Fino alla fine del mondo. Saggi sul «politico» nella rivoluzione spaziale contemporanea

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Fino alla fine del mondo. Saggi sul «politico» nella rivoluzione spaziale contemporanea

Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Indice
Nota editoriale
Introduzione
1. Il 'politico' nell'era «postpolitica». Con Schmitt, oltre Schmitt?
1.1 Nemici del genere umano
1.2 L'essenza del 'politico' e i limiti del liberalismo
1.3 Lo spazio della democrazia
1.4 Lo «spirito postpolitico»
1.5 La moralizzazione della politica
1.6 Quale spazio?
2. L'etica dell'emergenza. La democrazia nello «stato di eccezione»
2.1 Lo spettro dell'eccezione
2.2 La tentazione nichilista delle democrazie
2.3 Il potere sovrano e la «giustizia più alta»
2.4 Il posto dei diritti umani
3. Fino alla fine del mondo. Lo Stato nello spazio imperiale
3.1 La Terra diminuita
3.2 Le geometrie dell'impero
3.3 Un nuovo Zusammenbruch?
3.4 Lo Stato come 'strumento' e come 'funzione'
3.5 La «forma-Stato» e il mercato mondiale
3.6 Un nuovo spazio
Indice dei nomi
Quarta di copertina

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Damiano Palano

FINO ALLA FINE DEL MONDO Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea

LIGUORI EDITORE

Filosofia politica 1

Damiano Palano

Fino alla fine del mondo Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea

Liguori Editore

Questa ricerca e la sua pubblicazione sono state finanziate parzialmente dall’Università Cattolica nell’ambito dei suoi programmi di promozione e diffusione della ricerca scientifica (anni 2006 e 2007). Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (Legge n. 633/1941: http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l633_41.html). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati, anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla Legge ed è soggetta all’autorizzazione scritta dell’Editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile al seguente indirizzo: http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali e marchi registrati, anche se non specificamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi o regolamenti. Liguori Editore - I 80123 Napoli http://www.liguori.it/ © 2010 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Febbraio 2010 Palano, Damiano : Fino alla fine del mondo. Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea/ Damiano Palano Napoli : Liguori, 2010 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5041 - 1 1. Democrazia e globalizzazione 2. Stato e impero I. Titolo. Aggiornamenti: 18 17 16 15 14 13 12 11 10

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Indice

Introduzione 1. Il ‘politico’ nell’era «postpolitica». Con Schmitt, oltre Schmitt? 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 1.6.

Nemici del genere umano L’essenza del ‘politico’ e i limiti del liberalismo Lo spazio della democrazia Lo «spirito postpolitico» La moralizzazione della politica Quale spazio?

2. L’etica dell’emergenza. La democrazia nello «stato di eccezione» 2.1. 2.2. 2.3. 2.4.

Lo spettro dell’eccezione La tentazione nichilista delle democrazie Il potere sovrano e la «giustizia più alta» Il posto dei diritti umani

3. Fino alla fine del mondo. Lo Stato nello spazio imperiale 3.1. 3.2. 3.3. 3.4. 3.5. 3.6.

La Terra diminuita Le geometrie dell’impero Un nuovo Zusammenbruch? Lo Stato come ‘strumento’ e come ‘funzione’ La «forma-Stato» e il mercato mondiale Un nuovo spazio

Indice dei nomi

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Nota editoriale I capitoli di questo volume traggono origine da testi già apparsi in altre sedi in una forma spesso notevolmente diversa, oltre che più breve. Il primo capitolo di questo volume è stato pubblicato con il titolo Il ‘politico’ nell’era «postpolitica». Note sulla proposta teorica di Chantal Mouffe, in «Teoria politica», XXIV (2008), n. 3, pp. 89-132; il secondo capitolo nasce da un testo pubblicato, in forma più breve e ridotta nei riferimenti bibliografici, con il titolo L’etica dell’emergenza. La democrazia nello «stato di eccezione», come recensione al volume di Michael Ignatieff, Il male minore. L’etica politica nell’era del terrorismo globale, Vita e Pensiero, Milano, 2006, in «Teoria politica», XXIV (2008), n. 1, pp. 217-250; il terzo capitolo è apparso con il titolo Fino alla fine del mondo. Stato e spazio politico nel recente dibattito sulla «forma-impero», in «Teoria politica», XIX (2003), n. 2-3, pp. 217-250, all’interno del numero monografico La globalizzazione avanza... la democrazia arretra. Un ringraziamento particolare va a «Teoria politica» e al suo Direttore, Luigi Bonanate, per avere ospitato la prima versione di questi scritti e per consentirne ora una nuova pubblicazione.

Introduzione

I. La peste regnava sovrana dappertutto. Quando il giorno e la notte, come gemelle cresciute di pari passo, si divisero equamente il dominio delle ore, a uno a uno, sotto le caverne di ghiaccio, lungo le acque di disgelo di migliaia di inverni, a uno a uno, quelli che restavano della razza umana chiusero gli occhi per sempre alla luce. M. SHELLEY, L’ultimo uomo, Milano, Mondadori, 1997, pp. 476-477 (ed. or. The Last Man, London, 1826).

Molto prima che l’autodistruzione dell’umanità diventasse tecnicamente possibile, Mary Shelley descrisse con meticolosa precisione il malinconico commiato dalla superficie terrestre da parte dell’ultimo superstite del genere umano. Anticipando quasi tutti i motivi dell’immaginario apocalittico novecentesco, The Last Man, pubblicato a Londra nel 18261, era per molti versi il racconto della lacerazione interiore dell’autrice di Frankenstein, che a soli ventisei anni aveva perso il marito, il grande poeta Percy Shelley, quattro dei suoi cinque figli e tutti i compagni di quel ribelle circolo romantico che l’aveva accompagnata nell’esilio volontario dalla madrepatria inglese2. Ma, al tempo stesso, il racconto dava corpo a un incubo che, da quel momento in poi, non avrebbe mancato di arricchirsi di nuovi elementi e, soprattutto, del realismo assente – secondo molti critici – nelle pagine del romanzo. Ambientato alla fine del XXI secolo, The Last Man tesseva infatti la trama di un incubo nel quale l’«immenso fantasma» della pestilenza sconvolgeva e distruggeva rapidamente l’intera umanità, condannando un piccolo grup1

M. Shelley, L’ultimo uomo, Milano, Mondadori, 1997, pp. 476-477 (ed. or. The Last Man, London, 1826). 2 Così, nel romanzo, o almeno nella prima parte, non era difficile scorgere evidenti riferimenti autobiografici, anche perché nei ritratti degli stessi protagonisti affioravano piuttosto scopertamente i volti di Shelley e di Byron.

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INTRODUZIONE

po di superstiti a un lungo e inutile pellegrinaggio attraverso un’Europa devastata e le sue antiche metropoli, ormai completamente disabitate. Miracolosamente sopravvissuti alla peste, quei superstiti non riuscivano però a ripopolare il mondo, perché la morte li sorprendeva in mare, scaraventando sulla spiaggia il corpo di un solo naufrago: l’ultimo uomo vivente, chiamato ad assistere – come unico e solitario spettatore, nella Roma del 2100 – al commiato dell’umanità dal teatro del mondo3. Quella che per l’autrice di Frankenstein era solo l’ennesima esplorazione di un futuro terrificante iniziò a palesarsi, meno di cento anni dopo, come una possibilità concreta. Già nei primi decenni del XX secolo, l’estinzione del genere umano prese infatti a essere considerata non più come una provocazione all’antropocentrismo4, ma come un’eventualità che le scoperte scientifiche e lo sviluppo della tecnologia bellica avrebbero reso sempre più plausibile, e, dopo il 1945, l’immagine della nuova apocalisse ha cessato definitivamente di essere soltanto un motivo coltivato dalla letteratura di genere. Fatalmente, quella che al principio del XIX secolo appariva come un’ipotesi insensata – se non, addirittura, come «il frutto di un’immaginazione malata» – ha assunto i caratteri di una sorta di profezia del disastro atomico5, e la sagoma dell’ultimo uomo è diventata il motivo quasi obbligato sul quale si 3

Portando con sé Omero e Shakespeare, l’«ultimo uomo» abbandonava infine Roma per volgersi ad Oriente: «Non mi attendo cambiamenti per il meglio; ma la monotonia del presente mi è diventata intollerabile. Non mi faranno da piloti né speranza né gioia; sono sospinto solo dall’irrequietudine della disperazione e dall’ardente desiderio di qualcosa di diverso. Non vedo l’ora di battermi contro il pericolo, di sentirmi eccitato dalla paura, di avere ogni giorno qualche mansione da svolgere, per quanto insignificante e poco necessaria. Assisterò al vario spettacolo delle apparenze che gli elementi sanno assumere – leggerò auguri propizi all’arcobaleno – minacce in una nuvola – una lezione o un segno caro al mio cuore in tutte le cose. Così, su e giù, per le coste della terra deserta, finché il sole sia alto in cielo, e la luna appaia, nuova e poi piena – gli angeli, gli spiriti dei morti e l’occhio sempre aperto del Supremo vedranno la piccola imbarcazione andare col suo carico, Verney – L’ultimo uomo» (ivi, pp. 528-529). 4 Proprio in quest’ultima direzione si era mosso Leopardi in una tra le più note delle Operette morali, dove un Folletto annuncia che «gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta», per una serie molteplici di cause: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male» (G. Leopardi, Operette morali, in Id., Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1976, I, p. 160). 5 «L’estinzione della razza umana in un futuro ipotizzabile», si leggeva infatti nella presentazione dell’edizione critica del 1965, «è una cupa possibilità che siamo costretti a contemplare da quando la bomba è caduta su Hiroshima» (M. Shelley, The Last Man, ed. H.J. Luke, Oxford-New York, Oxford University Press, 1965; cit. da L. Caretti, Introduzione, in M. Shelley, L’ultimo uomo, cit., XXIV).

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è esercitato un immaginario sempre più cupo. Un immaginario di cui la cinematografia – con film come L’ultima spiaggia (On the Beach, 1959) di Stanley Kramer, A prova di errore (Fail Safe, 1964) di Sidney Lumet, o la spietata satira del Dottor Stranamore (1964) di Stanley Kubrick6 – ha fissato probabilmente nel modo più efficace i tratti, anche se, forse, è l’agghiacciante scenario del Livello 7 di Mordecai Roshwald a restituire i lineamenti paradigmatici dell’ultimo superstite del genere umano. Nel romanzo di Roshwald, l’ultimo uomo diventa infatti un ufficiale addestrato, condizionato e programmato per eseguire l’ordine di lancio missilistico in caso di conflitto atomico. E il suo diario si trasforma nella cronaca degli ultimi giorni dell’umanità – dopo «la guerra più breve della storia, e la più devastante»7 – osservati dal sottosuolo, dal livello 7: il «migliore dei mondi possibili»8, e cioè il più profondo livello di sicurezza, in cui i militari responsabili degli armamenti nucleari sono ermeticamente isolati, ma che non può comunque consentire la sopravvivenza in un pianeta irrimediabilmente contaminato. Dopo la fine della Guerra fredda, l’incubo della nuova apocalisse non ha cessato di alimentare l’immaginario collettivo, piegandosi a nuove declinazioni, suggerite dallo stesso sviluppo tecnologico. La realtà del terrorismo globale e la scoperta dell’imprevista vulnerabilità delle società postindustriali hanno ulteriormente contribuito a disegnare una sagoma nella quale le paure contemporanee possono andare a condensarsi, rinnovando una galleria iconografica di mostruosità ormai affollata9. Ma, probabilmente, non 6 Ognuno di questi celebri film traeva ispirazione da altrettanto fortunati romanzi: cfr. N. Shute, L’ultima spiaggia, Milano, Sugar, 1959 (ed. or. On the Beach, New York, Morrow, 1957); E. Burdick – H. Wheeler, A prova di errore, Milano, Longanesi, 1963 (ed. or. Fail-Safe, New York, McGraw-Hill, 1962); E. George, Il dottor Stranamore ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, Milano, Bompiani, 1964 (ed. or. Dr. Strangelove or How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, Boston, Gregg Press, 1979). 7 M. Roshwald, Livello 7, Milano, Mondadori, 2007, p. 154 (ed. or. Level 7, London, William Heinemann, 1959). 8 Ivi, p. 134. 9 A proposito del successo – non certo confinato al pubblico della letteratura di genere – del romanzo di C. McCarthy, La strada, Torino, Einaudi, 2007 (ed. or. The Road, New York, Knopf, 2006), oltre che di altre produzioni cinematografiche e letterarie, Antonio Monda ha osservato, per esempio, che, nonostante sia inevitabile pensare agli effetti dell’undici settembre, in realtà «i motivi sono più complessi: drammaturgicamente la catastrofe pone i personaggi in condizioni estreme, nei quali sono costretti a prendere decisioni che determinano la vita e la morte. La fine del mondo esalta poi il coraggio ed offre inedite suggestioni estetiche» (A. Monda, Arriva l’apocalisse. Istruzioni per la fine del mondo, in «la Repubblica», 16 febbraio 2008, p. 53). Sull’immaginario letterario della nuova apocalisse, si veda però, in chiave più generale, F. Muzzioli, Scritture della catastrofe, Roma, Meltemi, 2007, il quale peraltro affronta il tema da una prospettiva centrata sulle «distopie».

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sono solo questi i motivi che consegnano al nostro immaginario lo spettro dell’«ultimo uomo» e la tetra prefigurazione della scomparsa del genere umano. Alla base di simili visioni sta infatti qualcosa di più profondo, che investe il modo di concepire la società in cui viviamo, lo «spazio» in cui gli esseri umani si trovano quotidianamente a operare e in cui la paura scopre nuovi volti10. Uno «spazio» all’interno del quale l’«umanità» cessa di essere una pura astrazione, per tramutarsi in una realtà concreta, di cui è persino pensabile la distruzione. E uno «spazio» in cui l’«umanità» diventa un concetto effettivamente «politico».

II. Ogni volta che sotto la spinta di forze storiche o grazie alla liberazione di nuove energie, entrano nell’orizzonte della complessiva coscienza dell’uomo nuovi territori e nuovi mari, mutano anche gli spazi dell’esistenza storica. Allora sorgono nuove misure e nuovi criteri dell’attività storico-politica, nuove scienze, nuovi ordini, una nuova vita di popoli nuovi e rinati. C. SCHMITT, Terra e mare. Una considerazione sulla storia del mondo, Giuffrè, Milano 1986, p. 56; ed. or. Land und Meer. Eine Weltgeschichtliche Betrachtung (1942), Köln – Lövenich, Hohenheim Verlag, 1981).

Già al principio degli anni Quaranta – nella Considerazione sulla storia del mondo al centro di Land und Meer – Schmitt inizia a cogliere nella modernità europea una radicale cesura rispetto alle modalità di organizzazione politica fino ad allora conosciute. Proprio all’alba dell’età moderna, secondo la sua lettura, una serie di scoperte scientifiche e geografiche viene infatti ad alterare e incrinare il rapporto degli esseri umani con la terra. «L’uomo», 10

Sul nesso fra la paura e le trasformazioni spaziali, mi permetto di rinviare alle brevi note sviluppate in D. Palano, Paura dallo spazio, nel numero monografico dedicato alla Paura come attore politico, curato da V.E. Parsi, della rivista «Paradoxa», II (2008), n. 1, pp. 142-150. Ma osservazioni importanti, ai fini di una ricostruzione del rapporto (costitutivo quanto mutevole) fra paura e politica, sono offerte, fra gli altri, da R. Escobar, Metamorfosi della paura, Bologna, Il Mulino, 1997, da C. Robin, Paura. La politica del dominio, Milano, Università Bocconi Editrice, 2005 (ed. or. Fear. The History of a Political Idea, Oxford-New York, Oxford University Press, 2004), dal ricco volume di G. Silei, Le radici dell’incertezza. Storia della paura tra Otto e Novecento, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2008, e dalle note di M.L. Lanzillo, La sovranità della paura. Per una storia della paura nella modernità politica, in «Paradoxa», II (2008), n. 1, pp. 114-123.

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osserva, «è un essere di terra e calca il suolo», «staziona, cammina e si muove sulla terra dal solido fondamento», e «ciò determina le sue impressioni e il suo modo di vedere il mondo»11. Il suo legame con la terra è talmente forte e originario che «l’idea che l’esistenza possa venire caratterizzata da un altro dei quattro elementi altrettanto decisamente come da parte della terra sembra, a prima vista, solo una possibilità fantastica»12. Eppure, gli esseri umani, a un certo punto della loro vicenda, paiono sottrarsi a questo legame genetico con la terra, facendo riaffiorare mitologie dimenticate di antichi popoli ‘autotalassici’, interamente legati all’elemento marino, ma, soprattutto, avviando un percorso destinato a incrociare i quattro elementi della filosofia naturalistica di Talete. Così, sebbene la storia del mondo sia «storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare»13, attorno al XVI secolo si determina una cruciale alterazione dell’equilibrio – all’apparenza immutabile – fra Terra e Mare. È infatti proprio nel XVI secolo che, secondo il quadro dipinto da Schmitt, una serie di nuovi eventi determina una decisiva «rivoluzione spaziale». Pochi anni dopo la sconfitta spagnola contro la flotta inglese, nel 1588, la costruzione di un nuovo tipo di nave da guerra muta in modo radicale la strategia della guerra sul mare. E la ‘scoperta’ di nuovi continenti – resa possibile anche (ma non solo) dalla tecnologia di navigazione – si incontra con una sorta di nuovo tipo umano, interamente legato all’elemento marino, amante del rischio e anticipatore della futura etica capitalistica. «‘Schiume di mare’ d’ogni tipo, pirati, corsari avventurieri del commercio marittimo, formano, accanto ai cacciatori di balena e ai navigatori a vela, la colonna dei pionieri della elementare svolta verso il mare che si realizzò nel XVI e XVII secolo»14. La conquista del continente americano e la cir11 C. Schmitt, Terra e mare. Una considerazione sulla storia del mondo, a cura di A. Bolaffi, Milano, Giuffrè, 1986, p. 33; ed. or. Land und Meer. Eine Weltgeschichtliche Betrachtung (1942), Köln – Lövenich, Hohenheim Verlag, 1981. Cfr. anche la più recente traduzione C. Schmitt, Terra e mare, Milano, Adelphi, 2002. 12 Ibid. (le citazioni sono tratte dall’edizione Giuffrè del 1986). 13 Ivi, p. 37. 14 Ivi, p. 48. Esempi principali di questo nuovo tipo umano erano infatti, secondo Schmitt, innanzitutto, «selvaggi avventurieri e ‘schiume di mare’, audaci cacciatori di balene sulle rotte oceaniche e naviganti a vela amanti del rischio», i quali, «seguendo le scie segrete delle balene, […] scoprirono isole e continenti senza su questo menar gran vanto» (ivi, p. 43, 45); ma erano anche «i pirati del mare» come Francis Drake, Hawkins, Sir Walter Raleigh e Sir Henry Morgan, che fino alla Pace di Utrecht ebbero un ruolo fondamentale, non solo perché «svolsero la funzione di attivi combattenti nel grande scontro sul piano mondiale tra l’Inghilterra e la Spagna», ma anche perché determinarono la trasformazione dell’Inghilterra in una nazione ricca e, soprattutto, degli inglesi in «capitalisti-corsari» (ivi, pp. 50-51).

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cumnavigazione della Terra sono così le premesse per la completa colonizzazione del mondo, che può giungere a compimento solo grazie al trionfo del tipo umano incarnato dalle nuove «schiume di mare» e in seguito allo spostamento dell’Inghilterra dalla Terra verso il Mare. «Solo nel XVI e XVII secolo questo popolo di allevatori di pecore si trasformò veramente in un popolo di schiume di mare e corsari, in ‘figli del mare’»15. Ma, a dispetto del ritardo con cui intrapresero la concorrenza coloniale con portoghesi e spagnoli, alla fine proprio gli inglesi «superarono tutti, sconfissero tutti i rivali e raggiunsero un dominio mondiale basato sulla signoria degli oceani»16. Concentrando le proprie forze nella costruzione di un impero coloniale fuori dall’Europa, l’Inghilterra compì così una «planetaria rivoluzione spaziale»; una rivoluzione che non può essere affiancata ai casi precedenti di grandi potenze marinare, come Atene, Cartagine, Roma, Bisanzio o Venezia, per il semplice motivo che essa si fonda su una netta rottura dell’equilibrio fra Terra e Mare: Qui siamo di fronte ad un caso nella sua natura unico. La sua specificità e incomparabilità consistono nel fatto che l’Inghilterra, in un momento storico e in un modo completamente diverso rispetto alle precedenti potenze marinare, ha compiuto una trasformazione elementare, ha veramente spostato la sua esistenza dalla terra all’elemento del mare. In tal modo non ha vinto solo molte battaglie sul mare e molte guerre ma qualcosa di completamente diverso e infinitamente superiore, e cioè ha compiuto una rivoluzione e, propriamente, una rivoluzione del tipo più grande, una planetaria rivoluzione spaziale17.

Proprio in quel momento l’Inghilterra, decidendosi per il mare, aveva cessato di considerarsi una scheggia d’Europa staccatasi dalla terraferma. In un celebre passo del Riccardo II, Giovanni di Gaunt, duca di Lancaster, definiva ancora l’Inghilterra come una «fortezza che la natura ha eretto per sé contro il contagio e la mano della guerra, […] felice stirpe di uomini, […] microcosmo, gemma preziosa incastonata nell’argenteo mare che la serve a sua difesa, o come un fossato che protegge una casa contro l’invidia di terre meno felici»18. Ma nel corso del secolo seguente, l’isola spezzò il proprio legame con il continente, per diventare un «elemento del mare», il «centro mobile di uno sconnesso impero mondiale esteso su tutti i conti-

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Ivi, pp. 53-54. Ibid. Ivi, p. 55. W. Shakespeare, Riccardo II, Milano, Mondadori, 1993, p. 63.

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nenti»19. Nella fase collocata tra l’occupazione della Giamaica ad opera di Cromwell (1655) e la pace di Utrecht (1713), il «passo verso un’esistenza marittima» provocava «in se stesso e nella sua interna ulteriore consequenzialità, la creazione della tecnica in quanto forza dotata di leggi proprie»20. «L’isola di Inghilterra si è staccata dal continente europeo e ha realizzato il passaggio dalla tradizionale esistenza legata alla terra ad una marittima», e – come scrive Schmitt in Amleto o Ecuba – «questo nuovo orientamento avrà come esito la rivoluzione industriale e realizzerà così un rivolgimento assai più radicale e fondamentale delle stesse rivoluzioni industriali»21. A differenza di qualsiasi innovazione compiuta all’interno di una prospettiva prevalentemente terranea, i progressi tecnici realizzati in una condizione totalmente marittima si sarebbero collocati nell’immenso spazio del «mare libero»: lo spazio liscio, uniforme e tendenzialmente illimitato della superficie degli oceani, nel quale la tecnica non avrebbe più trovato di fronte a sé ostacoli naturali o artificiali22. È proprio in relazione a questo passaggio – segnato dalla decisione dell’Inghilterra a favore dell’elemento marino – che Schmitt illustra la propria definizione di «rivoluzione spaziale». «Ogni volta che sotto la spinta di forze storiche o grazie alla liberazione di nuove energie, entrano nell’orizzonte della complessiva coscienza dell’uomo nuovi territori e nuovi mari», scrive Schmitt, «mutano anche gli spazi dell’esistenza storica», e sorgono così «nuove misure e nuovi criteri dell’attività storico-politico, nuove scienze, nuovi ordini, una nuova vita di popoli nuovi e rinati»23. In altre parole, dunque, dinanzi a simili scoperte, ben prima che la scienza riesca a produrre adeguate spiegazioni, prende forma una nuova visione dello spazio:

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C. Schmitt, Terra e mare, cit., pp. 74-75 (ove il passo di Shakespeare è ricordato esplicitamente). 20 C. Schmitt, La contrapposizione planetaria tra Oriente e Occidente e la sua struttura storica, in E. Jünger – C. Schmitt, Il nodo di Gordio. Dialogo tra Oriente e Occidente nella storia del mondo, a cura di C. Galli, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 135-167, in particolare p. 162 (ed. or. Der gordische Knoten, Frankfurt a.M., Klostermann, 1953). 21 C. Schmitt, Amleto o Ecuba. L’irrompere del tempo nel gioco del dramma, a cura di Carlo Galli, Bologna, Il Mulino, 1983 (ed. or. Hamlet oder Hekuba. Der Einbruch der Zeit in das Spiel, Düsseldorf – Köln, Eugen Diederichs Verlag, 1956). 22 Questo passaggio è considerato anche in altri scritti del periodo, come, per esempio, C. Schmitt, Il Mare contro la Terra, in Id., L’unità del mondo e altri saggi, a cura di A. Campi, Roma, Pellicani, 1994, pp. 253-268 (ed. or. La mer contre la terre, in «Cahiers franco-allemand», VIII, 1941, pp. 343-349); Id., Sovranità dello Stato e libertà dei mari, in Id., L’unità del mondo, cit., pp. 217-251 (ed. or. Staatliche Souveränität und freies Meer. Über den Gegensatz von Land und See im Völkerrecht der Neuzeit, in Das Reich und Europa, Leipzig, Köhler & Ameland, 1941, pp. 91-117). 23 C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 56.

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L’ampliamento può essere così profondo e sorprendente che cambiano non soltanto la dimensione e le misure, non solo l’orizzonte esterno degli uomini, ma muta anche la struttura del concetto stesso di spazio. Allora si può parlare di una rivoluzione spaziale. Ma anche ad ogni grande mutamento storico è, perlopiù, connesso un cambiamento dell’immagine di spazio. È questo il nucleo vero e proprio del complessivo cambiamento politico, economico e culturale che allora si compie24.

In coincidenza con la svolta determinatasi fra il XVI e il XVII secolo, ogni precedente rivoluzione spaziale non può che impallidire. Dopo la ‘scoperta’ del Nuovo mondo e dopo la prima circumnavigazione della Terra sorse infatti, come scrive il giurista tedesco, «un nuovo mondo», e «la coscienza complessiva, prima dei popoli dell’Europa centrale e occidentale, in seguito quella di tutta l’umanità, mutò radicalmente»25. Non si trattava semplicemente di un’estensione quantitativa del mondo conosciuto, ma del mutamento complessivo della coscienza dello spazio, che rompeva radicalmente con le rappresentazioni precedenti. «Per la prima volta nella sua storia, l’uomo prese nella sua mano tutto il reale globo come una sfera»26. Tale cambiamento determinava, e accompagnava, «un mutamento dei concetti di spazio comprendente tutti i gradi e i campi dell’esistenza umana»27. Ma, 24

Ibid. Ivi, p. 60. 26 Ibid. «Che la terra dovesse essere una sfera», osservava Schmitt, «sembrava a un uomo del Medioevo, ma ancora allo stesso Martin Lutero, una ridicola fantastischeria da non prendere sul serio. Ora la forma sferica divenne una realtà tangibile, una esperienza irrefutabile e una indiscutibile verità scientifica. Anche la terra, fino ad allora così salda, ruotò attorno al sole. Ma anche ciò non fu ancora la vera e propria, profondissima, trasformazione spaziale che da quel momento di verificò. Decisivi furono l’allargamento sin dentro il cosmo e la rappresentazione di un infinito spazio vuoto» (ibid.). Uno sviluppo di alcune di queste intuizioni può essere ritrovato nei lavori di P. Sloterdijk, Sphären, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1998-2004, 3 voll., e Id., L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Roma, Carocci, 2002 (ed. or. Die letzte Kugel. Zu einer philosophischen Geschichte der terrestrischen Globalisierung, da Spären. II. Globen, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2001). 27 C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 62. Schmitt si sofferma con grande energia sul fatto che la rivoluzione spaziale non può essere spiegata come conseguenza dell’estensione geografica e della ‘scoperta’ del Nuovo mondo. Al contrario, osserva, si potrebbe sostenere che «la scoperta di nuovi continenti e la circumnavigazione della terra siano solo modi di venire alla luce e conseguenze di mutamenti che avvengono in una dimensione più profonda» (ivi, p. 61). «I grandi mutamenti dell’immagine geografica della terra», precisa inoltre, «furono solo un aspetto esteriore della profonda trasformazione indicata con il termine, così ricco di conseguenze, di ‘rivoluzione spaziale’. Ciò che è stato definito come superiorità razionale dell’europeo, come spirito europeo e razionalismo occidentale, si fece allora irresistibilmente largo. Si sviluppò nei poli dell’Europa centro-occidentale, distrusse le forme medioevali della comunità umana, edificò nuovi stati, flotte ed eserciti, inventò nuove macchine, sottomise i 25

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soprattutto, questo stesso cambiamento sembrava spingere la storia umana verso il definitivo affrancamento dal proprio fondamento ctonio. Se già alla fine del XVIII secolo, secondo la ricostruzione di Schmitt, la fede in un progresso interminabile faceva da inevitabile corollario al principio della libertà dei mari, proclamato dalla potenza inglese, la guida della rivoluzione spaziale passò in seguito allo sviluppo dell’industria e, in modo specifico, a una tecnica ormai liberata da vincoli28. Dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo, l’incontrastato dominio degli oceani da parte dell’impero inglese determinò il passaggio dalla guerra di terra alla guerra di mare, un passaggio destinato a sancire la transizione a un conflitto in cui gli obiettivi bellici divennero l’economia del paese nemico e il complesso delle sue reti commerciali. Ma nel corso dell’Ottocento – quando «libero mare e libero mercato mondiale si combinarono in una idea di libertà della quale soggetto e custode poteva essere solo l’Inghilterra» – iniziò a prendere consistenza quella rivoluzione industriale che, insieme al dominio delle macchine, condusse, secondo Schmitt, a una ulteriore evoluzione. Dapprima, «la rivoluzione industriale trasformò i ‘figli del mare’ nati dall’elemento marino in meccanici operatori di macchina», mentre in seguito, all’alba del XX secolo, «elettricità, aviazione e telecomunicazioni operarono un tale rovesciamento di tutte le rappresentazioni di spazio che, evidentemente, avviò un nuovo stadio della prima planetaria rivoluzione spaziale se non, addirittura, una seconda, nuova rivoluzione spaziale»29. Nella prima guerra mondiale – la prima guerra combattuta con le nuove tecniche belliche – il rapporto dell’uomo con gli elementi appariva infatti nuovamente mutato. «Quando si aggiunse l’aeroplano», scrive Schmitt, «venne conquistata persino una nuova, terza dimensione che si sommò a quella della terra e del mare», «l’uomo si alzò sulla superficie della terra come su quella del mare e popoli non europei e li pose di fronte al dilemma o di accettare la civilizzazione europea o divenire semplice popolo coloniale» (ivi, p. 63). Per una un’introduzione alle tematiche suggerite da Schmitt, cfr. B. Accarino, ‘Tabula constituens’. Tra appropriazione cartografica e geometria politica, in Id. (a cura di), Confini in disordine. Le trasformazioni dello spazio, Roma, Manifestolibri, 2007, pp. 33-66. 28 L’ipotesi schmittiana, che fa coincidere il principio dell’età moderna con una complessiva «rivoluzione spaziale», si ritrova, seppur in una differente declinazione, al cuore del lavoro di Carlo Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il Mulino, 2001, che sostiene infatti che, poiché «gli spazi politici moderni nascono in quanto risposta a sfida, e si sono configurati in termini sì precari e contingenti, ma anche in grado di ospitare al proprio interno, nel bene e nel male, le forze mobilitanti della libertà soggettiva e sociale, [...] oggi si rende necessario affrontare la grande crisi della globalizzazione – che delle contraddizioni del Moderno è il compimento – con un nuovo intento spazializzante» (ivi, p. 15). 29 C. Schmitt, Terra e mare, cit., pp. 78-79.

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ricevette uno strumento di comunicazione di tipo completamente nuovo e, al tempo stesso, ebbe in pugno una nuova arma»30. In questo passaggio, «le dimensioni e le misure mutarono ancora e crebbero, in settori imprevisti, le possibilità di dominio diretto sulla natura e sugli altri uomini». E, di nuovo, si delinearono i contorni di una mutata concezione dello spazio: Oggi non concepiamo più lo spazio come semplice dimensione di profondità, vuota di qualsiasi contenuto concepibile. Lo spazio è per noi diventato un campo di energia, attività e prestazioni umane. Solo oggi diventa per noi possibile un’idea che sarebbe stata impossibile in qualsiasi altra epoca e che un filosofo tedesco contemporaneo ha così formulato: il mondo non è nello spazio ma lo spazio è invece nel mondo. […] Il mare non è più oggi un elemento come ai tempi dei cacciatori di balene e dei corsari. La tecnica odierna dei mezzi di trasporto lo ha trasformato in uno spazio nell’odierno senso del termine. […] allora viene anche a cadere la separazione di mare e terra sulla quale fu costruito il legame, sino ad oggi esistito, di dominio del mare e dominio del mondo. Viene meno il fondamento dell’appropriazione inglese del mare e, in tal modo, il Nomos della terra fino ad oggi valido31.

Quando Land und Meer vide la luce, nelle fasi iniziali della Seconda Guerra Mondiale, il superamento della fatale contrapposizione fra Terra e Mare e la ricerca di un nuovo Nomos del pianeta non potevano che restituire – in forma metaforica – la realtà dello scontro in corso. E, d’altro canto, proprio quelle sintetiche pagine tracciavano la più generale cornice teorica in cui Schmitt aveva collocato la propria riflessione sulla trasformazione del diritto internazionale seguita alla Prima Guerra Mondiale32. Dopo il ’45, lungi dall’abbandonare le proprie ipotesi sulla connessione fra spazio e politica, Schmitt le pose alla base del Nomos der Erde, la sua opera più ambiziosa e probabilmente importante. Nelle pagine di quel lavoro, infatti, 30

Ivi, p. 80. Ivi, p. 81. 32 Cfr., per esempio, alcuni dei saggi compresi in C. Schmitt, Posizioni e concetti in lotta con Weimar-Ginevra-Versailles. 1923-1939, a cura di A. Caracciolo, Milano, Giuffrè, 2007 (ed. or. Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar-Genf-Versailles 1923-1939, Berlin, Duncker & Humblot, 1988; I ed. 1940), tra cui, soprattutto, C. Schmitt, Forme internazionalistiche dell’imperialismo moderno (1932), ivi, pp. 265-292 (ed. or.); Id., La settima trasformazione della Società ginevrina delle Nazioni (1936), ivi, pp. 345-352, Id., Sul concetto di pirateria (1937), ivi, pp. 399-404; Id., Sul rapporto dei concetti di guerra e di nemico, ivi, pp. 405-418; Id., Grande spazio contro universalismo (1939), ivi, pp. 491-504; ma anche Id., Il concetto discriminatorio di guerra, Roma-Bari, Laterza, 2008 (ed. or. Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff, Berlin, Duncker & Humblot, 1938), importante per la corretta ricostruzione dell’itinerario internazionalistico del giurista, e Id., Cambio di struttura del diritto internazionale, in Id., L’unità del mondo, cit., pp. 271-297 (ed. or. Cambio de estructura del derecho international, Madrid, Istituto de Estudios Politicos, 1943). 31

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la fine della respublica christiana, l’origine dello jus publicum europaeum e le sue successive trasformazioni erano affrontate in una prospettiva che poneva al centro proprio lo «spazio», ossia quella visione dello spazio che scaturisce dal nesso storico fra Ortung e Ordnund, tra appropriazione e creazione dell’ordine33. L’idea che l’età moderna scaturisse da una «rivoluzione spaziale» senza precedenti occupava ovviamente una posizione centrale nell’analisi schmittiana, ma il giurista di Plettenberg tornava anche, proprio nell’ultimo capitolo, sulla ulteriore trasformazione dello spazio determinata dalla conquista dell’«aria». Se in Land und Meer questo tema era solo accennato, anche nel Nomos der Erde Schmitt non compiva passi particolarmente decisi verso l’esplorazione di questa nuova dimensione. In fondo, si limitava a sottolineare come lo «spazio aereo», la cui conquista era stata aperta dallo sviluppo della tecnologia bellica, fosse qualcosa di totalmente diverso dallo spazio in cui si erano svolte non solo la guerra terrestre, ma anche quella marittima. «Lo spazio aereo», osservava per esempio, «non è un volume sovrastante la terra o il mare, pensabile come una colonna o una cassa vuota che si erige sulla base della terraferma o del mare libero, e all’interno della quale, nella guerra aerea, avvengono le stesse cose che nella guerra terrestre o marittima, solo a un’altezza di qualche centinaio o di qualche migliaio di metri»34. Al contrario, continuava, «lo spazio aereo diventa una dimensione propria, uno spazio proprio, che non si rapporta alle due superfici separate della terra e del mare, ma che trascura la loro separazione e già per questa ragione si differenzia essenzialmente in quanto tale, nella propria struttura, dagli spazi di superficie caratteristici degli altri due tipi di guerra»35. In realtà, 33

C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», Milano, Adelphi, 1991 (ed. or. Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin, Duncker & Humblot, 1950). Fondamentali, per la riflessione di Schmitt su questi nodi, sono anche Id., Appropriazione/Divisione/Produzione, in Id., Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 295-312 (ed. or. Nehmen/Teilen/Weiden, in «Gemeinschaft und Politik», 1953, n. 3), e Id., Nomos – Presa di possesso – Nome, in appendice a C. Resta, Stato mondiale o nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Roma, Pellicani, 1996, pp. 107-131; ed. or. Nomos – Nahme – Name, in S. Behn (hrsg.), Der beständige Aufbruch. Festschrift für Erich Przywara, Nürnberg, Glotz und Lutz Verlag, 1959, pp. 92-105. Per una lettura sintetica di queste ipotesi, mi permetto di rinviare a D. Palano, Lo spazio politico: territori, confini, potere, in A. Agustoni – P. Giuntarelli – R. Veraldi (a cura di), Sociologia dello spazio, dell’ambiente e del territorio, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 54-90, ora in Id., Frammenti di potere. Tracce di politica nella metamorfosi dello spazio, Roma, Aracne, 2009, pp. 41-88. 34 C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», cit., p. 427. 35 Ivi, p. 428. «La guerra aerea autonoma», scriveva Schmitt, «elimina il nesso tra il potere che usa la forza e la popolazione che dalla forza è colpita in grado assai più alto di quanto

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però, Schmitt non esplorava sino in fondo le implicazioni della conquista dell’«aria», e in questo senso – per quanto si riferisse alla problematica posta dalle «armi a lunga gittata» – non affrontava neppure incidentalmente la novità costituita dagli armamenti atomici36. In effetti, anche nel Nomos der Erde Schmitt non sembrava prendere atto per intero delle implicazioni che – sul piano della teoria politica – scaturivano dall’appropriazione dell’«aria»37. Ciò nonostante, proprio al termine del suo lavoro, alludeva al cruciale legame che affiorava fra la nuova tecnologia militare, capace di arrivare fino all’annientamento dell’avversario, e il ritorno – sotto ben diverse spoglie – della dottrina medievale della guerra giusta. «Le tendenze moderne», scriveva, «non portano in sé alcuna resurrezione di dottrine cristiane, bensì sono solo un fenomeno ideologico concomitante nato con lo sviluppo tecnico-industriale dei mezzi di annientamento moderni», e così, «nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro turbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve essere anche potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing»38. Ciò che, in questo caso, emerge chiaramente dal discorso – talvolta solo allusivo – di Schmitt è proprio la serrata connessione fra l’apparato dottrinario deputato a giustificare la guerra e la struttura dello «spazio» definita dalla conquista dell’aria e dall’invenzione dei moderni strumenti di annientamento. avvenga nel caso di un blocco nel corso della guerra marittima. Nel bombardamento aereo la mancanza di relazioni tra il belligerante e il territorio, congiuntamente alla popolazione nemica che in esso si trova, diventa assoluta: qui non è rimasta nemmeno più l’ombra della connessione tra protezione e obbedienza» (ivi, pp. 428-429). 36 «Può sorprendere», ha notato Danilo Zolo a questo proposito, «che Schmitt non citi mai nei suoi scritti il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki e non colga la nuova ‘svolta’ che esso ha impresso al rapporto fra guerra e diritto, rendendo i due fenomeni sostanzialmente incommensurabili», anche se, d’altro canto, «non si può pensare che in piena epoca nucleare Schmitt intendesse abbandonare il suo realismo politico e il suo antinormativismo giuridico, e si proponesse di fondare il suo progetto di un ‘nuovo nomos della terra’ sul recupero di uno jus in bello vestfaliano» (D. Zolo, La profezia della guerra globale, in C. Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra, cit., pp. V-XXXII, specie p. XXVII). 37 Un’appropriazione di cui, invece, un filosofo eterodosso come Peter Sloterdijk ha individuato un momento di cruciale importanza già nell’utilizzo dei gas velenosi sulle trincee della Prima Guerra Mondiale: cfr. P. Sloterdijk, Terrore nell’aria, Roma, Meltemi, 2006 (ed. or. Luftleben. Auf dem Quellen des Terrors, Frankfurt a.M., Suhrkamp Verlag, 2002). Le brevi riflessioni dedicate a questo tema dal filosofo tedesco devono essere inserite nel contesto di una riflessione che, procedendo da una prospettiva differente da quella schmittiana, si focalizzano proprio sulla rivoluzione spaziale. Cfr. P. Sloterdijk, Sphären, cit., Id., L’ultima sfera, cit., Id., Il mondo dentro il capitale, Roma, Meltemi, 2006 (ed. or. Im Weltinneraum des Kapitals, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2005). 38 C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», cit., p. 430.

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Così, benché Schmitt non ceda mai a un effettivo determinismo tecnologico, secondo il quale le forme del diritto internazionale scaturiscono linearmente dallo sviluppo della tecnologia di combattimento, questi due poli si trovano costantemente affiancati, procedendo quasi – anche se non interamente – in parallelo e seguendo le scansioni segnate dalle differenti rivoluzioni spaziali. La nuova dottrina della guerra giusta non sembra dunque discendere dalla semplice volontà dei belligeranti, o dall’ideologia di questi ultimi. La dottrina della guerra combattuta in nome dell’umanità contro i suoi nemici, ai suoi occhi, sembra piuttosto emergere dalla stessa logica implicita nella trasformazione tecnica, o, meglio, dal mutamento dell’orizzonte spaziale reso possibile dalla tecnica. «Del tutto indipendentemente dalla buona o dalla cattiva volontà degli uomini, dagli scopi pacifici o bellici» – scriveva nella Theorie des Partisanen – «ogni progresso della tecnica umana produce nuovi spazi e imprevedibili modificazioni delle tradizionali strutture spaziali». E, continuava, «ciò vale non soltanto per il vistoso ampliamento esteriore dello spazio determinato dalla cosmonautica, ma anche per i nostri vecchi spazi terrestri destinati all’abitazione, al lavoro, al culto e al divertimento»39. Così, l’«umanità» – in quanto concetto politico, in quanto soggetto su cui fondare la legittimazione del ricorso allo strumento bellico – scaturisce, come effetto pressoché inevitabile, dall’ultima delle «imprevedibili modificazioni delle tradizionali strutture spaziali» innescate dallo sviluppo della tecnologia. Nel corso della sua lunga riflessione, Schmitt non cessò mai di mettere in guardia dall’uso strumentale della nozione di «umanità», in nome della quale vengono giustificate guerre e interventi di «polizia internazionale». Così, quanto scriveva nel 1927, nella prima versione del Concetto del ‘politico’, si ritrovava sostanzialmente invariato negli scritti degli anni Settanta40. 39 C. Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del politico, Milano, Adelphi, 2005, pp. 95-96 (ed. or. Theorie des Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen, Berlin, Duncker & Humblot, 1963). «La frase ‘l’abitazione è inviolabile’», osserva per esempio, prefigurando chiaramente la direzione in cui avrebbero condotto le nuove tecnologie, «stabilisce oggi, nell’era dell’illuminazione elettrica, della distribuzione di gas a distanza, del telefono, della radio e della televisione, una limitazione ben diversa che non ai tempi di re Giovanni e della Magna Charta del 1215, quando il castellano poteva alzare il ponte levatoio. Di fronte all’incremento tecnico dell’efficienza umana vanno in frantumi interi sistemi normativi, com’è il caso del diritto marittimo del XIX secolo» (ivi, p. 96). 40 C. Schmitt, Il concetto del politico (1927), in Id., Posizioni e concetti, cit., pp. 105-117, specie p. 114; ed. or. Der Begriff des Politischen, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», LVIII (1927), n. 1, pp. 1-33; C. Schmitt, Premessa all’edizione italiana, in Id., Le categorie del ‘politico’, cit., p. 25; Id., La rivoluzione legale mondiale. Plusvalore politico come premio sulla legalità e sulla superlegalità giuridica, in Id., Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, a cura di G. Agamben, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 187-215, specie p. 214 (ed. or. Die legale Weltre-

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Eppure, seguendo le sue ipotesi – e sviluppandole persino oltre il limite cui Schmitt era disposto a giungere – è piuttosto chiaro che la scoperta dell’«umanità», come concetto politico, si trova collocata in quella medesima «rivoluzione spaziale» in cui l’annientamento dell’intero genere umano si svela come possibilità concreta, tecnicamente realizzabile. La paura della scomparsa del genere umano, in altre parole, non è solo un prodotto della trasformazione delle tecniche di annientamento, ma – in modo ancor più radicale – è un aspetto cruciale di una complessiva «rivoluzione spaziale», di una nuova struttura concettuale dello spazio. All’interno di questa «rivoluzione spaziale», il nemico, a prescindere dalla sua concreta incarnazione storica, non può che mostrarsi – tecnicamente – come una minaccia per la stessa sopravvivenza del genere umano, mentre l’intervento bellico non può che ricercare una (inevitabilmente problematica) legittimazione nella rinnovata dottrina della guerra giusta41. In questo nuovo «spazio», anche la stessa nozione di «democrazia» – diventando qualcosa di inevitabilmente diverso rispetto al passato – non può che trovare una fondazione adeguata. Una fondazione etica, prima ancora che politica, che sia in grado di mostrare la democrazia come definitiva forma politica del genere umano.

III. L’unità tecnica del mondo rende possibile anche la morte tecnica dell’umanità, e questa morte sarebbe il punto culminante della Storia universale, una realtà collettiva analoga alla concezione stoica secondo cui il suicidio dell’individuo rappresenta il punto culminante della sua libertà, l’unico sacramento che l’uomo può autoamministrarsi. C. SCHMITT, L’unità del mondo, in ID., L’unità del mondo e altri saggi, Pellicani, Roma, 1994, p. 315 (ed. or. La Unidad del Mundo, Madrid, Ateneo, 1951).

Al fondo del ragionamento sviluppato da Francis Fukuyama nel magmatico pastiche teorico della Fine della Storia e l’ultimo uomo non è difficile individuare le tracce della classica visione liberale della storia, secondo la quale gli esseri volution. Politischer Mehrwert als Prämie auf juristischen Legalitäten und Superlegalität, in «Der Staat», 1978, n. 3, pp. 321-339). 41 Sulle componenti apocalittiche del pensiero di Schmitt, si vedano le interessanti annotazioni di R. Cavallo, Apocalisse e rivoluzione. Jacob Taubes interprete di Carl Schmitt, in P. Barcellona – F. Ciaramelli – R. Fai (a cura di), Apocalisse e post-umano. Il crepuscolo della modernità, Bari, Dedalo, 2007, pp. 139-168.

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umani – persino a dispetto della loro natura (o di alcune componenti della loro natura) – possono imparare dagli errori del passato e costruire regole, istituzioni e contrappesi, capaci di imbrigliare le pulsioni antisociali degli individui e garantire così una convivenza pacifica. Seguendo e aggiornando – non senza grande disinvoltura – l’immagine hegeliana della «storia universale», anche Fukuyama individuava nella dinamica della storia umana una logica di fondo, che, nonostante tutto, sembrava procedere verso una direzione ben precisa. In effetti, la gran parte del suo contestato saggio era dedicata a una ripresa dell’immagine hegeliana della «fine della Storia», un’immagine che il filosofo tedesco aveva utilizzato a proposito dell’esito della battaglia di Jena di 1806, e che l’intellettuale americano evocava invece in relazione alla rapida disgregazione del blocco sovietico della fine degli anni Ottanta del Novecento. Quando espose per la prima volta la propria tesi sulle pagine della rivista «The National Interest», Fukuyama prese le mosse proprio dalla vittoria delle liberaldemocrazie occidentali sui regimi socialisti: dato che la democrazia liberale poteva essere considerata come «il punto di arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità» e come «la definitiva forma di governo fra gli uomini», il 1989 doveva essere interpretato come la «fine della Storia»42. I numerosi critici si concentrarono – comprensibilmente – proprio sulla formula della «fine della Storia», scorgendovi le tracce di un’ingenuità persino caricaturale. In realtà, per quanto si poggiasse su basi discutibili (e su un utilizzo quantomeno disinvolto dei classici della filosofia politica occidentale), l’operazione di Fukuyama era però più sottile e, nonostante tutto, riusciva a cogliere con una certa efficacia il piano su cui la contemporanea nozione di democrazia viene oggi a collocarsi. In effetti, quando scriveva di una «fine della Storia», Fukuyama non si riferiva certo alla fine della storia intesa come successioni di avvenimenti, conflitti, crisi e scoperte scientifiche, ma, in modo ben più specifico, alla Storia «come processo evolutivo unico e coerente, che tiene conto delle esperienze di tutti i popoli di tutti i tempi»43. All’interno di una simile visione, la Storia si muove secondo una propria logica interna, non priva di diversioni ed episodi cruenti, verso l’obiettivo di una società capace di 42

F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1996, p. 9 (ed. or. The End of History and the Last Man, The Free Press, New York, 1992). Ma queste formule sono utilizzate, innanzitutto, in F. Fukuyama, The End of History?, in «The National Interest», n. 16, 1989, pp. 3-18, poi in P. O’Meara – H.D. Mehlinger – M. Krain (eds.), Gobalization and the Challenges of a New Century, Bloomington – Indianapolis, Indiana University Press, 2000, mentre nel volume successivo l’autore sembra in parte mitigarne la portata. Cfr. anche, F. Fukuyama, A Reply to My Critics, in «The National Interest», n. 18, 1989, pp. 21-28. 43 F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, cit., p. 10.

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soddisfare i più profondi desideri dell’umanità. La conclusione della Storia, dunque, verrebbe a segnare non la fine degli avvenimenti, ma piuttosto il raggiungimento di quella condizione in cui i principi e le istituzioni fondamentali, in grado di risolvere i problemi dell’umanità, sono stati finalmente raggiunti: una condizione che, per Hegel, coincideva con lo Stato liberale e che, per Marx, poteva essere invece offerta solo dalla società comunista. Era proprio all’interno di un simile quadro che Fukuyama poteva affermare che la Storia si era fermata effettivamente nei pochi mesi in cui il blocco dei paesi comunisti si era dissolto, facendo venire meno l’ultimo grande antagonista del progetto liberaldemocratico. Hegel aveva infatti sostenuto che la Storia si era conclusa nel 1806, nel giorno della battaglia di Jena, perché con quella battaglia gli ideali delle rivoluzioni americana e francese avevano sconfitto il vecchio mondo aristocratico e, soprattutto, avevano fatto trionfare un nuovo modello sociale: un modello basato su «un riconoscimento universale e reciproco, secondo il quale ogni cittadino riconosce la dignità di essere umano di tutti gli altri cittadini, e tale dignità è a sua volta riconosciuta dallo stato attraverso la concessione di diritti»44. L’intellettuale nippo-americano si limitava così ad ‘aggiornare’ la formula hegeliana, spostando la data di conclusione della Storia al 1989, perché proprio in quel momento la liberaldemocrazia occidentale si svelava effettivamente come «il punto d’arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità» e «la definitiva forma di governo tra gli uomini». Per quanto assumesse la forma di una dissertazione sulla filosofia della storia, in realtà il ragionamento di Fukuyama si fondava sull’osservazione del processo di democratizzazione che aveva scandito, a diverse tappe, il Novecento e che l’ultimo decennio del secolo doveva ulteriormente rafforzare45. La sconfitta dei regimi autoritari – basati su ideologie nazionaliste o 44 Ivi, p. 16. «Hegel», precisava Fukuyama, «affermò che con le rivoluzioni americana e francese la storia veniva ad avere fine in quanto, in una società caratterizzata dal riconoscimento universale e reciproco, la brama che aveva messo in moto il processo storico, e cioè la lotta per questo riconoscimento, era stata soddisfatta» (ibid.). 45 Sull’estensione dei processi di democratizzazione, oltre a S.P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1995 (ed. or. The Third Wave. Democratization in the Late Twentieth Century, University of Oklahoma Press, 1993), cfr., per esempio, L. Bonanate, Transizioni democratiche 1989-1999, Milano, Franco Angeli, 2000; L. Diamond, Developing Democracy. Toward Consolidation, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1999; Id., The Spirit of Democracy, New York, Times Books, 2007; D. Grassi, Le nuove democrazie. I processi di democratizzazione dopo la caduta del Muro di Berlino, Bologna, Il Mulino, 2008; J. Linz – A. Stepan, Problems of Democratic Transition and Consolidation, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1996; L. Morlino, Democrazia e democratizzazioni, Bologna, Il Mulino, 2003; J.D. Nagle – A. Mahr, Democracy and Democratization. Post Communist Europe in Comparative

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su varianti dell’ideologia marxista-leninista – indicava qualcosa di più che il semplice logoramento delle condizioni di esistenza degli «Stati forti», e cioè degli Stati accentrati, dotati di una consistente burocrazia e in grado di esercitare un rigido controllo sulla società. Quella sconfitta significava infatti anche la vittoria della liberaldemocrazia non solo sui suoi avversari novecenteschi, ma su ogni altro contendente. «Con l’avvicinarsi della fine del millennio le crisi gemelle dell’autoritarismo e della pianificazione centralizzata socialista», scriveva Fukuyama, «hanno lasciato sul ring, quale ideologia di validità potenzialmente universale, un solo contendente: la democrazia liberale, la dottrina della libertà individuale e della sovranità popolare»46. In altre parole, non si trattava solo di una vittoria politica, e dunque del fatto che il numero dei regimi democratici sia andato crescendo nel corso del XX secolo, diventando superiore rispetto a quello dei regimi autoritari o tradizionali presenti sul pianeta. Si trattava di una vittoria soprattutto ideologica, ossia di una vittoria che, di fatto, configurava la democrazia liberale – nella forma consolidata dall’esperienza occidentale – come l’unica alternativa in cui il futuro dell’umanità risultava pensabile, oltre che auspicabile: Al tempo dei nostri nonni erano molte le persone di buon senso che si aspettavano un futuro socialista radioso, in cui la proprietà privata ed il capitalismo sarebbero stati aboliti e la stessa politica sarebbe stata in qualche modo superata. Al contrario, oggi non riusciamo a malapena a immaginarci un mondo migliore del nostro, o un futuro che non sia sostanzialmente democratico e capitalista. È ovvio che all’interno di questa cornice molte sono le cose potrebbero essere migliorate […] Noi possiamo anche immaginarci un domani molto peggiore dell’oggi, dominato dall’intolleranza nazionalistica, razziale o religiosa, o in cui si venga sopraffatti da guerre e distruzioni ambientali. Ma non possiamo raffigurarci un mondo che sia essenzialmente diverso dall’attuale, e nello stesso tempo migliore47.

Perspective, London, Sage, 1999, e E. Somaini, Geografia della democrazia, Bologna, Il Mulino, 2009. 46 F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, cit., p. 63. 47 Ivi, pp. 67-68. Nella sua argomentazione, Fukuyama non mancava di segnalare la crescente rilevanza politica dell’Islam, ma osservava che, «nel suo attuale revival, resta tuttavia il fatto che questa religione non esercita alcun richiamo al di fuori di quelle aree che erano già culturalmente islamiche» (ivi, p. 67). In effetti, nel suo ragionamento, l’enfasi era posta soprattutto sulla vittoria ideologica, sul piano globale, della democrazia liberale: «Per larga parte del mondo questo significa che non esiste oggi un’ideologia con pretese di universalità che sia in grado di minacciare la democrazia liberale, così come non esiste un principio universale di legittimità diverso da quello della sovranità del popolo. Il monarchismo nelle sue varie forme è stato ampiamente sconfitto fin dagli inizi di questo secolo. Il fascismo e il comunismo, i principali rivali fino ad oggi della democrazia liberale, si sono screditati da soli.

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Proprio verso la conclusione del suo best seller, l’intellettuale nippo-americano affacciava però un’ipotesi che si discostava dal quadro allestito fino a quel momento. Dopo aver preso in considerazione la marcia della democrazia nel mondo, Fukuyama avanzava infatti l’idea che l’«ultimo uomo» potesse lasciare nuovamente il campo a un ritorno del «primo uomo», e che l’umanità fosse dunque destinata a tornare – ancora una volta, ma in forme diverse – sui campi di battaglia. Ovviamente, l’«ultimo uomo» di cui parlava Fukuyama era ben lontano dal protagonista dell’incubo di Mary Shelley sulla nuova apocalisse, anche se tra le due figure esisteva un’implicita simmetria. Nella versione di Fukuyama, l’«ultimo uomo» era il protagonista della vittoria della democrazia liberale, un tipo umano «che l’esperienza della storia ha fiaccato e che non si fa più illusioni sulla possibilità dell’esperienza diretta dei valori», e, dunque, un individuo che «ha abbastanza buon senso da non rischiare la vita per una causa, perché egli sa che la storia è piena di battaglie inutili che gli uomini hanno combattuto per sapere se dovevano essere cristiani o musulmani, protestanti o cattolici, tedeschi o francesi»48. Con la consueta disinvoltura teorica, Fukuyama traeva questa figura dalla pagine di Also sprach Zarathustra e di altre opere di Nietzsche, ma ne offriva un ritratto ovviamente diretto a esplicitare la connessione fra quel peculiare tipo umano e la dinamica politica delle democrazie liberali. Lo Stato democratico e liberale, in questo senso, veniva a rappresentare la vittoria non del padrone, ma dello schiavo e delle sue aspirazioni: aspirazioni limitate al benessere, alla sicurezza materiale e al riconoscimento egualitario dei diritti. «Per Nietzsche», osservava, «l’uomo democratico era tutto desiderio e ragione, abilissimo nell’escogitare nuovi modi per soddisfare i suoi piccoli bisogni come nel preoccuparsi egoisticamente del proprio domani», un uomo, dunque, «pago della sua felicità, […] incapace di provare la minima vergogna per il fatto di non sapersi elevare al di sopra di questi bisogni»49. In questo modo, la ricerca del thymòs viene garantita da un riconoscimento reciproco ed egualitario, ma, inevitabilmente, lungo questo stesso sentiero, «quella parte dell’uomo che cerca deliberatamente la lotta e il sacrificio, che sente il bisogno di dimostrare che l’io è qualcosa di migliore e di più alto di un animale pauroso, bisognoso, istintivo e fisicamente determinato», svanisce del tutto, lasciando il posto al trionfo dell’«ultimo uomo». […] Perfino i non democratici saranno […] costretti a parlare il linguaggio della democrazia per giustificare la loro deviazione dall’unico modello universale» (ivi, p. 66). 48 Ivi, pp. 320-321 49 Ivi, p. 315.

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Per alcune caratteristiche, l’«ultimo uomo» evocato da Nietzsche e ripreso da Fukuyama appare vicino all’homo democraticus di cui Tocqueville aveva intravisto, in alcune famose pagine della Democrazia in America, la vocazione individualista potenzialmente capace di condurre a un nuovo dispotismo. «La prima cosa che colpisce l’osservatore», aveva infatti scritto Tocqueville, «è una moltitudine innumerevole di uomini, tutti eguali e somiglianti, che cercano senza posa di procurarsi i piccoli e meschini piaceri di cui saziano le loro vite»; «ognuno di essi vive per conto suo e non si interessa affatto della sorte degli altri», «e se è vero che gli restano dei congiunti, ha però perduto il suo paese»50. In questo senso, l’«ultimo uomo» – per quanto costituisca la premessa indispensabile per la convivenza democratica – conferiva un’intrinseca fragilità alle società occidentali. «Le democrazie liberali non sono autosufficienti: la vita comunitaria dalla quale esse dipendono deve venire da una fonte diversa dal liberalismo», e, paradossalmente, i «principi liberali hanno avuto un effetto corrosivo sui valori precedenti al liberalismo e necessari per la tenuta di forti comunità e perciò anche di quella della società liberale»51. 50

A. de Tocqueville, La democrazia in America, Bologna, Cappelli, 1932, II, p. 336. Mario Tronti ha sottolineato il legame fra queste due figure, che convergono proprio verso una depoliticizzazione della democrazia: «L’homo democraticus, l’individuo isolato e massificato, quanto più globalizzato tanto più ‘particularizzato’, guidato dall’esterno e dall’alto fin mentre coltiva il proprio giardino, il singolo nel gregge, l’ultimo uomo, descritto, prima che da Nietzsche, da Goethe, come soggetto del tempo che vedeva arrivare, ‘l’era delle facilità’ […].Tra metà novecento e fine novecento, è facile vedere il realizzarsi del dramma della democrazia. Ma è qui che la democrazia che si è definitivamente piegata a funzione pubblica dell’homo oeconomicus. Democrazia degli interessi: questo il suo ultimo nome» (M. Tronti, La politica al tramonto, Torino, Einaudi, 1998, pp. 199-200). 51 F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, cit., pp. 339-340. Per questo motivo, Fukuyama delinea l’ipotesi che lo spirito comunitario negli Stati Uniti sia in declino: «Un declino che si è verificato non nonostante i princìpi liberali, ma a causa di essi. Il che fa pensare che nessun rafforzamento della vita comunitaria sarà possibile se i singoli individui non restituiranno alcuni dei loro diritti alle comunità e non accetteranno il ritorno di alcune forme storiche di intolleranza» (ivi, p. 340). Questa tesi, annunciata già al principio degli anni Novanta, è stata ripresa in seguito anche in Id., La grande distruzione, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2001 (ed. or. The Great Disruption. Humane Nature and the Reconstitution of Social Order, Free Press, New York, 1999), e (in una chiave diversa) in Id., Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XX secolo, Torino, Lindau, 2005 (ed. or. State-building. Governance and World Order in the 21st Century, Ithaca, Cornell University Press, 2004). Proprio il «declino» della vita comunitaria negli Stati Uniti è stato inoltre al centro di un fitto dibattito, di cui sono esempi emblematici R.D. Putnam, Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, New York, Simon & Schuster, 2000; T. Skocpol – M.P. Fiorina (eds.), Civic Engagement in American Democracy, Washington D.C., Brookings Institution Press, 1999; S.P. Huntington, La nuova America. Le sfide della società multiculturale, Milano, Garzanti, 2005 (ed. or. Who Are We? America’s great debate, London, Free Press, 2004).

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Il trionfo dell’«ultimo uomo» assume però anche un ulteriore significato, che congiunge la figura nietzschana con la visione hegeliana della «fine della Storia», su cui si regge l’intera operazione di Fukuyama. Nel suo discorso, proprio perché la democrazia liberale garantisce un riconoscimento egualitario, la sicurezza e il soddisfacimento dei bisogni a ogni individuo, l’essere umano che la Storia ha conosciuto – un essere in lotta contro la sua finitezza, contro il bisogno e la sua stessa animalità – cessa di esistere, per lasciare il campo a qualcosa di differente. «Se l’uomo viene definito dal suo desiderio di lottare per il riconoscimento e dal suo lavoro per dominare la natura, e se alla fine della storia egli ottiene sia il riconoscimento della sua umanità che l’abbondanza materiale», scrive Fukuyama richiamando la lezione di Alexandre Kojève, «allora l’‘uomo propriamente detto’ cesserà di esistere in quanto avrà cessato di lottare e di lavorare»52. La «fine della Storia» appare così in una forma diversa da quella hegeliana, che comunque non diverge dall’idea cruciale alla base del saggio dell’intellettuale statunitense. La vittoria della democrazia liberale sui regimi autoritari del Novecento ha comportato infatti la vittoria dell’«ultimo uomo», il quale affida al gioco di una pacifica competizione politica ed economica la soddisfazione di ogni desiderio di riconoscimento. Perciò, questa vittoria conduce non solo alla scomparsa della guerra, ma anche alla scomparsa dei motivi per cui gli esseri umani possono decidere di rischiare la vita sui campi di battaglia: La fine della storia significherebbe così anche la fine delle guerre e delle rivoluzioni sanguinose. Essendo d’accordo sui fini, gli uomini non avrebbero più grandi cause per cui combattere. Essi soddisferebbero i loro bisogni attraverso l’attività economica, ma non dovrebbero più rischiare la vita in battaglia. In altre parole, essi diventerebbero di nuovo degli animali, come lo erano prima della lotta a sangue che dette inizio alla storia. […] Se l’uomo riesce a creare una società in cui sia abolita l’ingiustizia, la sua vita finirà con l’assomigliare a quella di un cane. Nella vita dell’uomo c’è perciò un curioso paradosso: sembra che l’ingiustizia sia necessaria, in quanto è la lotta contro di essa che fa venire alla luce ciò che vi è di più alto53. 52

F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, cit., p. 324. Ivi, p. 325. In termini diversi, anche Kojève aveva evocato la fine della storia: «La scomparsa dell’uomo alla fine della storia non è perciò una catastrofe cosmica: il mondo naturale resta quello che è sempre stato fin dall’eternità. E perciò non è nemmeno una catastrofe biologica: l’uomo rimane vivo quale animale in armonia con la natura o l’essere dato; ciò che scompare è l’uomo propriamente detto, cioè l’azione che nega il dato, e l’errore, o in generale, il soggetto opposto all’oggetto» (A. Kojève, Introduction à la lecture d’Hegel, Paris, Gallimard, 1947, citato in F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, cit., p. 324). Su Kojève, in senso critico rispetto alla lettura proposta da Fukuyama, cfr. G. Barberis, Il Regno della libertà. Diritto, politica e storia nel pensiero di Alexandre Kojève, Napoli, Liguori, 2003, le note 53

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La vittoria della democrazia liberale, agli occhi dell’intellettuale nippoamericano, costituisce una conferma di questa previsione, proprio perché, all’interno delle democrazie, secondo le espressioni hegeliane, «l’ineguale riconoscimento di cui godevano i padroni e gli schiavi viene sostituito da un riconoscimento universale e reciproco, secondo il quale ogni cittadino riconosce la dignità di essere umano di tutti gli altri cittadini, e tale dignità è a sua volta riconosciuta dallo stato attraverso la concessione di diritti»54. Proprio nelle pagine finali, però, Fukuyama considera la possibilità di uno scenario ben diverso, che, evocando il ritorno del «primo uomo», finisce col mettere in dubbio l’intera impalcatura della «fine della Storia». A differenza dell’«ultimo uomo», il «primo uomo» – di cui Hegel descrisse i caratteri – è un individuo spinto dal thymòs, dalla ricerca del prestigio, ossia da quel naturale desiderio di essere riconosciuti migliori degli altri che per millenni ha spinto gli esseri umani sui campi di battaglia, impegnandoli in lotte sanguinose55. Il successo della liberaldemocrazia coincide infatti con il trionfo dell’«ultimo uomo», che soddisfa la propria sete di riconoscimento nella pacifica competizione politica e nello scambio economico. Ma – si chiede Fukuyama nelle pagine conclusive del suo saggio – questo genere di sublimazione del thymòs potrà essere sempre sufficiente? La vittoria dell’ultimo uomo e il suo relativismo non rischieranno, forse, di indebolire le stesse basi della convivenza democratica? O, infine, non è possibile pensare a un ritorno delle forme originarie e brutali con cui gli esseri umani avevano cercato in passato di conquistare il riconoscimento del loro valore? Ed è in effetti cercando di rispondere a quest’ultima domanda che Fukuyama delinea un ulteriore scenario, all’interno del quale l’«ultimo uomo» torna contenute in Id., La politica alla fine della politica, in G. Barberis – M. Revelli, Sulla fine della politica. Tracce di un altro mondo possibile, Milano, Guerini e Associati, 2005, pp. 11-45, ma anche i contributi di M.L. Lanzillo, La fine della storia: l’eroe, il saggio, il sovrano. Hegel, Kojève, Bataille, in «Fenomenologia e società», XVIII (1995), n. 2-3, pp. 228-243; Ead., «Il caso Kojève»: una filosofia della morte, in «Fenomenolgia e società», XX (1997), n. 2, pp. 123-142; M. Vegetti, La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, Milano, Jaca Book, 1999. Sul rapporto fra Kojève e Schmitt, si veda A. Kojève – C. Schmitt, Carteggio, in «Filosofia politica», XVII (2003), n. 2, pp. 185-207, e soprattutto le osservazioni di C. Altini, Fino alla fine del mondo moderno. La crisi della politica nelle lettere di Carl Schmitt e Alexandre Kojève, in «Filosofia politica», XVII (2003), n. 2, pp. 209-222. 54 F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, cit., p. 16. 55 Il «primo uomo» di cui parla Hegel», osserva Fukuyama, «non vuole essere solamente riconosciuto dagli altri uomini, ma vuole essere riconosciuto come uomo. E ciò che costituisce l’identità dell’uomo in quanto uomo, la caratteristica umana unica e fondamentale, è la capacità di rischiare la propria vita. L’uomo è fondamentalmente un animale sociale ed eterodiretto, ma la sua socievolezza non lo porta a vivere in una società civile e pacifica, bensì in una lotta a morte per il prestigio» (ivi, p. 165).

