1998, 50, chi è Varius nel nome potrebbe anche esserlo nel modo in cui è stato generato. Sappiamo, solo per fare un esempio, che l’imperatore Eliogabalo veniva soprannominato Varius proprio perché, a causa dei vari adulteri commessi dalla madre, era considerato come il frutto illecito di un “seme variegato”. 29. Sulla lex Varia, oltre che Gundel 1955, 387 ss., cfr. Gruen 1965, 59 ss. (che smorza le interpretazioni degli antichi, che vedevano nella legge un mero atto di vendetta politica). A favore dell’interpretazione tradizionale comunque cfr. Seager 1967, 37 ss. 30. Cic. nat. deor. 3, 81.

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È comunque interessante rilevare che, mentre nel caso di Gaio Antonio era soltanto ipotizzabile che l’assegnazione del soprannome fosse avvenuta sulla base di un accostamento fra la sua psicologia e i suoi mores da un lato e l’etologia comunemente attribuita ai suini (selvatici e domestici) dall’altro, nel caso di Quinto Vario si capisce con certezza che dietro il cognomen ci sono motivazioni che hanno a che fare con un vero e proprio meccanismo di pseudospeciazione. Vario è un “ibrido” perché l’inizio della sua “romanità” è oscuro e perché evidentemente le sue origini sono aggrovigliate e complesse, così come possono esserle quelle di molti ibridi, la cui generazione, come si è visto nel capitolo 3, può richiedere percorsi complessi e difficili.31 Vario, in altri termini, è uno straniero e, in quanto straniero, viene pensato come membro di una specie umana diversa da quella “romana”, una specie che si innesta proditoriamente nel ceppo indigeno. Tale innesto, peraltro, come rileva Valerio Massimo (che evidentemente si rifà alla tradizione iniziata da Cicerone) avrà delle conseguenze nefaste. Non è un caso, forse, in questo senso, che lo storico, nel parlare del tribuno, lo connoti come pestiferus, ovvero apportatore di pestilenza: Q. autem Varius propter obscurum ius ciuitatis Hybrida cognominatus tribunus pl. legem aduersus intercessionem collegarum perrogauit, quae iubebat quaeri quorum dolo malo socii ad arma ire coacti essent, magna cum clade rei publicae: sociale enim prius, deinde ciuile bellum excitauit. sed dum ante pestiferum tribunum pl. quam certum ciuem agit, sua lex eum domesticis laqueis constrictum absumpsit. (Val. Max. 8, 6, 4)

«Quinto Vario, che fu chiamato Ibrida per via delle origini oscure della sua cittadinanza, fece passare durante il periodo in cui era tribuno della plebe, malgrado l’opposizione dei suoi colleghi, una legge che prescriveva – con grande danno per la repubblica – di perseguire quelli che, per mezzo di intrighi malvagi, avevano costretto gli alleati a prendere le armi contro Roma. Questo fu l’inizio prima della guerra sociale e poi di quella civile. Ma la sua stessa legge, mentre lo rendeva un tribuno pestifero prima ancora che un cittadino certo, lo distrusse mentre si trovava avvinto come in lacci dagli intrighi intestini».

Nella legge de maiestate Valerio Massimo individua addirittura le cause della guerra civile. 31. La difficoltà nella riproduzione forzosa degli ibridi è visibile ad es. nei diversi accorgimenti che si devono osservare se si vuole ottenere un mulo (cfr. ad es. Varro rust. 2, 8, 2 ss. e Plin. nat. 8, 171 ss., oltre che, ad es., Chiron. 8, 744 ss.).

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Come tutti i monstra generati dai parti prodigiosi, il tribuno della plebe, dunque, in quanto “ibrido” non può che essere – in piena conformità con le credenze legate alle teodicee antiche – apportatore di morte, distruzione e, appunto, di pestis. Vario è dunque un germoglio malato che contagia il ceppo nel quale si innesta e che è causa della propria stessa distruzione.32 3.4 Le strategie retoriche di un “ibrido” Si è visto, dunque, come il termine hybrida, che indica propriamente il meticcio di cinghiale e maiale, possa venire utilizzato anche in riferimento a uomini la cui origine è ritenuta oscura (come nel caso di Quinto Vario) o anche – se solo si potessero provare le ipotesi avanzate nel caso di Gaio Antonio – i cui comportamenti sono ambigui e difficili da decifrare. Abbiamo tuttavia anche alcune attestazioni che ci fanno capire chiaramente che hybrida poteva venire usato per indicare genericamente, ed evidentemente con valore spregiativo, uomini la cui origine era mista. Nel Bellum Africum (19, 3), ad esempio, si dice che Labieno, capo dell’esercito nemico, aveva arruolato nelle sue fila, oltre a liberti, schiavi, Galli e Germani, anche degli hybridae. Allo stesso modo, nel passare in rassegna le numerose congiure che erano state ordite ai danni di Augusto, Svetonio (Aug. 19,1) ci parla, ad un certo punto, di un tale Asinio Epicadio, che viene indicato – in una variante grafica in cui scompare l’aspirazione e la y si trasforma in i – come un ibrida ex gente Parthina, vale a dire come un “ibrido” nato da un matrimonio misto tra un membro di una famiglia romana e un membro di una famiglia parta. Il caso di hybrida più interessante, fra quelli che possono essere individuati in quest’ultima categoria, è comunque forse quello di Persio, protagonista, assieme a Rupilio Re, della Satira 1, 7 di Orazio. Ebbene, lo Pseudo Airone, commentatore di Orazio (in Hor. sat. 1, 7, 1), ci riferisce che Persio era probabilmente un hybrida perché patre Asiatico e matre romana (anche se, come fa notare Paolo Fedeli, il nome “Persio” sembrerebbe piuttosto rimandare ad un padre romano).33

32. Sull’essere mostruoso e dall’aspetto ibrido come “prodigio” che segnala una deviazione dal corso della morale (che devia il corso della natura), cfr. ad es., per l’ambito greco, Campese 1997, 102 ss. (ma anche Delcourt 1938, 46 ss.). Il quadro della cultura latina si presenta però per molti tratti analogo, cfr. ad es. Obseq. 14, in cui si segnala la nascita, a Cere, di un porcus humanis manibus et pedibus natus. Alla nascita portentosa, come segnala Giulio Ossequente, seguì una lustratio. Per le nascite mostruose nella cultura latina cfr. comunque Delcourt 1938, 59 ss. 33. Cit. Fedeli 1994, 465.

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Sempre a proposito di questa satira, il commentatore Porfirione spiega che il termine hybrida è utilizzato per indicare i cani qui ex imparibus parentibus nati sunt, hoc est venatico et gregario («che nascono da genitori di rango dissimile, ovvero da un cane da caccia e da un cane da gregge»). Mentre in Schol. Hor. sat. 1, 7, 1 si aggiunge che il termine può essere esteso genericamente anche ad uomini generati imparibus parentibus. Se dunque nella sua accezione primaria il termine viene usato in senso proprio come relativo ad un singolo speciema generico meticcio (che non è più suino, e che nel frattempo è diventato canino), nella sua estensione metaforica diventa una sorta di classema antonomastico per mezzo del quale è possibile indicare ogni sorta di incrocio fra umani che non sono pares e per ceppo etnico e, evidentemente, per rango. Quello che accade, in altri termini, è che un termine che marca chiaramente il frutto ibrido di un incrocio fortemente intraspecifico come il meticcio, diventa buono per pensare gli incroci umani in termini di polarità domestico/selvatico (e quindi interno/esterno, buono/cattivo e superiore/inferiore). Ma torniamo a Persio Ibrida. La Satira 1, 7 di Orazio ci racconta la lite che questi ebbe con Rupilio in un tribunale dell’Asia, governata in quel tempo dal cesaricida Bruto, che fece, in quell’occasione, da giudice. Persio viene caratterizzato da Orazio così: Persius hic permagna negotia dives habebat Clazomenis et iam litis cum Rege molestas, durus homo atque odio qui posset vincere Regem, confidens, tumidus, adeo sermonis amari, Sisennas, Barros ut equis praecurreret albis. (Hor. sat. 1, 7, 4-8)

«Persio, ricco, con traffici importanti a Clazòmene, aveva già da tempo delle liti con Re: caparbio e odiato più di Re, presuntuoso, vanitoso, lingua perfida tanto da trionfare agevolmente sui Sisenna e i Barri».34

Rupilio, tuttavia, non è da meno e la contesa fra i due è così accesa da potere essere pensata come la parodia di un agone epico:35 ad Regem redeo. postquam nihil inter utrumque convenit – hoc etenim sunt omnes iure molesti, 34. Tr it. di C. Carena in Fedeli 1994. 35. Cfr. spec. Hor. sat. 1, 7, 12. A tale proposito cfr. Bernardi Perini 1975, 1 ss. e Schlegel 1999, 337 ss.

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quo fortes, quibus adversum bellum incidit: inter Hectora Priamiden, animosum atque inter Achillem ira fuit capitalis, ut ultima divideret mors, non aliam ob causam, nisi quod virtus in utroque summa fuit […]. (Hor. sat. 1, 7, 9-15)

«Ma torno al Re. Fra i due non fu raggiunto nessun accordo. Infatti i litigiosi Son tutti come eroi opposti in guerra: fra Ettore Priamide e l’ardito Achille arse un odio totale, finché morte non li divise, per l’unica causa del gran valore che c’era in entrambi».

Il conflitto fra i due sembra dunque un conflitto fra pari. Ognuno è presentato infatti, per certi versi, come il doppio dell’altro. Di bassa estrazione sociale, ricchi, vanitosi, presuntuosi, Rupilio e Persio adottano anche le medesime strategie di lotta, che consistono principalmente nell’uso dell’invettiva. Persius exponit causam; ridetur ab omni conventu; laudat Brutum laudatque cohortem, solem Asiae Brutum appellat stellasque salubris appellat comites excepto Rege; Canem illum, invisum agricolis sidus, venisse: ruebat flumen ut hibernum, fertur quo rara securis. tum Praenestinus salso multoque fluenti expressa arbusto regerit convicia, durus vindemiator et invictus, cui saepe viator cessisset magna conpellans voce cuculum. (Hor. sat. 1, 7, 22-31)

«[…] Persio presenta l’accusa fra le risa di tutti; elogia Bruto e la sua corte, chiama Bruto “sole dell’Asia” e i suoi compagni “astri benefici, escluso il Re”, che invece è un Cane, l’astro odioso ai contadini: si avventava come un fiume in inverno su foreste ove di rado si abbatte la scure. Rimbecca il Predestino alla marea di sale inviando ingiurie dalla pianta come indomito e forte vignaiolo a cui il viandante fa “cucù”, poi cede».

Dietro l’uso dell’invettiva da parte dei due personaggi è stato visto un dialogo metaletterario di Orazio con il modello luciliano. Bernardi Perini, in particolare, ha letto nel personaggio di Rupilio l’alle180

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goria della poesia italica acida e frusta e in Persio quella della poesia di Lucilio “lutulenta” e priva di freni.36 Più recentemente, poi, Catherine Schlegel ha individuato nella scelta di mettere in scena “invettive in terza persona” una polemica che Orazio condurrebbe contro il modello luciliano e, più in genere, contro l’uso della stessa invettiva, che, proprio perché finalizzata non al “riconoscimento”, bensì alla “distruzione” dell’altro, sarebbe un mezzo inutile nella risoluzione dei conflitti. La Schlegel, a questo proposito, ha sottolineato il fatto che la battuta di Persio con cui Orazio chiude la satira, di fatto non porrebbe termine al conflitto (così come l’uccisione del tiranno Cesare da parte di Bruto non avrebbe posto fine alla tirannide): at Graecus, postquam est Italo perfusus aceto, Persius exclamat: ‘per magnos, Brute, deos te oro, qui reges consueris tollere, cur non hunc Regem iugulas? operum hoc, mihi crede, tuorum est’. (Hor. sat. 1, 7, 32-35)

«Ma il Greco, Persio, poi che fu inzuppato d’italo aceto, esclama: “Per i sommi numi t’imploro, Bruto, tu che sai toglier di mezzo i re: impicca questo! È un lavoretto, credimi, per te”».

Bruto viene quindi invitato a fare quello che tutti i Bruti hanno sempre fatto: eliminare i Reges. Questo gioco di parole di cui si avvale Persio, viene letto dalla Schlegel come un “communication stopper”: «The conflict ends with the loss of meaning in speech and the defeat of reason. The absence of reason in the pun, its smashing of signifiers, takes the logic out of speech, and, as Horace has arranged it for us here, summarizes the absence of reason in conflict».37

Vorrei comunque fare notare che, lungi dal presentarsi come una perdita di senso, la battuta di Persio – come in genere avviene ogni volta che ci si trova davanti ad un gioco di parole – si presenta semmai, al contrario, come una moltiplicazione e insieme una stratificazione di significati. Se poi la Schegel vede nel doppio senso una maniera di sottolineare il fatto che il conflitto annulla la ragione, per quanto mi riguarda io ritengo che sia, molto più banalmente, da leggere come un mezzo che l’autore sceglie di usare al fine di fare sorridere il lettore.

36. Cfr. Bernardi Perini 1975, 1 ss. 37. Cfr. Schlegel 1999, 350.

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Se infatti Rupilio e Persio sembrano indistinti l’uno rispetto all’altro quanto a mores, bisogna pur dire che a parlare in prima persona è sempre il secondo. Se quindi le parole di Rupilio non emergono mai al livello del detto nel corso del componimento, le battute di Persio finiscono per connotarlo come un eroe, seppur degradato, della parola e della ragione. Nella sua bassa eroicità, peraltro, Persio agisce da “ibrido”: da un lato sa usare le armi dell’invettiva “lutulenta”, dall’altro riesce ad interrompere il fluire indistinto del “fiume invernale in piena” per sperimentare – evidentemente con successo – le armi della salacia. A fronte della rude selvatichezza che lo rende simile a Rupilio, Persio in altri termini sembra avere in più anche il tratto della urbanitas, che consiste nella capacità di addomesticare e manipolare le parole. Si tratta però pur sempre di una urbanitas degradata, che non solo affonda le sue radici in una sorta di ferocia villana, ma per di più – dal punto di vista dei contenuti del gioco di parole – si connota come umore nero e gaglioffesco. Doppio e difficile da classificare, Persio, in definitiva, sconfigge Rupilio Re proprio in virtù della sua natura e della sua retorica ambivalente che lo porta a lavorare su più registri, che sono sia quello “domestico” e superiore della salacia che quello “selvatico” e inferiore dell’invettiva. In questo senso, il personaggio oraziano finisce per essere un hybrida di nome e di fatto. 3.5 Un invito a cena A partire dalle vite e dai profili che ho passato fin qui in rassegna mi pare che sia possibile individuare alcune caratteristiche in comune che si addensano sull’uso metaforico del termine. Sia che si tratti di uomini la cui origine è oscura o “mista”, sia che si tratti di figure ambigue e difficili da decifrare, gli hybridae umani sono sempre dei personaggi negativi e degradati, anche quando, come Persio, riescono a diventare eroi della parola. Il soprannome hybrida dunque è usato evidentemente con il fine di laedere piuttosto che di laudare. Particolarmente interessante, in questo senso, è la testimonianza del seguente epigramma di Marziale: Invitas ad aprum, ponis mihi, Gallice, porcum. Hybrida sum, si das, Gallice, verba mihi. (Mart. 8, 22, 1-2)

Mi inviti a mangiare cinghiale e mi presenti, Gallico, un porco: sono un hybrida, Gallico, se riesci a prendermi in giro.

La situazione è questa: lo scambio di una portata con un’altra non è passato inosservato e l’amico Gallico, evidentemente, ha fatto male i suoi conti se pensava che Marziale non se ne accorgesse. 182

Generare in comune

Ad innescare la battuta del verso finale è evidentemente l’accostamento del termine aper con il termine porcus. L’associazione di idee fa pensare al poeta all’incrocio fra le due specie di suini che genera, come si è visto, l’hybrida. La menzione di quest’ultimo termine, peraltro, sembra attivare la affordance delle scarse capacità percettive che erano in genere attribuite ai suini e che – come è desumibile dalla lettura del passo – dovevano essere estese anche ai meticci di maiale e cinghiale. Se dunque nei casi precedenti abbiamo visto che il termine hybrida poteva essere indicato per stigmatizzare una origine confusa o comunque incrociata (che veniva pensata come l’innesto di un elemento selvatico e “altro” nella sfera del domestico e del “noi”), l’esempio di Marziale ci mostra che è possibile pensare ad una accezione del tutto nuova: l’hybrida in questo caso non è più un essere dall’identità oscura, ma un “tonto”, o uno “stupido”. Alla base di questa accezione c’è comunque ancora una volta la polarità selvatico/domestico i cui valori però, nella prospettiva della gastronomia, vengono stravolti rispetto ai contesti comuni della turbatio del sangue e dell’identità. Se infatti in quest’ultimo contesto il selvatico si colloca nella sfera del negativo, nel campo dell’arte culinaria evidentemente è proprio il cinghiale ad essere inteso come la portata di maggiore pregio, e non il maiale. E Marziale – che non era un hybrida – lo sapeva benissimo, e lo ricordava sfacciatamente all’amico che aveva tentato di fare il furbo e di dargli in pasto una “parola” che non corrispondeva alla cosa.

4.