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nuovamente a cedere la scena al «primo uomo», impegnato nella vecchia lotta per il prestigio, ma, questa volta, con armi moderne: Non si sa per quanto tempo ancora la megalotimia si accontenterà di guerre metaforiche e di guerre simboliche. Si sospetta infatti che qualcuno non si riterrà soddisfatto fino a quando non si sarà cimentato in quella che all’inizio della storia costituì la vera dimostrazione di che cosa voleva dire essere uomo: vorrà cioè rischiare la vita in una lotta violenta e dimostrare, senza la minima ombra di dubbio, a se stesso ed ai suoi simili che è un uomo libero. Egli cercherà deliberatamente i disagi e i sacrifici in quanto la sofferenza sarà l’unico modo per dimostrare in maniera definita che esso può pensare bene di sé, che egli resta un essere umano56.

Nel momento in cui evocava il ruolo giocato dal thymòs, Fukuyama si richiamava, almeno implicitamente, a una tradizione intellettuale ben diversa da quella liberale. Quando affermava che «una psicologia o una scienza politica che non tengano conto del desiderio che l’uomo ha del proprio riconoscimento, e della sua infrequente ma molto pronunciata disponibilità ad andare a volte anche contro il più forte istinto naturale, dimostrano di non capire elementi molto importanti del comportamento umano»57, sembrava attingere alla tradizione del «realismo politico»»58. Proprio mentre evocava l’immagine del possibile ritorno del «primo uomo», Fukuyama pareva in effetti adottare una concezione della «politica» diversa da quella proposta dai vari filoni liberali: una concezione secondo cui la «politica» è un fenomeno inevitabilmente conflittuale e, al tempo stesso, inscritto nella «natura umana». D’altronde, nonostante l’autore della Fine della storia non risparmiasse critiche ad autori realisti come Hans J. Morgenthau e Reinhold Niebuhr59, la sua idea dell’essere umano come spinto dalla ricerca del prestigio si ritrovava formulata (in modo certo differente, e sempre affiancata al riconoscimento del ruolo rivestito dalla ricerca di sicurezza e della ricchezza materiale) negli scritti di Tucidide, Machiavelli e Hobbes, e cioè proprio in quei pensatori cui ogni visione «realista» dei fenomeni politici guarda come ad autentici pilastri teorici. In questo modo, la tesi della «fine della Storia» veniva posta in questione dall’eventualità che il ‘politico’, con il suo crudo pegno di violenza e di sangue, tornasse improvvisamente a interrompere il cammino del genere umano verso la realizzazione (e la conservazione) di 56

F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, cit., p. 342. Ivi, p. 170. 58 Per una ricostruzione dell’itinerario e dei caratteri del «realismo politico», cfr. per esempio l’efficace sintesi di P.P. Portinaro, Il realismo politico, Roma-Bari, Laterza, 1999. 59 Cfr., in particolare, F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, cit., pp. 261-280. 57

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un mondo finalmente pacifico, democratico e liberale. Risultava perciò essenziale, per i sostenitori del progetto liberale, porsi una serie di inquietanti interrogativi: C’è forse un lato della personalità umana che cerca volutamente la lotta, il pericolo, il rischio e la sfida, tanto da non restare soddisfatto della «pace e della prosperità» della democrazia liberale contemporanea? La soddisfazione di certi esseri umani non dipende forse dal riconoscimento che sono intrinsecamente diversi? Non solo, ma il desiderio di un riconoscimento ineguale non costituisce forse il fondamento di una vita degna essere vissuta, e questo non solo nelle passate società aristocratiche, ma anche nelle moderne democrazie liberali? E non può essere che il futuro di quest’ultima dipenda in una certa misura dall’intensità o meno con cui i loro cittadini cercheranno di essere riconosciuti non come eguali ma come superiori agli altri? E la paura di diventare «ultimi uomini» spregevoli non potrebbe condurre gli esseri umani ad affermarsi in modi nuovi ed inaspettati ed a giungere addirittura al punto di diventare ancora una volta i feroci «primi uomini» impegnati in lotte sanguinose per il prestigio, questa volta con armi moderne?

Un elemento singolare di questa operazione teorica era che una tesi dai connotati evidentemente conservatori come quella della «fine della Storia» fosse contrastata – proprio dall’autore che forniva una delle più note celebrazioni della vittoria delle liberaldemocrazie occidentali – da una concezione della politica che aveva costituito a lungo il patrimonio privilegiato di autori spesso ritenuti conservatori (se non addirittura ‘reazionari’). Ma l’aspetto più rilevante del discorso svolto da Fukuyama, e soprattutto dell’idea del ritorno in vesti moderne del «primo uomo», non consisteva tanto nella modalità con cui la tesi di fondo della «fine della storia» era posta in discussione (e, dunque, nell’utilizzo peculiare della tradizione del realismo politico), quanto nella stessa forma in cui era pensato il conflitto dopo la «fine della Storia». «Il pensiero moderno», osservava per esempio Fukuyama, «non erige barriere ad una futura guerra nichilistica contro la democrazia liberale da parte di coloro che ha allevato nel suo seno»60. Anche se lo sviluppo economico e tecnologico costituivano degli argini in grado di rendere piuttosto difficile il ritorno del «primo uomo», notava Fukuyama, l’eventualità di un’offensiva «nichilista» contro la democrazia non poteva essere considerata come del tutto irrealizzabile. Ma, in questo discorso, il punto più importante era costituito non tanto dalla possibilità che potessero emergere nuove linee conflittuali, quanto dallo stesso profilo che i nuovi conflitti contro la demo-

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Ivi, p. 345.

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crazia avrebbero assunto. Proprio perché la democrazia era per Fukuyama «il punto d’arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità», della razionalità e della ricerca pacifica di riconoscimento, ai suoi occhi la guerra contro la democrazia non poteva che assumere i contorni drammatici di una guerra «nichilista», provocata dalla «noia della pace e della prosperità»61. Il principio del nuovo secolo ha in parte incrinato l’ottimismo di Fukuyama, così come le difficoltà incontrate dal processo di democratizzazione hanno forse reso meno salda – quantomeno sul terreno empirico – la vittoria della liberaldemocrazia occidentale62. Ma il ritorno del «primo uomo» sembra essersi effettivamente materializzato, insieme allo spettro di una «guerra nichilistica contro la democrazia liberale da parte di coloro che ha allevato nel suo seno». E, come nel discorso di Fukuyama, anche in questo caso non è tanto la realtà del conflitto a essere significativa, quanto la forma in cui esso viene pensato e rappresentato. Nel mondo «post-storico», infatti, il conflitto non può essere pensato altro che nella forma della «guerra nichilista» portata avanti dal «primo uomo». E la democrazia non può essere pensata altrimenti che come la forma politica capace di garantire la salvezza dell’intero genere umano63.

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In effetti, secondo Fukuyama, un simile rischio scaturisva dalla tendenza nichilista e relativista propria delle democrazie, oltre che dall’«anomia» prodotta dalla convivenza democratica: «la guerra contemporanea ha minato la fiducia popolare nel significato di parole come coraggio ed eroismo, ed in chi è stato coraggioso ed eroico ha favorito un profondo senso di alienazione, di anomia. E se un domani la noia della pace e della prosperità porterà gli uomini a cercare nuove lotte e nuove sfide timotiche, c’è il rischio che le conseguenze siano ancora più terribili. Oggi abbiamo infatti delle armi nucleari ed altri ordigni per distruzioni di massa capaci di uccidere in maniera istantanea ed anonima milioni di persone» (ivi, p. 349). 62 Cfr. per esempio le osservazioni di L. Diamond, The Democratic Rollback. The Resurgency of the Predatory State, in «Foreign Affairs», 2008, n. 2 (ww.foreignaffairs.org). 63 Paradossalmente, si muovono all’interno di queste coordinate anche le considerazioni di Robert Kagan, che, pur dirigendosi contro la tesi della «fine della Storia», rappresentano la politica mondiale nei termini di una contrapposizione fra «democrazie liberali» e «grandi potenze autocratiche», affiancate dalle forze «reazionarie del radicalismo islamico». Cfr. R. Kagan, Il ritorno della storia e la fine dei sogni, Milano, Mondadori, 2008, p. 136 (ed. or. The Return of History and the End of Dreams, New York, Alfred A. Knopf, 2008). Per una discussione di questa lettura, rinvio a D. Palano, La Storia è finita? Democrazie alla prova, in «Vita e Pensiero», XCII (2009), n. 4, pp. 22-29.

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IV. Ricordiamoci di una sentenza hegeliana: l’umanità, nel passaggio dal feudalesimo all’assolutismo, aveva bisogno della polvere da sparo, ed eccola apparire. Forse che anche i mezzi moderni di annientamento sono apparsi perché l’umanità moderna ne aveva bisogno? E di che cosa l’umanità moderna aveva bisogno allorché comparvero questi mezzi di annientamento? In ogni caso c’era bisogno di una guerra giusta per giustificare l’impero di tali mezzi di annientamento. C. SCHMITT, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicaum europaeum», Adelphi, Milano, 1991, p. 431 (ed. or. Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Duncker & Humblot, Berlin, 1950).

Nel contesto del dibattito successivo al 1989, l’operazione compiuta da Fukuyama non costituiva certo un’eccezione, ma l’inatteso successo della Fine della storia e l’ultimo uomo – oltre che all’ambiguità del titolo – era dovuto probabilmente alla capacità di fondere insieme una serie di motivi destinati a imprimersi, come veri e propri luoghi comuni, nell’immaginario non solo occidentale. Il riconoscimento del trionfo – ideologico, prima che politico – della liberaldemocrazia si saldava infatti con una visione ottimistica del progresso e con la fiducia nelle capacità dell’economia globalizzata di incanalare il pianeta verso una stagione di pace e di prosperità, in cui i regimi autoritari e totalitari non costituivano più una minaccia seriamente preoccupante. Al tempo stesso, la tesi della «fine della Storia» aveva un’ulteriore implicazione, secondo la quale, con la sconfitta di qualsiasi ideologia alternativa al progetto liberaldemocratico, anche il conflitto radicale – all’interno delle stesse società occidentali – era destinato a scomparire e a essere incanalato nella logica di un’ordinata competizione elettorale o di una contrattazione utilitaristica fra gruppi di interesse. In questo senso, la lettura di Fukuyama racchiudeva tutti i motivi di quella visione che rappresenta il mondo contemporaneo non soltanto come un mondo «post-storico», ma addirittura come un mondo «postpolitico»: un mondo in cui la «politica» si esaurisce e viene assorbita dal pacifico gioco degli interessi. In realtà, la tesi della «fine della politica» non costituisce una novità di questi ultimi anni, perché ha alle spalle precedenti piuttosto solidi, che rimandano, per esempio, al culto industrialista di Saint-Simon o alla stessa previsione marxiana sull’estinzione dello Stato, e che hanno trovato ulteriori

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declinazioni ben prima della fine della Guerra fredda64. Già al principio degli anni Settanta, per esempio, Wilhelm Hennis scorgeva i tratti di un esaurimento della politica, all’interno di un discorso in cui quest’ultima era però intesa in senso arendtiano, come «sfera dell’apparire» reciproco e come ambito simbolico dell’azione65, mentre circa un decennio dopo Pierre Birnbaum utilizzava la formula della «fine della politica» per riferirsi, in sostanza, al progressivo declino delle grandi ideologie del Novecento e al crescente ruolo di tecnocrazie ‘spoliticizzate’66. In questa fase del dibattito, l’idea dell’esaurimento della politica era avanzata in termini critici, per sottolineare il ruolo sempre più marcato degli operatori economici, che parevano scalzare i grandi soggetti collettivi, fino ad allora protagonisti delle democrazie occidentali postbelliche. E, in effetti, a dispetto dei differenti riferimenti teorici e, soprattutto, della ben diversa nozione di «politica» cui questi autori si riferivano, era chiaro che – come notava Pier Paolo Portinaro – si trattava di posizioni «accomunate dalla denuncia della colonizzazione della sfera pubblica per mezzo delle potenze ‘antipolitiche’ […] operanti nella società economica»67. A partire dalla fine degli anni Ottanta, la tesi della «fine della politica» ha assunto invece contorni originali, condensati all’interno di quella che Chantal Mouffe ha definito come visione «postpolitica»: una visione secondo cui «abbiamo ormai raggiunto uno stadio di sviluppo economico-politico che costituisce uno straordinario progresso nell’evoluzione dell’umanità» e per cui «non ci resta che esaltare le possibilità che esso dischiude»68. Agli occhi tanto dei sostenitori, quanto dei critici, la visione «postopolitica» assume i tratti di una sorta di vero e proprio fatalismo, secondo il quale, come ha scritto Andrew Gamble, «la vicenda dell’umanità sarebbe giunta a un grande spartiacque, riflesso della disillusione novecentesca per le utopie politiche liberali e socialiste e di un diffuso disincanto nei confronti delle grandi narra-

64 Cfr. sul punto, per esempio, le ricostruzioni svolte da D. Fisichella, Crisi della politica e governo dei produttori, Roma, Carocci, 2007, e D. Zolo, La teoria comunista dell’estinzione dello Stato, Bari, De Donato, 1974. 65 Cfr. W. Hennis, Ende der Politik? Zur Krisis der Politik in der Neuzeit, in Id., Politik und praktische Philosophie. Schriften zur politischen Theorie, Stuttgart, Klett-Kotta, 1977, pp. 176-197. 66 P. Birnbaum, La fin du politique, Paris, Editions du Seuil, 1975. 67 Cfr. P.P. Portinaro, Antipolitica o fine della politica? Considerazioni sul presente disorientamento teorico, in «Teoria politica», IV (1988), n. 1, pp. 121-137, specie p. 132. A questa stagione del dibattito risalgono anche i contributi raccolti in A. Bolaffi – M. Ilardi, (a cura di), Fine della politica? La politica tra decisione e movimenti, Roma, Editori Riuniti, 1986. 68 C. Mouffe, Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 1 (ed. or. On the Political, London, Routledge, 2005).

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zioni illuministiche sulla ragione e sul progresso e della stessa modernità»69. Insieme al Novecento, sembrano così tramontare anche le speranze che la politica – e soprattutto lo Stato, la sua principale incarnazione moderna – possa regolare o guidare le grandi forze ‘non politiche’ dello sviluppo economico e tecnologico, e pare dunque svanire ogni prospettiva di «progresso» differente dalla semplice perpetuazione – o dilatazione – del presente. «Il nostro attuale destino», ha osservato Gamble, «sembrerebbe quello di vivere nelle gabbie di ferro create da vaste forze impersonali, derivanti dalla globalizzazione e dalla tecnologia, in una società che è al tempo stesso antipolitica e apolitica, priva della speranza e dei mezzi per immaginare o perseguire un futuro alternativo»70. In altre parole, il nuovo fatalismo non si limita a riconoscere che gli attori economici hanno conquistato un ruolo più significativo rispetto a quelli politici, come gli Stati, i partiti, i sindacati, i movimenti collettivi, ma si spinge a rappresentare una simile dinamica nei termini di un risultato inevitabile, inscritto in un destino in cui la «politica» – così come è stata finora conosciuta – non può che svanire71. 69 A. Gamble, Fine della politica?, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 7 (ed. or. Politics and Fate, Cambridge, Polity Press, 2000). 70 Ibid. Il successo dell’«antipolitica», che Gamble inscrive solo in parte all’interno del contesto del nuovo «fatalismo», costituisce però una variante significativa di alcuni dei suoi temi di fondo: cfr. per esempio: G. Mulgan, Politics in an Antipolitical Age, Cambridge, Polity Press, 1994; Id. (ed.), Life After Politics. New Thinking for the Twenty-First Century, London, Fontana, 1997; A. Schedler (ed.), The End of Politics. Explorations into Modern Antipolitics, London, Macmillan, 1997, e, per il caso italiano, A. Mastropaolo, Antipolitica. All’origine della crisi italiana, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2000. Alcune declinazioni recenti del dibattito sulla «fine della politica» sono offerte, invece, da G. Barberis – M. Revelli, Sulla fine della politica. Tracce di un altro mondo possibile, cit.; C. Boggs, The End of Politics. Corporate Power and the Decline of the Public Sphere, New York, Guilford, 2000; R. Kurtz, La fine della politica. Tesi sulla crisi del sistema di regolazione in forma di merce, in Id., La fine della politica e l’apoteosi del mercato, Manifestolibri, Roma, 1997, pp. 17-68 (ed. or. Das Ende der Politik, in «Krisis», n. 14, 1994); M. Revault d’Allonnes, Le dépérissement de la politique. Genealogie d’un lieu commun, Paris, Aubier, 2004; M. Revelli, La politica perduta, Torino, Einaudi, 2003; P. Rosanvallon, La contre-democratie. La politique a l’âge de la défiance, Seuil, Paris, 2006; M. Tronti, La politica al tramonto, Torino, Einaudi, 1998, e Id., Politica e destino, Roma, Sossella, 2006. Alla fine della politica sono dedicate inoltre, da una prospettiva peculiare, le tesi di P. Barcellona, La parola perduta. Tra «polis» greca e cyberspazio, Bari, Dedalo, 2007, e P. Barcellona – T. Garufi, Il furto dell’anima. La narrazione post-umana, Bari, Dedalo, 2008. 71 La nozione di «postpolitica» acquista un ulteriore significato nella proposta di Slavoj Žižek, che ha scritto, a questo proposito: «La modalità della politica che oggi predomina è la biopolitica postpolitica […]: la ‘postpolitica’ è una politica che sostiene di lasciare dietro di sé le vecchie lotte ideologiche per concentrarsi invece su una gestione e su un’amministrazione competenti, mentre la ‘biopolitica’ designa come proprio obiettivo principale la regolamentazione della sicurezza e delle vite umane» (S. Žižek, La violenza invisibile, Milano, Rizzoli, 2007, p. 45; ed. or. Violence, London, Profile Books, 2007). Ma cfr. anche Id., Carl Schmitt in

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Dinanzi a questo nuovo «fatalismo» e alla forza della visione «postpolitica», era pressoché inevitabile che la concezione realista della politica – quantomeno in alcuni suoi aspetti – fosse utilizzata in una nuova direzione. Fino al principio degli anni Ottanta, l’idea che la politica rimandasse a un insieme di caratteristiche naturali degli esseri umani – o, per utilizzare l’espressione di Gaetano Mosca, a una serie di «tendenze psicologiche costanti», destinate a riprodursi incessantemente nel tempo e nello spazio – era stata intesa come strumento chiave di una critica prevalentemente conservatrice: era stata cioè il presupposto di una critica rivolta a quelle proposte politiche che, per esempio, imputavano comportamenti come il conflitto, il ricorso alla guerra, il dominio delle minoranze sulle maggioranze, le violenze identitarie, non alla «natura umana», ma a peculiari condizioni storiche, sociali o economiche. Agli occhi dei cultori del realismo politico quei comportamenti non costituivano deviazioni o fenomeni di «regressione», ma dovevano essere interpretati come specifiche manifestazioni delle «regolarità» che invariabilmente caratterizzano il fenomeno politico: «regolarità» che le ideologie – soprattutto quelle progressiste ed egualitarie – occultano sotto un velo illusorio, che impedisce di coglierne la sostanza. Proprio per questo, la cinica prospettiva del realismo politico si era indirizzata per un secolo – soprattutto a partire dal trauma della Comune fino agli anni Settanta del Novecento – verso un impietoso smantellamento delle utopie radicali, democratiche e socialiste, condotto dalle voci, diverse per accenti ma concordi nell’impostazione, prima di Hippolyte Taine, Mosca, Vilfredo Pareto, Robert Michels, e poi, per esempio, di Raymond Aron, Julien Freund e Gianfranco Miglio. Dopo la Guerra fredda, invece, quella medesima prospettiva doveva volgersi contro un nuovo bersaglio, ossia contro le molte varianti del nuovo fatalismo che rappresenta l’avvento della globalizzazione come l’ingresso dell’umanità in una stagione storica completamente diversa rispetto al passato. Per esempio, Mario Tronti, al principio degli anni Novanta, poteva contestare la tesi della «fine della Storia» proprio impugnando le armi del vecchio realismo, o quantomeno l’idea che il conflitto non fosse eliminabile dall’esperienza umana. «Senza voler fare historia de la eternidad» – osservava in un passaggio di Con le spalle al futuro – «è veramente non pensabile la fine della politica», non tanto «per la immodificabilità della natura umana e dunque per la ripetibilità di comportamento di quegli uomini artificiali che sono gli Stati», quanto «perché sono la società divisa e la divisione del mondo, sono il conflitto e

the Age of Post-Politics, in C. Mouffe (ed.), The Challenge of Carl Schmitt, London, Verso, 1999, pp. 16-39.

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la guerra che producono la necessità della politica»72. Così, lungo questo versante, la visione «postpolitica» ha trovato robusti avversari teorici in tutte quelle posizioni che – richiamandosi al realismo politico, o all’emergere di nuove fratture economiche, culturali, religiose – hanno contrastato l’idea che il conflitto, nelle sue forme radicali e non riconducibili alla dinamica del confronto razionale e utilitaristico, non sia affatto superato, e che la «politica assoluta» sia ancora una volta destinata a riemergere, come sempre, da una nuova svolta delle vicende umane73. Benché esprimano una distanza critica nei confronti delle visioni fatalistiche della globalizzazione, i saggi compresi in questo volume non riconoscono invece nello «spirito postpolitico» contemporaneo soltanto l’esito di una deleteria deviazione teorica, o il risultato di una deformante rappresentazione ideologica. Al contrario, partono dal presupposto che l’«era postpolitica» sia una realtà evidente del nostro tempo, una realtà in cui ovviamente vanno ambiguamente a sovrapporsi – come sempre avviene nelle vicende politiche – realtà materiali e ‘finzioni’. Inoltre, benché riconoscano nella tradizione del realismo politico un pilastro insostituibile, questi saggi si discostano da quella rappresentazione della dinamica storica, propria di molti autori realisti, secondo cui le vicende umane non sarebbero altro che l’ininterrotta (e in fondo sempre uguale) sequenza di conflitti più o meno cruenti. E, infine, puntano a scorgere nell’aspirazione a un governo universale e a una democrazia globale qualcosa di più che un’utopia affascinante ma irrealizzabile. Naturalmente, gli appunti raccolti in questo volume non possono proporsi di svolgere per intero quell’intricata matassa che discende, in parte non residuale, dalla netta distinzione fra l’arena interna dei sistemi politici e la dimensione internazionale, anche se uno dei presupposti che li accomuna è proprio l’idea che il superamento di questa barriera teorica e disciplinare sia per molti versi indispensabile. In effetti, la «politica interna del mondo» – secondo la formula proposta da Jürgen Habermas74 – non

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M. Tronti, Con le spalle al futuro, Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 11. La nozione di «politica assoluta» è qui utilizzata nel senso indicato da A. Pizzorno, La politica assoluta e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1993. 74 Cfr., per esempio, J. Habermas, Dopo l’utopia. Il pensiero critico e il mondo d’oggi, Venezia, Marsilio, 1992 (ed. or. Vergangenheit als Zukunft, Zürich, Pendo Verlag, 1990); Id., L’inclusione dell’altro, Milano, Feltrinelli, 1998 (ed. or. Die Einbeziehung des Anderen, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1996); Id., La costellazione postnazionale, Milano, Feltrinelli, 1999, (ed. or. Die postnationale Konstellation: Politische Essays, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1998), ma soprattutto la declinazione che della formula «politica interna del mondo» ha proposto L. Bonanate, 2001: la politica interna del mondo, in «Teoria politica», XVII (2001), n. 1, pp. 3-25, e Id., La politica internazionale fra terrorismo e guerra, Roma-Bari, Laterza, 2004. 73

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è semplicemente una versione aggiornata della vecchia utopia illuminista di una «Cosmopolis» da cui sia definitivamente bandita la guerra, ma un orizzonte reale, reso possibile da quella «rivoluzione spaziale» di cui Schmitt aveva intuito la portata e che nell’ultimo mezzo secolo ha compiuto nuovi passi. Naturalmente, la politica mondiale è ben lontana da una condizione di pace universale, e con ogni probabilità continuerà a essere tale nel prossimo futuro. Così, l’«unità del mondo» – intesa come unità politica del genere umano sotto un unico, grande Stato mondiale – continuerà a essere solo l’irraggiungibile miraggio del genere umano, un miraggio reso di fatto irrealizzabile dal carattere intrinsecamente ‘politico’ della coesistenza umana e, forse, persino dalla stessa natura irriducibilmente conflittuale e bellicosa dell’essere umano75. Ma, a dispetto della sua irrealizzabilità, l’unità politica del mondo non diventa solo pensabile dal punto di vista teorico, per effetto della «rivoluzione spaziale»: l’unità politica dell’intero genere umano diventa, in qualche modo, una prospettiva indispensabile, un progetto – intrinsecamente ‘politico’ – reso necessario dalla stessa portata distruttiva degli strumenti di annientamento. E, proprio per questo, anche la struttura concettuale della contemporanea dottrina della democrazia risulta comprensibile solo nella sua connessione con la causa dell’«umanità» e con la prospettiva di un governo capace di stendere la propria ala protettrice sull’intero pianeta. Benché la teoria «neoclassica» della democrazia tragga molti elementi significativi da realtà istituzionali e dottrinarie del passato, la più profonda struttura concettuale della democrazia contemporanea si colloca interamente nel quadro della «rivoluzione spaziale» dell’ultimo secolo76. Per questo motivo, la democrazia contemporanea non può essere considerata soltanto come l’aggiornamento – ‘corretto’ e ‘moderato’ – degli antichi ideali democratici, del progetto repubblicano rinascimentale o del sistema rappresentativo-elettivo dell’Inghilterra liberale. E, d’altra parte, non si può ritrovare la sua specificità nel ruolo giocato da realtà organizzative come partiti, sindacati, movimenti e organizzazioni, che ovviamente svolgono una parte rilevante nella configurazione concreta assunta dai singoli sistemi politici. Ognuna 75

«Se uno ‘Stato mondiale’ racchiudesse tutta la terra e tutta l’umanità», scriveva proprio in questo senso Schmitt già negli anni Venti del Novecento, «esso non sarebbe dunque un’unità politica e lo si dovrebbe chiamare Stato solo per modo di dire», perché «dovrebbe perdere ogni carattere politico». Cfr. C. Schmitt, Il concetto del politico (1927), in Id., Posizioni e concetti, cit., pp. 105-117, specie p. 117; ed. or. Der Begriff des Politischen, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», LVIII (1927), n. 1, pp. 1-33. 76 Per una critica della teoria «neoclassica» della democrazia, cfr. D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1993.

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di queste radici storiche e di queste realtà organizzative e istituzionali non riesce infatti a rendere conto di quel carattere tendenzialmente «universale», che configura il progetto dottrinario della democrazia novecentesca come irriducibile a ognuno dei precedenti usualmente evocati nelle ricostruzioni del termine-concetto «democrazia»77. Nonostante sia spesso sottovalutato, e accantonato come un dato congiunturale, del tutto irrilevante nella marcia inarrestabile della «democrazia» e dell’ideale democratico, il punto di svolta nella storia concettuale della democrazia si può ritrovare in quel fatale Weltbürgerkrieg che, nella prima metà del Novecento, consegna al mondo la realtà della nuova potenza statunitense. È proprio nella fucina delle guerre europee della prima metà del XX secolo, nel momento in cui la politica si mostra come traumatico «eccesso»78, che la democrazia – fino ad allora guardata con sospetto dal pensiero liberale, come nefasto retaggio del Terrore giacobino, o come inquietante annuncio della rivoluzione socialista – inizia a trovare una nuova qualificazione e a essere utilizzata per indicare i sistemi rappresentativo-elettivi anglo-americani, in lotta dapprima contro gli imperi centrali, «nemici naturali della libertà»79, e in seguito contro i regimi totalitari. È proprio a partire da una simile dinamica geo-politica – ovviamente irriducibile a ogni precedente del passato – che si definisce l’odierna dottrina della democrazia, la cui più elevata fonte di legittimazione 77 Cfr., per esempio, L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari, Laterza, 2004; W. Conze et al., Democrazia, Venezia, Marsilio, 1993 (ed. or. Demokratie, in Geschichtliche Grundbegriffe, Stuttgart, Klett, 1975); J. Dunn (a cura di), La democrazia. Storia di un’idea politica dal VI secolo a.C. a oggi, Venezia, Marsilio, 1995 (ed. or. Democracy. The Unfinished Journey, 508 BG to AD 1993, Oxford, Oxford University Press, 1992); E. Greblo, Democrazia, Bologna, Il Mulino, 1999, e D. Held, Modelli di democrazia, Bologna, Il Mulino, 1989. 78 Cfr. in tal senso L. Ornaghi, Un secolo smisurato. Gli eccessi della politica e la politica come eccesso, in A. Abruzzese et al., ’900: un secolo innominabile. Idee e riflessioni, Venezia, Marsilio, 1998, pp. 35-60. 79 Traggo la formula dalla didascalia che, sulla «Domenica del Corriere», commentando una tavola di Achille Beltrame, annunciava l’ingresso degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale: «Gli Stati Uniti nel conflitto. Per l’ultimo colpo al ‘nemico naturale della libertà’ una nuova grande forza è venuta ad unirsi agli Alleati»: cfr. «La Domenica del Corriere», 15 aprile 1917, riprodotta in G. Ginex (a cura di), La Domenica del Corriere. Il Novecento illustrato, Milano, Skira, 2007, specie p. 124 e p. 267. «Nel corso della prima guerra mondiale», ha notato d’altronde Domenico Losurdo, «paesi come la Francia, l’Inghilterra, l’Italia e gli Stati Uniti sono andati incontro al massacro agitando la bandiera dell’‘interventismo democratico’: la guerra era necessaria per far avanzare sul piano mondiale la causa della democrazia, per liquidare negli imperi centrali l’autocrazia e l’autoritarismo e sradicare così una volta per sempre il flagello della guerra», anche se questo motivo ideologico non era neppure «del tutto estraneo alla Germania guglielmina che, almeno sino alla rivoluzione del febbraio 1917, ha preteso di esportare la democrazia nella Russia zarista» (D. Losurdo, Il linguaggio dell’impero. Lessico dell’ideologia americana, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 286).

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non viene collocata più, semplicemente, nella volontà popolare o nelle articolazioni in cui si manifesta la vita di un popolo o di una nazione. Anche se solo in via tendenziale, la democrazia trova la propria legittimazione nell’eguaglianza assoluta degli esseri umani e, dunque, nella tutela dei diritti che spettano, ‘naturalmente’, a ogni individuo proprio in virtù dell’appartenenza al genere umano. È persino superfluo ricordare come simili speranze siano state invariabilmente disattese, e come la contrapposizione bipolare della Guerra fredda abbia a lungo fatto recedere le democrazie dall’impegno a difendere i diritti umani80, come, d’altronde, è piuttosto scontato prendere atto delle molte difficoltà che discendono dalla incerta definizione degli stessi diritti umani81. Il punto è però che la garanzia dei diritti umani – in quanto garanzia politica offerta a ciascun membro del genere umano, a prescindere dalla sua appartenenza a una specifica comunità politica – e il contemporaneo concetto di democrazia sono strettamente legati, proprio perché risultano comprensibili solo nel quadro di quella «rivoluzione spaziale» che, nel momento della sua potenziale distruzione, rende l’«umanità» un soggetto pensabile politicamente. La connessione fra la tutela dei diritti umani e l’estensione della democrazia era per molti versi visibile in filigrana già nella Carta istitutiva dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, in cui era solennemente dichiarato l’impegno a eliminare il «flagello della guerra», a promuovere i «diritti umani fondamentali», «la dignità e il valore della persona umana», «gli uguali diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni piccole e grandi», «migliori standard di vita» e la «tolleranza»82. Ma questo legame si mostra in modo esplicito dopo il 1989, quando la democratizzazione, nella dottrina e nella prassi dell’Onu, viene a identificarsi con lo strumento principale atto a garantire il rispetto dei diritti umani e lo sviluppo pacifico della società. In termini ancora più radicali, proprio in questa fase emergono con forza i caratteri della progressiva (ma tutt’altro che lineare) trasformazione della nozione di sovranità. Una trasformazione in virtù della quale la legittimità di uno Stato sovrano non discende semplicemente dal duplice criterio dell’effettività del dominio esercitato su un determinato territorio (e sulla sua popolazione) e del riconoscimento giuridico da parte dei membri della comunità internazionale, bensì anche dal «popolo», ossia dalla forma democratica 80 Su questi problemi, attira l’attenzione, tra gli altri, L. Bonanate, Democrazia tra le nazioni, Milano, Bruno Mondadori, 2001. 81 Cfr. N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990. 82 Carta delle Nazioni Unite, art. 1. Cfr. in proposito anche D. Archibugi, Democracy and the United Nations, in T. Inoguchi – E. Newman – J. Keane (eds.), The Changing Nature of Democracy, Tokio-New York, United Nations University Press, 1998, pp. 244-254.

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dell’organizzazione statale: l’unica forma in cui uno dei diritti fondamentali enunciati dalla Carta di San Francisco – il «diritto di autodeterminazione dei popoli» – può trovare una reale garanzia83. È chiaro come il nesso sempre più stretto fra democrazia e diritti umani sia legato anche al «momento unipolare» e al ruolo assunto dagli Stati Uniti dopo il 1989. Ed è probabile che in un futuro più o meno prossimo, dinanzi all’ascesa di nuovi rivali della potenza americana, anche la causa della democrazia perderà almeno una parte del suo fascino. Ciò nondimeno, sarebbe semplicistico liquidare l’immagine della democrazia come «destino» del genere umano e come strumento di realizzazione dei «diritti umani fondamentali», considerandola come una semplice formula ideologica, volta a travestire la realtà di un dominio incontrastato. Per quanto si tratti di una ‘finzione’, essa si colloca nella realtà di uno spazio irrimediabilmente globale, uno spazio in cui l’orizzonte non può che coincidere con quello dell’intera umanità e in cui – secondo un’inflessibile logica speculare – i nemici non possono che assumere le terribili fattezze dell’hostis generis humani. Proprio al termine del Nomos della Terra, Schmitt richiamava la sentenza hegeliana secondo cui «l’umanità nel passaggio dal feudalesimo all’assolutismo, aveva bisogno della polvere da sparo», proprio nel momento in cui essa aveva fatto la sua comparsa. Secondo la medesima logica, osservava il giurista, «i moderni mezzi di annientamento» sono apparsi forse «perché l’umanità moderna ne aveva bisogno»; o, più probabilmente, «c’era bisogno di una guerra giusta per giustificare l’impiego di tali mezzi di annientamento»84. In modo analogo, la prospettiva di una democrazia globale richiedeva forse che la scomparsa del genere umano diventasse tecnicamente possibile,

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Naturalmente, il processo di trasformazione del criterio internazionalistico di sovranità avrebbe implicazioni dirompenti, per il semplice motivo che un’integrale attuazione di una simile dottrina comporterebbe il mancato riconoscimento, agli Stati non democratici, dello stesso criterio della statualità. Su questo problematico (soprattutto dal punto di vista della dottrina del diritto internazionale) processo di trasformazione della sovranità, cfr., per esempio, J. Crawford, Democracy and International Law, in «British Yearbook of International Law», 1993, n. 44, pp. 113-133; T. Franck, The Emerging Right to Democratic Governance, in «American Journal of International Law», 1992, n. 86, pp. 46-91; Id., Fairness in International Law and Institutions, Oxford, Clarendon Press, 1995; Id., Legitimacy and the democratic entitlement, in G.H. Fox – B.R. Roth (eds.), Democratic Governance and International Law, Cambridge, Cambridge University Press, 2000; M. Reisman, Sovereignty and Human Rights in Contemporary International Law, in G.H. Fox – B.R. Roth (eds.), Democratic Governance and International Law, cit., pp. 239258; R. Rich, Bringing Democracy into International Law, in «Journal of Democracy», XII (2001), n. 3, pp. 20-34; R. Jackson, Sovereignty: A Changing but Persisting Idea, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2007, n. 6, pp. 4-14. 84 C. Schmitt, Il nomos della Terra, cit., p. 431.

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e che il bando dei nemici dell’umanità aprisse il campo alla prospettiva – o alla ‘finzione’ – di un mondo «postpolitico». Ma proprio in un simile contesto – in cui la «Storia» finisce, consegnando all’umanità la sua definitiva forma di organizzazione politica – diventa indispensabile ripensare alla forma che assume il ‘politico’. E alle sembianze, al tempo stesso umane e disumane, con cui si presenterà ai nostri occhi il ritorno del «primo uomo».

1 Il ‘politico’ nell’era «postpolitica» Con Schmitt, oltre Schmitt?

1.1 Nemici del genere umano Nel suo celebrato I Am Legend, scritto proprio negli anni più cupi della Guerra fredda, Richard Matheson non si limitava a rivisitare l’antica mitologia del vampiro. Le ombre che affioravano al calare delle tenebre, nel suo romanzo, avevano infatti ben poco a che vedere sia con le vecchie leggende, sia con la letteratura gotica. «I vampiri», scriveva d’altronde Matheson, «si erano ormai esauriti tra gli idilli di Summer e i melodrammi di Stoker o in una breve citazione nella Britannica; erano finiti a far da frumento per la macina degli scrittori pulp o da materia prima per la produzione di film di second’ordine»1. Quell’antico spettro – «un’ombra nera e notturna [...] emersa strisciando dal medio evo» e «consegnata di sana pianta alle pagine della letteratura fantastica» – al principio degli anni Cinquanta, dopo la terrificante comparsa dell’ordigno nucleare, non poteva che assumere una fisionomia del tutto nuova. L’improvvisa e inaspettata ricomparsa delle creature delle tenebre – da sempre collocate al confine fra il mondo dei vivi e quello dei morti – doveva così giungere non dal passato, ma dal presente di una guerra mondiale, vinta sul campo, ma grazie ad armi batteriologiche destinate a condannare il genere umano all’estinzione e a consegnare il pianeta a una sorta di nuova specie vivente, al tempo stesso umana e disumana. Non è certo casuale che il romanzo di Matheson, dopo aver alimentato secondo traiettorie non sempre lineari l’immaginario del cinema fantastico degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, sia tornato ancora una volta, al principio del nuovo secolo, a dar forma alle inquietudini del mondo occidentale2. Anche se i vampiri, nella nuova versione cinematografica di I 1 R. Matheson, Io sono leggenda, Roma, Fanucci, 2007, pp. 33-34 (ed. or. I Am Legend, New York, Fawcett Publications, 1954; del romanzo esiste anche una precedente traduzione italiana, dall’improprio titolo I vampiri, Milano, Ciscato, 1959). 2 Dal romanzo di Matheson sono state tratte tre differenti trasposizioni cinematografiche:

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Am Legend, appaiono molto più simili agli zombi di George A. Romero che alle creature di Matheson, è piuttosto evidente come nella sagoma di Robert Neville – l’ultimo uomo sulla terra – si ritrovino, seppur solo in filigrana, molti di quei motivi che hanno contrassegnato la politica mondiale degli ultimi vent’anni, o, quantomeno, molte delle grandi rappresentazioni che hanno dominato il dibattito pubblico. Naturalmente, l’immagine dell’ultimo uomo richiama solo in parte l’idea della «fine della Storia», resa celebre dal fortunato saggio di Francis Fukuyama3. Ma la figura dell’unico superstite del genere umano, impegnato in una lotta definitiva contro i nemici dell’umanità, non può che riflettere in modo piuttosto esplicito l’immagine della «guerra globale al terrorismo» e le paure legate al ritorno dell’antica figura dell’hostis generis humani4. In un’importante serie di saggi e contributi, Chantal Mouffe si è soffermata criticamente proprio su quest’immagine del nemico, che ha inteso come conseguenza diretta dello «spirito postpolitico» dominante nel dibattito degli ultimi decenni: uno spirito che Mouffe ritrova al fondo di tutte quelle posizioni che accettano una visione ottimistica della globalizzazione e che sostengono «una forma consensuale di democrazia», avvalorando – anche se solo implicitamente – l’idea che l’umanità sia davvero entrata in un’era «postpolitica». I presupposti di fondo dello «spirito postpolitico» – secondo L’ultimo uomo sulla terra (1964), di Ubaldo Ragona e Sidney Salkow, ambientato nello spettrale scenario del quartiere romano dell’Eur, Omega Man (1971) di Boris Segal, noto in Italia con il titolo 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra, e, infine, il recente I Am Legend (2007) di Francis Lawrence. Al di là delle peculiarità di queste versioni cinematografiche, tutte, come ha osservato Valerio Evangelisti, «tradiscono Matheson su un punto fondamentale: trasportano la crudele vicenda di Robert Neville dal suo villaggio natale a una metropoli. In questo modo la tragedia collettiva finisce per sovrastare, e prevaricare, il lento insinuarsi dell’orrore nella quotidianità, il suo divenire quotidianità a sua volta» (V. Evangelisti, La leggenda di Matheson, in R. Matheson, Io sono leggenda, cit., pp. 243-250, specie p. 247). Non si può non ricordare, però, come i più noti e celebrati film di George A. Romero – in primo luogo The Night of the Living Dead (1968) e Dawn of the Dead (1978) – attingano proprio allo scenario allestito da Matheson. Lo scrittore aveva coltivato il genere apocalittico anche con il racconto The Last Day, ripubblicato con il titolo Uno scrittore alla fine del mondo, in «Il Domenicale», 26 gennaio 2008, pp. 8-9. Per l’accostamento fra Matheson e Romero, cfr., per esempio, le annotazioni di G. Ferraro – I. Brugo, Comunque umani. Dietro le figure di mostri, alieni, orchi e vampiri, Roma, Meltemi, 2008, pp. 145-149. 3 Cfr. F. Fukuyama, La fine della Storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1996, p. 9 (ed. or. The End of History and the Last Man, New York, The Free Press, 1992). 4 Per una lettura dedicata alle trasformazioni dell’immagine dei nemici del genere umano, mi permetto di rinviare a D. Palano, Paura dallo spazio, in «Paradoxa», II (2008), n. 1, pp. 142-150, mentre, per l’impostazione di un discorso più generale, cfr. C. Galli, Sulla guerra e sul nemico, in S. Forti – M. Revelli (a cura di), Paranoia e politica, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 21-42.

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Mouffe – scaturiscono dalla concezione della democrazia proposta dagli autori liberali, ma, fra i sostenitori dello «spirito postpolitico» contemporaneo, l’intellettuale belga colloca proposte anche molto distanti fra loro, come la teoria della «modernizzazione riflessiva» avanzata da Ulrich Beck e Antony Giddens, la difesa della democrazia liberale elaborata (seppur in termini problematici) da Jürgen Habermas, il progetto di una «democrazia cosmopolitica», promosso da autori come David Held, Daniele Archibugi, Andrew Strauss e Richard Falk, e persino l’immagine della «costituzione imperiale» delineata da Michael Hardt e Antonio Negri. Pur nella notevole distanza, tutte queste proposte condividono infatti, secondo Mouffe, la medesima visione dell’era postpolitica: una visione che, in sostanza, considera come esaurito o superato ogni conflitto radicale. Alla base di tutte queste posizioni, starebbe un presupposto comune, costituito dalla programmatica rimozione non solo della dimensione conflittuale, ma anche di ciò che agli occhi di Mouffe costituisce – al di là di ogni congiuntura storica – il fondamento più oscuro e ineliminabile del fenomeno politico. E proprio da questo presupposto comune discenderebbero una serie di conseguenze cruciali per la dinamica interna dei sistemi politici occidentali e per l’assetto dello stesso sistema internazionale. «La mia obiezione fondamentale», osserva Mouffe a questo proposito, «è che rappresentare lo scopo della politica democratica in termini di consenso e riconciliazione è non solo concettualmente errato, ma anche politicamente rischioso», perché «l’aspirazione a un mondo in cui la demarcazione noi/loro sia superata si basa su premesse false»; dunque, «coloro che condividono questo modo di vedere rischiano di perdere di vista il vero compito di una politica democratica»5. L’effetto principale della rimozione della possibilità dell’antagonismo operata dallo «spirito postpolitico» non può consistere infatti nell’esaurimento del conflitto, ma solo nel suo spostamento su un terreno diverso: se vengono rimosse le basi conflittuali del ‘politico’, e se l’intero spettro delle relazioni politiche viene ridotto all’ordinato (e democratico) dibattito fra individui razionali, l’antagonismo tende a riaffiorare sotto la forma di un conflitto radicale con un nemico assoluto. In questo modo, secondo Mouffe, la frontiera dell’esclusione viene ad assumere una specifica connotazione morale, nel senso che i «nemici», lungi dall’essere considerati come avversari – con i quali è possibile il conflitto, ma con i quali si può anche coesistere – appaiono sotto le spoglie di «forze del male», dalla cui eliminazione dipende la stessa sicurezza dell’intero genere 5

C. Mouffe, Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 2-3 (ed. or. On the Political, London, Routledge, 2005).

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umano. In altre parole, dalla rimozione «postpolitica» del ‘politico’ discende la tendenza a spostare il conflitto su un terreno morale, col risultato che i nemici vengono considerati – come nello scenario apocalittico di I Am Legend – non come avversari, ma come autentici nemici del genere umano, con i quali non è ipotizzabile alcuna forma di pacifica coesistenza. Per quanto Mouffe offra un contributo per molti versi fondamentale al dibattito contemporaneo, nelle pagine seguenti intendo esaminare criticamente alcuni aspetti del suo discorso. In particolare, mi propongo di considerare le sue ipotesi, concentrando l’attenzione soprattutto sull’originale rilettura del pensiero di Carl Schmitt che sta alla base della sua riflessione. In effetti, Mouffe punta esplicitamente – fin dal titolo di alcuni dei suoi lavori più noti – a rivisitare la vecchia tesi schmittiana sul «criterio» del ‘politico’6 e a criticare, su queste basi, lo «spirito postpolitico» contemporaneo. Senza limitarsi a fornire una semplice interpretazione, utilizza però le intuizioni fondamentali del giurista di Plettenberg per procedere – «con Schmitt» e «oltre Schmitt», oltre che «contro Schmitt» – nella direzione di una teoria della democrazia che riesca a evitare la deriva del pensiero liberale e sia così in grado di fare i conti con la possibilità reale dell’antagonismo7. Alla base di questa proposta, ritengo però che rimanga un vizio di fondo, che consiste nell’insufficiente rilievo assegnato alla riflessione schmittiana sul fondamento «spaziale» della politica. Una simile lacuna può essere forse considerata come un imprevisto lascito della critica al marxismo ortodosso condotta da Mouffe negli anni Ottanta, ma la conseguenza più rilevante è che essa finisce col far slittare il discorso su un piano molto simile a quello su cui si muove lo «spirito postpolitico». Dato che Mouffe si pone una serie di obiettivi differenti, nelle pagine seguenti l’esame delle sue posizioni si articola su livelli distinti. Sebbene nella struttura argomentativa di Mouffe ognuno di tali livelli costituisca il tassello di un mosaico ben costruito, poiché la loro connessione non è sempre così

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Cfr. in particolare C. Mouffe, The Return of the Political, London, Verso, 1993; Ead., Le politique et ses enjeux: pour une démocratie plurielle, Paris, La Découverte – Mauss, 1994; Ead., The Democratic Paradox, London, Verso, 2000; Ead., Sul politico, cit.; e Ead. (ed.), The Challenge of Carl Schmitt, London, Verso, 1999. 7 È Mouffe a utilizzare le espressioni «con Schmitt oltre Schmitt», e «con Schmitt, contro Schmitt»: cfr. C. Mouffe, Penser la démocratie moderne avec, et contre, Carl Schmitt, in «Revue Française de Science Politiques», XLII (1992), n. 1, poi in Ead., Le politiques et ses enjeux, cit., pp. 120-142; Ead., Pluralism and Modern Democracy: Around Carl Schmitt, in «Formations», 1991, n. 14, poi in Ead., The Return of the Political, cit., pp. 117-134; Ead., Carl Schmitt and the Paradox of Liberal Democracy, in «The Canadian Journal of Law and Jurisprudence», X (1997), n. 1, poi in Ead., The Democratic Paradox, cit., pp. 36-59.

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scontata (e dato che le conseguenze non derivano in modo automatico dalle premesse), è opportuno esaminare separatamente ognuna di queste tappe. In primo luogo, mi soffermo dunque sulla definizione del ‘politico’ fornita da Mouffe e sulla critica che, su queste basi, indirizza ai diversi filoni del pensiero liberale, accusati di non comprendere l’«essenza» del fenomeno politico; in secondo luogo, cerco di chiarire in che senso una simile visione della politica – spesso ascritta al patrimonio intellettuale di un realismo antidemocratico – sia utilizzata da Mouffe come presupposto indispensabile di un’adeguata comprensione della dinamica democratica, e tento anche di portare alla luce alcuni degli assunti impliciti che rendono tale discorso almeno parzialmente ambiguo; in terzo luogo, mostro in che senso le proposte criticate dall’intellettuale belga si poggino sul presupposto che siamo entrati in un’era postpolitica, e, successivamente, mi concentro sui caratteri della «moralizzazione» della politica, nella cui lettura possono essere rinvenuti alcuni elementi problematici, soprattutto per quanto concerne l’immagine del nemico assoluto e l’utilizzo politico del concetto di «umanità». Infine, punto a sostenere che la critica della «moralizzazione» prodotta dallo «spirito postopolitico» è, almeno in parte, la conseguenza di una lettura della proposta di Schmitt che trascura quasi completamente la riflessione condotta dal pensatore tedesco sul fondamento spaziale della politica e sulle trasformazioni innescate dalle «rivoluzioni spaziali» della modernità.

1.2 L’essenza del ‘politico’ e i limiti del liberalismo La crescente fortuna conosciuta negli ultimi tre decenni dal pensiero di Carl Schmitt è molto probabilmente dovuta al successo di quel nuovo fatalismo che dipinge la globalizzazione come il risultato di una dinamica storica irreversibile, e secondo il quale – come ha scritto Andrew Gamble – il nostro destino appare «quello di vivere nelle gabbie di ferro create da vaste forze impersonali, derivanti dalla globalizzazione e dalla tecnologia, in una società che è al tempo stesso antipolitica e apolitica, priva della speranza e dei mezzi per immaginare o perseguire un futuro alternativo»8. 8 A. Gamble, Fine della politica?, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 7 (ed. or. Politics and Fate, Polity Press, Cambridge, 2000). La tesi della «fine della politica», variante specifica di quella centrata sulla «fine della Storia», ha ovviamente una lunga storia intellettuale alle spalle, ma ha trovato nuove formulazioni già a partire dagli anni Ottanta: A. Bolaffi – M. Ilardi, (a cura di), Fine della politica? La politica tra decisione e movimenti, Roma, Editori Riuniti, 1986; P.P. Portinaro, Antipolitica o fine della politica? Considerazioni sul presente disorientamento teorico, in «Teoria politica», IV (1988), n. 1, pp. 121-137, che richiamava, per esempio, W. Hennis,

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In questo contesto intellettuale, la concezione ‘forte’ della politica coltivata da Schmitt ha potuto subire un inatteso utilizzo, perché il realismo del giurista di Plettenberg è venuto a costituire un formidabile grimadello teorico per mettere in discussione lo stesso carattere «non politico» dei processi di globalizzazione. In altre parole, da questa prospettiva il nuovo fatalismo – che rappresenta la dinamica sociale come il risultato di processi naturali, spontanei e spesso irrefrenabili – non rappresenta altro che una nuova ideologia politica, capace di occultare sotto un seducente velo «antipolitico» o «postpolitico» una realtà pienamente politica, e ovviamente gravida anche di ulteriori conseguenze9. A lungo considerato un pensatore ingombrante, sia per le sue esperienze politiche durante gli anni della Repubblica di Weimar e nella prima fase del regime nazionalsocialista, sia per le sue ipotesi, ritenute (in modo certo riduttivo) come la base teorica della dittatura hitleriana, Schmitt ha vissuto a partire dagli anni Ottanta, una riscoperta la cui dinamica italiana è per molti versi emblematica. La fortuna in Italia di Schmitt fu avviata – come noto – dalla pubblicazione di un’antologia curata da Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera nel 197210, che riproponeva nuovamente il fondamentale saggio sul Concetto di ‘politico’, già compreso, a metà degli anni Trenta, in un Ende der Politik? Zur Krisis der Politik in der Neuzeit, in Id., Politik und praktische Philosophie. Schriften zur politischen Theorie, Stuttgart, Klett-Kotta, 1977, pp. 176-197, e P. Birnbaum, La fin du politique, Paris, Editions du Seuil, 1975. Alcune declinazioni recenti del dibattito sulla «fine della politica» sono invece offerte, per esempio, da G. Barberis – M. Revelli, Sulla fine della politica. Tracce di un altro mondo possibile, Milano, Guerini, 2005; C. Boggs, The End of Politics. Corporate Power and the Decline of the Public Sphere, New York, Guilford, 2000; R. Kurtz, La fine della politica. Tesi sulla crisi del sistema di regolazione in forma di merce, in Id., La fine della politica e l’apoteosi del mercato, Roma, Manifestolibri, 1997, pp. 17-68 (ed. or. Das Ende der Politik, in «Krisis», n. 14, 1994); J. Rancière, Au bords du politique, Osiris, Paris, 1992; M. Revault d’Allonnes, Le dépérissement de la politique. Genealogie d’un lieu commun, Paris, Aubier, 2004; M. Revelli, La politica perduta, Torino, Einaudi, 2003; P. Rosanvallon, La contre-democratie. La politique a l’âge de la défiance, Paris, Seuil, 2006; M. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino, 1998, e Id., Politica e destino, Roma, Sossella, 2006. 9 Sul successo della retorica «antipolitica», cfr. per esempio: G. Mulgan, Politics in an Antipolitical Age, Cambridge, Polity Press, 1994; Id. (ed.), Life After Politics. New Thinking for the Twenty-First Century, London, Fontana, 1997; A. Schedler (ed.), The End of Politics. Explorations into Modern Antipolitics, London, Macmillan, 1997, mentre, per il caso italiano, la più efficace ricostruzione è senza dubbio quella offerta da A. Mastropaolo, Antipolitica. All’origine della crisi italiana, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2000, e Id., La mucca pazza della democrazia. Nuove destre, populismo, antipolitica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, in cui il politologo allarga lo sguardo verso una valutazione più ampia delle tendenze che caratterizzano le democrazie contemporanee. 10 C. Schmitt, Le categorie del ’politico’. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972.

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volume curato da Delio Cantimori e significativamente intitolato Principii politici del nazionalsocialismo11. L’obiettivo con cui Miglio reintroduceva Schmitt (o quantomeno una determinata lettura del suo pensiero) all’interno del dibattito italiano si inscriveva in un progetto più ampio, volto a unificare in un sistema unitario le diverse ipotesi formulate intorno alle «regolarità della politica»12. In questo senso, con il proprio riferimento all’ineluttabilità del conflitto, la teoria politica di Schmitt suonava certo come «‘distruttiva’ nei confronti dell’utopia»13, anche di quelle utopie che assegnavano allo sviluppo tecnologico e alla civiltà industriale la capacità di eliminare i motivi di contrapposizione e, dunque, la politica stessa: «il mito del cambiamento, dell’innovazione», osservava infatti Miglio, «non aveva mai assunto una forza trascinante eguale a quella odierna: l’ansia del futuro conduce non solo al rifiuto di ogni tradizione, ma alla continua ed immediata autodistruzione di ogni successiva formulazione ideologica». E tuttavia, concludeva, «la rilevazione empirica della realtà effettuale dimostra che di ‘universale’ c’è soltanto l’estensione dei conflitti, di ‘mondiale’ c’è soltanto una ‘Weltbürgerkrieg’: cioè quella ‘guerra civile’ che […] è la più ‘politica’ di tutte le guerre, la più ‘vera’ ed indistruttibile delle guerre»14. Proprio da una simile visione delle promesse del progresso doveva prendere corpo una lettura di Schmitt che procedeva in una direzione sensibilmente differente da quella cui Miglio aveva guardato. Se infatti nel progetto di Miglio il realismo della contrapposizione amicus-hostis conviveva con un’impostazione sostanzialmente liberale (che riconosceva un ruolo fondamentale anche alla dimensione «contrattuale» dell’esistenza umana)15, la 11

Cfr. C. Schmitt, Principii politici del Nazionalsocialismo, a cura di D. Cantimori, Firenze, Sansoni, 1935. Sulla ricezione italiana di Schmitt, si vedano però C. Galli, Carl Schmitt nella cultura italiana (1924-1978). Storia, bilancio, prospettive di una presenza problematica, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 1979, n. 1, pp. 81-160 (specie pp. 128-142); Id., Carl Schmitt in Italia. Una bibliografia, in G. Duso (a cura di), La politica oltre lo Stato: Carl Schmitt, Venezia, Arsenale, 1981, pp. 169-181; I. Staff, Staatsdenken im Italien des 20. Jahrhunderts. Ein Beitrag zur Carl Schmitt-Rezeption, Baden-Baden, Nomos Verlagsgesellschaft, 1991. 12 Cfr. G. Miglio, Le regolarità della politica. Scritti scelti, Milano, Giuffrè, 1988. 13 G. Miglio, Presentazione, in C. Schmitt, Le categorie del ’politico’, cit., p. 13. 14 Ivi, p. 10. 15 Sulla riflessione di Miglio, oltre che sulle sue aporie interne, si vedano L. Ornaghi, Il disordine della politica. Un positivista alla corte della ragione, in L. Ornaghi – A. Vitale (a cura di), Multiformità ed unità della politica. Atti del Convegno tenuto in occasione del 70° compleanno di Gianfranco Miglio. 24-26 ottobre 1988, Milano, Giuffré, 1992, pp. 256-271; P. Schiera, Relazione, ivi, pp. 15-36; Id., Il problema dello ‘Stato’ e della sua ‘modernità’. Gianfranco Miglio dalla storia alla scienza politica, in G. Miglio, Genesi e trasformazioni del termine-concetto ‘Stato’, Brescia, Morcelliana, 2007, pp. 5-38; A. Campi, Schmitt, Freund, Miglio. Figure e temi del realismo politico europeo, Firenze, Akropolis-La Roccia di Erec, 1996. Ma si permetta il rinvio anche a D. Palano, L’eternità e la

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concezione proposta dal giurista tedesco doveva essere adottata anche da intellettuali ben lontani da una simile prospettiva, che provenivano piuttosto dalle fila del marxismo radicale. Emblematica è, in questo senso, la ripresa che di Schmitt fece Mario Tronti dopo la metà degli anni Settanta. In un primo tempo l’attenzione si rivolse alla componente ‘decisionista’, nella quale si tentava di scorgere uno strumento capace di far luce sul segreto dell’«autonomia del politico»16, ma, a partire da una seconda fase, l’incontro con Schmitt riportò alla superficie il carattere originario del fenomeno politico. Come scriveva Tronti, «il riconoscimento diventava proprio quello della originarietà del politico, della ‘politica’ come potenza originaria’»17. E, proprio in questo senso, la concezione schmittiana della politica costituiva la premessa per una critica della tesi della fine della politica, come variante della tesi della fine della Storia18. Le circostanze della fortuna italiana di Schmitt non sono d’altronde eccezionali, perché anche nel contesto del dibattito europeo e nordamericano la riscoperta del giurista tedesco ha percorso una traiettoria simile, che ha condotto non solo alla reintroduzione nel dibattito di un pensatore a lungo squalificato dal suo passato politico, ma, soprattutto, al suo utilizzo da parte di intellettuali che, in passato, avevano guardato con interesse alle diverse varianti della teoria marxista19. A questa schiera di nuovi ammiratori del morte. I confini temporali dell’obbligazione politica (Appunti sulla riflessione teorica di Gianfranco Miglio), in «Teoria politica», XVIII (2001), n. 2, pp. 121-156, e Id., Il cristallo dell’obbligazione politica. La scienza del potere di Gianfranco Miglio, in Id., Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica italiana, Milano, Vita e Pensiero, 2005, pp. 289-450. 16 Come ha scritto Carlo Galli, a proposito della parzialità di tale prima lettura: «Lo scopo di questa riscoperta di una autonoma dimensione della politica [...] era di rendere capace anche il marxismo di pensare e praticare la disincantata radicalità borghese, ovvero il comando politico sul sociale, di cui Schmitt dà la più rigorosa espressione teorica. Tuttavia, il momento del comando, dell’autonomia della politica, è solo il lato pratico di quella che, a un più radicale livello teorico, è l’originarietà del ‘politico’ [...]. Così, anche questo rivolgersi allo Schmitt ‘decisionista’, come al depositario di un sapere a lungo frainteso o ignorato dal movimento operaio, [...] si è risolto, in fondo, solo nel distinguere fra presunta forma rivoluzionaria e contenuti reazionari del pensiero schmittiano, cioè nel chiedere et a hoste consilium» (C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 55-56). 17 M. Tronti, La politica al tramonto, cit., p. 169. 18 Cfr. soprattutto M. Tronti, Con le spalle al futuro, Roma, Editori Riuniti, 1992. 19 Una ricostruzione molto critica dello «schmittismo di sinistra» viene fornita da M. Lilla, Carl Schmitt a destra e a sinistra, in «La Rivista dei Libri», VII (1997), n. 9, pp. 24-29, che osserva, per esempio: «a partire dagli anni Settanta, il passaggio da Herbert Marcuse a Carl Schmitt, anche tramite le idee di Michel Foucault sul potere e sull’egemonia, si rivelò singolarmente facile per un settore piccolo ma importante dell’opinione di sinistra in Germania, in Francia e in Italia. Non era soltanto un caso di estremi che si toccano. L’antiliberalismo di Schmitt

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giurista di Plettenberg appartiene senza alcun dubbio anche Chantal Mouffe, che, fin dal titolo di alcuni dei suoi lavori principali – come The Return of the Political e On the Political – si richiama piuttosto scopertamente alla visione schmittiana del ‘politico’20. D’altronde, l’attacco di Mouffe alla tesi della fine della politica attinge – oltre che al pensiero radicale, e in modo specifico al concetto gramsciano di «egemonia» – proprio al realismo di Schmitt. Negli anni Settanta, la riflessione di Mouffe era concentrata su una rilettura della nozione gramsciana di «egemonia», alla luce delle problematiche poste dall’emergere dei «nuovi movimenti sociali» e delle trasformazioni del conflitto nelle società industriali avanzate21. Se questa ricerca si collocava inizialmente all’interno della riscoperta neo-marxista di Gramsci22, in seguito essa si è sviluppata nella direzione di una posizione esplicitamente costituiva infatti un gradito succedaneo delle teorie storiche ed economiche marxiste, a quel punto cadute in disuso» (ivi, p. 26). Letture differenti, centrate sugli Stati Uniti, sono invece proposte da P. Piccone – G. Ulmen, Uses and Abuses of Carl Schmitt, in «Telos», 2002, n. 122, pp. 3-32, e J.W. Bendersky The Definite and the Dubious: Carl Schmitt’s Influence on Conservative Political and Legal Theory in the US, in «Telos», 2002, n. 122, pp. 33-47. Una lettura interessante sulla fortuna di Schmitt è anche quella proposta da D. Chandler, The Revival of Carl Schmitt in International Relation: The Last Refuge of Critical Theorists?, in «Millennium», XXXVII (2008), n. 1, pp. 27-48, che si sofferma sull’utilizzo in chiave critica del pensiero di Schmitt all’interno del dibattito internazionalistico: esempi in questa direzione sono, probabilmente, oltre a C. Mouffe (ed.), The Challenge of Carl Schmitt, cit., anche L. Odysseos – F. Petito (eds.), The International Political Thought of Carl Schmitt. Terror, Liberal War and the Crisis of Global Order, London, Routledge, 2007 (in cui sono da segnalare, tra l’altro, A. Colombo, The «Realist Institutionalism» of Carl Schmitt, ivi, pp. 21-35; C. Mouffe, Carl Schmitt’s Warning on the Dangers of a Unipolar World, ivi, pp. 147-153; M. Ojakangas, A Terrifying World without an Exterior. Carl Schmitt and the Metaphysics of International (Dis)order, ivi, pp. 205-221; L. Odysseos, Crossing the Line? Carl Schmitt on the «Spaceless Universalism» of Cosmopolitanism and the War of Terror, ivi, pp. 124-143; F. Petito, Against World Unity: Carl Schmitt and the Western-Centric and Liberal Global Order, ivi, pp. 166-184). 20 Cfr., C. Mouffe, The Return of the Political, cit., e Id., Sul politico, cit. 21 Sulla lettura della nozione gramsciana di egemonia proposta da Mouffe, cfr. soprattutto C. Mouffe, Introduction: Gramsci Today, in Ead. (ed.), Gramsci and Marxist Theory, London, Routledge & Kegan Paul, 1979, pp. 1-18; Ead., Hegemony and Ideology in Gramsci, in «Research in Political Economy», 1979, n. 2, pp. 1-31, poi in Ead. (ed.), Gramsci and Marxist Theory, cit., pp. 168-204; Ead., Intervento, in F. Ferri (a cura di), Politica e storia in Gramsci. II. Relazioni, interventi, comunicazioni, Roma, Editori Riuniti-Istituto Gramsci, 1979, pp. 202-207; Ead., Hegemony and the Integral State in Gramsci: Towards a New Concept of Politics, in G. Bridges – R. Brunt (eds.), Silver Linings. Some Strategies for the Eighties, London, Lawrence & Wishart, 1981, pp. 167-187; Ead., Arbeiterklasse, Hegemonie und Sozialismus, in W.F. Haug – W. Elfferding (hrsg.), Neue soziale Bewegung und Marxismus, in «Argument», 1982, n. 78, pp. 23-39; Ead., Hegemony and New Political Subjects: Toward a New Concept of Democracy, in C. Nelson – L. Grossberg (eds.), Marxism and Interpretation of Culture, Urbana & Chicago, University of Illinois Press, 1988, pp. 89-104. 22 Cfr. C. Mouffe – A. Showstack Sassoon, Gramsci in France and Italy: A Review of the Literature, in «Economy and Society», I (1977), pp. 31-68.