Una romanità da non inquinare

4.1. Il fiume carsico dell’identità esclusiva Cerco di riassumere i percorsi che si attivano ogni volta che viene usato il termine hybrida nell’antichità. Esso indica con certezza il frutto della riproduzione incrociata di due diverse etnospecie (originariamente soltanto il maiale selvatico e il maiale domestico, ma poi anche il cane da caccia e il cane da gregge) di quello che viene visto come il medesimo speciema generico (maiale, cane) ed è marcatamente usato, metaforicamente, ora per indicare il frutto di incroci intraspecifici all’interno della sfera umana (come gli uomini generati da matrimoni interetnici), ora per suggerire origini straniere o comunque oscure. A partire dai passi che riguardano Antonio, però, è verosimile (anche se non dimostrabile con certezza) che il termine poteva essere usato per indicare – nei casi in cui il suo significato originario non si è ancora perduto (come verosimilmente accade in Cicerone per Capitolo 5. Ibridi animali, ibridi umani

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Gaio Antonio) – analogie con il mondo suinesco dal sapore vagamente fisiognomico, ma forse anche tratti ambigui e difficilmente decifrabili del carattere. Infine, come è possibile desumere dal passo di Marziale, hybrida poteva anche essere usato per indicare stupidità o ingenuità (tratti, questi, che la tradizione fisiognomica attribuiva generalmente ai maiali).38 Tutte queste affordances del termine, come appare evidente, vengono generate a partire da una opposizione ampiamente diffusa ed utilizzata nel sapere zoologico antico che è quella che distingue, appunto, il selvatico dal domestico. Si tratta, come ha mostrato Arnaud Zucker, di una categoria popolare sulla base della quale vengono naturalizzate concezioni culturali e che, molto più che agire come operatore descrittivo dei costumi biotopici e degli habitat di riferimento, attiva distinzioni assiologiche che nascondono sempre giudizi valutativi sull’animale.39 Gli animali ovviamente sono “selvatici” fino al momento in cui non vengono addomesticati, e tuttavia, l’attivazione della distinzione separa culturalmente il selvatico dal domestico e lo carica di significati simbolici che – a seconda del contesto – possono essere ora positivi ora negativi. È chiaro, ad esempio, che la selvatichezza assoluta del cinghiale (così come quella del leone) può essere usata come metafora dell’aristeuon, vale a dire come immagine epica e paradigmatica del guerriero perfetto,40 così come nell’arte culinaria il selvatico diventa sinonimo di rarità e prelibatezza. Lo status pasticciato e confuso dell’hybrida realizza tuttavia una condizione in cui il selvatico e il domestico non sono chiaramente individuabili e risultano entrambi degradati e opachi. In particolare, una volta che l’immagine del meticciamento intraspecifico è stata proiettata sul mondo dell’umano, il soprannome di hybrida può diventare uno strumento di marginalizzazione e di animalizzazione e, in altri termini, di stigmatizzazione di classi di uomini la cui origine è legata ad un altrove, o – come accade nel caso di Quinto Vario Ibrida – è oscura. Si è spesso insistito sull’idea giuridica ed inclusiva di cittadinanza in Roma antica, e sul differente concetto di identità che muove i miti di fondazione dell’Urbe specialmente rispetto a quelli Greci. Laddove infatti, ad esempio, gli Ateniesi si rappresentano come au38. Sarebbe interessante capire se il tratto della stupidità fosse comunemente attribuito, nel mondo antico, ai figli che erano frutto di matrimoni inter-razziali. Una ricerca, questa, che al momento non mi è stato possibile effettuare. 39. Cfr. Zucker 2005, 341 ss. 40. Cfr. n. 25 di questo cap.

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toctoni, i Romani non solo accettano (o addirittura coniano) apertamente autodefinizioni che nell’Ellade sarebbero intese come degradanti (si pensi ad esempio a Livio che parla della nascita di Roma come di una accozzaglia di stranieri) ma addirittura le rendono idealmente il motore del loro espansionismo imperialista.41 Nonostante questa apertura – che Claudia Moatti ha interpretato come un mezzo simbolico per occultare la conquista42 – riaffiorano ripetutamente nel corso della storia di Roma, come un fiume carsico, tentativi (spesso, a dire il vero, non riusciti) di chiusura totale verso un’alterità che viene pensata come selvatica (nella sua accezione più negativa) e con la quale non ci si vuole mischiare. È il caso dell’ammissione nel Senato dei notabili della Gallia sotto Claudio,43 o ancora prima, delle polemiche suscitate dalla rogatio Canuleia, che avrebbe introdotto il diritto di conubium fra patrizi e plebe.44 In quell’occasione il fantasma che aveva agitato la classe gentilizia, che si era opposta al provvedimento, era stato proprio quello dell’ibridazione e, per mezzo di questa, il timore che una volta approvata la legge, gli uomini avrebbero cominciato ad accoppiarsi ferarum ritu, degenerando così dallo stato di cultura allo stato di natura e interrompendo le leggi dell’endogamia “vera” che distinguono chi è veramente umano dal resto degli animalia.45 4.2 Plinio e le razze degli uomini Il termine hybrida usato, per marcare in prima istanza l’incrocio intraspecifico e, in seconda istanza, come cognomen di offesa (che non a caso non si trasmette mai come patrimonio simbolico da padre in figlio, come avviene, ad esempio, con il soprannome Cicero),46 rien-

41. Sul mito dell’autoctonia ateniese cfr. Loraux 1998, 41 ss. Per l’autorappresentazione dei Romani come “stranieri” cfr. ad es. Liv. 1, 8, 5-7. Sui miti di fondazione di Roma, più in generale, cfr. Moatti 1997, 257 ss. 42. Cfr. Moatti 1997, 273 ss. 43. Cfr. ad es. Tac. ann. 11, 23-25, passo sul quale gli studi esistenti di cui sono a conoscenza (ad es. Schillinger-Haefele 1965, 443 ss.; Flach 1973, 313 ss.; Riess 2003, 211 ss.) si limitano ad un taglio di tipo storiografico, quando sarebbe anche interessante analizzare i motivi antropologici. 44. La Lex Canuleia de Conubio Patrum et Plebis è una legge proposta dal tribuno Gaio Canuleio nel 445 a. C. Per mezzo di questa legge venne abolito il divieto di nozze tra patrizi e plebei sancito dalle Leggi delle XII Tavole. Il termine rogatio indica, nella prassi legislativa romana, una interrogazione rivolta dal magistrato al popolo riunito nei comizi centuriati o tributi (e nei concili della plebe) per conoscere se la proposta di legge era approvata o respinta. 45. Cfr. Liv. 4, 1, 1 ss. (su questo passo cfr. il commento di Guastella 1985, 51 ss.). 46. Cfr. a tale proposito Douglas 1958, 63 e Adams 1978, 149.

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tra perfettamente all’interno di questi meccanismi e costituisce un rivolo di quel fiume carsico della nozione esclusiva di identità che talora riaffiora nell’alveo della cultura romana. Nelle pagine precedenti, avevo citato il paragrafo 213 dell’VIII libro della Naturalis Historia di Plinio. Da lì, adesso, vorrei ripartire. In questa sezione dell’opera, infatti, subito dopo avere parlato degli hybridae, che possono anche essere detti semiferos, l’enciclopedista romano continua dicendo – come si è già visto – che il termine può essere usato anche come soprannome per gli esseri umani. Quindi prosegue così: non in suibus autem tantum, sed in omnibus quoque animalibus, cuiuscumque generis ullum est placidum, eiusdem invenitur et ferum, utpote cum hominum etiam silvestrium tot genera praedicta sint. (Plin. nat. 8, 213)

«Non soltanto nei maiali, ma anche in tutti gli altri animali, di qualunque specie esista l’esemplare domestico, di questa si trova anche il corrispondente selvaggio, come esistono tante razze di uomini selvaggi di cui abbiamo parlato».

Il fatto che un uomo possa essere chiamato hybrida dunque presuppone che il genus degli uomini possa essere diviso in almeno due razze – o meglio, due etnospecie – distinte: quella degli uomini civilizzati e quella degli uomini selvaggi. Il meccanismo che si attiva è – come si era già accennato sopra – quello della pseudospeciazione, che proietta sugli umani le marche della classificazione animale. Se pertanto le razze umane sono diverse fra loro, allora non tutti gli uomini sono effettivamente uguali ed evidentemente la mescolanza fra le stirpi o le etnie sarà pensabile come una mistione del sangue di due specie non omofile. Ogni volta che un uomo verrà chiamato hybrida, di conseguenza, si sarà attivato un processo simbolico di svalutazione di una delle due stirpi che si sono mescolate per generarlo. Questo, in fondo, è quello che avviene con i Parti, nel caso di Asinio Epicadio, o anche con gli Africani, che evidentemente si sono incrociati ai Romani per creare quegli hybridae assoldati da Labieno nella sua campagna contro Cesare. Ne consegue che se dal punto di vista della storia naturale e della biologia dell’antichità non è possibile pensare esplicitamente a “razze” umane,47 dal punto di vista del trattamento simbolico, è possibile attivare, in seno alla cultura romana, processi di ipervalutazione del “noi” che portano a pensare agli altri come ad esseri – o etnospecie – di rango inferiore. 47. Cfr. a tale proposito Sassi 2000, 137 ss.; Oniga 1998, 93 ss.

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Nel caso di Plinio, sappiamo bene che l’umanità viene pensata come una condizione universale e condivisa da tutti i popoli della terra (compresi gli Sciapodi e tutti gli altri popoli fantastici dai tratti bestiali e paradossali che si trovano ai margini dell’ecumene). Tuttavia tale condizione di comune umanità, ad uno sguardo più attento si rivela una condizione potenziale, che viene realizzata, di fatto, soltanto quando è avvenuta la conquista di Roma:48 nec ignoro ingrati ac segnis animi existimari posse merito, si obiter atque in transcursu ad hunc modum dicatur terra omnium terrarum alumna eadem et parens, numine deum electa quae caelum ipsum clarius faceret, sparsa congregaret imperia ritusque molliret et tot populorum discordes ferasque linguas sermonis commercio contraheret ad conloquia et humanitatem homini daret breviterque una cunctarum gentium in toto orbe patria fieret. (Plin. nat. 3, 39)

«so bene che a ragione potrei essere tacciato di animo ingrato e pigro se trattassi superficialmente e di passaggio, limitandomi a queste indicazioni, la terra che di tutte le terre è a un tempo alunna e genitrice, scelta dalla potenza degli dei per rendere più splendente il cielo stesso, per unificare imperi dispersi e addolcirne i costumi, per radunare a colloquio, con la diffusione del suo idioma, i linguaggi, barbari e tra loro diversi, di tanti popoli, per dare all’uomo umanità e, insomma, per diventare lei sola padrona di tutte le genti del mondo intero».

Se dunque l’umanità è propria di tutti gli uomini, di fatto è Roma che la garantisce e la realizza per tutti i popoli della terra, facendo così venire alla luce un tratto altrimenti soltanto latente. E se, analogamente a come avviene per tutti gli altri animalia, esiste dell’uomo una varietà selvatica, la missione che gli dei hanno assegnato a Roma, secondo Plinio, consiste appunto nell’addomesticarla. In altri termini, nell’antropologia di Plinio, Roma viene pensata come un equivalente, su larga scala, del principio maschile di Aristotele, che plasma una materia che, senza il suo intervento, rimarrebbe grezza e informe ad uno stadio vagamente generico e – come avviene nel caso delle popolazioni descritte nel VII libro che più sono lontane – mostruoso.49 48. Cfr. ad es. Plin. nat. 7, 22 ss. (per cui cfr. Li Causi 2006, 55 ss.). Sulla nozione di humanitas nell’opera pliniana cfr. comunque Naas 2002, 30 ss. (più in particolare, per l’antropologia del meraviglioso del VII libro della Naturalis Historia, 293 ss.). 49. Un discorso analogo a quello di Plinio è in Strabone (2, 3, 7), il quale in polemica con Posidonio, sostiene che la “cultura” possa affermarsi a qualsiasi latitudine. A tale proposito si veda Borca 2003, 146: «La cultura romana – sembra implicitamente dire Strabone – può estendersi ben al di là dei suoi luoghi di origine, può conquistare spazi lontani e radicarsi in contesti ambientali profondamente diversi: l’impero di Roma ha così trovato la sua legittimazione». Per le popolazioni mostruose in Plinio cfr. n. 48 di questo cap. La tr. it. di nat. 3, 39 è di G. Ranucci in Conte 1982.

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Come testimonia l’uso metaforico del termine hybrida, tuttavia, l’addomesticamento sembra essere un movimento che va dall’interno verso l’esterno e non viceversa. Gli “altri”, a Roma, vengono accettati soltanto nella misura in cui Roma li conquista; diversamente, una volta che si sono “inseriti” a Roma, rischiano di essere visti come degli “innesti” potenzialmente pericolosi e apportatori di pestis, come avviene nel caso di Quinto Vario. Il meccanismo etnocentrico, come si è visto, non scattava nel caso dei racconti di fondazione, in cui si descrive l’origine di Roma come una accozzaglia di popoli stranieri. I Romani, a differenza dei Greci, non sono un popolo di “generati dalla terra”, ma il risultato di un miscuglio di razze e di culture che vengono assimilate dal concetto giuridico della cittadinanza.50 La fusione con l’“altro”, o meglio, la fusione dell’“altro” con Roma, si rivela funzionale all’imperialismo. Mentre infatti la principale preoccupazione di un popolo che rappresenta se stesso come autoctono è quella di mantenere pura (e dunque esente da “contaminazioni”) la propria identità, i Romani, che sono “stranieri in patria” e che riconoscono di essere un “popolo recente”, costruiscono la propria storia nel segno dell’accrescimento e della conquista. Come osserva Claudia Moatti, del resto, ciò che differenzia i miti di fondazione di Roma dai miti di fondazione delle poleis greche sembra essere, più che la ricerca delle radici, la ricerca di spazi.51 In questa ricerca di spazi, tuttavia, l’accoglienza nei confronti dell’advena può essere circoscritta ad un passato lontano ed evidentemente non sempre facilmente ripetibile. L’arrivo dello straniero o la mistione con esso, infatti, possono facilmente venire indicati come un pericolo o, più semplicemente, come un fattore di degrado: lo straniero che viene a contatto con Roma rischia infatti di scalfirne la purezza e di inquinarla generando processi storici pericolosi.52

50. Sulla dimensione giuridica, piuttosto che etnica o politica, della cittadinanza romana cfr. ad es. Nicolet 19922, 25 ss. e Nicolet 1984, 145 ss. (o anche, per un quadro sintetico, Mura 2002, 18 s.). Per i percorsi e le modalità che portavano i peregrini all’integrazione nella civitas romana cfr. poi Pani e Todisco 2005, 56 ss. e 158 ss. 51. A fronte del mito ateniese dell’autoctonia, la nascita di Roma è vista come uno “spostamento” non solo di Enea (dall’Oriente ad Occidente), ma degli stessi Romolo e Remo che lasciano la propria città natale per fondare Roma (cfr. Moatti 1997, 257 ss.). 52. Il contatto con il barbaro è visto come causa di contaminazione o comunque di degrado ad es. in Sall. Iug. 18 (per cui cfr. Oniga 1995, 22 ss.; Li Causi 2006, 48 ss.).

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CAPITOLO 6

Noi, gli antichi. Digressioni conclusive*

«Take a look around the world». Massive Attack, Special Cases «L’uomo che soffre è bestia, la bestia che soffre è uomo». G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione «– […] mi fa pena: è una crudeltà sugli animali – Ma guarda che razza di serva! Una crudeltà sugli animali! Gli stiamo forse facendo del male, Dio ne scampi? Gli stiamo dando da mangiare! E per amore di chi? Per amore di Dio. In onore della santa festa. Voglia l’Altissimo aiutarmi. Non è la prima coppia che ingozzo per Pesakh». S. Aleykhem, La coppia

1.

Pasifae, il toro e Dedalo: sfondi mitici, tecniche e (supposti) antenati «A proposito di Pasifae si racconta che si fosse innamorata di un toro al pascolo e che Dedalo abbia fatto costruire una vacca di legno nella quale l’avrebbe fatta rinchiudere. Il toro, montandovi sopra, si sarebbe poi unito con la donna e questa, rimasta incinta, avrebbe generato un bambino che aveva il corpo di un uomo e la testa di un toro». (Palaeph. 2)

* Di questo capitolo conclusivo considero a tutti gli effetti co-autrice Patrizia Pinotti.

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Nel secondo capitolo del De incredibilibus Palefato riassume un mito che doveva essere ben noto ai suoi lettori. Si tratta della genesi del Minotauro, nato dall’amore abominevole di una donna – la moglie di Minosse – con un toro selvaggio. Sarebbe interessante effettuare un’analisi epidemiologica delle variazioni trasformazionali della storia in altri autori,1 se non altro per vedere quali siano i segmenti narrativi o i temi che di volta in volta vengono occultati o amplificati da ogni singola versione, o anche per capire come e perché avvengano le selezioni o le amplificazioni. In questa sede, tuttavia, mi vorrei limitare soltanto a notare come Palefato, nel raccontare quella che lui ricostruisce come la versione standard del mito tramandata dalla tradizione, non vada certo a riesumare tutti i motivi inerenti o contigui che sarebbe stato possibile menzionare. Solo per fare un esempio, infatti, nel capitolo citato non si fa alcun cenno relativamente alle cause divine dell’amore di Pasifae per il toro. Cause, queste, che vengono invece menzionate in Apollodoro, il quale racconta che Minosse «mentre offriva un sacrificio a Poseidone chiese al dio di far emergere un toro dal mare e promise che glielo avrebbe sacrificato. Poseidone fece apparire per lui un toro bellissimo e Minosse ottenne il regno, ma mandò il toro tra le sue mandrie e a Poseidone ne sacrificò un altro».2 Il mancato sacrificio dell’animale, in questa versione, fa adirare il dio dei mari, il quale decide di punire Minosse proprio per mezzo dell’amore abominevole di Pasifae. Il silenzio dell’autore del De incredibilibus a proposito di questa possibile espansione del plot narrativo è facilmente spiegabile. Innanzitutto Palefato non è Apollodoro, e la sua opera non vuole neanche lontanamente somigliare ad una grande sistemazione enciclopedica del mito. Il De incredibilibus è infatti un trattatello in cui poche storie della tradizione vengono raccolte al fine di essere razionalizzate. È normale, dunque, che, in un’ottica del genere, “emendare” una storia fantastica significhi elencarne unicamente i tratti che vengono individuati come essenziali, al fine di procedere, di conseguenza, alla sostituzione degli elementi sovrannaturali con altri elementi che possono superare l’esame delle regole della verisimiglianza.