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«postmarxista», esposta in modo compiuto già alla metà degli anni Ottanta in Hegemony and Socialist Strategy, un testo steso in collaborazione con il teorico argentino Ernesto Laclau23. L’operazione di (parziale) critica della tradizione marxista compiuta da Laclau e Mouffe era allora alla base del progetto – teorico e politico – di una «democrazia radicale»: un progetto che, pur rifiutando l’idea della centralità del conflitto di classe e la prospettiva di una «rottura» politica rivoluzionaria nelle società occidentali a capitalismo avanzato, implicava una decisa critica alla visione liberale della politica e della dinamica democratica24. Ed è proprio sviluppando l’ipotesi di una «democrazia radicale» che Mouffe ha iniziato, sul finire degli anni Ottanta, a confrontarsi con il pensiero di Schmitt e con la sua concezione del ‘politico’. In effetti, quando Mouffe si focalizza sul ‘politico’ – e quando usa l’aggettivo political in contrapposizione al sostantivo politics – intende affrontare non tanto ciò che definisce come «il dominio empirico della politica», studiato dalla scienza politica, quanto l’«essenza» stessa del fenomeno politico, ossia quanto attiene al suo livello «ontologico». In altre parole: il ‘politico’ coincide con «la dimensione dell’antagonismo […] costitutiva delle società umane», mentre la ‘politica’ è «l’insieme di pratiche e istituzioni mediante le quali si crea un ordine, si organizza la coesistenza umana nel contesto conflittuale determinato dal politico»25. Anche se gran parte delle sue riflessioni è dedicata a questioni che vanno a collocarsi sul livello «ontico», e riguardano ciò che attiene oggi alla ‘politica’, Mouffe punta infatti a far discendere le proprie argomentazioni da una concezione forte della politi-

23

Cfr. E. Laclau – C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, London, Verso, 1985 (II ed. 2001), ma anche Id., Socialist Strategy. Where Next?, in «Marxism Today», 1981, pp. 17-22; Id., Recasting Marxism: Hegemony and New Political Movements, in «Socialist Review», LXVI (1982), pp. 91-113. Si inscrivono in questa traiettoria, naturalmente, anche E. Laclau, Transformations of Advanced Industrial Societies and the Theory of the Subject, in S. Hänninen – L. Paldan (eds.), Rethinking Ideology. A Marxist Debate, Berlin, Argument, 1983, pp. 39-44; Id., Metaphor and Social Antagonism, in C. Nelson – L. Grossberg (eds.), Marxism and the Interpretation of Culture, Urbana-Chicago, University of Illinois Press, 1988, pp. 249-257; Id., Die Politik als Konstruktion des Undenkbaren, in «KulturRevolution», 1988, n. 17-18, pp. 54-57; Id., Theory, Democracy and Socialism, in Id., New Reflections on the Revolution of Our Time, London-New York, Verso, 1990, pp. 197-245; Id., Building a New Left, ivi, pp. 177-196; Id., Gramsci, in S. Critchley – W. Schroeder (eds.), A companion to continental philosophy, Oxford-Malden (Mass.), Blackwell, 1998, pp. 461-468. 24 Cfr. per esempio C. Mouffe, Radical Democracy: Modern or Postmodern?, in «Social Text», 1989, n. 21, pp. 31-45, e Ead., (ed.), Dimensions of Radical Democracy. Pluralism, Citizenship, Identity, London, Verso, 1991. 25 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 10. Su questo punto, cfr. anche Ead., Le politiques et ses enjeux, cit., pp. 10-11.

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ca, una concezione che cerca di chiarire ciò che è il cuore ineliminabile, la dimensione «ontologica», del ‘politico’. Il riferimento principale di Mouffe è rappresentato dal celebre saggio sul Concetto di ‘politico’, nel quale Schmitt esponeva la propria ipotesi sulla distinzione fra amico e nemico come criterio specifico del fenomeno politico. Come è noto, in quello scritto l’operazione di Schmitt non puntava a definire la natura umana come sempre e inevitabilmente conflittuale, anche se il suo discorso presupponeva proprio una simile visione. Nella sua famosa Premessa alla riedizione del 1963, anzi, il giurista tedesco prendeva le distanze dalle molte semplificazioni e deformazioni, con cui «la delimitazione, prudente e iniziale, di un preciso ambito concettuale» era stata in seguito trasformata «in uno slogan primitivo, in una così detta teoria dell’amico-nemico, nota solo per sentito dire e buona da affibbiare alla controparte»26. Più specificamente, Schmitt cercava di individuare quale fosse il «criterio» specificamente politico, ossia il criterio che poteva essere considerato come caratterizzante il settore politico della vita umana. Così individuava questo criterio, al quale «è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici», nella ben precisa distinzione fra amico (Freund) e nemico (Feind), una distinzione che offriva non tanto una spiegazione del contenuto della politica o delle sue motivazioni, quanto un semplice criterio, capace di distinguere azioni più politiche da altre meno politiche e, soprattutto, associazioni dotate di un più intenso carattere di politicità da altre meno politiche. «Il significato della distinzione di amico e nemico», precisava in una delle sue pagine più famose, «è di indicare l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione»27. Inoltre, il nemico – come scriveva in un passo decisivo – non doveva presentare altre caratteristiche che quelle proprie dello «straniero»: Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro (der Fremde) e basta alla sua essenza che sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venire decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo «disimpegnato» e perciò «imparziale»28.

26

C. Schmitt, Premessa (1963) a Il concetto di ‘politico’. Testo del 1932 con una premessa tre corollari, in Id., Le categorie del ‘politico’, cit., p. 97; ed. or. Der Begriff des Politischen, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1932 (III ed.). 27 C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., pp. 108-109. 28 Ivi, p. 109.

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Secondo l’ormai celebre proposta di Schmitt, inoltre, il nemico non è l’inimicus, colui cui ci si contrappone per motivazioni private, ma è solo l’hostis, è solo il nemico pubblico, ossia, «solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere»; l’hostis è, perciò, a differenza dell’inimicus, «solo il nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico»29. In questo discorso, Schmitt affrontava solo marginalmente la questione delle motivazioni più profonde che conducono gli esseri umani a contrapporsi gli uni agli altri, e puntava piuttosto sulla logica – specificamente politica – che derivava dalla possibilità della contrapposizione e della lotta30. Ma era evidente che la sua preferenza andava a quegli autori che avevano ragionato a partire da un’antropologia politica, per così dire, ‘negativa’, tanto che poteva scrivere che «tutte le teorie politiche in senso proprio presuppongono l’uomo come ‘cattivo’», nel senso che «lo considerano come un essere estremamente problematico, anzi ‘pericoloso’ e dinamico»31. Anche per questo, un’implicazione della riflessione di Schmitt – che si inseriva all’interno del dibattito cresciuto nell’età di Weimar – consisteva nel severo attacco al liberalismo, cui imputava la colpa di avere snaturato la concezione del ‘politico’, sia sotto il profilo dell’antropologia politica, sia sotto il profilo della stessa rappresentazione del presupposto cruciale della vita di ogni associazione politica. «La negazione del ‘politico’ che è contenuta in ogni individualismo 29

Ivi, p. 113. Per esempio, illustrando proprio la centralità del fenomeno politico, osservava: «Il ‘politico’ non consiste nella lotta stessa, che ha le sue proprie leggi tecniche, psicologiche e militari, ma, com’è stato detto, in un comportamento determinato da questa possibilità reale, nella chiara conoscenza della situazione particolare in tal modo creatasi e nel compito di distinguere correttamente amico e nemico» (ivi, p. 120). 31 Ivi, p. 146. Un simile presupposto non era assunto in assoluto, ma solo in relazione alla riflessione condotta sul fenomeno politico: «poiché la sfera del ‘politico’ è determinata, in ultima istanza, dalla possibilità reale di un nemico, le concezioni e le teorie politiche non possono facilmente avere come punto di partenza un ‘ottimismo’ antropologico. Altrimenti, esse eliminerebbero, insieme alla possibilità del nemico, anche ogni conseguenza specificamente politica» (ivi, pp. 148-149). Leo Strauss ha evidenziato chiaramente come questa antropologia costituisca il presupposto, non privo di aspetti problematici, del discorso di Schmitt: «Schmitt afferma», scrive Strauss, «che il postulato fondamentale della posizione del politico è la tesi della natura pericolosa dell’uomo. Ma la natura pericolosa è un fatto definitivo e irremovibile?». Cfr. L. Strauss, Note su «Il concetto di politico» in Carl Schmitt, in C. Schmitt, Parlamentarismo e democrazia e altri scritti di dottrina e storia dello Stato, Cosenza, Marco, 1998, pp. 177-206, specie p. 193 (ed. or. Anmerkungen zu Carl Schmitts Begriff des Politischen, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», 1932, n. 6, pp. 732-749). 30

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conseguente», osservava, «conduce […] ad una prassi politica della sfiducia nei confronti di tutte le forze politiche e le forme di Stato pensabili, ma mai ad una propria teoria positiva dello Stato e della politica»32. Proprio perché parte da presupposti individualistici, il liberalismo, sosteneva Schmitt, è incapace di cogliere la realtà del conflitto e perciò di comprendere il prezzo che l’esistenza di relazioni di contrapposizione richiede sia a ogni raggruppamento politico, sia agli individui che ne fanno parte: Il pensiero liberale sorvola o ignora, in modo sistematico, lo Stato e la politica e si muove invece entro una polarità tipica e sempre rinnovantesi di due sfere eterogenee, quelle cioè di etica ed economia, spirito e commercio, cultura e proprietà. La sfiducia critica nei confronti dello Stato e della politica si spiega facilmente in base ai principî di un sistema per il quale il singolo deve rimanere terminus a quo e terminus ad quem. In casi determinati l’unità politica deve pretendere il sacrificio della vita: questa pretesa non può in alcun modo essere fondata e sostenuta per l’individualismo del pensiero liberale. […] Per il singolo in quanto tale non vi è nessun nemico col quale si debba combattere per la vita e per la morte, se egli personalmente non lo vuole: costringerlo alla lotta contro il suo volere è in ogni caso, dal punto di vista dell’individuo privato, mancanza di libertà e violenza. Tutto il pathos liberale si ribella alla violenza e alla mancanza di libertà. Ogni pregiudizio, ogni minaccia alla libertà individuale, in via di principio illimitata, alla proprietà privata e alla libera concorrenza significa ‘violenza’ ed è eo ipso qualcosa di cattivo. Ciò che questo liberalismo salva dello Stato e della politica si riduce all’assicurazione delle condizioni della libertà e all’eliminazione dei disturbi alla libertà33.

In effetti, la critica di Schmitt nei confronti del pensiero liberale costituisce un tratto costante della sua riflessione, dagli anni Venti fino agli scritti del secondo dopoguerra34. Ed è soprattutto alle argomentazioni svolte nel 32

C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 156. Ivi, p. 157. 34 In una famosa intervista rilasciata a Fulco Lanchester al principio degli anni Novanta, Schmitt in effetti precisava la propria posizione nei confronti del liberalismo politico, ribadendo in modo chiaro il contenuto della propria critica: «Per me liberale è semplicemente un concetto di temperamento. Esiste il liberale come esiste il collerico. È insomma una dualità del carattere, una forma antropologica. Io sono un uomo liberale; non ne conosco uno migliore anche nella mia tolleranza, è così... Ma se questo diviene un partito, ciò costituisce una disgrazia. Se questo si trasforma in un partito, nel senso totalitario del termine, ciò costituisce una disgrazia sia per i liberali sia per tutti gli altri. Questa è la mia tesi sul tema. Io sono il miglior liberale temperamentale di tutte le persone che ho conosciuto». Cfr. C. Schmitt, Un giurista davanti a se stesso. Intervista a Carl Schmitt, a cura di F. Lanchester, in «Quaderni costituzionali», 1983, n. 1, pp. 5-34, ora in Id., Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 151-183, specie p. 172. 33

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Concetto di ‘politico’ che Mouffe, pur imboccando una strada diversa rispetto a quella indicata dal giurista, attinge per svolgere la propria serrata critica della concezione liberale della politica. Sotto accusa, nel discorso di Mouffe, è infatti soprattutto la teoria democratica nella variante proposta dal liberalismo, il cui limite principale consiste nel procedere alla «negazione del carattere ineliminabile dell’antagonismo»35. Naturalmente, Mouffe non può trascurare l’esistenza, all’interno del filone liberale, di posizioni anche sensibilmente differenti. Come nella critica di Schmitt, anche secondo l’intellettuale belga il pensiero liberale si muove peraltro sempre entro la polarità di etica ed economia, ed è in effetti attorno a queste due polarità che si organizzano le sue principali varianti contemporanee, rispettivamente definite come paradigma «aggregativo» e «deliberativo». In primo luogo, il paradigma «aggregativo» – il quale attribuisce agli individui una logica razionale e utilitarista molto simile a quella che orienta l’homo oeconomicus all’interno del mercato – «considera la politica come l’istituirsi di un compromesso tra diverse forze che competono nella società»36. Mentre estende all’ambito delle relazioni politiche la logica economica del razionalismo utilitaristico, il liberalismo «aggregativo» ritrae così gli individui «come esseri razionali, tesi alla massimizzazione dei loro interessi, che agiscono nel mondo politico in un modo fondamentalmente strumentale»37. In questo caso, l’esclusione della specificità del ‘politico’ deriva sia dal riduzionismo di una visione rigidamente razionalista, sia dalla prospettiva individualista da cui vengono osservate le relazioni umane. In altre parole, il fatto che lo sguardo si concentri sull’individuo e non sui raggruppamenti umani non può che comportare la programmatica esclusione dal campo di indagine delle identità collettive e, dunque, di una logica di comportamento non riconducibile alla razionalità individuale. Poiché «la tendenza dominante nel pensiero liberale è caratterizzata da un approccio razionalista e individualista che preclude la comprensione delle identità collettive», questo filone, osserva Mouffe, risulta «incapace di cogliere adeguatamente la natura pluralistica del mondo sociale, con i conflitti che essa comporta»38. I presupposti individualistici del liberalismo ostacolano, innanzitutto, la stessa com35

C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 11. Ivi, p. 14. 37 Ibid. 38 Ivi, pp. 11-12. «Secondo la tipica concezione liberale del pluralismo», osserva ancora Mouffe, «viviamo in un mondo nel quale vi sono molte prospettive e molti valori; anche se per ovvie limitazioni empiriche è impossibile adottarli tutti, messi insieme costituiscono un complesso armonioso e privo di conflitti. È evidente che questo tipo di liberalismo non può che negare il politico nella sua dimensione antagonistica» (ivi, p. 12). 36

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prensione di ciò che sta al fondo dei fenomeni politici, ossia delle medesime identità collettive: proprio perché, come ha illustrato Schmitt, il criterio del politico consiste nella distinzione fra amico e nemico, e dato che il nemico è sempre il nemico pubblico – il nemico di un raggruppamento e non di un solo individuo – il politico implica necessariamente «la formazione di un ‘noi’ in quanto contrapposto a un ‘loro’, ed è sempre connesso a forme collettive di identificazione»39. Inoltre, le caratteristiche della contrapposizione fra noi e loro non escludono in termini assoluti, ma sicuramente rendono secondaria, la razionalità individuale, perché a quest’ultima viene anteposta quella che potrebbe essere definita come la ‘razionalità collettiva’, in grado di imporre al singolo dei sacrifici in vista delle esigenze del gruppo e, soprattutto, in vista del prioritario obiettivo della sopravvivenza. Ogni ragionamento «razionale» si deve allora arrestare sulla soglia della decisione – intrinsecamente politica – su chi è amico e chi è nemico: Non stupisce dunque che il politico sia il punto debole della visione liberale. Il politico non può essere afferrato dal razionalismo liberale per la semplice ragione che ogni razionalismo coerente richiede la negazione dell’irriducibilità dell’antagonismo. Il liberalismo deve negare l’antagonismo perché, portando in primo piano il momento ineludibile della decisione – nel significato forte del dover decidere su un terreno indecidibile – esso mette a nudo l’intimo limite di ogni consenso razionale. Nella misura in cui il pensiero liberale aderisce al razionalismo e all’individualismo, la sua cecità per il politico nella sua dimensione antagonistica non è perciò una mera carenza empirica ma qualcosa di costitutivo40.

Se Mouffe attacca con grande energia il paradigma «aggregativo», gran parte della sua attenzione si rivolge però al paradigma «deliberativo», anche perché tra i sostenitori di quest’ultima posizione possono essere collocati alcuni tra i più influenti filosofi della politica dell’ultimo trentennio, come John Rawls e Jürgen Habermas, i quali hanno puntato nelle loro opere a ridefinire l’immagine della democrazia e dei contrasti che si svolgono al suo interno. In linea generale, gli elementi comuni alle diverse posizioni del liberalismo «deliberativo» consistono nella critica al modello strumentale e nel tentativo di introdurre nell’ambito politico un consenso morale razionale. In questo caso, dunque, Mouffe non può che scorgere uno spostamento del pensiero 39

Ivi, pp. 12-13. Ivi, p. 13. Cfr. anche C. Mouffe, Politics and passions. The stakes of democracy, London, Center for the Study of Democracy, 2002, specie p. 5. Mouffe svolge inoltre la discussione sul nesso fra identità e cittadinanza anche richiamando la riflessione di Michael Oakeshott: cfr. C. Mouffe, Citizenship and Political Identity, in «October», 1992, n. 62, pp. 28-32. 40

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liberale dalla polarità economica verso quella etica, grazie alla sostituzione della razionalità con una «razionalità comunicativa». Il dibattito politico viene così rappresentato «come un campo specifico di applicazione della morale», nella convinzione che «sia possibile creare nel regno della politica un consenso morale razionale mediante una libera discussione»: in questo senso, dunque, «la politica è pensata non mediante concetti mutuati dall’economia, ma dall’etica e dalla morale»41. Proprio in virtù della centralità assunta dal paradigma deliberativo nel contesto della filosofia politica contemporanea, Mouffe si è a lungo dedicata alla discussione critica delle posizioni di questo filone, in vista di una ridefinizione della teoria democratica. In una cospicua serie di saggi pubblicati nel corso degli anni Novanta, ha in effetti sottoposto a un esame piuttosto serrato sia la posizione di Rawls, sia le repliche teoriche di Taylor, Sandel, Walzer e di altri protagonisti del dibattito42. L’obiettivo per molti versi privilegiato dell’attenzione di Mouffe è stato comunque proprio la Teoria della giustizia di Rawls, che, pur tentando di uscire dalle secche di un approccio strettamente razionalista, non sfugge all’accusa di aver operato una sistematica eliminazione del ‘politico’. Secondo l’intellettuale belga, infatti, il tentativo di Rawls è particolarmente interessante sia perché distingue nettamente il liberalismo politico dal liberalismo economico, sia perché rifiuta l’impostazione utilitarista condivisa da gran parte degli autori liberali. Nonostante questo, la proposta di Rawls si scontra con l’assenza di una concezione del ‘politico’, in cui quest’ultimo non sia ridotto alla dimensione morale o economica43. In altre parole, quando la filosofia morale di Rawls si avvicina al terreno politico, di fatto lo riduce «a un processo razionale di negoziazione fra interessi privati sotto il vincolo della moralità»44. In questo modo, anche la riflessione di Rawls mostra quegli stessi limiti che Schmitt aveva individuato nel pensiero liberale, ossia la negazione della dimensione del conflitto e la riduzione della politica all’etica o all’economia. Anche nel caso della Teoria della giustizia, «conflitti, antagonismi, relazioni di

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C. Mouffe, Sul politico, cit., pp. 14-15. Cfr. per esempio C. Mouffe, American Liberalism and Its Communitarian Critics: Rawls, Taylor Sandel and Walzer, in «Praxis International», VIII (1988), n. 2; Ead., Rawls: Political Philosophy without Politics, in D. Rasmussen (ed.), Universalism vs. Communitarianism, Cambridge (Ma), Mit Press, 1990, entrambi raccolti in Ead., The Return of the Political, London, Verso, 1993, rispettivamente pp. 23-40, pp. 41-59; Ead., Democracy and Pluralism: A Critique of the Rationalist Approach, in «Cardozo Law Review», XVI (1995), n. 5, poi con il titolo Democracy, Power and «the Political», in Ead., The Democratic Paradox, cit., pp. 17-35; Ead., The limits of John Rawls’s pluralism, in «Politics, Philosophy & Economics», IV (2005), n. 2, pp. 221-231. 43 Cfr. C. Mouffe, Rawls: Political Philosophy without Politics, cit., pp. 48-49. 44 Ivi, p. 49. 42

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potere, forme di subordinazione e repressione semplicemente scompaiono e ci troviamo di fronte a una visione tipicamente liberale di una pluralità di interessi che possono essere regolati senza bisogno di un superiore livello di decisione politica e in cui la questione della sovranità viene espunta»45. Così, pensando la politica in termini di linguaggio morale, Rawls non può che dimenticare il ruolo dei conflitti, del potere, degli interessi, oltre che la funzione costitutiva delle passioni nella genesi delle identità collettive46. Da questo punto di vista, la critica di Mouffe a Rawls presenta alcune analogie con quelle avanzate da autori comunitaristi come Charles Taylor, Alasdair MacIntyre e Michel Sandel. Pur con accenti differenti, questi autori hanno in effetti messo in luce come l’operazione di Rawls, pur allontanandosi da una visione puramente utilitarista, tenda a considerare l’individuo come un soggetto autonomo, i cui criteri morali di valutazione sono in fondo indipendenti dal contesto culturale in cui si trova. Come questi critici, anche Mouffe mette in luce il carattere ‘atomistico’ dell’individuo immaginato da Rawls, ma, d’altro canto, si discosta anche dall’immagine monolitica della comunità proposta dai comunitaristi. In effetti, seppur in modo diverso da Rawls, anche i communitarians tendono a confondere tra loro la dimensione politica e quella morale, ossia la componente specificamente ‘politica’ della comunità e quella puramente ‘morale’. Un simile approdo, secondo Mouffe, emerge per esempio nel riferimento al «bene comune», perché i comunistaristi tendono a considerare il «bene comune» solo dal punto di vista morale, trascurandone del tutto la specificità ‘politica’, che ovviamente può anche comportare – come nelle democrazie contemporanee – un agnosticismo dal punto di vista morale47. In effetti, il piano ‘morale’ e ‘politico’ sono ben diversi, e, come ha mostrato Hanna Pitkin, ciò che caratterizza il discorso politico è il fatto che si riferisce alle identità collettive, e cioè alla definizione del soggetto collettivo – «noi» – che deve prendere una serie di decisioni politiche e agire concretamente dal punto di vista politico48. In particolare,

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Ibid. Anche il modello deliberativo, come quelle aggregativo, sottovaluta infatti proprio il ruolo delle passioni nella creazione delle identità politiche collettive, un ruolo cui invece Mouffe attribuisce una grande importanza nel delineare la proposta di un «agonismo pluralistico»: si vedano in particolare le argomentazioni sviluppate in C. Mouffe, Passions and Politics, cit., pp. 7-8. 47 C. Mouffe, American Liberalism and Its Communitarian Critics: Rawls, Taylor Sandel and Walzer, cit., pp. 32-33. 48 H. Pitkin, Wittgenstein and Justice, Berkeley, 1972, p. 216, ma si vedano soprattutto le argomentazioni di C. Mouffe, Wittgenstein and the Ethos of Democracy, in L. Nagl – C. Mouffe (eds.), The Legacy of Wittgenstein: Pragmatism or Decontruction, Frankfurt a.M., Peter Lang, 2001, 46

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il «discorso politico tenta di creare specifiche forme di unità fra interessi differenti, ponendoli in relazione con un progetto comune e stabilendo una frontiera per definire le forze da fronteggiare, il ‘nemico’»49. Secondo Mouffe, l’idea comune tanto a Rawls quanto ai suoi critici comunitaristi è invece che la morale si collochi su un piano differente rispetto alla politica e che sia una dimensione dell’agire umano in fondo indipendente proprio dalla politica. In altre parole, anche se ancorano la morale a un soggetto collettivo, i comunitaristi di fatto non considerano le dinamiche genetiche di questo soggetto collettivo e, in particolare, escludono che l’identità collettiva possa realmente costituirsi solo in un contesto relazionale, ossia all’interno di una contrapposizione noi/loro. Al contrario, secondo Mouffe, un ragionamento realistico sulla morale richiede non solo che vadano riconosciute le radici collettive dell’etica, ma anche che venga esplicitata l’esistenza di quelle relazioni conflittuali – seppur non necessariamente antagonistiche – che presiedono alla costruzione e al consolidamento di un’identità collettiva. In altre parole, per evitare di ricondurre alla morale la logica della politica, è indispensabile riconoscere in modo adeguato il ruolo cruciale del «fuori costitutivo», ossia la centralità di una differenza che costruisce l’identità collettiva50. Proprio perché non considerano le radici relazionali e conflittuali dell’identità collettiva, i comunitaristi non si distanziano in modo significativo dalle conclusioni del pensiero liberale: anche questi teorici collocano infatti la morale su un piano indipendente dalla politica e, soprattutto, sovraordinato rispetto a quest’ultima. In questo modo, analogamente ai liberali, anch’essi procedono a rimuovere il fatto che «ogni consenso è basato su un atto di esclusione»51.

pp. 131-138, e Ead., Wittgenstein, Political Theory and Democracy, in Ead., The Democratic Paradox, cit., pp. 60-79. 49 Cfr. C. Mouffe, Rawls: Political Philosophy without Politics, cit., p. 50. 50 Mouffe (Politics and Passions, cit., p. 6) riprende la nozione di «constitutive outside» da H. Staten, Wittgenstein and Derrida, Oxford, Basil Blackwell, 1985, il quale sviluppa in questa direzione le ipotesi di Jacques Derrida sul ruolo della differenza. Si vedano sul punto anche le conclusioni di C. Mouffe, The Democratic Paradox, cit., pp. 129-140. 51 «La creazione di un’identità», osserva Mouffe a questo proposito, «implica l’istituzione di una differenza, che spesso viene costruita sulla base di una gerarchia, per esempio tra forma e materia, bianco e nero, uomo e donna, e così via. Una volta che abbiamo compreso che ogni identità è relazionale e che condizione essenziale per l’esistenza di un’identità è l’affermazione di una differenza – ovvero la percezione di qualcosa di ‘altro’ che costituisce il suo ‘esterno’ – saremo in grado di capire meglio l’affermazione di Schmitt a proposito della possibilità dell’antagonismo, e di vedere come una relazione sociale possa diventare il terreno di cultura dell’antagonismo» (C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 17).

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La critica delle posizioni liberali è importante soprattutto perché, agli occhi di Mouffe, la rimozione del politico operata da questi filoni costituisce la base comune del contemporaneo «spirito postpolitico». Riscoprire il fondamento più autentico del fenomeno politico è indispensabile per evitare di cedere alla rappresentazione irrealistica che questi filoni danno non soltanto della politica, ma della stessa dinamica democratica. Dato che «tutte le forme di identità politica implicano una distinzione noi/loro», osserva Mouffe, «ne consegue che la possibilità che emerga l’antagonismo è ineliminabile»52. Credere in una società «dalla quale sia stato sradicato l’antagonismo» è dunque illusorio – anche nel caso delle società democratiche occidentali – semplicemente perché l’antagonismo «è una realtà sempre presente» e perché «il politico fa parte della nostra condizione ontologica»53. L’affermazione del carattere ineliminabile dell’antagonismo non implica però, in modo necessario, la negazione della possibilità di una politica democratica, ma costituisce piuttosto l’indispensabile presupposto per pensare la democrazia in termini realistici: Solo riconoscendo «il politico» nella sua dimensione antagonistica possiamo affrontare la questione centrale di una politica democratica. Tale questione, con buona pace dei teorici liberali, non è come negoziare un compromesso tra interessi in competizione, e non è nemmeno come raggiungere un consenso «razionale», e cioè del tutto inclusivo. A dispetto di quello che molti liberali vogliono farci credere, la specificità della politica democratica non è il superamento dell’opposizione noi/loro, ma la maniera diversa in cui viene trattata. Requisito fondamentale della democrazia è che il modo in cui viene tracciata la linea di demarcazione noi/loro sia compatibile con il riconoscimento del pluralismo che è costitutivo della democrazia moderna54.

Ovviamente Mouffe, nel proprio tentativo di ridefinizione della teoria democratica, non può seguire fino in fondo il giurista di Plettenberg, perché, fin dagli anni di Weimar, Schmitt dedicò una parte consistente delle proprie energie intellettuali alla descrizione della «crisi spirituale» del parlamentarismo55, e, inoltre, perché, la sua concezione della «democrazia» – che è comunque considerata come qualcosa di ben diverso dal sistema

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Ivi, p. 19. Ibid. 54 Ivi, pp. 15-16. 55 Cfr. C. Schmitt, Parlamentarismo e democrazia, in Id., Parlamentarismo e democrazia e altri scritti di dottrina e storia dello Stato, Cosenza, Marco, 1998, pp. 1-105; ed. or. Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus (1923), Berlin, Duncker & Humblot, 1985. 53

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parlamentare – presenta tratti senza dubbio anti-pluralisti56. Ciò nonostante, Mouffe ritiene che la visione schmittiana del ‘politico’ non sia necessariamente in contrasto con il sostegno al regime democratico. L’obiettivo di procedere «con Schmitt» ma «oltre Schmitt» (se non, addirittura, «contro Schmitt») – e dunque di far convivere il «criterio del politico» con la democrazia – implica ovviamente una serie di difficoltà, la principale delle quali è rappresentata dal superamento delle riserve nutrite dal giurista tedesco verso il sistema parlamentare e le capacità di quest’ultimo di comporre effettivamente le lacerazioni della società. Per superare queste difficoltà, Mouffe deve prendere dunque le distanze dal giurista tedesco, ed è proprio in questa direzione che si delinea la seconda tappa della sua operazione di ripensamento del ‘politico’.

1.3 Lo spazio della democrazia L’ostacolo principale che Mouffe incontra nel proprio percorso consiste nella difficoltà di declinare la distinzione amico/nemico in una versione attenuata rispetto a quella schmittiana: una versione, cioè, nella quale il nemico sia più che altro un avversario, con il quale è possibile convivere all’interno di una comunità politica unitaria. La soluzione adottata da Mouffe consiste, da un lato, nel riconoscere il carattere ineliminabile dell’antagonismo (o quantomeno della possibilità che esso emerga) e, dall’altro, nel sostenere che non tutte le relazioni di contrapposizione devono necessariamente sfociare in una vera e propria relazione di antagonismo e, dunque, di opposizione fra amico e nemico57. Se, «nel campo delle identità collettive, abbiamo sempre 56

«Ogni effettiva democrazia», notava per esempio Schmitt nel 1926, «si basa sul fatto che non soltanto l’eguale è trattato egualmente, ma con conseguenza inevitabile il non-uguale è trattato in modo non uguale. Della democrazia fa parte quindi necessariamente in primo luogo l’omogeneità ed in secondo luogo – all’occorrenza – l’espulsione o l’annullamento di ciò che è eterogeneo. […] La forza politica di una democrazia si dimostra nel fatto che essa sa eliminare o tener lontano lo straniero e il non-eguale, quelli che minacciano l’omogeneità». Cfr. C. Schmitt, La contrapposizione fra parlamentarismo e moderna democrazia di massa (1926), in Id., Posizioni e concetti in lotta con Weimar – Ginevra – Versailles. 1923-1939, a cura di A. Caracciolo, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 83-103, specie p. 93 (ed. or. Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar – Genf – Versailles. 1923-1939, Hamburg-Wandsbek, Hanseat. Verl.- Anst., 1940). 57 In questo senso, Mouffe sembra accogliere una delle critiche più forti all’ipotesi del Concetto di ‘politico’, una critica che in effetti è stata indirizzata più volte al pensiero del giurista tedesco. Secondo una simile critica – articolata in molteplici varianti – la proposta schmittiana è accusata di privilegiare in modo unilaterale il volto più brutale dell’attività politica, quello connesso all’esercizio della forza coercitiva (fino al limite estremo della soppressione della vita umana), e di trascurare colpevolmente, invece, l’attività ordinaria, amministrativa, che

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a che fare con la creazione di un ‘noi’ che può esistere soltanto attraverso la demarcazione da un ‘loro’», sostiene per esempio Mouffe, «ciò non significa che si tratti necessariamente di una relazione amico/nemico, e cioè antagonistica», anche se è indispensabile riconoscere che, «in determinate condizioni, esiste sempre la possibilità che la relazione noi/loro diventi antagonistica, e cioè si trasformi in un rapporto amico/nemico»58. Ciò significa che non tutte le relazioni sono destinate a sfociare in una contrapposizione pure chi detiene il potere si trova costretto necessariamente a esercitare. Schmitt, osserva per esempio Giovanni Sartori, vede «la politica come conflitto», ma «questo è un modo di interpretare la politica: non è definire l’essenza della politica», e, così, Schmitt «crede di captare la categoria del politico, e invece ne spiega e dispiega una delle modalità» (G. Sartori, Politica, in Id., Elementi di teoria politica, Bologna, Il Mulino, 1995, III ed., p. 283). Al tempo stesso, Schmitt porrebbe l’accento soltanto sulla dimensione di esclusione, e cioè sulla definizione dell’hostis e sulla sua espulsione dalla comunità politica, mentre non riserverebbe la dovuta attenzione alla dimensione ‘includente’ della politica, ossia al fondamento solidaristico della comunità, alla necessaria presenza di legami di amicizia senza i quali la comunità stessa non è pensabile. Differenti articolazioni di questa critica, che si focalizzano sul rilievo dell’amicizia, sono svolte da G. Carnevali, Dell’amicizia politica. Tra teoria e storia, Roma-Bari, Laterza, 2001; D. Fisichella, Carl Schmitt: politica e liberalismo tra amicizia e inimicizia, in Id., Sfide alla libertà. Pensiero e politica tra Europa e Occidente, Cosenza, Marco, 2004, pp. 113-128; Id., Tipologia del nemico e regimi politici, in Id., Istituzioni politiche. Struttura e pensiero, Cosenza, Marco, 1999, pp. 65-99. Per una ricostruzione del dibattito sulla proposta di Schmitt, si vedano però le pagine di C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 733- 837, oltre a E.W. Böckenförde, Il concetto di «politico» come chiave per intendere l’opera giuspubblicistica di Carl Schmitt, in Id., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari, 2007 (ed. or. Der Begriff des Politischen als Schlüssel zum staatsrechtlichen Werk Carl Schmitts (1988), in Id., Recht, Staat, Freiheit. Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassungsgeschichte, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1991); O. Brunner, Terra e potere. Strutture prestatuali e pre-moderne nella storia costituzionale nell‘Austria medievale (ed. or. Land und Herrschaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Südost-Deutschland im Mittelalter, Baden bei Wien, Roher, 1939); L. Ornaghi, Lo Stato e il politico dell’età ‘moderna’. In ricordo di Carl Schmitt a un anno dalla morte, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico», XV (1986), pp. 721-741; P. Pasquino, Considerazioni intorno al ‘criterio’ del politico in Carl Schmitt, in «il Mulino», 1986, n. 306, pp. 673-688; P.P. Portinaro, Materiali per una storicizzazione della coppia amico-nemico, in G. Miglio (a cura di), Amicus (Inimicus) Hostis. Le radici della conflittualità ‘privata’ e della conflittualità ‘pubblica’, Milano, Giuffrè, 1992, pp. 219-310; C. Roehrssen, La teoria del politico di Carl Schmitt: un tentativo di risposta alla crisi della liberaldemocrazia (1974), in Id., Diritto e politica. Lo stentato affermarsi dello Stato borghese in Germania visto con gli occhi dei giuristi, Torino, Giappichelli, 1995, pp. 95-135; U. Scheuner, Das Wesen des Staates und der Begriff des Politischen in der neueren Staatslehre, in K. Hesse – S. Reicke – U. Scheuner (Hrsg.), Staatsverfassung und Kirchenordnung. Festgabe für Rudolf Smend zum 80. Geburtstag, Tübingen, Mohr, 1962, pp. 225-260; D. Sternberger, Il vocabolo ‘politica’ e il concetto del politico (1982), in Id., Immagini enigmatiche dell’uomo. Saggi di filosofia e politica, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 149-160; P. Tommissen, Il concetto del ‘politico’ secondo Carl Schmitt, in «Nuovi studi politici», 1978, n. 4, pp. 67-82. 58 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 18.

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distruttiva e che, a differenza di quanto sosteneva Schmitt, possono esistere forme di contrasto noi/voi meno radicali e in grado di garantire la convivenza fra gruppi in opposizione. In altre parole, come scrive Mouffe: si può ritenere che la distinzione amico/nemico sia solo una delle possibili forme di espressione della dimensione antagonistica costitutiva del politico. Pur ammettendo che la possibilità dell’antagonismo è sempre presente, possiamo anche immaginare altre modalità politiche di costruzione della demarcazione noi/loro. Se seguiamo questa strada, ci renderemo conto che per una politica democratica la sfida consiste nel cercare di mantenere entro certi argini l’emergere dell’antagonismo, istituendo in un modo diverso il rapporto noi/loro59.

Questo passaggio viene articolato su due piani in parte paralleli, che considerano, rispettivamente, la dimensione egemonica che contrassegna i processi politici e la logica che sottende alla formazione di ogni identità collettiva. Il riferimento alla nozione di «egemonia» tradisce ovviamente l’impostazione neo-gramsciana della riflessione di Mouffe, un’impostazione sviluppata con maggiore coerenza negli anni Ottanta, nei lavori stesi in collaborazione con Laclau. Ma se Gramsci nei Quaderni del carcere aveva rappresentato l’egemonia come il dominio – politico e culturale – esercitato da una coalizione sociale in un determinato contesto storico, Mouffe non utilizza la nozione di egemonia per mostrare il fondamento classista di un regime o il dominio esercitato da un ben preciso «blocco storico», sotto il velo illusorio di relazioni giuridiche solo all’apparenza egualitarie. La nozione di ‘egemonia’ serve piuttosto a Mouffe per affermare il carattere inevitabilmente egemonico di ogni ordine sociale. In altre parole, secondo Mouffe, ogni ordine sociale è sempre caratterizzato dalla presenza di un’egemonia, o, meglio, è il prodotto dell’egemonia esercitata da una determinata forza politica60. Il ‘politico’ si trova al di sopra e al di fuori del ‘sociale’, proprio nella misura in cui lo costituisce e fissa gli argini (anche istituzionali) all’interno dei quali la dinamica sociale può svolgersi: Il politico è in relazione con gli atti che istituiscono egemonia. Ed è in questo senso che occorre differenziare il sociale dal politico. Il sociale è il regno di 59

Ibid. La connessione con il carattere irriducibilmente antagonistico del fenomeno del politico è il presupposto del riconoscimento che ogni assetto sociale presuppone sempre un fondamento politico: «Prendere atto della dimensione antagonistica sempre presente nel ‘politico’ significa fare i conti con l’assenza di un fondamento ultimo e riconoscere la dimensione di indecidibilità che pervade ogni ordinamento» (C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 19). 60

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pratiche sedimentate, vale a dire di pratiche che dissimulano gli atti originari della loro istituzione politica contingente e che sono date per scontate, come fossero autofondate. Le pratiche sociali sedimentate sono parte costitutiva di ogni società possibile; non tutti i legami sociali vengono messi in discussione nello stesso momento. Il sociale e il politico hanno perciò lo statuto di ciò che Heidegger definiva esistenziali, e cioè sono dimensioni necessarie di ogni vita associata. Se il politico – inteso nel suo senso egemonico – implica la visibilità degli atti di istituzione del sociale, è impossibile determinare a priori che cosa sia il sociale e che cosa il politico indipendentemente da un qualche riferimento contestuale61.

Adottando la nozione di «egemonia», Mouffe cerca anche di sbrogliare l’intricata matassa del ruolo del «sovrano», ossia di quella forza politica che si trova, al tempo stesso, dentro e fuori da ogni ordinamento giuridico: quella forza che è collocata all’esterno dell’ordinamento e al di sopra della legge (non solo perché crea la legge, ma anche perché ne è la condizione di esistenza) e che, al tempo stesso, è all’interno dell’ordinamento ed è costretta – almeno nei periodi ordinari – a sottostare alle norme che ha creato. Mouffe estende però il discorso sulla natura paradossale del sovrano dal campo strettamente giuridico al complessivo ambito sociale. In questo senso, politico e sociale non sono aree i cui confini possono essere individuati una volta per tutte, perché il sociale – che si presenta sempre come la dimensione in cui le relazioni umane si svolgono in modo naturale – è il prodotto politico dell’egemonia: ciò che appare come naturale, è in realtà «il risultato di pratiche sedimentate», ossia di pratiche che sono sedimentate nel tempo dall’azione costitutiva dell’egemonia62. Inoltre, lo stesso concetto di «popolo» – che Schmitt pareva assumere in termini tradizionali, come Volk dotato di una specifica identità (linguistica, storica e politica) – è esso stesso un prodotto di pratiche egemoniche, che ne possono mutare nel tempo la 61

Ivi, p. 20. Questa lettura dell’egemonia gramsciana si trova ovviamente sviluppata soprattutto nelle pagine di C. Mouffe – E. Laclau, Hegemony and Socialist Strategy, cit., in particolare nel secondo capitolo, Hegemony: The Difficult Emergence of a New Political Logic, pp. 47-91. 62 Chiarendo questo punto, osserva: «Ogni ordine è l’articolazione temporanea e precaria di pratiche contingenti. La frontiera tra il sociale e il politico è per essenza instabile e richiede costantemente nuove dislocazioni e negoziazioni tra gli agenti sociali. Le cose possono sembrare essere altrimenti e perciò ogni assetto è basato sull’esclusione di altre possibilità. In questo senso, può essere definito ‘politico’, in quanto è espressione di una particolare struttura di rapporti di potere. Il potere è costitutivo del sociale perché il sociale non può esistere senza i rapporti di potere dai quali prende forma. Quello che in un dato momento viene considerato l’ordine ‘naturale’ – insieme al ‘senso comune’ che lo accompagna – è il risultato di pratiche sedimentate; non è mai la manifestazione di un’oggettività più profonda esterna alle pratiche da cui ha origine» (C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 20).

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configurazione e i ‘confini’63. In altri termini, come riassume efficacemente Mouffe, ogni convivenza politica organizzata presuppone sempre un’esclusione, che ovviamente tende a essere occultata ma che struttura la logica con cui le istituzioni operano: ogni ordinamento è politico ed è basato su una qualche forma di esclusione. Vi sono sempre altre possibilità che sono state represse e che possono essere riattivate. Le pratiche articolate mediante le quali viene costituito un determinato ordine e viene fissato il significato delle istituzioni sociali sono «pratiche egemoniche». Ogni ordine egemonico è suscettibile di essere messo alla prova da pratiche contro-egemoniche, ossia pratiche che cercheranno di disarticolare l’ordine esistente in modo da insediare un’altra forma di egemonia64.

Più complessa è invece l’operazione che Mouffe deve svolgere a proposito dell’identità collettiva, proprio perché la contrapposizione noi/loro viene considerata non solo come l’aspetto caratterizzante del politico, ma anche come l’elemento indispensabile per la formazione delle identità collettive. In questa direzione, il punto chiave del ragionamento risiede nella distinzione fra un vero e proprio «antagonismo» – la specifica contrapposizione fra amico e nemico – e ciò che viene invece definito come «agonismo»: Mentre l’antagonismo è una relazione noi/loro nella quale le parti in conflitto, pur consapevoli che non esiste una soluzione razionale loro conflitto, nondimeno riconoscono la legittimità dei loro oppositori. Sono «avversari», non nemici. Ciò significa che, benché in conflitto, si considerano come appartenenti alla medesima associazione politica, come parti che condividono uno spazio simbolico comune entro il quale ha luogo il conflitto. Possiamo affermare che il compito della democrazia è di trasformare l’antagonismo in agonismo65.

63 È questa infatti la critica principale che Mouffe muove a Schmitt e al «falso dilemma» della sua riflessione: cfr. C. Mouffe, Carl Schmitt and the paradox of liberal democracy, cit., specie pp. 53-57. 64 C. Mouffe, Sul politico, cit., pp. 20-21. Uno sviluppo coerente di questa concezione può essere trovato nelle ipotesi sul populismo (e sulla ‘costruzione’ del popolo) articolate da E. Laclau, La ragione populista, a cura di D. Tarizzo, Roma-Bari, Laterza, 2008 (ed. or. On Populist Reason, London, Verso, 2005). 65 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 23. Mouffe illustra la concezione di «agonismo», in relazione alla ridefinizione della teoria democratica, anche in C. Mouffe, Deliberative Democracy or Agonistic Pluralism, in «Reihe Politikwissenschaft», n. 72, 2000; Ead., Politics and Passions, cit., p. 8-11; Ead., For an Agonistic Model of Democracy, in N. O’Sullivan (ed.), Political Theory in Transition, London, Routledge, 2000, poi in Ead., The Democratic Paradox, cit., pp. 80-107; Ead., Some reflections on an agonistic approach to the public, in B. Latour – P. Weibel (eds.), Making Things Public: Atmospheres of democracy, Cambridge (Ma), Mit Press, 804-807. Nella concezione

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Evidentemente, il nodo teorico su cui si gioca la proposta di Mouffe è collocato proprio nel passaggio da nemico ad avversario, e, in particolare, nella dinamica che conduce due diversi raggruppamenti a considerarsi – secondo le parole della studiosa belga – come «appartenenti alla medesima associazione politica» e come «parti che condividono uno spazio simbolico comune entro il quale ha luogo il conflitto». Per fondare la propria operazione, Mouffe deve ovviamente prendere almeno parzialmente le distanze da Schmitt, il quale infatti non ammette logicamente la possibilità che due raggruppamenti politici possano convivere all’interno della stessa sintesi, senza che l’unità reale di quest’ultima venga messa in discussione. «L’unità politica», osservava per esempio Schmitt nel Begriff des Politischen, «è, per sua essenza, l’unità decisiva, senza che importi da quali forze essa trae i suoi ultimi motivi psichici», e, «se esiste, è l’unità suprema, cioè quella che decide nel caso decisivo»66. Al contrario, l’esistenza di più associazioni politiche all’interno di una medesima sintesi significava, per il giurista tedesco, soltanto che lo ‘Stato’ aveva cessato di rappresentare l’«unità decisiva», e aveva così smarrito il proprio specifico carattere politico67.

di Mouffe – come d’altronde riconosce esplicitamente (C. Mouffe, The democratic paradox, cit., p. 1) – è evidente anche l’influenza della concezione della democrazia proposta da C. Lefort, Saggi sul politico, Bologna, Il Ponte, 2007 (ed. or. Essais sur le politique, Paris, Seuil, 1986). 66 C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 126. 67 Quando esaminava la teoria pluralista di Laski, Schmitt esprimeva nel modo più chiaro il ruolo cruciale dell’esigenza monistica del fenomeno ‘politico’, un’esigenza incompatibile con un reale pluralismo interno: «in verità, non esiste nessuna ‘società’ o ‘associazione’ politica, ma sola un’unità politica, una ‘comunità’ politica. La possibilità reale del raggruppamento di amico e nemico è sufficiente a costituire, al di sopra del semplice dato associativo-sociale, un’unità decisiva che è qualcosa di specificamente diverso e insieme di decisivo nei confronti delle altre associazioni. Se questa unità viene meno anche come eventualità, allora vien meno anche il ‘politico’ stesso. Solo finché non viene riconosciuta ed esaminata a fondo l’essenza del ‘politico’ è possibile pensare in termini pluralistici ad una ‘associazione’ politica accanto ad una religiosa, culturale, economica o di altro tipo, e configurabile in concorrenza con queste ultime» (ivi, p. 128). A proposito di questo passaggio, Antonino Scalone, criticando la proposta di Mouffe, ha richiamato l’importanza – nella visione di Schmitt – dell’eliminazione di ogni nemico interno per la sopravvivenza delle stesse unità politiche: «a suo avviso, uno Stato incapace di detenere per sé il monopolio della decisione su chi sia amico e chi nemico è uno Stato in via di dissoluzione, come ad esempio la Repubblica di Weimar, e sull’orlo della guerra civile». Cfr. A. Scalone, Recensione a C. Mouffe, Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, in «Recensioni filosofiche», 2008, n. 28 [www.recensionifilosofiche. it] (luglio 2008). Sul rifiuto schmittiano del pluralismo, comunque ben presente alla studiosa belga, si vedano anche C. Mouffe, Pluralism and Modern Democracy, cit., pp. 131-132, e Ead., Democracy and Pluralism: A Critique of the Rationalist Approach, in «Cardozo Law Review», XVI (1995), n. 5, poi con il titolo Democracy, Power and ‘the Political’, in Ead., The Democratic Paradox, cit., pp. 17-35.

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Per compiere il passaggio «oltre Schmitt», nella direzione della teoria dell’«agonismo», Mouffe si deve volgere allora a fonti teoriche differenti, che sono rappresentate, principalmente, da Masse e potere di Elias Canetti e da alcune delle opere freudiane degli anni Venti. Canetti viene evocato da Mouffe innanzitutto perché Masse e potere sembra offrire un’efficace spiegazione dell’attrazione che la «massa» esercita sugli individui, un’attrazione che, in alcuni momenti, «fa sì che gli attori desiderino diventare parte di una massa per perdervisi in un momento di fusione»68. Per Canetti una simile attrazione non è un residuo arcaico, ma una «parte integrante della dotazione psicologica degli esseri umani»69, di cui è indispensabile tenere conto in vista della costruzione di una teoria realistica della democrazia. Al contrario, la teoria liberale (nella variante aggregativa e in quella deliberativa) risulta sostanzialmente incapace di riconoscerne il ruolo a causa della prospettiva individualista. «Mettendo l’accento sul calcolo razionale degli interessi (modello aggregativo) o sulla deliberazione morale (modello deliberativo)», afferma Mouffe, «l’attuale teoria politica liberale è incapace di riconoscere alle ‘passioni’ il ruolo di forze motrici fra le più importanti della vita politica, trovandosi così disarmata quando è messa di fronte alle loro diverse manifestazioni»70. Invece, se si riconosce – con Canetti – che l’attrazione per la massa, il desiderio di perdersi o addirittura di ‘fondersi’ nella massa, è una caratteristica ineliminabile della «natura umana», allora diventa impossibile pensare che il gioco democratico possa eliminare le «passioni», risolvendosi soltanto al calcolo o al dialogo71. Il secondo motivo per cui Mouffe richiama Canetti non riguarda invece la sua concezione della «massa», ma un tipo particolare di raggruppamento, cui lo scrittore dedica alcune pagine di Masse und Macht, quando illustra la logica che guida le votazioni parlamentari. In questi casi, osserva Canetti, la contrapposizione fra i gruppi ricorda lo scontro fisico, ma quest’ultimo è in realtà soltanto evocato e «il conteggio dei voti segna la fine della bat68

C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 27. Ibid. 70 Ibid. 71 Ciò si estende anche al campo dell’interpretazione delle scelte di voto, che non può escludere la componente emotiva dell’appartenenza: «L’approccio razionalista non è in grado di cogliere che ciò che spinge la gente a votare è molto di più che la semplice difesa dei propri interessi. Nel voto è presente un’importante dimensione affettiva, entra in gioco una questione di identificazione. Per agire politicamente gli uomini hanno bisogno di potersi identificare con un’identità collettiva che fornisca loro un’idea di se stessi a cui essi possano dare valore. Il discorso politico deve offrire non soltanto misure politiche, ma anche identità che consentano alla gente di dare un senso a ciò che sta vivendo e che le offrano una speranza per il futuro» (ivi, p. 28). 69

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taglia»72. In altre parole, la votazione parlamentare può essere intesa come una soluzione resa possibile dalla rinuncia all’uccisione del nemico come strumento di risoluzione dei disaccordi73. E proprio in questo senso Mouffe può ritrovare nel passaggio di Canetti l’esemplificazione di ciò che è specifico della democrazia, ossia il fatto che «i conflitti possano essere messi in scena in una modalità che non è antagonistica ma agonistica»74, grazie all’esistenza di istituzioni capaci di incanalare la relazione noi/loro verso esiti compatibili con il pluralismo democratico75. Per alcuni versi ancora più impegnativo è il richiamo a Freud, perché in questo caso non solo viene esplicitata la logica psicologica che sottende al comportamento politico (e alla contrapposizione noi/loro), ma viene anche illustrata la modalità con cui le istituzioni democratiche sono in grado di controllare le pulsioni dell’essere umano. In primo luogo, Mouffe si riferisce all’antropologia freudiana delineata nel Disagio della civiltà, un’antropologia che descrive l’essere umano come un soggetto naturalmente aggressivo, di cui la società deve controllare le pulsioni distruttive; in secondo luogo, invece, evoca Psicologia di massa e analisi dell’Io, il 72 «In una votazione parlamentare», scriveva Canetti, «non c’è altro da fare che verificare sul posto la forza di ambedue i gruppi. Non è sufficiente conoscerla a priori. Un partito può avere 360 deputati, l’altro solo 240: la votazione rimane determinante come il momento in cui davvero ci si misura. È una sopravvivenza dello scontro cruento, che si compie in molteplici modi: con la minaccia, l’oltraggio, l’eccitazione fisica, la quale può perfino spingere a picchiare o a lanciare oggetti. Ma il conteggio dei voti segna la fine della battaglia. Si deve riconoscere che 360 uomini hanno vinto su 240. La massa dei morti resta interamente fuori del gioco. All’interno del parlamento non ci devono essere morti». E. Canetti, Massa e potere, Milano, Adelphi, 1981, pp. 224-225 (ed. or. Masse und Macht, Hamburg, Classen Verlag, 1969). 73 Lo stesso Canetti d’altronde scrive, in relazione a questa scelta: «La solennità di tutte queste operazioni deriva dalla rinuncia alla morte come strumento di decisione. Con ogni singola scheda la morte è per così dire spazzata via. Ma ciò che l’avrebbe provocata, la forza dell’avversario, è registrato scrupolosamente in un numero. Ma chi si prende gioco di quei numeri, chi li confonde, li falsifica, lascia nuovamente spazio alla morte e non se ne accorge. Entusiastici amanti della guerra, che si beffano volentieri della scheda elettorale, manifestano così solo le loro intenzioni sanguinose. Schede elettorali e trattai sono per loro unicamente miseri pezzi di carta. Che essi non siano bagnati di sangue appare loro spregevole; valgono per loro solo decisioni che esigono sangue» (ivi, pp. 226-227). 74 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 25. 75 Si tratta, peraltro, di un esito sempre potenzialmente esposto al rischio di un ritorno dell’antagonismo. «Chi si prende gioco di quei numeri, chi confonde, chi li falsifica», osserva per esempio Canetti, «lascia nuovamente spazio alla morte e non se ne accorge» (E. Canetti, Masse e potere, cit., pp. 226-227). E, così, Mouffe avverte: «quando le istituzioni parlamentari sono distrutte o indebolite, la possibilità di un confronto agonistico scompare e subentra una forma antagonistica del rapporto noi/loro. Si pensi per esempio al caso della Germania e al modo in cui, con il collasso della politica parlamentare, gli ebrei diventarono un ‘loro’ antagonistico» (C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 26).

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saggio dell’inizio degli anni Venti in cui Freud illustrava il comportamento del singolo in gruppo come l’effetto di un investimento libidico, capace di stringere gli individui in una comunità e di neutralizzare l’aggressività delle pulsioni distruttive76. Ovviamente, Mouffe non segue più di tanto Freud nell’analisi del rapporto contrastante fra le due pulsioni di vita e di morte che caratterizzerebbero ogni essere umano, ma si ferma soltanto sull’idea che le tensioni distruttive esistenti in ogni società non possano essere eliminate e debbano invece essere controllate dalle istituzioni democratiche. «La mia tesi», scrive in questo senso, «è che, intese in una modalità agonistica, le istituzioni democratiche possano contribuire al disarmo delle forze libidiche che generano l’ostilità e che sono sempre presenti nelle società umane»77. La lezione che Mouffe trae da Canetti e Freud, dunque, tende a fondare la visione schmittiana del politico a un livello psicologico. Punta infatti a profilare la dimensione conflittuale come un carattere costitutivo della psicologia umana: un carattere dovuto alle pulsioni distruttive che vivono in ciascun individuo e che non possono essere eliminate, ma che vanno al contrario «sublimate», ossia indirizzate verso identità di gruppo, all’interno delle quali l’attrazione verso la massa di ogni singolo individuo sia libera di manifestarsi, pur secondo meccanismi, per così dire, virtuosi. «Anche in 76

Cfr. S. Freud, Psicologia della masse e analisi dell’io (1921), in Id., Opere. 1917-1923. L’Io e l’Es e altri scritti, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 257-330 (ed. or. Massenpsychologie und IchAnalyse, Leipzig-Wien-Zürich, Internationaler Psychoalytischer Verlag, 1921), e Id., Il disagio della civiltà (1930), in Id., Opere, cit., X, pp. 553-630 (ed. or. Das Unbehagen in der Kultur, in Id., Gesammelte Werke, London, Imago, 1948, XIV, pp. 419-506). 77 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 30. Secondo uno schema analogo a quello che il fondatore della psicoanalisi delineava a proposito dell’aggressività umana (e della necessità di indebolirne il potenziale di aggressività incanalandolo in attività socialmente utili) Mouffe ritiene dunque che si possa cercare di «disarmare» la pulsione conflittuale degli esseri umani grazie all’esistenza di istituzioni democratiche; in questa direzione, attinge anche alla nozione lacaniana di «godimento» e alla riflessione di Slavoj Žižek sul nazionalismo: cfr. in particolare Y. Stavrakakis, Passions of Identification. Discourse, Enjoyment and European Identity, in D. Howarth – J. Torfing (eds.), Discourse Theory in European Politics, London, Palgrave, 2004, e S. Žižek, Tarring with the Negative, Durham, Duke University Press, 1993. Per alcune riflessioni sulle identità collettive in linea con le ipotesi di Mouffe, cfr. anche la riflessione di Laclau, che sviluppa in modo ancora più articolato la rilettura di Freud: cfr., per esempio, E. Laclau, New Reflections on the Revolution of Our Time, cit.; Id., Emancipation(s), London, Verso, 1996; Id. (ed.), The Making of Political Identities, London, Verso, 1994; Id., La ragione populista, cit.; J. Butler – E. Laclau – S. Žižek, Contingency, Hegemony, Universality. Contemporary Dialogues on the Left, London, Verso, 2000. Per un’introduzione alla riflessione di Laclau, si vedano, per esempio, S. Critchley – O. Marchart, Laclau. A Critical Reader, London, Routledge, 2004; G. Greppi, Libertà, uguaglianza, contingenza! Ernesto Laclau e la teoria della ‘Democrazia Radicale’, in «Scienza & Politica», 2004, n. 30, pp. 41-57; D. Tarizzo, Populismo: chi starà ad ascoltare?, in E. Laclau, La ragione populista, cit., pp. VII-XXXIII.

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società diventate spiccatamente individualistiche», scrive Mouffe, «il bisogno di identificazioni collettive non scomparirà mai, in quanto è costitutivo della natura umana»78. La democrazia, pertanto, non può puntare a eliminare le passioni, le appartenenze e lo spirito partigiano, ma deve piuttosto alimentarsi di quelle contrapposizioni, incanalandole in sentieri istituzionali capaci, al tempo stesso, di controllarle e di garantirne la «sublimazione». Al contrario, la visione liberale della democrazia punta a ‘rimuovere’ queste pulsioni, nel senso che rimuove la dimensione dell’avversario, con conseguenze deleterie non soltanto sotto il profilo teorico, ma soprattutto per la stessa vitalità della dinamica democratica. I teorici liberali, scrive in questo senso Mouffe, «rifiutano di riconoscere la dimensione antagonistica della politica e il ruolo degli affetti nella costruzione delle identità politiche perché credono che ciò comprometterebbe la realizzazione del consenso, che a loro modo di vedere è lo scopo della democrazia», ma, in questo modo, «non si rendono conto del fatto che, lungi dal mettere a repentaglio la democrazia, il confronto agonistico è la condizione essenziale della sua esistenza»79. In termini ancora più radicali, lo «spirito postpolitico» procede in questa direzione, esaltando la centralità del consenso a scapito della relazione agonistica, ma rischiando così di prosciugare le stesse fonti dell’identificazione politica.

1.4 Lo «spirito postpolitico» Secondo Mouffe, alla base dello «spirito postpolitico» sta infatti la convinzione che le società occidentali siano entrate in una fase radicalmente nuova nella storia dell’umanità, una fase in cui le vecchie distinzioni fra destra e sinistra sono superate insieme a tutti i conflitti e alle appartenenze collettive del passato. Questa stessa idea – proprio nella misura in cui dilata ed estremizza i presupposti di fondo del liberalismo – non può che occultare totalmente un elemento cruciale, e cioè che la dinamica 78

C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 32. Ivi, p. 34. «I teorici che vogliono eliminare le passioni dalla politica e pensano che la politica democratica debba essere intesa solo in termini di ragione, moderazione e consenso», osserva ancora Mouffe, «dimostrano di non comprendere le dinamiche del politico. Non vedono che la politica democratica deve essere capace di far presa sui desideri e sulle fantasie della gente e che, invece di contrapporre gli interessi ai sentimenti e la ragione alle passioni, deve offrire forme di identificazione capaci di contribuire all’instaurarsi di pratiche democratiche. La politica ha sempre una dimensione ‘partigiana’ e la gente, per potersi interessare a essa, deve avere la possibilità di scegliere tra partiti che offrono reali alternative. Ed è proprio ciò che manca nell’attuale celebrazione della democrazia ‘non partigiana’» (ivi, pp. 32-33). 79

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democratica non si regge esclusivamente sul consenso, ma anche su forti identità collettive che non possono che essere basate anche su relazioni agonistiche. Una democrazia da cui è espulso programmaticamente il conflitto a vantaggio del consenso è in realtà – secondo la formula proposta da Jacques Rancière – una «postdemocrazia»80, e cioè una raffigurazione dalla quale viene espunta fin dal principio «la dimensione dell’avversario, che è costitutiva del politico e che fornisce alla politica democratica la sua dinamica intrinseca»81. Mentre esalta il momento del consenso, lo «spirito postpolitico» tende, di fatto, a ‘rimuovere’ il fondamento del ‘politico’ e, così, a ostruire i canali democratici di sublimazione delle pulsioni distruttive, col risultato che quelle pulsioni vengono fatte slittare altrove, verso identità collettive essenzialiste: La specificità della democrazia moderna poggia sul riconoscimento e la legittimazione del conflitto e sul rifiuto di eliminarlo imponendo un ordine autoritario. […] Per questa ragione dovremmo guardare con preoccupazione l’attuale tendenza a esaltare la politica del consenso, che avrebbe preso il posto del tradizionale (e superato) scontro fra destra e sinistra. Una democrazia ben funzionante richiede lo scontro tra posizioni politiche democratiche legittime. E proprio questo deve essere il confronto fra destra e sinistra. Tale confronto dovrebbe produrre forme di identificazione collettiva abbastanza forti da mobilitare le passioni politiche. Se si perde questa dimensione di lotta tra avversari, non si può dare alle passioni uno sbocco democratico e le dinamiche agonistiche del pluralismo vengono ostacolate. Vi è così il rischio che il

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Cfr. J. Rancière, Il disaccordo. Politica e filosofia, Roma, Meltemi, 2007 (ed. or. La Mésentente. Politique et Philosophie, Paris, Galiliée, 1995), il quale utilizza il termine «postdemocrazia» per «definire il paradosso che fa valere, sotto il nome di democrazia, la pratica consensuale di annullamento delle forme di democrazia, la pratica consensuale di annullamento delle forme dell’agire democratico» (ivi, p. 115). «La post-democrazia», precisa inoltre il filosofo francese, «è la pratica governamentale e la legittimazione concettuale di una democrazia del post demos, una democrazia che ha eliminato l’apparenza, il resoconto e il conflitto del popolo, ed è dunque riducibile al solo gioco dei dispositivi statali e delle mediazioni tra energie e interessi sociali. La post-democrazia non è una democrazia che ha trovato nel gioco delle energie sociali la verità delle forme istituzionali. È una modalità di identificazione, tra i dispositivi istituzionali e la disposizione tra parti e parti della società, capace di far scomparire il soggetto e l’agire tipici della democrazia. Si identifica con la pratica e la riflessione intorno a un completo adeguamento tra le forme dello Stato e lo stato delle relazioni sociali» (ibid.). Per questa immagine della «postdemocrazia», differente (anche se non incompatibile) con la tesi svolta da Mouffe, si vedano anche Id., Aux bords du politique, Paris, La Fabrique, 1998, e Id., L’odio per la democrazia, Napoli, Cronopio, 2007 (ed. or. La haine de la démocratie, Paris, La fabriques, 2005). La nozione di «postdemocrazia» è stata utilizzata, in un’accezione in parte differente, anche da C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003. 81 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 33.