1. Sulla base di quanto Sperber 1999, spec. 37 ss. ha scritto, per “analisi epidemiologica” intendo l’analisi dell’insieme di tutte le versioni di una medesima rappresentazione; un’analisi che sia mirata non solo a segnalare le relazioni “trasformazionali” di somiglianza e di differenza fra l’una e l’altra versione, ma anche alla contestualizzazione delle stesse all’interno degli specifici quadri culturali di riferimento. 2. Per questa versione del mito cfr. Apollod. 3, 1, 3-4. La traduzione del passo in questione (3, 1, 3) è quella di M. G. Ciani in Scarpi 1996.

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Sarebbe senz’altro utile sapere se Palefato conoscesse o meno la versione estesa del mito che ritroviamo citata in Apollodoro. La qual cosa ci permetterebbe fra l’altro di capire se quello che avviene nel De incredibilibus (dietro il paravento della razionalizzazione) sia un modo di scaricare una colpa maschile su una donna. Sta di fatto che il racconto di Pasifae, per l’autore del trattatello (ed evidentemente anche per i suoi lettori), non è tanto il mito di una hybris maschile che viene punita dagli dei, quanto la storia di una donna che si avvale delle tecniche di un artefice non-divino, Dedalo, per generare un ibrido mostruoso. Raccontata così, la storia della procreazione del Minotauro potrebbe anche sembrarci molto vicina. Perfino troppo. Sarebbe fin troppo facile (e non solo a partire da prospettive biomoralistiche) pensare a Pasifae e a Dedalo come a degli antenati oscuri. E non è un caso, forse, che la figura di Dedalo, affiancata a quella della regina di Creta, venga addirittura letta come paradigmatica da Roberto Marchesini, che in Post-human parla della storia di questo personaggio mitico come di una storia segnata «da un continuo attraversamento di soglie». Secondo Marchesini, Dedalo e Pasifae si andrebbero ad affiancare, come precursori ante litteram della bionica o della procreatica mostruosa, ad una serie di plot narrativi usati dall’immaginario occidentale per pensare l’intervento artificiale su una natura percepita come sacra: l’homunculus di Paracelso, il Golem della tradizione ebraica e, soprattutto, il Frankenstein di Mary Shelley.3 Il punto è però che a leggere i Greci (o i Romani) come antenati fondanti o come modelli paradigmatici si rischia di incorrere in errori prospettici che se da un lato ci impediscono di leggere correttamente il passato, dall’altro ci possono fare perdere l’orientamento nel nostro presente. Fra il mito di Pasifae e gli scenari della procreatica contemporanea ci sono infatti delle differenze sostanziali che dovrebbero essere messe in rilievo. Tanto per cominciare, infatti, la tecnica di Dedalo non è ancora una bio-tecnica, così come in fondo l’atto di Pasifae (sia esso dovuto o meno ad un intervento divino) non è un adulterio nell’accezione contemporanea del termine, e può essere compreso solo nel quadro di teorie antiche sulla generazione; teorie che hanno una loro specificità culturale e che non sono del tutto commensurabili rispetto alle nostre.4 3. Cfr. Marchesini 2002, 282 s. Su come lo script del romanzo di Mary Shelley abbia influenzato il dibattito contemporaneo sull’ingegneria genetica e sulla clonazione nei nostri giorni cfr. Turney 2000, spec. 157 ss. (per il quale rimando però alle riflessioni critiche e puntuali di Pinotti 2000, 493 ss.). 4. Sulla moicheia come atto prevalentemente maschile in Grecia cfr. cap. 2.

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Come si è visto in particolare nel secondo e nel terzo capitolo di questo volume, del resto, la colpa di Pasifae consiste nel permettere che un animale adulteri il seme umano del marito e che venga di conseguenza generato un essere che mescola la natura del padre (Minosse) e quella dell’amante bestiale (il toro). Per leggere questo mito, dunque, bisogna pensare che esista una teoria folk dell’“agglutinamento del seme”, in base alla quale è possibile, in natura, che il seme di un padre di cui una donna è impregnata si vada ad unire con il seme di un adultero.5 Ora, la biotecnologia contemporanea utilizza un termine specifico per indicare esseri simili o analoghi a quello generato dall’unione di Pasifae con il toro (o meglio, dall’unione del seme di Minosse con quello del toro). Si tratta delle “chimere”, che vengono generate sfruttando la totipotenzialità delle cellule presenti nella fase cosiddetta “pre-embrionale” di un individuo e fondendo porzioni del patrimonio genetico di due (o più) pre-embrioni di due (o più) specie diverse. In casi come questi il nascituro sarà, per l’appunto, il frutto di un vero e proprio mosaico cellulare.6 Ad una analisi più approfondita, tuttavia, le analogie fra il Minotauro e le chimere della procreatica risultano solo superficiali. Ad accostare acriticamente l’antico al moderno, del resto, si rischia di incorrere quanto meno in gravi errori di omografia: un antichista, nel pensare alle chimere, è portato a ricordare infatti, oltre che il morfotipo del mostro, tutti i personaggi mitici che vi ruotano attorno (Amisodaro, Tifone, Echidna), laddove, invece, nel mondo contemporaneo il termine chimera, pur usato antonomasticamente a partire dall’antico, è diventato un termine tecnico per indicare un prodotto specifico (il più temuto e controverso) delle tecnologie della vita. Le chimere degli antichi e le chimere del mondo contemporaneo, in altri termini, non sono più la stessa cosa. In questo senso, per esempio, la differenza più grande fra il mito antico e i mostri interspecifici della biologia contemporanea sta proprio nel fatto che mentre questi ultimi sono sempre il frutto dell’intervento artificiale di una tecnica, nel caso del Minotauro la generazione di un essere dall’identità specifica confusa o “mosaicizzata” sembra essere permessa da una legge di natura. Quella di Dedalo, del resto, non è tanto una biotecnologia, quanto una semplice mechané, uno stratagemma macchinico di cui Pasifae di fatto si avvale per agevolare il corso della natura. Che poi la “naturalità” di un parto mostruoso come quello del Minotauro vada a violare una legge di natura intesa come norma etica e ideale è tutto un altro discorso. 5. Cfr. Bettini 2002, 92 ss. 6. Cfr. Marchesini 1999, 107-111.

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Certo, è pur sempre vero che l’invenzione di Dedalo ha come effetto l’attraversamento di una soglia (quella che divide l’umano dall’animale), ma è pur vero che tale soglia – soprattutto se si trattava di storie mitiche – era probabilmente avvertita dagli antichi in maniera decisamente diversa rispetto a come potremmo avvertirla noi. Si ricordi, peraltro, che il concetto greco di zoion non corrisponde ad alcuno dei concetti moderni (come per esempio il nostro “animale” o il nostro “vivente”) e si estende ad insetti, uccelli, pesci, mammiferi, dei, uomini (ma non alle piante). Ne consegue dunque che nel mondo antico, fino allo stesso Aristotele, non esiste la categoria di “animale” come biologicamente opposto all’uomo, dal momento che fra l’uomo e quello che noi potremmo chiamare “animale” esiste – come si è visto – una vera e propria omogeneità e contiguità ontologica. Una contiguità che spesso viene connotata attraverso marche di genere nella misura in cui è la donna l’anello intermedio, se non addirittura il varco dimensionale, la linea (debole) di confine fra la zoosfera e l’antroposfera.

2.

Il mito della purezza e la paura dell’ibridazione: analogie e differenze fra i patrizi romani e gli scienziati fascisti

Gli scenari della modernità (e della postmodernità) sono dunque interamente cambiati? La risposta è diversa a seconda della prospettiva che si assume. Nel mondo greco e romano, come si è visto, la natura può essere forzata dalle azioni violente dell’uomo, che la stupra tramite interposti animali. Ciononostante, lo scarto della tecnica rispetto a ciò che le leggi della natura stessa permettono è minimo. La norma etica che impone di “seguire la natura”, in questo senso, equivale paradossalmente, più che ad una ingiunzione a imitare il comportamento degli animali, ad un invito a costruirsi come culturalmente diversi rispetto a loro. La zoosfera è dunque quanto mai prossima, ma, nonostante tale prossimità, l’umano – anche nell’ambito delle prospettive orizzontalistiche e animalistiche delle scuole filosofiche che si oppongono alla Stoa – deve sempre essere isolato sulla base di un ideale di purezza specista in base alla quale ogni contatto con la diversità è interpretato come un rischio di commistione, degenerazione e quindi di distruzione.7 Tale separazione si realizza in genere per mezzo dei costumi, dei mores, delle funzioni politiche e sociali, ma può ovviamente venire pensata tramite giri sempre più stretti che arrivano ad escludere dalla propria sfera gli “altri umani”, pensati come bestie con le quali non ci 7. Sul mito della purezza cfr. le riflessioni di Marchesini 2002, 77 ss.

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si deve incrociare. Non possono non colpire, in tal senso, le analogie che è possibile individuare nella paura dell’ibridazione che attanaglia i patrizi romani al tempo della rogatio Canuleia e la messa al bando dei “rapporti interspecifici” con le popolazioni altre (in particolare gli ebrei) voluta dal Manifesto degli scienziati razzisti del 1938:8 «I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo. L’unione è ammissibile solo nell’ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani».9

Sia nel caso dei patrizi romani che nel caso delle leggi fasciste il motivo dell’ibridazione viene usato come un argomento retorico per costruire percorsi di separazione rispetto all’alterità. Nonostante l’evidente affinità, tuttavia, gli scenari epistemologici (e gli esiti) sono diametralmente opposti. L’etnocentrismo antico, infatti, costruisce la diversità umana in un contesto in cui non esiste la nozione biologica delle “razze”, laddove invece l’orizzonte teorico che sta alla base delle idee fasciste cristallizza e reifica il processo di pseudospeciazione fino a pensare le diverse popolazioni umane come naturalmente appartenenti a classi realmente differenti, dal punto di vista biologico, l’una dall’altra.10 Se in altri termini le differenze, a Roma (e in Grecia), erano pensate da un lato come il frutto di una interazione complessa con l’ambiente, dall’altro sulla base di un grado di maggiore o minore civilizzazione,11 nell’ottica nazi-fascista per la diversità non c’è altro rimedio che l’immunizzazione.12 Ecco dunque che se l’ideale di purezza romano si traduce ora in un tabù del contatto e della contaminazione, ora in una giustificazio8. Per la rogatio Canuleia cfr. spec. nn. 44 e 45 del cap. 5. 9. Manifesto degli scienziati razzisti, punto 10 (è possibile visualizzare il testo in versione integrale su http://www.olokaustos.org/archivio/documenti/italia/380805-manifesto.htm). Si noti comunque che la dizione di “ibrido” viene occasionalmente usata già alla fine del ‘700 per indicare la prole nata da due uomini di razza diversa (cfr. Mazzolini 2004, 128). 10. Cfr. ad es. i punti 1-3 del Manifesto degli scienziati razzisti. Per la mancanza del concetto di razza nell’ambito dell’etnocentrismo antico cfr. Sassi 2000, 137 ss. 11. Cfr. Borca 2003, 58 ss. e 146 (il modulo del determinismo ambientale antico è temperato dall’idea dell’intervento manipolatore del nomos che realizza quello che potremmo chiamare una sorta di “determinismo culturale”). 12. Sull’ideologia dell’immunitas come linea di demarcazione fra le biopolitiche del mondo antico e le biopolitiche dell’età postfascista cfr. Esposito 2004, 41 ss.

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ne dell’assimilazione forzata dei gruppi umani non domestici, l’unico modo che la politica nazi-fascista conosce per difendersi da un’alterità pensata come irriducibile e sostanziale è di eliminarla. Siamo così di fronte a due diverse maniere di pensare un oggetto analogo: l’ibridazione intraspecifica umana.13 Da un lato c’è la protezione positiva di chi – come i Romani – vede l’alterità come un’umanità in potenza, dall’altro c’è la protezione negativa di chi individua nell’altro un virus che si immette nell’organismo e che, in quanto tale, deve essere distrutto. L’esito, in questo caso è quello di una biopolitica che diventa immediatamente tanatopolitica.14

3.

Casi difficili: un’esplorazione dello scenario vicino

Un’osservazione banale: al di là delle derive razzistiche delle etnoantropologie dal giro strettissimo (e delle “bestializzazioni” delle alterità umane), sia per gli antichi che per noi moderni l’ibridazione degli umani è tendenzialmente concepita – almeno al di fuori delle piste del postumanesimo estremo – come qualcosa di negativo. Si tratta di una convinzione, questa, che, come ha mostrato il genetista Michael L. Arnold, ha influenzato anche gran parte della ricerca dei biologi dell’evoluzione, che solo di recente hanno cominciato ad accorgersi di un’evidenza che veniva prima ignorata, vale a dire che in molti casi gli incroci «between genetically divergent individuals have a major influence on the evolution of some plant and animal species complexes».15 In questo senso potremmo dire che, nonostante i differenti scenari epistemologici e culturali, nonostante le diverse concezioni della natura, i pregiudizi degli antichi sono in gran parte condivisi da ampie frange del pensiero contemporaneo e dall’immaginario diffuso. Non è un caso, in questo senso, che una costante di tutte le leggi e di tutti provvedimenti che regolamentano la procreatica consista proprio nel divieto assoluto della chimerizzazione (e, in genere, della “manipolazione” del codice genetico negli umani).16 13. Mazzolini 2004, 128 fa notare peraltro come sia tipico del razzismo biologico di età moderna il paradosso secondo il quale «mentre gli allevatori del primo Ottocento incrociavano tra loro varietà di una stessa specie animale convinti che, così facendo, si potessero ottenere esemplari migliori, gli antropologi pensavano che nel caso della specie umana avvenisse esattamente il contrario; che il frutto di un incrocio, cioè, fosse necessariamente una degenerazione». 14. Cfr. Esposito 2004, 115 ss. 15. Arnold 1997, VII. Cfr. anche Mazzolini 2004, 128. 16. Cfr. ad es. l’articolo 13, comma 3 della legge 40 del 2004, che vieta espressamente «la fecondazione di un gamete umano con un gamete di specie diversa e la produzione di ibridi o di chimere».

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Ho comunque l’impressione che quello che anche per noi continua ad essere una sorta di tabù – vale a dire la fusione fra l’umano e l’animale – rischi di trasformarsi in una risorsa retorica vuota che alimenta due opposti dogmatismi e che potrebbe forse impedirci di individuare il reale centro del problema. Cerco di spiegarmi meglio a partire dall’analisi di un esempio recente. 3.1 Ritorno al primo scenario La scena che era stata descritta nel primo paragrafo dell’introduzione di questo volume è tratta da un servizio andato in onda sul TG1 della RAI nell’estate del 2007. Dopo avere spiegato in cosa consisteva l’ibrido di uomo e mucca il giornalista Giovanni Masotti continuava il suo pezzo così: «Un sogno per gli scienziati (gli stessi che crearono la pecora Dolly), un autentico incubo per chi respinge il concetto di commistione. “Molto più che un incubo”, l’orribile denuncia giunta al Consiglio d’Europa da un gruppo di attivisti per i diritti umani in Ucraina. Storie documentate dalle immagini di corriere.it di neonati scomparsi e di chirurghi clandestini. Il business delle cellule staminali. Bambini venduti come pezzi di ricambio per organismi vecchi e malati. Testimoni che confermano».17

Trascrivendo il testo, mi sono accorto della quasi assoluta mancanza dei verbi. Quelli che si succedevano erano periodi sostantivati che avevano l’unica funzione di fare da supporto alle immagini che scorrevano sullo schermo. Mere didascalie da affibbiare ad un messaggio sostanzialmente iconico, le parole erano – assieme alle immagini – altresì un’arma che aveva il fine di colpire lo spettatore, inchiodandolo allo schermo senza permettergli di fermarsi un solo istante a riflettere. Nessuna azione. Nessun dubbio. Nessun problema: soltanto dati, decontestualizzati, e reazioni emotive previste e costruite a tavolino. Masotti in primo luogo vuole sottolineare che i creatori della chimera umana e bovina sono gli stessi che hanno dato la vita a Dolly: gli iniziatori, in altri termini, degli incubi e delle controversie che l’età contemporanea da allora si porta dietro. Quello che segue alla presentazione del dato è però molto più che un commento. Si tratta di una manipolazione della realtà, di una vera e propria incursione nella science-fiction: i ricercatori sognano di produrre mostri. Lo script che viene quasi subliminalmente attivato è quello dello scienziato pazzo, il Frankenstein che agisce magari anche a fini umanitari (la terapia, la cura del Parkinson e di altre malattie), ma senza alcuna preoccupazione delle conseguenze. 17. Cfr. http://it.youtube.com/watch?v=7nU73sARXdI.

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A tale script, comunque, immediatamente se ne associa uno ancora più degradante e accusatorio. Alla notizia delle sperimentazioni effettuate nei college inglesi viene immediatamente (e bruscamente) affiancata la notizia dei ladri di bambini dell’Ucraina. Se dunque per un solo attimo gli scienziati inglesi si sono trasformati in Frankenstein contemporanei, immediatamente dopo, montando assieme due notizie completamente diverse l’una dall’altra (e dunque decontestulizzandole l’una rispetto all’altra), sono addirittura associati ai ladri di bambini. Il messaggio che viene dato è dunque che la scienza non ha alcuno scrupolo, che agisce senza alcun limite, violando deliberatamente la natura nella misura in cui, donando la vita a chi è condannato alla morte e togliendola a chi invece dovrebbe vivere, capovolge un banale ordine generazionale. Lo scienziato non è più soltanto il dottor Frankenstein che, pur sognando di fare il bene dell’umanità, non riesce a controllare gli esiti dei suoi esperimenti, ma nel giro di un solo periodo viene trasformato in una creatura abietta che uccide esseri innocenti per prolungare la vita a organismi vecchi, malati e decadenti e produrre deliberatamente creature mostruose: un incubo, appunto. 3.2 Il misticismo della natura e la nuova teodicea Ad alimentare l’incubo, oltre che un giornalismo televisivo a dir poco irresponsabile e approssimativo, che decontestualizza i dati fino al punto di fare sparire completamente i fatti, sostituendoli con la fiction, ci sono però le posizioni apocalittiche di alcuni tecnofobi – primi fra tutti il Vaticano – che è più difficile liquidare e che devono senza’altro essere prese sul serio. Esemplare, in tal senso, è la reazione di Monsignor Elio Sgreccia, intervistato per Radio Vaticana da Salvatore Sabatino, citato all’interno di un servizio di Roberta Gisotti.18 L’autrice del servizio dà per scontato che la ricerca dei college inglesi «permetterà di dare vita a degli ibridi, oltrepassando un limite senza ritorno», e spiega che se gli scienziati osano andare avanti per la loro strada è solo perché si sono piegati «alle pressioni delle lobby scientifiche e farmaceutiche, che nel Regno Unito godono di una libertà di ricerca senza eguali in Europa». Tali lobby, peraltro, – è questo il sospetto che viene insinuato dall’autore del servizio –, avrebbero anche manipolato l’opinione pubblica. La prova sarebbe nel fatto che la stragrande maggioranza dei cittadini britannici nel 2006 era contraria all’incrocio delle specie, e invece, appena un anno dopo, nel 18. È possibile leggere la trascrizione del testo dell’intervista sul sito di Radio Vaticana: http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=134382.