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confronto democratico venga sostituito dal confronto tra forme essenzialiste di identificazione o tra valori morali non negoziabili82.

Il discorso di Mouffe, a questo proposito, non è puramente teorico, perché in effetti sostiene che la deriva «antipolitica», la disaffezione verso i partiti e lo sviluppo di altre identità collettive (nazionaliste, religiose, etniche) siano l’esito dello spostamento delle democrazie occidentali nella direzione del consenso, a scapito del dissenso. «Il consenso è certamente necessario», osserva, «ma deve essere accompagnato dal dissenso», perché, se è necessario che ci sia consenso sulle istituzioni costitutive della democrazie e sui valori di fondo, «ci sarà sempre disaccordo a proposito del loro significato e del modo in cui devono essere attuati»83. E per la democrazia pluralista tali disaccordi non sono soltanto legittimi, ma indispensabili. È quasi scontato – sia per la provenienza di Mouffe, sia per le critiche che muove ai filoni liberal della filosofia politica contemporanea – che i suoi attacchi si indirizzino soprattutto alle forze politiche di sinistra, che, dopo l’Ottantanove, hanno proceduto nel senso della «rinuncia a qualsiasi tentativo di trasformare l’ordine egemonico attuale» e dell’«adesione all’idea che ‘le società liberaldemocratiche realmente esistenti’ rappresentino la fine della storia»84. La concezione «agonistica» della democrazia si propone dunque come una via per superare questa impasse e per recuperare quella contrapposizione tra avversari cui le identità collettive possano attingere85. 82

Ivi, p. 34. Da questo punto di vista, la lettura di Mouffe sembra in parte debitrice verso alcuni suggerimenti di Slavoj Žižek, che intende l’era «postpolitica» come una fase in cui il ‘politico’ risulta non tanto soppresso, quanto «forcluso», in termini lacaniani. Cfr. al proposito S. Žižek, Carl Schmitt in the Age of Post-Politics, in C. Mouffe (ed.), The Challenge of Carl Schmitt, cit., pp. 16-39, ma anche Id. La violenza invisibile, Milano, Rizzoli, 2007 (ed. or. Violence, London, Profile Books, 2007), dove scrive: «Qui non stiamo parlando della differenza tra due visioni, o tra due insiemi di assiomi universali, ma tra la politica che rinuncia alla dimensione costitutiva di ciò che è politico, affidandosi alla paura come ultima risorsa di mobilitazione […]. Una siffatta (post)politica si basa sempre sulla manipolazione di un ochlos, o moltitudine, paranoide: è la terrorizzante mobilitazione di un popolo terrorizzato» (ivi, p. 46). Partendo da coordinate diverse e da una prospettiva ‘arendtiana’, Antonella Besussi individua invece nella odierna «città post-politica» l’assenza di «una dinamica anche minimale di riconoscimento reciproco in grado di oltrepassare la dissomiglianza tra le parti». Cfr. A. Besussi, Governo della paura e governo della legge, in «Paradoxa», II (2008), n. 1, pp. 131-141, specie p. 140. 83 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 35. 84 Ivi, p. 36. 85 In tal senso, Mouffe scrive esplicitamente: «Per poter infondere nuova vita alla democrazia è urgente uscire da questa impasse. Sono convinta che l’approccio agonistico che propongo in queste pagine, di cui l’idea di ‘avversario’ costituisce parte integrante, potrebbe contribuire al rinnovamento e all’approfondimento della democrazia Esso offre inoltre la possibilità di concepire la prospettiva della sinistra in termini egemonici. Gli avversari

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Al di là di queste implicazioni, però, Mouffe si rivolge a quelle che ritiene le principali versioni odierne della visione «postpolitica», quelle visioni che si concentrano sulla dinamica democratica interna, ma che investono anche l’arena internazionale. Gli obiettivi privilegiati della sua critica sono, comprensibilmente, Ulrich Beck e Antony Giddens, i quali, pur seguendo traiettorie non del tutto convergenti, sono giunti a sostenere che, dinanzi all’odierna «modernità riflessiva», la dicotomia destra/sinistra risulta scalzata dalle fondamenta e sostituita da una serie di contrapposizioni assai più complesse86. Ovviamente, Mouffe riconosce le differenze di accento che distinguono Beck da Giddens, e dunque la distanza tra le considerazioni (spesso problematiche) della Società del rischio e le tesi – con ricadute immediate sul dibattito politico – sviluppate nella Terza via e in Oltre la destra e la sinistra87. Ciò nonostante, Mouffe ritiene che, al fondo del discorso dei due sociologi, stia un elemento comune, che consiste non soltanto nel superamento della contrapposizione destra/sinistra, ma soprattutto in una sorta di rimozione delle fondamenta conflittuali che caratterizzano il politico. Entrambi questi autori, infatti, «ritengono che nella fase attuale della modernità riflessiva possa avere luogo una ‘democratizzazione della democrazia’ senza che si debba definire un avversario»88. Ma il punto chiave della loro argomentazione non consiste tanto nel mutamento dello scenario internazionale, e nel fatto che di fronte alle democrazie stia un vero e proprio nemico: il discorso che entrambi svolgono fa discendere infatti la fine della possibilità di individuare un avversario da una serie di trasformazioni sociali. Secondo Beck e Giddens, osserva inscrivono il loro confronto all’interno della cornice democratica, ma questa cornice non è vista come qualcosa di immutabile: è suscettibile di essere ridefinita attraverso una lotta per l’egemonia. Una concezione agonistica della democrazia riconosce il carattere contingente delle articolazioni politico-economiche egemoniche che determinano la configurazione specifica di una società in un dato momento. Esse sono costruzioni precarie e pragmatiche, e quindi possono essere disarticolate e trasformate come risultato di una lotta agonistica tra avversari» (ivi, p. 37). 86 Una rassegna critica di queste posizioni, che negli ultimi decenni hanno considerato la dicotomia destra/sinistra come superata, è svolta da M. Revelli, Sinistra/Destra. L’identità smarrita, Roma-Bari, Laterza, 2007. 87 Cfr., per esempio, U. Beck, The Reinvention of Politics. Rethinking Modernity in the Global Social Order, Cambridge, Polity Press, 1997; Id., The Reinvention of Politics. Towards a Theory of Reflexive Modernization, in U. Beck – A. Giddens – S. Lash, Reflexive Modernization, Cambridge, Polity Press, 1997; Id., Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Roma, Carocci, 1999 (ed. or. Was ist Globalisierung? Irrtümer des Globalismus, Antrorten auf Globasirierung, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1997; Id., (hrsg.), Politik der Globalisierung, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1998. 88 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 54.

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Mouffe, «nelle società post tradizionali, non troviamo più identità collettive strutturate in termini di noi/loro, e ciò significa che le frontiere politiche si sono dissolte»89. La società contemporanea appare cioè talmente complessa al proprio interno, che le vecchie linee conflittuali sono ormai prive di rilievo e che non è neppure possibile tracciare nuove linee di demarcazione. Si tratta dunque di un insieme di processi che condannano tutte le forme (vecchie e nuove) di identità collettiva e promuovono dinamiche irreversibili di invidualizzazione sociale: La chiave di volta della scomparsa delle identità collettive è la dinamica dell’individualizzazione, che essi considerano al centro della modernità riflessiva. Questo processo di individualizzazione distrugge le forme di vita collettive, senza le quali non può esistere il corrispondente tipo di politica. È illusorio dunque cercare di far crescere la solidarietà di classe, dato che oggi l’esperienza fondamentale degli individui è proprio la distruzione delle condizioni della solidarietà collettiva. La crescita dell’individualismo compromette l’esistenza dei sindacati e dei partiti e rende inefficace il tipo di politica che essi portavano avanti90.

Le conseguenze di una simile visione – agli occhi di Mouffe – sono disastrose non solo per quanto concerne la comprensione dei conflitti politici, ma soprattutto per la stessa raffigurazione del confronto democratico. L’unica forma di conflitto centrato su identità collettive che Beck e Giddens continuano a ritenere possibile è infatti il frutto di una opposizione «tradizionalista» e «fondamentalista», attardata su posizioni anacronistiche, condannata dalla storia e alla quale, pertanto, non può essere riconosciuta alcuna legittimità all’interno del dibattito democratico. Il risultato, però, è che «l’approccio di Beck e Giddens preclude la possibilità di dare una forma ‘agonistica’ ai conflitti politici», mentre «l’unica forma possibile di opposizione è quella ‘antagonistica’»91. La critica di Mouffe, date queste premesse, appare persino scontata, perché Beck e Giddens riducono la politica – e in particolare la politica democratica – a una sfera di dibattito dalla quale è programmaticamente espulso il conflitto, ossia qualsiasi conflitto che ponga in discussione l’assetto consolidato del potere: «a dispetto di quanto affermano i suoi sostenitori, l’approccio ‘dialogico’ è ben lungi dall’essere radicale perché non può esserci politica radicale senza che vengano messi in discussione i rapporti di potere esistenti; questo comporta che si definisca 89 90 91

Ibid. Ivi, p. 55. Ivi, p. 56.

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un avversario, ed è precisamente ciò che tale prospettiva esclude»92. Ma, in realtà, questa prospettiva non può realmente eliminare l’antagonismo, perché può solo presentarlo come una forza eversiva e condannata dal tempo, trasferendo cioè su un piano temporale – tra il ‘passato’ e il ‘presente’ – la vecchia frontiera spaziale fra destra e sinistra93. I tradizionalisti «non possono prendere parte al processo dialogico, i cui confini in effetti sono costituiti proprio dalla loro esclusione»94; ma una simile esclusione riproduce la stessa logica del politico, la logica della preliminare distinzione fra amico e nemico, presentandola però come un dato sociologico e non come l’esito di una decisione politica: contrariamente a quanto viene affermato, la politica nella sua dimensione antagonistica non è scomparsa, ma in questo caso si presenta sotto un’altra veste, come un meccanismo di esclusione giustificato su basi pseudo-scientifiche. Il problema, da un punto di vista politico, è che tracciando in questo modo la frontiera politica non si gettano le basi di un vivace dibattito democratico. Giustificare in questi termini un’esclusione significa renderla impermeabile alla contestazione e metterla al riparo dalla discussine democratica. I democratici «dialogici» possono quindi ignorare senza sensi di colpa le richieste che si giudicano provenienti dal versante tradizionalista o fondamentalista95.

La critica di Mouffe non nega la validità di alcuni dei punti messi in evidenza da Beck e Giddens a proposito della trasformazione sociale, ma ne propone una lettura diversa. Già negli anni Ottanta, d’altronde, una delle tesi al cuore di Hegemony and Socialist Strategy sosteneva che la categoria di «classe» fosse incapace di racchiudere al proprio interno tutte le linee conflittuali che innervano le società contemporanee e che, inoltre, lo spettro 92

Ivi, p. 58. In questo senso, non è casuale – osserva Mouffe – che vengano privati di legittimità quanti si pongono in contrasto con la logica della modernizzazione, e cioè proprio i «tradizionalisti» e i «fondamentalisti»: «Non c’è dubbio» – nota Mouffe – «che ‘modernizzazione’ sia la parola chiave di questa strategia, il cui effetto è di discriminare tra coloro che sono in sintonia con le nuove condizioni del mondo moderno, post-tradizionale, e coloro che sono ancora disperatamente aggrappati al passato. Usare in questa maniera il termine ‘modernizzazione’ è certamente un gesto retorico efficace che permette a chi lo fa di tracciare una frontiera politica tra i ‘moderni’ e i ‘tradizionalisti o fondamentalisti’, negando al tempo stesso il carattere politico della propria mossa. Nonostante la loro tesi sulla sparizione della demarcazione tra noi e loro e della sua centralità in politica, non sorprende che né Beck né Giddens possano evitare di stabilire una frontiera tra noi e loro. […] Ma, presentandola come neutrale, come fosse un dato sociologico, essi ne disconoscono la natura politica» (ivi, p. 62). 94 Ibid. 95 Ivi, p. 63. 93

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della politica si fosse notevolmente ampliato, investendo settori tradizionalmente esclusi da questo ambito96. Ma, da queste premesse, Mouffe e Laclau non avevano fatto discendere tanto l’idea della senescenza delle identità collettive, quanto, piuttosto, l’idea che i vecchi e i nuovi fronti potessero dar luogo a una differente volontà collettiva, capace di portare avanti l’ipotesi di una modificazione dell’ordine egemonico. Nel corso degli anni Novanta, Mouffe ha ribadito questa stessa tesi senza sostanziali varianti, ma con un’enfasi ancora più forte sul carattere necessariamente pluralistico della democrazia radicale97. Senza riformulare una proposta «rivoluzionaria» (centrata cioè su un mutamento radicale dell’ordine politico esistente e su una contrapposizione fra «nemici»), Mouffe definisce la propria visione della democrazia come «agonistica», nel senso che i rapporti conflittuali vengono convertiti in rapporti fra avversari, all’interno di un contesto comune in cui le parti che si contrappongono si considerano come «nemici legittimi». La differenza fra la «democrazia agonistica» e la «democrazia dialogica», sotto questo profilo, non attiene semplicemente all’intensità del confronto, ma al fatto stesso che nella «democrazia agonistica» il conflitto non viene negato: qui il dibattito democratico viene concepito come una reale contrapposizione. Gli avversari combattono – anche duramente – ma attenendosi a un insieme condiviso di regole, e le loro posizioni, benché siano in definitiva inconciliabili, sono accettate come prospettive legittime. La differenza fondamentale tra l’impostazione «dialogica» e quella «agonistica» è che lo scopo di quest’ultima è una profonda trasformazione dei rapporti di potere esistenti, nonché l’affermarsi di una nuova egemonia. Per questa ragione essa può a buon diritto essere definita «radicale». Per essere chiari, non è la politica rivoluzionaria di tipo giacobino, ma nemmeno la politica liberale degli interessi in competizione all’interno di un terreno neutrale, né la formazione di un consenso democratico98.

Proprio quando passa a definire il quadro della «democrazia agonistica», la distanza di Mouffe da Schmitt inizia a delinearsi chiaramente, perché il teorico tedesco si sarebbe probabilmente limitato a mettere in dubbio il carattere effettivamente «agonistico» di quella convivenza democratica. All’interno del quadro schmittiano, la trasformazione del nemico in avversario 96

Cfr. C. Mouffe – E. Laclau, Hegemony and Socialist Strategy, cit., pp. 149-194. Cfr. anche C. Mouffe, For an Agonistic Model of Democracy, in N. O’ Sullivan (ed.), Political Theory in Transition, London, Routledge, 2000, poi in Ead., The Democratic Paradox, cit., pp. 80-107. 98 Ivi, p. 59. 97

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– nel caso in cui sia una trasformazione effettiva – è possibile solo a seguito dell’individuazione di un rapporto di inimicizia di maggiore intensità, ossia di un nemico posto all’esterno dell’unità politica decisiva. Per quanto Mouffe non neghi che anche nelle società democratiche vi siano dei vincoli costitutivi, che limitano di fatto il pluralismo99, nel suo discorso il conflitto riesce però a rimanere in una sorta di condizione di equilibrio instabile: in altre parole, in una condizione in cui le parti in conflitto, pur esprimendo opzioni realmente alternative, riescono a convivere e a confrontarsi senza ricorrere alla violenza. Questa revisione del pensiero schmittiano non ha però soltanto risvolti teorici e non fornisce semplicemente uno strumento di critica alla visione liberale della politica o alla concezione «dialogica» della democrazia. Altrettanto importanti sono infatti le implicazioni che Mouffe individua sul terreno dell’effettiva dinamica politica che caratterizza sia le democrazie occidentali contemporanee, sia il sistema internazionale. Quando Mouffe si impegna nella critica serrata delle posizioni di Beck e Giddens, ovviamente non manca di ritrovarne gli elementi, e soprattutto la medesima visione semplificata della «modernizzazione», nelle formule della «terza via» e del «centro radicale», al cuore della ridefinizione del New Labour inglese100. Ma quella che Mouffe intende articolare non è soltanto una critica ai presupposti neo-liberali adottati dal New Labour, perché il suo discorso punta piuttosto a mostrare le implicazioni negative, e impreviste, della rimozione del conflitto e dell’«agonismo», che caratterizzano tutte le 99 La limitazione del pluralismo, su cui Schmitt si sofferma, rappresenta infatti il «paradosso» costitutivo della democrazia, che, secondo Mouffe, non può essere negato: in effetti, scrive per esempio, chi concepisce il pluralismo della democrazia moderna come un «pluralismo totale», la cui unica limitazione sarebbe costituita dagli accordi sulle procedure, «dimentica che tali regole ‘regolative’ hanno significato solamente in relazione alle regole ‘costitutive’ che sono necessariamente di ordine differente» (C. Mouffe, Pluralism and Modern Democracy: Around Carl Schmitt, cit., p. 131). Anche per Mouffe, dunque, la democrazia moderna implica necessariamente il riconoscimento «di un certo numero di ‘valori’, che, come l’eguaglianza e la libertà, costituiscono i suoi ‘principi politici’» (ivi, p. 132). La tensione fra pluralismo e democrazia è allora una tensione al tempo stesso costitutiva e irresolubile, tanto che «il desiderio di risolverla potrebbe condurre soltanto all’eliminazione del politica e alla distruzione della democrazia» (ivi, p. 133). Cfr. sul punto anche Ead., Penser la démocratie moderne avec, et contre, Schmitt, cit, pp. 140-142. Un uso dell’idea del «paradosso democratico», simile a quella di Mouffe, è proposto, in una chiave che estende l’analisi al piano specificamente internazionale, anche da M.G. Doucet, The Democratic Paradox and Cosmopolitan Democracy, in «Millennium», XXXIV (2005), n. 1, pp. 137-155, e Id., Territoriality and the Democratic Paradox: the Hemispheric Social Alliance and its Alternative for the America’s, in «Contemporary Political Theory», IV (2005), n. 3, pp. 275-295. 100 Cfr. anche C. Mouffe, The Radical Center: A Politics Without Adversary, in «Soundings», 1998, n. 9, poi in Ead., The Democratic Paradox, cit., pp. 108-128.

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democrazie occidentali a partire dalla fine degli anni Ottanta. In altre parole, Mouffe ritiene che l’ascesa del «populismo» e la stessa fortuna della retorica «antipolitica» siano la conseguenza principale della centralità che l’elemento del consenso ha assunto nei regimi politici occidentali. L’ascesa del Partito della libertà in Austria, il successo del Vlaams Blok (Vb) in Belgio, o anche la vicenda del Fronte Nazionale di Jean-Marie Le Pen, non sono – agli occhi di Mouffe – episodi isolati e neppure l’esito di una sorta di ritorno ‘atavistico’ di identità ormai superate dalla storia. La causa principale che conduce all’emergere di queste forze consiste «nei fallimenti dei principali partiti politici»101. In sostanza, la tesi che Mouffe porta avanti è che «la forte attrattiva dei partiti ‘anti-establishment’ sia dovuta all’incapacità dei partiti democratici tradizionali di proporre alternative significative», e che, dunque, tale successo si possa comprendere «soltanto entro il contesto del modo consensuale dell’attività politica oggi prevalente»102. Dato che i principali partiti hanno abbandonato la logica di un confronto «agonistico» e le vecchie identità collettive di riferimento, «gli elettori non hanno più avuto la possibilità di identificarsi con una gamma differenziata di identità politiche democratiche»103. Il vuoto creatosi in questo modo è stato occupato soprattutto da quei nuovi partiti populisti di destra che sono stati in grado di introdurre nuove forme di identificazione politica e di sostituire alla vecchia contrapposizione destra/sinistra innovative ed efficaci forme di contrapposizione noi/loro, come la xenofobia e l’antieuropeismo104. «Quando la politica democratica perde la capacità di mobilitare la gente su progetti politici specifici e si limita a garantire le condizioni necessarie per un agevole funzionamento del mercato», afferma Mouffe, «la situazione è matura perché i demagoghi scendano in campo, dando voce alla frustrazione popolare»105. I «demagoghi» si limitano peraltro a incanalare quella richiesta – non semplicemente economica, ma soprattutto emotiva – di identità collettive e di progetti di trasformazione sociale. L’ascesa dei partiti populisti è così, 101

C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 75. Ivi, p. 79. 103 Ibid. 104 «Ed è appunto», osserva Mouffe, «ciò che si sta verificando con il discorso populista di destra, che sostituisce la contrapposizione ormai indebolita tra sinistra e destra con un nuovo tipo di polarizzazione noi/loro costruita in base alla contrapposizione tra ‘la gente’ e l’‘establishment’. Contrariamente a quanti credono che la politica possa essere ridotta a motivazioni individuali, i nuovi populisti sono ben consapevoli che la politica consiste sempre nella creazione di un ‘noi’ contrapposto a un ‘loro’ e che ciò richiede la creazione di identità collettive. Di qui il potente richiamo del loro discorso che offre forme collettive di identificazione intorno al ‘popolo’» (ivi, p. 80). 105 Ivi, pp. 80-81. 102

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agli occhi di Mouffe, la più efficace testimonianza dell’assenza di dibattito democratico all’interno dei sistemi politici occidentali e, al tempo stesso, il frutto del superamento della contrapposizione fra destra e sinistra. Il successo di questi partiti «dimostra che la scomparsa di una netta demarcazione fra destra e sinistra non porta affatto un beneficio alla democrazia, ma anzi la indebolisce profondamente», perché «con il delinearsi di nuove frontiere politiche si crea il terreno per l’emergere di identità collettive la cui natura è ostile al processo democratico»106. Il fatto che le forze politiche tradizionali abbiano considerato il successo di questi partiti come il ritorno di posizioni arcaiche è naturalmente interpretato da Mouffe come una comprensibile conseguenza della rimozione del ‘politico’ che contrassegna il pensiero liberale. Ma la mobilitazione comune contro queste forze – etichettate come formazioni di «estrema destra», come «forze del male che rialzavano la testa» e contro le quali diventava necessario elevare un cordone sanitario di tutte le forze democratiche – mostra, a un esame più approfondito, un ulteriore carattere della prospettiva postpolitica. Un carattere che certo è il riflesso dell’incapacità di comprendere le basi della contrapposizione fra amico e nemico, e dunque della necessità di spiegare la rinascita di forti identità collettive come una sorta di regressione atavistica, ma, al tempo stesso, anche una spia dello spostamento della politica – e dunque della distinzione «noi/loro» – sul terreno morale. La reazione alle elezioni austriache del 1999 e la conseguente mobilitazione europea contro la formazione di un governo che vide alleati conservatori e populisti di destra sono interpretate da Mouffe, per esempio, come l’efficace testimonianza di una dinamica in cui il confronto politico, la contrapposizione tra avversari e la formazione delle identità collettive vengono spostati sul terreno della morale, e cioè su un terreno in cui la divisione fra «noi» e «loro» corrisponde a una contrapposizione fra valori morali positivi, legittimi e universali, da un lato, e, dall’altro, posizioni moralmente indegne, se non espressione di un vero e proprio «male assoluto»107. 106

Ivi, p. 82. Mouffe interpreta in questi termini la reazione europea contro il governo austriaco: «in nome della difesa dei valori europei e della lotta contro il razzismo e la xenofobia – cose che è sempre più facile denunciare in casa d’altri che combattere nella propria – i politici di sinistra e di destra unirono le forze per ostracizzare la nuova coalizione prima ancora che avesse compiuto qualcosa che si potesse giudicare reprensibile. Tutti i bravi democratici si ritennero in dovere di condannare l’ascesa al potere di un partito presentato come ‘neonazista’. Sotto la guida di una stampa militante, felice di aver trovato un nuovo diavolo da combattere, si scatenò un’incredibile campagna di demonizzazione, che ben presto si allargò a tutti gli austriaci accusati di non essersi debitamente ‘denazificati’. La condanna 107

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Benché Mouffe scorga chiari segnali della «moralizzazione della politica» nelle dinamiche interne dei sistemi politici occidentali, è evidente che il suo discorso è influenzato anche dal contesto internazionale e, soprattutto, dalle peculiarità di quell’assetto che è stato definito – in termini non sempre convincenti – come «momento unipolare»108. Ancor più rilevanti – agli occhi di Mouffe – sono però gli effetti prodotti, sulla stabilità del sistema internazionale, dall’identificazione fra gli interessi dell’umanità e gli interessi del razzismo e della xenofobia del popolo austriaco divenne un utile strumento per garantire l’unità dei ‘bravi democratici’, che potevano così proclamare la loro fedeltà ai valori della democrazia, evitando di sottoporre a un esame critico le loro politiche in patria» (ivi, pp. 84-85). Il caso austriaco è discusso, in specifico, nel saggio di C. Mouffe, The End of Politics and the Challenge of Right-Wing Populism, in F. Panizza (ed.), Populism and the shadow of Democracy, London, Verso, 2005, mentre un quadro delle formazioni europee è offerto da P. Ignazi, Extreme Right Parties in Western Europe, Oxford, Oxford University Press, 2006. In termini più generali, sulle peculiarità del contemporaneo «neo-populismo», cfr. A. Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia, cit. 108 Come introduzione al dibattito, si vedano, per esempio, F. Andreatta, Alla ricerca dell’ordine mondiale. L’Occidente di fronte alla guerra, Bologna, Il Mulino, 2004; F. Attinà, La sicurezza degli Stati nell’era dell’egemonia americana, Milano, Giuffrè, 2003; L. Bonanate, La politica internazionale fra terrorismo e guerra, Roma-Bari, Laterza, 2004; Id., La crisi. Il sistema internazionale vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, Milano, Bruno Mondadori, 2009; B. Buzan, Il gioco delle potenze. La politica mondiale nel XXI secolo, Milano, Egea, 2006 (ed. or. The United States and the Great Powers. World Politics in the Twenty-First Century, Cambridge, Polity Press, 2004); Z. Brzezinski, The Grand Chessboard. American Primacy and its Geostrategic Imperatives, New York, Basic Books, 1997; Id., The Choice. Global Domination or Global Leadership, New York, Basic Books, 2004; A. Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Bologna, Il Mulino, 2006; V. Coralluzzo, Oltre il bipolarismo. Scenari e interpretazioni della politica mondiale a confronto, Perugia, Morlacchi, 2007; G.J. Ikenberry, America senza rivali?, Bologna, Il Mulino, 2004; Id., Il dilemma dell’egemone. Gli Stati Uniti tra ordine liberale e tentazione imperiale, Milano, Vita e Pensiero, 2007 (ed. or. Liberal Order and Imperial Ambition. Essays on American Power and World Politics, Cambridge, Polity Press, 2006); E. Kapstein – M. Mastanduno (eds.), Unipolar politics, New York, Columbia University Press, 1999; C. Kupchan, La fine dell’era americana. Politica estera americana e geopolitica nel ventunesimo secolo, Milano, Vita e Pensiero, 2003 (ed. or. The End of the American Era. US Foreign Policy and the Geopolitics of the Tweenty-first Century, Princeton, Princeton University Press, 2002); J.J. Mearsheimer, La logica di potenza. America, le guerre, il controllo del mondo, Milano, Università Bocconi Editore, 2003 (ed. or. The Tragedy of Great Power Politics, New York – London, Norton, 2001); J. Nye Jr., Il paradosso del potere americano. Perché l’unica superpotenza non può agire da sola, Torino, Einaudi, 2002 (ed. or. The Paradox of American Power. Why the World’s Only Superpower Can’t Go It Alone, Oxford, Oxford University Press, 2002); V.E. Parsi (a cura di), Che differenza può fare un giorno. Guerra, pace e sicurezza dopo l’11 settembre, Milano, Vita e Pensiero, 2003; Id., L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Milano, Università Bocconi Editore, 2007 (I ed. 2003); W. Wohlforth, The Stability of a Unipolar World, in «International Security», XXIV (1999), n. 1, pp. 5-41. Un’efficace sintesi della discussione è offerta da A. Locatelli, Guerra, terrorismo e ordine globale nel momento unipolare, in G.J. Ikenberry – V.E. Parsi (a cura di), Manuale di Relazioni Internazionali, Roma-Bari, Laterza, 20092 (I ed. 2001), pp. 274-300.

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di un determinato Stato (o di un limitato gruppo di Stati). Da questo punto di vista, infatti, la situazione riproduce la stessa dinamica che la stagione «postpolitica» presenta sullo scenario interno delle democrazie occidentali, nel senso che «l’assenza di un effettivo pluralismo comporta l’impossibilità per gli antagonismi di trovare forme di espressione agonistiche, e cioè legittime»109. Il risultato, allora, è pressoché scontato, perché è inevitabile – per effetto della negazione della legittimità del conflitto – che i dissensi debbano esplodere in forma violenta e assumere forme estreme, di cui il terrorismo internazionale è ovviamente l’emblematica rappresentazione: Ancora una volta il punto è la negazione della dimensione del politico e la convinzione che lo scopo della politica – a livello nazionale o internazionale – sia di stabilire il consenso intorno a un unico modello, precludendo così la possibilità di un dissenso legittimo. Secondo la mia analisi, la mancanza di canali politici per contrastare l’egemonia del modello neoliberale di globalizzazione è all’origine della proliferazione di discorso e di pratiche di negazione radicale dell’ordine vigente110.

Il terrorismo è perciò interpretato come la risposta alla pretesa dell’unificazione del mondo al di sotto del modello occidentale, ma a questa lettura Mouffe fa discendere una ben precisa indicazione pratica, che finisce col revocare in dubbio la stessa centralità della democrazia come valore universale. Per far fronte a una simile sfida, dunque, diventa «necessario riconoscere la natura fondamentale del pluralismo e immaginare le condizioni della sua implementazione a livello mondiale», rompendo anche, in modo netto, «con la convinzione, straordinariamente radicata nelle democrazie occidentali, secondo la quale esse sarebbero la realizzazione del ‘miglior regime possibile’ e avrebbero la missione ‘civilizzatrice’ di renderlo universale»111. Se, da un lato, una simile convinzione – di cui Mouffe rintraccia un esempio particolarmente chiaro nella riflessione condotta da Habermas112 e 109

C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 94. Ibid. 111 Ivi, p. 95. E «non è un compito da poco», osserva Mouffe, «visto che gran parte della teoria democratica è dedicata a dimostrare la superiorità della democrazia liberale, presentata come l’unico regime giusto e legittimo, le cui istituzioni, in condizioni ideali, sarebbero scelte da tutti gli individui razionali» (ibid.). 112 La natura antipolitica della proposta di Habermas si manifesta nella centralità che assume la concezione occidentale dei diritti umani, ma anche in un altro aspetto, non meno rilevante: «La sua concezione discorsiva della democrazia», osserva Mouffe, «richiede che si attribuisca una funzione epistemica alla formazione democratica della volontà e, come egli stesso ammette, ‘la forza legittimante del procedimento democratico non deriverà più soltanto, e neppure soprattutto, dalla partecipazione e dalla manifestazione della volontà, 110

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Richard Rorty – costituisce «il nucleo centrale della negazione liberale del politico», dall’altro, essa rappresenta anche il principale ostacolo alla comprensione del mondo come «pluriverso». In altre parole, la visione liberale si presenta doppiamente incapace di comprendere la realtà dei fenomeni politici: in un primo senso, perché rimuove la dimensione di un conflitto radicale, e cioè di un conflitto non conciliabile all’interno di un’arena deliberativa dal quale sono espunte le scelte sulle regole e sulla forma della comunità politica; in secondo luogo, perché, considerando l’esplosione del conflitto come la violazione irrazionale di un ordine razionale, finisce col rappresentare nei termini di «universo» ciò che in realtà è irriducibilmente lacerato da contrapposizioni. Ad ogni modo, le tracce della rimozione «postpolitica» non sono presenti, secondo Mouffe, soltanto nelle principali varianti del pensiero liberale, perché esse riaffiorano anche in quelle stesse visioni che pure si presentano come «radicali». E, così, non è affatto casuale che espressioni dello «spirito postpolitico» vengano rinvenute, per esempio, nella prospettiva cosmopolitica di David Held, Daniele Archibugi, Andrew Strauss e Richard Falk113, o, persino, nella visione «imperiale» di Michael Hardt e Antonio Negri114. Per quanto concerne il discorso sviluppato dagli autori di Empire, la critica di Mouffe è netta, nel senso che la dimensione imperiale è, anch’essa, uno bensì dalla generale possibilità di accedere a un processo dibattimentale (deliberative) costruito in modo da giustificare l’aspettativa di risultati razionalmente accettabili’. Ma che cosa sono questi ‘risultati razionalmente accettabili’? Chi deciderà sui limiti che debbono essere imposti all’espressione della volontà politica? Quali saranno le basi dell’esclusione?» (ivi, pp. 99-100). Il passo di Habermas citato da Mouffe è tratto da J. Habermas, La costellazione postnazionale, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 99 (ed. or. Die postnationale Konstellation, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1998), ma, come ulteriori esemplificazioni, cfr. anche Id., Dopo l’utopia. Il pensiero critico e il mondo d’oggi, Venezia, Marsilio, 1992 (ed. or. Vergangenheit als Zukunft, Zürich, Pendo Verlag, 1990); Id., L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano, 1998 (ed. or. Die Einbeziehung des Anderen, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1995). 113 Cfr. R.A. Falk, The Promise of World Order. Essays in Normative International Relations, Philadelphia, Temple University Press, 1987; Id., Per un governo umano. Verso una nuova politica globale, Trieste, Asterios, 1999 (ed. or. On Humane Governance. Towards a New Global Politics, Cambridge, Polity Press, 1995); D. Held, Democrazia e ordine globale. Dallo Stato moderno al governo cosmopolitico, Trieste, Asterios, 1999 (ed. or. Democracy and the Global Order. From the Modern State to Cosmopolitan Governance, Cambridge, Polity Press, 1995); D. Held – A.G. McGrew (eds.), The Global Transformation Reader, Cambridge, Polity Press, 2000; D. Held – A.G. McGrew – D. Goldblatt – J. Peraton, Global Transformations. Politics, Economics and Culture, Cambridge, Polity Press, 1999. 114 Cfr. M. Hardt – A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2002 (ed. or. Empire, Cambridge – Mass., Harvard University Press, 2000), ma anche Id., Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Milano, Rizzoli, 2004 (ed. or. Multitude. War and Democracy in the Age of Empire, New York, Penguin Books, 2004).

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spazio «universale», ossia uno spazio che esclude in termini programmatici la possibilità di pluriversum115. In questo senso, l’intellettuale belga non si limita a riprendere alcuni dei motivi polemici emersi nel corso di un dibattito senza dubbio piuttosto affollato116, ma sostiene anche che l’assunto centrale di Empire, e cioè l’idea di una nuova forma di sovranità priva di centro, «è stato mandato in frantumi in maniera spettacolare dalle guerre intraprese dagli Stati Uniti dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001»117. Il successo di «un libro così pieno di crepe», allora, si spiega, per Mouffe, tenendo conto del suo spirito messianico – sostanzialmente in linea con lo spirito «postpolitico» di Beck e Giddens – e, soprattutto, alla luce di una rappresentazione dei processi di globalizzazione in cui l’assenza del ‘politico’ viene rimpiazzata dal ricorso a uno schema determinista molto vicino a quello del marxismo della Seconda Internazionale118.

115 «La visione di Negri e Hardt di uno spazio globalizzato liscio», scrive Mouffe, «non riesce a tenere nel giusto conto la natura pluralistica del mondo, il fatto che si tratta di un ‘pluriverso’ e non di un ‘universo’», e pertanto anche la loro proposta costituisce solo una nuova variante dello spirito postpolitico: «La loro idea di una ‘democrazia assoluta’, di uno stato di radicale immanenza oltre la sovranità, dove una nuova forma di autorganizzazione della moltitudine prenderà il posto lasciato da un ordine strutturato sul potere, è la forma postmoderna di aspirazione a un mondo riconciliato […]. Una tale aspirazione, in qualunque variante – liberale o ultrasinistra – ci impedisce di cogliere la sfida reale che sta di fronte alla politica democratica, a livello sia interno che internazionale: non come superare il rapporto noi/loro ma come prospettare forme di costruzione del rapporto noi/loro compatibili con un ordine pluralistico» (C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 132). 116 Cfr., per esempio, T. Atzert – J. Müller (hrsg.), Immaterielle Arbeit und imperiale Souveränität. Analysen und Diskussionen zu ‘Empire’, Münster, Westfälisches Dampfboot, 2004; G. Balakrishnan (ed.), Debating Empire, London-New York, Verso, 2003; P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes. Reading Hardt and Negri, London-New York, Routledge, 2004, e i numeri monografici dedicati al volume dalle riviste «Theory and Event», 2000, n. 4; «Rethinking Marxism», XIII (2001), nn. 3-4; «Cultural Studies», XVI (2002), n. 2; «Acme», II (2003), n. 2. 117 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 124. 118 «Tutte le questioni cruciali per un’analisi politica», osserva infatti Mouffe, «vengono eluse, per esempio il problema di come la moltitudine possa diventare un soggetto rivoluzionario», tanto che: «la loro convinzione che il desiderio della moltitudine sia destinato a provocare la fine dell’impero evoca il determinismo della Seconda Internazionale, con la sua previsione che le contraddizioni economiche avrebbero prodotto inevitabilmente il crollo del capitalismo. In questo caso, è vero, non si parla più di proletariato, ed è la moltitudine a fare la parte del soggetto rivoluzionario. Ma nonostante la nuova terminologia, abbiamo ancora a che fare con lo stesso vecchio approccio determinista che non lascia spazio per un reale intervento politico» (ivi, p. 128). La critica di Mouffe, in questo senso, riprende le osservazioni di A. Moreiras, A Line of Shadow: Metaphysics in Counter-Empire, in «Rethinking Marxism», 2001, n. 3-4, pp. 216-226.

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Per quanto riguarda invece la prospettiva cosmopolitica, nelle sue molteplici varianti, il vizio che sembra segnarne negativamente le proposte consiste nell’idea di governance che tutti gli alfieri di questo filone condividono: un’idea che rappresenta l’interazione fra i soggetti della politica mondiale come un’interazione esclusivamente ‘orizzontale’, ossia come una dinamica tutta racchiusa all’interno di una logica consensuale. In questo modo, ciò che questi autori rimuovono è il fondamento egemonico di ogni ordine sociale: il problema centrale posto dalle diverse forme di cosmopolitismo sta nel fatto che tutte senza eccezione postulano, per quanto in modi diversi, che possa sussistere una forma di governance consensuale capace di trascendere il politico, il conflitto e la negatività. Il progetto cosmopolitico è perciò costretto a disconoscere la dimensione egemonica della politica. […] Una tale impostazione trascura il fatto che essendo i rapporti di potere costitutivi del sociale, ogni ordine è per necessità un ordine egemonico. Credere nella possibilità di una democrazia cosmopolitica con cittadini cosmopoliti aventi gli stessi diritti e gli stessi obblighi, un consenso coincidente con l’«umanità», è una pericolosa illusione. Se un progetto del genere dovesse mai realizzarsi, potrebbe soltanto significare che si è realizzata l’egemonia mondiale di un potere dominante che è stato in grado di imporre la sua concezione del mondo al pianeta intero e che, identificando i suoi interessi con quelli dell’umanità, tratterebbe ogni dissenso come una sfida illegittima alla sua leadership «razionale»119.

Se in tutto il discorso di Mouffe si intrecciano sempre la dimensione descrittiva e quella prescrittiva, questa sovrapposizione diventa ancor più evidente quando delinea i caratteri di un «ordine mondiale multipolare». Mentre formula questa ipotesi, Mouffe richiama l’idea di una dinamica di «pluralizzazione» elaborata dallo stesso Schmitt negli anni Cinquanta, secondo la quale il bipolarismo Usa-Urss poteva tramutarsi in un ordine basato 119

C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 122. Sulle ambiguità della nozione di governance – presenti in modo emblematico nel dibattito sulla «governance europea» – mi permetto di rinviare a D. Palano, Le due logiche della governance europea. Verso una «postdemocrazia»?, in «Città e Società», VIII (2004), n. 1, p. 25-50, ora in Id., Frammenti di potere. Tracce di politica nella metamorfosi dello spazio, Roma, Aracne, 2009, pp. 89-115, ma utili sono anche i materiali compresi in A. Palumbo – S. Vaccaro (a cura di), Governance. Teorie, principi, modelli, pratiche nell’era globale, Milano, Mimesis, 2007, mentre un’efficace ricostruzione concettuale (che pone in evidenza il ritorno di vecchi motivi anche nel dibattito più recente) è quella condotta da P. Colombo, Governo, Bologna, Il Mulino, 2003. Per un esame più approfondito della prospettiva cosmopolitica, cfr. però anche le osservazioni avanzate da N. Urbinati, Ci può essere un governo mondiale democratico?, in Ead., Ai confini delle democrazia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico, Roma, Donzelli, 2007, pp. 23-54, e, in termini più radicali, da D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 2002.

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sull’esistenza di più blocchi regionali autonomi120. Proprio una simile proposta – ripresa in una nuova chiave da Massimo Cacciari121 – rappresenta un’alternativa credibile (e, secondo Mouffe, auspicabile) all’ordine unipolare, e l’emergere della Cina come superpotenza, l’associarsi di numerosi Stati dell’Estremo Oriente nell’Asean, ma anche il rafforzamento del Mercosur sotto l’egemonia di Brasile e Argentina, sembrerebbero rappresentare segnali in questa direzione: Non voglio minimizzare gli ostacoli che devono essere superati, ma, per lo meno nel caso della creazione di un ordine multipolare, questi ostacoli sono soltanto di natura empirica, mentre il progetto cosmopolitico è anche basato su premesse teoriche traballanti. Il sogno di un ordine mondiale che non sia strutturato su rapporti di potere si basa sul rifiuto di fare i conti con la natura egemonica di ogni ordine. Una volta che si sia riconosciuto che non c’è un bel niente «oltre l’egemonia», l’unica strategia concepibile per superare la dipendenza del mondo da un’unica potenza è trovare le strade per «rendere plurale» l’egemonia. E questo può essere fatto soltanto attraverso il riconoscimento di una molteplicità di potenze regionali. Solo un simile contesto farà sì che nessun attore nell’ordine internazionale si possa considerare, per via del suo potere, al di sopra della legge, arrogandosi il ruolo di sovrano122.

L’ipotesi di un ordine «multipolare» non può non chiamare in causa l’Europa e il suo ruolo politico, ma Mouffe non si limita ad auspicare la trasformazione dell’Ue in un «potere reale» anche nel contesto internazionale. «Perché l’Europa affermi la sua identità», scrive per esempio, «è l’idea stessa di ‘Occidente’ che va messa in discussione, in modo da aprire una dinamica di pluralizzazione che possa creare le basi per resistere all’egemonia neoliberale»123. In altre parole, secondo Mouffe il possibile contributo che l’Ue può fornire alla costruzione di un ordine multipolare passa anche attraverso l’abbandono della pretesa universalista della visione occidentale che, per esempio, alimenta la stessa proposta cosmopolitica. «Se l’Europa può giocare un ruolo cruciale nella creazione di un nuovo ordine mondiale», scrive nelle pagine conclusive di On the Political, «non è mediante la promozione di un diritto cosmopolitico al quale tutta l’umanità ‘ragionevole’ dovrebbe sotto120 In particolare, Mouffe si riferisce a C. Schmitt, L’unità del mondo, in Id., L’unità del mondo e altri saggi, Roma, Pellicani, 1994, pp. 303-319, specie p. 315 (ed. or. La Unidad del Mundo, Madrid, Ateneo, 1951; Die Einheit der Welt, in «Merkur», VI, 1952, n. 1, pp. 1-11). 121 Cfr. M. Cacciari, Digressione su impero e tre Rome, in H. Friese, A. Negri e P. Wagner (a cura di), Europa politica. Ragioni di una necessità, Roma, Manifestolibri, 2002, pp. 21-42. 122 C. Mouffe, Sul politico, cit., pp. 135-136. 123 Ivi, p. 147.

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stare, ma contribuendo a stabilire un nuovo equilibrio tra poli regionali le cui tradizioni e i cui interessi specifici saranno considerati dotati di valore, e in cui i diversi modelli locali di democrazia saranno accettati»124. Ovviamente, se Mouffe attribuisse alla costruzione di un simile ordine la capacità di eliminare il conflitto e la guerra dallo scenario internazionale, verrebbe meno alle proprie premesse teoriche di base, e non è dunque a un simile obiettivo che sembra guardare. Lo scenario che sembra auspicare appare piuttosto quello della definizione di un ordine capace nuovamente di «mettere in forma» il conflitto e, soprattutto, di evitare che l’inimicizia scivoli sul terreno di una contrapposizione fra «civiltà», e dunque fra nemici che si negano reciprocamente il diritto all’esistenza: I conflitti continueranno a esistere anche in un mondo multipolare, ma è meno probabile che assumano una forma antagonistica. Non è in nostro potere eliminare i conflitti e sottrarci alla nostra condizione umana, ma è in nostro potere creare pratiche, discorsi e istituzioni che permettano a quei conflitti di assumere una forma agonistica. Per questa ragione la difesa e la radicalizzazione del progetto democratico richiedono che si riconosca il politico nella sua dimensione antagonistica e si abbandoni il sogno di un mondo riconciliato in cui potere, sovranità ed egemonia siano cose ormai superate125.

In questo caso, il discorso di Mouffe slitta evidentemente su un terreno in cui l’elemento prescrittivo diventa predominante. Anche per questo, le ipotesi di Mouffe possono essere criticate a partire da quelle stesse premesse realiste da cui prendono le mosse. In altre parole, all’interno di una prospettiva che pone alla base di ogni analisi non il carattere morale o razionale delle scelte politiche, ma la cruda realtà dei rapporti di forza (e delle relazioni egemoniche), si potrebbe osservare che l’ipotesi di Mouffe sulla costruzione di un ordine multipolare dai caratteri pluralistici appare segnata da un volontarismo assai poco realistico: in una prospettiva realista, e cioè in una prospettiva che adotti i principi del realismo politico classico di Tucidide, Machiavelli e Hobbes (e non necessariamente, dunque, una prospettiva che risulti rigidamente inscritta all’interno del filone delle Relazioni Internazionali denominata «realismo»), ciò che può indurre a un ripensamento dei rapporti fra le grandi potenze può essere soltanto un mutamento dei rapporti di forza, e cioè una crescita della minaccia (reale o percepita) che spinge i principali attori – e in primo luogo gli Stati Uniti – a ridefinire i propri criteri di condotta nei confronti delle altre potenze. In un simile processo di 124 125

Ivi, p. 149. Ivi, pp. 149-150.

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ridefinizione, è scontato che non siano affatto irrilevanti le componenti intellettuali, ossia le modalità con cui le minacce alla sicurezza vengono percepite e con cui le scelte vengono adottate126. Il punto, però, è che Mouffe sembra imputare esclusivamente a un’opzione intellettuale – ossia a un dibattito teorico volto a mostrare i vantaggi del pluralismo – la costruzione di un ordine multipolare, revocando così gli assunti di base del suo discorso, centrati sull’idea di identità collettive costruite sulla contrapposizione noi/loro e, dunque, sui limiti che fatalmente ogni discussione politica deve incontrare su questo versante. In altre parole, se la critica della tradizione liberale e del modello occidentale di modernità proposta da Mouffe mette in luce i limiti di un approccio razionalista, proprio simili elementi di razionalismo possono essere colti anche nella sua proposta di un approccio multipolare: non certo perché non sia possibile pensare la modernità in termini differenti da quelli occidentali, ma perché l’opportunità di adottare una visione di questo tipo è argomentata in modo scarsamente ‘realistico’127. Un esempio emblematico del limite che sembra contrassegnare il discorso svolto da Mouffe emerge a proposito della concezione dei diritti umani e, soprattutto, della forte connotazione occidentale che essa mostra. Da un primo punto di vista, osserva, «non si può pensare che il dibattito 126

Cfr., per esempio, proposte teoriche come quelle di B. Buzan, Il gioco delle potenze, cit.; A. Hasenclever – P. Mayer – V. Rittberger, Interessi, potere, conoscenza: lo studio dei regimi internazionali, in M. Cesa (a cura di), Le relazioni internazionali, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 271-362; A. Hasenclever – V. Rittberger, La religione fa la differenza? Approcci teorici all’analisi dell’impatto della fede sui conflitti politici, in P. Hatzopoulos – F. Petito (a cura di), Ritorno dall’esilio. La religione nelle relazioni internazionali, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 137-182 (ed. or. Religion in International Relations. The Return from Exile, London, Palgrave – MacMillan, 2003); C. Bagge Lausten – O. Wæver, In difesa della religione. Il sacro come questione di sicurezza, ivi, pp. 183-225, e, in una chiave più ampia, A. Wendt, Teoria sociale della politica internazionale, Milano, Vita e Pensiero, 2007 (ed. or. Social Theory of International Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 1999). Per un quadro efficace, cfr. la sintesi di S. Procacci, Problematizzare la sicurezza in Europa: minacce, identità, istituzioni, in S. Giusti – A. Locatelli (a cura di), L’Europa sicura. Le politiche di sicurezza nell’Unione europea, Milano, Egea, 2008, pp. 87-101. 127 È indicativo, in questo senso, il modo con cui Mouffe, per esempio, sostiene la necessità di adottare una visione dell’illuminismo analoga a quella proposta da James Tully (Diverse Enlightments, in «Economy and Society», XXXII, 2003, n. 3), quando scrive, a proposito della necessità di formulare un approccio multipolare: «un tale approccio ci impone di accettare che ci siano forme di modernità altre rispetto a quella che l’Occidente sta cercando di imporre ovunque nel mondo, senza curarsi del rispetto dovuto ad altre storie e tradizioni. La difesa di un modello di società diverso da quello occidentale non dovrebbe essere considerata espressione di arretratezza ed essere portata come prova di un arresto a uno stadio di sviluppo ‘premoderno’. È ora di abbandonare la convinzione eurocentrica che il nostro modello abbia un accesso privilegiato alla razionalità e alla moralità» (C. Mouffe, Sul politico, cit., pp. 143-144).

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intorno ai diritti umani si svolga in un terreno neutrale dove gli imperativi di moralità e razionalità – così come sono definiti dall’Occidente – rappresentino gli unici criteri legittimi», e bisogna invece riconoscere che si tratta di «un terreno conformato da rapporti di potere, dove ha luogo una lotta per l’egemonia»128. Da questo punto di vista, il discorso di Mouffe non si distanzia in modo rilevante dalla prospettiva schmittiana, e in particolare dall’idea – formulata in più occasioni dal giurista tedesco – secondo cui ogni concetto polemico è sempre l’espressione di una determinata situazione politica e, dunque, il risultato di un conflitto129. Una visione di questo tipo – che è stata ovviamente ripresa e posta a fondamento della storia concettuale – impone di riconoscere la relatività storica di ogni concetto, e dunque di leggere in filigrana, nell’itinerario di ciascun termine-concetto, la realtà dei conflitti politici che oppongono Stati, etnie, gruppi e partiti. Al tempo stesso, l’idea di considerare il significato di un determinato termine come il prodotto di un conflitto politico si intreccia in modo piuttosto coerente con la visione gramsciana del terreno dell’egemonia, un terreno sul quale i diversi soggetti collettivi si trovano impegnati in una contrapposizione «culturale». Il discorso di Mouffe può dunque attingere agevolmente a entrambe queste due visioni per svolgere la propria critica dei diritti umani, o, meglio, per articolare la critica della concezione occidentale dei diritti umani: innanzitutto, perché il loro contenuto concettuale può essere inteso come un risultato politico e non come l’affermazione di valori effettivamente universali; inoltre, perché l’estensione dei diritti umani – nella loro formulazione contemporanea – può essere considerata come il prodotto dell’egemonia occidentale e, dunque, come il risultato di una lotta per l’egemonia sullo scenario globale. Il discorso di Mouffe inizia però a inoltrarsi su un terreno scivoloso proprio quando propone una revisione di questa concezione. Da un secondo punto di vista, infatti, Mouffe sostiene «l’importanza di dare spazio a una pluralità di interpretazioni legittime»130. In questo modo, intende sostenere la necessità di problematizzare «l’idea dell’universalità dei diritti umani così come è generalmente intesa»131, mostrando cioè – in 128

Ivi, p. 146. «Tutti i concetti, le espressioni e i termini politici», osservava per esempio nel Concetto di ‘politico’, «hanno un senso polemico», perché «hanno presente una conflittualità concreta, sono legati ad una situazione concreta, la cui conseguenza estrema è il raggruppamento in amico-nemico (che si manifesta nella guerra e nella rivoluzione), e diventano astrazioni vuote e spente se questa situazione viene meno» (C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 113). 130 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 146. 131 Ivi, p. 144. 129

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linea con le posizioni sostenute da Boaventura de Sousa Santos e Raimundo Pannikar – come i diritti umani siano espressione dell’egemonia occidentale, e come, al tempo stesso, sia possibile pensare i diritti umani a partire dalle diverse specificità culturali. In altre parole – ricalcando la proposta di Sousa Santos – «il fatto stesso di parlare di ‘universalità’ dei diritti umani segnala che si tratta di una questione propria della cultura occidentale, relativa a una cultura specifica, che non può essere presentata come un’invarianza culturale»; ciò nonostante, «il discorso dei diritti umani può essere declinato anche in difesa degli oppressi», perché «esiste un discorso dei diritti umani opposto all’egemonia corrente, costruito attorno alla specificità culturale e a versioni differenti della dignità umana, anziché facendo ricorso a falsi universalismi»132. Anche da questo punto di vista, la critica di Mouffe non può che essere condivisibile, nel senso che è difficile non riconoscere le basi politiche della pretesa univeralistica dei diritti umani. D’altro canto, però, il discorso diventa più complesso quando Mouffe fa discendere dal riconoscimento di questo fondamento «l’importanza di dare spazio a una pluralità di interpretazioni legittime». Infatti, di quale «importanza» si tratta? Di un’importanza puramente intellettuale, e cioè della necessità teorica di mettere in luce le radici occidentali dei diritti umani? O, invece, di un’importanza teorica che ha anche risvolti politici? La risposta di Mouffe sembra andare proprio in quest’ultima direzione, perché tale discussione appare come funzionale alla costruzione di un ordine multipolare. Ma, se questa è la proposta di Mouffe, è quasi scontata la critica che può essere avanzata da una prospettiva che ponga alla base proprio una visione gramsciana della lotta per l’egemonia. I problemi relativi alla critica della visione liberale della politica e dei suoi riflessi sulla politica interna dei sistemi democratici non sono d’altronde troppo lontani da quelli che emergono anche sul versante del sistema internazionale. In altre parole, la prospettiva liberale, nelle sue differenti varianti, può essere criticata e, soprattutto, possono essere messe in luce le implicazioni che la sua rimozione del politico produce sul conflitto politico: ma la critica teorica non può produrre (senza mediazioni complesse, che, come sostiene Mouffe, non sono riducibili al dibattito pubblico e al confronto delle idee) un’alternativa politica, così come nessuna teoria – per quanto suggestiva, completa e radicale – può partorire un’identità collettiva e un 132 Ivi, pp. 144-145. Mouffe si richiama, in particolare, a B. de Sousa Santos, Toward a New Commons Sense: Law, Science and Politics in a Paradigmatic Transition, London, Routledge, 1995, ma anche a R. Pannikar, La notion des droit de l’homme est-elle un concept occidentale?, in «Diogène», 1982, n. 120, pp. 87-115.

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soggetto politico capace di porre in crisi un assetto egemonico. Così, neppure nel contesto internazionale, da nessuna (seppur valida, sensata e condivisibile) critica della prospettiva occidentale, dell’universalismo dei diritti umani, dell’unilateralismo statunitense, può nascere – uscendo come Minerva dalla testa di Giove – la realtà politica di un’identità collettiva capace di indurre una trasformazione dell’ordine internazionale in senso multipolare. E, perciò, senza una sorta di nuovo «principe» – moderno, o postmoderno – non può neppure incominciare una nuova «guerra di posizione»133. In termini piuttosto brutali, pare allora che il discorso di Mouffe, dalle premesse realistiche che assume dal punto di vista teorico, tenda a slittare sullo scivoloso terreno del volontarismo quando inizia a pensare alle alternative all’ordine mondiale esistente, finendo così con l’abbandonare quell’idea della centralità del conflitto (nelle sue diverse forme) che pure costituisce il grimaldello teorico con cui mette in luce le debolezze della tradizione liberale. Forse non si tratta, però, solo di un problema legato alle esigenze prescrittive di Mouffe, o, quantomeno, a un passaggio troppo brusco dal livello della descrizione a quello della prescrizione. Nella sua concezione dell’«agonismo» – ossia nell’idea di un passaggio ‘virtuoso’ dalla contrapposizione fra amico e nemico a quella fra amico e avversario – si nasconde infatti un’ambiguità: un’ambiguità che è piuttosto evidente nella discussione sulla dinamica democratica interna ai singoli sistemi politici nazionali, ma che affiora in modo ancora più chiaro quando Mouffe, considerando la «moralizzazione» della politica, si volge all’assetto internazionale contemporaneo.

133

L’insufficienza di una critica puramente teorica è d’altronde affermata – in modo più o meno implicito – da Mouffe a proposito della globalizzazione, quando mette in luce i problemi che i movimenti contro il neoliberismo, ai suoi occhi, devono affrontare. In questo senso, criticando la nozione di «moltitudine» proposta da Hardt e Negri, scrive: «Una delle sfide principali che quel ‘movimento di movimenti’ ha di fronte è come trasformarsi in movimento politico capace di avanzare proposte alternative. Certo, i primi passi sono già stati fatti con l’organizzazione dei World Social Forum e dei forum regionali» (C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 128). E prosegue, in relazione alla forma organizzativa: «La molteplicità di punti nodali richiede una varietà di strategie, e la lotta non può essere concepita semplicemente a livello locale. I forum regionali e locali come quelli che sono stati organizzati in Europa (Firenze 2002, Parigi 2003, Londra 2004) e in numerose città del mondo sono i luoghi in cui una pluralità di forme di resistenza possono diventare tra loro connesse e dove si può cominciare – prendendo a prestito un termine di Gramsci – la ‘guerra di posizione’» (ivi, p. 131).

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1.5 La moralizzazione della politica Una delle tesi centrali del discorso di Mouffe consiste, come si è visto, nell’idea che la contemporanea «moralizzazione» della politica sia un prodotto dello «spirito postpolitico»: in altri termini, a dispetto di quanto sostengono i teorici postpolitici, oggi «assistiamo in ogni campo non alla sparizione del politico nella sua dimensione di lotta tra avversari, ma a qualcosa di profondamente diverso», e cioè a uno slittamento del conflitto politico su un registro morale, nel quale la demarcazione fra noi e loro viene fondata in termini morali. Ovviamente, Mouffe non può fare a meno di notare come l’attribuzione dell’infamia morale a un determinato avversario esterno rientri a pieno titolo nel meccanismo di formazione delle identità collettive e, dunque, nella logica della contrapposizione noi/loro. Lo slittamento del conflitto sul terreno morale e la riconfigurazione delle linee di conflitto sul confine che separa giusto e ingiusto vengono così interpretate da Mouffe proprio come esiti della ‘rimozione’ del politico e della negazione della realtà ineliminabile del conflitto: quando non sono a disposizione i canali attraverso i quali i conflitti possono prendere una forma «agonistica», quegli stessi conflitti tendono a emergere nella modalità antagonistica. Ora, quando l’opposizione noi/loro, invece di essere formulata come confronto politico tra «avversari», è concepita come un confronto morale tra il bene e il male, la controparte può essere intesa solo come un nemico da distruggere, e questo non favorisce certo un rapporto agonistico. Di qui il continuo emergere di antagonismi che mettono in questione i presupposti stessi dell’ordine esistente134.

Se la crociata moralista delle forze democratiche europee contro il populismo e l’«estrema destra» sembra offrire, come si è visto, una sostanziale conferma del carattere irriducibile della contrapposizione fra amico e nemico, il discorso diventa ancora più chiaro quando Mouffe passa a considerare la retorica utilizzata in politica estera dalla presidenza di George W. Bush, una retorica che pure potrebbe apparire come uno sviluppo lineare ed estremo della logica schmittiana. Nella politica estera dell’amministrazione americana, possono essere in effetti individuate le tracce proprio di una visione della politica in cui l’esercizio della sovranità coincide con la stessa chiara discriminazione fra amico e nemico. L’analogia, ovviamente, è valida solo parzialmente, anche perché, come ha sostenuto per esempio Giorgio Carnevali, la riproposizione di una contrapposizione frontale fra 134

Ivi, p. 6.

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amicus e hostis avviene in un mondo in cui le coordinate spaziali sono ormai profondamente mutate rispetto a quelle in cui Schmitt aveva incardinato la propria proposta teorica135. Secondo Mouffe, invece, un simile accostamento è il frutto di «un profondo malinteso» per un motivo diverso, su cui è importante attirare l’attenzione: nonostante Schmitt avesse insistito con forza sulla differentia specifica del politico, «egli non mancò mai di sottolineare che una tale demarcazione deve essere tracciata in modo rigorosamente politico, non sulla base dell’economia o dell’etica»136. Pertanto, afferma l’intellettuale belga, Schmitt «non avrebbe certamente ammesso l’uso della categoria morale di ‘male’ a cui Bush ricorre per designare i propri nemici, e avrebbe respinto il suo discorso messianico sul compito dell’America di portare la libertà e la democrazia nel mondo»137. Ciò, naturalmente, non ha solo conseguenze teoriche, ma produce un risultato dirompente, ossia l’esplosione della conflittualità nella forma del terrorismo. Recependo alcune annotazioni di Jean-François Kervégan138, Mouffe ritiene dunque che il terrorismo contemporaneo, sorto dopo la conclusione della Guerra Fredda, vada concepito come «il prodotto di una nuova configurazione del politico, caratteristica del tipo di ordine mondiale che si sviluppa come conseguenza dell’egemonia di un unico superpotere»139. In altre parole, è lo stesso assetto unipolare che produce la genesi del terrorismo, nel senso che, in questo contesto, il conflitto – trovando sbarrato ogni legittimo canale di espressione – non può che imboccare la strada di una violenza estrema, fuori da ogni regola. «Non c’è dubbio che il potere oggi incontrastato degli Stati Uniti d’America e la proliferazione dei gruppi terroristici siano strettamente correlati», sostiene dunque Mouffe, e «non si può negare che esso tenda a fiorire in circostanze 135 «L’iper-potenza americana», ha osservato infatti Carnevali, «consapevolmente o meno, si muove sulla falsariga della formula dell’amico-nemico, al punto che la straordinaria semplificazione schmittiana risulta oggi al cuore del suo particolare modo di pensarsi nelle relazioni mondiali» (G. Carnevali, Dopo la caduta. Questioni di teoria politica nell’età del declino americano, Torino, Liviana, 2007, p. 59). Ma, nota Carnevali, ciò avviene quando la dicotomia amiconemico appare avviata verso una sostanziale trasformazione, che Schmitt aveva peraltro chiaramente intravisto: «l’America si scopre schmittiana con imperdonabile ritardo: per essere più precisi quando la formula ideata da Schmitt non serve più a nulla. Non soltanto il modello organizzativo dello jus publicum europaeum, caro al filosofo tedesco, è un ricordo remoto, ma ormai tutte le coordinate spaziali (interno-esterno prima di tutte) che hanno orientato la vita dello Stato moderno sono irrimediabilmente invecchiate» (ivi, p. 67). 136 C. Mouffe, Sul politico, cit., pp. 88-89. 137 Ivi, p. 89. 138 J.F. Kervégan, Ami ou ennemi?, in «Le Nouvel Observateur», 2002, n. 1, pp. 38-41, che riprende peraltro l’esame più ampio svolto in Id., Carl Schmitt et Hegel. Le politique entre métaphysique et positivité, Paris, Puf, 1992. 139 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 92.

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nelle quali non vi sono canali politici legittimi per l’espressione delle proprie rivendicazioni»140. Non è dunque casuale che la fine della contrapposizione fra i due blocchi coincida con un incremento significativo del ricorso all’azione terroristica, perché, come nella stessa arena nazionale, anche in questo caso vengono eliminati i canali di espressione del dissenso; con il risultato che quest’ultimo non può che essere sempre considerato illegittimo, non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello morale: l’assenza di un effettivo pluralismo politico comporta l’impossibilità per gli antagonismi di trovare forme di espressione agonistiche, e cioè legittime. […] Ancora una volta il punto è la negazione della dimensione del politico e la convinzione che lo scopo della politica – a livello nazionale e internazionale – sia di stabilire il consenso intorno a un unico modello, precludendo così la possibilità di un dissenso legittimo. Secondo la mia analisi, la mancanza di canali politici per contrastare l’egemonia del modello neoliberale di globalizzazione è all’origine della proliferazione di discorsi e di pratiche di negazione radicale dell’ordine vigente141.

Nella discussione che Mouffe svolge dello spirito postpolitico, il ruolo occupato dal «nemico assoluto» è ovviamente molto importante. «È innegabile», scrive per esempio l’intellettuale belga, «che la prospettiva postpolitica, impedendo l’instaurarsi di un vivace confronto agonistico nella sfera pubblica, porti a concepire il ‘loro’ come una ‘entità morale’ e cioè come ‘nemici assoluti’, promuovendo in tal modo l’emergere di antagonismi che possono mettere a repentaglio le istituzioni democratiche»142. Il punto su cui Mouffe attira l’attenzione è però rappresentato soprattutto dallo slittamento sul terreno morale della frontiera fra noi e loro: C’è a mio parere un legame diretto tra l’indebolimento della frontiera politica che è caratteristica del modello delle parti avverse e la «moralizzazione» della politica. Usando il termine «moralizzazione» in questo contesto non intendo certo dire che oggi la gente agisca nel campo della politica perseguendo il bene comune, in conformità con motivazioni che sarebbero più disinteressate o imparziali. Quel che voglio indicare è che, invece di essere costruita in termini politici, l’opposizione «noi»/«loro», che è costitutiva della politica, 140

Ivi, p. 93. Ivi, p. 94. Una tesi in fondo analoga è esposta da Žižek, quando osserva che la tesi di Huntington sullo ‘scontro di civiltà’ «potrebbe sembrare l’esatto opposto della radiosa prospettiva, suggerita da Francis Fukuyama, della fine della storia sotto forma di una democrazia liberale globale», mentre, in realtà, «lo ‘scontro delle civiltà’ è la politica alla fine della storia» (S. Žižek, Sulla violenza, cit., pp. 143-144). 142 C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 87. 141

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è costruita secondo le categorie del «bene» contro il «male». Questo cambiamento di vocabolario non rivela, come alcuni potrebbero pensare, che la politica è stata sostituita dalla morale ma che la politica viene espressa nel registro della morale143.

Quella che Mouffe definisce come moralizzazione della politica ovviamente ha una serie di implicazioni evidenti sotto il profilo della retorica politica. Ma la conseguenza principale attiene allo stesso modo in cui viene pensata la contrapposizione fra amico e nemico. Se infatti – seguendo il discorso di Mouffe – all’interno dei regimi democratici la contrapposizione fra amicus e hostis viene convertita in una relazione «agonistica» fra amico e avversario, una simile operazione diventa invece impraticabile quando i termini dell’opposizione noi/loro si spostano sul terreno morale. Su quest’ultimo piano, infatti, gli antagonismi non possono assumere una forma agonistica, nel senso che il nemico non può essere trasformato in un avversario: «quando i contendenti sono definiti in termini non politici ma morali, essi non possono essere visti come ‘avversari’ ma solo come ‘nemici’», perché «con ‘loro che sono il male’ non è possibile alcun dibattito agonistico: devono essere sradicati»144. In altre parole, dato che i nemici rappresentano una «malattia morale», la loro legittimità è esclusa in termini programmatici e non è ammessa neppure l’eventualità di una coesistenza pacifica. Per molti versi, il cuore della critica svolta da Mouffe risiede proprio nell’idea che «invece di essere costruita in termini politici», la contrapposizione noi/loro sia «costruita secondo le categorie del ‘bene’ contro il ‘male’», oltre che nella convinzione che una simile «moralizzazione» della politica conduca a conseguenze deleterie. Probabilmente, è proprio qui che si annidano anche alcune delle ambiguità del suo discorso. È infatti in corrispondenza di questo passaggio teorico che la studiosa belga sembra tradire le premesse del proprio ragionamento e ricadere all’interno di quella distorsione moralistica del ‘politico’ che imputa al pensiero liberale. La moralizzazione della politica costituisce, in effetti, la conseguenza deleteria di quella visione liberale che, rimuovendo le fondamenta conflittuali del ‘politico’, non può che sostituire un criterio ‘morale’ allo specifico criterio della contrapposizione politica fra amico e nemico. Alla luce di una simile operazione, secondo Mouffe, i ‘nemici’ vengono esclusi in base a criteri morali e, invece di apparire come avversari cui contrapporsi, risultano

143 144

Ivi, pp. 85-86. Ivi, p. 87.

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«forze del male» da estirpare145. Proprio in questo senso, nella discussione di Mouffe acquista un posto particolarmente importante l’uso cui – all’interno della tendenza alla moralizzazione della politica – viene piegato il concetto di «umanità». L’appello all’interesse comune dell’«umanità» e soprattutto la giustificazione di interventi militari in suo nome sono dunque letti come segnali non solo della pretesa universalistica occidentale, ma anche della deleteria rimozione del ‘politico’: poiché il conflitto viene rimosso dalla dialettica democratica, la sua inevitabile irruzione sulla scena viene considerata come l’esplosione di una malattia, di una reversione atavistica e, comunque, di una patologia da estirpare. Senza dubbio, la lettura di Mouffe è in gran parte corretta e attinge fedelmente alle posizioni espresse da Schmitt nel corso della sua lunga carriera scientifica. Per questo, Mouffe può a buon diritto attribuire a Schmitt la feroce critica della «pretesa di un’inclusività totale del liberalismo» e alla sua «pretesa di parlare a nome dell’umanità’»146. Ma è proprio attorno al concetto di «umanità» che emergono una serie di problemi, che attengono tanto alla definizione del «nemico», quanto alla cruciale distinzione fra amicus e hostis in cui Schmitt individuava il criterio specifico del ‘politico’. In effetti, Schmitt non risparmiò mai le proprie critiche alla pretesa universalista del liberalismo occidentale e, soprattutto, all’utilizzo della nozione di «umanità», in cui individuava uno strumento di legittimazione del dominio delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale. Proprio in questo senso, già nella prima versione del Begriff des Politischen, osservava che l’unificazione politica dell’intera umanità non poteva che essere una sorta di controsenso, nella misura in cui l’esistenza di un’«unità politica» implicava il pluralismo degli Stati. «L’unità politica presuppone la reale possibilità del nemico e quindi un’altra unità politica coesistente», scriveva per esempio Schmitt, e, pertanto, «l’unità politica per sua essenza non può

145 Se una simile tendenza contrassegna da decenni (ma forse sin dalle origini) la politica statunitense, la novità – agli occhi dell’intellettuale belga - è che oggi essa diventa dominante anche sulla scena europea. «I politici statunitensi», scrive per esempio, «hanno sempre fatto volentieri ricorso a un vocabolario morale per denunciare i loro nemici politici. La crociata di George W. Bush contro l’‘asse del male’ ha infatti numerosi antecedenti. Basti ricordare Ronald Reagan e il suo ‘impero del male’. Ma la novità, come rivelano le reazioni al populismo di destra, è che ora la moralizzazione della politica prende piede anche nella politica estera europea. E in questo caso si tratta chiaramente di una conseguenza del modello di consenso che nega la contrapposizione fra parti avverse, sostenuto da tutti i teorici che, probabilmente con le migliori intenzioni, hanno contribuito all’instaurazione della prospettiva postpolitica» (ibid.). 146 Ivi, p. 90.

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essere universale»147. Il fatto che alcune guerre fossero condotte in nome dell’«umanità» aveva dunque un ben differente significato, che il giurista tedesco poteva scorgere nella pretesa universalità della Società delle Nazioni, ma le cui implicazioni andavano in una direzione opposta a quella di una effettiva pacificazione del mondo. Come scriveva in effetti in un passaggio cruciale del saggio: L’umanità in quanto tale non può condurre nessuna guerra, giacché essa non ha nessun nemico, almeno non in questo pianeta. Il concetto di umanità esclude il concetto di nemico, perché anche il nemico non cessa di essere uomo e perciò cade la specifica distinzione. Che delle guerre vengano fatte in nome dell’umanità, non è una confutazione di questa semplice verità, ma ha soltanto un significato politico particolarmente intenso. Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome dell’umanità, questa non è una guerra dell’umanità, ma una guerra che uno Stato determinato conduce contro un altro. Il nome di umanità […] potrebbe avere soltanto lo spaventevole significato che al nemico non è riconosciuta la qualità di uomo ed in tal modo la guerra diventa particolarmente disumana. Ma prescindendo da questo abuso eminentemente politico del nome non-politico di «umanità» non c’è nessuna guerra dell’umanità in quanto tale148.

Naturalmente, il taglio delle osservazioni di Schmitt mutò in parte nel corso del tempo, anche perché nella fase compresa fra le due guerre mondiali, gli obiettivi principali delle sue critiche erano la Società delle Nazioni e l’assetto politico scaturito da Versailles149, mentre in seguito, dopo il ’45, 147

C. Schmitt, Il concetto del politico (1927), in Id., Posizioni e concetti, cit., pp. 105-117, specie p. 114 (la citazione è qui tratta dalla prima versione del testo: Der Begriff des Politischen, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», LVIII (1927), n. 1, pp. 1-33). In questo senso, Schmitt annotava: «Se i diversi popoli e gruppi umani della terra fossero così uniti da rendere realmente impossibile la lotta fra di essi, se cioè cessasse anche per mera eventualità la distinzione di amico e nemico, allora ci sarebbe solo economica, morale, diritto, arte, ecc., ma più nessuna politica e nessuno Stato. Se e quando questa condizione della terra e dell’umanità subentrerà, io non lo so. Al momento non c’è. Sarebbe una finzione disonesta ammetterla come esistente ed una confusione palpabile credere che, poiché ogni guerra fra grandi potenze diventa facilmente una ‘guerra mondiale’, la fine di questa guerra dovrebbe significare la ‘pace mondiale’ e quindi quella condizione idilliaca finale dell’assenza di Stati» (ibid.). 148 Ivi, pp. 114-115. 149 Cfr. sul punto, per esempio, C. Schmitt, Il doppio volto della Società ginevrina delle Nazioni (1926), in Id., Posizioni e concetti, cit., pp. 65-68; Id., La Società delle Nazioni e l’Europa (1928), ivi, pp. 141-156; Id., La settima trasformazione della Società ginevrina delle Nazioni (1936), ivi, pp. 345-352; Id., Grande spazio contro universalismo, ivi, pp. 490-503; Id., Il concetto discriminatorio di guerra, Roma-Bari, Laterza, 2008 (ed. or. Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff, Berlin, Duncker & Humblot, 1938).

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la sua analisi – fissata nelle classiche pagine del Nomos della terra – non poteva che indirizzarsi verso il ruolo detenuto dagli Stati Uniti nella politica mondiale150. Ciò nonostante, e a dispetto anche della ridefinizione dei suoi presupposti teorici (avviata alla fine degli anni Trenta e sancita dalla pubblicazione di Land und Meer), la critica delle pretese umanitarie del liberalismo riflette un motivo costante nell’intera riflessione schmittiana. Nelle versioni successive del Begriff des Politischen, Schmitt conservò sostanzialmente invariato il proprio attacco contro l’utilizzo della nozione di «umanità», in cui individuava, per esempio, «uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche» e, «nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico»151. Ma anche molti anni dopo, e soprattutto dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, avrebbe sostanzialmente ribadito la propria tesi. Nella Premessa all’antologia italiana Le categorie del ‘politico’, negli anni Settanta, osservava per esempio che l’umanità appariva ancora molto lontana dall’«unità politica»152, mentre, alla fine di quel decennio, nel famoso saggio su La rivoluzione legale mondiale, ribadiva – in termini fedeli a quelli degli anni Venti – la propria posizione sull’utilizzo politico della nozione di «umanità», oltre che sull’impossibilità di una reale unificazione politica dell’intero genere umano: 150

C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicaum europaeum», Milano, Adelphi, 1991, pp. 27-28 (ed. or. Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin, Duncker & Humblot, 1950), ma anche Id., L’unità del mondo, in Id., L’unità del mondo e altri saggi, Roma, Pellicani, 1994, pp. 303-319 (ed. or. La Unidad del Mundo, Madrid, Ateneo, 1951). 151 C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit. p. 139 (cito qui dall’edizione del 1932). Continuava inoltre, precisando quanto aveva già illustrato nel 1927: «Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto – visto che non si possono impiegare termini del genere senza conseguenze di un certo tipo – la terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev’essere dichiarato hors-la-loi e hors-l’humanité e quindi che la guerra dev’essere portata fino all’estrema inumanità» (ibid.). Secondo Mouffe, questa posizione spiegava per quale motivo, agli occhi di Schmitt, «le guerre condotte in nome dell’umanità fossero particolarmente inumane visto che, una volta che il nemico era stato presentato come un bandito dell’umanità, tutti i mezzi erano giustificati. Il fatto di tracciare il confine tra amico e nemico come se fosse una frontiera tra il ‘mondo civile’ e i suoi ‘malvagi nemici’ sarebbe stato da lui considerato come qualcosa di tipico dell’universalismo liberale che, in nome dei diritti umani, si arroga il diritto e il compito di imporre il suo ordine al resto del mondo» (C. Mouffe, Sul politico, cit., pp. 89-90). 152 «A me sembra», scriveva, «che il mondo di oggi e l’umanità moderna siano assai lontani dall’unità politica. La polizia non è qualcosa di apolitico. La politica mondiale è una politica molto intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo; essa è soltanto un tipo particolare di politica e non certo la più attraente: è cioè la politica della guerra civile mondiale (Weltbürgerkriegspolitik)» (C. Schmitt, Premessa all’edizione italiana, in Id., Le categorie del ‘politico’, cit., p. 25)

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L’umanità come totalità e in quanto tale non ha nemici su questo pianeta. Ogni uomo appartiene all’umanità. Anche il criminale, perlomeno finché è in vita, deve essere trattato come uomo. Se è morto come la sua vittima, allora non c’è più, come le sue vittime. Fino a quel momento egli rimane però, non importa se buono o cattivo, un uomo, vale a dire un detentore di diritti umani. «Umanità» diventa in questo modo un concetto antitetico e asimmetrico. Se si discrimina all’interno dell’umanità e si toglie al negativo, al vandalo, al disturbatore la qualità di uomo, allora l’uomo valutato negativamente diventa un mostro, una non-persona e la sua vita non è più il valore supremo. La sua vita diventa un non-valore che deve essere annientato. Concetti come uomo contengono dunque la possibilità della più profonda ineguaglianza e diventano con ciò «asimmetrici»153.

Per quanto il richiamo di Mouffe alla critica schmittiana della nozione di «umanità» e al suo utilizzo da parte di alcuni Stati appaia dunque coerente, c’è però un elemento estremamente importante che la studiosa belga manca di sottolineare. In effetti, nel momento in cui, già nel 1927, affermava che «non c’è nessuna guerra dell’umanità in quanto tale», non era affatto casuale che Schmitt si riferisse a un «abuso eminentemente politico del nome non-politico di ‘umanità’». Il fatto che definisse il ricorso all’umanità, per legittimare una guerra, come un «abuso eminentemente politico» di una nozione, di per sé, «non politica», aveva infatti implicazioni molto importanti, dal punto di vista teorico, in ordine alla distinzione fra politica e morale: ma sono proprio queste implicazioni che Mouffe sembra trascurare o addirittura dimenticare. Quando esamina l’accostamento fra la visione schmittiana della politica e la rappresentazione della politica mondiale offerta dai «neoconservatori» americani, Mouffe individua, in effetti, un elemento di evidente distanza: anche se insisteva sull’importanza della distinzione politica fra amico e nemico, Schmitt – secondo quanto sostiene Mouffe – «non mancò mai di sottolineare che una tale demarcazione deve essere tracciata in modo rigorosamente politico, non sulla base dell’economia o dell’etica», e, proprio per questo, 153

Cfr. C. Schmitt, La rivoluzione legale mondiale. Plusvalore politico come premio sulla legalità e sulla superlegalità giuridica, in Id., Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, a cura di G. Agamben, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 187-215, specie p. 214 (ed. or. Die legale Weltrevolution. Politischer Mehrwert als Prämie auf juristischen Legalitäten und Superlegalität, in «Der Staat», 1978, n. 3, pp. 321-339). In questo caso, Schmitt rimandava anche all’importante analisi svolta da R. Koselleck, Per una semantica storico-politica di alcuni concetti antitetici asimmetrici, in Id., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, Marietti, 1989; ed. or. Zur historische-politischen Semantik asymmetrischer Gegenbegriffe, in H. Weinrich (hrsg.), Positionen der Negativität, München, Wilhelm Fink, 1975, pp. 65-104, poi in R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1979).

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«non avrebbe certamente ammesso l’uso della categoria morale di ‘male’ a cui Bush ricorre per designare i propri nemici», così come «avrebbe respinto il suo discorso messianico sul compito dell’America di portare la libertà e la democrazia nel mondo»154. Anche in questo caso, il discorso di Mouffe ha certo un parziale fondamento, perché è molto probabile che Schmitt avrebbe condannato il contemporaneo «discorso messianico sul compito dell’America», così come aveva condannato la pretesa universalista della Società delle Nazioni e, in seguito, degli Stati Uniti. Così, alcune espressioni del Concetto del ‘politico’ sembrano andare effettivamente in questa direzione, per esempio quando, esaminando la connessione fra la guerra e gli interessi dell’«umanità» e a proposito dell’eventualità della «guerra contro la guerra» – ossia della guerra dei pacifisti contro i sostenitori della guerra – osservava: Se la volontà di impedire la guerra è tanto forte da non temere più neppure la guerra stessa, allora essa è diventata un motivo politico, essa cioè conferma la guerra, anche se solo come eventualità estrema, e quindi il senso della guerra. […] La guerra si svolge allora nella forma di «ultima guerra dell’umanità». Tali guerre sono necessariamente particolarmente intensive e disumane poiché, superando il ‘politico’, squalificano il nemico anche sotto il profilo morale come sotto tutti gli altri profili e lo trasformano in un mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma dev’essere definitivamente distrutto, cioè non deve essere più soltanto un nemico da ricacciare nei suoi confini155.

Il fatto che queste guerre «superassero il ‘politico’» non significava però, probabilmente, che i loro criteri fossero «morali» e – in quanto tali – non «politici»: più semplicemente, significava che queste guerre puntavano a superare ciò che costituisce il presupposto del ‘politico’ – la pluralità dei gruppi politici presenti sulla Terra – combattendo per l’unificazione del mondo. Ma, proprio perché un simile obiettivo era ai suoi occhi sostanzialmente impraticabile, Schmitt concludeva riconoscendo in questo nuovo tipo di guerra una conferma della propria ipotesi sul fondamento del ‘politico’. «Dalla possibilità di tali guerre», scriveva infatti, «appare in tutta chiarezza che la guerra come possibilità reale sussiste ancor oggi, il che è importante per la distinzione di amico e nemico e per la comprensione del ‘politico’»156. A ben vedere, infatti, nel corso di tutta la sua riflessione Schmitt non esclude – come sembra sostenere Mouffe – che il nemico possa assumere una connotazione «morale». «Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo», scrive infatti Schmitt in un passaggio cruciale del 154 155 156

C. Mouffe, Sul politico, cit., pp. 88-89. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 120. Ibid.

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Begriff des Politischen, «si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare gli uomini in amici e nemici»157. Il punto cruciale del suo ragionamento è d’altronde che non sono le cause di un conflitto (e di una contrapposizione fra amico e nemico) a essere politiche, ma è il fatto concreto di produrre una contrapposizione fra due gruppi umani a rendere ‘politica’ quella stessa linea di distinzione. «Il ‘politico’», nelle stesse parole del giurista, «può trarre la sua forza dai più diversi settori della vita umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di altro tipo», perché esso «non indica un settore concreto particolare ma solo il grado di intensità di un’associazione o di una dissociazione di uomini, i motivi della quale possono essere di natura religiosa, nazionale (in senso etnico o culturale), economica o di altro tipo e possono causare, in tempi diversi, differenti unioni e separazioni»158. Nella riflessione di Schmitt, questo aspetto non viene mai meno, anche se, a partire dalla metà degli anni Trenta, inizia a riflettere sulle modificazioni che, sulla definizione del nemico, producono le trasformazioni della guerra e del diritto internazionale. Schmitt infatti non esclude affatto l’idea del «nemico assoluto», ma la considera piuttosto come un’implicazione della guerra combattuta per gli interessi dell’umanità e contro i suoi nemici. Ed è proprio a questo proposito che il giurista affronta in modo compiuto la figura del «nemico assoluto» e la nozione di hostis generis humani»159. Una 157

Ibid. Ivi, p. 121. A questo proposito, appaiono così piuttosto fuorvianti osservazioni come quelle formulate, per esempio, da Sartori, il quale osserva: «perché mai il tasso di intensità che ci aggruppa in amici-nemici può e deve soltanto essere politico? Come è che Schmitt fa sparire l’intensità religiosa, l’intensità razziale, l’intensità morale, l’intensità economica? Insomma, perché mai ‘intensità’ è prerogativa esclusiva del politico?» (G. Sartori, Politica, cit., p. 279). La logica del ragionamento schmittiano emerge infatti nitidamente, e non esclude affatto che possano esservi contrapposizioni politiche che traggono la loro forza da identità religiose o da conflitti economici fra classi sociali: «Una comunità religiosa che, come tale, porta guerra, sia contro gli appartenenti ad altre comunità religiose, sia in altro modo, è, oltre ad una comunità religiosa, una unità politica. Essa è un’entità politica anche se ha una possibilità di incidenza su quel processo decisivo solo in senso negativo, se cioè è nella condizione di impedire, con un divieto, la guerra ai suoi membri, cioè di negare in modo decisivo la qualità di nemico di un avversario. Lo stesso vale per un’associazione di uomini a fondamento economico, ad esempio per un trust industriale o un sindacato. Anche una ‘classe’ in senso marxista cessa di essere qualcosa di puramente economico e diventa un’entità politica se giunge a questo punto decisivo» (C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., pp. 120-121). 159 Sartori scrive che Schmitt «respinge il ‘nemico assoluto’, il nemico da annientare e sterminare, ‘in quanto inumano’», osservando inoltre: «se la intensità è qualificante (per qualificarsi come intensità politica) deve contemplare come sua ultima ratio, la guerra, allora come si fa a negare il ‘nemico assoluto’? Il nemico assoluto – coloro che vengono realmente ammazzati e che vengono, per soprammercato, anche odiati – dovrebbe rappresentare, per Schmitt, la incarnazione ultima, la raffigurazione al limite, del ‘puramente politico’. Non è 158

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simile nozione, in passato applicata alla pirateria, dopo la prima guerra mondiale iniziò a essere oggetto di una trasformazione radicale, relativa alla realtà della guerra sottomarina, con il risultato che il crimine contro l’umanità poteva essere imputato a soggetti statali. La trasformazione della nozione di hostis generis humani si trovava, per un verso, «in relazione con gli sforzi di sostituire la guerra con procedure collettive di vario genere (polizia internazionale, punizione dei violatori del diritto, proscrizioni e sanzioni) e di creare soggetti capaci di agire che operino ‘in nome dell’umanità’», mentre, per un altro, in rapporto con il fatto che, «laddove si deve evitare lo scontro diretto di Stati totali in una guerra totale, appaiono passaggi e concetti intermedi fra guerra aperta e pace effettiva»160. In altre parole, la ridefinizione del «nemico del genere umano», secondo Schmitt, si inscriveva logicamente all’interno di quella trasformazione del diritto internazionale innescata dall’assetto postbellico, dal progetto della Società delle Nazioni, ma, soprattutto, dall’ascesa degli Stati Uniti come potenza mondiale. Ed era d’altronde a partire da questo insieme di processi che – ancora nel pieno del conflitto mondiale – Schmitt illustrava la logica del Cambiamento di struttura del diritto internazionale determinato dal passaggio degli Usa dall’isolazionismo al paninterventismo: Quando l’autoisolamento dal resto del mondo si converte in discriminazione nei confronti di questo mondo, la guerra diventa azione punitiva ed espiatoria che discrimina l’avversario come criminale. Non è questa la «guerra giusta» cui pensavano i teologi medioevali, di cui parlarono Vitoria e poi, sul suo influsso, Grozio e gli internazionalisti dei secoli XVII e XVIII. È qualcosa di totalmente nuovo, perché abbraccia tutto il mondo ed ha un carattere globale: la pretesa di eliminare l’avversario politico in quanto criminale contro il mondo e ultimo ostacolo alla pace mondiale. […] Il Governo di Washington, mentre pretende non solo di difendersi da un avversario politico, ma anche di squalificarlo e diffamarlo dal punto di vista giuridico-internazionale, pretende anche, simultaneamente, di condurre l’umanità ad un nuovo tipo di guerra nel diritto internazionale. Per la prima volta nella storia, la guerra è guerra mondiale globale161. così. Dal rifiuto del nemico assoluto Schmitt esce bene moralmente; ma ne esce male logicamente» (G. Sartori, Politica, cit. pp. 278-280). Che tale figura, lungi dall’essere esclusa, sia collocata al centro dell’attenzione di Schmitt fin dagli anni Trenta è dimostrato, per esempio, da alcuni scritti, brevi ma piuttosto importanti, come C. Schmitt, Nemico totale, guerra totale, Stato totale (1937), in Id., Posizioni e concetti, cit., pp. 389-397; Id., Il concetto di pirateria (1937), ivi, pp. 399-417; Id., Sul rapporto dei concetti di guerra e di nemico (1938), ivi, pp. 405-417, oltre che Id., Il concetto discriminatorio di guerra, cit. 160 C. Schmitt, Il concetto di pirateria, cit., pp. 403-404. 161 C. Schmitt, Cambio di struttura del diritto internazionale, in Id., L’unità del mondo, cit., pp.

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Non possono esserci molti dubbi sul fatto che, quando seguiva le tappe di affermazione della potenza statunitense o la definizione del nuovo quadro postbellico, Schmitt guardasse con nostalgia al vecchio jus publicum europaeum. E, proprio per effetto di questa peculiare prospettiva, è altrettanto probabile che tendesse a sopravvalutare l’effettiva portata della limitazione della violenza garantita dal diritto internazionale postvestfaliano162. Ma, d’altra parte, anche quando si scagliava contro la Società delle Nazioni o contro la dottrina della guerra discriminatoria, il giurista tedesco non giungeva mai a negare il carattere ‘politico’ di questi processi: la stessa ripresa della dottrina della ‘guerra giusta’, traslata nell’apparato ideologico del diritto umanitario, e la conseguente ricomparsa – sotto mutate spoglie – del «nemico del genere umano» costituivano invece l’ennesima conferma del carattere ineliminabile del fenomeno ‘politico’, nonostante in questo caso il nemico fosse qualificato in termini ‘morali’, come una sorta di mostro da bandire dall’umanità. In altre parole, per quanto Schmitt condannasse a più riprese il ritorno della dottrina della guerra giusta e il ricorso all’idea di umanità come strumenti di legittimazione della guerra, ne riconosceva chiaramente il carattere ‘politico’. Per molti versi, non poteva essere altrimenti, anche perché Der Nomos der Erde può essere considerato come un’accurata – seppur nostalgicamente orientata – ricerca sulla trasformazione del nemico assoluto delle guerre di religione in un «avversario», da combattere secondo precise regole e in un ben determinato «teatro» bellico. E, inoltre, il teorico tedesco non poteva certo imputare il ritorno della dottrina della guerra giusta a una ‘deriva’ intellettuale: secondo Schmitt, infatti, il liberalismo non era in grado di comprendere il ‘politico’, e per questo finiva col rivestire la realtà dei rapporti politici sotto una coltre impolitica e umanitaria o, semmai, con l’ingenerare il caos all’interno di una sintesi politica; ciò nondimeno, la dottrina liberale, ai suoi occhi, non appariva mai come la causa e il presupposto effettivo di un determinato assetto politico. Da questo punto di vista, allora, Mouffe sembra distanziarsi da Schmitt sotto almeno due profili. In primo luogo, come si è visto, Mouffe – a differenza dell’autore del Nomos der Erde – considera ‘morale’ e ‘politica’ come due poli di fatto indipendenti: ma la legittima critica della moralizzazione 271-297, specie pp. 288-289 (ed. or. Cambio de estructura del derecho international, Madrid, Istituto de Estudios Politicos, 1943). 162 «Si può infatti dubitare», ha osservato per esempio Danilo Zolo «che lo jus publicum dei popoli europei avesse realmente introdotto – come Schmitt non si stanca di ripetere – rilevanti elementi di attenuazione della violenza bellica nel corso dei due secoli della sua effettiva vigenza, il Settecento e l’Ottocento» (D. Zolo, La profezia della guerra globale, in C. Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra, cit., pp. V-XXXII, specie p. XXV).

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della politica, nel discorso di Schmitt, non nega il carattere ‘politico’ di tale moralizzazione, perché quest’ultima rappresenta invece una delle possibili configurazioni del ‘politico’, che «può trarre la propria forza» dai più diversi ambiti della vita umana, e dunque anche dall’etica. D’altronde, nel suo celebre saggio Schmitt non può escludere che il conflitto politico possa fondarsi anche su una distinzione morale: se lo facesse, ricadrebbe nella visione liberale, che assume l’etica come vincolo naturale della dinamica politica. Il giurista tedesco compie invece un’operazione diversa, perché considerando l’autonomia della sfera politica, ritiene che quest’ultima sia di fatto superiore a tutte le altre, ma che possa trarre le proprie motivazioni anche dall’etica. Da questo punto di vista, Mouffe non segue Schmitt: considera il conflitto morale come ‘non politico’, ma, in questo modo, sottrae l’etica dal campo politico e finisce col riprodurre uno schema in fondo speculare a quello della visione liberale: se per quest’ultima l’etica è un terreno dal quale la politica è espunta in modo programmatico, anche per Mouffe la politica sembra un terreno dal quale viene esclusa l’etica, a cui, così, pare venga assegnato un carattere di autonomia e, in sostanza, di supremazia rispetto alla contrapposizione politica. In secondo luogo, nella propria critica dello «spirito postpolitico» Mouffe sembra imputare di fatto la ‘moralizzazione’ alla supremazia teorica del liberalismo – e cioè a una prospettiva intellettuale, a un modo di vedere le relazioni fra gli uomini e fra gli Stati – mentre trascura del tutto le determinazioni materiali in cui la ‘moralizzazione’ prende corpo. Questo limite emerge nella critica dello «spirito postpolitico», ma affiora piuttosto nitidamente anche nella definizione di «agonismo» proposta dall’autrice belga. Quando Mouffe definisce l’«agonismo», richiama l’idea di uno «spazio simbolico» comune tra i diversi avversari che operano in un contesto democratico, ma, in realtà, non chiarisce quali siano le condizioni che creano – o contribuiscono a creare – questo «spazio simbolico». Senza dubbio, come si è visto, Mouffe esplicita in modo molto chiaro come ogni assetto si fondi sulla presenza di una forza egemone, che plasma la società e dà forma alle relazioni sociali. Ma, nel suo discorso, la creazione di uno «spazio simbolico» sembra essere l’effetto dell’incontro di soggetti collettivi che – come nell’immagine canettiana – decidono di abbandonare il campo di battaglia per decidere la contesa con lo strumento del voto163. In questo caso, 163 Si tratta, in effetti, di un aspetto che non emerge chiaramente dalla definizione di Mouffe, che, quando illustra la propria idea del confronto tra avversari, definisce questi ultimi come «persone che sono amici perché condividono un spazio simbolico comune ma anche nemici perché vogliono organizzare questo spazio simbolico comune in un modo differente»

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la presa di distanza da Schmitt è dichiarata esplicitamente, perché Mouffe non intende seguire il giurista sul sentiero del suo radicale antipluralismo. Ma l’assenza di una fondazione ‘materiale’, per la costruzione di questo «spazio simbolico», conferisce una strutturale fragilità alla sua architettura teorica. In questa fragilità si palesa, molto probabilmente, un tardo lascito della critica del marxismo ortodosso svolta da Mouffe negli anni Ottanta e della sua opzione teorica postmarxista: un’opzione che allora rigettava ogni relazione deterministica fra ‘base’ e ‘sovrastruttura’ e fra sviluppo delle forze produttive e forme della coscienza, e che oggi produce anche conseguenze cruciali per la definizione del conflitto politico. A ben vedere, infatti, nella concezione gramsciana la lotta per l’egemonia – sul terreno culturale – non ha sempre dirette (e immediate) implicazioni politiche, ma costituisce comunque il presupposto di un mutamento politico164. È chiaro, pertanto, che la critica di un determinato assetto egemonico – ovviamente complesso e articolato nella propria configurazione – ha un significato politico forte, perché inizia a disgregare le basi del dominio politico ed economico di un «blocco storico». La critica dell’egemonia e dell’ideologia del blocco dominante non trae la propria forza dal ragionamento razionale, ma da una base politica, ossia dal fatto che viene (C. Mouffe, The democratic paradox, cit., p. 13). Mentre, in questa definizione, è chiaro quale sia l’elemento che attenua il conflitto, trasformando il nemico in avversario, non è invece chiaro se esista (e quale sia) un ‘esterno costitutivo’, ossia un fuori che determina l’attenuazione del dissidio interno allo spazio simbolico comune. 164 Cfr., ovviamente, A. Gramsci, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno, Roma, Editori Riuniti, 1977, e A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Roma, Editori Riuniti, 1977, oltre che, come introduzione a un dibattito sterminato, N. Bobbio, Gramsci e la concezione della società civile, in P. Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea, Roma, Editori Riuniti-Istituto Gramsci, 1969, I, pp. 75-100, poi in Id., Gramsci e la concezione della società civile, Milano, Feltrinelli, 1976; B. De Giovanni, Egemonia, Stato, Partito in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1977; C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato. Per una teoria materialistica della filosofia, Roma, Editori Riuniti, 1976; M.L. Salvadori, Gramsci e il problema storico della democrazia, Torino, Einaudi, 1970; N. Auciello, Socialismo ed egemonia in Gramsci e Togliatti, Bari, De Donato, 1974; H. Portelli, Gramsci e il blocco storico, Bari, Laterza, 1976; L. Paggi, Gramsci e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, 1970; G. Bonomi, Partito e rivoluzione in Gramsci, Milano, Feltrinelli, 1973; L. Razeto Migliaro, Sociologia e marxismo nella critica di Gramsci. Dalla critica delle sociologie alla scienza della storia e della politica, Bari, De Donato, 1978. Ma non possono essere dimenticati alcuni interessanti tentativi di utilizzare la teoria di Gramsci in un’ottica esplicitamente internazionalista: cfr., per esempio, R.W. Cox, Social Forces, States and Wolrd Orders: Beyond International Organization in 1980s, in «Millennium», X (1981), 1, pp. 127-155; Id., Gramsci, Hegemony and International Relations: An Essay in Method, in «Millennium», XII (1983), 2, pp. 162-175; Id., Productions, Power and World Order. Social Forces in the Making of History, New York, Columbia University Press, 1987, ma anche S. Gill (ed.), Gramsci, Historical Materialism and International Relations, Cambridge, Cambridge University Press, 1993.

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sostenuta e portata avanti da un soggetto collettivo, più o meno coerente al proprio interno. La nascita, il consolidamento e l’affermazione di un simile soggetto collettivo non sono affatto processi semplici, e d’altronde gli scritti di Laclau e Mouffe degli anni Ottanta – in gran parte centrati sulla presa d’atto dell’esaurimento della centralità politica della classe operaia e della stessa frattura di classe – partivano proprio dal riconoscimento di tali difficoltà. Ma la soluzione che adottavano finiva per incanalare il discorso su un terreno piuttosto insidioso. In Hegemony and Socialist Strategy, Laclau e Mouffe, passando in rassegna la riflessione del dibattito marxista a cavallo tra Otto e Novecento, giungevano infatti a una serie di conclusioni che portavano a rifiutare non solo l’impostazione determinista canonizzata nella stagione della Seconda Internazionale, ma anche la stessa visione di una prevalenza del ‘sociale’ – e dunque del conflitto sociale ed economico – sul livello ‘politico’. In altri termini, dato che riconoscevano l’assenza di leggi economiche ‘oggettive’, l’assenza di un principio unificante dei conflitti ‘sociali’ e l’assenza di un legame necessario fra la collocazione di classe e la configurazione storica degli interessi dei differenti gruppi, non potevano che ammettere la necessità di una mediazione capace di svolgere quella funzione di «sutura» che la materialità delle relazioni di classe non poteva garantire165. Giunti a questo snodo, imboccavano però una strada differente da quella seguita da gran parte della tradizione marxista. Quest’ultima – o quantomeno il cosiddetto «marxismo ortodosso» – assegnava infatti un ruolo cruciale agli intellettuali, i quali, grazie allo strumento teorico offerto dalla concezione materialistica della storia, risultavano incaricati di indicare al movimento dei lavoratori il sentiero in grado di farlo avanzare sulla via del socialismo. Al contrario, Laclau e Mouffe non potevano adottare la soluzione di una mediazione puramente intellettuale e teorica, per il semplice motivo che non condividevano l’idea che il metodo marxista costituisse uno strumento privilegiato, in grado di decifrare effettivamente l’oggettività delle leggi di movimento della società. Nella loro proposta, ogni visione della realtà doveva essere sempre intesa come una visione ‘soggettiva’, ossia come il prodotto di condizioni prima di tutto ‘politiche’, colte in maniera efficace dalla nozione gramsciana di «egemonia». In questo senso, allora, la sequenza logica condivisa da gran parte della tradizione marxista risultava rovesciata, perché non era la realtà oggettiva del conflitto di classe a produrre la coscienza di 165 Cfr. in particolare E. Laclau – C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, cit., pp. 85-89. Il dibattito su questo testo è naturalmente piuttosto affollato, ma, per una lettura che pone in luce i meriti dell’operazione di Laclau e Mouffe, si veda per esempio A. Hunter, Post-Marxism and the new social movements, in «Theory and Society», XVII (1988), pp. 885-900.

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un soggetto collettivo, ma era piuttosto la volontà (insieme alla forza) di un soggetto collettivo a produrre una determinata visione della realtà sociale (oltre che la divisione fra ‘sociale’ e ‘politico’) e a imporla nella società mediante una lotta per l’«egemonia»166. In questo modo, certo Laclau e Mouffe coglievano una serie di aporie cruciali, proprie anche della teoria marxista del Novecento. La soluzione che proponevano finiva però con l’espellere quasi del tutto ogni riferimento alla base materiale dei rapporti sociali di produzione. Conducendo fino al limite estremo l’idea gramsciana della «rivoluzione contro Il Capitale», giungevano così a dar forma a una teoria in cui i soggetti politici apparivano come l’espressione di volontà collettive di tipo soreliano, e cioè di grandi soggetti la cui identità politica risultava del tutto priva di connessioni significative con l’«officina» dei rapporti di produzione. Perciò, la scoperta della politica – come regno di identità collettive, autonome dalla «base» dell’economia e della società – avveniva nel segno di una sorta di «volontarismo assoluto», in cui si perdeva ogni riferimento alla realtà ‘materiale’ (non mediata ideologicamente) dei rapporti di forza167. Il punto più rilevante è però che questo rifiuto – originariamente centrato sulla teoria marxista – produce conseguenze teoriche anche oggi, innescando la rimozione di uno dei presupposti cruciali del discorso di Schmitt, ossia la rimozione di quella versione peculiare (e fortemente politica) del materialismo storico che risiede nella concezione spaziale di Schmitt. Proprio questa rimozione spinge oggi Mouffe sullo scivoloso terreno teorico del volontarismo. E, soprattutto, impedisce all’intellettuale belga di procedere effettivamente «oltre» Schmitt.

1.6 Quale spazio? Nel momento in cui Mouffe si propone di procedere «con Schmitt», ma «oltre Schmitt», intendendo la democrazia come uno spazio in cui si confrontano avversari, sempre sul punto di diventare nuovamente nemici, lambisce uno dei problemi cruciali – benché per molti versi impliciti – della riflessione 166

In questo senso, dunque, non esisteva alcuna «oggettività», non solo perché il marxismo non era considerato come una scienza in grado di squarciare il velo di ogni rappresentazione ideologica, ma perché ogni visione della realtà non poteva che essere, in qualche misura, una rappresentazione ‘ideologica’, effetto dell’egemonia esercitata da un soggetto collettivo sugli altri gruppi sociali. Si veda in particolare E. Laclau – C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, cit., pp. 114-145. 167 Si veda in questo senso l’acuta critica di M. Rustin, Absolute Voluntarism: Critique of a Post-Marxist Concept of Hegemony, in «New German Critique», 1988, n. 43, pp. 146-173.

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del giurista tedesco. Nel Begriff des Politischen, in effetti, l’argomentazione del giurista di Plettenberg pareva concentrata in modo quasi esclusivo sul tentativo di tessere un saldo legame fra l’elemento caratteristico e irriducibile del ‘politico’ e l’idea che esista necessariamente, all’interno della comunità, un «sovrano»: un’autorità dotata – materialmente, prima che giuridicamente – del potere di decidere sullo «stato di eccezione», ossia della capacità di decidere, al di fuori e al di sopra dell’ordinamento giuridico, sulla distinzione fra amicus e hostis168. In realtà, neppure in questo caso la comunità appare come un dato, come un elemento già esistente che il «sovrano» – materialmente rappresentato da un capo, da una élite ristretta, da un partito o da un’altra realtà organizzata – deve limitarsi a difendere o preservare: la comunità politica in quanto tale – anche in questi scritti – non esiste se non in seguito alla decisione sovrana che discerne fra l’interno e l’esterno. È indubbio, però, che, nel caso in cui non si intenda la comunità politica come un Volk – un popolo con profonde radici storiche, con una precisa identità linguistica, etnica o religiosa, e pertanto come distinto da ‘altri’ popoli stranieri – è indispensabile attribuire proprio al sovrano la capacità di creare questa unità, grazie alla semplice decisione sovrana169. In tal modo, l’immagine della politica e della ‘comunità politica’ che emerge dall’ipotesi di Schmitt, senza rimandare necessariamente a un fondamento etnico e razziale, sembra piuttosto prossima a una visione ‘piramidale’: in altri termini, la comunità politica può esistere solo nella misura in cui si realizza l’indispensabile presupposto del legame di comando del capo nei confronti del seguito, nella misura in cui il Führer esercita un effettivo potere di dominio nei confronti del Gefolgschaft, e cioè nel caso vi sia una reale subordinazione dei membri

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Proprio sviluppando una simile osservazione, Gianfranco Poggi sostiene che Schmitt non sembra porre in questione la comunità e il legame che la tiene insieme, nel senso che la comunità sarebbe nella sua ipotesi soltanto un dato preesistente (e forse addirittura naturale) da preservare, da difendere da una minaccia esterna più o meno effettiva o potenziale. «L’errore fondamentale di Schmitt», osserva Poggi articolando la propria critica, «è quello di assumere la collettività di riferimento (Noi) come un dato, anche se egli insiste trattarsi di un dato fragile, condizionale, minacciato» (G. Poggi, La vicenda dello stato moderno. Profilo sociologico, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 34). «Al contrario», continua Poggi, «costituire una collettività, impartirle quella particolare fisionomia e quel senso del proprio peculiare destino che secondo Schmitt la politica dovrebbe soltanto salvaguardare – tutto ciò costituisce a sua volta un compito politico di prim’ordine», principalmente perché «la collettività non è un dato, ma è essa stessa il prodotto dell’attività politica, che nel crearla non può non servirsi in primo luogo di quei processi di natura pubblica, simbolica […] che Schmitt disdegna» (ibid.). 169 Un punto di snodo è probabilmente rappresentato dal saggio Stato, movimento, popolo, in C. Schmitt, Un giurista davanti a se stesso, cit., pp. 255-312 (ed. or. Staat, Bewegung, Volk. Die Dreigliederung der politischen Einheit, Hamburg, Hanseatische Verlaganstalt, 1933).

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della comunità al sovrano. Proprio in questo senso, la comunità politica sembra configurare una sorta di piramide, nel senso che il presupposto affinché il sovrano possa effettivamente discriminare tra interno ed esterno, tra Freund e Feind, tra amicus e hostis, è infatti la capacità di imporre la propria volontà sovrana ai seguaci e alla comunità. La fragilità della comunità non è dunque dovuta soltanto alle continue minacce provenienti dall’esterno, ma anche alla fragilità della struttura interna, proprio perché la sua esistenza effettivamente ‘politica’ non discende tanto da vincoli solidaristici, linguistici, culturali, quanto dalla subordinazione della base al vertice, dei seguaci al capo. Tanto che questa sorta di piramide appare davvero molto simile alla «lacrima di Batavia» evocata da Sigmung Freud nel suo Massenpsychologie und Ich-Analyse: una solida struttura di cristallo, infrangibile quasi in ogni punto, ma che, colpita nel suo vertice, finisce inevitabilmente per sbriciolarsi in una miriade di minuscoli frammenti. Anche se Schmitt non abbandona mai questa implicita visione ‘piramidale’ della sintesi politica, a partire dalla fine degli anni Trenta, inizia però a emergere nella sua riflessione il problema della genesi dell’unità politica, e, dinanzi a un simile quesito, affiora un nodo molto simile a quello suggerito dall’idea di uno «spazio simbolico» comune evocata da Mouffe. Così, Schmitt inizia a imboccare quel sentiero destinato a condurre alla riflessione sulla «rivoluzione spaziale» e, soprattutto, al Nomos der Erde. È nel quadro di questa indagine che Schmitt, pur senza abbandonare le precedenti ipotesi, le esplicita sotto il profilo spaziale e, soprattutto, le inserisce nel quadro teorico di una sorta di determinismo tecnologico-politico. L’esplorazione etimologica del termine-concetto nomos – divenuta col tempo per Schmitt un’autentica ossessione – suggerisce infatti una nuova chiave di lettura, che spiega effettivamente la costituzione del Volk. Proprio nelle prime pagine del Nomos der Erde, Schmitt illustra il nesso cruciale che lega l’appropriazione di un territorio e la costituzione di una comunità politica: All’inizio della storia dell’insediamento di ogni popolo, di ogni comunità e di ogni impero sta sempre in una qualche forma il processo costitutivo di un’occupazione di terra. Ciò vale anche per ogni inizio di epoca storica. L’occupazione di terra precede l’ordinamento che deriva da essa non solo logicamente, ma anche storicamente. Essa contiene in sé l’ordinamento iniziale dello spazio, l’origine di ogni ulteriore ordinamento concreto e di ogni ulteriore diritto. Essa è il «mettere radici» nel regno di senso della storia170.

170

C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicaum europaeum», cit., pp. 27-28.

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Secondo il giurista tedesco, è dunque soltanto una ben determinata occupazione di terra – reale e non puramente metaforica – che consente a una comunità di esistere. In altre parole, i presupposti indispensabili per la costituzione di una comunità politica risiedono nell’insediamento su un territorio, nella sua delimitazione mediante confini e nella loro difesa contro ogni minaccia (reale o potenziale) proveniente dall’esterno. Senza l’insediamento in un determinato territorio, e senza la possibilità di tracciare la delimitazione fra interno ed esterno sul terreno, un gruppo di esseri umani non può realmente dar corpo a una «comunità politica»171. La conquista di un territorio e la sua spartizione costituiscono, agli occhi di Schmitt, il presupposto del pascolo e della coltivazione, le forme primarie di attività produttiva stanziale, ma questo legame genetico originario è solo il primo passo di una serie di evoluzioni successive. Il nesso tra i termini nehmen (prendere), Nahme (presa di possesso) e nomos sostiene così l’ipotesi di un indissolubile legame fra Ortung e Ordnung, oltre che l’idea secondo cui ogni ordinamento concreto deve fondarsi sulla possibilità di imprimere nella terra i confini indispensabili alla costituzione della comunità. Per quanto l’operazione teorica di Schmitt possa essere sottoposta a critiche – anche dal punto di vista della successione storica delle forme di convivenza umana – è chiaro che la sua intera riflessione si regge, in modo solido, sul presupposto della centralità dell’appropriazione di terra. Rovesciando il determinismo del «marxismo volgare» – secondo il quale le «sovrastrutture» politiche e giuridiche scaturiscono dalla base delle forze produttive – Schmitt giunge per questa via a una sorta di determinismo politico, in cui le forme della produzione, come anche le stesse forme del pensiero, scaturiscono dall’appropriazione originaria di territorio172. Ma, 171 Per questa riflessione, cfr. anche C. Schmitt., Appropriazione/Divisione/Produzione, in Id., Le categorie del ‘politico’, cit., pp. 295-312 (ed. or. Nehmen/Teilen/Weiden, «Gemeinschaft und Politik», 1953, n. 3), e Id., Nomos – Presa di possesso – Nome, in appendice a C. Resta, Stato mondiale o nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Roma, Pellicani, 1996, pp. 107131; ed. or. Nomos – Nahme – Name, in S. Behn (hrsg.), Der beständige Aufbruch. Festschrift für Erich Przywara, Nürnberg, Glotz und Lutz Verlag, 1959, pp. 92-105. È da segnalare inoltre, a questo proposito, la lettura di P.P. Portinaro, Appropriazione, distribuzione, produzione. Materiali per una teoria del «nomos», Milano, Franco Angeli, 1983. 172 «Fino alla rivoluzione del XVIII secolo in Europa», osserva infatti Schmitt, «l’ordine e la successione dei tre momenti riposava univocamente sul fatto che qualsiasi appropriazione era riconosciuta come indispensabile premessa e fondamento per la successiva divisione e produzione. Perciò per interi millenni della storia e della coscienza umana rimase fermo l’ordine di successione tipico. La terra, il fondo e il campo, era il primo presupposto di ogni economia e di ogni diritto ulteriore. […] Questa terra, il fondamento di ogni produttività, dev’essere stata acquisita dai predecessori di diritto di coloro che oggi la posseggono. All’inizio

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soprattutto, arriva a spiegare – con indiscutibile coerenza – proprio la genesi dello stesso jus publicum europaeum, che prende origine dalla ‘scoperta’ del Nuovo continente e dall’appropriazione di nuovi territori. «Quando nel 1492 comparve realmente un ‘nuovo mondo’», osserva per esempio nel Nomos der Erde, «tutti i concetti tradizionali di centro e di età della terra dovettero mutare la loro struttura», perché «il nuovo mondo emergente non si presentava come un nuovo nemico, bensì come uno spazio libero, come un’area libera per l’occupazione e l’espansione europea»173. È proprio l’aprirsi di questo spazio libero che determina – secondo il giurista – una nuova appropriazione e, soprattutto, l’emergere della nuova divisione fra Terra e Mare, destinata a mutare il volto della politica globale. A partire dagli anni Quaranta, e soprattutto con le pagine di Land und Meer, Schmitt inizia allora a rileggere la storia della modernità europea con una nuova ottica, che si organizza attorno alla cruciale nozione di «rivoluzione spaziale». È d’altronde in questa idea che si annida il nucleo fondamentale del ‘materialismo politico’ di Schmitt, un nucleo secondo il quale l’appropriazione di un nuovo spazio – conquistato anche grazie a una nuova tecnica – non produce solo un nuovo equilibrio politico, ma accompagna, in senso specifico, il sorgere di una mutata percezione dello spazio e la genesi di nuovi concetti. «Ogni volta che sotto la spinta di forze storiche o grazie alla liberazione di nuove energie, entrano nell’orizzonte della complessiva coscienza dell’uomo nuovi territori e nuovi mari», scriveva Schmitt, «mutano anche gli spazi dell’esistenza storica», e, dunque, «sorgono nuove misure e nuovi criteri dell’attività storico-politica, nuove scienze, nuovi ordini, una nuova vita di popoli nuovi e rinati»174. In questi mutamenti, secondo Schmitt, non cambiano soltanto «la dimensione e le misure», perché «muta anche la struttura stessa del concetto di spazio», e proprio allora – nel processo in cui si definisce una «rivoluzione spaziale» – prende corpo un «complessivo cambiamento politico, economico e culturale». L’affermazione sullo scenario mondiale dell’Inghilterra e, in seguito, sta dunque la ‘legge distribuiva del mio e del tuo di ognuno sulla terra’ (Kant), cioè il nomos nel significato di appropriazione: in termini più concreti, l’appropriazione della terra. Solo su di essa si compie poi la divisione e dopo questa l’ulteriore trasformazione» (C. Schmitt, Appropriazione/Divisione/Produzione, cit., pp. 299-300). 173 C. Schmitt, Il nomos della Terra, cit., p. 83. 174 C. Schmitt, Terra e mare. Una considerazione sulla storia del mondo, Milano, Giuffrè, 1986, p. 56; ed. or. Land und Meer. Eine Weltgeschichtliche Betrachtung (1942), Köln-Lövenich, Hohenheim Verlag, 1981). Su questo testo fondamentale, cfr. Angelo Bolaffi, Presentazione, ivi, pp. 3-29, ma anche l’introduzione Franco Volpi alla nuova traduzione del testo, Il potere degli elementi, in C. Schmitt, Terra e mare, Milano, Adelphi, 2002.

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l’irrefrenabile irruzione degli Stati Uniti non sono dunque intese da Schmitt solo come una semplice variazione dei protagonisti nel teatro delle Grandi potenze, perché la comparsa di questi nuovi attori riflette la realtà di una trasformazione radicale, le cui radici vanno ricercate nella «rivoluzione spaziale» inaugurata dalla modernità. Nel XVI secolo, infatti, la disponibilità di nuovi tipi di nave aveva aperto inedite possibilità di esplorazione, adeguatamente sfruttate da quelli che il giurista tedesco – non senza ammirazione – definiva come «selvaggi avventurieri e ‘schiume di mare’»175, e così la ‘scoperta’ del Nuovo Mondo si era effettivamente tradotta in un’autentica «rivoluzione spaziale», destinata a sancire rapidamente lo spostamento della Terra verso il Mare176. Ma, dopo Waterloo, nel corso dell’Ottocento, in coincidenza con la rivoluzione industriale, aveva iniziato a prendere consistenza un’ulteriore evoluzione, destinata a rompere ancora una volta l’equilibrio tra gli elementi e a innescare una nuova, ancor più radicale, rivoluzione spaziale. «Elettricità, aviazione e telecomunicazioni», osservava Schmitt, «operarono un tale rovesciamento di tutte le rappresentazioni di spazio che, evidentemente, avviò un nuovo stadio della prima planetaria rivoluzione spaziale se non, addirittura, una seconda, nuova rivoluzione spaziale»177. Agli occhi del giurista, ovviamente, le due guerre mondiali configuravano l’estrema conseguenza di un simile processo178, ma proprio nelle pagine finali della propria ricostruzione Schmitt considerava – seppur solo marginalmente – anche la portata di una nuova «rivoluzione spaziale», scaturita dall’appropriazione dell’«aria»: Quando si aggiunse l’aeroplano venne conquistata persino una nuova, terza dimensione che si sommò a quella della terra e del mare. Ora l’uomo si alzò sulla superficie della terra come su quella del mare e ricevette uno strumen175

C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 43. L’Inghilterra compie infatti – secondo le parole di Schmitt – una «planetaria rivoluzione spaziale»: «l’Inghilterra, in un momento storico e in un modo completamente diverso rispetto alle precedenti potenze marinare, ha compiuto una trasformazione elementare, ha veramente spostato la sua esistenza dalla terra all’elemento del mare. In tal modo non ha vinto solo molte battaglie sul mare e molte guerre ma qualcosa di completamente diverso e infinitamente superiore, e cioè ha compiuto una rivoluzione e, propriamente, una rivoluzione del tipo più grande, una planetaria rivoluzione spaziale» (ivi, p. 55). 177 Ivi, pp. 78-79. 178 Cfr. anche gli scritti, risalenti agli inizi degli anni Quaranta, C. Schmitt, Il Mare contro la Terra, in Id., L’unità del mondo, cit., pp. 253-268 (ed. or. La mer contre la terre, in «Cahiers franco-allemand», VIII, 1941, pp. 343-349); Id., Sovranità dello Stato e libertà dei mari, in Id., L’unità del mondo, cit., pp. 217-251 (ed. or. Staatliche Souveränität und freies Meer. Über den Gegensatz von Land und See im Völkerrecht der Neuzeit, in Das Reich und Europa, Leipzig, Köhler & Ameland, 1941, pp. 91-117). 176

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to di comunicazione di tipo completamente nuovo e, al tempo stesso, ebbe in pugno una nuova arma. Le dimensioni e le misure mutarono ancora e crebbero, in settori imprevisti, le possibilità di dominio diretto sulla natura e sugli altri uomini. È comprensibile che proprio l’arma aerea venne definita «arma spaziale». Giacché il rivoluzionario effetto spaziale che da essa prese le mosse fu particolarmente forte, immediato e vistoso179.

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, il giurista ebbe modo di approfondire ulteriormente la propria lettura, e, oltre che nel Nomos der Erde, tornò su questo nodo nella Theorie des Partisanen, che in effetti si proponeva in modo esplicito come una sorta di integrazione e aggiornamento al vecchio saggio sul concetto del ‘politico’. «Del tutto indipendentemente dalla buona o dalla cattiva volontà degli uomini, dagli scopi pacifici o bellici», osservava in alcune pagine fondamentali, «ogni progresso della tecnica umana produce nuovi spazi e imprevedibili modificazioni delle tradizionali strutture spaziali»180. Come ogni trasformazione tecnica, la conquista dello spazio aereo e l’irruzione dell’arma nucleare sulla scena bellica non avevano certo eliminato il ‘politico’, ma avevano piuttosto spinto la specifica contrapposizione ‘politica’ su un terreno nuovo, di cui la figura del «partigiano» era una nitida esemplificazione. Per quanto concerneva la fondazione spaziale della politica (e la successione di conquista, divisione e produzione), osservava che, nonostante tutti i progressi, «tutto resta come prima», perché «il progresso della tecnica determinerà solo una maggiore intensità delle nuove conquiste, divisioni e produzioni, e non farà che acutizzare i vecchi problemi»181. Quei «vecchi problemi», però, dinanzi alla possibilità della conquista del cosmo da parte degli esseri umani, non potevano che apparire in una luce nuova, di cui Schmitt non mancava di sottolineare la portata. «Nel contrasto odierno fra Oriente e Occidente, e in particolare nella gigantesca gara per i nuovi, immensi spazi», osservava, «ne va soprattutto del potere

179 C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 80. Quasi incidentalmente, concludendo la propria ricostruzione, Schmitt osservava: «Se si tiene presente, inoltre, che non solo aerei attraversano lo spazio aereo su terra e mare ma anche che onde radio di trasmettitori di tutti i paesi, alla velocità di secondi, attraversano, senza interruzione, lo spazio atmosferico attorno alla sfera terrestre vien da credere che ora non soltanto sia stata raggiunta una nuova terza dimensione, ma persino che un terzo elemento si sia aggiunto, l’aria, quale nuovo ambito elementare della esistenza umana. Ai due mitici animali, il Leviatano e il Behemoth, se ne sarebbe aggiunto un terzo, un grande uccello» (ibid.). 180 C. Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del politico, Milano, Adelphi, 2005, pp. 95-96 (ed. or. Theorie des Partisanen. Zwischenbemerkung zum Begriff des Politischen, Berlin, Duncker & Humblot, 1963). 181 Ivi, p. 112.

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politico sul nostro pianeta, per quanto piccolo questo possa ora sembrare», perché, «solo chi domina la terra, apparentemente diventata così minuscola, occuperà e sfrutterà i nuovi spazi»182. Nella riflessione di Schmitt, il riferimento alla connessione fra Ortung e Ordnung non è affatto secondario, e la stessa portata assegnata dal giurista tedesco alle diverse «rivoluzioni spaziali» è fondamentale per comprendere appieno il discorso sul tramonto dello jus publicum europaeum e sulla trasformazione del nemico. Proprio questi aspetti sembrano invece del tutto assenti nella rilettura proposta da Mouffe. Nel tentativo di procedere «con Schmitt», ma «oltre Schmitt», Mouffe pare infatti rimuovere completamente il peculiare materialismo del pensatore di Plettenberg. Quando si riferisce allo «spazio simbolico» comune, o alla necessità di un ordine multipolare, il discorso dell’intellettuale belga sembra infatti procedere sul terreno di un volontarismo dal quale è espunta qualsiasi radice materiale. Il ‘politico’, in altre parole, pare scaturire da basi psicologiche, considerate come irriducibili e caratterizzanti la natura umana, ma non sembra avere alcuna importanza – almeno in modo esplicito – il contesto materiale, tecnologico ed economico in cui la contrapposizione amico-nemico prende forma e si manifesta. In altre parole, i soggetti collettivi cui Mouffe si riferisce sembrano l’espressione di volontà collettive soreliane, tenute insieme da grandi mitologie e dalla tensione garantita dalla contrapposizione noi/loro, mentre non paiono giocare alcun ruolo gli aspetti economici, tecnologici e militari in cui quelle contrapposizioni e quei soggetti assumono consistenza reale. In questo modo, ovviamente, lo «spazio simbolico» della democrazia può scaturire soltanto dalla volontà di questi grandi soggetti, mentre l’ordine multipolare e la moralizzazione della politica discendono da fattori puramente intellettuali. E, soprattutto, in questo modo sfuma ogni riferimento alla base «spaziale» su cui poggiano le diverse configurazioni storiche del rapporto fra amicus e hostis. Proprio seguendo le intuizioni schmittiane sulla «rivoluzione spaziale» – e dunque riferendosi al radicamento spaziale del criterio del ‘politico’ – diventa invece possibile collocare la «moralizzazione» della politica criticata da Mouffe in un diverso contesto e, forse, persino procedere effettivamente ‘oltre’ Schmitt, affrontando in modo differente una serie di 182

«Di conseguenza», continuava, «anche questi nuovi sconfinati spazi non sono che potenziali campi di battaglia, e lo sono in una lotta per il predominio su questa terra. I celebri astronauti o cosmonauti, finora impiegati solo come stelle propagandistiche dei mass media – stampa, radio, televisione – avranno allora l’occasione di tramutarsi in cosmopirati, e forse persino in cosmopartigiani» (ibid.).

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problemi cruciali della politica contemporanea. È infatti sviluppando le indicazioni sulla «rivoluzione spaziale» e sul fondamento spaziale della politica che si può osservare il concetto di «umanità» da una prospettiva diversa da quella con cui Schmitt aveva criticato il riferimento a quel concetto. Naturalmente, a distanza di quasi mezzo secolo dalle riflessioni sulla figura del partigiano, la conquista del cosmo non ha certo condotto a quella colonizzazione di nuovi «mondi» che Schmitt aveva ipotizzato, e che la fantascienza degli anni Cinquanta e Sessanta aveva collocato al centro del proprio immaginario. Ma, forse, è possibile pensare davvero che gli ultimi cinquant’anni abbiano determinato una «rivoluzione spaziale», consegnandoci un nuovo concetto di «spazio»183. E, così, diventa possibile pensare che, ancora una volta, «del tutto indipendentemente dalla buona o dalla cattiva volontà degli uomini, dagli scopi pacifici o bellici», questi progressi della tecnica umana abbiano prodotto un’imprevedibile «modificazione della tradizionali strutture spaziali» e che lo stesso concetto di «umanità» – o meglio, la sua configurazione contemporanea – sia un prodotto di una simile trasformazione: non certo un risultato determinato linearmente dallo sviluppo tecnologico, ma, piuttosto, un concetto che si viene a collocare in un nuovo orizzonte spaziale, definito proprio dallo sviluppo tecnologico, e la cui effettiva conformazione dipende dallo scontro tra soggetti che operano in questo orizzonte. Lungo questo sentiero, certo si abbandona definitivamente il mondo degli Stati, cui Schmitt rimase in fondo sempre legato, ma non si lascia cadere l’idea cruciale che il mondo sia un pluriversum e non un universum, e che, dunque, gli esseri umani siano fatalmente destinati a contrapporsi in raggruppamenti di amici e nemici. Il punto è, però, che questo pluriversum – almeno ipoteticamente, se non certo nella realtà odierna – può anche configurarsi nella forma dell’«ultima 183 Per effetto della globalizzazione e delle sue conseguenze politiche, negli ultimi anni la nozione schmittiana di «rivoluzione spaziale» – e l’intreccio fra «spazio» e «potere» cui essa rivolge l’attenzione – è tornata al centro del dibattito teorico. Cfr., per esempio, B. Accarino, Contingenza motorizzata. La politica tra accelerazione e sconfinamento, in «Filosofia politica», XXI (2007), n. 1, pp. 21-34; Id. (a cura di), Confini in disordine. Le trasformazioni dello spazio, Roma, Manifestolibri, 2007; S. Casey, Representing Place, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2002; A. De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, Urbino, Quattro Venti, 2005; G. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il Mulino, 2001; Id., Guerra globale, Roma-Bari, Laterza, 2002; M. Schorer, Räume, Orte, Grenzen. Auf dem Weg zu einer Soziologie des Raums, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2006; P. Sloterdijk, Sphären, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1998-2004, 3 voll.; Id., L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Roma, Carocci, 2002 (ed. or. Die letzte Kugel. Zu einer philosophischen Geschichte der terrestrischen Globalisierung, da Spären. II. Globen, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2001); Id., Il mondo dentro il capitale, Roma, Meltemi, 2006 (ed. or. Im Weltinneraum des Kapitals, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2005).

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guerra dell’umanità». Una forma in cui l’«umanità» è chiamata a combattere – forse persino per l’eternità – contro i suoi nemici. Seguendo questo sentiero, e portando il ragionamento di Schmitt ben oltre gli approdi cui giunse l’autore del Nomos der Erde, risulta piuttosto chiaro che non ci si può limitare a scorgere dietro il concetto di «umanità» un’ingiustificata pretesa universalista, accampata dalla superpotenza statunitense, o – come suggerisce Mouffe – soltanto la deleteria conseguenza della supremazia intellettuale del pensiero liberale. E, al tempo stesso, diventa altrettanto chiaro che risulta quantomeno semplicistico considerare la ricomparsa della figura del «nemico del genere umano» solo come l’effetto di un’indebita estensione dei criteri della morale al campo della politica. Certo, la nozione di «umanità» è – e rimarrà in futuro – soltanto una sorta di ‘travestimento’ ideologico, una pura e semplice ‘finzione’, nella stessa misura in cui, però, sono semplici ‘finzioni’ quei grandi soggetti – Stati, Imperi, Popoli e Nazioni – che affollano il teatro della politica. Il punto da riconoscere – e a proposito del quale diventa forse possibile ‘oltrepassare’ Schmitt – è piuttosto che la ‘finzione’ che rappresenta l’«umanità» come un soggetto politico unitario e dalle pretese universaliste si inscrive, in modo specifico, nel nuovo orizzonte spaziale della politica, un orizzonte che tende realmente a comprendere l’intero pianeta. Come ogni concetto politico, è piuttosto scontato che anche il concetto di «umanità» sia destinato a mutare di volta in volta il proprio significato, a registrare l’esito variabile dello scontro fra le forze in gioco e, soprattutto, a veder modificato il proprio campo di applicazione seguendo gli slittamenti della linea di esclusione fra ‘dentro’ e ‘fuori’. Dunque, è anche piuttosto scontato che il mondo degli umani continui a mostrarsi come un pluriversum, facendo riemergere la fatale contrapposizione fra amico e nemico. Ma, in quanto determinata dalla nuova struttura spaziale, la cruciale contrapposizione fra amicus e hostis non può che rappresentare il conflitto politico in termini estremi, radicali e definitivi. E, persino, come l’ultima guerra fra l’umanità e i suoi nemici.