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settembre del 2007, aveva finito per dare il proprio assenso alla continuazione degli esperimenti sulla base di un referendum popolare.19 Anche in questo caso viene attivato uno script, che non è quello romanzesco di Frankenstein (o dello scienziato-ladro-di-bambini), bensì quello del ricercatore prezzolato al soldo delle potenze economiche e di non meglio identificate lobby. Tale script, tuttavia, come mostrano una serie di casi registrati dalla letteratura bioetica, talvolta corrisponde al vero e non è mera fiction.20 Il dato interessante è però che, mentre l’autore del servizio sembra insistere sul potere oscuro di lobby e multinazionali, le risposte di Monsignor Sgreccia glissano completamente su questo spunto e si concentrano unicamente sul tema dei vincoli da imporre alla scienza: «La creazione di un ibrido uomo-animale è una frontiera che è stata finora da tutti – e non soltanto dalle associazioni religiose – bandita dal campo delle biotecnologie. E questo proprio perché la dignità umana viene compromessa, offesa e si possono creare poi delle mostruosità attraverso queste fecondazioni. È vero che questi embrioni vengono poi soppressi, le cellule vengono prelevate, ma in ogni caso la creazione di un essere uomo-animale, rappresenta appunto una frontiera violata nel campo della natura, la più grave. La condanna morale deve perciò essere piena, in nome anzitutto della ragione e in nome stesso della giustizia e della scienza, che deve essere mantenuta a beneficio dell’uomo e a rispetto della natura umana».

Quali sono le differenze che si possono riscontrare fra il discorso dell’intervistato e l’idea antica della contaminazione? C’è una differenza fra la classificazione assiologica dei viventi presente ad esempio nelle opere biologiche dei Greci e dei Romani e l’idea specista di un uomo “puro e inviolabile” che viene portata avanti dal Vaticano? Continuiamo, in fondo, ad essere antichi anche noi? L’idea che il cattolicesimo contemporaneo porta avanti, peraltro, non è molto dissimile dalla logica che uniforma di sé gli scritti etici di Aristotele. Si tratta di una sorta di fisicismo, in base al quale si identifica «l’ordine biologico derivante dalla teleologicità del processo vitale con l’ordine morale».21 Quello che cambia tuttavia è lo scenario di contorno. 19. Cfr., per questi dati, il più pacato servizio di E. Franceschini, Embrioni uomo-animale, sì di Londra, in «La Repubblica» 6 settembre 2007, 2. 20. Cfr. ad es. Mc Kibben 2003, 182. 21. L’espressione fra virgolette è tratta da Santosuosso 2001, 238. Sulla “normatività” del naturale in Aristotele cfr. invece Vegetti 2004, 332 ss. Sulla natura paradossale e contraddittoria di tutte le posizioni fisiciste nell’ambito della biopolitica cfr. ad es. Heller 2004, 1 ss. (spec. 8). Quanto alla paradossalità del binomio stesso natura-cultura cfr. ad es. Marchesini 2002, 9 ss. (che indica nella cultura un complesso epigenetico – e dunque un esito naturale – della biologia dei viventi), o anche Latour 2000, 20 ss. (che propone una secolarizzazione del concetto di natura).

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Se infatti l’uomo greco era immerso nella natura – una natura che fra le altre cose poteva produrre anche ibridi estremamente interspecifici – la nostra natura, l’ambiente stesso in cui viviamo, è diventata la tecnica.22 L’adesione incondizionata a questa nostra “seconda pelle” artificiale, tuttavia, nell’ottica della Chiesa ufficiale, è proprio ciò che scatenerà il meccanismo tremendo della teodicea: come viene minacciato nelle tavolette dei Greci, gli dei puniranno i mortali facendo sì che le donne non partoriscano più esseri simili all’uomo.23 Se però l’ibridazione era, nell’orizzonte della religiosità antica, una conseguenza di azioni morali non “conformi a natura”, oggi la dinamica della causa e dell’effetto è interamente capovolta: è proprio il fatto di giocare a fare gli dei e di produrre ibridi che viene individuato come la colpa che verrà punita con conseguenze che gli umani non possono minimamente immaginare: la fine dell’umano? La nascita di una nuova specie che ci assoggetterà? La fine della natura stessa? Lo scenario che si dipinge – e che effettivamente alcune frange estreme del postumanesimo e del transumanesimo sembrano rincorrere – è dunque proprio quello del superamento dell’umano, del desiderio di andare oltre sempre e comunque, proprio perché “ciò che si può, si deve”.24 Bisogna però ricordare che, al di là delle esagerazioni apocalittiche, la denuncia della Chiesa ufficiale sembra colpire nel segno quando si pensa che ad agire in questo senso non ci sono solo esponenti di pseudoscienze e sette come quella dei Raeliani (che affermano, fra le altre cose, di avere ricevuto direttamente dagli alieni l’ordine di arri22. Su questo punto cfr. Galimberti 20075, 33 ss.; 277 ss. e 474 ss. 23. Un esempio lampante di questa teodicea, ad es., è in Ps. Plu. 311 A-B (Paralleli minori), in cui una donna romana – Valeria Tusculanaria – che dopo essersi accoppiata con il proprio padre genera un egipane. Per il resto cfr. la bibliografia cit. in n. 39 del cap. 4. 24. Su questa natura oltranzistica della tecnica concorda anche Galimberti 20075, 33: «la tecnica […] non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona», o 37: «finché la strumentazione tecnica disponibile era appena sufficiente per raggiungere quei fini in cui si esprimeva la soddisfazione degli umani bisogni, la tecnica era un semplice mezzo il cui significato era interamente assorbito dal fine, ma quando la tecnica aumenta quantitativamente al punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine, allora muta qualitativamente lo scenario, perché non è più il fine a condizionare la rappresentazione, la ricerca, l’acquisizione dei mezzi tecnici, ma sarà la cresciuta disponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che per loro tramite può essere raggiunto. Così la tecnica diventa fine, non perché la tecnica si proponga qualcosa, ma perché tutti gli scopi e i fini che gli uomini si propongono non si lasciano raggiungere se non attraverso la mediazione tecnica». Sull’inefficacia anacronistica dell’etica cristiana cfr. però le riflessioni dell’autore a 457 ss.

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vare alla clonazione umana), ma che – come rilevano bene alcuni casi ed esempi raccolti da Bill Mc Kibben – anche nelle file della scienza strutturata delle accademie e delle università occidentali si registra l’adesione a utopie e sogni irrazionalistici (che minacciano peraltro di di essere effettivamente realizzati).25 Il desiderio di immortalità, il sogno della liberazione dal peso scabroso del corporeo e dell’organico nella fusione con il macchinico, la pandroginia, il potenziamento delle funzioni umane attraverso l’acquisizione di caratteri genetici ferini, l’upgrade del proprio genoma, la possibilità di librarsi in volo: si tratta, in questi casi, di progetti che vanno molto al di là delle pratiche della cura o della terapia e che tuttavia confluiscono nell’alveo di uno scientismo estremo che sembra superare, nella progettazione di scenari futuri che si sognano immediati, le ambientazioni e le situazioni della science-fiction. Quanto di questo scientismo, tuttavia, non è in sé profondamente “antico”? Abbiamo visto, del resto, che il desiderio di trasformarsi in centauri era già presente – come ci racconta Senofonte (Cyr. 4, 3, 17 ss.) – nell’immaginario della cavalleria persiana, così come i sogni del mito (primo fra tutti quello cristiano) sono popolati di pulsioni di immortalità e creature alate. Dove sta l’origine di questi desideri? Quale la loro radice profonda? In questo senso, le posizioni del Vaticano hanno probabilmente il grande merito di scuotere le coscienze e costringerle a domande di senso. Nello specifico, però, la mia impressione è che, relativamente alla sperimentazione britannica, i presupposti etici di Monsignor Sgreccia siano fondati su tabù e pregiudizi (nonché su credenze che non esito a reputare a dir poco “mitologiche”) molto più che sull’analisi dei fatti singoli: «Conservino almeno il rispetto delle specie».

La prima reazione che ognuno di noi naturalmente ha è, ovviamente, quella di assentire. La paura delle ibridazioni, in fondo, è qualcosa di viscerale. Chiunque del resto tremerebbe al pensiero che dal ventre della propria compagna possa uscire un giorno un bambino con le corna o con la faccia di cavallo. Bisogna tuttavia chiedersi di cosa si sta parlando quando si parla di specie. La biologia contemporanea infatti ha mostrato chiaramente come il concetto di specie sia divenuto del tutto relativo (e non solo in seguito alle scoperte dell’ingegneria genetica), così come, ad esempio, la biologia evoluzioni25. È il caso, ad esempio, di Michael West, pioniere della clonazione (nonché fervente creazionista della prima ora), e di Miller Quarles, un geofisico, che hanno di fatto dichiarato di considerare l’invecchiamento come una vera e propria malattia da combattere (cfr. Mc Kibben 2003, 145 ss.). Per il resto per i fronti estremi della ricerca della scienza moderna cfr. anche Marchesini 2002, 480 ss.

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stica dello sviluppo sembra avere potentemente messo in evidenza quei rapporti di parentela fra l’umano e l’animale che proprio l’ideologia giudaico-cristiana del dominio antropocentrico sul regno della natura aveva spazzato via.26 Di che cosa sta dunque parlando Monsignor Sgreccia? Il sospetto immediato è che l’orizzonte teorico cui si fa riferimento sia un orizzonte del tutto pre-evoluzionistico di fissità delle specie. È dunque sulla base del creazionismo che si vorrebbe imporre il tabù antico della commistione e della contaminazione? Tale contaminazione, peraltro, deve essere evitata, ancora una volta, solo per gli uomini. Del corredo genetico dei muli, dei cavalli e degli asini, del resto, già Isidoro di Siviglia, in fondo, non si preoccupava più di tanto. Il pezzo che segue immediatamente dopo l’ingiunzione di Monsignor Sgreccia, in questo senso, è del tutto chiaro: «Conservino almeno il rispetto delle specie. Finora l’individuo umano non è stato rispettato, perché gli embrioni vengono immolati e sacrificati in tanti modi e nelle stesse fecondazioni artificiali. Era però stato rispettato almeno il confine tra specie e specie. Ora viene abbattuto anche questo e le conseguenze non sono state calcolate. Oltretutto non ce ne era nessun bisogno. Se si cercano le cellule staminali capaci di curare l’Alzheimer e il Parkinson non c’è alcun bisogno di andare a creare un ibrido uomo animale, perché ci sono le cellule staminali adulte, quelle del cordone ombelicale, quelle dell’uomo adulto per poter far fronte – con fiducia – a queste frontiere».

Il “rispetto delle specie” e il “rispetto per la specie umana” («l’individuo umano») diventano così la medesima cosa. E – in quello che all’Aristotele del De generatione animalium sarebbe sembrato uno stravolgimento totale del senso comune – della stessa specie umana i rappresentanti prototipici non sono più gli uomini e le donne formati e adulti, bensì gli embrioni! Quella che doveva essere un’intervista sugli esperimenti britannici diventa così il pretesto per una giaculatoria violenta ai danni di chi ha osato scagliarsi contro la controversa – e, come i fatti e le statistiche recenti hanno mostrato, dannosissima – legge 40,27 e dunque di conseguenza contro tutti gli 26. Sui diversi concetti di specie che esistono in biologia cfr. ad es. Arnold 1997, 11 ss. (il quale peraltro sceglie operativamente di non adottarne alcuno). Per una introduzione chiara e scorrevole alla biologia evoluzionistica dello sviluppo cfr. invece Minelli 2007, ix ss. e 5 ss. Sull’ideologia giudaico-cristiana del dominio antropocentrico cfr. infine Galimberti 20075, 476 ss. 27. Sui danni della legge 40 rimando ai dati riportati da R. Iacona nel corso della trasmissione W l’Italia, diretta andata in onda martedì 7 agosto alle 21.05 su RAI3 (cfr. http://www.wlitaliadiretta.rai.it). La legge 40 viene peraltro bollata come crudele e stupida in Rodotà 20074, 63 s.

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scienziati che non limitano la loro ricerca alle staminali adulte e – implicitamente – contro tutte le coppie che scelgono la fecondazione medicalmente assistita.28 3.3 La parola alla scienza Se il servizio del TG1 rappresenta un esempio di giornalismo approssimativo e romanzesco,29 la reazione di Radio Vaticana alla notizia della creazione di ibridi di uomo e mucca appare fortemente ideologica. In entrambi i casi, infatti, le intenzioni terapeutiche dell’esperimento passano in secondo piano e vengono ventilati scenari da tregenda. Il primo – decisamente horror – dipinge gli scienziati come orchi che mangiano i bambini, il secondo prospetta una spiegazione dietrologica (e tuttavia – lo ripeto – credibile e verosimile) in base alla quale, senza denunciare apertamente né fare nomi e cognomi (come del resto è tipico di ogni dietrologia che si rispetti), si lasciano intravedere complotti finanziari di entità oscure: le lobby. Questo script, tuttavia, avanzato dall’intervistatore, viene lasciato decadere dall’esponente del Vaticano, che preferisce, tutto sommato, ritornare all’immagine dello scienziato-Frankenstein che non esplora le conseguenze (ma sono effettivamente esplorabili?) e non ha alcun rispetto di quell’oggetto fumoso che è la “specie” (che è diventata nel frattempo un sinonimo del termine “embrione”). Ma cosa ha da dire lo scienziato in proposito? Molte risposte le troviamo in un’intervista che Stephen Minger ha rilasciato a Radio Radicale.30 La prima cosa che mi ha colpito, mentre la riascoltavo, è stata l’enorme discrepanza fra gli oggetti mostruosi descritti dal TG1 e da Radio Vaticana e quello che lo scienzia28. Sulle posizioni della Chiesa cattolica riguardo alla procreazione medicalmente assistita cfr. Santosuosso 2001, 215 ss. 29. Il TG1, comunque, non è stato il solo a seguire una linea a dir poco disinformativa o comunque più o meno esplicitamente filo-vaticana: cfr. ad es. Sgreccia batte Minger: 18 a zero (minuti in TV)!, in «Agenda Coscioni» 2, 11, novembre 2007, 4 (l’autore dell’articolo, che è interamente scaricabile on line in formato pdf su http://www.lucacoscioni.it/files/COSCIONI_numero15_bassa.pdf, è anonimo). 30. L’intervista è scaricabile in formato mp3 sul sito di Radio Radicale al seguente indirizzo: http://www.radioradicale.it/soggetti/stephen-minger. Segnalo comunque che, proprio mentre sto per dare il volume alle stampe, è stata pubblicata una nuova intervista rilasciata dallo scienziato anglo-americano in occasione di una sua recente visita in Italia: cfr. G. Innocenzi, Minger incontra il “caso Italia”, in «Agenda Coscioni» 2, 11, novembre 2007, 2 e Ead., Non stiamo facendo l’embrione chimera, in «Agenda Coscioni» 2, 11, novembre 2007, 3 (le interviste sono interamente scaricabili on line, in formato pdf e in formato mp3, ai seguenti due indirizzi: http://www.lucacoscioni.it/files/COSCIONI_numero15_bassa.pdf e www.lucacoscioni.it/incontro-minger).

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to che è a capo del team di ricerca inglese dichiara di stare realizzando: il tanto temuto ibrido di uomo e di mucca, il minotauro che gli scienziati vorrebbero creare non sarebbe altro che una blastocisti, un cibrido, un aggregato cellulare che non solo – assicurano gli scienziati e gli addetti ai lavori – non finirà mai nell’utero di una donna, ma che per di più, proprio perché privo di gameti, non potrebbe mai e poi mai portare allo zigote né diventare persona.31 Il fine dei ricercatori è quello di prendere gli ovuli animali privati del proprio nucleo e usarli come incubatrici di cellule staminali che avrebbero le caratteristiche genetiche dell’ammalato donatore. Minger spiega così le finalità di questa operazione: «L’obiettivo dell’intera operazione è di scoprire quali sono i geni coinvolti. Speriamo infatti di potere modellizzare, in laboratorio, il processo in cui le proteine mutate interagiscono con il normale funzionamento cellulare e distruggono così le cellule nervose. Le informazioni acquisite potrebbero essere usate per creare nuove terapie e medicinali destinati alla prevenzione delle malattie. Per questo vorremmo creare linee cellulari per la ricerca e sviluppare nuovi medicinali e terapie per le quali, per il momento, non vi sono cure per i malati».