2 L’etica dell’emergenza La democrazia nello «stato di eccezione»

2.1 Lo spettro dell’eccezione Nel suo Qui non è possibile, il dimenticato premio Nobel Sinclair Lewis dava forma a un incubo che metteva in dubbio la solidità della democrazia americana e della sua tradizione di diritti e libertà. Proprio attorno alla metà degli anni Trenta, mentre in Europa il sistema parlamentare cedeva dinanzi all’ascesa dei nuovi regimi autoritari, Lewis metteva in guardia gli Stati Uniti di fronte al rischio di scivolare verso una simile tentazione. Così, nel suo romanzo, descriveva minuziosamente le tappe con cui il paese di Washington, Jefferson e Lincoln finiva col soccombere sotto il tallone di ferro della spietata dittatura di Berzelius Windrip1. Probabilmente, Qui non è possibile non può essere considerato come il più riuscito lavoro dello scrittore americano, e d’altronde il testo rimane molto lontano dai livelli raggiunti dalle grandi distopie di quella stagione e dagli scenari evocati negli straordinari romanzi di Zamjatin, Huxley, Orwell e Bradbury2. A differenza delle ben 1

S. Lewis, Qui non è possibile, Roma, Sandi Japi, 1944 (ed. or. It cant’ happen here, Doran, Duobleday, 1935). Qui non è possibile, pubblicato per la prima volta nel 1935, rappresenta una delle opere più tarde di Lewis, scomparso a Roma nel 1951. Tra i suoi romanzi più noti, che gli fecero ottenere nel 1930 il Premio Nobel per la letteratura, sono invece senz’altro da ricordare Main Street, Firenze, Bemporad, 1935 (ed. or. Main Street, New York, Harcourt Brace, 1920); Id., Babbit, Milano, Corbaccio, 1936 (ed. or. Babbit, New York, Harcourt Brace, 1922); Id., Il dottor Arrowsmith, Milano, Mondadori, 1934 (ed. or. Arrowsmith, New York, Harcourt Brace, 1925); Id., Il figlio di Giuda, Milano, Mondadori, 1961 (ed. or. Elmer Gantry, New York, Harcourt Brace, 1927); Id., The Man Who Knew Coolidge, New York, Harcourt Brace, 1928; Id., Ann Vickers, Milano, Garzanti, 1942 (ed. or. Ann Vickers, Doran, Duobleday, 1933). 2 Alla distopia di Lewis dedica una fugace attenzione F. Muzzioli, Scritture della catastrofe, Roma, Meltemi, 2007, p. 70, ma in generale, sull’immaginario distopico, cfr. AA.VV., Utopia e fantascienza, Torino, Giappichelli, 1975; R. Bertinetti, Il suicidio della cultura. Divagazioni su «Brave New World», in R. Bertinetti – A. Deidda – M. Domenichelli, L’infondazione di Babele: l’antiutopia, Milano, Franco Angeli, 1983; M.K. Booker, The Dystopian Impulse in Modern Literature. Fictions as Social Criticism, Westport-London, Greenwood, 1994; D. Guardamagna,

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più celebri distopie totalitarie, ciò che caratterizza Qui non è possibile – e che ancora oggi ne costituisce il tratto forse più originale – è, però, proprio il contesto tutto sommato ordinario in cui la vicenda prende corpo: un contesto in cui sono assenti tecnologie di controllo particolarmente complesse, in cui i protagonisti della dittatura sono molto simili a quelli delle democrazie mature, e in cui l’avvento del regime avviene in sostanziale continuità con la stagione democratica. Nel romanzo di Lewis, il senatore Windrip, facendo leva sul clima della crisi economica e sul malcontento delle classi popolari, ma beneficiando anche dell’appoggio dei grandi gruppi economici, riusciva infatti a ottenere la candidatura alla presidenza nel Partito Democratico e, in seguito, a battere il candidato repubblicano sulla base di un programma populista che costituiva la base della successiva svolta autoritaria3. Probabilmente, Lewis, mentre costruiva il proprio incubo, interpretava una serie di eventi reali – per esempio, il successo di personalità politiche controverse come il senatore della Louisiana Huey Long e i consensi raccolti (seppur solo per un breve periodo e in settori limitati dell’opinione pubblica) dall’ascesa del regime nazionalsocialista tedesco – come segnali di una minaccia tutt’altro che ipotetica4. Anche per questo, gli elementi dello scenario che allestiva Analisi dell’incubo. L’utopia negativa da Swift alla fantascienza, Roma, Bulzoni, 1980; S. Manferlotti, Anti-utopia. Huxley Orwell Burgess, Palermo, Sellerio, 1984; Id., Prometeo dimenticato: l’uno e i molti nelle antiutopie di Zamjatin, Huxley ed Orwell, in A. Colombo (a cura di), 1984. Utopia e distopia, Milano, Franco Angeli, 1987. 3 Il titolo del romanzo, Qui non è possibile, riprendeva la formula ripetuta non solo dai sostenitori di Windrip, ma anche da gran parte dei suoi critici, che in sostanza escludevano la possibilità di una deriva in senso autoritario negli Stati Uniti. Era invece il protagonista, l’anziano giornalista Doremus Jessup, a mettere in guardia di fronte alla minaccia rappresentata da Windrip: «Vi son molti segni che mostrano come, anche qui, una tirannia sia possibile. […] non c’è nessun altro paese capace di isterismi come e quanto l’America! Guardate Huey Long che era il re in Luisiana e l’onorevolissimo senatore Berzelius Windrip che è il padrone assoluto del suo stato. Ascoltate il vescovo Prang o padre Coughlin alla radio: per milioni di persone sono oracoli divini. Rammentatevi come è stata tollerata la corruzione parlamentare di Tammany Hall e il gangsterismo a Chicago, e le truffe dei sottopancia del presidente Harding! Qual è peggiore, la cricca di Hitler o quella di Windrip? Vi ricordate del Ku-Klux-Klan? Ricordatevi la nostra imbecillità durante la guerra, quando nei ristoranti, per avere dei cavoli salati occorreva chiedere ‘cavoli della libertà’? E la censura? E l’idolatria che ha circondato Bill Sunday, il milionario evangelista e quella ‘fumiste’ di Aimé Mac Pherson? E l’uso della spauracchio comunista e dello spauracchio cattolico? […] Impossibile qui? Ma nessun paese è tanto maturo per il fascismo quanto l’America» (S. Lewis, Qui non è possibile, cit., pp. 20-21) 4 In qualche misura, si trattava di tendenze che affondavano nella tradizione del populismo statunitense, che fra Otto e Novecento trovò uno sviluppo notevole, seppure all’interno di declinazioni piuttosto lontane da quelle che contemporaneamente attraversavano il Vecchio

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non si configuravano come semplici incursioni nell’affascinante territorio della fantapolitica, ma, piuttosto, come l’estremo sviluppo di tendenze reali: tendenze chiaramente visibili nella società americana degli anni Trenta e che, in misura differente, affondavano le radici proprio nella tradizione politica degli Stati Uniti. La milizia paramilitare creata da Windrip, i «minute men», si richiamava al mito della guerra d’indipendenza e ai coloni che al momento opportuno avevano imbracciato il fucile contro la madrepatria inglese, le misure economiche e l’ordine corporativo estremizzavano alcune linee effettivamente avviate con il New Deal, mentre il programma di espansione militare si inscriveva all’interno del patrimonio retorico dell’«eccezionalismo» americano, contrassegnato dall’incrollabile fiducia negli Stati Uniti e nel loro ruolo di alfieri della pace e della libertà. In questo senso, era per molti versi paradigmatico il discorso con cui il romanzo si apriva. In quel discorso, uno dei più convinti sostenitori di Windrip, pur ricorrendo ai più consolidati argomenti della retorica eccezionalista, si volgeva ai nuovi rischi che parevano giungere dall’esterno dei confini americani e che richiedevano, perciò, strumenti nuovi rispetto al passato: gli Stati Uniti, soli tra le grandi potenze, non hanno alcun desiderio di conquista. La nostra più grande ambizione è che ci lascino soli. […] Per la prima volta nella storia, una grande nazione si deve armare sempre di più; non per la conquista, non per la guerra, ma per la Pace. Preghiamo Dio che non ci sia necessario far uso di queste armi, ma se le nazioni straniere non terranno presente questo nostro avvertimento, allora, come i denti del drago proverbiale, guerrieri senza paura sorgeranno da ogni pollice del nostro territorio, da questo territorio che i nostri padri hanno conquistato e coltivato5.

Anche se gli attacchi delle potenze straniere non erano destinati a materializzarsi, l’incombente presenza di queste minacce tornava costantemente nei discorsi di Windrip e dei suoi sostenitori, tanto da rappresentare non solo l’arma più insidiosa della loro propaganda, ma anche l’elemento destinato a incidere più in profondità sull’assetto democratico americano. Dei quindici punti compresi nel programma elettorale di Windrip, il più importante era infatti l’ultimo: pur contemplando solo laconicamente la «revisione della Costituzione» e la «concessione di poteri eccezionali al Presidente della

continente. Per una ricostruzione di questo filone, cfr., per esempio M. Canovan, Populism, London, Junction Books, 1981; D. Frezza, Il leader, la folla, la democrazia nel discorso pubblico americano. 1880-1941, Roma, Carocci, 2001; L. Goodwyn, Democratic Promise. The Populist Mouvement in America, Oxford-New York, Oxford University Press, 1976. 5 S. Lewis, Qui non è possibile, cit., p. 7.

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Repubblica», quell’articolo – che certo richiamava implicitamente il celebre art. 48 della Costituzione di Weimar6 – preludeva in realtà alla trasformazione del regime7. E, in effetti, all’indomani dell’elezione, invocando il proprio programma elettorale, dinanzi all’opposizione delle due Camere di concedere al nuovo Presidente i poteri eccezionali, Widrip dichiarava lo «stato d’assedio»; e, sotto controllo militare, otteneva la «temporanea» trasformazione in legge del quindicesimo punto, richiamandosi all’autorità di Lincoln e alla tradizione patriottica americana: Il primo messaggio ufficiale del presidente Windrip al paese fu un grazioso pezzo di letteratura. Spiegava come i nemici dell’America – Wall Street e l’Urss uniti insieme – avevano lanciato un ultimo attacco, per la rabbia di vederlo alla presidenza. Tutto sarebbe tornato tranquillo tra qualche mese, ma per tutto il tempo in cui sarebbe durato questo stato di cose, occorreva che il paese «fosse con lui». Ricordò la dittatura militare di Lincoln e di Stanton, durante la guerra civile. Fece qualche allusione all’avvenire – un avvenire assai prossimo: un po’ di pazienza, tutto andrà bene – quando avrebbe avuto tutto nelle mani. Concluse paragonandosi ad un pompiere che salva una graziosa ragazza da una casa in fiamme, piaccia o non piaccia alla ragazza8. 6

L’art. 48 della Costituzione weimariana replicava, in sostanza, le formule tradizionali dello stato d’assedio, riferendosi alla sospensione di sette diritti fondamentali come l’inviolabilità della persona (art. 114), l’inviolabilità del domicilio (art. 115), la segretezza della comunicazione (art. art. 117), la libertà di opinione e di espressione (art. 118), il diritto di associazione e di assemblea (artt. 123 e 124), il diritto di proprietà (art. 153). Sul dibattito costituzionale, e soprattutto sull’interpretazione dell’art. 48 durante gli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, si vedano, per esempio, G. Gozzi – P. Schiera (a cura di), Crisi istituzionale e teoria dello stato dopo la prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1987; V. Frosini, La democrazia pericolante (Note sull’art. 48 della Costituzione di Weimar), in Aa.Vv., Scritti in onore di Egidio Tosato, Milano, Giuffrè, 1984, I, pp. 479-494; H. Schulze, La repubblica di Weimar. La Germania dal 1917 al 1933, Bologna, Il Mulino, 1987 (ed. or. Weimar: Deutschland 1917-1933, Berlin, Siedler, 1982). 7 Nei quindici punti erano comprese misure molto diverse e talvolta contraddittorie, come il controllo della banche da parte della Banca Federale, la riorganizzazione in senso corporativo dei sindacati, un’ingente redistribuzione del reddito a beneficio delle classe inferiori, la discriminazione di ebrei e neri, il raddoppio degli armamenti del paese, e la condanna per alto tradimento di anarchici e comunisti. L’ultimo articolo, quello relativo ai poteri occasionali, era invece l’unico a fornire reali indicazioni: «L’applicazione di ciascun articolo sarà condizionata dall’opportunità delle misure da prendere. Soltanto il quindicesimo articolo non potrà subire alcun indugio» (S. Lewis, Qui non è possibile, cit., p. 62). 8 Ivi, p. 105. Le misure eccezionali, naturalmente, erano destinate a essere ulteriormente inasprite, fino a giungere alla costruzione di campi di concentramento per tutti gli oppositori: «Il paese fu informato […] che a partire da quel giorno qualunque individuo che, sia per mezzo di atti che per mezzo di parole, avesse cercato di nuocere al buon nome dello Stato, sarebbe stato passato per le armi o imprigionato. E poiché le prigioni erano già piene da scoppiare, furono creati, un po’ da per tutto, campi di concentramento in cui furono

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La storia si è naturalmente incaricata di mostrare come i timori di Lewis fossero eccessivi, e così gli Stati Uniti, invece di scivolare verso una tentazione autoritaria, hanno indossato le vesti di alfieri della libertà nel mondo, tanto da legare in modo quasi indissolubile il destino dell’America al nuovo significato assunto dal termine «democrazia». Da quando, al principio del nuovo secolo, l’ombra del terrorismo ha ripreso a stagliarsi sulle democrazie occidentali, lo spettro dello «stato di eccezione» è tornato però al centro del dibattito teorico. E sono fatalmente riemersi quegli stessi timori con cui Lewis guardava alla concessione di poteri eccezionali e alla sospensione delle garanzie costituzionali. Proprio negli Stati Uniti, le misure adottate dopo l’11 settembre 2001 – la Declaration of national emergency by reason of certain terrorists attacks (14 settembre 2001), la Joint resolution n. 23 del Congresso (18 settembre 2001), il Patriot Act (26 ottobre 2001), il Presidential Order (13 novembre 2001) – hanno infatti riportato alla luce quel vecchio dibattito che riaffiora ogni volta che uno Stato liberale risulta minacciato all’interno dei propri confini da circostanze ‘eccezionali’9. Un dibattito che, invariabilmente, si trova costretto a interrogarsi sui caratteri ambivalenti dello Stato liberaldemocratico: per un verso, il compito dello Stato di proteggere i propri cittadini, garantendo la loro sicurezza, con lo strumento del monopolio legittimo della forza, contro le minacce militari provenienti dall’esterno e contro le violazioni della legge perpetrate da soggetti criminali all’interno del proprio territorio; per l’altro, il dovere dello Stato, specificamente liberale (e democratico), di mantenersi entro i limiti fissati dalla Costituzione e, soprattutto, di garantire il rispetto delle libertà e dei diritti individuali. Lo «stato di emergenza» rappresenta ovviamente il caso paradigmatico in cui questi due elementi entrano in conflitto: se in circostanze ‘eccezionali’ diventa necessario sospendere, per un periodo più o meno lungo, la tutela dei diritti individuali al fine di rispondere efficacemente ai pericoli che minano la sicurezza collettiva, in tali casi un regime democratico rischia di sacrificare – in nome della sointernati questi ignobili individui e, contemporaneamente, le persone prese sotto la propria ‘protezione’ dal troppo amabile governo» (ivi, p. 178). 9 Per una rassegna sulle difficoltà di definire l’«emergenza» da un punto di vista giuridico, cfr. P. Mindus, Nostalgia per Cincinnato? Elementi per una fenomenologia dell’emergenza, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XXXVII (2007), n. 2, pp. 481-523, che correttamente individua quattro nodi problematici ben distinti: 1) la definizione di «cosa» sia l’emergenza, 2) l’individuazione di «chi» dichiara l’emergenza; 3) le limitazioni sugli «effetti» della dichiarazione di emergenza (quali diritti possono essere derogati?, quali cambiamenti istituzionali possono essere ritenuti legittimi alla luce dell’emergenza?); 4) il fine ultimo dello stato d’emergenza (ivi, p. 484).

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pravvivenza – le proprie stesse basi e, dunque, di tramutarsi in un regime autoritario10. L’attacco sferrato contro le Twin Towers e il Pentagono ha avuto anche l’effetto di riportare sotto lo sguardo della teoria le più classiche domande sulle condizioni che rendono possibile la temporanea sospensione delle normali garanzie giuridiche e, soprattutto, di quelle che tutelano le libertà individuali dagli abusi del potere11. Nel corso di un’accesa discussione, che certo non poteva non risentire del trauma collettivo subito con gli attacchi al cuore di New York, la discussione si è così indirizzata sulle specificità dei nuovi conflitti asimmetrici, sulle modalità della risposta alla nuova minaccia terroristica, sulle radici dell’odio cresciuto negli ultimi decenni contro gli Stati Uniti. Ma, fatalmente, non sono state trascurate le possibili ricadute che il clima di emergenza ha – o può avere, sul medio e lungo periodo – sulla democrazia americana, sulla tutela della libertà individuale e sulla garanzia dei diritti dei cittadini. Ed è così tornato ad affiorare il vecchio – e talvolta rimosso – nodo teorico-politico dello «stato di eccezione»12. 10 Probabilmente, in questo caso, come ha osservato Robert Dahl, la distinzione fra «democrazie» e «non democrazie» rischia di risultare eccessivamente semplificata: «Supponiamo che un declino delle libertà civili provocato dalla minaccia terroristica determini negli Stati Uniti mutamenti tali da giustificare un declassamento del paese dalla categoria delle nazioni ‘più democratiche’ a una posizione più bassa della scala, ma tuttavia ancora ad un livello molto lontano dal fondo. Definire un tale paese fascista, autoritario, totalitario o dittatoriale, sarebbe profondamente fuorviante. E tuttavia, in qualunque modo decidiamo di definire gli Stati Uniti, questo paese non sarà più tra quelli che si collocano in cima ad una graduatoria accettabile che va dai paesi democratici a quelli meno democratici. In altre parole, non saranno più una democrazia. […] senza denominazioni adeguate siamo facilmente portati ad una eccessiva semplificazione, che ci induce a collocare i regimi in due categorie onnicomprensive: quella dei paesi ‘democratici’ e quella dei paesi ‘non democratici’, una ‘buona’ e l’altra, semplicemente, ‘cattiva’ o ‘negativa’». Cfr. R.A. Dahl, Cos’è la democrazia nell’età dell’emergenza, in «Forum», XIII (2007), n. 12, pp. 60-63, specie pp. 62-63. 11 Una rassegna delle diverse posizioni emerse è svolta, per esempio, da G. Preterossi, I diritti alla prova del ‘politico’, in «Jura Gentium», V (2009), n. 1 [www.juragentium.unifi.it] (marzo 2009). 12 Per un’efficace tipologia dei poteri di emergenza, cfr. P. Pasquino – J. Ferejon, The Law of the Exception: A Typology of Emergency Powers, in «International Journal of Constitutional Law», 2004, n. 2, pp. 210-239. Forse la trattazione più ambiziosa del tema è stata di recente proposta da Giorgio Agamben nel volume Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; è comunque da notare che, pur riferendosi al dibattito contemporaneo, il testo di Agamben si inserisce nel quadro del ben più ampio progetto Homo sacer, uno dei progetti teorici probabilmente più rilevanti degli ultimi due decenni, che punta a rileggere l’intera riflessione occidentale sulla «politica». In questo senso, tra i capitoli principali dell’operazione sono da ricordare soprattutto: Id., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995, oltre che Id., Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, e Id., L’aperto. L’uomo e l’animale, Torino, Bollati Boringhieri, 2002. Una critica alle posizioni di

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In effetti, proprio perché il tema dello «stato di eccezione» si ripropone nei momenti più drammatici della vita di una comunità, esso è invariabilmente destinato a essere accantonato quando l’emergenza è superata e i pericoli che avevano messo in crisi l’ordine sociale e la sicurezza collettiva sono ormai scongiurati. Non è dunque fortuito che le misure adottate dopo l’11 settembre 2001 abbiano indotto giuristi, politologi e filosofi della politica a rivolgere l’attenzione verso un nodo trascurato – almeno nel contesto nord-americano – per almeno mezzo secolo. Anche per gli Stati Uniti, non si tratta però di un dibattito totalmente nuovo, perché nella storia costituzionale americana dell’Ottocento possono essere individuati addirittura tre diversi modelli relativi alla gestione costituzionale dell’emergenza13. Un primo modello, ascrivibile a Thomas Jefferson, ritiene sostanzialmente impossibile la previsione costituzionale dell’emergenza e, per questo, reputa possibile solo una ratifica a posteriori di un atto compiuto dalle autorità politiche al di fuori della legge; un secondo modello, attribuibile ad Alexander Hamilton, considera invece l’esecutivo come dotato di «poteri impliciti», che lo autorizzano a tutelare l’interesse nazionale anche in tempi di grave crisi; infine, il terzo modello – le cui tracce sono ravvisabili nella condotta tenuta da Lincoln durante la Guerra Civile (e in particolare nell’autorizzazione alla sospensione del writ of Habeas Corpus nell’area compresa fra Filadelfia e New York) – afferma che, in assenza di esplicita previsione costituzionale, i cosiddetti «poteri inerenti» (relativi, cioè, al mantenimento della sicurezza dell’ordine costituito) spettino all’esecutivo. Questo terzo modello sembra introdurre «un principio non scritto di teoria costituzionale, in grado di orientare l’interpretazione di specifiche disposizioni o di stabilire quali di queste debbano essere applicate e in quali modi», e, in effetti, procedendo in una simile direzione, Lincoln – come ha rilevato Marco Goldoni – «innesta nella teoria costituzionale il principio secondo il quale la sicurezza e la sopravvivenza della nazione devono costituire un criterio guida, fino al punto Agamben è stata avanzata, con riferimento proprio allo «stato di eccezione», da F. Johns, Guantànamo Bay and the Annihilation of the Exception, in «European Journal of International Law», XVI (2005), pp. 613-635. 13 Per questa distinzione, si veda M. Goldoni, La repubblica delle emergenze. Il dibattito sui poteri eccezionali nel costituzionalismo americano, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XXXV (2007), n. 2, pp. 425-453, in particolare pp. 431-437, ma, più in generale, per una ricostruzione del dibattito sui poteri d’emergenza nella storia del costituzionalismo americano, cfr. G. Dennison, Martial Law: The Development of a Theory of Emergency Powers 1776-1861, in «American Journal of Legal History», 1974, n. 18, pp. 52-79; C. Fatovic, Constitutionalism and Presidential Prerogative: Jeffersonian and Hamiltonian Perspectives, in «American Journal of Political Science», 2004, n. 3, pp. 429-444; S. Vladeck, Emergency Powers and the Militia Acts, in «Yale Law Journal», CXIV (2004), pp. 151-161.

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di assurgere a dispositivi ermeneutici che impediscono l’interpretazione di singole clausole contro la Costituzione»14. Proprio i rischi impliciti in questo terzo modello hanno finito con l’essere riproposti dal Patriot Act, per il semplice motivo che una soluzione riconducibile al modello lincolniano assegna all’esecutivo i «poteri inerenti», necessari alla tutela della sicurezza collettiva, ma non difende certo dall’eventualità che quell’emergenza venga dilatata in tempi tanto lunghi da configurare una sorta di emergenza permanente15. E un’eventualità di questo tipo è ovviamente ancor più tangibile nel caso in cui l’emergenza non sia rappresentata da una ribellione o da un’invasione militare, ma dal rischio costante di attacchi portati da un nemico ‘invisibile’ e – tendenzialmente – sempre pronto a colpire. Inoltre, l’attacco sul territorio americano – come ha ricordato John Lewis Gaddis – non rappresenta un elemento del tutto inedito nella storia degli Stati Uniti, ed è persino possibile individuare una linea di continuità (seppur piuttosto labile) nella riposta a questo genere di minacce16. I pochi precedenti – l’attacco inglese a Washington, culminato nell’incendio del Campidoglio e della Casa Bianca (24 agosto 1814), e l’attacco giapponese a Pearl Harbour (7 dicembre 1941) – presentano però caratteristiche molto diverse da quelle dell’11 settembre 2001: innanzitutto, sono entrambi configurabili come episodi di un conflitto bellico di tipo tradizionale, che oppone fra loro soggetti statali, e, in secondo luogo, l’elemento del terrore appare tutto sommato secondario o comunque complementare all’effettivo svolgimento delle operazioni militari. Al contrario, gli attacchi del 2001 si presentano come episodi di una violenza non certo riconducibile alla forma classica della guerra fra Stati sovrani e, inoltre, in quanto eventi terroristici – espressioni di un «costrutto simbolico» difficilmente inscrivibile all’interno di ben precise coordinate definitore17 – suggeriscono l’idea di un conflitto 14

M. Goldoni, La repubblica delle emergenze, cit., p. 436. «La questione sulla natura dei poteri d’emergenza e la loro titolarità», ha osservato ancora Goldoni, «coinvolge una visione della teoria costituzionale che eccede il problema della disciplina dell’emergenza; in effetti, rischiano di essere revocati in dubbio gli assetti e gli equilibri del costituzionalismo americano nel momento in cui si attribuisce la competenza di sospensione dell’Habeas corpus (storicamente concepito per tutelare gli individui dagli abusi del potere esecutivo) al Presidente (ovvero allo stesso potere dal quale le persone dovrebbero essere protette)», tanto che «la gestione dell’emergenza viene disciplinata da una legge non scritta del costituzionalismo che prevede una serie di misure essenziali per la salvezza dell’ordine costituito» (ivi, pp. 436-437). 16 Cfr. J.L. Gaddis, Attacco a sorpresa e sicurezza: le strategie degli Stati Uniti, Milano, Vita e Pensiero, 2005 (ed. or. Surprise, security and the American experience, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2004). 17 Su queste difficoltà, si vedano, per esempio, L. Bonanate (a cura di), Dimensioni del ter15

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non certo limitato (e limitabile) nel tempo e nello spazio, ma piuttosto diretto contro forze oscure e invisibili, presenti sia all’interno sia all’esterno dei confini nazionali. Soprattutto per questi caratteri, dunque, il dibattito sullo stato di emergenza (e sui suoi limiti) ha imboccato un sentiero differente rispetto al passato, proponendo anche una serie di interrogativi in larga parte (se non totalmente) nuovi18. L’esempio quasi paradigmatico della deriva cui ha condotto la discussione, sull’onda del trauma collettivo seguito agli attentati, è probabilmente rappresentato dalle posizioni di Alan Dershowitz, il quale ha sostenuto la legittimità del ricorso alla tortura nel caso in cui esistano fondati sospetti dell’imminenza di un attacco terroristico19. Le tesi di Dershowitz hanno innescato – non solo nel campo dei cultori delle scienze giuridiche – una discussione animata, che ha visto come protagonisti intellettuali abitualmente lontani dagli eccessi della retorica dei neo-conservatori, e che ha così fornito, probabilmente, una delle più eloquenti testimonianze dello shock subito dall’opinione pubblica americana20. Pur respingendo l’utilizzo della tortura (seppur disciplinata giuridicamente), anche Bruce Ackerman, nel suo saggio su The Emergency Constitution, ha per esempio sostenuto la necessità di ripensare l’intero sistema di check and balances alla luce delle specificità di una minaccia che, come quella terroristica, non è riconducibile né alla situazione di guerra, né alla proliferazione di gruppi criminali21. rorismo politico. Aspetti interni e internazionali, politici e giuridici, Milano, Franco Angeli, 1979; Id., Terrorismo politico, in N. Bobbio – N. Matteucci – G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Torino, Utet, 1983, pp. 1186-1189; Id., Terrorismo internazionale, Firenze, Giunti, 2001, Id., La politica internazionale fra terrorismo e guerra, Roma – Bari, Laterza, 2004; Id., Il terrorismo come prospettiva simbolica, Torino, Aragno, 2006; M. Fossati (a cura di), Terrorismo e terroristi, Bruno Mondadori, Milano, 2003; C. Townshend, La minaccia del terrorismo, Bologna, Il Mulino, 2004 (ed. or. Terrorism. A Very Short Introduction, Oxford, Oxford University Press, 2002); R. Thachrah, Terrorism: A Definitional Problem, in P. Wilkinson – A.M. Stewart, Contemporary Research on Terrorism, Aberdeen, Aberdeen University Press, 1987, pp. 24-41. 18 Una sintesi delle nuove problematiche è offerta, per esempio, da G. Borgognone, Dopo l’11 settembre: lo «stato d’eccezione» della democrazia americana, in V. Coralluzzo (a cura di), Democrazie tra terrorismo e guerra, Milano, Guerini, 2008, pp. 67-89. 19 A. Dershowitz, Terrorismo, Roma, Carocci, 2003 (ed. Why Terrorism Works. Understanding the Threat, Responding to the Challenge, New Haven, Yale University Press, 2002). 20 Esempio significativo del dibattito è il volume di S. Levinson (ed.), On Torture, Cambdridge (Mass.), Harvard University Press, 2004. 21 Cfr. B. Ackerman, La costituzione di emergenza, Roma, Meltemi, 2004 (ed. or. The Emergency Constitution, in «Yale Law Journal», CXIII (2004), pp. 1029-1091), e Id., Prima del prossimo attacco. Preservare le libertà civili in un’era di terrorismo globale, Milano, Vita e Pensiero, 2008 (ed. or. Before the Next Attack, Preserving Civil Liberties in an Age of Terrorism, New Haven, Yale University Press, 2006). Una posizione diversa, non del tutto ostile alla tortura, è invece sostenuta da O. Gross, Are Torture Warrants Warranted? Pragmatic Absolutism and Official Disobedience, in

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È per molti versi questo lo scenario teorico in cui hanno preso forma le conferenze ‘Gifford’, tenute da Michael Ignatieff nel gennaio 2003 presso l’Università di Edimburgo, e ulteriormente sviluppate nel saggio su Il male minore, un saggio esplicitamente centrato – come recita il sottotitolo – sull’Etica politica nell’era del terrorismo globale22. Timothy Garton Ash ha definito Ignatieff come un «intellettuale impegnato, uno spectator engagé», il cui lavoro «si è sempre collocato a cavallo tra la filosofia morale e la politica», ma che negli ultimi anni – in particolare dopo il 1989 – si è sempre più intensamente dedicato a un’appassionante «indagine su nazionalismo e cittadinanza, sul ruolo dei media, sui diritti civili e umani, sulla natura della guerra moderna e, non ultimi, sui criteri del cosiddetto ‘intervento umanitario’»23. Le riflessioni raccolte nel Male minore rappresentano, per molti versi, l’ulteriore capitolo dell’indagine condotta dall’intellettuale canadese: un’indagine che si colloca all’interno di un’articolata carriera accademica, intellettuale e politica24, i cui «Minnesota Law Review», LXXXVIII, (2004), pp. 1526-1535. Per una ricostruzione delle posizioni principali del dibattito (e delle premesse teoriche di Ackerman), cfr. M. Goldoni, La repubblica delle emergenze, cit., e Id., La Costituzione rassicurante. Nota critica sulla teoria dei poteri d’emergenza di Bruce Ackerman, in «Teoria politica», XXIII (2007), n. 3, pp. 67-86, ma anche T. Groppi, «We the People: Transformations». Considerazioni sopra un libro di Bruce Ackerman, in «Politica del diritto», 1999, n. 2, pp. 187-212; B. Casalini, Costituzionalismo e democrazia in Bruce Ackerman, in «Filosofia e questioni pubbliche», 2000, pp. 209-228; R. Bin, Prefazione, in B. Ackerman, Prima del prossimo attacco, cit., pp. VII-XI. In materia di tortura, Matthew Evangelista nota che «la politica americana ufficiale a tutt’oggi resta quella di una rinuncia formale alla tortura come metodo d’interrogatorio e di un impegno a perseguire coloro i quali risultano colpevoli di aver fatto ricorso a questa pratica», anche se, «allo stesso tempo, il governo Bush prova a escludere i funzionari della Cia dalle restrizioni legali all’uso della tortura». Cfr. M. Evangelista, Il diritto bellico ai tempi del terrore, in «Biblioteca della libertà», XLI (2006), n. 182, pp. 39-53, specie p. 50. 22 M. Ignatieff, Il male minore. L’etica politica nell’era del terrorismo globale, Milano, Vita e Pensiero, 2006 (ed. or. The Lesser Evil. Political Ethics in an Age of Terror, Princeton, Princeton University Press, 2004). 23 T. Garton Ash, Introduzione a Michael Ignatieff, in N. Owen (a cura di), Troppo umano. La giustizia nell’era della globalizzazione, Milano, Mondadori, 2005, pp. 63-64 (ed. or. Human Rights, Human Wrongs, Oxford, Oxford University Press, 2002). 24 Nell’esperienza intellettuale di Ignatieff possono essere individuate, addirittura, tre differenti carriere: la prima si svolge nel Regno Unito per circa vent’anni, durante i quali Ignatieff produce molti dei suoi saggi più noti, ma anche romanzi e sceneggiature, scrivendo sulle principali riviste di critica letteraria e conducendo inoltre programmi televisivi per la Bbc; la seconda carriera inizia nel 2000, quando si trasferisce negli Stati Uniti, dove ricopre la carica di direttore del Carr Center for Human Rights Policy di Harvard; la terza fase ha inizio invece nel 2005, quando abbandona gli Usa per tornare in Canada, dove intraprende una carriera politica che lo conduce rapidamente al vertice del Partito liberale. Cfr. D. Herman, Ignatieff: an intellectual in politics, in «Prospect Magazine», 2009, n. 156 [www.prospect-maga zine.co.uk/2009/03/ignatieffanintellrctualinpolitics/] (marzo 2009).

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frutti più noti – dal punto di vista della riflessione teorica – sono senza dubbio testi come Blood and Belonging, The Warrior’s Honor, Virtual Honour, Human Rights as Politics and Idolatry ed Empire Lite25. Ma, se in questi testi Ignatieff sviluppava le proprie considerazioni partendo dalla «periferia» dell’impero (ossia dagli interventi compiuti a Timor Est, in Kosovo, in Bosnia, in Afghanistan), in Lesser Evil la sua attenzione si spinge a esplorare il nucleo più profondo delle democrazie occidentali e la sfida che ai loro valori di fondo pone non tanto il terrorismo, quanto proprio la lotta contro il terrorismo. Gli interrogativi che stanno alla base del volume sono d’altronde esplicitati fin dalle prime pagine: «Sconfiggere il terrorismo richiede l’uso della violenza. Non solo, può anche comportare coercizione, inganno, segretezza e, persino, violazione di certi diritti. Come possono le democrazie impiegare questi mezzi senza distruggere gli stessi valori per cui si battono? Come possono accettare il male minore, senza soccombere a quello maggiore?»26. Per queste domande cruciali, esistono, come nota Ignatieff, due risposte principali, che assegnano priorità – rispettivamente – alla sicurezza o alla garanzia dei diritti e delle libertà individuali. La prima risposta, infatti, considera non solo giustificabile, ma addirittura necessario, sacrificare le ordinarie garanzie di libertà in presenza di un pericolo straordinario, e appare dunque in sintonia con lo spirito con il quale Lincoln, durante la Guerra Civile, sospese l’habeas corpus. La seconda risposta, al contrario, considera il sacrificio temporaneo delle garanzie liberali come un male addirittura peggiore 25 Cfr. M. Ignatieff, Blood and Belonging. Journeys into the New Nationalism, London, Vintage, 1994; Id., The Warrior’s Honour. Ethnic War and the Modern Conscience, New York, Henry Holt, 1998; Id., Virtual War. Kosovo and Beyond, London, Chatto and Windus, 2000; Id., Una ragionevole apologia dei diritti umani, Milano, Feltrinelli, 2002 (ed. or. Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton, Princeton University Press, 2001); e Id., Impero light. Dalla periferia al centro del nuovo ordine mondiale, Roma, Carocci, 2003 (ed. or. Empire Lite. Nation-building in Bosnia, Kosovo and Afghanistan, London, Vintage, 2003). Tra gli altri testi, cfr. anche Id., Le origini del penitenziario, Milano, Mondadori, 1982 (ed. or. A Just Measure of Pain. Penitentiaries in the Industrial Revolution. 1750-1850, New York, Pantheon, 1978); Id., I bisogni degli altri. Saggio sull’arte di essere uomini tra individualismo e solidarietà, Bologna, Il Mulino, 1986 (ed. or. The Needs of Strangers. An essay on privacy, solidarity, and the politics of being human, New York, Viking, 1984); Id., The Rights Revolution, Anansi, Toronto, 2001; I. Hont – M. Ignatieff (eds.), Wealth and Virtue. The Shaping of Political Economy in the Scottish Enlightenment, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, oltre che i romanzi, M. Ignatieff, Asia, Milano, Mondadori, 1992 (ed. or. Asya, London, Chatto & Windus, 1992); Id., Scar Tissue, London, Chatto & Windus, 1993; Id., After Paradise, London, Chatto & Windus, 1999, la ricostruzione genealogica della propria famiglia, Id., Album russo, Una saga familiare tra rivoluzione, guerra civile ed esilio, Bologna, Il Mulino, 1993 (ed. or. The Russian Album, London, Chatto & Windus, 1987), e la biografia di Berlin: Id., Isaiah Berlin. A Life, Toronto, Penguin, 1997 (tr. it. Isaiah Berlin. Ironia e libertà, Roma, Carocci, 2003). 26 M. Ignatieff, Il male minore, cit., p. 15.

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di quello che si intenderebbe combattere, perché, in sostanza, priverebbe le democrazie liberali di quelle basi che le rendono diverse – e preferibili – rispetto ai loro nemici. Ognuna di queste due posizioni, in una gamma di sfumature estremamente ricca, ha trovato energici alfieri nel corso del dibattito condotto negli Stati Uniti a proposito della lotta al terrorismo e delle sue modalità27. L’obiettivo che Ignatieff si propone consiste invece nel trovare una strada intermedia, una soluzione che, pur prendendo atto delle circostanze straordinarie, non sottovaluti le implicazioni morali della sospensione delle libertà e dei diritti, intesa, appunto, come «male minore». Come scrive, in questo senso, Ignatieff: Ciò che io sostengo è che azioni come la tortura, la privazione illegale della libertà personale e l’omicidio, in quanto violazioni di quegli stessi principi di giustizia e dignità su cui si fondano le democrazie, dovrebbero essere considerate inammissibili. Definire in linea teorica i limiti da rispettare non è difficile; il problema sta nel proteggerli nella pratica, mantenendosi entro i limiti stabiliti, caso per caso, quando sorgano fondati disaccordi su che cosa costituisca tortura, quali detenzioni siano illegali, quali uccisioni siano in realtà omicidi e quali interventi preventivi costituiscano un’aggressione. Né le riflessioni sulla necessità di garantire la pubblica sicurezza, né il desiderio di salvaguardare la libertà e i diritti privati possono sciogliere il dilemma in un senso o nell’altro. Dal momento che in una sana democrazia vi sarà sempre disaccordo tra queste posizioni, è fondamentale concordare almeno sul procedimento di pubblico dibattimento critico che decide tali questioni. Quando in una democrazia emerge un disaccordo sulla sostanza bisogna trovare l’accordo sulla procedura, così che la democrazia sia al riparo tanto dai nostri nemici, quanto dal nostro zelo28.

Proprio al principio del volume, mentre sviluppa la tesi al cuore del lavoro, Ignatieff si interroga in modo specifico sul limite morale che una 27 Nel folto dibattito, possono tra l’altro essere ricordati testi come quelli di J.B. Elshtain, Just War against Terror. The Burden of American Power in a Violent War, New York, Basic Books, 2003; B.R. Barber, L’impero della paura. Potenza e impotenza dell’America nel nuovo millennio, Torino, Einaudi, 2004 (ed. or. Fear’s Empire. War, Terrorism and Democracy in an Age of Interdipendence, New York, Northon, 2003); C.A.J. Coady, Terrorism, Moralilty, and Supreme Emergency, in «Ethics», CXIV (2004), pp. 772-781; D. Cole, Enemy Aliens. Double Standards and Constitutional Freedoms in the War on Terrorism, New York, New Press, 2003; S.J. Schulhofer, The Enemy Within: Intelligence Gathering, Law Enforcement and Civil Liberties in the Wake of September 11, New York, Century Foundation Press, 2002; R. Posner, Law, Pragmatism, and Democracy, Cambridge, Harvard University Press, 2003; R. Dworkin, Terror and the Attack on Civil Liberties, in «New York Review of Books», 6 novembre 2003. Una ricostruzione complessiva è inoltre svolta, in chiave critica, dal recente lavoro di M. Evangelista, Law, Ethics, and the War on Terror, Cambridge, Polity Press, 2008. 28 M. Ignatieff, Il male minore, cit., pp. 16-17.

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comunità democratica deve rispettare anche quando viene messa in pericolo la sua stessa sopravvivenza. Le difficoltà sono ovviamente notevoli, dalla necessità di agire con urgenza (e dunque con tempi incompatibili con le procedure democratiche), alla stessa interpretazione dei rischi effettivi e delle loro possibili conseguenze. Tali questioni non sono forse particolarmente problematiche se riferite a un’immagine della democrazia puramente maggioritaria, ossia – in termini lincolniani – a una democrazia che corrisponde al «governo del popolo, dal popolo, per il popolo», ma lo diventano molto di più se invece si intende la democrazia, in chiave liberale, anche come insieme di garanzie che tutelano i diritti e danno la possibilità agli individui di vivere con dignità. E, in effetti, è proprio questo secondo tipo di democrazia che può essere messo in questione dalle necessità dell’emergenza, perché, in simili casi, le misure adottate possono andare ad annullare le garanzie della dignità umana. Il punto che Ignatieff sottolinea, a questo proposito, non è che le democrazie non devono commettere violazioni della libertà e dei diritti individuali, ma è piuttosto il carattere inevitabile – nelle circostanze dell’emergenza – della violazione: per questo, il problema diventa allora saper riconoscere quelle violazioni come veri e propri «mali minori», valutando se non possano diventare invece «mali maggiori»: Nella guerra contro il terrore, il punto essenziale non è se non possiamo evitare atti malvagi in quanto tali, ma se siamo capaci di scegliere i mali minori evitando che diventino maggiori. La mia tesi è che dovremmo farlo ponendoci alcuni obiettivi di base – il principio di conservazione (mantenere libere le nostre istituzioni) e il principio di dignità (tutelare gli individui da danni irreparabili) – per poi ragionare sulle conseguenze delle diverse strategie d’azione, prevedendo, per quanto possibile, i danni e giungendo a formulare un giudizio razionale su quale sia la linea di condotta capace di produrre i danni minori ai due princìpi di cui sopra. Solo quando si giunge alla conclusione che una determinata misura coercitiva è l’ultima risorsa a disposizione ed è giustificata dagli eventi, possiamo essere sicuri di aver scelto il male minore e abbiamo il dovere di restarvi fedeli anche se il prezzo delle nostre azioni si rivela più alto del previsto29.

All’interno di un ragionamento che si propone esplicitamente come «antiperfezionista»30, Ignatieff propone sei «controprove», e cioè sei distinti 29

Ivi, pp. 45-46. Se la dottrina del «perfezionismo morale», osserva Ignatieff, «afferma che uno Stato liberale non dovrebbe mai avere a che fare con strumenti di dubbia moralità, risparmiando ai propri servitori l’azzardo morale di dover decidere tra mali minori e maggiori», «una moralità fondata sul fatto che il male minore è preferibile è per sua natura antiperfezionista»: 30

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argomenti che dovrebbero essere presi in considerazione per valutare se, effettivamente, il «male minore» non finisca col diventare un «male maggiore»: 1) l’esame della dignità, che consiste nel chiedersi se le misure adottate violino la dignità individuale, perché «un impegno fondamentale contro la violazione dei diritti umani dovrebbe sempre impedire punizioni crudeli o ingiuste, tortura, asservimento, esecuzioni extragiudiziarie e trasferimento in Paesi dove questi diritti non vengono rispettati»31; 2) l’esame della tradizione, che implica un confronto con la precedente esperienza, in modo da valutare se la sospensione di determinate garanzie sia effettivamente necessaria; 3) l’esame delle conseguenze, secondo il quale è necessario valutare le misure adottate in relazione alle conseguenze che effettivamente producono in vista di una maggiore protezione della sicurezza dei cittadini; 4) l’esame dell’ultima istanza, che impone di utilizzare la sospensione delle garanzie solo quando siano già state battute tutte le altre strade disponibili; 5) l’esame della pubblicità, che si sofferma sull’esame pubblico, presso le assemblee elettive e le sedi giudiziarie, delle misure eccezionali; 6) l’esame degli obblighi internazionali, che impone di considerare le azioni intraprese alla luce degli obblighi internazionali, cioè, «rispettando gli impegni assunti e tributando la necessaria attenzione ai propri alleati e amici»32. Ognuno di questi nodi viene considerato in profondità da Ignatieff, con argomentazioni che affrontano con equilibrio la specificità di ciascuna problematica e la consapevolezza dell’inevitabile drammaticità delle scelte compiute in condizioni di emergenza. Al fondo di tutte le considerazioni del Male minore, affiora però, pagina dopo pagina, con sempre maggiore chiarezza, un comune sostegno teorico, che per molti versi testimonia, al tempo stesso, la debolezza e la forza della posizione di Ignatieff.

«accetta come invitabile che, in determinate circostanze, non si possano salvare vite umane senza uccidere altri individui; come sia impossibile preservare sempre la totale pubblicità degli atti di governo in democrazia e la completa trasparenza delle operazioni anti-terroristiche; come non sia auspicabile impedire a tutti gli agenti delle democrazie di usare l’inganno e la perfidia nella loro attività; come non si possa preservare la libertà della maggioranza senza sospenderne alcune delle libertà delle minoranze; come non sia possibile anticipare conseguenze di atti terribili compiuti con buone intenzioni e così via. Tuttavia, questi dilemmi non rendono le riflessioni etiche irrilevanti, ma, al contrario, accrescono l’importanza del realismo etico nella formulazione di sane politiche pubbliche» (ivi, p. 48). 31 Ivi, p. 52. 32 Ivi, p. 53.

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2.2 La tentazione nichilista delle democrazie Se, in termini generali, lo «stato di emergenza» configura sempre una sospensione delle garanzie giuridiche ordinarie, non tutte le «emergenze» possono essere collocate sullo stesso piano, e, soprattutto, non tutte le manifestazioni del «terrorismo» sono riconducibili al medesimo tipo di «minaccia». Per questo motivo, il corpo centrale del volume di Ignatieff è dedicato a distinguere fra loro i vari tipi di minaccia, nel tentativo di individuare i tipi di risposta più adeguati. In particolare, l’autore del Male minore distingue sei tipi di terrorismo, le cui caratteristiche sono spesso molto diverse: 1) il terrorismo insurrezionalista; 2) il terrorismo individuale o monocausale; 3) il terrorismo di liberazione nazionale; 4) il terrorismo separatista, condotto da gruppi etnici o religiosi all’interno di uno Stato; 5) il terrorismo di occupazione, impegnato a respingere una forza di occupazione militare; 6) il terrorismo globale, «volto a infliggere danni e umiliazioni a una potenza globale»33. Con il primo tipo di terrorismo – quello insurrezionalista – si è in presenza di una sorta di simulazione di «guerra civile», e cioè di una guerra condotta all’interno dei confini di uno Stato, fra i suoi cittadini, divisi da differenti appartenenze politiche, e proprio in una simile situazione può farsi strada la tentazione di ridurre gli spazi di democrazia e di imboccare, così, una deriva autoritaria. Per le democrazie, i rischi che provengono dal terrorismo, avverte Ignatieff, non sono soltanto – e forse neppure in modo prevalente – quelli che derivano dalle minacce portate alla sicurezza nazionale, perché il terrorismo giunge a mettere a repentaglio soprattutto i valori che stanno alla base della convivenza della democrazia e dello Stato. In effetti, Ignatieff segnala come le democrazie tendano, per così dire, a sopravvalutare il rischio proveniente dal terrorismo, scivolando in una sorta di eccesso di reazione che finisce col mettere a rischio i diritti individuali. I casi evocati, in questa direzione, sono d’altronde estremamente significativi delle derive che la retorica dell’emergenza può favorire. Il «Terrore Rosso» del 1919 – che, negli Stati Uniti, in nome della sicurezza nazionale, portò all’arresto di cinquemila stranieri e all’espulsione di molti di loro, accusati di essere a capo di un’organizzazione sovversiva mirante a scatenare un movimento rivoluzionario – costituisce un’esemplificazione quasi paradigmatica, ma Ignatieff considera quelle misure eccessive, anche se giustificate, perché i responsabili della sicurezza nazionale non erano a conoscenza del potenziale – in realtà piuttosto scarso – delle forze insurrezionali. «Si apprese solo successivamente», scrive, «che il radicalismo comunista non rappresentava 33

Ivi, p. 128.

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un pericolo grave e immediato per gli Stati Uniti», ma, in ogni caso, «se considerata dal punto di vista dell’epoca, la minaccia era effettiva e le misure assunte possono essere considerate eccessive o illiberali solo se esaminate alla luce delle successive rivelazioni che provano come la minaccia fosse in realtà minima»34. Gli attentati dell’11 settembre paiono profilare una dinamica almeno per alcuni aspetti simile, ma anche in questo caso, secondo Ignatieff, gli Stati Uniti sembrano essersi tenuti lontani da quelli che sono i rischi peggiori che le democrazie liberali corrono affrontando le emergenze terroristiche, ossia, la limitazione delle libertà politiche, per un verso, e, per un altro, la sospensione dei diritti civili. «Dopo l’11 settembre», osserva, «non si è verificata alcuna contrazione dei diritti di democrazia negli Stati Uniti, e non vi è ragione di ritenere che ve ne saranno in futuro», anche se «i diritti degli stranieri, dei combattenti nemici e dei sospetti di legami terroristici sono stati ridotti»35. Altri esempi, in contesti molto diversi, mostrano invece come le conseguenze dell’emergenza possano andare ben oltre. I regimi messi in crisi dal terrorismo furono (anche) regimi politici che, di fronte all’emergenza (ma 34

Ivi, pp. 96-97. Come rileva Ignatieff, a proposito del Terrore Rosso, che portò fra il 1919 e il 1920 all’arresto di circa cinquemila stranieri e all’espulsione di molti di loro, «la situazione presentava cinque elementi all’epoca assai poco frequenti: 1. un movimento rivoluzionario internazionale; 2. attività terroristica interna; 3. organizzazioni politiche create da stranieri; un alto tasso di disoccupazione e grande insicurezza economica dopo la guerra; 5. una restrizione delle libertà civili analoga a quella dei periodi di guerra» (ivi, p. 95). La decisione del ministro della Giustizia Mitchell Palmer di incarcerare migliaia di persone viene dunque inquadrata in un contesto politico tale da giustificare – agli occhi di Ignatieff – la sospensione delle garanzie costituzionali, non perché vi fosse un rischio reale, ma perché i motivi che inducevano a sospettare l’esistenza di un progetto insurrezionale erano fondati: «le misure attuate dal ministro della Giustizia godevano di consenso pressoché universale: la maggioranza democratica lo appoggiava con fermezza e gli stessi liberali non sollevarono critiche se non molto tardi nella fase di emergenza. Ciò non implica che la maggioranza avesse ragione: l’isteria non cessa di essere irrazionale solo perché colpisce tutti. Ma ci ricorda che – anche se in epoche successive le misure assunte durante un’emergenza terroristica appaiono eccessive o innecessarie – questo non significa che esse fossero ingiustificate durante i momenti di crisi. Palmer e Hoover non erano a conoscenza di ciò che oggi sappiamo, e affermare che essi lo fossero e che abbiano proseguito comunque nelle loro politiche – perché desideravano dare un colpo mortale al radicalismo per ragioni personali – è una supposizione impossibile da provare. È senz’altro vero che le energiche persecuzioni delle opinioni radicali e comuniste compiute da Palmer costituirono un freno cruciale allo sviluppo dei movimenti di sinistra radicale negli Stati Uniti. Ma queste conseguenze non sono certo una prova delle reali intenzioni di coloro che, nel 1919, si trovarono a rispondere a un’evidente minaccia terroristica. Quali che fossero i secondi fini di Palmer e Hoover, il terrorismo non era un semplice pretesto» (ivi, pp. 96-97). Sul «Red Scare», cfr. R.K. Murray, Red Scare. A Study in National Hysteria (1919-1920), New York, MacGraw Hill, 1955. 35 M. Ignatieff, Il male minore, cit., pp. 100-101.

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anche dinanzi a una condizione di forte crisi economica), imboccarono la strada di una riduzione delle libertà individuali e dei diritti politici: la Russia zarista, la Repubblica di Weimar, l’America Latina del XX secolo. La democrazia, invece, è sopravvissuta al terrorismo in Israele, Italia, Germania, Gran Bretagna e Spagna, anche se – nota Ignatieff – in tutti questi casi i diritti politici sono usciti fortemente provati dall’offensiva contro-terrorista36. Il rapido esame condotto da Ignatieff, relativo soprattutto alle democrazie liberali della seconda metà del Novecento, può essere considerato, in parte, come una severa confutazione dell’ipotesi che muove l’azione terroristica. Nella gran parte dei casi, infatti, il terrorismo e l’«emergenza» hanno rafforzato l’unità nazionale attorno alle forze politiche al governo, indebolendo invece – spesso in misura notevole – le forze radicali di opposizione. Da questo punto di vista, dunque, i pericoli per la democrazia non arrivano dall’effettiva minaccia costituita dalla trasformazione del terrorismo in una vera e propria guerriglia insurrezionale. I rischi giungono invece, non senza paradossi, dalla risposta che le democrazie possono dare al terrorismo. D’altro canto, la possibilità che le democrazie imbocchino la strada dell’inasprimento delle misure di polizia e del restringimento degli spazi di libertà rientra tra gli stessi obiettivi dei terroristi, all’interno di quella logica che – utilizzando una formula tanto usurata quanto efficace – sostiene che il «tanto peggio», ossia il peggioramento delle condizioni di democraticità di un Paese, si riveli in fondo «tanto meglio», e cioè un miglioramento delle condizioni in cui diffondere il movimento insurrezionale. Proprio in relazione a questo obiettivo, Ignatieff sostiene che evitare derive illiberali costituisce il primo strumento per sconfiggere la minaccia terrorista. «Se una 36 Nel suo esame, in questo caso piuttosto approssimativo, Ignatieff colloca Italia e Germania più o meno sullo stesso piano, principalmente perché entrambe furono sottoposte negli anni Settanta all’attacco di formazioni terroristiche di estrema sinistra, da cui riuscirono però a difendersi: «durante gli anni ’70», scrive, «in Italia e in Germania i terroristi montarono un assalto in piena regola contro il sistema di democrazia liberale, cercando di impedire l’inserimento pacifico dei comunisti e dei socialisti radicali all’interno delle modalità parlamentari di partecipazioni politica»; ma – precisa – «la strategia non ebbe successo: i terroristi, che avevano sperato di attrarre gli operai, gli intellettuali e gli studenti, portandoli a marciare nelle strade all’indomani di questi atti di violenza contro le democrazie liberali, finirono morti o rinchiusi in prigione. La democrazia italiana e tedesca sopravvissero, e oggi i terroristi non sono ricordati come martiri, ma come criminali» (ivi, pp. 112-113). Per un esame di questi nodi, dal punto di vista costituzionalistico, cfr. le considerazioni di P. Bonetti, Terrorismo, emergenza e costituzioni democratiche, Bologna, Il Mulino, 2006, mentre, per una comparazione fra il caso italiano e quello tedesco, cfr. D. della Porta, Social Movements, Political Violence, and the State: A Comparative Analysis of Italy and Germany, Cambridge, Cambridge University Press, 1995; D. della Porta – H. Reiter (a cura di), Policing Protest: The Control of Mass Demonstrations in Western Democracies, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1998.

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battaglia contro il terrorismo è essenzialmente politica», scrive l’intellettuale americano, «il miglior modo per vincerla è mantenersi a un livello morale superiore», rifiutando, cioè, di collocarsi sullo stesso livello morale degli avversari, perché «in una guerra contro il terrorismo, un solo nemico può sconfiggere uno Stato democratico: se stesso»37. Esiste dunque una linea precisa oltre la quale le democrazie non possono spingersi nel combattere la minaccia terroristica e le situazioni di «emergenza»: La capacità di mantenersi a un livello morale superiore rispetto al nemico dipende dal saper riflettere con chiarezza sui rischi cui si è esposti. Politiche pubbliche sane devono tenere conto della storia: è importante comprendere ciò che il passato ci racconta riguardo la capacità delle democrazie liberali di affrontare il terrore senza mettere a rischio la propria costituzione. La storia è una guida essenziale: perché non esiste alcun esempio di democrazia liberale prostrata da sfide terroristiche, non c’è ragione di accettare come necessario l’abbandono dei principi di dignità, di uguaglianza e di conservazione dell’ordinamento38.

Il varo di leggi contro il terrorismo e la creazione di reparti speciali possono, per esempio, aprire zone di incertezza e impunità all’interno del tessuto costituzionale, come mostrano il caso del Berufsverbot nella Rft degli anni Settanta o il caso della Gal nella Spagna degli anni Ottanta. Dinanzi a simili rischi, Ignatieff non propone, in realtà, soluzioni particolari, ma semplicemente la conservazione di un sistema di check and balances in grado di impedire che le democrazie fuoriescano dal binario delle garanzie liberali. Come scrive, infatti: Abbiamo bisogno di giudici che capiscano che la sicurezza nazionale non implica carta bianca per l’abrogazione dei diritti costituzionali; di media 37

M. Ignatieff, Il male minore, cit., p. 103 Ibid. L’esempio più significativo cui ricorre Ignatieff è probabilmente quello del conflitto israelo-palestinese, in cui, pur dinanzi a una sfida estrema e a una sorta di «politica della disperazione», Israele non ha abbandonato la democrazia: «nonostante tutte queste difficoltà, la democrazia in Israele sopravvive alla prova. Il terrorismo ha prodotto danni terribili, sgretolando l’economia e costringendo un’intera soscietà a distogliere risorse dallo sviluppo economico per destinarle alla sicurezza e alla difesa: mentre il gettito fiscale andrebbe speso per ospedali, strade e scuole, una gran parte deve essere destinata al rafforzamento della sicurezza garantita dai servizi segreti e dagli apparati militari. Ciò nonostante, Israele non ha ceduto, né si è trasformata da sistema politico democratico in regime autoritario. Le elezioni nazionali si sono tenute anche in momenti di grave emergenza e i cambiamenti di governo sono avvenuti pacificamente» (ivi, p. 112). A proposito del caso israeliano, cfr. C. Klein, Is There a Case for Constitutional Dictatorship in Israel, in R. Cohen-Almagor (ed.), Challenges to Democracy. Essays in Honour of Isaiah Berlin, Darthmouth, Ashgate, 2002, pp. 157-167. 38

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indipendenti che rendano pubbliche anche le informazioni che il governo preferirebbe modificare o nascondere sotto la copertura di operazioni di sicurezza; e di un parlamento che non consenta a presunte questioni di sicurezza nazionale di impedirgli di svolgere la propria funzione di supervisore del potere esecutivo. Se il sistema di pesi e contrappesi continua a funzionare con efficacia, e cioè se le autorità continuano a essere sottoposte al vaglio del pubblico dibattito critico, non c’è ragione di temere che una guerra contro il terrorismo ci condurrà a tradire i valori per cui combattiamo39.

Diverse sono invece le peculiarità degli altri tipi di terrorismo, e, in particolare, del terrorismo di liberazione nazionale, di quello separatista e di quello globale. Il «terrorismo solitario o monocausale» non è considerato estesamente dall’intellettuale canadese, che, a questo proposito, si limita a osservare il ruolo fondamentale che gioca l’opinione pubblica. «L’unica difesa di una società contro il terrorismo solitario è riunirsi intorno alle proprie istituzioni e convincere gli altri potenziali terroristi che gesti simili possono essere compiuti solo da squilibrati isolati dal mondo», e, scrive, un obiettivo di questo tipo può essere raggiunto «solo se una società democratica sa persuadere la maggioranza dei suoi stessi membri che appositi meccanismi costituzionali per la risoluzione delle controversie pubbliche esistono e funzionano, e che coloro che utilizzano la violenza in democrazia lo fanno in modo illegittimo»40. Gli altri tipi di terrorismo presentano invece caratteristiche più articolate, che rendono la risposta delle democrazie molto più complessa. Se il terrorismo solitario – esemplificato dall’attentato antigovernativo di Oklahoma City – sembra rappresentare esplicitamente una negazione di quegli elementi su cui si basano le democrazie liberali (come, per esempio, il rispetto della vita), qualcosa di differente avviene per le altre forme di terrorismo, e in particolare per il terrorismo di liberazione anti-coloniale e per quello di resistenza all’occupazione da parte di truppe militari straniere. In tali casi, infatti, il terrorismo si richiama a quegli stessi principi che stanno alla base delle democrazie, e in primo luogo al principio di autodeterminazione dei popoli. Proprio questo principio è utilizzato, per 39

M. Ignatieff, Il male minore, cit., p. 126. Ivi, p. 131. Quando Ignatieff considera questo tipo di azione terroristica evoca gli esempi dell’attacco condotto da Timoty McVeigh a Oklahoma City, contro un palazzo federale, degli attentati dinamitardi perpetrati da attivisti anti-abortisti e anche dell’attentato del gruppo Aum Shinrikyo nella metropolitana di Tokyo. E, in questo senso, osserva: «data la varietà di posizione minoritarie che non hanno alcuna possibilità di successo politico nella società, il rischio di violenza ai fini politici non è mai assente negli ordinamenti democratici, soprattutto se una certa cultura politica estremista incoraggia coloro che si muovono ai margini del sistema a credere […] che l’‘estremismo a difesa della libertà non è un peccato’» (ivi, p. 129) 40

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esempio, per legittimare le azioni terroristiche nella guerra d’indipendenza algerina, la causa palestinese in Israele, o l’azione delle Tigri Tamil in Sri Lanka. In simili contesti, gli obiettivi delle azioni terroristiche hanno infatti obiettivi politici ben precisi, come la liberazione del territorio da potenze coloniali o l’affermazione dei diritti di etnie discriminate41. Ignatieff non legittima totalmente l’azione di questi terroristi, ma introduce un criterio di fondo con cui distinguere fra azioni terroristiche ‘giustificabili’ e azioni terroristiche che invece non appaiono tali. Il criterio chiama in causa due regole stabilite dalla dottrina dei diritti umani, ossia «il diritto alla vita» e «l’impegno per l’uguaglianza». In sostanza, da questo punto di vista, «il perseguimento dell’autodeterminazione di un popolo è limitato dai principi dei diritti umani che condannano la violenza e raccomandano rispetto per le rivendicazioni ragionevoli di autodeterminazione promosse da altri»42. In termini più specifici, però, Ignatieff procede verso una trasposizione delle leggi di guerra al campo della guerriglia, nel senso che sono considerate come legittime quelle azioni che colpiscono insediamenti militari e non civili. «È una menzogna relativistica affermare che non c’è distinzione tra queste due tipologie di violenza e che una simile distinzione dipende solo dall’orientamento politico di chi le considera», osserva, e, dunque, «coloro che rispettano queste regole meritano il nome di combattenti per la libertà», 41 In questi casi, scrive Ignatieff, «il terrorismo si configura come una tattica per porre termine al dominio coloniale, all’occupazione straniera o alla negazione dei diritti etnici», e ciò implica una serie di rilevanti difficoltà per quanto riguarda le strategie dei governi: «sono necessari sacrifici politici dolorosi da parte di un governo che restringe i diritti e le rivendicazioni del proprio stesso popolo in modo da raggiungere la pace con il nemico. Tuttavia, alla luce di sacrifici politici di questa natura, il terrorismo può essere sconfitto: il ritiro francese dall’Algeria pose termine agli attacchi terroristici» (ivi, p. 135). 42 Ivi, p. 137. Da questo punto di vista, Ignatieff si richiama soprattutto ad alcuni documenti delle Nazioni Unite, che implicano comunque una posizione ambivalente nei confronti delle rivoluzioni: «Risoluzioni dell’Assemblea Generale formulate negli anni ’60 e ’70 hanno sancito il diritto dei popoli che soffrono a causa di un governo razzista o coloniale, o per via di un’occupazione straniera, a intraprendere tutte le azioni necessarie per ottenere la propria libertà. Ma queste stesse risoluzioni sono anche servite per confermare la sovranità degli Stati che hanno già ottenuto l’indipendenza, in modo da evitare il moltiplicarsi delle istanze rivoluzionarie negli Stati di nuova costituzione in epoca post-coloniale. Dunque, per quanto il diritto internazionale privilegi in modo chiaro la sovranità statuale, esso non nega la legittimità della violenza in casi di occupazione o governo coloniale» (ivi, pp. 141-143). Sulla relazione problematica fra diritti umani e sovranità, cfr. anche le considerazioni svolte da M. Ignatieff, Diritti umani, sovranità e intervento, N. Owen, (a cura di), Troppo umano, cit., pp. 66-102, ma anche T. Honore, The Right of Rebel, in «Oxford Journal of Legale Studies», VIII (1988), n. 1, pp. 34-54; H. Hannum, Autonomy, Sovereignty and Self-Determination, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 1990, oltre alle osservazioni di M. Evangelista, Onu e diritti umani, oltre l’egemonia Usa, in «Vita e Pensiero», XC (2007), n. 2, pp. 10-17.

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mentre «coloro che le ignorano sono terroristi»43. In questo senso, Ignatieff evoca soprattutto la pratica di movimenti di liberazione nazionale che seguivano – nel loro operato – criteri di questo genere: Come era chiaro a Che Guevara e ai leader dei movimenti di liberazione in Angola, Mozambico, Vietnam e in altri Paesi, per ottenere il potere bisogna guadagnarsi il consenso del proprio popolo. Terrorizzare gli informatori e le quinte colonne, così come distruggere i villaggi che non si uniscono alla propria causa o che appoggiano il governo, può generare repulsione morale presso i propri sostenitori e indebolire l’alleanza politica intorno alla propria causa44.

D’altro canto, la possibilità di ottenere un riconoscimento internazionale alla propria lotta costituisce per i terroristi un incentivo a moderare la violenza delle proprie azioni, e, anche per questo, l’apertura di negoziati con le formazioni terroristiche – e, dunque, il riconoscimento politico di queste ultime – può indirizzare verso una pacificazione. In questo caso, però, l’attenzione di Ignatieff è rivolta alla risposta che danno i regimi democratici. «Che cosa trattiene lo Stato dal cadere nella medesima barbarie dei nemici che tenta di distruggere?», si chiede infatti, e l’elemento che individua è ancora una volta il sistema di pesi e contrappesi, con l’obbligo delle autorità politiche di rispondere delle proprie azioni: «la democrazia e l’obbligo di pubblica giustificazione che essa impone a coloro che utilizzano la forza in suo nome»45. Mentre i terroristi non devono rendere conto delle loro scelte, le democrazie sono costrette a farlo, e se ciò, per un verso, può rappresentare un ostacolo nel fronteggiare le emergenze, dall’altro, è però questo elemento a configurare il terrorismo come un «male maggiore»: Il male non consiste nel ricorso alla violenza in sé, in quanto la violenza può essere giustificata come risorsa di ultima istanza in caso di oppressione, occupazione o ingiustizia. Il male consiste, innanzi tutto, nel risolversi all’utilizzo di 43

M. Ignatieff, Il male minore, cit., p. 146. Ivi, p. 147. «Esistono regole etiche piuttosto chiare», osserva Ignatieff a questo proposito, «che disciplinano l’uso della violenza come modalità di lotta armata contro l’oppressione, l’ingiustizia o l’occupazione: deve trattarsi di una scelta tattica di ultima istanza, compiuta solo dopo aver tentato e fallito sul cammino della nonviolenza e del dialogo, obbedendo alle leggi di guerra. Certo, accettare questa proposizione significa limitare i margini di manovra dei combattenti nella lotta di liberazione: non è possibile giocare sporco e si possono colpire solo gli insediamenti militari e non civili – ma per lo meno non si espongono a rappresaglie disumane da parte del nemico. Coloro che rispettano queste regole meritano il nome di combattenti per la libertà; coloro che le ignorano sono terroristi» (ivi, p. 146). 45 Ivi, p. 165. 44

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strumenti violenti come prima opzione, con l’obiettivo di rendere impossibili deliberazioni politiche pacifiche. In secondo luogo, esso si manifesta nella scelta deliberata di colpire civili inermi, usandoli come obiettivi o perseguitandoli per le loro alleanze o appartenenze etniche. […] Infine, il terrorismo non è solo un crimine contro la vita e la libertà delle sue vittime, ma anche contro la politica in sé, contro la pratica della deliberazione pubblica, del compromesso e della ricerca di strumenti non violenti e di soluzioni ragionevoli. Il terrorismo è una forma di politica avente come obiettivo la morte della politica stessa e per questa ragione deve essere combattuto da tutte le società che desiderano rimanere nel reame della civiltà democratica. In caso contrario, le nostre società, così come quelle che i terroristi sostengono di rappresentare, saranno condannate a vivere non in un mondo fatto di dibattito e di scelta, ma in uno stato prepolitico di guerra perenne46.