Quello che Minger non spiega è il motivo per cui, per la ricerca su quelle che definisce malattie catastrofiche, la scelta sia caduta sulla “cibridazione”. In questo senso viene in mio soccorso l’intervista che il genetista Giuseppe Novelli ha rilasciato al quotidiano La Repubblica: «Se oggi volessi studiare l’Alzheimer per capire le basi biologiche della malattia, di quali strumenti disporrei? Ho il paziente, ma non posso fare sperimentazioni su di lui. Potrei analizzare le cellule del suo sistema nervoso, ma come ottenerle? Non posso certo entrare nella sua testa e prelevarle dal cervello. La realtà è che non esiste alcun modello su cui studiare l’Alzheimer, e questo ovviamente ostacola la messa a punto della cura».32

Novelli continua quindi così: «Le malattie di origine genetica che possono trarre beneficio dalla ricerca sulle staminali sono molte, ma Alzheimer, Parkinson e sclerosi laterale amiotrofica hanno la caratteristica di svilupparsi in età

31. Cfr. L. Cavalli Sforza e F. Cavalli Sforza, E ora solo la ricerca ci dirà se servono, ma certo non vedremo un minotauro, in «La Repubblica» 6 settembre 2007: 1-3 e T. Moriconi, Una chimera per le staminali, in «il manifesto» 6 settembre 2007, 15. 32. E. Dusi, “È l’unico modo per aiutare chi soffre”, in «La Repubblica» 6 settembre 2007, 3.

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adulta. Non possiamo quindi studiarle sugli embrioni umani. Essendo questi ancora sani, non saremmo capaci di identificarli».

Il problema dello studio delle malattie che si sviluppano in età avanzata potrebbe dunque essere risolto creando embrioni malati e studiando quello che avviene in essi.33 Uno dei motivi per cui Minger ha scelto la cibridazione è dunque legato al fatto che essa permette di creare “copie” dei malati da studiare evitando così la clonazione terapeutica.34 Ed è del resto proprio in seguito a questa motivazione che la Human Fertilisation and Embriology Authority (l’organismo che regola in Gran Bretagna le attività in campo di ricerca su embrioni e fecondazione assistita) avrebbe dato il suo assenso all’operazione. La cibridazione proposta dal team capitanato da Minger, infatti, permette di bypassare il problema etico del commercio degli ovuli che sta a monte di tutti i progetti di ricerca che riguardano le clonazioni terapeutiche: «per molte donne economicamente svantaggiate l’attuale rimborso spese di 250 Sterline (circa 370 Euro) previsto potrebbe essere un incentivo più che sufficiente per sottoporsi al prelievo. La questione etica si pone soprattutto perché non ci sono sufficienti dati circa gli effetti a lungo termine delle iperstimolazioni ovariche ed è aperto il dibattito su come sia possibile giudicare le motivazioni altruistiche delle donatrici».35

3.4 Il minotauro senza corna A leggere i prodotti di un giornalismo cartaceo più sobrio, dunque, il mostro sembra uscire fuori del tutto ridimensionato. Le intenzioni di Minger e del suo team sembrano infatti più che buone. Ma – avverti33. Segnalo comunque l’intervento del biologo Angelo Vescovi, che intervistato da Elena Dusi, informa che nel 2006 «alcuni scienziati giapponesi sono riusciti a far tornare “embrionali” alcune cellule adulte, percorrendo all’indietro la strada del loro sviluppo e restaurando al loro interno le caratteristiche di plasticità delle staminali» (E. Dusi, “Un’aberrazione che non dà risultati”, in «La Repubblica» 6 settembre 2007, 3). Se la notizia fosse vera, e se questo procedimento fosse effettivamente praticabile, il progetto di Minger avrebbe un’alternativa sicuramente meno controversa. 34. Bisogna comunque ricordare i dubbi che tale procedimento avrebbe sollevato nei critici, i quali sostengono che comunque i mitocondri di mucca che rimangono all’interno del nucleo difficilmente riuscirebbero a dialogare con il DNA umano e che proprio nel difetto dei mitocondri stanno alcune delle concause di Alzheimer, Parkinson e altre atrofie muscolari (cfr. E. Franceschini, Embrioni uomo-animale, sì di Londra, in «La Repubblica» 6 settembre 2007, 2). 35. Cfr. T. Moriconi, Una chimera per le staminali, in «il manifesto» 6 settembre 2007, 15.

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rebbero i catastrofisti – non lo erano forse anche quelle di Frankenstein? E gli stessi principi che si basano sull’intenzione e sulla responsabilità, in fondo – Umberto Galimberti ce lo insegna –,36 non rischiano di essere inefficaci e impotenti all’interno del quadro di una tecnica che ci sovrasta con la potenza dei suoi mezzi impedendoci del tutto di governare veramente i fini? È comunque certo che la soluzione della cibridazione sembra la migliore per evitare di usare le donne come cavia e per bypassare gli esiti della reificazione e della mercificazione dei loro corpi cui sicuramente condurrebbe la clonazione terapeutica. Non so poi se dietro il lavoro di Minger ci siano effettivamente le pressioni di multinazionali farmaceutiche e gruppi di potere, ma lo script dello scienziato prezzolato che il servizio di Radio Vaticana vorrebbe attivare mi sembra del tutto fuori luogo. Non solo il team inglese sembra molto attento alle implicazioni etiche della propria ricerca, ma per di più le parole di Minger stesso non sembrano ammettere equivoci relativamente al rapporto fra scienza e mercato: «Ritengo che la Gran Bretagna abbia la giusta cornice regolatrice per fare scienza accettabile anche a livello etico. Un esempio contrario, invece, sono gli Stati Uniti, che rappresentano un sistema sbagliato. Da una parte, infatti, i ricercatori, finanziati dal settore pubblico, possono fare molto poco, mentre, nel settore privato, si può fare tutto: in alcuni casi, addirittura, la clonazione riproduttiva. Il sistema è caotico e incoerente. Vi sono regolazioni locali e nazionali, fondi privati e pubblici. Non c’è coerenza da stato a stato e, in alcuni casi, da università a università. Nel Regno Unito, invece, abbiamo un sistema standardizzato, dove chiunque coinvolto nella ricerca sottostà alle stesse regole senza alcuna eccezione, e senza che la provenienza dei fondi incida in alcun modo. Per questo penso che vi sia ancora molto da fare, anche grazie all’interazione fra i diversi gruppi che studiano le cellule staminali. Quindi penso che la ricerca stia facendo grandi passi avanti».37

Le parole di Minger sollevano un problema importante, che spesso viene trascurato nel dibattito etico. Si tratta dell’individuazione della fonte del denaro destinato alla ricerca. Il punto infatti è stabilire chi eroga i fondi e chi controlla la ricerca e con quali regole, stabilendo, in definitiva, a chi risponde lo scienziato del proprio lavoro. È evidente infatti che cambiano molto le finalità di uno studio condotto espressamente per il mercato e quelle di uno studio condotto per uno stato che ha investito per il bene dei propri cittadini e non per l’arricchimento dei propri azionisti. 36. Cfr. Galimberti 20075, 457 ss. 37. Cfr. http://www.radioradicale.it/soggetti/stephen-minger.

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La stessa procedura che è stata seguita per potere iniziare la sperimentazione, peraltro, mi sembra alquanto rassicurante. Quello che infatti secondo le insinuazioni di Radio Vaticana era presentato come uno scandaloso caso di manipolazione delle coscienze mi pare che invece debba essere letto piuttosto – dal mio punto di vista – come un episodio esemplare di normale svolgimento del dibattito democratico: «Nei mesi scorsi il governo e la Human Fertilisation and Embriology Authority […] avevano bocciato la richiesta della comunità scientifica. Poco per volta, tuttavia, il governo e l’agenzia preposta hanno cambiato idea, giungendo infine alla decisione positiva annunciata ora a Londra. L’Autorità si riserverà però di valutare ogni singolo caso prima di fare partire gli esperimenti. A provocare il dietrofront è stata un’efficace campagna di pressioni da parte del mondo scientifico, che si è impegnato a informare l’opinione pubblica sugli esatti termini della ricerca sugli embrioni ibridi e sul potenziale di cura di gravissimi disturbi come l’Alzheimer, il morbo di Parkinson e il diabete. Quando in una serie iniziale di sondaggi era stato chiesto semplicemente alla gente se la legge debba permettere “la creazione di uomini–animali ovvero di embrioni chimera”, una netta maggioranza aveva risposto negativamente. Le opinioni sono cominciate a cambiare dopo che gli scienziati hanno iniziato a informare direttamente il pubblico. In particolare hanno persuaso la commissione affari scientifici della camera dei Comuni ad ascoltarli: e a quel punto i deputati hanno dato unanime parere favorevole».38

Gli scienziati britannici hanno reso conto del loro lavoro alla società, e per poterlo continuare hanno persuaso (non costretto) la società che le sperimentazioni non recheranno alcun danno e che seguiranno – e hanno seguito – determinati vincoli etici. Qual è dunque il problema? Che la società si persuade di scelte che un esponente del Vaticano ritiene sbagliate? L’unica alternativa che vedo rispetto alla persuasione è però estremamente pericolosa, forse molto più dei mostri che la ricerca impazzita potrebbe produrre, vale a dire l’individuazione di un organo di controllo che – sia esso il Vaticano o una élite di scienziati e accademici – agisca come il depositario assoluto di una verità che può venire imposta anche facendo ricorso alla violenza etica.39 L’unica via di uscita dal dilemma che ci impone di scegliere di fatto fra teocrazia e tecnocrazia, in fondo, come mostra l’esempio britannico, consiste forse proprio nel risolvere caso per caso i singoli problemi attraverso il dialogo delle parti e il coinvolgimento diretto di panel di controllo, organismi governativi, ricercatori, cittadini e – ammesso che la sua ansia di dirigere le coscienze possa essere placata – anche del Vaticano stesso. 38. Cfr. E. Franceschini, Embrioni uomo-animale, cit. 39. Per l’espressione “violenza etica” cfr. Butler 2006, 13.

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Certo, potrebbe essere vero che gli scienziati, in merito a questioni altamente specialistiche, dispongano di risorse retoriche del tutto superiori a quelle dei comuni cittadini. Ma, come si è visto, la scienza non è un blocco monolitico, e gli scienziati non solo non hanno tutti le medesime opinioni e i medesimi fini, ma sono in fondo loro stessi cittadini. È vero che esistono le lobby, così come è vero che esistono gli scienziati che aderiscono appassionatamente ad utopie transumanistiche, ma – anche se so che quello che sto per dire può sembrare banale e provocatorio –, così come non tutti i preti sono pedofili, evidentemente neanche tutti i ricercatori sono Frankenstein. La democrazia, in altri termini, continua ad essere l’unica alternativa alla tecnocrazia e alla teocrazia. Perché i principi democratici continuino ad avere senso bisogna tuttavia centrare un problema che spesso rimane ai margini del dibattito bioetico. Il punto di collasso che porta alle mostruosità, infatti, a mio avviso non è tanto la follia degli scienziati, ma la possibilità che un mercato sempre più folle e sempre più padrone abbia il potere di condizionare e selezionare, acquistandole e finanziandole, le loro prestazioni (o – nell’ottica dei detrattori catastrofisti – la loro effettiva predisposizione alla follia). Il problema che solleva Minger – e che secondo lui la Gran Bretagna avrebbe risolto bene – è quello dei finanziamenti privati e della deregulation della ricerca.40 Perché uno stato abbia scienziati che lavorano per la società in altri termini è necessario che la ricerca sia prevalentemente pubblica e che, anche quando sono ammessi finanziamenti privati, i ricercatori rispondano al pubblico e alla società del loro lavoro. La produzione dei mostri, forse, si evita molto di più potenziando gli investimenti di una nazione sulla ricerca e sulle università di stato e combattendo la mercatocrazia e molto meno cercando di individuare fonti di verità assoluta e definitiva da imporre con la forza o – cosa che spesso è del tutto equivalente – con le leggi.41 In fondo – forse – nessuna donna accoglierà nel proprio utero un embrione che deriva da una fusione di cellule di uomo e toro solo fino a quando il mercato non avrà creato il bisogno indotto di accoglierlo.42 40. Tale problema è segnalato peraltro con forza anche da Mc Kibben 2003, 87 ss. (spec. 101). 41. Sugli aspetti violenti e deleteri della “giuridificazione” della vita cfr. le riflessioni di Rodotà 20074, 9 ss., che pone il problema dei limiti di un diritto che, laddove si trova ad essere puro veicolo ideologico, può anche diventare crudele. 42. Sono vari gli esempi di ipersfruttamento delle scoperte bioingegneristiche da parte di varie società americane. Si va dai guasti causati dalle ricerche private sui cibi transgenici di multinazionali come la Monsanto (sul cui impatto cfr. ad es. Rifkin 1998, 77 ss. e 121 ss.) alle compagnie che (ironicamente?) mettono

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3.5 Squarciare il velo del silenzio: e gli animali? Va tutto bene dunque? Per rassicurarmi, e per capire un po’ di più cerco sul web il sito personale di Stephen Minger. Vedo la sua foto assieme ai membri del gruppo di ricerca del King’s College. Mi colpisce subito il fatto che siano quasi tutte donne, la maggior parte di loro peraltro avvenenti e di bella presenza. Perché questo dettaglio attira la mia attenzione? È invidia maschile dettata dal mio male gaze? È un barlume di sospetto su come Minger possa gestire il proprio potere accademico? Lo guardo un po’ meglio in volto, cercando di non fissare l’attenzione sulle persone che lo attorniano. Mi è simpatico. Mi immaginavo di imbattermi in un uomo occhialuto e pelato in camice bianco con le provette in mano (un altro dei pregiudizi di repertorio sulla scienza), e invece mi trovo davanti un tizio poco più che quarantenne con i capelli lunghi – bianchi – e la coda di cavallo, vestito come un rocker avanti negli anni. Assomiglia un po’ al personaggio del fumetto che sta nel booklet di Too young to die, too old for rock’n roll dei Jethro Tull. Mi sta simpatico perché un po’ mi ci rispecchio. In fondo se mia moglie non mi costringesse a tagliarmi i capelli, che per molti anni – da rocker in piena attività – ho portato lunghi, potrei assomigliargli. Tutto bene dunque? Ho sfatato tutti i pregiudizi tecnofobi sui quali volevo indagare e che mi avevano portato, tanti anni addietro, a iniziare le ricerche raccolte in questo volume? In realtà mi rendo conto che, sulla base dell’analisi del polverone mediatico sollevato sull’uomo-animale britannico, non è possibile trarre conclusioni. Forse i singoli casi critici si dovrebbero affrontare singolarmente, ognuno nella sua specificità e senza generalizzare, e coinvolgendo il numero maggiore possibile di parti. Per il resto, una volta che si è preso atto che esistono davvero gli scienziati folli, come è vero che esistono i biomoralisti capaci di livelli di violenza etica inconcepibili, bisogna anche prendere atto di uno strapotere del mercato che a mio avviso mette in dubbio l’esistenza della democrazia e dunque i meccanismi del confronto tra argomentazioni, la possibilità di accedere alle informazioni e di attivare processi decisionali. A tale proposito, ci sono forse altre riflessioni scomode che è opportuno fare. in vendita sul web gli ovuli fecondabili di fotomodelle (cfr. ad es. Mc Kibben 2003, 32 s.). La storia della cultura occidentale peraltro ha già conosciuto uno sfruttamento economico intensivo della mostruosità proprio – come segnala Olmi 2004, 34 s. – con il nascere della cultura capitalistica, quando cioè non solo le creature abnormi venivano esposte a pagamento, ma quando (come ad esempio nel caso della sirena di Barnum) venivano addirittura create e costruite a bella posta per le esibizioni.

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Stephen Minger – così come in genere tutta la stampa apertamente anticlericale e laicista – batte molto sulla necessità di sperimentare sui cibridi per arrivare a nuove terapie. Con mia grande sorpresa scopro però che quando si chiede ad un malato di Alzheimer di esprimere la sua posizione in merito, le sue risposte possono essere del tutto spiazzanti: «Un malato di Alzheimer e la sua famiglia hanno bisogno di servizi per affrontare le immani difficoltà della vita quotidiana. Forse dovremmo discutere di più delle prospettive della scienza, dei dilemmi dell’etica. Ma non ce la facciamo. È di servizi che abbiamo bisogno, e subito».43

A parlare è Gabriella Savini, direttore della Federazione Alzheimer Italia. Ci si aspetterebbe dunque che i malati prendano una posizione scientista. E invece non è così. La malattia in fondo può essere una dimensione così totalizzante che talvolta non permette di pensare ad altro. I malati, in altri termini, possono non avere posizioni bioetiche ben precise. E il fatto che il malato possa non avere una posizione ci fa capire che l’appello alla scoperta e alla sperimentazione di nuove terapie può anche essere uno strumento che serve allo scienziato da un lato a rassicurare e persuadere la società nel suo complesso, dall’altro – cosa che è umanamente comprensibile molto più di quanto non sia riprovevole – forse anche ad autogiustificarsi nei confronti della propria coscienza, trovando così un senso umano in un atto – la ricerca e il potenziamento delle tecniche – che forse ha solo in se stesso il proprio fine e che in realtà usa gli addetti ai lavori come banali funzionari.44 Quella della cura, in altri termini, potrebbe essere semplicemente una risorsa retorica, i cui usi possono essere più o meno buoni. Sarebbero buoni – o comunque tendenzialmente poco nocivi – nel quadro di una ricerca pubblica che sperimentasse davvero terapie destinate ad essere offerte (pubblicamente) all’umanità e alla società. Sono infidi invece quando si tratta delle ricerche svolte dalle multinazionali che con il pretesto (e la retorica) della pubblica utilità proteggono il privatissimo fine della massimizzazione del profitto. Ancora una volta, dunque, il problema etico e la paura degli ibridi rischiano di essere il paravento di un dramma che è principalmente politico ed economico. Che senso ha sperimentare nuove cure quando esistono sistemi in cui tali cure sono di fatto appannaggio di una percen43. E. Dusi, “Chi soffre di Alzheimer chiede aiuto ma ci arriva solo confusione”, in «La Repubblica» 7 settembre 2007: 18. 44. Sull’uomo come “funzionario” della tecnica cfr. Galimberti 20075, 33 ss.