Per tutti questi motivi, le democrazie, secondo Ignatieff, devono guardarsi con grande cautela del rischio del nichilismo, ossia dalla tentazione di seguire i terroristi – rappresentati in questo caso, in modo emblematico, dalla figura del «Professore», ritratto da Joseph Conrad nell’Agente segreto47 – nel ricorso alla violenza come fine in sé, su un sentiero in cui la violenza diventa soltanto il frutto del risentimento, dell’invidia, della «sete di sangue». Sotto questo profilo, può apparire certo discutibile il fatto che Ignatieff consideri gran parte del contemporaneo «terrorismo globale» come un terrorismo nichilista, e cioè privo di obiettivi politici che non siano la semplice distruzione violenta dell’Occidente48, ma non è qui che risiede il fuoco delle sue argomentazioni. Il nichilismo è cioè assunto come simbolo di una violenza priva di limitazioni, in cui l’obiettivo di fondo diventa eliminare il nemico, e non soltanto sconfiggerlo nel corso di operazioni militari49. «Un aspetto 46

Ivi, p. 167. J. Conrad, L’agente segreto, Firenze, Sansoni, 1965 (ed. or. The secret agent, London, Methuen & Co., 1907). 48 Cfr. M. Ignatieff, Il male minore, cit., pp. 176-190, quando scrive, per esempio, a proposito di Al Qaeda: «gli obiettivi di questi terroristi sono più apocalittici che politici e puntano ad assicurare a se stessi l’immortalità lanciando una terribile maledizione contro il grande Satana. Obiettivi di natura politica possono essere affrontati con il dialogo. Scopi apocalittici, invece, non possono essere gestiti per via negoziale, possono solo essere combattuti con la forza delle armi. Movimenti terroristici come Al Qaeda o Hamas sono culti della morte, organizzati dai loro leader per sovvertire le normali priorità psicologiche dei loro aderenti e far pensare loro che l’amore per la propria vita e lo scrupolo per l’estinzione delle vite altrui siano forme di debolezza, da superare a favore di un’idolatria della morte come liberazione dal peccato, dall’oppressione e dalla vergogna» (ivi, p. 184). 49 «Ciò che rimane di politico», dunque, in questo tipo di terrorismo, «non è la ricerca di un obiettivo preciso – per esempio, l’autodeterminazione di un popolo –, ma il desiderio deformato di umiliare, denigrare e uccidere. È sufficiente distruggere vite umane, umiliare la 47

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cruciale del nichilismo», osserva dunque in primo luogo, «è la descrizione delle potenziali vittime come creature inferiori che devono essere eliminate sulla strada verso un bene superiore»50. Ma, in secondo luogo, il nichilismo costituisce un rischio anche per i regimi democratici: «Quando uno Stato democratico consente l’utilizzo di qualsiasi mezzo pur di reprimere un gruppo terroristico, non fa altro che accettare di assecondare il gioco dei terroristi»51. E la strada che diventa indispensabile seguire, per evitare di precipitare nel baratro del nichilismo, a giudizio di Ignatieff, diventa, ancora una volta, quella del rispetto di alcuni limiti fondamentali: Impedire a una guerra contro il terrorismo di trasformarsi in una lotta nichilistica significa, prima di tutto, insistere affinché le forze antiterrorismo osservino la distinzione essenziale che i terroristi non considerano, e cioè quella tra civili innocenti e obiettivi militari non legittimi. Una guerra contro il terrorismo che non si sforzi di evitare la tentazione di indiscriminazione come i terroristi non può che perdere la propria legittimità sia politica, sia morale52.

In questo senso, il discorso di Ignatieff si dirige, in modo esplicito, proprio verso quella legittimazione della tortura – come strumento di lotta al terrorismo – che, negli Stati Uniti, ha trovato dopo l’11 settembre importanti voci di sostegno. A proposito di un simile tema, la posizione di Ignatieff è netta, ed esclude la tortura non soltanto in virtù della difficoltà di vigilare adeguatamente sul suo utilizzo, ma soprattutto per la lesione permanente della dignità umana che essa implica. «Ciò che è sbagliato nella tortura», osserva, «è che essa infligge danni irrimediabili sia a colui che la applica, sia al prigioniero che la subisce», e, inoltre, «viola gli impegni fondamentali a tutela della dignità umana, e questi fanno parte dei valori fondanti che una guerra contro il terrorismo condotta da uno Stato democratico non doparte opposta e causare panico e paura: purché queste gratificazioni siano bene in evidenza, non ha importanza che la propria causa non sia stata per nulla migliorata» (ibid.). Le considerazioni di Ignatieff possono essere naturalmente contestate, sotto questo profilo, da diversi punti di vista, ma soprattutto a partire dalla peculiare struttura organizzativa del terrorismo internazionale, che non può non influire anche sulla stessa determinazione degli obiettivi degli attacchi: cfr., in una sterminata letteratura, l’analisi di R. Pape, Morire per vincere. La logica strategica del terrorismo suicida, Bologna, Il Ponte, 2006 (ed. or. Dying to win. The strategic logic of suicide terrorism, New York, Random House, 2005), ma anche le interessanti sollecitazioni proposte da R. Caruso – A. Locatelli, Deadly contests: an economic note on al Qaeda’s reward system, in «The Economics of Peace and Security Journal», III (2008), n. 2, pp. 17-23. 50 M. Ignatieff, Il male minore, cit., p. 186. 51 Ivi, p. 190. 52 Ivi, p. 187.

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vrebbe mai sacrificare, anche sotto la minaccia di un attacco imminente»53. In altre parole, la tortura va a colpire proprio quei valori fondamentali che sostengono i regimi democratici: il «controllo della violenza e della coercizione nel nome della dignità e della libertà umane»54. Dunque, decidendo di adottare la tortura come strumento per combattere il terrorismo, le democrazie si inoltrerebbero anch’esse sul sentiero di quel «nichilismo» che le priverebbe del loro stesso fondamento55. Al contrario, la strada su cui le democrazie devono mantenersi saldamente, secondo l’intellettuale canadese, è sempre quella del rispetto delle garanzie e delle libertà politiche, oltre che dei diritti umani fondamentali, anche se ciò può risultare – soprattutto nel caso di emergenze – estremamente problematico. «Il più grande problema etico delle democrazie liberali», nota d’altronde, «non consiste nell’assenza o nella perdita di valori etici chiari e stabili, ma nella concreta difficoltà di rispettare gli obblighi che i nostri valori ci impongono»56. A questa linea di condotta non esistono alternative, sia sul versante interno dei regimi democratici, sia sul versante dei rapporti che essi intrattengono con il mondo che non condivide i valori liberal-democratici della garanzia della libertà e dei diritti individuali. «La natura stessa della nostra libertà», scrive proprio alla conclusione del volume, «ci vieta di obbligare gli altri a credere nelle premesse della democrazia liberale», e «se costringiamo coloro che non le accettano a farle proprie, violiamo un punto cardine dei nostri valori»57. La strada, dunque, passa necessariamente per l’argomentazione: «È necessario che ci difendiamo – con la forza delle armi, ma ancor di più con la forza 53

Ivi, pp. 201-202. Ivi, p. 207. 55 Naturalmente, Ignatieff è ben consapevole delle obiezioni rivolte a questo ragionamento dai sostenitori della necessità della tortura: «Coloro che accettano la tortura», osserva, «insistono che la loro scelta non è davvero nichilista – ossia volta a negare il valore intrinseco degli esseri umani –, ma motivata da una preoccupazione altrettanto morale per la salvezza di vite umane. Al contrario, coloro che insistono a vedere la tortura come una suprema forma di nichilismo credono che giustificarla sulla base dell’interesse della maggioranza significa fallire nell’apprezzare ciò che in ogni essere umano c’è di unico, inviolabile e degno del massimo rispetto» (ivi, p. 197). In ogni caso, secondo Ignatieff non vi sono dubbi «sul fatto che la storia e l’identità delle democrazie liberali siano legate alla proibizione assoluta della tortura» (ibid.), e, in questo senso, richiama anche il proprio studio sull’invenzione dei penitenziari: cfr. M. Ignatieff, Le origini del penitenziario, cit. Sul nodo della tortura, cfr. anche K. Greenberg, The Torture Debate in America, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, ma anche il vecchio saggio di M. Walzer, Le mani sporche, in Id., Il filo della politica, a cura di T. Casadei, Reggio Emilia, Diabasis, 2002, pp. 1-25 (ed. or. Dirty Hands, in «Philosophy and Public Affairs», 1973, n. 2, pp. 160-180). 56 M. Ignatieff, Il male minore, cit., p. 238. 57 Ivi, p. 240. 54

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di argomentazioni ragionevoli. Perché le armi usate senza il sostegno di ragionamenti convincenti sono impiegate invano»58.

2.3 Il potere sovrano e la «giustizia più alta» L’operazione svolta da Ignatieff si muove su un terreno evidentemente delicato. D’altronde, come ha osservato Luigi Bonanate, «non esiste problema di più ampia portata universalistica che la giustificazione della violenza politica», e proprio per questo «esprimere il giudizio morale nei suoi confronti ci colloca certamente sul livello della massima complessità possibile»59. Affrontando questi temi, il discorso di Ignatieff si mantiene però notevolmente lontano dagli eccessi cui hanno abituato i dibattiti statunitensi degli ultimi anni. La condanna delle tortura e l’enfasi sulla necessità di adottare anche «ragionamenti convincenti» appaiono così, oltre che come un tentativo di lasciarsi alle spalle i toni di una discussione segnata dal trauma del 2001, anche come la prova di una moderazione teorica che richiama le democrazie al rispetto dei diritti e delle libertà individuali. A dispetto di tutti questi meriti, l’argomentazione di Ignatieff non è però priva di alcuni punti deboli, uno dei quali consiste probabilmente nella distinzione che formula tra le organizzazioni insurrezionali che adottano, come criterio guida, le «leggi di guerra», e quelle organizzazioni che, invece, rifiutano qualsiasi criterio di limitazione della violenza e colpiscono, dunque, in modo indiscriminato, sia i militari sia i civili. Questa linea di demarcazione, come si è visto, è estremamente importante, anche perché è la linea che consente di individuare il confine che separa dalla sfera del «nichilismo», ossia dall’ambito di una violenza senza limiti, in cui la distruzione del nemico diventa un obiettivo in sé, sia per i terroristi, sia per le democrazie. Ma si tratta anche di una linea di demarcazione piuttosto discutibile, perché in patente contrasto con la realtà di gran parte dell’esperienza bellica novecentesca. Da questo punto di vista, infatti, Ignatieff sembra utilizzare l’espressione «leggi di guerra»60 in modo sin troppo disinvolto, se non altro perché l’utilizzo di bombardamenti ‘terroristici’ contro insediamenti non militari e puramente civili costituisce una costante delle guerre contemporanee, dai bombardamenti di Guernica, a quelli di Dresda e Coventry, fino a quelli di Hiroshima e Nagasaki. La guerra contemporanea, si potrebbe anzi osservare, seguendo quanto ha rile58 59 60

Ibid. L. Bonanate, La politica internazionale fra terrorismo e guerra, cit., p. 156. M. Ignatieff, Il male minore, cit., p. 144.

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vato Danilo Zolo, «ha assunto sempre più le caratteristiche del terrorismo, se per terrorismo si conviene di intendere, come viene proposto in Occidente, l’uso indiscriminato della violenza nei confronti della popolazione civile di uno Stato, al fine di diffondere il panico e di coartarne le autorità politiche»; inoltre, si tratta di operazioni implicanti l’uso di mezzi di distruzione di massa, in cui «la classica distinzione fra combattenti e non combattenti è inoperante, mentre il criterio della ‘proporzionalità’ fra gli obiettivi militari ‘legittimi’ e la distruzione di vite umane, di beni, dell’ambiente naturale etc. è ormai al di fuori di ogni possibile calcolo»61. Proprio per questo, allora, l’affermazione secondo cui è necessario distinguere fra terroristi che rispettano le «leggi di guerra» e quelli che imboccano una deriva nichilista può risultare valida solo in presenza di una lotta armata riconducibile alla «guerra partigiana», in cui i partigiani lottano per un territorio che puntano a liberare da un occupante, ma appare assai poco convincente se applicata alla realtà della gran parte del terrorismo, e soprattutto a quello della seconda metà del Novecento e del principio del XX secolo: in questi ultimi casi, infatti, il carattere nichilista del terrorismo appare in larga parte connesso alla realtà del Weltbürgerkrieg, e cioè all’insieme delle trasformazioni intervenute nel sistema internazionale e nella dinamica bellica62. Inevitabil61

D. Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 132-133. «Se è così», osserva inoltre Zolo, «è superata l’intera dottrina [...] del bellum justum, assieme alla sua distinzione fra jus ad bellum e jus in bello, che è ancora tacitamente alla base delle Convenzioni di Ginevra del 1949. Operazioni militari che producano inevitabilmente lo sterminio di civili innocenti [...] dovrebbero eo ipso essere considerate ‘terroristiche’ e quindi vietate dal diritto internazionale qualunque sia la loro giustificazione iniziale, ovvero la loro supposta justa causa. E ciò dovrebbe valere anche nell’ipotesi che queste guerre terroristiche siano state ‘legittimate’ da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, come è accaduto per la guerra del Golfo del 1991» (ivi, p. 133). In una prospettiva storica ancora più ampia, anche Domenico Losurdo propone una simile critica della nozione di «terrorismo»: cfr. D. Losurdo, Il linguaggio dell’impero. Lessico dell’ideologia americana, Roma-Bari, Laterza, 2007, specie pp. 3-42. 62 Richiamando la riflessione di Mary Kaldor, Valter Coralluzzo attira inoltre l’attenzione sulla trasformazione della guerra e sulle sue implicazioni: «riguardo ai metodi di combattimento in uso nelle nuove guerre tocca osservare come, piuttosto che alle tecniche della guerriglia, che puntano sul sostegno della popolazione locale ai fini del controllo del territorio [...], si richiamino alle tecniche di controinsurrezione, che mirano a terrorizzare e depredare la popolazione e a eliminare ogni possibile avversario (cioè chiunque abbia una diversa identità, o anche solo una diversa opinione) con mezzi come le uccisioni di massa, le operazioni di pulizia etnica e le deportazioni forzate. Non v’è dunque da stupirsi che tra i protagonisti di questi nuovi conflitti, spia di una crescente ‘privatizzazione della violenza’, figuri un’ampia tipologia di unità combattenti, fortemente decentralizzate e spesso prive di ogni controllo: dai gruppi paramilitari [...] ai ‘signori della guerra’ locali, dalle forze di polizia alle bande criminali, dalle unità di autodifesa ai bambini-soldati e ai gruppi mercenari» (V. Coralluzzo,

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mente, dunque, l’invocazione secondo la quale le democrazie devono evitare di seguire i terroristi sul canale del nichilismo rischia di apparire un’arma, quanto meno, piuttosto spuntata. Ma non si tratta dell’unico problema che sollevano le tesi di Ignatieff. Quando, al principio del Male minore, individua una serie di «controprove» atte a stabilire se le misure eccezionali ledano i caratteri di fondo dei regimi democratici, Ignatieff assegna un posto importante soprattutto a un elemento: infatti, è probabilmente la prima «controprova» – l’esame della dignità – a rivestire il ruolo più significativo. D’altronde, l’interesse riservato a questo aspetto non stupisce in un autore che ha dedicato le sue pagine recenti forse più note proprio ad affermare la centralità e l’universalità dei diritti umani63. Anche per questo motivo, la parte forse più interessante del volume è rappresentata dalla sezione in cui Ignatieff affronta in modo specifico la questione delle conseguenze che la sospensione delle garanzie giuridiche può produrre sul rispetto dei diritti umani. «In uno Stato davvero democratico la negazione dello stato di diritto», osserva, «non è mai giustificabile ed è essenziale che durante una guerra contro il terrore si eviti la formazione di buchi neri costituzionali, perché in questi casi esiste il rischio concreto che alcuni individui vengano risucchiati in realtà al di là del controllo e della comprensione degli altri cittadini»64. Una simile posizione, evidentemente, richiede che, anche nelle situazioni eccezionali, lo Stato democratico sia

Oltre il bipolarismo. Scenari e interpretazioni della politica mondiale a confronto, Perugia, Morlacchi, 2007, pp. 286-287). Sul punto cfr. anche Id., I dilemmi delle democrazie tra terrorismo globale e nuove guerre, in Id. (a cura di), Democrazie tra terrorismo e guerra, cit., pp. 11-65; Id., I conflitti armati nell’era post-bipolare: tra ‘machete’, armi intelligenti e terrorismo globale, in V. Coralluzzo – M. Nuciari (a cura di), Conflitti asimmetrici. Un approccio multidisciplinare, Roma, Aracne, 2006, pp. 239-302. Sulla trasformazione delle guerre, rimangono per molti versi fondamentali i lavori di K.J. Holsti, The State, War and the State of War, Cambridge, Cambridge University Press, 1996; M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Roma, Carocci, 1999 (ed. or. New and Old Wars. Organized Violence in a Global Era, Cambridge, Polity Press – Blackwell, 1999); M. Van Creveld, The Transformation of War, New York, The Free Press, 1991, e Id., The rise and decline of the state, Cambridge, Cambridge University Pess, 1999, oltre che D.D. Avant, The Market for Force. The Consequences of Privatizing Security, Cambridge, Cambridge University Press, 2005; F. Armao, La rinascita del ‘privateering’: lo Stato e il nuovo mercato della guerra, in A. D’Orsi (a cura di), Guerre globali. Capire i conflitti del XXI secolo, Roma, Carocci, 2003, pp. 91101; W. Singer, «Corporate Warriors». The Rise of the Privatized Military Industry, Ithaca, Cornell University Press, 2003, e C. Pagliani, Il mestiere della guerra. Dai mercenari ai manager della sicurezza, Milano, Franco Angeli, 2002. 63 Cfr. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit. In parte in linea con questa stessa lettura, sono anche Id., Impero light, cit., e Id. (ed.), American Exceptionalism and Human Rights, Princeton, Princeton University Press, 2004. 64 M. Ignatieff, Il male minore, cit., p. 61.

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obbligato al rispetto della legge e, dunque, che la politica – ogni esigenza politica, persino la suprema esigenza politica della sopravvivenza della comunità – debba rispettare i vincoli della legge. In qualche misura – secondo un’immagine che utilizza Ignatieff – lo Stato democratico e liberale deve comportarsi come Ulisse alle prese con il canto delle Sirene: in previsione del rischio cui potrebbe essere esposto in situazioni eccezionali, esso dovrebbe vincolarsi con strumenti adatti a resistere alla ‘tentazione’ di violare i propri obblighi, in materia di rispetto dei diritti fondamentali degli individui. Per esporre la propria tesi, Ignatieff utilizza anche, in chiave polemica, la posizione di Carl Schmitt sul rapporto fra legge e politica. «Uno Stato», secondo la sintesi che Ignatieff propone del pensiero schmittiano, «non può rimanere sovrano, né può gestire il monopolio domestico della violenza legittima a tutela dello Stato di diritto, se il suo esecutivo non può ricorrere a poteri eccezionali, liberandosi, quando necessario, di quelle costrizioni costituzionali che gli impedirebbero di prevalere in una competizione di forza contro i nemici dello Stato»65. Non si tratta ovviamente solo di un omaggio al giurista che, forse più di ogni altro, ha rivolto la propria attenzione allo «stato di eccezione», facendone per alcuni versi il fulcro attorno al quale ruota un’intera teoria. Ignatieff richiama Schmitt anche perché, a suo avviso, la critica formulata al positivismo giuridico dallo studioso di Plettenberg è simile a quella che oggi, negli Stati Uniti, i sostenitori dell’«emergenza» rivolgono ai liberali: in altre parole, se i positivisti (nella lettura di Schmitt) puntavano a separare nettamente politica e diritto, oggi i liberali «vorrebbero mantenere la legge il più possibile libera dalle contaminazioni e dalle interferenze politiche, e ritengono che la legittimità di una legge derivi fondamentalmente dalla sua capacità di resistere alle pressioni politiche»66. Ignatieff individua 65

Ivi, p. 76. Ivi, p. 77. Ignatieff riassume in questo modo la critica di Schmitt al positivismo giuridico: «nell’ottica di Schmitt, questa visione distorta della legge commetteva l’errore di dimenticare un aspetto essenziale, cioè che la creazione della legge avviene proprio nel reame della politica. Dal momento che la legge non è mai codificazione di un insieme astratto di norme, ma al contrario è un modo per elaborare accordi politici tra interessi e forze politiche contrastanti, coloro che applicano la legge non possono che ammettere eccezioni, in quanto le medesime forze e gli stessi interessi influenzano anche i custodi della legge» (ibid.). E precisa ancora: «Schmitt riteneva che l’idea di una legge autonoma da tutto non fosse soltanto irrealistica, ma anche stupida, dal momento che la legge è in se stessa una creazione del potere politico. L’esistenza delle leggi dipende dall’attività di specifici organi costituzionali. […] Di conseguenza, secondo Schmitt, i diritti possono perdurare in caso di emergenza solo se si concede allo specifico regime politico che difende l’ordine costituzionale la medesima possibilità di sopravvivere» (ibid.). Per la ricostruzione dell’itinerario teorico di Schmitt, Ignatieff sembra affidarsi in particolare a M. Lilla, The Reckless Mind. Intellectuals in Politics, New York, New 66

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però nell’idea schmittiana – secondo la quale ogni ordinamento giuridico non può che poggiare su un elemento politico (e secondo cui, dunque, il diritto non può mai affrancarsi dalla politica) – una «debolezza cruciale». La visione di Schmitt, sostiene infatti Ignatieff, sembra escludere aprioristicamente l’esistenza di una base morale superiore, con la quale uno Stato costituzionale deve fare i conti. Al contrario, osserva: la legge è sì di matrice politica – ossia la codificazione di compromessi, spesso meschini, tra gruppi in competizione nell’arena politica –, ma non è solo politica. È importante che la legge inglobi i diritti nello stesso modo in cui comprende il potere. L’impegno della legge a tutela della dignità e dell’uguaglianza degli individui è essenziale perché il diritto prevalga sul potere. Il contenuto morale della legge, considerato pericoloso da alcuni giuristi pragmatisti o positivisti in quanto pretesto per la moralizzazione del diritto o indebita intrusione delle autorità legislative, è in realtà […] un elemento essenziale per ottenere sostegno morale e politico a favore dell’ordine costituzionale. Proprio questi fattori etici impongono vincoli preziosi nel momento in cui l’utilizzo energico delle prerogative esecutive eccezionali potrebbe comportare il rischio di cadere in una dittatura extra-costituzionale. La giurisprudenza di Schmitt, nella sua venerazione per autorità forti, manca di qualsiasi comprensione della costituzione come ordine morale di libertà67.

Mentre si contrappone al realismo giuridico di Schmitt, Ignatieff si richiama così a Locke e all’idea secondo cui la tutela della legge deriva in ultima istanza dalla moralità, e, dunque, dalla «capacità dei cittadini di sollevarsi a difesa della legge quando la moralità indica che un determinato modo di gestire la legge è ingiusto»68. Ciò comporta, allora, che il rischio del disordine venga considerato come superiore a quello del dispotismo, in totale contrasto con la graduatoria delineata da Schmitt, «secondo la quale il male maggiore è rappresentato dal disordine della guerra civile rispetto al quale la dittatura rappresenta il male minore»69. Una scelta simile – sostiene Ignatieff – fu compiuta dai tedeschi nel 1933, quando preferirono sacrificare diritti e libertà per preservare la stabilità del regime. Ma – avverte – in quel caso la tradizione del positivismo giuridico, che aveva di fatto escluso dal campo del diritto qualsiasi richiamo all’etica, rafforzò la stessa giurisprudenYork Review of Books, 2001, pp. 47-77, a G. Balakrishnan, The Enemy. An Intellectual Portrait of Carl Schmitt, London, Verso, 2000, e soprattutto a O. Gross, The Normless and Exceptionless Exception: Carl Schmitt’s Theory of Emergency Powers and the ‘Norm-Exception’ Dichotomy, in «Cardozo Law Review», XXI (2000), pp. 1825-1868. 67 M. Ignatieff, Il male minore, cit., p. 78. 68 Ivi, p. 79. 69 Ibid.

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za del nazionalsocialismo, procedendo dunque nella medesima direzione del realismo schmittiano70. È piuttosto evidente – anche da questa sommaria sintesi – che la versione che Ignatieff offre della riflessione schmittiana sullo «stato di eccezione» risulta piuttosto imprecisa, oltre che sfocata71. La celebre formula della Teologia politica, secondo la quale «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»72, non escludeva in termini così categorici il riferimento all’etica, ma, si potrebbe dire – esprimendo una posizione complessa in termini schematici – stabiliva una connessione fra unità politica ed etica, rigettando così l’idea di una morale che fosse al di sopra dell’unità politica. La morale – come risulta d’altronde in modo piuttosto evidente dalla centralità che il nomos basileus ha nella riflessione schmittiana – non stava dunque al di sotto della politica, ma era parte costitutiva di quell’unità politica che, per l’autore della Politische Theologie era ancora, in larga parte, il Volk della tradizione romantica e della Scuola storica del diritto73. In questa direzione, nel saggio su I tre tipi di pensiero giuridico, osservava:

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Anche Ackerman, in termini simili a quelli di Ignatieff, richiama la riflessione di Schmitt in Prima del prossimo attacco, cit., dove osserva infatti: «anche se il nazismo non ha più forza politica, le idee di Schmitt proiettano un’ombra lunga, che fa apparire senza possibilità di dubbio come lo ‘stato di emergenza’ sia una condizione senza legge, durante la quale la normale moralità politica non può trovare applicazione. In questi momenti di pericolo supremo nella vita di uno stato la legge si zittisce e l’unica domanda seria che le persone razionali possono porsi è: quale volontà di potenza trionferà?» (ivi, p. 83). Tuttavia, Ackerman ritiene che «non stiamo attraversando uno di questi periodi», perché, «mentre i terroristi sfideranno la sovranità reale dello stato, essi non minacciano di sostituire la nostra società politica con quella di una potenza estera (era questo quello che Hitler si prefiggeva), e neppure la smembreranno (come sperava di fare Jefferson Davis)» (ivi, pp. 83-84). 71 Per quanto riguarda la riflessione schmittiana sullo «stato di eccezione», cfr. almeno C. Schmitt, La dittatura, Roma-Bari, Laterza, 1975 (ed. or. Die Diktatur, Berlin, Duncker & Humblot, 1921); Id., Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972 (ed. or. Politische Teologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Lepizig, Duncker & Humblot, 1922). 72 Cfr. C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 33. 73 In dichiarata polemica contro il positivismo e la sua concezione della legge, molti passi di Schmitt ritrovano il significato più autentico del nomos nella figura materiale del nomos basileus: «il nomos», scriveva per esempio nel Nomos della terra, «indica proprio la piena ‘immediatezza’ di una forza giuridica non mediata da leggi; è un evento storico costitutivo, un atto della legittimità che solo conferisce senso alla legalità della mera legge» (C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicaum europaeum», Milano, Adelphi, 1991, p. 63; ed. or. Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin, Duncker & Humblot, 1950).

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nomos, allo stesso modo di law, non significa legge, regola o norma, ma diritto, che è tanto norma, quanto decisione, quanto soprattutto ordinamento; e concetti quali re, signore, custode o governor, ma anche giudice e tribunale, ci trasferiscono immediatamente in concreti ordinamenti istituzionali che non sono più semplici regole. Il diritto come sovrano, il nomos basileus non può essere qualsiasi norma, regola o disposizione normativa, purché positiva; il nomos, che dev’essere un re giusto, deve avere in sé determinate qualità di ordine: superiori, immutabili ma concrete. Di un semplice modo di funzionamento o di un programma di viaggio non si può dire che sia «re»74.

Senza il costante (anche se spesso implicito) riferimento al Volksgeist di Savigny, la polemica di Schmitt contro il positivismo giuridico risulterebbe privata delle sue motivazioni. È infatti proprio all’altezza delle rivoluzioni del 1848, quando ci si incammina in Europa verso il trionfo del positivismo giuridico, che si giunge – secondo il teorico di Plettenberg – alla scissione fra legalità e legittimità, e, contemporaneamente, alla distinzione fra la «volontà obiettiva della legge» e la «volontà soggettiva dei molti estensori delle leggi o dei legislatori»: in questo passaggio, si procedeva, in sostanza, alla separazione della legge dalla sua base, al tempo stesso, politica e morale, perché essa come «grandezza unitaria obiettiva» non «venisse distrutta, nella sua ‘volontà’ unitaria, dalle opposizioni interne al corpo legislativo»75. 74 C. Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico, in Id., Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, cit., pp. 245-275, specie p. 253 (ed. or. integrale über die drei Arten des Rechtswissenschaftlichen Denkens, Hamburg, Hanseatische Verlaganstalt, 1934). 75 C. Schmitt, La condizione della scienza giuridica europea, Roma, Antonio Pellicani, 1996, pp. 55; ed. or. Die Lage der europäischen Rechtswissenschaft (1943-1944), in Verfassungsrechtliche Aufsätze aus den Jahren 1924-1954: Materialen zu einer Verfassungslehre, Duncker & Humblot, Berlin, 19733, pp. 386-426). Proprio perché l’unità del Volksgeist è dispersa nella lacerazione della lotta parlamentare, l’unità della legge deve essere garantita dalla sua forma: «La legge quale grandezza impersonale ed obiettiva, resasi autonoma dai suoi ‘motivi’ ed isolabile da questi, diventa un ponte sull’abisso della laceratezza politica interna. Nella norma oggettiva, purificata da tutte le contraddizioni della politica partitica, si incarna per così dire la ragione oggettiva dell’unità politica. Così però anche la scienza del diritto, accanto alla prassi giudiziaria, diventa la base e portavoce indispensabile di tale ragione oggettiva, di tale coerente unità della volontà normativa che autonomamente si oppone alla volontà in sé scissa dei molti fattori partecipanti alla legislazione» (ivi, pp. 55-56). Nei Tre tipi di pensiero giuridico, il passaggio era ancora più chiaro: «Per il normativista puro, che colloca in una norma il fondamento giuridico del suo pensiero, il re, il capo, il giudice, lo Stato diventano mere funzioni di norme, e il grado più alto della gerarchia di queste istanze è solo manifestazione della norma più alta, finché finalmente la norma suprema, la legge delle leggi, la ‘norma delle norme’, non è altro che norma o legge, nel modo più puro e intensivo. In concreto, in tal modo non si ottiene che di fra giocare in modo polemico-politico la norma o la legge contro il re o il capo. La legge distrugge, con questa ‘sovranità della legge’, il concreto ordine del re o del capo: i signori della lex hanno la meglio sul rex» (C. Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico, cit., p. 254).

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Questa concezione del Volk – di cui non è necessario sottolineare l’ambiguità – è centrale in tutta la riflessione di Schmitt e risulta fondamentale per comprendere anche la stessa cruciale distinzione fra amico e nemico in cui viene individuato il «criterio del politico». Ernst-Wolfgang Böckenförde, in un saggio della fine degli anni Ottanta, ha sottolineato proprio questo elemento, indispensabile per evitare i fraintendimenti cui l’opera di Schmitt è andata incontro: Lo Stato come unità politica significava, in base a questo concetto di ‘politico’, che lo Stato è un’unità in sé pacificata e, proprio per questo, l’unità politica che abbraccia il ‘politico’. Essa si distingue all’esterno da altre unità politiche, ma nel suo ambito permangono tutti i confronti, i conflitti e i contrasti sotto il livello di un raggruppamento amico-nemico; ossia, essi vengono superati da un senso di comunanza (amicizia) fondato sulla relativa omogeneità delle persone che vivono insieme, e quindi si inseriscono nell’ordinamento pacifico garantito dal monopolio statale della forza. La politica nell’ambito dello Stato […] diversamente, poniamo, dalla politica estera, è ‘politica’ solo in senso secondario76.

Ovviamente, una simile visione del popolo come unità organica non può essere immune da critiche, e la stessa realtà politica della Repubblica di Weimar doveva mostrare quanto quell’unità interna fosse per gran parte illusoria. Il decisionismo (con le implicazioni autoritarie degli anni Trenta) non è forse, sotto questo profilo, il primo anello della catena logica di Schmitt, quanto piuttosto la conseguenza di una visione del Volk nella quale l’unità organica assume una forma, per così dire, ‘piramidale’, con una base coerente anche grazie alla solidità del vertice. In ogni caso, la morale non sta al di sotto del vertice politico, ma è espressione organica dell’unità politica stessa, nel senso che la morale è parte integrante (e ineliminabile) del Volksgeist. Ciò che, in ogni caso, Schmitt non è disposto a concedere è che, venuta meno la coesione dell’unità politica, esista un riferimento morale – una «legge morale superiore» – capace di imporsi su più unità dissociate e tra loro in conflitto77. 76

E.W. Böckenförde, Il concetto di «politico» come chiave per intendere l’opera giuspubblicistica di Carl Schmitt, in Id., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari, 2007; ed. or. der Begriff des Politischen als Schlüssel zum staatsrechtlichen Werk Carl Schmitts (1988), in Id., Recht, Staat, Freiheit. Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassungsgeschichte, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1991. 77 Sulla visione schmittiana del popolo, cfr. le note di C. Mouffe, Carl Schmitt and the paradox of liberal democracy, in «The Canadian Journal of Law and Jurisprudence», X (1997), n. 1, ora in Id., The Democratic Paradox, London, Verso, 2000, pp. 36-59, oltre che i rilievi

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Per quanto la discussione critica della posizione di Schmitt venga esaurita da Ignatieff nello spazio di poche pagine, essa occupa un ruolo cardine nella sua struttura argomentativa, perché l’obiettivo principale del Male minore consiste nell’individuazione proprio di un vincolo morale – superiore alla stessa Costituzione – cui lo Stato democratico deve attenersi. Riflettendo soprattutto sulla realtà successiva al 1945, Ignatieff sostiene che esiste effettivamente una «legge superiore» a quella dei singoli Stati, cui ciascuno di essi deve attenersi, e indica gli elementi di questa «legge superiore» nella dottrina dei diritti umani: La dottrina dei diritti umani è sorta dalle ceneri dell’Olocausto come reazione al positivismo legale, come un tentativo di dotare i cittadini di una serie di parametri morali indipendenti, tali da renderli capaci di affermare, nel caso in cui la legge andasse in corto circuito nel proprio paese: ‘Questo atto sarà legale, ma non è giusto’. È questa fiducia nell’esistenza di una legge più alta, alla quale anche statuti e costituzioni devono rispondere, che mancava ai ferventi apologeti di coloro che, come Schmitt, hanno teorizzato poteri di emergenza sganciati dalla legge e dall’etica78.

La posizione di Ignatieff è, a questo proposito, estremamente chiara, perché assegna allo Stato costituzionale un vincolo ben preciso: «anche in caso di emergenza, quando alcune libertà devono essere sospese, uno Stato costituzionale deve rispondere a una legge più alta, a un insieme di parametri che proteggono i fondamentali impegni a protezione della dignità di ogni persona»79. In tal modo, la via imboccata da Ignatieff, nel momento in cui evoca l’idea di una «legge superiore» e, soprattutto, quando parla di un «insieme di parametri che proteggono i fondamentali impegni a protezione della dignità di ogni persona», è però tutt’altro che priva di insidie, innanzitutto per la precisa determinazione del contenuto di questa «legge superiore». In effetti, Ignatieff si interroga sull’effettiva esistenza, nel contesto statunitense, di una simile legge, e, pur riconoscendo le difficoltà della questione, fornisce anche in questo caso una risposta netta, che fa coincidere la «legge superiore» con gli obblighi derivanti da alcune convenzioni internazionali:

di R. Cavallo, Il Terribile potere. Il «popolo» nel pensiero di Carl Schmitt (1919-1928), in «Annali del Seminario Giuridico», V (2003-2004), pp. 35-87; Id., Il popolo: suddito e sovrano? Note a margine di «Stato, Movimento, Popolo» di Carl Schmitt, in «Annali del Seminari Giuridico», VII (2005-2006), pp. 87-125. 78 M. Ignatieff, Il male minore, cit., p. 80. 79 Ibid.

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questa legge superiore risulta codificata a opera delle convenzioni sui diritti umani ratificate dal Congresso degli Stati Uniti. Esse, infatti, costituiscono atti di natura internazionale e rappresentano una posizione di diritto che va al di là della giurisprudenza degli Stati nazionali, consentendo a giudici e uomini politici di osservare meglio gli eventi e prendere le distanze dal solipsismo della minaccia e del vittimismo – sentimenti che spesso conducono quanti subiscono l’attacco ad assumere decisioni eccessive, arbitrarie e tendenti all’abuso80.

Come è piuttosto evidente, nella visione della «legge superiore» che Ignatieff fornisce si confondono tra loro due differenti immagini, perché, in primo luogo, il carattere «superiore» di tali disposizioni pare derivare dalla loro natura di disposizioni morali universali, atte a tutelare e proteggere i «diritti umani fondamentali», mentre, in secondo luogo, il dovere di rispettare tali norme da parte dei singoli Stati sembra dipendere soltanto dall’obbligo di rispettare quei trattati internazionali cui essi si sono vincolati81. La difficoltà non è d’altro canto diminuita dal riferimento ad alcuni casi concreti, indicati dall’autore del Male minore. Da un lato, per esempio, Ignatieff afferma che «la legge superiore di cui andiamo parlando è stata codificata in modo esplicito nella Convenzione europea per i Diritti Umani», mentre, dall’altro, riconosce che «anche qui l’idea di legge superiore rimane oscura perché, secondo quanto previsto dalla Convenzione, molti diritti umani fondamentali possono essere sospesi o derogati in momenti di emergenza»82. In altre parole, Ignatieff non può che constatare come l’affermazione del carattere fondamentale di alcuni diritti venga di fatto a essere condizionata al rispetto dell’ordine pubblico e della sicurezza interna degli Stati. E, per questo motivo, ritiene che alcuni «diritti umani fondamentali» siano, per così dire, più «fondamentali» di altri. Sotto un primo profilo, seguendo la Dichiarazione di Vienna del 1993 ma anche una tesi formulata da Amartya Sen, Ignatieff scrive così che «possiamo credere che i diritti umani siano indivisibili, nel senso che avere un diritto è una precondizione per averne altri»83. Sotto un secondo profilo, afferma che «difendere questa idea di interdipendenza causale, però, non può significare che tutti i diritti abbiano la medesima importanza in tempi di emergenza»84. Dunque, «si 80

Ivi, p. 81. D’altronde, come Ignatieff riconosce esplicitamente, secondo la dottrina costituzionale statunitense, «non c’è una legge superiore alla costituzione degli Stati Uniti, anche se diversi giudici della Corte Suprema hanno più volte fatto riferimento all’etica, al diritti naturale e a una idea di legge superiore nella loro interpretazione del Bill of Rights» (ivi, p. 80). 82 Ibid. 83 Ivi, p. 83. 84 Ibid. 81

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può continuare a sostenere l’indivisibilità dei diritti, nel senso indicato da Sen, senza per questo negare che in tempi di pericolo alcuni di essi siano più fondamentali di altri», con la conseguenza che, «di fronte alla necessità politica di ridurre le libertà, lo strumento della deroga tenta di salvare il salvabile, e in particolare l’habeas corpus, proibendo in modo assoluto tortura, pene crudeli e ingiustificate, esecuzioni extra-giudiziarie e asservimento penale»85. I redattori della Convenzione europea, osserva Ignatieff, avevano ben presente la deriva totalitaria degli anni Venti e Trenta, e per questo, con l’obiettivo di preservare da simili rischi, hanno ammesso una serie di deroghe, che prevedono anche la sospensione dei diritti democratici, «purché gli strumenti repressivi utilizzati per contenere la minaccia non comportino la violazione dell’integrità fisica dei sospetti detenuti»86. La posizione di Ignatieff a proposito di questa soluzione è piuttosto critica, perché, osserva, «la Convenzione europea dovrebbe rendere difficile la sospensione dei diritti politici, restringendo questa possibilità solo ai partiti e alle persone che giustificano apertamente la violenza»87. In sostanza, i diritti politici devono essere garantiti anche a coloro che esprimono opinioni anticostituzionali, purché essi non ricorrano alla violenza e non configurino, dunque, un rischio reale per la democrazia88. Ma, anche in casi di emergenza, i sospettati di cospirazione non devono essere privati dei diritti dell’habeas corpus: coloro che vengono detenuti in questo modo devono sempre mantenere il diritto alla consulenza di un avvocato e l’accesso alle corti di giustizia per una

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Ibid. Ivi, p. 84. 87 Ivi, p. 86. 88 In questo senso, Ignatieff richiama esplicitamente i casi costituiti dalla richiesta di ingresso della Turchia nell’Unione Europea e dal successo elettorale di Haider e del Fpo in Austria: «La Corte europea», scrive per esempio, «ha, dunque, un ruolo politico importante nel mettere in guardia la comunità degli Stati europei quando uno dei suoi membri rischia di spostarsi da una traiettoria democratica a una più autoritaria. Spetta agli Stati democratici più solidi recepire questi avvisi e utilizzare gli strumenti politici a disposizione per recuperare le nazioni che tendono verso una direzione antidemocratica, riportandoli sul sentiero del rispetto per la democrazia. In questo senso, anche se la Turchia non è ancora un membro dell’Unione Europea, essa desidera ardentemente diventarlo e ciò le fornisce un forte incentivo a rispettare le decisioni della Corte europea, anche se non hanno valore legale in Turchia. Poco tempo fa, dopo l’elezione di un governo di destra in Austria, altri Stati europei si sono attivati minacciando di sospendere l’Austria dall’appartenenza all’Unione se il Paese avesse adottato misure contro gli immigrati in violazione delle norme europee che proteggono i diritti umani» (ivi, p. 85). In questo caso, conclude dunque Ignatieff, «la pressione esterna per la tutela dei diritti umani ha giocato un ruolo importante nel prevenire ogni possibilità di ritorno agli anni ’30» (ibid.). 86

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rapida convalida giudiziaria della detenzione. Anche se la detenzione preventiva o investigativa può essere giustificata come un male minore, non dovrebbe comunque comportare la sospensione dei diritti dell’habeas corpus89.

Una simile posizione si indirizza criticamente verso la Convenzione europea, ma anche – in modo esplicito – verso gli stessi Stati Uniti, i quali non hanno formalmente derogato agli obblighi assunti con il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, scegliendo però di sottrarsi a una giustificazione pubblica dinanzi alla comunità internazionale90. Come si è visto, infatti, la tesi di Ignatieff è che, nonostante le emergenze sottopongano a sollecitazioni molto forti gli Stati democratici, questi ultimi devono impegnarsi preventivamente al rispetto dei diritti: I diritti stessi esprimono questa consapevolezza, in quanto sono il modo in cui noi tutti ci impegniamo in anticipo, in periodi di calma, per evitare come Ulisse di soccombere nel momento del pericolo. L’impegno preventivo non è un vincolo a non modificare mai una legge qualsiasi siano le circostanze, ma piuttosto un impegno a favore della necessità di una giustificazione dibattimentale pubblica all’interno di una cornice che protegge l’uguaglianza e la dignità umane in periodi tanto di sicurezza quanto di pericolo. Impostare la difesa di una società liberale senza voler rispettare questi impegni di base significa tradire lo stesso ordine che si intende difendere, così come i cittadini la cui sicurezza dipende da quell’ordine91.

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Ivi, pp. 86-87. Più in particolare, l’intellettuale canadese ritiene che «la Convenzione europea dovrebbe rendere più difficile la sospensione dei diritti politici, restringendo questa possibilità solo ai partiti e alle persone che giustificano apertamente la violenza. È opportuno bandire i partiti politici che operano per mezzo di intimidazione, incitamento alla violenza e associazione a gruppi terroristici; questo, però, non deve mai condurre a limitare i diritti di libera partecipazione politica del resto della popolazione. Anche coloro che esprimono opinioni anticostituzionali devono mantenere il diritto di votare per partiti di loro scelta, purché questi ultimi respingano il ricorso alla violenza. In situazioni di emergenza, è giusto che le autorità abbiano il potere di arrestare individui e trattenerli sulla base di imputazioni meno precise di quanto accadrebbe in casi di criminalità ordinaria: in situazioni di incertezza, infatti, trattenere determinati individui può essere l’unico modo per determinare se vi sia una cospirazione in corso che possa portare nuovi attacchi» (ivi, p. 86). Sull’«approccio europeo» alla lotta al terrorismo e alla proliferazione delle armi di distruzione di massa, cfr. comunque le osservazioni di M. Evangelista, La via europea alla sicurezza, in «Biblioteca della libertà», XL (2005), n. 179, pp. 61-74. 91 M. Ignatieff, Il male minore, cit., p. 92. 90

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2.4 Il posto dei diritti umani Benché il taglio delle osservazioni di Ignatieff sembri sempre piuttosto ragionevole, anche su questo versante, nelle sue argomentazioni, si cela un equivoco, se non addirittura un vero e proprio cortocircuito logico. Tale cortocircuito si annida, in larga parte, nel suo tentativo di superare quella lacuna morale che egli imputa al realismo giuridico di Schmitt, ossia al tentativo di ancorare gli obblighi costituzionali di uno Stato a un elemento sovranazionale, a ciò che definisce, come si è visto, «legge superiore». In effetti, se l’obiettivo consiste nell’individuare questa «legge superiore», le strade che Ignatieff può percorrere sono fondamentalmente due: la prima è, per così dire, una via ‘politica’, mentre la seconda rimane una via ‘morale’. La prima strada consiste nel trovare una «legge superiore» allo Stato non in semplici principi morali, ma nelle norme giuridiche riconosciute dalla comunità internazionale, ossia nell’insieme del diritto internazionale e, più precisamente, in quelle disposizioni che vengono ricondotte nell’alveo dei diritti umani fondamentali. Ignatieff segue solo in parte questa strada, quando identifica la legge superiore con quelle disposizioni che garantiscono i «diritti umani fondamentali» (così come essi sono stati definiti dalle convenzioni internazionali), e quando, riferendosi ai campi di detenzione di Guantanamo, afferma che gli Stati democratici devono impegnarsi a rispettare le convenzioni internazionali, giustificando pubblicamente eventuali sospensioni di queste garanzie dovute a circostanze eccezionali. In questo senso, Ignatieff non giunge a una posizione simile, per esempio, a quella sostenuta da Richard Falk o David Held, secondo cui una reale affermazione dei diritti sul piano globale e una piena realizzazione di una democrazia cosmopolitica richiedono la sostanziale ridefinizione del ruolo degli Stati nazionali92. In effetti, il teorico nord-americano si discosta dal discorso di quelli che Hedley Bull definì come i Western globalists93, perché 92 Cfr., per esempio, R.A. Falk, Human Rights and State of Sovereignty, New York, Holmes and Meier, 1981; Id., The End of World Order. Essay in Normative International Relations, New York, Holmes and Meier, 1983; Id., The Promise of World Order. Essays in Normative International Relations, Philadelphia, Temple University Press, 1987; Id., On Human Governance. Towards a New Global Politics, Cambridge, Polity Press, 1995; e D. Held, Democrazia e ordine globale. Dallo Stato moderno al governo cosmopolitico, Trieste, Asterios, 1999 (ed. or. Democracy and the Global Order. From the Modern State to Cosmopolitan Governance, Cambridge, Polity Press, 1995); D. Held – A.G. McGrew (eds.), The Global Transformation Reader, Cambridge, Polity Press, 2000; D. Held – A.G. McGrew – D. Goldblatt – J. Peraton, Global Transformations. Politics, Economics and Culture, Cambridge, Polity Press, 1999. 93 Cfr. H. Bull, The State’s Positive Role in World Affairs, in «Daedalus», CVIII (1979), n. 4, pp. 111-123.

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non sottovaluta la funzione positiva che gli Stati hanno giocato – e continueranno a giocare – non solo nel mantenimento dell’ordine internazionale, ma anche nella protezione e promozione dei diritti. Autori globalisti come Falk ed Held, o come Jürgen Habermas e Ulrich Beck94, tendono infatti a occultare il «ruolo positivo che gli Stati hanno svolto e continuano a svolgere nell’arena internazionale», e, in questo modo, dimenticano il fatto che «abbattere le frontiere degli Stati in nome di un ordine cosmopolitico superiore […] può aprire le porte, anziché alla pace e alla giustizia internazionale, allo strapotere delle grandi potenze, come ben sanno i popoli dell’Africa e dell’Asia meridionale che si sono emancipati dal dominio coloniale»95. Al contrario, Ignatieff non trascura affatto il ruolo fondamentale che gli Stati hanno anche nel promuovere i diritti umani, e, da questo punto di vista, in Human Rights as Politics and Idolatry, critica anche la posizione di quelle Organizzazioni Non Governative che, nel sostenere, per esempio, i diritti di alcuni minoranze etniche, rischiano di indebolire le strutture statali e, in tal modo, di far venire meno le condizioni stesse per dare reale sostegno alla garanzia dei diritti individuali96. «I diritti della maggior parte degli esseri

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Cfr., per esempio, J. Habermas, Dopo l’utopia. Il pensiero critico e il mondo d’oggi, Venezia, Marsilio, 1992 (ed. or. Vergangenheit als Zukunft, Zürich, Pendo Verlag, 1990); Id., L’inclusione dell’altro, Milano, Feltrinelli, 1998 (ed. or. Die Einbeziehung des Anderen, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1996); Id., La costellazione postnazionale, Milano, Feltrinelli, 1999 (ed. or. The Postnational Constellation, Cambridge, Polity Press, 2001); U. Beck, The Reinvention of Politics. Rethinking Modernity in the Global Social Order, Cambridge, Polity Press, 1997; Id., The Reinvention of Politics. Towards a Theory of Reflexive Modernization, in U. Beck – A. Giddens – S. Lash, Reflexive Modernization, Cambridge, Polity Press, 1997; Id., Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Roma, Carocci, 1999 (ed. or. Was ist Globalisierung? Irrtümer des Globalismus, Antworten auf Globalisierung, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1997); Id. (hrsg.), Politik der Globalisierung, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1998. 95 D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa di problemi, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 77. Per le comunità delle aree povere del mondo, osserva Zolo, «l’erosione della sovranità statale significherebbe una loro maggiore esposizione all’aggressività dei valori occidentali di cui il cosmopolitismo è intriso, come prova l’ideologia paternalistica della ‘protezione internazionale dei diritti dell’uomo’ e della humanitarian intervention» (ivi, p. 78). 96 Tra i punti critici più rilevanti sottolineati da Ignatieff sta infatti quello relativo al legame fra la promozione del diritto di autodeterminazione, da parte dell’Occidente, e l’esistenza di strutture (statali) in grado di garantire il riconoscimento dei diritti agli individui. «Il problema della politica occidentale dei diritti umani», osserva per esempio, «è che promuovendo l’autodeterminazione delle etnie possiamo metter davvero in pericolo la stabilità, che è il requisito indispensabile della protezione dei diritti umani. [...] gli attivisti dei diritti umani devono affrontare il fatto che il patrocinio dei diritti umani può mettere in moto pressioni secessionistiche che sono una minaccia per gli stati esistenti e che, nel breve periodo, possono peggiorare la situazione dei diritti umani della gente comune, invece di migliorarla» (M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 34).

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umani», scrive per esempio, «dipendono dagli stati in cui questi vivono», mentre «i popoli che non hanno uno stato aspirano a istituirlo e in alcuni casi combattono per raggiungere questo obiettivo»97. E, proprio per questo, ritiene che la strada più adeguata non consista tanto nella promozione della democrazia, quanto nella promozione del costituzionalismo, capace di offrire garanzie alle minoranze senza per questo produrre la disgregazione delle strutture statali98. Inoltre, anche se scorge le tracce di un nuovo ordine giuridico transnazionale, in cui la sovranità risulterà allentata rispetto al passato99, afferma che, comunque, rimane ancora piuttosto irrealistico pensare che la sovranità statale sia destinata a tramontare: sperare nell’avvento di un’era in cui la sovranità statale sia superata è pura utopia. Invece di considerare la sovranità statale un concetto sorpassato, destinato a scomparire nell’era della globalizzazione, dobbiamo comprendere fino a che punto la sovranità statale sia la base dell’ordine nel sistema internazionale e capire che i regimi costituzionali nazionali rappresentano la migliore garanzia dei diritti umani. […] oggi, la minaccia principale ai diritti umani non viene dalla sola tirannia, ma dalla guerra civile e dall’anarchia. Di conseguenza, stiamo riscoprendo la necessità dell’ordine dello stato come garanzia dei diritti. Si può dire con certezza che le libertà dei cittadini sono protette meglio dalle loro istituzioni statali che dagli interventi esterni, seppure ben intenzionati100.

Riaffermando la centralità dello Stato, anche per la stessa garanzia dei diritti umani, Ignatieff prende atto, in qualche misura, dei nuovi problemi che implica il fallimento dello Stato, anche sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza internazionali101. In questo modo, però, Ignatieff non si discosta 97

Ivi, p. 22. «Il costituzionalismo», infatti, «implica l’allentamento dell’unitarietà dello stato-nazione – un popolo, una nazione, uno stato – in modo che esso possa rispondere adeguatamente alle richieste, avanzate dalle minoranze, di protezione del loro patrimonio linguistico e culturale e al loro diritto all’autogoverno» (ivi, p. 37). 99 Da questo punto di vista, afferma, infatti: «Nell’ordine giuridico transnazionale che sta emergendo, la sovranità dello stato diventerà meno assoluta e l’identità nazionale meno unitaria. Di conseguenza, i diritti umani negli stati saranno protetti da giurisdizioni sovrapposte. Gli organismi per i diritti regionali – come l’Osce – avranno un maggiore potere di supervisione sui problemi riguardanti i diritti delle minoranze negli stati membri, e sarà così per il semplice fatto che gli stati emergenti concluderanno che cedere parte della loro sovranità su questi temi vale il prezzo della piena ammissione al club delle regioni» (ivi, p. 39). 100 Ivi, pp. 39-40. 101 Cfr., per esempio, le considerazioni svolte in M. Ignatieff, Diritti umani, sovranità e intervento, cit., pp. 78-80, ma anche le riflessioni condotte in Id., Impero light, cit. Un interessante esame degli interventi di peace-keeping dell’Onu, soprattutto in termini di promozione della 98

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affatto da un sentiero, tutto sommato, tradizionale, in linea peraltro con il positivismo giuridico. Seguendo questa prima strada, infatti, i soggetti che si impegnano sono gli Stati, e l’unica legge superiore è, in realtà, una legge definita dagli Stati stessi, nel contesto delle loro relazioni. In questo senso, la legge superiore sarebbe allora un prodotto puramente politico, e la «morale» che dovrebbe vincolare l’azione degli Stati costituirebbe soltanto il risultato di una serie di reciproche obbligazioni concordate da parte degli stessi Stati sovrani. In quanto risultato di una scelta politica, allora, quella «legge superiore» potrebbe venire meno al venir meno della volontà degli Stati; oppure, il contenuto di quella «legge superiore» – lungi dall’essere ancorato alla stella polare di una morale stabilmente definita nei suoi contorni – sarebbe solo un involucro creato dagli Stati, capace di racchiudere, di volta in volta, contenuti sempre diversi. Anche se Ignatieff pare seguire, in alcuni punti, tale primo sentiero, non può però percorrerlo fino in fondo, perché altrimenti si scontrerebbe contro un ostacolo pressoché insormontabile. Lungo questa direzione, il suo ragionamento si troverebbe di fronte alla difficoltà inerente alla pluralità di visioni dei diritti umani fondamentali e, soprattutto, alla trasformazione storica di queste visioni. Come ha osservato per esempio Danilo Zolo, non si può affatto disconoscere che oggi «il linguaggio dei diritti e le rivendicazioni dei diritti trascritte in documenti nazionali e internazionali vanno molto al di là della sfera della semplice libertà di non essere impediti od oppressi», e, così, «sostenere che il linguaggio normativo di questi documenti riguarda soltanto, o anche prevalentemente, i diritti di libertà e di resistenza all’oppressione e non comprende invece l’intera gamma dei diritti civili, politici, sociali, culturali, economici, relativi alla bioetica, all’ambiente, alla protezione dei dati personali, non esclusi i cosiddetti ‘diritti collettivi’, sarebbe puramente insensato»102. D’altronde, per avere una inequivocabile conferma di quella tendenza alla specificazione dei diritti nelle carte internazionali di cui aveva già scritto Norberto Bobbio103, è sufficiente seguire le tappe più recenti del dibattito europeo intorno all’opportunità di inserire nei catalogo dei «diritti umani fondamentali» voci democrazia, è proposto da P. Foradori, Caschi blu e processi di democratizzazione. Le operazioni di peacekeeping dell’Onu e la promozione della democrazia, Milano, Vita e Pensiero, 2007. 102 D. Zolo, La giustizia dei vincitori, cit., pp. 78-79. 103 Cfr., per esempio, N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, dove il filosofo si soffermava sull’eterogeneità dei diritti umani: «quando dico che i diritti dell’uomo costituiscono una categoria eterogenea, mi riferisco al fatto che, dal momento che sono stati considerati come diritti dell’uomo anche i diritti sociali, oltre ai diritti di libertà, la categoria nel suo complesso contiene diritti tra loro incompatibili, cioè diritti la cui protezione non può essere accordata senza che venga ristretta o soppressa la protezione di altri» (ivi, pp. 40-41).

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nuove e impensabili fino a qualche decennio fa104. Il fatto che la sfera di tali diritti si sia allargata, ovviamente, implica che i criteri morali siano mutati, ma implica anche che tali criteri siano divenuti rilevanti in virtù del fatto politico della loro codificazione all’interno di trattati, cui gli Stati si vincolano (o rifiutano di vincolarsi) volontariamente. La «legge superiore», allora, non appare per nulla scevra di elementi politici: all’opposto, essa si configura come il prodotto delle mutevoli volontà politiche degli Stati. Dunque, i diritti umani fondamentali corrispondono a ciò che determinati Stati si accordano nel riconoscere come diritti fondamentali dei singoli individui e dell’essere umano. Tanto che – con una provocazione che oggi non appare più tale – gli Stati potrebbero persino spingersi a definire non solo quali siano i diritti umani, ma anche cosa sia l’essere umano, quali siano i confini della vita umana «degna di essere vissuta» e, così, quale vita possa essere invece uccisa perché ‘non umana’105. La seconda strada che Ignatieff sembra seguire con maggiore convinzione è invece coerente con la sua critica a Schmitt, e tende così a configurare la «legge superiore» come un vincolo principalmente morale. Questa seconda strada, in sostanza, consiste nel dimostrare non solo che gli Stati sono tenuti a rispettare una «legge superiore», ma, soprattutto, che questa «legge superiore» non riposa su una decisione politica (o, meglio, sulla volontà degli Stati), bensì su una base strettamente morale, ossia su criteri morali condivisi da una comunità di persone che travalica i confini nazionali, fino a coincidere potenzialmente con l’intera umanità. Seguire questa strada, ovviamente, significa riconoscere una moralità superiore cui la politica deve inchinarsi, e significa anche riconoscere che i principi morali comuni devono e possono moderare la conflittualità e, dunque, la violenza nei confronti del nemico (o presunto tale). L’autore del Male minore imbocca proprio questa strada quando, come si è visto, si impegna nell’individuazione di diritti «più fondamentali di altri», e cioè di quei diritti la cui garanzia non può essere derogata neppure in caso di «emergenza». Proprio seguendo questo binario, giunge di fatto a sostenere che i diritti «più fondamentali» sono i diritti civili e politici su cui si reggono le democrazie liberali occidentali. L’enfasi assegnata ai diritti umani – come limite che gli Stati devono rispettare – non costituisce certo un approdo recente dell’intellettuale cana104

Cfr. sul punto, per esempio, la ricostruzioni di M. Cartabia (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, Il Mulino, 2007. 105 Si tratta, d’altronde, di una serie di problematiche che Ignatieff riconosce esplicitamente, quando, per esempio, afferma che uno dei limiti dei diritti umani è «la coerenza logica e formale» (M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 23).

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dese, perché in effetti tutte le sue più note riflessioni ruotano proprio attorno al significato centrale del «linguaggio» dei diritti umani, così come è stato ridefinito dopo il secondo conflitto mondiale. In Human Rights as Politics and Idolatry, Ignatieff ha esaminato ampiamente il dibattito sul fondamento e sui confini dei diritti umani, proponendo alcune argomentazioni che costituiscono il presupposto del ragionamento condotto sullo stato di emergenza e che illustrano con maggior chiarezza il significato che l’intellettuale canadese attribuisce al vincolo rappresentato dai diritti umani. Le argomentazioni di Ignatieff non si allineano alle più consolidate dottrine dei diritti umani, ma, in qualche misura, puntano a mostrare il carattere politico – e non puramente morale – dei diritti umani. Il punto più significativo è però che il carattere politico non è offerto semplicemente dalla garanzia degli Stati – ossia dall’impegno dei singoli Stati a rispettare le norme internazionali – ma da qualcosa di diverso, che travalica i confini nazionali. Proprio sviluppando questo punto, Ignatieff riconosce infatti che la Dichiarazione universale dei diritti umani – insieme alla Carta delle Nazioni Unite del 1945, alla Convenzione sui genocidi del 1948, alla revisione delle Convenzioni di Ginevra del 1949, alla Convenzione internazionale sul diritto di asilo del 1951 – può essere considerata come «una forma di progresso morale», nonostante si possa rimanere scettici «riguardo alle motivazioni di coloro che hanno contribuito a determinarla»106. Benché gli Stati non intendessero vincolare la loro sovranità, la situazione è andata in una direzione differente, che ha consolidato e reso realmente operative le norme internazionali sui diritti umani. Gli Stati, osserva Ignatieff, «erano convinti che la Dichiarazione universale sarebbe rimasta un pio elenco di formule stereotipate, fatte più per essere infrante che osservate», ma, nonostante questa origine, «una volta espresso sotto forma di norme internazionali, il linguaggio dei diritti infiammò sia le rivoluzioni coloniali all’estero sia quelle per i diritti civili all’interno»107. Anche se la «società civile globale» non ha certo il ruolo che auspicano gli attivisti dei diritti umani108, le convenzioni internazionali hanno fornito un nuovo potere a osservatori e Ong, portando a una vera e propria «rivoluzione del patrocinio», e cioè «all’emergere di una rete di organizzazioni non governative a sostegno dei diritti umani – Amnesty International e Human Rights Watch per citare solo le più famose – che 106

Ivi, p. 13. Ivi, p. 10. 108 Sulla nozione di «società civile globale», cfr., per esempio, M. Kaldor, L’altra potenza. La società civile globale: la risposta al terrore, Milano, Università Bocconi Editore, 2004 (ed. or. Global Civil Society. An Answer to War, London, Polity Press – Blackwell, 2003). 107

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fanno pressione sugli stati affinché mettano in pratica ciò che predicano»109. Proprio in seguito alla rivoluzione del patrocinio, secondo Ignatieff, «la politica internazionale ha subito una democratizzazione e la pressione che i sostenitori dei diritti possono far pesare sugli attori sociali […] ha costretto gran parte degli stati ad accettare che la loro politica estera debba prestare ai valori, così come agli interessi, almeno un’attenzione formale»110. Naturalmente, Ignatieff è ben consapevole dei fattori che vincolano l’azione delle Ong e anche dei Tribunali penali internazionali istituiti a partire dagli anni Novanta111. Ma, proprio per questo, si sofferma sulle conseguenze che possono derivare dal mancato rispetto dei diritti umani. «Sebbene lo ‘stato d’inerzia’ dell’ordine internazionale continui a proteggere la sovranità nazionale», scrive per esempio, «nella pratica l’esercizio di tale sovranità almeno in parte è condizionato dall’osservanza di un comportamento corretto nei confronti dei diritti umani», e, dunque, «quando gli stati vengono meno a questo dovere, si rendono soggetti alla critica, alla sanzione e, come ultima risorsa, all’intervento militare»112. In altre parole, anche se, «secondo la norma consuetudinaria che regola il riconoscimento dei nuovi regimi, gli Stati ammettono che si continui a definire la legittimità in base all’effettivo controllo che un particolare governo ha su un certo territorio»113, Ignatieff riconosce l’esistenza di un vincolo etico all’interno del quale la sovranità degli Stati opera, un vincolo che, «almeno in parte», fa discendere la legittimità di uno Stato dal rispetto dei diritti umani. Quando passa a considerare la natura dei limiti all’interno dei quali gli Stati si trovano a operare, Ignatieff sembra scartare con decisione l’idea che si tratti di una serie di valori morali di carattere universale, e punta infatti a metterne in luce il carattere politico. «La grande illusione» contro cui indirizza la propria polemica è infatti rappresentata dalla «credenza che i diritti umani siano al di sopra di ogni credenza, un poker di assi morali la cui funzione consista nel portare a conclusione le dispute politiche»114. Al 109

M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 10. Ivi, p. 16. 111 Uno di questi limiti è, per esempio, costituito dalla linea sostenuta dagli Usa, perché, come osserva, «l’America ha promosso le norme dei diritti umani nel mondo, rifiutando, al tempo stesso, l’idea che quelle norme si applicassero ai cittadini e alle istituzioni americane» (ivi, pp. 18-19). Su questo nodo, cfr. Id. (ed.), American Exceptionalism and Human Rights, cit. 112 M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 22. 113 M. Ignatieff, Diritti umani, sovranità e intervento, cit., p. 74. Dunque, anche secondo Ignatieff, «la legittimità etica degli Stati è tuttora secondaria rispetto al reale controllo che questi esercitano sul territorio, semplicemente perché altri Stati nel sistema internazionale attribuiscono più rilevanza all’ordine che alla giustizia» (ibid.). 114 M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 26. 110

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contrario, afferma, «i diritti umani non sono altro che una forma di politica, che deve ricondurre i fini morali alle situazioni concrete e deve essere pronta a sottoscrivere compromessi spiacevoli non solo tra fini e mezzi, ma anche tra un fine e l’altro»115. Per quanto Ignatieff tenti di radicare su un terreno politico il discorso dei diritti umani, insistendo sull’elemento del conflitto, è piuttosto evidente come l’idea di una superiorità morale di alcuni principi universali tenda a sostenere tutto il suo discorso. E, così, l’etica torna a riaffiorare – in realtà piuttosto scopertamente – quando Ignatieff cerca di precisare in cosa consista il ‘contenuto’ fondamentale del linguaggio dei diritti umani e quali siano le prescrizioni etiche che si nascondono dietro la «politica»: La politica, tuttavia, non è fatta solo di dibattiti. Il linguaggio dei diritti umani serve anche a ricordarci che ci sono abusi decisamente intollerabili e giustificazioni di questi abusi che sono inaccettabili. Il discorso sui diritti umani, quindi, ci aiuta a capire quando la discussione e il compromesso sono diventati impossibili. Di conseguenza, questo linguaggio è usato, a volte, per raccogliere le ragioni e i consensi necessari all’uso della forza. Dato il carattere conflittuale dei diritti e dato il fatto che contro molte forme di oppressione i ragionamenti e i dibattiti non danno risultati, ci sono casi, da definire in modo preciso, in cui i diritti umani come politica diventano il credo di una lotta, una chiamata alle armi116.