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tuale minima (e ricchissima) della popolazione? Che senso ha parlare di libertà di ricerca quando tale libertà può coincidere di fatto – come è avvenuto negli Stati Uniti – con lo strapotere delle assicurazioni private che, con la complicità di un sistema politico irresponsabile (se non addirittura corrotto) – hanno distrutto il sistema della sanità pubblica? Che senso ha, in altri termini, chiedersi se un minuscolo aggregato di cellule può turbare le nostre coscienze, quando nel frattempo la sanità pubblica è in degrado e – anche con la possibilità di nuove cure – il sistema non garantisce alcuna soglia di vivibilità sociale al malato privo di mezzi? Parlare di ibridi, in uno scenario del genere si rivela dunque un trastullo intellettuale, qualcosa che ci riporta al primato della teoria sulla pratica, qualcosa che in fondo ci potrebbe far tornare ad essere di nuovo antichi. Ma non è tutto qui. Uno degli aspetti che mi colpisce di più nel discorso di Stephen Minger è il meccanismo sostitutivo che scatta nelle dinamiche bioetiche. Gli ovuli di mucca vengono scelti per evitare imprevedibili conseguenze nefaste sulle donne. Dal punto di vista del senso comune non c’è niente di strano o di scandaloso in tutto questo. La logica che sta alla base del ragionamento dello scienziato britannico, in fondo, non è dissimile da quella cattolica e, più genericamente, giudaico-cristiana. È il principio di un umanitarismo – tipicamente occidentale – che vede il mondo animale come il suo dominio. Tale principio, tuttavia, si fonda implicitamente sulla presunta legittimità di una domanda di questo tenore: “a chi posso fare male di più per non fare il male del mio simile?”, o meglio: “chi posso sostituire per fare morire qualcun altro al posto del mio simile?”. La biopolitica, in altri termini, è sempre in qualche modo tanatopolitica e l’idea stessa di cura – così impostata – presenta un legame stretto con la violenza. I Greci e i Romani erano perfettamente consapevoli del fatto che l’ibridazione del cavallo e dell’asino comportava atti di violenza – necessaria – nei confronti del regno della natura. Anche per questo attivavano una serie di meccanismi simbolici volti ad assimilare fra loro animali completamente dissimili e a rendere naturale ciò che non era percepito come tale. La scienza contemporanea sembra invece avere dimenticato che al fondo delle manipolazioni della tecnica sul vivente ci può essere la violenza. E sostituire l’umano con l’animale nell’individuare il ricettacolo della violenza per assicurare il bene della comunità significa portare avanti, sotto altra specie, il paradigma – antropocentrico – del sacrificio.45 Forse, in fondo, non abbiamo mai smesso di essere antichi. 45. Ringrazio di cuore Patrizia Pinotti per avermi fatto notare questo dettaglio che a me era sfuggito. Devo interamente a lei le osservazioni in proposito.

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4.

Ansie, preoccupazioni, risate e sorrisi

Le considerazioni di Eliano e Democrito che vedono nel mulo un “artificio adulterino” operato dalla malizia umana sembrano in qualche modo ricordare da vicino (o meglio: da lontano) i discorsi dei mistici contemporanei della natura, che tendono troppo facilmente (e unilateralmente) ad identificare quest’ultima con il piano del divino, connotando così in maniera marcatamente negativa tutto ciò che viene percepito come artificiale o culturale. Allo stesso modo, dall’idea dell’ibridazione vista come “contaminazione” sembrano non essere esenti neanche le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa che attestano «il diritto di ereditare caratteri genetici che non abbiano subito alcuna manipolazione»,46 laddove – come fa notare Eugenio Lecaldano – il termine “manipolazione” si presenta più come un termine persuasivo che descrittivo.47 L’aggettivo “manipolato”, infatti, usato in associazione al corredo cromosomico di un individuo, o di una specie, viene sempre connotato negativamente dagli orientamenti giuridici contemporanei, quando invece la biologia moderna ha mostrato non solo che la stessa nascita per via naturale va ad incidere sul patrimonio genetico (e può quindi comportare di per se stessa la variazione dell’identità di chi nasce rispetto ai suoi antenati) ma anche che gli esseri complessi (come ad esempio l’uomo) non reagiscono mai ai mutamenti secondo logiche di causalità lineare, funzionando invece come sistemi-soglia che, lungi dall’essere sensibili a punti critici, sono provvisti di una serie di ammortizzatori che permettono di traghettare il sistema da un punto di equilibrio ad un altro punto di equilibrio.48 Se però il timore della contaminazione degli antichi può per certi versi essere analogo, o omologo, rispetto al nostro timore della manipolazione, per quale motivo lo speaker del TG1 si attende una reazione preoccupata del suo pubblico, mentre invece Plutarco si può permettere, nel Convivio dei Sette Sapienti, di strutturare l’episodio della scoperta dell’uomo-cavallo come qualcosa di molto simile ad una barzelletta? Perché in altri termini l’idea dell’ibridazione, fosse anche soltanto di cellule non destinate a svilupparsi fino a diventare feti, ci preoccupa, mentre invece nel caso di Talete può fare anche sorridere? Azzardo un’ipotesi, una suggestione. L’ibrido contemporaneo è un “incubo” perché rischia di distruggere fin dalle fondamenta una 46. Quella citata è la Raccomandazione n. 934 (artt. 2 e 3) approvata nel 1982 dal Consiglio d’Europa. Ma cfr. anche la Raccomandazione n. 1046, del 1986, in base alla quale si afferma il «diritto ad un patrimonio genetico non manipolato». 47. Cfr. Lecaldano 1999, 201 ss. 48. A tale proposito cfr. Marchesini 2002, 72 ss.

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costruzione antropopoietica cui secoli di cultura occidentale ci hanno abituato. Si tratta dell’idea in base alla quale l’uomo è pensato come ontologicamente separato dall’animale e, proprio per questo, autorizzato ad assoggettarlo e ad usarlo. La scoperta della possibilità stessa dell’ibridazione in questo senso mette in evidenza per certi versi che quella che per almeno due millenni è stata per noi una certezza, quando non addirittura una decisione divina, è in realtà una costruzione culturale. L’ibrido di uomo e animale turba e inquieta, in altri termini, perché mette in evidenza e rende comuni e diffuse idee – come quelle della parentela fra l’uomo e l’animale – che se erano già state praticate in ambiti settoriali, come l’evoluzionismo o più in generale la biologia contemporanea, non erano comunque mai assurte al rango di credenza popolare. Ecco dunque perché Plutarco si può permettere – per mezzo di Talete – di farci sorridere: perché forse sa già quello che tutti i suoi contemporanei sanno, perché, probabilmente, per il suo pubblico coevo fa parte del senso comune immaginare che da un momento all’altro la natura (o la divinità) possa giocare i suoi scherzi andando contro la sua stessa corrente, laddove invece per noi, abituati a considerarci come a immagine e somiglianza di Dio, risulta angoscioso scoprire che siamo così permeabili alla coniugazione con l’alterità e, in una sola parola, agli eteroriferimenti. Accorgersi di ciò, peraltro, solleva una serie di problemi etici che l’umanesimo e le stesse rivendicazioni umanitarie tendono a rimuovere, in quella che potrebbe essere, come si è visto, una logica analoga a quella del sacrificio. Pensarsi “umani” del resto significa sempre individuare i propri barbari bestiali e ferini, da dominare, da assimilare, da manipolare, da eliminare perfino, o semplicemente da usare per il bene della comunità.49 Scoprirsi invece apparentati con l’animale, o, più in generale, con quella stessa natura che il Dio della Bibbia ci ha autorizzato a soggiogare, fa sì che ci si ponga anche il problema della responsabilità nei confronti di quella che fino a poco tempo prima avevamo pensato come una alterità lontana e disponibile, quando non addirittura ostile. La possibilità dell’ibrido, un po’ come avveniva nel discorso che Plutarco metteva in bocca al maiale Grillo (Bruta animalia ratione uti 990 F 3 ss.), solleva in altri termini il problema dell’umanità dei nonumani (e della ricerca di una nuova idea di collettività).50 49. Cfr. a tale proposito Cozzo 2006, 118 ss., che mostra come le diverse idee di “umanesimo” che hanno preso piede nella storia occidentale sono sempre associate alla connotazione negativa del “non umano”, visto come barbarico e ferino. 50. Su tale problema cfr. le riflessioni di Latour 2007, 5 ss. (che riprende molte delle idee e dei problemi già sollevati in Latour 2000, 59 ss.).

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INDICE DEI PASSI CITATI

Aezio 5, 19, 5; 132 Agatarchide 7, 1-8, 10; 129 Alcmeone di Crotone B 3 DK; 142 Anassagora A 42 DK; 45 Anaxilas fr. 27 Kaibel; 124 Anthologia Palatina 3, 5, 2; 85 Apollodoro 3, 1, 3; 190 3, 1, 3-4; 190 3, 14, 1-2; 78 3, 14, 5-6; 78 Epit. 1, 20; 92 Apostolio 10, 75 Leutsch; 124 Appiano BC 2, 14, 99; 109 BC 2, 7; 170 Aristofane Ach. 849; 75 Av. 227-262; 45 Aristofane di Bisanzio Epit. 1, 1, 1 ss.; 64 Epit. 1, 155, 2, 3; 64 Epit. 2, 68; 64 Aristotele APo. 89 b 32; 37 APo. 90 a 35 ss.; 49 APo. 92 b 7; 37 APo. 93 b 35 ss.; 51 APr. 24 b 18 ss.; 49 APr. 46 a 31 ss.; 49 APr. 49 a 24; 37 EN 1116 b 23-1117 a 2; 88-89 EN 1162 a 16-22; 89-90 GA 715 a 25; 136

GA 721 b 6 ss.; 132 GA 722 b 6 ss.; 147 GA 722 b 17 ss.; 146 GA 722 b 22-23; 147 GA 722 b 23-24; 132; 147 GA 746 a 29; 126; 127 GA 746 a 29 ss.; 74; 111; 126; 151 GA 746 a 29-746 b 11; 126 GA 746 a 34 s.; 112 GA 746 b 12-15; 127 GA 746 b 15 ss.; 91; 125 GA 747 a 23 ss.; 91; 142 GA 747 b 27-748 a 8; 127 GA 748 a 7-8; 127 GA 748 b 20 ss.; 127 GA 749 b 17; 61 GA 759 b 20 s.; 73 GA 763 b 20 ss.; 133 GA 767 b 8 ss.; 134 GA 769 b 11-13; 133 GA 769 b 13 ss.; 133 GA 769 b 13-25; 128 GA 769 b 30 ss.; 132 GA 770 b 24 ss.; 132 GA 776 a 26-776 b 21; 115 GA 781 b 23; 61 HA 486 a 5- 487 a 1; 35; 55 HA 486 a 5 ss.; 55; 58 HA 487 a 10 s.; 35 HA 487 b 9; 61 HA 487 b 23 ss.; 61 HA 490 a 5-8; 61 HA 492 a 25 s.; 61 HA 498 a 31 s.; 61 HA 499 a 13-30; 53-54 HA 499 a 28-30; 55 HA 501 a 22; 61 HA 501 a 8-501 b 1; 123 HA 502 b 28-503 a 15; 52 HA 539 a 6-8; 87 HA 548 a 28 ss.; 61

239

HA 566 b 27; 61 HA 580 b 1-6; 73 HA 594 b 28-30; 61 HA 606 b 17 ss.; 74; 111; 151 HA 606 b 17-21; 124 HA 606 b 22-25; 125 HA 607 a 2 s.; 111 HA 607 a 2 ss.; 111 HA 619 a 8 ss.; 74 HA 619 a 8-11; 77 HA 629 b 8 s.; 101 HA 630 b 31-631 a 1; 56 IA 714 b 10 ss.; 61 Metaph. 1036 b 28 ss.; 58 Metaph. 1036 b 28-32; 58 Metaph. 1039 a 24 ss.; 49 Metaph. 1042 a 11 ss.; 49 Metaph. 1069 a 26 ss.; 49 Metaph. 988 b 31; 73 Metaph. 988 b 33; 72 PA 639 a 29 ss.; 49 PA 640 b 29-641 a 32; 56-57 PA 642 b 4 ss.; 49 PA 644 a 29 s.; 50; 62 PA 681 a 11; 61 PA 697 b 1 ss.; 61 PA 697 b 14 ss.; 61 Ph. 198 b 10 ss.; 133 Ph. 198 b 33 ss.; 136 Ph. 208 a 27-31; 37-38 Pol. 1253 a 19 ss.; 134 Pol. 1254 b 10-14; 134 Pr. 898 b 4-5; 73 Rh. 1378 b 8 s.; 56 Rh. 1391 a 17-19; 79 Rh. 1401b 24; 79 Rh. 1416 a 24; 79 Top. 122 b 25 ss.; 49 Top. 143 b 11-32; 49 Asconio Pediano tog. cand. 73 Clark; 166 tog. cand. 73-74 Clark; 166-167 tog. cand. 75 Clark; 167 tog. cand. 77-78 Clark; 167 tog. cand. 80 e 78 Clark; 168 tog. cand. 82 Clark; 168 Ateneo 2, 63 c; 62

240

3, 105 d; 62 7, 312 b; 62 7, 314 b-c; 62 7, 317 f; 62 9, 387 b; 62 Aulo Gellio 12, 1, 14; 115 12, 1, 17-20; 116 Bellum Africum 19, 3; 178 Cassio Dione 37, 30; 169 37, 32, 1-3; 169 37, 39; 169 37, 39, 2- 40, 2; 170-171 37, 40; 170 Catone agr. 40; 84; 97 agr. 40-42; 97 Catullo 67, 29 s.; 85 Celio Orat. Rom. Frag. 17, p. 483 Malcovati; 173 Censorino 4, 7; 136 Cicerone Att. 1, 12, 1; 171 Att. 12, 1, 2; 173 Catil. 3, 14; 169 de orat. 1, 117; 176 div. 1, 36; 127 div. 2, 49; 127 nat. deor. 1, 88; 39-40 nat. deor. 2, 160; 173 nat. deor. 3, 15; 40 nat. deor. 3, 81; 176 off. 1, 11; 103 off. 1, 54; 89 off. 3, 35; 104 Phil. 3, 16; 172 Phil. 6, 11; 172 S. Rosc. 103; 172 Sest. 8; 169 Sest. 12; 169-170 Sest. 101; 97

Indice dei passi citati

tog. cand. 7-8; 167 tog. cand. 9-10; 168 tog. cand. 20; 168 Tusc. 2, 20, 19; 95 Verr. 2, 4, 57; 172 Clemente Alessandrino Strom. 7, 34; 173 Columella 10, 1, 1, 427; 95 7, 2, 4; 114 Ctesia FGrHist 688 F. 45, 10; 154 FGrHist 688 F. 45, 15; 123 FGrHist 688 F 45, 26; 41 Curzio Rufo 8, 9, 12-13; 42 9, 1, 11; 42 Democrito A 116 DK; 44 A 149 DK; 142 A 151 DK; 75; 142 B 164 DK; 44 B 165 DK; 35 Demostene 60, 4; 78 Diodoro Siculo 2, 35, 3 ss.; 42 2, 50, 2-3; 121-122 3, 2, 1; 42 3, 3, 1 ss.; 42 3, 35, 1 ss.; 42 4, 69, 4-5; 92 17, 91, 8-92; 112 Diogene di Apollonia B 5 DK; 45 Diogene Laerzio 5, 49-50; 62 Diogeniano 6, 11 Leutsch; 124 Eliano praef.; 66 NA 4, 1; 66 NA 4, 21; 123 NA 4, 27; 41 NA 4, 34; 101 NA 6, 59; 65

Indice dei passi citati

NA 8, 1; 112; 113 NA 12, 16; 75; 76; 98 NA 13, 21; 123; 156 NA 16, 29; 148 NA 17, 9; 19; 148-150 Epilog.; 66 Empedocle A 72 DK; 132 B 57 DK; 147 B 59 DK; 44; 132; 146; 148 B 60 DK; 132 B 61 DK; 44; 132; 146; 148 B 62 DK; 132 B 65 DK; 132 B 67 DK; 132 B 71, 4 DK; 132 B 92 DK; 142 Epicuro fr. 310; 35 Erodoto 1, 91; 74 1, 91, 5-6; 86 2, 68; 35-36 3, 50-53; 157 3, 98 ss.; 42; 56 3, 103; 53 3, 104, 2-3; 42 3, 113, 1; 54 3, 116; 41 3, 151 ss.; 127 7, 83, 2; 55 7, 125; 55 9, 81, 2; 55 Eschilo A. 1258 s.; 105 Pr. 804 ss.; 41 Eschine In Ctesiphontem 111; 135 Esiodo Th. 116 ss.; 136 Th. 270-336; 92 Eugenio di Toledo 42, 1-7 (Mon. Germ. Script. Ant. XIV, p. 258); 95; 165 Euripide fr. 360 Nauck, 5-13; 78 fr. 996, 1 Nauck; 74 Hec. 365 s.; 85

241

Hel. 48; 85 Hipp. 1266; 85 Or. 575; 85 Or. 1554 s.; 101 Tr. 142; 119 Eutropio 6, 15; 170 Favorino fr. 38 Barigazzi; 115; 116 Fedro 3, 3, 1-17; 15 Festo p. 30 Lindsay; 96; 151; 163 Filocle FGrHist 328 F 1; 129 Filostrato VA 3, 45; 41 VA 3, 48; 41-42 VA 6, 1; 41 Floro 2, 11; 154 Fozio Bibl. 45b 31-46 a 12 Henry; 123 Galeno De optima secta ad Thrasybulum 1, 110, 11-14 K; 140 De placitis Hippocratis et Platonis 5, 356, 16-357, 7 K; 140 De semine 4, 515, 4 ss. K; 85 De semine 4, 603, 15 s. K; 74 De semine 4, 603, 15-604, 9 K; 125 De usu partium 3, 168, 1 ss. K: 143 De usu partium 3, 168, 1-169, 3 K; 140 De usu partium 3, 169, 13-15; 140 De usu partium 3, 170, 10-12 K; 142 De usu partium 3, 170, 12-15 K; 142 De usu partium 3, 171, 3-172, 10 K; 20 De usu partium 3, 171, 6- 172, 12 K; 141

242

In Hippocratis Aphorismos Commentarii 17 B 532, 6-8 K; 33; 140 Isagoge seu Medicus, 14, 675, 1 s. K; 140 Genesi 30, 25-43; 159 36, 24; 98 Gerolamo quaest. hebr. in gen. 30, 33; 159 quaest. hebr. in gen. 37-40; 159 Giulio Ossequente 14; 178 61; 170 Gregorio di Cipro 2, 60 Leutsch; 124 Ippocrate Aër 2, 53-56 L; 124 Aër. 2, 59-60 L; 132 Genit.7, 474 L; 132 Genit. 7, 479-480 L; 132 Morb. 7, 542 L; 132 Morb. Sacr. 6, 364 L; 132 Morb. Sacr. 6, 386 L; 84 Isidoro di Siviglia Orig. 12, 1, 56; 96 Orig. 12, 1, 58; 98 Orig. 12, 1, 58-60; 158 Orig. 12, 1, 61; 95; 164 Orig. 12, 2, 11; 151 Isocrate 4, 24-25; 78 Lisia 2, 17-18; 78 Lucano 4, 62-67; 42 Luciano Alex. 12 ss.; 155 DDeor. 8, 2; 79; 86 DDeor. 8, 2, 1; 79-80 DDeor. 8, 2, 2; 80 DDeor. 8, 2, 4; 81 VH 1, 11; 41 Lucrezio 1, 865; 95 1, 872; 95

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1, 874; 95 2, 700 ss.; 136; 137 4, 722 ss.; 137 4, 724 ss.; 142 4, 724-743; 137-138 5, 826 ss.; 136 5, 837 ss.; 152 5, 849 ss.; 136 5, 878; 135 5, 878 ss.; 136 5, 878-880; 135 5, 879-880; 138 5, 880; 95 5, 883-889; 139 5, 890 s.; 138 5, 897; 139 5, 898; 139 5, 899-906; 139; 141 5, 907-924; 136-137

Macrobio Sat. 3, 13, 13; 171 Marziale 8, 22, 1-2; 174; 182 Mulomedicina Chironis 8, 744 ss.; 177

Omero Il. 3, 23; 103 Il. 5, 161; 103 Il. 10, 485; 103 Il. 11, 113; 103 Od. 12, 124; 92 Orazio carm. 2, 20, 1 ss.; 95 epist. 2, 1, 194-196; 122 sat. 1, 7, 4-8; 179 sat. 1, 7, 9-15; 179-180 sat. 1, 7, 12; 179 sat. 1, 7, 22-31; 180 sat. 1, 7, 32-35; 181 Ovidio fast. 1, 89; 95 Palefato praef.; 128; 147

Indice dei passi citati

1; 92; 129 2; 129-130; 189 Pausania 9, 20, 4 ss.; 123; 156 9, 21, 4; 123 9, 21, 5-6; 39 9, 21, 6; 39 Pindaro P. 2, 21 ss.; 92 P. 2, 44 ss.; 92 Platone Mx. 237 b-d; 78 Phd. 71 b 9; 73 Plt. 261 d 1 ss.; 48 Plt. 265 d 9 ss.; 51 Plt. 265 d 9-10; 71 Plt. 265 d 12- 265 e 5; 72 Phdr. 265 d - 266 b; 48 Phdr. 265 d 3 ss.; 48 Plt. 265 d 9 s.; 51 Plt. 265 d 9-10; 71 Plt. 265 e 4; 130 Prt. 320 d ss.; 46 Prt. 321 d 1; 46 Smp. 189d-193d; 141 Sph. 220 a 7 ss.; 48 Ti. 39 e 10-40 a 2; 46 Ti. 77 b 2; 47 Ti. 90 e ss.; 47 Ti. 91 e-92 a; 87 Plauto Amph. 1043; 107 Amph. 1131-1143; 107 Plinio il Vecchio nat. pr. 11; 163 nat. 1, 8a, 45; 163 nat. 1, 8a, 58; 164 nat. 1, 8a, 109; 164 nat. 1, 9a, 20; 164 nat. 1, 9a, 30; 164 nat. 1, 9a, 53; 164 nat. 1, 9a, 70; 164 nat. 1, 9a, 87; 164 nat. 1, 9a, 90; 164 nat. 1, 9a, 120; 164 nat. 2, 91; 152 nat. 2, 150; 152 nat. 2, 220; 152

243

nat. 3, 39; 187 nat. 4, 65 s.; 152 nat. 4, 70; 152 nat. 5, 7; 156 nat. 5, 44; 124 nat. 5, 135; 152 nat. 6, 197; 124 nat. 7, 10; 41 nat. 7, 15; 152 nat. 7, 21 ss.; 42 nat. 7, 22 ss.; 187 nat. 7, 27; 152 nat. 7, 35; 123; 152; 155 nat. 7, 192; 152 nat. 7, 195; 152 nat. 7, 197; 152 nat. 7, 208; 152 nat. 8, 3; 94 nat. 8, 27; 163 nat. 8, 30; 163 nat. 8, 32; 42 nat. 8, 35; 42 nat. 8, 38; 164 nat. 8, 42; 99; 106; 114; 151; 163 nat. 8, 44; 152-153 nat. 8, 48; 101; 102 nat. 8, 49; 103 nat. 8, 50; 103 nat. 8, 55; 104 nat. 8, 63; 151 nat. 8, 67 s.; 36 nat. 8, 69; 42 nat. 8, 69-70; 156 nat. 8, 72; 124; 156 nat. 8, 72 ss.; 42 nat. 8, 75; 123 nat. 8, 80 ss.; 155 nat. 8, 101; 123 nat. 8, 105; 152 nat. 8, 107; 42 nat. 8, 131; 42 nat. 8, 148; 110-111; 112 nat. 8, 148-149; 154 nat. 8, 149; 111 nat. 8, 149-150; 112 nat. 8, 171; 97; 113; 114; 119 nat. 8, 171 ss.; 177 nat. 8, 173; 91; 127

244

nat. 8, 174; 113 nat. 8, 199; 42 nat. 8, 207; 173 nat. 8, 213; 162; 163; 166; 186 nat. 8, 215; 164 nat. 8, 216; 42 nat. 8, 229; 152 nat. 9, 1; 163 nat. 9, 4-5; 42 nat. 9, 5; 154 nat. 9, 9; 123 nat. 9, 11; 66 nat. 9, 16; 152 nat. 9, 57; 163 nat. 9, 76; 152 nat. 9, 78 s.; 152 nat. 9, 89; 66 nat. 9, 92-3; 66 nat. 10, 1; 42 nat. 10, 3; 42 nat. 10, 5; 66 nat. 10, 8; 77 nat. 10, 11-12; 91 nat. 10, 32; 152 nat. 10, 74; 42 nat. 10, 187; 152 nat. 11, 266; 152 nat. 11, 273; 152 nat. 12, 17; 42 nat. 12, 101; 42 nat. 13, 43; 42 nat. 18, 335; 152 nat. 32, 143; 42; 68 Plutarco Bruta animalia ratione uti 990 F 3-991 A 8; 156-157 Bruta animalia ratione uti 990 F 3 ss.; 212 Caes. 22; 103 Cat. Ma. 20, 5; 115 Cat. Mi. 25, 4; 84 Cat. Mi. 25, 5; 110 Cat. Mi. 25, 6; 109-110 Cat. Mi. 51; 103 Cic. 12; 169 Cic. 12, 4; 173 Cic. 22; 170 Comp. Lyc. Num. 3, 1-3; 109

Indice dei passi citati

De curiositate 520 C; 74; 156 De sollertia animalium 962 B; 91 De sollertia animalium 969 B 6 ss.; 65 De vitando aere alieno 830 D 13 ss.; 157 Lyc. 15 ss.; 109 Per. 6, 1-5; 157 Septem Sapientium Convivium 149 C 14-D 3; 14-15 Septem Sapientium Convivium 149 E 5-8; 15 Septem Sapientium Convivium 149 E 9-11; 16 Septem Sapientium Convivium 149 E ss.; 157 Pomponio Mela 3, 85 ss.; 42 Porfirio Abst. 3, 6; 65 Porfirione in Hor. sat. 1, 7, 1; 179 Pseudo Airone in Hor. sat. 1, 7, 1; 178 Pseudo Apuleio Physiogn. 14; 174 Physiogn. 17; 174 Physiogn. 18; 174 Physiogn. 46; 118 Physiogn. 48; 118; 174 Physiogn. 53; 174 Physiogn. 76; 118 Physiogn. 83; 118 Physiogn. 104; 174-175 Physiogn. 118-119; 117 Pseudo Aristotele Phgn. 806 b 9 s.; 100 Phgn. 808 b 36; 174 Phgn. 808 b 36 s.; 118 Phgn. 809 a 28-39; 105 Phgn. 809 b 14-36; 100 Phgn. 809 b 36; 101 Phgn. 810 b 5; 100 Phgn. 810 b 32 s.; 118 Phgn. 811 a 15; 100 Phgn. 811 a 20 s.; 100 Phgn. 811 a 26; 118 Phgn. 811 a 30; 174

Indice dei passi citati

Phgn. 811 a 33; 100 Phgn. 811 b 6 s.; 118 Phgn. 811 b 10; 118 Phgn. 811 b 24; 118 Phgn. 811 b 29; 174 Phgn. 811 b 31; 118 Phgn. 811 b 35; 100 Phgn. 812 a 8; 118 Phgn. 812 b 6; 100 Phgn. 812 b 27 s.; 174 Phgn. 813 a 31 s.; 118 Pseudo Plutarco Parell. Min. 311 A-B; 199 Perì eugeneias 19; 112 Quintiliano 3, 5, 11; 110 4, 2, 123-4; 173 5, 10, 30-1; 172 10, 5, 13; 110 Quinto Cicerone 8-9; 173 Rhetorica ad Herennium 4, 42, 20; 171 Sallustio Catil. 56 ss.: 170 Catil. 59, 4: 170 Iug. 18; 188 Schol. Hor. sat. 1, 7, 1; 179 Scholia Bobiensia P. 229; 170 Semonide fr. 7 West; 67; 87 fr. 7 West, 57; 87 fr. 7 West, 57 ss.; 118 Seneca Ag. 739 s.; 106 clem. 1, 5, 5; 103 Herc. f. 1 ss.; 108 Herc. f. 440-447; 107-108 nat. 5, 18, 2; 42 Phaedr. 1172; 95 Tro. 410; 119 Seneca il Vecchio contr. 2, 1, 21; 97

245

Senofonte Cyr. 4, 3, 17; 144 Cyr. 4, 3, 17 ss.; 141; 200 Cyr. 4, 3, 18; 144 Cyr. 4, 3, 19-20; 144 Mem. 1, 4, 11-12; 140 Servio in Aen. 6, 286; 92 in Aen. 7, 273; 93 Sesto Empirico M. VII, 267; 35 P. 1, 69; 65 Solino 15, 22; 41 30, 14; 42 52, 1 ss.; 42 Strabone 2, 1, 30; 34; 55 2, 5, 33; 42 2, 3, 7; 187 15, 1, 20; 42 15, 1, 24; 42 15, 1, 25; 42 15, 1, 30; 112 17, 1, 3; 42 Suda Lex. s. v. Palaiphatos; 128 Svetonio Aug. 19,1; 178 Tib. 70; 155

Teognide 993 ss.; 87 Tito Livio 1, 8, 5-7; 185 4, 1, 1 ss.; 185 Per. 103; 170 Tucidide 1, 21; 129 2, 36, 1; 78 Valerio Massimo 2, 8, 7; 170 8, 6, 4; 176; 177 9, 7, 1; 97 9, 15, 1-2; 97 Varrone Catus de liberis educandis fr. 8 Riese; 115 rust. 2, 4, 10; 173 rust. 2, 8, 1; 95 rust. 2, 8, 2; 97; 114; 117 rust. 2, 8, 2 ss.; 177 rust. 2, 8, 6; 113 Virgilio Aen. 6, 25; 95 Aen. 6, 286; 95 Aen. 9, 339; 103 Zenobio 2, 51 Leutsch; 124

Tacito ann. 11, 23-25; 185

246

Indice dei passi citati

INDICE DEI NOMI E DEGLI AUTORI MODERNI CITATI

Adams, J. N., 185 Aleykhem, S., 189 Althoff, J., 59 Angelini, A., 98 Arnold, M. L., 142, 155, 195, 201 Atran, S., 27, 28, 29, 30, 34, 35, 43, 50, 63 Balaudé, J. F., 131 Ballabriga, A., 42 Balme, D. M., 51, 132 Barney, M., 16, 17, 18 Bartman, E., 75 Battaglia, L., 76, 130 Beagon, M., 67, 103, 152, 154 Beltrami, L., 84, 97, 103, 176 Berlin, B., 27, 29, 30, 31, 59 Bernardi Perini, G., 179, 181 Berti, E., 27 Bettini, M., 31, 33, 84, 85, 86, 89, 97, 106, 168, 192 Blisset, L., 20 Bodéüs, R., 88, 131 Bodson, L., 35, 36, 37, 67, 114, 155, 163 Bonnet-Cadilhac, C., 81, 85, 142 Borca, F., 38, 124, 187, 194 Bottero, J., 84 Bottin, L., 124 Brancacci, A., 140 Breedlove, D., 28, 29 Brittain, C., 27 Buffon, G. L. L., 91 Butler, J., 206 Calame, C., 130 Cambiano, G., 26 Camerotto, A., 174 Campanini, C., 103 Campese, S., 79, 81, 131, 134, 135, 178

Canfora, L., 103 Cantarella, E., 83, 109 Carbone, A., 49, 57, 58, 59 Carcopino, J., 171, 172, 173 Cardona, G. R., 26, 29, 33, 43 Carena, C., 179 Cavalli Sforza, F., 203 Cavalli Sforza, L., 203 Cavarero, A., 168 Chantraine, P., 83 Ciani, M. G., 190 Citroni Marchetti, S., 67 Coetzee, J. M., 25, 71 Cohen, D., 83, 84 Coley, J. D., 27 Conte, G. B., 94, 187 Cooper, J. M., 50, 81, 134 Corbier , M., 115 Cordiano, G., 121 Corsi, S., 173 Cortellazzo, M., 162 Cortellazzo, M. A., 162 Cozzo, A., 149, 212 Dal Lago, A., 161 Danese, R., 115, 116 Deep Purple, 93 Del Corno, D., 65, 91 Delcourt, M., 134, 178 Deleuze, G., 189 Dierauer, U., 65 Douglas, A. E., 185 Dover, K., 83 duBois, P., 60, 87, 146 Dusi, E., 203, 204, 219 Ebbesen, S., 37 Eco, U., 28, 34, 54 Engelhardt, H. T., 21 Ernout, A., 136 Esposito, R., 194, 195 247

Farinelli, F., 56 Fedeli, P., 178, 179 Feliks, J., 98 Ferrara, G., 169 Ferrari, F., 144 Festa, N., 128 Flach, D., 185 Franceschini, E., 198, 204, 206 Franco, C., 18, 33, 76, 174 French, R., 121, 153 Frontisi, F., 33 Furth, M., 50 Galimberti. U., 199, 201, 205, 209 Gallavotti, C., 146 Giancotti, F., 136, 137 Giannantoni, G., 146, 147 Giannarelli, E., 94 Giannini, A., 64 Giongo, P., 20 Gisotti, R., 197 Giussani, C., 169 Good, B., 22 Granatelli, R., 110 Granger, H., 135 Gregoric, P., 27 Grimaudo, S., 81, 132, 142 Gruen, E. S., 176 Guasparri, A., 28, 29, 30, 31, 59 Guastella, G., 18, 84, 85, 105, 185 Gundel, H., 176 Hadot, P., 33, 68 Haraway, D., 16 Heller, A., 198 Héritier, F., 81, 116, 133, 134 Hunn, E. S., 27 Iacona, R., 201 Iannotta, G., 48 Innocenzi, G., 202 Isler-Kerényi, C., 75 Jacob, C., 34, 42, 56, 65 Jaeger, W., 153 Jethro Tull, 208 Johnston, S., 83

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Jonas, H., 21 Jouanna, J., 33 Kilani, M., 130 Klebs, 166, 167 Kluckhohn, C., 21, 77 Kovacic, F., 33 L’Allier, L., 141, 145 Labarrière, J. L., 56, 61, 65 Lanata, G., 67, 87, 140 Lang, H. S., 147 Lanza, D., 111, 127 Latour, B., 198, 212 Laurenti, R., 146 Lecaldano, E., 211 Lee, D., 16, 17, 19 Lesky, E., 81, 132, 134 Lévi-Strauss, C., 131 Li Causi, P., 22, 31, 32, 37, 38, 40, 42, 52, 58, 61, 66, 67, 68, 74, 76, 106, 108, 109, 110, 123, 125, 143, 153, 155, 163, 187, 188 Lloyd, G. E. R., 51, 61, 143 Lo Cascio, F., 15, 157 López, A., 27 Loraux, N., 78, 185 Lovejoy, O., 60 Magini, D., 65, 91 Manchi, A., 48 Manuli, P., 81, 132 Marchesini, R., 15, 16, 17, 19, 20, 21, 46, 100, 101, 155, 163, 191, 192, 193, 198, 200, 211 Masotti, G., 196 Maspero, F., 156 Massive Attack, 189 Matthews, V. J., 172 Mauro, L., 27 Mayor, A., 41, 123, 152, 155 Mazzolini, R. G., 91, 162, 194, 195 Mc Kibben, B., 198, 200, 207, 208 Medin, D. L., 27 Mencacci, F., 84, 85 Mervis, C. B., 27 Midgley, M., 76 Miéville, C., 121

Indice dei nomi e degli autori moderni citati

Minelli, A, 201 Minger, S., 202, 203, 204, 205, 207, 209, 210 Mirto, M. S., 108 Moatti, C., 185, 188 Montanari, E., 122 Moraux, Ph., 33 Moriconi, T., 203, 204 Mura, V., 188 Murphy, G. L., 27 Naas, V., 67, 153, 154, 187 Nicolet, C., 188 Norcio, G., 169 Novelli, G., 203 Obbink, D., 27 Ogden, D., 77, 78, 79, 81, 109 Olmi, G., 159, 208 Oniga, R., 38, 107, 186, 188 Oppenheim, A. L., 84 P. G3. R., 71 Pani, M., 188 Papitto, D., 48 Parker, R., 63, 85 Patterson, C., 83, 84 Pellegrin, P., 32, 50, 51, 55, 62 Penny Small, J., 42 Picone, G., 31 Picone, M., 56 Pietrasik, K., 19 Pinkola Estés, C., 135 Pinotti, P., 47, 84, 87, 189, 191, 210 Pomata, G., 81 Pomelli, R., 42, 112 Pomeroy, S. B., 84 Pritzl, K., 27 Pucci, P., 48 Puccioni, G., 167 Quarles, M., 200 Raina, G. P., 99, 100, 101, 118, 175 Ranucci, G., 187 Raven, P., 28, 29 Remotti, F., 21, 77, 78 Riess, W., 185

Indice dei nomi e degli autori moderni citati

Rifkin, J., 207 Rivera, A., 130 Robin, L., 136 Rocca, S., 65 Rodotà, S., 201, 207 Romani, S., 82, 106, 108 Romano, E., 26, 40, 66, 67, 123 Romeyer Dherbey, G., 128 Romm, J. S., 35, 121, 153 Rosch, E., 27 Rossi, E., 108 Sabatino, S., 197 Salisbury, J. E., 159 Sandbach , F. H., 27 Santoni, A., 128, 129, 130 Santosuosso, A., 198, 202 Sassi, M. M., 38, 99, 132, 186, 194 Savini, G., 209 Scarpi, P., 190 Schiesaro, A., 136 Schillinger-Haefele, U., 185 Schlegel, C., 179, 181 Schrijvers, P. J., 135 Seager, R., 176 Segal, C., 168 Sgreccia, E., 197, 198, 201, 202 Shelley, M., 191 Sillitti, G., 37, 91, 120 Sini, F., 104 Sissa, G., 81, 115, 132 Smith, E. E., 27 Sorabji, R., 65 Sperber, D., 29, 31, 61, 78, 94, 119, 190 Stein, 92 Steiner, G., 16 Stelarc, 21 Stern, J., 128 Striker, G., 149 Tapper, R. L., 101 Thom, R., 54 Todisco, E., 188 Tondo, I., 15 Tonutti, S., 46, 162 Traglia, A., 95 Turney, J., 191

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Tutrone, F., 65, 135 Valastro Canale, A., 159 Valastro, A., 16 Vegetti, M., 62, 111, 127, 198 Vergine, L., 17 Vernant, J. P., 33 Verzotti, G., 17 Vescovi, A., 204 Veyne, P., 129, 140 Viano, C. A., 51 Voisenet, J., 159 Warren, M., 163, 165 Waser, O., 92 Wellmann, M., 66

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Wells, H. G., 19 West, M., 200 Wild, M., 90 Wilgaux, J., 85 Wolff, F., 44, 131 Wordsworth, W., 13 Zinato, A., 157 Zingarelli, N., 26 Zorat, M., 121 Zolli, P., 162 Zuccotti, F., 104 Zucker, A., 26, 31, 32, 37, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 55, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 78, 99, 184

Indice dei nomi e degli autori moderni citati

INDICE DEGLI ARGOMENTI E DELLE COSE NOTEVOLI

Adulterazione (v. contaminazione) “Adulterio”, 22, 75-86, 88-90, 92, 97, 98, 105-110, 130, 157, 168, 191 Adulterium (v. “adulterio”) Affordance, 89, 94, 101, 183 Africa, 40, 124, 151, 152 Akoé, 33, 36, 40, 150 Alienigena, 95 Alieutica, 63 Alzheimer, 14, 201, 203, 204, 206, 209 Ambigenus, 95 Androgino, 141 Angelo-razza, 126 Animale mosaico, 20, 85, 192 Animali esotici, 35, 76, 155, 156 Animali perfetti, 78 Antropocentrismo, 201, 210 Antropomorfismo, 101 Antropopoiesi, 129, 130, 134, 154, 157, 161 Aquila, 74, 77, 78, 79, 82, 91 Aquila gnesios, 74, 77 Ariete, 164, 165 Asino, 17, 25, 53, 72, 73, 75, 76, 87, 89, 96, 98, 113-119, 120, 125, 127, 142, 148, 149, 157, 164, 165, 175, 201, 210 Aspide egiziano, 39 Aspide libico, 39 Autoctonia, 78, 136, 184-185, 188 Bardotto, 95, 96, 164, 165 Bastardi, 77, 78, 79, 93, 94 Bestialità (v. zoorastia) Biasmos (v. violenza) Biformatus, 95 Biformis, 95, 122 Bigener, 94-97, 162, 164, 165 Biologia evoluzionistica dello sviluppo, 201

Biopolitica, 195, 198, 210 Biotecnologie, 16, 155, 192, 198 Bramani, 41 Camelopardo, 123, 156 Cammello, 36, 53, 54, 55, 56, 121, 122, 164 Cane, 28, 29, 53, 65, 74, 110, 111, 112, 113, 120, 126, 128, 138, 140, 142, 157, 165, 179, 183 Cane-lupo, 110, 111 Cani-tigre, 74, 110-113, 154 Capra, 79, 80, 128, 164, 165, 174, 175 Caprone, 127, 135, 164, 165 Cavallo, 14, 15, 17, 25, 53, 72, 73, 75, 76, 87, 88, 96, 97, 98, 113119, 120, 125, 127, 129, 138, 139, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 156, 157, 159, 164, 165, 175, 200, 201, 210 Cellule staminali, 14, 196, 201, 202, 203, 205 Centauri, 17, 18, 19, 20, 37, 91, 92, 95, 121, 123, 124-157, 158, 200 Cerbero, 138 Cervo, 112, 140 Chama, 156 Chimera, 139, 192 Chimere, 14, 15, 17, 19, 20, 132, 192, 195, 196, 202, 203, 204, 206 Chirurgia plastica, 19 Cibridi, 20, 203, 204, 209 Cicur, 163 Cinegetica, 63 Cinghiale, 23, 112, 163, 164, 165, 166, 172, 174, 178, 182, 183, 184 Classemi, 51, 52, 63, 64, 74, 90, 96, 165, 179

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Classificazione, 27-30, 31, 32, 45, 49, 50, 51, 52, 55, 59, 61, 63, 67, 74, 78, 87 Classificazione assiologica dei viventi, 59-61, 69, 131, 198 Coccodrillo, 35, 36, 38, 52 Cognomen, 23, 166, 171, 172, 174, 176, 177, 185 Communis opinio, 27 Confine fra l’umano e l’animale, 16, 17, 131, 193 Contaminazione, 14, 84, 85, 90, 98, 105, 106, 108, 109, 110, 113, 114, 119, 120, 188, 194, 201, 211 Contesto paradigmatico, 38 Contesto sintagmatico, 38 Creazionismo, 201 Dedalo, 189, 191, 192, 193 Democrazia, 207, 208 Determinismo climatico-ambientale, 38-39 Diairhesis, 48, 71 Diaphorai (o “differenze”), 32, 50, 51, 59, 65 Dibattito sull’intelligenza degli animali, 65 Dicotomia, 46, 48, 49, 51, 71 Dietetica, 63 Differenza antropologica, 90 Diphyes, 122 Discorsi in utramque partem, 110 Distinzione fra spazio e luogo, 56 DNA, 14, 33, 126, 204 Donna, 15, 47, 75, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 89, 92, 93, 102, 103, 106, 108, 109, 115, 116, 120, 129, 133-135, 142, 156, 158-159, 190, 203, 204, 207, 210 Dorze, 29 Dualizers (v. ibridi classificatori) Egipani, 156, 199 Egitto, 124, 155 Eidos, 37, 38, 50-51, 55, 72, 73, 74 Elefante, 40, 41, 64, 94 Elefante bianco, 122

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Emiono della Siria (o “mulo della Siria”), 73 Enciclopedia, 54, 67, 96 Endogamia vera, 131 Endoxa, 27 Enfatizzazione prospettica, 46, 66 Epidemiologia delle rappresentazioni, 30-31, 123, 190 Epoché, 149 Eschatiai tes oikoumenes, 35, 124, 126 Essenza (v. ousia) Etiopia, 29, 39, 42, 124 Etnocentrismo, 22, 188, 194 Etnoscienza, 26, 43 Eugenetica, 21, 80, 86, 106-113, 114, 117, 120 Fascismo, 193-195 Fauno, 40 Fecondazione artificiale, 13, 202 Fertilità degli ibridi, 127 Fisicismo (v. misticismo della natura) Fisiognomica, 99, 100, 101, 103, 105, 117, 128, 174 Fissità delle specie, 135, 136 Foca, 61 Forma, 37 Formiche giganti, 42, 56 Frankenstein, 191, 196, 197, 198, 202, 205, 207 Gastronomia, 63, 183 Generositas, 99, 102, 103, 104, 105, 113, 119 Genos, 37, 50, 51, 55, 72, 73, 77, 86, 90, 126, 130 Genus, 31, 37, 67, 96, 98, 102, 113, 119, 122, 133, 138, 139, 163164, 174, 175, 186 Giano, 95 Giuridificazione della vita, 207 Golem, 191 Grifoni, 41, 42, 154 Homunculus, 191 Human Fertilisation and Embriology Authority, 204, 206

Indice degli argomenti e delle cose notevoli

Hybrida, 23, 93, 162-166, 171, 172, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 182, 183, 184, 185, 186, 188 Hybris, 163, 191 Iber, 163 Ibridi classificatori, 61 Ibridi di cane e di volpe, 74 Ibridi mostruosi del mito, 95, 147 Ibrido uomo-agnello, 15 Ibrido uomo-cavallo, 14 Ibrido uomo-coniglio, 14 Ibrido uomo-mucca, 14, 16 Ideologia ateniese della generazione, 79 Idiogonia, 71, 72, 73, 130 Image processing, 19 Immunitas, 194 India, 39, 41, 42, 74, 110, 112, 120, 124, 126, 152, 153, 154, 155 Innesto, 94, 97, 98, 117 Insiticius, 93, 94-97 Insitivus, 97 Interscambio simbolico (v. anche simbolismo), 22, 87-90, 105-106, 119, 166 Iologia, 63 Koinai ennoiai, 27 Koinogonia, 71, 72, 73, 130 Krasis, 17, 19, 45, 59, 122, 143, 146, 149, 150 Laboratorio, 15 Legge 40, 195, 201 Leone, 40, 41, 98-106, 112, 118, 119, 121, 123, 139, 174, 184 Leonessa, 99, 105, 106, 120, 151 Leopardo, 98, 104, 105, 106, 119, 121, 151 Lex Varia de maiestate, 176 Libia, 39, 102, 121, 126, 128, 155 Licisca, 165 Lupo, 105, 111, 126, 142, 165 Lustratio (v. rito di purificazione) Maiale, 23, 36, 53, 93, 156, 162, 163, 164, 165, 166, 172, 173,

Indice degli argomenti e delle cose notevoli

174, 175, 178, 183, 184, 186, 212 Manifesto degli scienziati razzisti, 194 Manticora, 41, 42, 76, 123, 154 Margini estremi del mondo (v. eschatiai tes oikoumenes) Medical-imaging, 15, 20 Megista gene, 52 Mercatocrazia, 207 Metempsicosi, 45 Metensomatosi, 45 Meticcio, 20, 23, 163, 164, 166, 178, 179, 183 Miasma (v. contaminazione) Minosse, 190, 192 Minotauro, 95, 129, 146, 156, 203 Misticismo della natura, 197-198 Mito della donna selvaggia, 135 Mixis, 46, 77, 122, 143, 150 Modelli di cittadinanza, 78, 176, 177, 184-185, 188 Modello 3-D, 34 Moicheia (v. “adulterio”) Moichidios, 79 Monte Atlante, 124 Morbo di Parkinson, 14, 196, 201, 203, 204, 206 Moriologia, 45, 50, 51, 62 Morphé, 38 Morphing, 20 Mos maiorum, 109, 110 Mulo, 17, 71-76, 82, 86, 91, 92, 95, 96, 97, 98, 113-119, 120, 125, 127, 142, 157, 163, 164, 165, 177, 201, 211 Musmo, 164, 165 Nascite gemellari, 84, 107 Nascite prodigiose, 127, 178 Nascite speciali di eroi semidivini, 82, 106-108, 120 Natura, 17, 18, 19, 20, 33, 35, 36, 37, 38, 39, 42, 44, 45, 47, 52, 53, 55, 57, 58, 61, 65, 68, 69, 75, 76, 79, 82, 83, 87, 89, 97, 98, 99, 102, 105, 108, 109, 111, 116, 117, 124, 126, 127, 129, 132,

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136, 137, 138, 140, 141, 142, 144, 146, 147, 148, 149, 150, 152, 153, 154, 156, 157, 158, 159, 178, 185, 191, 192, 193, 195, 197, 198, 201, 210, 211, 212 Natura (v. natura) Natura/cultura, 75, 76, 78, 79, 98, 131, 185, 198 Naturae (v. anche natura), 32, 39, 59, 65, 87, 153 Nereidi, 123, 155 Nothos, 77, 78, 79, 93, 94 Nothus, 93, 94 Omeicho, 83 Omeostasi, 26, 43 Onocentauro, 19, 148-150, 151 Opsis, 33, 36, 53 Ousia, 32, 47, 50, 58, 64, 66, 134 Pan, 79-82, 92, 95, 135 Pangenesi, 132, 147 Paradossografia, 64, 67, 99 Pardalis, 99 Pardo, 99, 102, 105, 151 Partus suppositivus, 97 Pasifae, 82, 135, 189-193 Pecora, 127, 128, 158, 164, 165, 175 Pecora Dolly, 196 Pegaso, 124, 155, 156 Pernice, 66, 126 Physeis, 39, 66, 91 Physis (v. anche natura), 33, 36, 38, 41, 53, 66, 69, 125, 140 Pipistrello, 61, 91 Portogallo, 123 Postmoderno, 17, 193 Postumanesimo, 16, 20, 144, 199 Pre-embrione, 20, 192 Prodigi, 14, 18, 104, 127-128, 133134, 136, 178 Proiettività, 76, 88, 89, 130, 156 Pronominatio, 171 Pseudospeciazione, 177, 186, 194 Purezza, 198 Radio Radicale, 202

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Radio Vaticana, 197, 202, 205, 206 Raeliani, 199 Ranghi etnobiologici, 27-32 Rappresentazioni dell’ibrido nell’arte, 16-20, 149 Razionalizzazione, 81-82, 107,111, 124-128, 128-129, 135-139, 139143, 145, 146, 148, 150, 190, 191 Razzismo, 193-195 Rito di purificazione, 14, 178 Rogatio Canuleia, 185, 194 Rufio, 156 Sanguisughe, 36 Satiri, 18, 75, 76, 95, 124, 155, 156 Scala naturae (v. anche classificazione assiologica dei viventi), 47, 59, 60, 61, 86, 87, 131, 140 Scientismo, 200 Scilla, 92, 95, 138 Scorpioni alati, 39 Scrofa troiana, 171 Selvatico/domestico, 93, 162, 172, 179, 182-183, 184 Seme femminile, 112, 125, 132 Senso comune, 27, 30, 31, 32, 33, 35, 37, 50, 52, 54, 56, 59, 61, 68, 74, 92, 201, 212 Serpenti alati, 39 Serpenti giganti, 41 Sfinge, 156 Simbolismo, 17, 18, 20, 22, 30, 32, 33, 78, 82, 90, 92, 98, 100, 101, 104, 105, 118, 119, 172, 184, 186, 210 Somato-landscape, 15 Sostanza (v. ousia) Sparvieri, 77 Specie, 155, 200 Species, 31, 37, 67 Specismo, 193, 198 Spugna, 61 Sterilità degli ibridi, 91, 125, 127, 142 Stigmatizzazione (e bestializzazione) dell’umano, 23, 162, 184 Struzzocammello, 121

Indice degli argomenti e delle cose notevoli

Stupro (v. violenza) Suscettibilità simboliche (v. anche simbolismo), 30, 64, 75, 101 Synagoge, 48 Tabù della doppia natura, 22, 87, 119-120, 138, 156 Tanagra, 123, 156 Tassonomia (v. anche classificazione), 50, 51, 59, 60, 63, 91, 163 Taxa, 28, 29, 30, 48, 51 Tecnica, 19, 20, 191, 192, 193, 199, 205, 209, 210 Tecnofobia, 15, 197, 208 Teleogonia, 85, 159 Teodicea, 134-135, 157, 178, 197, 199 Teoria dei simulacra, 137, 138, 141 Teoria dell’agglutinamento del seme, 85, 192 Teoria della doppia immissione di sperma, 132 Teoria della generazione automatica della terra, 136 Teoria della lotta fra principio maschile e principio femminile, 134 Teorie della generazione, 71, 72, 73, 74, 79, 81-82, 84, 85, 86, 87, 90, 98, 105, 108, 111, 112, 119, 120, 125-128, 131-135, 138, 139, 142, 147, 151-152, 158-159, 177, 183, 191-192 Teorie della lattazione, 113-119, 120

Indice degli argomenti e delle cose notevoli

Teras (v. prodigi) Teratodes (v. prodigi) Tessaglia, 123, 152, 155 TG1, 14, 196, 202, 211 Thauma, 36 Tigre, 42, 111, 112, 113, 121 Titiro, 164, 165 Topos, 37, 40, 52, 55 Toro, 130, 135, 189, 190, 192 Toro marino, 95 Totemismo, 30 Totipotenzialità, 20, 155, 192 Transfert (v. proiettività) Transumanesimo, 207 Tritone, 123, 155, 156 Trochilo, 36, 38 Unipotenzialità, 20 Uomo-mucca, 146, 196 Urina, 83, 84, 85, 87, 90 Varius, 176 Vaticano, 197, 198, 200, 202, 206 Violenza, 75, 76, 80, 92, 119, 157, 169, 174, 206, 208, 210 Volpe, 126, 142 Zoogonia, 44, 46-47, 123, 132, 135136, 146-147, 148 Zoopoiesi, 100 Zoorastia, 15, 82, 88, 131, 134, 156, 159 Zootecnia, 20, 114, 120, 125, 127, 163, 165

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