Come è piuttosto evidente, il tentativo di fondare politicamente i diritti umani si scontra contro la barriera etica palesata da espressioni come «abusi decisamente intollerabili» e «giustificazioni di questi abusi che sono inaccettabili», ed è d’altronde su questo terreno – e cioè intorno all’idea che ci siano dei vincoli morali definiti da una «legge più alta» rispetto a quella sancita dalla volontà degli Stati – che si svolgono le considerazioni di Ignatieff anche a proposito dello «stato di eccezione»117. In sostanza, benché lo scrittore 115

Ivi, pp. 26-27. Ivi, p. 27. 117 Proprio nelle pagine conclusive del Male minore, osserva d’altronde: «Una democrazia liberale è più di un insieme di procedure istituzionali e di garanzie di diritto utili a dirimere i conflitti e a regolamentare la violenza. Perché dovremmo avere fede nel nostro sistema politico, se servisse solo a questo? Perché dovremmo proporci di difenderlo, se fosse solo un elenco di procedure? Non è così: noi ci curiamo del sistema perché queste procedure proteggono i diritti di ciascun essere umano che ne fa parte. E ci preoccupiamo dei diritti perché crediamo che ogni vita umana sia, in quanto tale, degna di essere protetta e preservata. Ecco perché ci serviamo dei diritti per stabilire limiti a ciò che le maggioranze possono fare: la ragione è che riteniamo che non debba essere solo il bene della maggioranza a decidere su tutte le questioni politiche. Se è vero che le maggioranze devono prevalere per ragioni di necessità, 116

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nord-americano punti a difendere i diritti umani come «politica», e non come una sorta di etica universale, il suo discorso è inevitabilmente destinato a richiamare in causa l’idea di principi morali superiori alla politica. Ma, da un certo punto di vista, è attorno a questo punto – e cioè quando passa ad esaminare il fondamento di questo vincolo morale – che l’operazione compiuta da Ignatieff mostra la propria maggiore originalità. Nella propria «ragionevole apologia», Ignatieff contesta infatti con grande energia l’idea dei diritti umani come «religione secolare planetaria»118 o, meglio, l’idea che i diritti umani costituiscano una sorta di nuova fede universale. Per intenderli in questo modo, sarebbe necessario fondare i diritti umani su una determinata concezione della natura umana, e, per esempio, su affermazioni come «gli esseri umani hanno una dignità innata o naturale», «sono dotati di un valore naturale e intrinseco», «sono sacri»119. Ma, secondo il saggista canadese, «le pretese fondative di questo genere dividono, e queste divisioni non possono essere risolte nel modo in cui gli esseri umani di solito vengono a capo delle loro dispute, con i mezzi della discussione e del compromesso», tanto che, dunque, «è molto meglio […] rinunciare a tutti i discorsi fondativi di questo tipo e cercare di costruire il sostegno ai diritti umani sulla base di ciò che nella realtà essi fanno per gli esseri umani»120. In altre parole, non sarebbe necessario appellarsi a specifici fondamenti filosofici per giustificare e legittimare i diritti umani, perché le ragioni «ispirate dalla prudenza sono molto più affidabili» e, soprattutto, perché queste motivazioni sono fornite dalla storia dell’umanità: gli esseri umani sono a rischio della propria vita se sono privi di un minimo di libera capacità di azione; […] la stessa capacità di azione necessita di protezione mediante norme condivise internazionalmente; […] queste norme devono autorizzare gli individui a opporsi e a resistere a leggi e disposizioni ingiuste all’interno del loro stato; e, infine, […] quando tutti gli altri rimedi allora gli individui i cui diritti e interessi vengono colpiti devono avere titolo a compensazioni e riparazioni. Crediamo che si debba sollecitare il suffragio dei nostri concittadini, uno per uno, e che le loro opinioni debbano costruirsi per mezzo di argomentazioni ragionevoli, piuttosto che mediante violenza o corruzione. Il diritto a un giusto processo secondo la legge e a un trattamento rispettoso della dignità umana fondamentale è indipendente dalla condotta delle persone ed è irrevocabile in qualsiasi circostanza. Noi crediamo che anche i nostri nemici debbano essere trattati come esseri umani. […] Questi valori non sono relativi – per lo meno non per noi – perché rappresentano le condizioni minime e fondamentali per la nostra esistenza in quanto popoli liberi» (M. Ignatieff, Il male minore, cit., pp. 237-238). 118 E. Wiesel, A Tribute to Human Rights, in Y. Danieli et al. (eds.), The Universal declaration of Human Rights. Fifty Years and Beyond, Amityville (N.Y.), Baywood, 1999, p. 3. 119 M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 56. 120 Ivi, p. 57.

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sono stati esauriti, gli individui hanno il diritto di appellarsi ad altri popoli, nazioni e organizzazioni internazionali per trovare appoggio nella difesa dei loro diritti121.

Naturalmente, Ignatieff è ben consapevole che questi fatti «trovano la più chiara evidenza nella storia catastrofica dell’Europa del ventesimo secolo», anzi considera in modo esplicito l’Olocausto come l’evento da cui la stessa Dichiarazione universale ha origine. Ma osserva anche che «non vi è ragione di principio perché i popoli non europei non debbano trarre da essi le stesse conclusioni, o perché in tempi a venire la memoria dell’Olocausto e di altri crimini paragonabili non siano tali spingere le generazioni future a sostenere l’applicazione universale delle norme riguardanti i diritti umani». Il vantaggio di una simile posizione consiste nel rifiutare ogni fondazione filosofica, culturale o metafisica dei diritti umani, fondandoli unicamente sull’esperienza storica e, dunque, sui vantaggi che comportano per gli esseri umani. «Una giustificazione prudenziale – e storica – dei diritti umani», osserva per esempio, «non ha bisogno di appellarsi ad alcuna idea particolare di natura umana», semplicemente perché «i diritti umani riguardano ciò che è giusto», mentre «non riguardano ciò che è bene»122. In tale direzione, nella propria apologia Ignatieff si è anche confrontato con le principali critiche che, negli ultimi decenni, hanno messo in questione l’effettiva «universalità» dei diritti umani, indicandone il punto debole nei presupposti individualisti. In effetti, Ignatieff riconosce che i diritti umani – e in particolare la Dichiarazione universale – devono molto all’«individualismo morale» proprio della cultura occidentale, ma contesta che questo costituisca un limite alla loro estensione e al loro potenziale riconoscimento anche da parte di culture non occidentali. «I diritti sono ineludibilmente politici», scrive, «poiché essi in modo tacito implicano un conflitto tra un detentore di diritti e una controparte che spoglia di questi diritti», mentre «il confondere i diritti e le aspirazioni, e i trattati sui diritti con una qualche sintesi sincretica dei valori mondiali, significa far sparire con un colpo di bacchetta magica ciò che definisce il vero contenuto dei diritti: i conflitti»123. Proprio perché i diritti tutelano gli individui contro chi detiene il potere, è scontato che il loro riferimento – e soprattutto il riferimento dei diritti umani – sia l’individuo124. E, inoltre, è proprio in virtù del loro individualismo che i diritti umani costituiscono un linguaggio universale: 121 122 123 124

Ibid. Ibid. Ivi, p. 69. Cfr. le considerazioni svolte in M. Ignatieff, The Rights Revolution, cit.

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I diritti sono universali perché definiscono gli interessi universali di chi è deprivato di potere e cioè garantiscono che il potere può essere esercitato su di essi solo in modi che rispettino la loro autonomia come agenti. In questo senso, il credo dei diritti umani è rivoluzionario, in quanto formula una richiesta radicale per tutti i gruppi umani, ossia che essi servano agli interessi degli individui che li compongono. Questo comporta che i gruppi umani debbano essere, nella misura del possibile, consenzienti, o per lo meno che essi debbano rispettare il diritto dell’individuo alla defezione, qualora le costruzioni da parte del gruppo diventino insopportabili125.

Se per un verso Ignatieff riconosce il carattere individualistico dei diritti umani, per un altro, ritiene che questa stessa impronta spieghi perché il discorso dei diritti si sia rivelato «un rimedio effettivo contro la tirannia, capace di attrarre popolazioni provenienti da culture diverse»126. I diritti, dunque, non definiscono tanto il contenuto della libertà dell’individuo, quanto la possibilità di esercitare una determinata azione da parte di un individuo o di un gruppo di individui127. Si tratta, perciò, di una «teoria leggera», che si limita a mettere «al ‘bando’ il negativo», ossia «quelle limitazioni e ingiustizie che rendono ogni vita umana, comunque concepita, impossibile», e che «non prescrive la gamma ‘positiva’ delle vite buone che gli esseri umani possono condurre»128. Ignatieff, dunque, non fa derivare i diritti umani da principi superiori, ma, sostanzialmente, dall’«idea di reciprocità morale» e – come emerge in modo piuttosto nitido dalle sue argomentazioni – da una serie di facoltà razionali comuni a tutti gli esseri umani:

125 M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., pp. 70-71. In altre parole, osserva Ignatieff: «adottare i valori della capacità di azione individuale non implica necessariamente adottare il modo di vivere occidentale. Credere nel proprio diritto a non essere torturato o sottoposto a violenza non richiede che ciò significhi adottare l’abbigliamento occidentale, parlare una lingua occidentale o approvare lo stile di vita occidentale. Cercare la protezione dei diritti umani non equivale a cambiare la propria civiltà; vuol dire soltanto usufruire delle protezioni date dalla ‘libertà negativa’» (ivi, p. 71). 126 M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 77. 127 In questo senso, è palese il riferimento alla distinzione fra libertà negativa e libertà positiva formulata da I. Berlin, Due concetti di libertà, Milano, Feltrinelli, 1989; ed. or. Two Concepts of Liberty (1958), in H. Hardy (ed.), The Proper Study of Mankind, London, Chatto and Windus, 1997, pp. 191-243. 128 Ivi, p. 77. «I diritti umani», precisa ancora, «sono moralmente universali perché affermano che tutti gli esseri umani necessitano di alcune specifiche ‘libertà da’; non si spingono oltre nel definire in che cosa la loro ‘libertà di’ debba consistere. In questo senso il loro è un universalismo meno prescrittivo di quello delle religioni mondiali: formula requisiti di vita umana decente senza violare i diritti dell’autonomia culturale» (ibid.).

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La difesa laica dei diritti umani discende dall’idea di reciprocità morale, ossia dal giudicare le azioni umane sottoponendole a questo semplice test: vorremmo essere dalla parte di chi è oggetto di quelle azioni? E poiché non possiamo concepire una circostanza qualsiasi nella quale noi o chiunque altro possa desiderare di essere sottoposto ad abusi mentali o fisici, abbiamo buone ragioni per credere che queste pratiche debbano essere bandite. Che noi siamo capaci di questo esperimento mentale […] non è altro che un fatto indiscutibile per la nostra specie. Perché siamo tutti capaci di questa forma sia pur limitata di empatia, siamo tutti dotati di una coscienza, e in quanto tali vogliamo essere liberi di esercitarla, giudicando, nel modo che si diceva, le azioni umane. […] Le caratteristiche degli esseri umani – che sentano dolore, che siano in grado di accorgersi del dolore di altri, e che siano liberi di fare il bene e di astenersi dal male – sono alla base della nostra credenza che essi debbano essere protetti dalla crudeltà. Questa concezione minimalista delle capacità condivise dagli umani – empatia, coscienza e libertà del volere – essenzialmente descrive i requisiti per cui un individuo possa essere in ogni modo un agente. Proteggere questo agente dalla crudeltà significa conferirgli potere con un nucleo di diritti civili e politici129.

Sulla scorta di questa discussione, Ignatieff può allora svolgere la propria polemica nei confronti di ogni «dottrina» dei diritti umani, ossia contro ogni tentativo di fondare i diritti umani su qualsiasi specifica concezione – inevitabilmente contestabile – della natura umana e dei suoi bisogni. In questo senso, per esempio, esclude qualsiasi connessione fra diritti umani e diritti naturali, proprio perché la storia ha mostrato come la «natura umana» non escluda affatto una violenza priva di limiti nei confronti dei propri simili, e afferma la piena compatibilità fra diritti umani e pluralismo morale: È possibile godere di una piena protezione dei diritti umani e tuttavia ritenere di essere privi dei requisiti essenziali di una vita buona. Se è così, l’adesione condivisa ai diritti umani deve essere compatibile con opinioni divergenti riguardo a ciò che costituisce una vita buona. In altri termini, un regime universale di protezione dei diritti umani deve essere compatibile con il pluralismo morale. Cioè deve essere possibile che sussistano regimi di protezione dei diritti umani in un’ampia varietà di civiltà, culture e religioni, ognuna delle quali si trovi eventualmente in disaccordo con le altre riguardo a quel che dovrebbe essere una vita umana buona130.

È evidente come nella rivendicazione di una piena compatibilità fra pluralismo morale (e culturale) e diritti umani si nasconda la polemica – d’altronde neppure troppo implicita – contro ogni ‘intrusione’ religiosa all’inter129 130

Ivi, p. 91. Ivi, pp. 57-58.

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no del linguaggio dei diritti umani. In effetti, per difendere i diritti umani dalle accuse di essere espressione della cultura occidentale, Ignatieff tende a spogliarli di ogni concezione religiosa (o filosofica) del bene e della «vita buona»131. Ma è proprio proseguendo nella polemica contro l’«idolatria» dei diritti umani che Ignatieff si trova, in qualche misura, forzato a rievocare quel fondamento etico che ha in precedenza messo in questione. L’etica di cui parla, però, è una sorta di «etica senza fondamento» o meglio, un’etica con un fondamento storico e politico. «La Dichiarazione universale», osserva infatti, «volle ristabilire l’idea di diritti umani nell’esatto momento storico in cui era apparso manifestamente che essi non avevano fondazione alcuna in attributi umani naturali», e anche oggi «non possiamo trovare un fondamento dei diritti umani nella pietà o nella solidarietà naturali dell’uomo»132. Nel discorso di Ignatieff, il peso della storia diventa dunque fondamentale, nella misura in cui l’Olocausto viene considerato come l’evento cruciale che mostra la fragilità di ogni barriera contro la violenza: «la storia immediatamente antecedente la Dichiarazione universale dei diritti umani è una formidabile dimostrazione della naturale indifferenza degli esseri umani», mentre «l’Olocausto ha portato alla luce la terribile insufficienza di tutti gli attributi di pietà e cura degli altri, che si supponevano propri della natura umana, in situazioni in cui questi doveri non erano più fatti valere dalla legge»133. In altre parole – come afferma in uno dei passaggi più densi della 131 «Il discorso dei diritti umani», osserva per esempio, «deve assumere che esistono molte visioni divergenti della buona vita umana, che quella dell’Occidente è solo una tra le tante e che, ammesso che gli attori abbiano un grado di libertà nella scelta di quella vita buona, essi dovrebbero poterle dare il contenuto che si accorda con la loro storia e le loro tradizioni» (ivi, p. 76). 132 Ivi, p. 82. 133 Ivi, p. 81. Sulla centralità del male nella discussione di Ignatieff, attira l’attenzione, fra gli altri, S. Veca, I diritti umani e la priorità del male, in M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., pp. 101-134. Su questo punto, le osservazioni di Ignatieff sembrano anche convergere con quelle di Judith N. Shklar, The Liberalism of Fear, in S. Hoffmann (ed.), Political Thought and Political Thinkers, Chicago, University of Chicago Press, 1998, pp. 3-21, oltre che, esplicitamente, con i suggerimenti di I. Berlin, L’unità dell’Europa e le sue vicissitudini, in Id., Il legno storto dell’umanità, Milano, Adelphi, 1994 (ed. or. European Unity and Its Vicissitudes, in Id., The Crooked Timber of Humanity, London, Chatto & Windus, 1991). Una recente rilettura di queste proposte, che in qualche modo rovescia l’ordine problematico, è stata avanzata da F. Rigotti, Il coraggio del liberalismo, in «Paradoxa», II (2008), n. 1, pp. 124-130, mentre alcune importanti osservazioni per un’indagine sul ruolo del «male» (e della sua costruzione) nella definizione delle identità collettive sono offerte da J.C. Alexander, La costruzione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre, Bologna, Il Mulino, 2006, specie pp. 27-127 (ed. or. The Meanings of Social Life. A Cultural Sociology, Oxford-New York, Oxford University Press, 2003), un sociologo della cultura il cui percorso è presentato da M. Santoro, Uno scandaglio negli abissi della vita sociale, ivi, pp. 7-16.

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sua «ragionevole apologia» – il fondamento dell’etica dei diritti umani si trova proprio nell’Olocausto: L’Olocausto ha rivelato come si presenta il mondo nel momento in cui una tirannia pura e semplice è lasciata libera di sfruttare la naturale crudeltà umana. Senza l’Olocausto, perciò, nessuna Dichiarazione. Dato l’Olocausto, inoltre, nessuna fede incondizionata nella Dichiarazione. L’Olocausto dimostra sia la necessità dei diritti umani dettata dalla prudenza sia la loro sostanziale fragilità. Se uno degli esiti del razionalismo occidentale è il nichilismo dello sterminio nazista, qualsiasi etica che assuma la sola ragione come propria guida è destinata a dimostrarsi impotente quando la ragione umana comincia a razionalizzare i propri progetti di sterminio. Se la ragione ha razionalizzato l’Olocausto, questo è il senso del discorso, allora solo un’etica la cui autorità discenda da fonte più alta della ragione è in grado in futuro di prevenire l’Olocausto. Pertanto l’Olocausto mette sotto accusa non soltanto il nichilismo ma lo stesso umanismo occidentale e mette in quarantena i diritti umani. Infatti i diritti umani sono un umanismo secolare: un’etica senza fondamento in una sanzione divina o metafisica e basata solamente sulla prudenza umana134.

Proprio perché i diritti umani devono essere considerati come «un’etica senza fondamento in una sanzione divina e basata solamente sulla prudenza umana», una simile etica può escludere ogni riferimento alla natura umana, al bene e a ogni concezione morale della «vita buona», ma deve basarsi su un evento storico ben preciso, ossia – com’è piuttosto scontato – su una base politica. Ma, a questo punto, l’equivoco al fondo del discorso di Ignatieff diventa piuttosto evidente, e le sue implicazioni non possono essere sottovalute. Fino al momento in cui Ignatieff si richiama al dovere delle democrazie liberali di attenersi al rispetto dell’habeas corpus e a tutelarsi anche per via costituzionale dalla tentazione di violare i diritti civili e politici, il suo discorso non presenta sostanziali incoerenze (anche se naturalmente la sua visione è criticabile da un punto di vista realista). Le cose si fanno invece molto più intricate quando sostiene che gli Stati debbano rispettare tali diritti perché sanciti da una «legge superiore» che li tutela in quanto «diritti fondamentali» (e, anzi, «più fondamentali» di tutti gli altri). L’implicazione di questo discorso è persino scontata. I diritti civili e politici non sono solo la base dei regimi liberaldemocratici occidentali, ma sono i più importanti tra i «diritti umani fondamentali»: sono, cioè, diritti di base per tutti gli esseri umani, in

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M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., pp. 83-84.

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ogni parte del mondo e in ogni contesto politico e culturale135. Ciò significa, evidentemente, che gli Stati che non riconoscono tali diritti civili e politici compiono una violazione, non soltanto dei diritti politici e civili, ma, soprattutto, dei «diritti umani fondamentali». In termini ancora più semplici, e certo semplificati: quei Paesi che non sono retti da regimi democratici e che non riconoscono e garantiscono i diritti civili e politici alla base dell’esperienza liberal-democratica occidentale compiono una violazione dei diritti umani fondamentali. È piuttosto evidente come in questa visione «universalista» dei diritti umani si nasconda una vocazione antipluralista, che finisce con l’assegnare una priorità assoluta alla concezione occidentale e, dunque, col dimenticare ogni altra visione ‘alternativa’ dei diritti e di ciò che caratterizza la «dignità umana»136. È anche piuttosto evidente come questi presupposti 135 In questo senso, si dirige per esempio la polemica contro «l’inflazione dei diritti», e cioè contro «la tendenza a definire come un diritto tutto ciò che può essere desiderabile», una tendenza che «finisce per erodere la legittimità di un nucleo difendibile di diritti»: «questo nucleo difendibile deve consistere nei diritti strettamente necessari per vivere comunque la propria vita. Il punto qui potrebbe essere che le libertà civili e politiche sono condizioni necessarie per conseguire in seguito la sicurezza sociale ed economica. Senza la libertà di costruire ed esprimere opinioni politiche, senza la libertà di parola e di riunione, insieme alla libertà di proprietà, gli attori non possono organizzarsi allo scopo di lottare per la sicurezza sociale ed economica» (ivi, p. 92). 136 Si tratta, per molti versi, di una critica analoga a quella rivolta a M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., da D. Zolo, La giustizia dei vincitori, cit., pp. 68-87, e simile a quella svolta, per esempio, da G.M Cazzaniga, I diritti soggettivi fra Multiversum e Impero, e da L. Baccelli, Il fondamentalismo pragmatico: Michael Ignatieff e i diritti umani, entrambi in «Jura Gentium», I (2005), n. 1 [www.juragentium.unifi.it]. Più in particolare, secondo Zolo i limiti del discorso di Ignatieff sono due: in primo luogo, Ignatieff «ha in realtà filtrato la quintessenza occidentale della dottrina dei diritti dell’uomo: la sua costitutiva, indelebile impronta individualistica e il suo nucleo più strettamente liberale, costituito dai diritti di ‘libertà negativa’»; in secondo luogo, «l’universalismo debole di Ignatieff si allinea sine glossa con le guerre di aggressione che gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno condotto in questi anni in nome dei diritti dell’uomo, in particolare nei Balcani», con una serie di implicazioni rilevanti: «per Ignatieff è del tutto ovvio che quando uno Stato (non occidentale) mette a repentaglio la vita dei suoi cittadini violandone i diritti fondamentali la sua sovranità non può essere rispettata (dalle potenze occidentali). La cosiddetta comunità internazionale ha il dovere di intervenire applicando sanzioni e, nei casi più gravi, usando lo strumento militare. […] La guerra dunque è una guerra legittima, eticamente irreprensibile se ha come motivazione la tutela dei diritti dell’uomo. È per antonomasia una ‘guerra giusta’ perché non ha finalità di conquista territoriale, né di definitiva soppressione della sovranità di uno Stato. […] Sorprende che Ignatieff trascuri di dedicare una sola riga al tema della compatibilità dell’uso delle armi di sterminio con la finalità della protezione dei diritti fondamentali. […] Ignatieff dimentica – ed è una dimenticanza imperdonabile in un fervido teorico della ‘libertà negativa’ – che la guerra moderna è la più radicale negazione dei diritti degli individui, a cominciare dal diritto alla vita» (D. Zolo, La giustizia dei vincitori, cit., pp. 84-86). Per i presupposti di questa critica, cfr. D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 20022 (I

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tendano ad affermare il diritto di intervento politico e militare dell’Occidente in quegli Stati che non rispettino i diritti umani: d’altronde, la riflessione recente di Ignatieff si sofferma, in parte, proprio sulle condizioni (oltre che sui limiti) degli «interventi umanitari»137. Ma – soprattutto – è altrettanto chiaro come il tentativo di ancorare gli Stati democratici a una «legge superiore» (superiore a ogni criterio politico) conduca Ignatieff a una conclusione paradossale. Anche seguendo questa seconda strada, Ignatieff non riesce affatto a superare l’errore rimproverato a Schmitt, e continua invece a muoversi in quella polarità di etica ed economia che l’autore del Begriff des Politischen riconosceva come cifra specifica dei pensatori liberali. Il giurista di Plettenberg, come si è visto, non faceva soccombere la morale alle dure esigenze del realismo politico, come molti critici sembrano sostenere: piuttosto, procedeva dal presupposto secondo cui l’atto di fondazione politica è anche un atto di fondazione della giustizia e, dunque, della moralità specifica di una determinata comunità politica. Più in particolare, riteneva che l’unità politica del Volk (una realtà ormai tramontata, nell’Europa del XX secolo) fosse anche, implicitamente, una comunità con principi etici definiti, e così pensava che l’operazione compiuta dal positivismo di scindere la legge dalla sua base politica (e morale) finisse col fraintendere la sostanza del problema giuridico, riducendolo a una pura questione di forme. In termini parzialmente analoghi, ma più complessi, anche il liberalismo, operando su presupposti interamente individualistici, non poteva che giungere a una sostanziale negazione del ‘politico’. «Il pensiero liberale», scriveva per esempio Schmitt, «sorvola o ignora, in modo sistematico, lo Stato e la politica e si muove entro una polarità tipica e sempre rinnovantesi di due sfere eterogenee, quelle cioè di etica ed economica, spirito e commercio, cultura e proprietà»138. «Il concetto politico di lotta», continuava inoltre Schmitt, «diventa nel pensiero liberale, sul piano economico, concorrenza e sul piano ‘spirituale’ discussione», «lo Stato ed. 1995), e Id., Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000, mentre, per alcune critiche rivolte all’equiparazione fra diritti umani e visione occidentale, si vedano M. Bovero, Idiópolis, in «Ragion pratica», VII (1999), n. 13, pp. 101-106; A. Ehr-Soon Tay, I «valori asiatici» e il rule of law, in P. Costa – D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 683-707; F. Monceri, Altre globalizzazioni. Universalismo liberal e valori asiatici, Catanzaro, Rubbettino, 2002; E. Vitale, «Valori asiatici» e diritti umani, in «Teoria politica», XV (1999), n. 2-3, pp. 313-324. 137 Cfr. M. Ignatieff, Diritti umani, sovranità e intervento, cit., in particolare pp. 86-99; Id., Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 45. 138 C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’. Testo del 1932 con una premessa tre corollari, in Id., Le categorie del ’politico’, cit., p. 157; ed. or. Der Begriff des Politischen, München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1932 (III ed.).

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diventa società, e precisamente, sul piano etico-spirituale, si trasforma in una concezione ideologico-umanitaria dell’umanità, e, sull’altro piano, nell’unità tecnico-economica di un sistema unitario di produzione e di scambio»139. Benché rimuovessero il ‘politico’ dalle loro argomentazioni, gli autori liberali – secondo la logica del suo ragionamento – non potevano che ritrovarlo sotto nuove vesti140. In fondo, Ignatieff sembra compiere un’operazione simile a quella che Schmitt rimproverava agli autori liberali, nel senso che sottovaluta il problema della fondazione politica della «legge superiore»: quando intende una simile legge in termini puramente etici, e quando descrive i diritti umani come fondati sull’«idea di reciprocità morale», o quando si riferisce ai diritti fondamentali come al prodotto di un’«etica senza fondamento» (e cioè a un’etica fondata sulla «prudenza» comune a ogni essere umano), pare escludere l’idea che l’etica di cui parla sia in realtà espressione di un’unità politica ben precisa: un’unità politica che non coincide certo con il Volk romantico, cui Schmitt guardava nostalgicamente, e che non coincide neppure con l’umanità intera, ma, semmai, con una specifica immagine dell’umanità, nella quale l’impronta politica è ben presente. In effetti, i diritti umani fondamentali, nel modo in cui vengono evocati da Ignatieff, non si reggono su una «legge superiore» di carattere morale, su un’etica universale, o semplicemente sulla base razionale dell’idea di «reciprocità morale», ma si fondano su una base politica, che coincide ovviamente con l’assetto internazionale successivo al 1989: un assetto nel quale la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ha subito una sostanziale trasformazione, che ha progressivamente condotto a sovrapporre – e a saldare gli uni con l’altra – i diritti umani e la democrazia liberale, intendendo cioè la promozione dei regimi democratici e il sistema liberale della garanzia della legge come strumenti cruciali per la piena tutela e realizzazione dei diritti umani fondamentali141. È infatti 139

Ivi, p. 158. E, in effetti, il giurista concludeva: «poiché […] nella realtà concreta dell’esistenza politica non governano ordinamenti e insiemi di norme astratti, ma vi sono sempre soltanto uomini o gruppi concreti che dominano su altri uomini o gruppi concreti, così anche qui naturalmente, dal punto di vista politico, il ‘dominio’ della morale, del diritto, dell’economia e della ‘norma’ ha sempre e soltanto un significato politico concreto» (ivi, p. 159). 141 Si vedano, per esempio, J. Crawford, Democracy and International Law, in «British Yearbook of International Law», 1993, n. 44, pp. 113-133; T. Franck, The Emerging Right to Democratic Governance, in «American Journal of International Law», 1992, n. 86, pp. 46-91; Id., Legitimacy and the democratic entitlement, in G.H. Fox – B.R. Roth (eds.), Democratic Governance and International Law, Cambridge, Cambridge University Press, 2000; M. Reisman, Sovereignty and Human Rights in Contemporary International Law, in G.H. Fox – B.R. Roth (eds.), Democratic Governance and International Law, cit., pp. 239-258; e R. Rich, Bringing Democracy into International 140

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proprio in questo senso, che – nell’architettura teorica del Male minore – diritti umani fondamentali e diritti civili e politici possono coincidere. Se Ignatieff, da un lato, riconosce questo mutamento, dall’altro, tralascia di evidenziare come esso sia il risultato di uno specifico assetto del sistema internazionale, ossia di una determinata stagione egemonica. E manca dunque di sottolineare come i «diritti fondamentali», cui si riferisce, siano un prodotto politico: e cioè l’espressione di un’etica che è forse davvero «senza fondamento in una sanzione divina e basata solamente sulla prudenza umana», ma che è anche – soprattutto – radicata su una ben specifica base politica142. Probabilmente, però, non è sufficiente mostrare come sotto la coltre di un’etica dalle pretese universali si trovino delle basi politiche tutt’altro che universali, o sostenere che dietro la parola d’ordine dei diritti umani si nasconda in realtà un progetto di ‘imperialismo’ democratico o l’ennesimo tentativo di ‘occidentalizzazione’ del mondo. Benché, da un lato, simili critiche mettano in luce il reale fondamento particolaristico dei diritti umani, dall’altro, è però riduttivo rigettare la loro pretesa universalista in nome della sovranità degli Stati: in questo modo si rischia infatti di sottovalutare o fraintendere completamente uno degli aspetti che caratterizza la trasformazione contemporanea del sistema internazionale, ossia proprio la ricerca di una legittimazione del regime democratico su un piano universale. Lo stesso Ignatieff ha scorto le tracce di questo processo quando, in Impero light, ha descritto i contorni di una «nuova forma di impero con pretese umanitarie», all’interno della quale «le potenze occidentali, capitanate dagli Stati Uniti, Law, in «Journal of Democracy», XII (2001), n. 3, pp. 20-34, ma anche C. Focarelli, Il sistema degli stati e il governo dell’umanità nel diritto internazionale contemporaneo, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2007, n. 6, pp. 42-53. 142 Così, le indicazioni di Preterossi a proposito delle argomentazioni di Ignatieff colgono un punto evidentemente debole: «al di là del solito uso ambiguo e storicamente discutibile del termine ‘liberal’ per ‘democratico-costituzionale’, e dell’immunizzazione inadeguata, puramente retorica rispetto al possibile uso discriminatorio della nozione di umanità e delle sue aporie, è quando si va al concreto che le incongruenze e le asimmetrie negate dall’internazionalismo liberal emergono duramente: i diritti umani, dice Ignatieff, sono indipendenti dalla condotta; ma, come i diritti politici possono essere sospesi se si viene condannati per certi altri reati, così ‘altri diritti’ civili, ad esempio il ‘diritto a un controllo giurisdizionale sulla detenzione’ […] ‘potrebbero essere revocabili in casi di emergenza se la necessità lo imponga’. […] La domanda ovvia è: chi ‘ci’ autorizza (come ‘Occidente’), anche solo a porci queste domande, che presuppongono un’avvenuta gerarchizzazione dell’umano, e preparano sempre nuove de-umanizzazioni? Una politica dei diritti umani così intesa finisce per risolversi paradossalmente in una sorta di auto-autorizzazione di un potere che […] è ben lontana dal ‘diritto umanitario minimo’, ‘hobbesiano’ se si vuole, della ‘sopravvivenza del ghénos’, dell’interrogazione politica di fronte a un genocidio in atto o in procinto di essere realizzato» (G. Preterossi, I diritti alla prova del ‘politico’, cit.)

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fanno fronte unito per ricostruire l’ordine statale e per ricostituire le società dilaniate dalla guerra in nome della stabilità e della sicurezza globali»143. Secondo Ignatieff, non si tratta infatti solo di una nuova faccia del vecchio imperialismo, ma di un imperialismo dal volto nuovo, che si basa sul riconoscimento dei diritti umani e sulla promessa di autogoverno, e che, su tali presupposti, si propone di ricostruire un ordine politico fondato su stabili Stati nazionali, che rispettino i diritti umani e, almeno tendenzialmente, il principio di autodeterminazione144. La tendenza verso questa nuova forma di «impero» – certo molto distante dagli imperi del passato, oltre che dal vecchio imperialismo145 – non costituisce una novità radicale e, inoltre, è ancora ben lontana dall’aver assunto dei contorni stabili146. Ma si tratta comunque di un fatto di cui è difficile negare la portata politica e le implicazioni, e di cui, soprattutto, non 143

M. Ignatieff, Impero light, cit., p. 30. Nel nuovo impero umanitario, osserva Ignatieff, «il potere è esercitato come in un condominio, con Washington in testa e Londra, Parigi, Berlino e Tokyo che seguono riluttanti a ruota» (ivi, p. 28); la differenza rispetto al passato è che, nel nuovo imperialismo, la «promessa di autogoverno non può restare tanto teorica, in quanto le élite locali sono tutte creazioni del moderno nazionalismo, e la principale etica del nazionalismo moderno è l’imperativo dell’autodeterminazione». Dunque, «le élite locali devono essere messe nelle condizioni di assumere il comando non appena le forze imperiali statunitensi abbiano ripristinato l’ordine e le organizzazioni umanitarie europee abbiano ricostruito le strade, le scuole e le case» (ivi, p. 33). Tuttavia, come nota nelle pagine conclusive, l’«impero light» è molto lontano dal raggiungimento di questi obiettivi. 145 «È un impero ‘light’, leggero, un’egemonia senza colonie, una sfera d’influenza globale senza il fardello dell’amministrazione diretta e i rischi della sorveglianza quotidiana», scrive Ignatieff, riferendosi soprattutto al ruolo centrale degli Usa; «è un imperialismo gestito da un popolo memore del fatto che il proprio paese si è assicurato l’indipendenza ribellandosi contro un impero; un popolo che ha spesso pensato al proprio paese come al sostenitore delle lotte antimperiali di tutto il mondo. È, in altri termini, un impero privo della consapevolezza di esserlo. Ma questo non ne riduce il carattere imperiale, ovvero la costante tendenza a mettere ordine in un mondo di stati e mercati sulla base dei propri interessi nazionali» (ivi, p. 12). 146 Per una minima ricostruzione del dibattito sulla «forma-impero», mi permetto di rinviare a D. Palano, Fino alla fine del mondo. Stato e spazio politico nel recente dibattito sulla «formaimpero», «Teoria politica», XIX (2003), n. 2-3, pp. 217-250 (ora, in una versione differente, raccolto in questo volume), e Id., Il destino della repubblica imperiale. La forma del potere sovrano nella trasformazione contemporanea, in V.E. Parsi – S. Giusti – A. Locatelli (a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica? Europa e Stati Uniti tra crisi e distensione, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 19-63. Una critica alle tesi di Ignatieff è svolta da R. Rao, The Empire Writes Back (to Michael Ignatieff), «Millennium», XXXIII (2004), n. 1, pp. 145-166; fortemente polemiche verso l’idea di un ‘impero umanitario’ sono anche le posizioni di P. Bahnu Metha, Empire and Moral Identity, «Ethics and International Affairs», XVII (2003), n. 2, pp. 49-62, e E. Rodhes, The Imperial Logic of Bush’s Liberal Agenda, «Survival», XLV (2003), n. 1, pp. 131-154. Una sintesi del dibattito su questi nodi è proposta da J. Purdy, Liberal Empire: Assessing the Arguments, «Ethics and International Affairs», XVII (2003), n. 2, pp. 35-47. 144

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si può negare il significato più profondo, ossia il tentativo di trovare una base di legittimazione della nuova costellazione imperiale su basi effettivamente globali, che riconoscano come soggetto politico di riferimento non uno specifico popolo, non un gruppo di Stati, ma l’intero genere umano147. Il merito dell’operazione di Ignatieff consiste proprio nel collocarsi a questo livello e nel cogliere la complessità della nuova costituzione imperiale. Il tentativo di Ignatieff di trovare una «legge superiore», indipendente dalla volontà degli Stati, ma che ciascuno Stato è tenuto a rispettare, coglie effettivamente un mutamento giuridico reale, anche se, come si è visto, il tentativo di fondare questa «legge superiore» su un piano morale, o sulla conquistata ragionevolezza degli esseri umani, non può che scontrarsi con la realtà di un fondamento politico. Se in questo implicito fondamento politico si può trovare l’ennesima conferma della supremazia della forza sull’etica, spesso sottolineata dagli studiosi realisti, non si può però evitare di riconoscere nel nuovo imperialismo descritto da Ignatieff la ricerca di una legittimazione etica su un piano effettivamente globale, perché probabilmente è in questa ricerca che si nascondono le implicazioni principali di questa operazione. Nelle argomentazioni dello scrittore canadese, e soprattutto nel suo tentativo di porre dei valori universali al di sopra di ogni contrasto politico, non è infatti difficile scorgere la conseguenza estrema di quanto osservava Schmitt a proposito della Tirannia dei valori. «Secondo la logica del valore», scriveva, «deve sempre valere il principio che per il valore supremo il prezzo supremo non è mai troppo alto, e va pagato». Un simile principio, lungi dal restare circoscritto dalla sfera del confronto tra valori, secondo Schmitt non può che estendersi fino all’ambito del conflitto politico, con conseguenze di terribile evidenza proprio nei dibattiti sulla «guerra giusta»: Ogni riguardo nei confronti del nemico viene a cadere, anzi diventa un nonvalore non appena la battaglia contro il nemico diventa una battaglia per i valori supremi. Il non-valore non gode di alcun diritto di fronte al valore, e quando si tratta di imporre il valore supremo nessun prezzo è troppo alto. Sulla scena perciò restano solo l’annientatore e l’annientato. Tutte le categorie del diritto bellico classico dello jus publicum europaeum – giusto nemico, giusto motivo della guerra, giusta misura dei mezzi e adeguatezza della condotta (debitus modus) – cadono irrimediabilmente vittime di questa mancanza di va-

147

In questo senso, le ipotesi di Ignatieff vengono a collocarsi, evidentemente, in un’area teorica prossima alla riflessione sulla guerra condotta da M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste, Napoli, Liguori, 1988 (ed. or. Just and Unjust Wars. A Moral Argument with Historical Illustration, New York, Basic Books, 1977), e Id., Sulla guerra, Roma-Bari, Laterza, 2004 (ed. or. Arguing about War, New Haven-London, Yale University Press, 2004).

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lori. L’impulso a imporre i valori diventa qui una costrizione all’attuazione immediata dei valori stessi148.

Proprio perché il soggetto politico di riferimento diviene l’umanità, è infatti pressoché inevitabile che ciò che viene escluso dal legittimo consorzio umano – e perciò obiettivo di legittimo intervento militare – non possa essere altro che un soggetto, per così dire, ‘non umano’, una nuova declinazione della vecchia figura dell’hostis generis humani, ossia un attore (statale o non statale) che viene a violare la «legge superiore» di cui Ignatieff scorge i contorni nei diritti umani149. E non è affatto casuale che l’Olocausto diventi – agli occhi di Ignatieff – la pietra fondativa del nuovo ordine internazionale: non tanto per le atrocità compiute dal regime nazista, quanto perché il regime nazista, con la sua sconfinata violenza, diviene la figura (metastorica)

148 C. Schmitt, La tirannia dei valori, Milano, Adelphi, 2008, pp. 64-65 (ed. or. La tiranía de los valores, in «Revista de estudios políticos», 1961, n. 115, pp. 65-81). Nello stesso opuscolo, Schmitt precisava inoltre l’obiettivo della propria polemica: «Nessuno può valutare senza svalutare, rivalutare e valorizzare. Chi pone i valori si è in tal modo già contrapposto ai non-valori. Non appena l’imporre e il far valere diventano davvero una cosa seria, la tolleranza e la neutralità illimitate dei punti di vista e dei punti di osservazione intercambiabili a piacere si ribaltano subito nel loro opposto, cioè in ostilità. L’anelito del valore alla validità è irresistibile, e il conflitto tra valutatori, svalutatori, rivalutatori e valorizzatori è inevitabile. Lo si può vedere nella discussione sull’impiego di armi nucleari: se un certo filosofo dei valori oggettivi, per il quale si danno valori superiori all’esistenza fisica dell’uomo di volta in volta vivente, è pronto a impiegare, per imporre tali valori, gli strumenti di annientamento della scienza e della tecnica moderna, un altro filosofo dei valori oggettivi ritiene invece un crimine annientare la vita umana per amore di presunti valori superiori» (ivi, pp. 59-60). 149 Per un inquadramento di questo processo, che conduce a far riaffiorare la vecchia figura del ‘nemico del genere umano’, cfr. A. Colombo, La guerra ineguale. Pace e violenza nel tramonto della società internazionale, Bologna, Il Mulino, 2006, ma anche le annotazioni di M. Cesa, I nuovi signori della guerra, in «Ideazione», IX (2002), n. 1, dove si richiamano le guerre combattute dall’impero romano contro i pirati: «non si trattava di guerre contro un altro attore statale ma contro gruppi ‘privati’, per dir così, i quali non venivano quindi qualificati come nemici dello stato ma come nemici del genere umano […]; e le guerre erano combattute in uno spazio politico ‘chiuso’, senza, cioè, possibilità di espansione, ma più semplicemente nel tentativo, da una parte, di ribellarsi a un ordine costituito, dall’altra di difendere e consolidare tale ordine. Tanto che si potrebbe forse generalizzare dicendo che, laddove si registrano una estrema preponderanza e concentrazione di potere, simili reazioni sono in larga misura inevitabili. Ciò che cambia è la forma che esse assumono, la quale è verosimilmente una funzione dei mezzi tecnologici a disposizione e della estensione del teatro delle operazioni» (pp. 89-90). Una ricostruzione centrata sulle configurazioni del bellum piraticum e, dunque, dell’hostis generis humani, è proposta da E. Di Rienzo, Il diritto delle armi. Guerra e politica nell’Europa moderna, Milano, Franco Angeli, 2005, specie pp. 149-167, e ripresa Id., «Bellum piraticum» e guerra al terrore. Qualche osservazione problematica, in «Filosofia politica», XIX (2005), n. 3, pp. 459-469.

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del «male radicale»150. Un male assoluto, senza precedenti e senza limiti, la cui comparsa nella storia può fondare la legittimità di una forza politica incaricata di escluderlo, per sempre, dalla società umana, secondo un dispositivo che non può che essere teologico, pur non avendo nulla a che vedere con la teologia delle grandi religioni e pur rifiutando ogni fondazione metafistica151. In un suo famoso saggio, Böckenförde sosteneva che «lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire»: da un primo punto di vista, osservava il giurista tedesco, «esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà, che esso garantisce ai suoi cittadini, si regola dall’interno, cioè a partire dalla sostanza morale del singolo e dall’omogeneità della società»; da un secondo punto di vista, invece, «se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne, […] rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di

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Come è noto, nella stagione compresa fra le due guerre mondiali, Schmitt aveva ben colto questa tendenza, sviluppando una vibrante polemica contro la Società delle Nazioni: «si sta formando», scriveva nel Begriff des Politischen, «un vocabolario nuovo essenzialmente pacifistico che non conosce più la guerra ma solo esecuzioni, sanzioni, spedizioni punitive, pacificazioni, difesa dei trattati, polizia internazionale, misure per la preservazione della pace. L’avversario non si chiama più nemico, ma perciò egli viene posto, come violatore e disturbatore della pace, hors-la-loi e hors l’humanité, e una guerra condotta per il mantenimento o l’allargamento di posizioni economicistiche di potere deve essere trasformata, con il ricorso alla propaganda, nella ‘crociata’ e nell’ultima guerra dell’umanità’. Questo è il frutto della polarità di etica ed economica» (C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 165). Naturalmente, queste posizioni vengono ininterrottamente sviluppate (e precisate) fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta: cfr. soprattutto C. Schmitt, Posizioni e concetti in lotta con Weimar – Ginevra – Versailles. 1923-1939, a cura di A. Caracciolo, Milano, Giuffrè, 2007 (ed. or. Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar – Genf – Versailles. 1923-1939, Hamburg-Wandsbek, Hanseat. Verl.- Anst., 1940); Id., Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicaum europaeum», Milano, Adelphi, 1991 (ed. or. Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin, Duncker & Humblot, 1950); Id., L’unità del mondo, in Id., L’unità del mondo e altri saggi, Roma, Pellicani, 1994 (ed. or. La Unidad del Mundo, Madrid, Ateneo, 1951). 151 In effetti, osserva Ignatieff: «Di fronte al male radicale, sia l’umanismo laico sia l’antica credenza sono stati entrambi di volta in volta assolutamente vittime senza speranza o complici entusiasti» (M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 88). Al contrario, «la forza di un’etica puramente laica è la sua insistenza sul fatto che non vi sono finalità sacre che possano mai giustificare un uso disumano di esseri umani. Un umanismo antifondazionalista può sembrare precario, ma ha il vantaggio di non poter giustificare l’inumanità sulla base di argomenti fondazionali» (ivi, p. 90). Per una ricostruzione critica delle basi etiche dell’intervento umanitario, analogo a quello sostenuto da Ignatieff, sono piuttosto interessanti le osservazioni di T. Nardin, The Moral Basis of Humanitarian Intervention, in «Ethics & International Affairs», XVI (2002), n. 1, pp. 57-70, e Id., Humanitarian Imperialism, in «Ethics & International Affairs», XIX (2005), n. 2, pp. 21-26.

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totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali»152. Una simile contraddizione non può probabilmente essere superata neppure oggi, ma, forse, quella stessa lacerazione si trova ora collocata a un livello più elevato: al livello di quel nuovo impero umanitario di cui Ignatieff scorge le tracce. E cioè proprio al livello di quella che – anche da un punto di vista politico – è divenuta l’«umanità».

152 E.-W. Böckenförde, La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Brescia, Morcelliana, 2006, p. 36; ed. or. Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation (1967), in Id., Recht, Staat, Freiheit. Studien zur Rechtphilosophie, Staatstheorie undVerfassungsgeschichte, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1991, pp. 92-114.

3 Fino alla fine del mondo Lo Stato nello spazio imperiale 3.1 La Terra diminuita – Dove volete che vada? – Io non lo so […] ma, dopo tutto, la Terra è abbastanza vasta. – Lo era una volta… […] – Come, un tempo! Forse che la Terra è diminuita per caso? – Senza dubbio […]. La Terra è diminuita, giacché la si percorre adesso dieci volte più presto di cento anni fa. Ed è questo che, nel caso di cui ci occupiamo, renderà le ricerche più rapide1.

Se la conversazione improvvisata sui tavoli del Reform Club da alcuni gentiluomini londinesi costituiva poco più che il pretesto da cui prendeva avvio la carambola di avventure del Giro del mondo in 80 giorni, la scoperta della ‘diminuzione’ della Terra mostrava ancora una volta la lungimiranza con cui Jules Verne riusciva a cogliere le implicazioni più controverse delle conquiste tecnologiche. Interrogandosi sulla fuga di un ladro particolarmente audace, i compagni di whist di Phileas Fogg arrivavano infatti a scoprire come la Terra – ormai cinta da un’ininterrotta catena di stabili linee di navigazione e strade ferrate – fosse di fatto «diminuita» grazie alla contrazione temporale degli spostamenti di merci e persone. Mentre il Viaggio al centro della terra poteva essere interpretato come un’esplorazione dalle palesi allusioni metaforiche verso le più remote – e inconsce – profondità della psiche, anche la travolgente corsa attorno al mondo di Phileas Fogg e del suo domestico offriva così molto più che una concatenazione di avventure e colpi di scena perfettamente riuscita. Quella corsa contro il tempo, compiuta attraversando quattro continenti, governati da differenti regimi politici e abitati da popola1

J. Verne, Il giro del mondo in 80 giorni, Milano, Mondadori, 1993, p. 19 (ed. or. Le tour du monde en quatre-vingt jours, Paris, Hetzel, 1873).

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zioni estremamente diverse per cultura, religione e storia, era infatti anche una grande e incondizionata celebrazione della civiltà occidentale, capace di solcare gli oceani, innalzare ponti e costruire ferrovie, ma anche – almeno agli occhi di Verne – di portare l’ordine e il progresso tra le brulicanti folle indiane e le riottose tribù dei nativi americani. Più di un secolo dopo, in Until the End of the World, l’entusiasmo che aveva permeato le pagine di Verne si trovava rovesciato in un cupo e irrimediabile pessimismo, trasformando il viaggio che Wim Wenders faceva compiere ai due protagonisti – un viaggio pure per molti aspetti simile a quello intrapreso da Phileas Fogg e dal suo fidato Passepartout – in una fuga senza scampo dalla catastrofe. Muovendosi quasi interamente nei nonluoghi delle città globali e del turismo planetario, in stazioni della metropolitana, camere d’albergo, ristoranti e uffici, la corsa di Wenders verso il limite estremo del mondo, alla ricerca di un orizzonte forse immune dal potere totalitario della tecnica, non poteva che tramutare la scoperta della ‘diminuzione’ della Terra, e l’intuizione ottocentesca della contrazione temporale dello spazio, nell’incubo della ‘fine’. Alludendo alla colonizzazione di ogni più riposto spazio di vita da parte della società della comunicazione, la fuga dei protagonisti da Venezia a Parigi, da Berlino a Londra, da Mosca a Pechino, da Tokyo a San Francisco, fino al continente australiano, mirava infatti a mostrare non solo l’impossibilità del viaggio in un mondo ormai completamente omologato, ma, in termini ancora più radicali, soprattutto la consapevolezza che la scomparsa dell’ultima e più remota ‘frontiera’ poteva aprire le porte a una catastrofe oscuramente presentita, tanto misteriosa quanto imminente. Pur con connotazioni estremamente originali, la raffigurazione della globalizzazione allestita da Wenders rivisitava un immaginario ampiamente consolidato, nel quale l’idea del compimento della conquista umana della Terra risultava invariabilmente associata all’incubo della catastrofe. Sia che a provocare la scomparsa del genere umano fosse un conflitto termonucleare, sia che l’ecatombe provenisse da qualche imprecisato disastro ecologico, lo spettro della ‘fine del mondo’ ha fornito infatti lo scenario (e talvolta il pretesto) a centinaia di trame, centrate sull’esodo da un pianeta ormai inabitabile, su un nuovo ‘stato di natura’ postbellico e, persino, come nell’allegoria di Planet of the Apes, sul rovesciamento della gerarchia antropocentrica. Al termine della Seconda guerra mondiale, lo stesso Carl Schmitt, nelle sue celebri riflessioni sull’Unità del mondo, non poteva evitare di evocare un quadro per gran parte convergente con l’immaginario di un’apocalisse incombente. Diventando realistica soltanto con l’ascesa del «pensiero tecnico-industriale», l’idea dell’«unità del mondo», a partire dalla metà dell’Ottocento, si era avvi-

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cinata rapidamente alla sua potenziale realizzazione. Nell’arco di un secolo, a fronte dello sviluppo dei mezzi di trasporto e degli strumenti di distruzione bellica, la Terra, secondo Schmitt, si era «proporzionalmente rimpicciolita», facendo apparire la «realizzazione dell’unità del mondo» come l’esito pressoché scontato della storia umana. Puntando a una ricomposizione della frattura apertasi tra lo sviluppo tecnologico e la realtà morale, Schmitt non auspicava che la prospettiva dell’unificazione del pianeta si realizzasse effettivamente. Ma, per quanto contestasse la fatalità di questo destino, non escludeva affatto che l’eventualità dell’unificazione del mondo sotto un solo potere si potesse concretamente verificare e che, trasformando il genere umano in una sorta di «magnus homo», potesse sancire, con la «morte tecnica dell’umanità», il «punto culminante della Storia universale»2. Cinquant’anni dopo la conferenza di Schmitt, il cupo scenario del conflitto atomico tra le superpotenze ha lasciato il posto a un immaginario in cui la catastrofe finale risulta determinata da una sorta di lenta implosione della razionalità tecnica, in un quadro di progressiva distruzione delle risorse ambientali e di logoramento delle condizioni della convivenza sociale. Prefigurando il nuovo panorama molto più efficacemente della vecchia fantascienza degli anni Cinquanta, opere come Blade Runner di Ridley Scott o Neuromante di William Gibson hanno fornito, già all’inizio degli anni Ottanta, l’oscura immagine di un mondo interamente ricoperto dalle reti della società 2 Cfr. C. Schmitt, L’unità del mondo, in Id., L’unità del mondo e altri saggi, a cura di A. Campi, Roma, Pellicani, 1994, pp. 303-319, specie p. 315 (ed. or. La Unidad del Mundo, Madrid, Ateneo, 1951). Quando Schmitt evocava l’unità del mondo, non si riferiva «all’unità mondiale delle comunicazioni, del commercio, dell’unione postale universale o cose del genere», ma all’«organizzazione unitaria del potere umano, il cui scopo sarebbe pianificare, dirigere e dominare la terra e l’intera umanità» (ivi, p. 303). Ma è da ricordare anche come, in fondo, Schmitt intendesse «il problema dell’unità del mondo» nei termini di un «problema di autointerpretazione storica dell’uomo» e, dunque, come una questione derivante da una determinata filosofia della storia: «La scienza naturale moderna» – osservava così – «non risolve questa questione. Fornisce i suoi stupendi prodotti, armi e strumenti di distruzione, a tutti i potenti che sanno servirsene, però non dice che bisogna farne un debito uso e, soprattutto, non dice contro che cosa debbono essere usati. La questione dell’unità del mondo sarebbe risolta nel senso di una pura tecnicità se non esistesse alcun rimedio contro il programma filosofico vigente ad Oriente come ad Occidente. In un simile caso non esisterebbe neppure la possibilità di una terza forza capace di essere qualcosa di più di un semplice prodotto accessorio di quell’unità tecnica. Però, la storia stessa è sempre più grande e più forte di ogni filosofia della Storia e della possibilità di una visione cristiana della storia stessa» (ivi, p. 319). Sul nodo dell’«unità del mondo», cfr., per esempio, C. Resta, Stato mondiale o «nomos» della Terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Roma, Antonio Pellicani, 1996, oltre che le considerazioni di F. Petito, Against World Unity: Carl Schmitt and the Western-Centric and Liberal Global Order, in L. Odysseos – F. Petito (eds.), The International Political Thought of Carl Schmitt. Terror, Liberal War and the Crisis of Global Order, London, Routledge, 2007, pp. 166-184.

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della comunicazione e dominato da corporations pervasive e onnipotenti. Alle seducenti suggestioni offerte dalla science fiction non hanno voluto sottrarsi neppure le scienze sociali, e, così, le riflessioni critiche sul processo di globalizzazione sono spesso risultate debitrici – a dispetto anche dell’originalità e dell’estrema utilità delle analisi – dello stesso immaginario apocalittico al fondo dell’incubo della ‘fine del mondo’. Già alla metà degli anni Ottanta, per esempio, una ricercatrice attenta e rigorosa come Susan Strange, al termine di un suo importante lavoro, evocando l’immagine dell’ultima notte del XX secolo, dipingeva un panorama contrassegnato da una crescente polarizzazione sociale, nel quale avrebbero potuto «alzare il bicchiere» per festeggiare l’ultimo capodanno del millennio «solo i partecipanti al gioco d’azzardo della finanza […] sopravvissuti nelle grandi torri per uffici dei centri finanziari del mondo capitalistico»3. Invariabilmente al centro della letteratura cresciuta attorno all’idea del «nuovo medioevo» globale, non poteva che trovarsi soprattutto il nodo della ‘scomparsa’ dello Stato, descritto come letteralmente sopraffatto dalle grandi compagnie transnazionali e dall’incontrollabile fluire dei mercati finanziari internazionali. In questo senso, fornendo nel 1996 una delle raffigurazioni più efficaci della globalizzazione dei mercati, proprio Strange delineava i contorni di un costante «declino dell’autorità statale», nel quale, contemporaneamente a una concentrazione delle risorse decisionali verso gli Stati «con capacità globale o regionale al di là delle proprie frontiere», si sarebbe assistito non solo all’emergere di «autorità non statali», ma anche alla «volatilizzazione» di una parte del potere precedentemente esercitato dai governi nazionali4. A dispetto della convinta insistenza sull’idea di un declino 3 S. Strange, Capitalismo d’azzardo, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 204 (ed. or. Casino Capitalism, Blackwell, Oxford 1986). Sulla suggestione di questa immagine ha richiamato l’attenzione anche R. Gherardi, Individuo, opinione pubblica e istituzioni nell’era della globalizzazione. Alla ricerca della «disciplina perduta», in G. Cavallari (a cura di), Comunità, individuo e globalizzazione. Idee politiche e mutamenti dello Stato contemporaneo, Roma, Carocci, 2001, pp. 205-231. 4 Cfr. S. Strange, Chi governa l’economia mondiale? Crisi dello stato e dispersione del potere, Bologna, Il Mulino, 1998 (ed. or. The Retreat of the State. The Diffusion of Power in the World Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1996). Su questo nodo, si vedano peraltro, come orientamento in una bibliografia quasi sterminata, E.B. Kapstein, Governare l’economia globale. La finanza internazionale e lo Stato, Trieste, Asterios, 1999 (ed. or. Governing the Global Economy. International Finance and the State, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1994); M. Mann, Has Globalization ended the Rise and Rise of the Nation-State?, in «Review of International Political Economy», IV (1997), n. 3, pp. 472-496; K. Ohmae, La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali, Milano, Baldini & Castoldi, 1996 (ed. or. The End of the Nation State. The Rise of Regional Economies, New York, The Free Press, 1995); L. Ornaghi, L’istituzionalizzazione dei rapporti economici, politici, sociali. Trasformazioni del sistema statale e svolta verso la «deregulation», in Eredità del Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2000, pp. 111-130, e V.E.

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tanto netto da sancire definitivamente la vittoria del ‘mercato’ sullo Stato, i primi anni del nuovo secolo hanno tracciato un quadro piuttosto differente, invitando anche a una revisione delle ipotesi formulate nel precedente decennio5. In questo senso, come ha osservato recentemente Lorenzo Ornaghi, mentre è «certamente prematuro e con ogni probabilità abbastanza ingenuo ritenere che la plurisecolare rete di corrispondenze e coerenze da cui sono ‘tenuti insieme’ Stato e sistema politico (ed economico) internazionale sia ormai del tutto infranta», il compito che si pone all’indagine dei contestuali processi di globalizzazione e frammentazione non può che passare dallo studio delle modalità con cui quelle stesse «corrispondenze» e «coerenze» si modificano e riarticolano all’interno del nuovo contesto6. Più che considerare perciò conclusa la vicenda della moderna statualità, risulta teoricamente molto più utile ricostruire le dinamiche con cui i diffeParsi, Interesse nazionale e globalizzazione. I regimi democratici nelle trasformazioni del sistema postwestfaliano, Milano, Jaca Book, 1998; L. Panitch, Rethinking the Role of the State, in J.H. Mittelman (ed.), Globalization. Critical Reflections, Boulder, Lynne Rienner, 1996, pp. 83-113; E. Parise (a cura di), Stato nazionale, lavoro e moneta nel sistema mondiale integrato, Napoli, Liguori, 1997; G. Poggi, Lo stato sfidato, «Rivista Italiana di Scienza Politica», XXI (1991), n. 2, pp. 191-222; R. Rosecrance, Rise of the Virtual State: Wealth and Power in the Coming Century, New York, Basic Books, 1999; S. Sassen, Fuori controllo, Milano, Il Saggiatore, 1998 (ed. or. Losing control? Sovereignty in an age of globalization, New York, Columbia University Press, 1996). Per una ricostruzione delle diverse posizioni, cfr., per esempio, i contributi di V.E. Parsi, Il ruolo internazionale degli attori economici, in G.J. Ikenberry – V.E. Parsi (a cura di), Manuale di Relazioni Internazionali, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 91-108; R. Panizza, Il declino del ruolo degli Stati nazionali nella definizione della politica economica, in «Teoria politica», XVIII (2002), n. 1, pp. 25-38; P.P. Portinaro, Il futuro dello Stato nell’età della globalizzazione. Un bilancio di fine secolo, in «Teoria politica», XIII (1997), n. 3, pp. 17-36, e Id., Stato: un tentativo di riabilitazione, in O. Guaraldo – L. Tedoldi, Lo stato dello Stato. Riflessioni sul potere politico nell’era globale, Verona, Ombre Corte, 2005, pp. 34-63; e M. Shaw, La rivoluzione incompiuta. Democrazia e stato nell’era della globalità, Milano, Università Bocconi Editore, 2004 (ed. or. Theory of the Global State, Cambridge, Cambridge University Press, 2000). 5 Elementi per una rilettura critica sono proposti, per esempio, a livelli differenti, da L. Bellocchio, Mutamento e persistenza dello stato nazionale, in «Nuova Informazione Bibliografica», III (2006), n. 2, pp. 595-310; Id., Fine dello stato o stato senza fine?, in «Democrazia e diritto», XLVI (2005), n. 4, pp. 197-206; F.G. Castles, The Disappearing of the State? Retrenchment Realities in an Age of Globalisation, Cheltenham, Elgar, 2007; L. Weiss, The Myth of the Powerless State, Ithaca, Cornell University Press, 1998; Id. (ed.), States in the Global Economy. Bringing Domestic Institutions Back In, Cambridge, Cambridge University Press, 2003; e Id., L’integrazione globale accresce il potere degli Stati, in «Rivista Italiana di Scienza Politica», XXXV (2005), n. 3, pp. 397-416. Ma interessanti rilievi sono proposti anche da A. Panebianco, Il potere, lo stato, la libertà. La gracile costituzione della società libera, Bologna, Il Mulino, 2004, specie pp. 273-281. Per una sintetica esposizione del dibattito, mi permetto di rinviare alle pagine introduttive di D. Palano, Frammenti di potere. Tracce di politica nella metamorfosi dello spazio, Roma, Aracne, 2009. 6 L. Ornaghi, Il ruolo internazionale dello Stato, in G.J. Ikenberry e V.E. Parsi (a cura di), Manuale di Relazioni Internazionali, cit., pp. 69-87, specie p. 86.

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renti livelli istituzionali contribuiscono a ridefinire le geometrie dello spazio politico, configurando architetture ed equilibri almeno parzialmente inediti. Ad essere posta in crisi dai processi di deterritorializzazione politica ed economica è infatti, come ha messo efficacemente in luce Carlo Galli, la specifica modalità con cui la modernità europea – dinanzi alla crisi dell’universalismo medievale, alle scoperte geografiche, alla fine della centralità europea e, soprattutto, all’esaurimento di qualsiasi «spazialità immediatamente politica» – ha costruito una geometria spaziale fondata sulla creazione di confini artificiali, costitutivamente instabili nel tempo e nella loro struttura. In altri termini, la sfida proveniente dalla globalizzazione e la ridefinizione del ruolo delle unità statuali pongono in questione principalmente la configurazione dello spazio centrata sulla relazione istituita tra soggetto, Stato e società, finendo col determinare l’obsolescenza teorica delle categorie che innervavano la ‘moderna’ geometria spaziale e soprattutto – insieme alle dicotomie di universale e particolare, pubblico e privato, cosmopolitico e locale – la stessa distinzione tra interno ed esterno7. Che tra gli effetti del superamento del confine tra inside e outside non stia soltanto la caduta della moderna distinzione tra «nemico» e «criminale» (già messa a dura prova dalle guerre del Novecento) è stato peraltro mostrato nitidamente da Luigi Bonanate, il quale, riprendendo la formula habermasiana della «politica interna del mondo», ha messo in luce tutte le esitazioni con cui la riflessione politologica stenta a trarre le indispensabili conclusioni teoriche dalla registrazione di un processo di integrazione planetaria ormai ben più che decennale8. La necessità di nuove categorie interpretative, indispensabili per dar conto di un processo che si muove al di fuori anche delle più consolidate distinzioni tra politica «interna» e «internazionale», risulta in effetti ancora oggi largamente insoddisfatta. Se nozioni come quella di governance iniziano a mostrare la corda già dopo pochi anni di vita, i ritardi e l’urgenza degli sforzi appaiono ancora maggiori sul versante della riflessione

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Cfr. C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il Mulino, 2001. La tesi complessiva del lavoro di Galli – per molti versi indispensabile per iniziare una discussione problematica intorno al nesso fra spazio e politica – è che «gli spazi politici moderni nascono in quanto risposta a sfida, e si sono configurati in termini sì precari e contingenti, ma anche in grado di ospitare al proprio interno, nel bene e nel male, le forze mobilitanti della libertà soggettiva e sociale»; e, dunque, che «oggi si rende necessario affrontare la grande crisi della globalizzazione – che delle contraddizioni del Moderno è il compimento – con un nuovo intento spazializzante» (ivi, p. 15). 8 Si vedano su questo punto soprattutto gli anticipatori rilievi contenuti in L. Bonanate, 2001: la politica interna del mondo, in «Teoria politica», XVII (2001), n. 1, pp. 3-25, ulteriormente sviluppati in Id., La politica internazionale fra terrorismo e guerra, Roma-Bari, Laterza, 2004.

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sullo Stato e sulle sue funzioni. Mentre alla consapevolezza dell’esaurimento della sovranità non hanno fatto seguito riflessioni capaci di ‘relativizzare’ la definizione ottocentesca dello Stato, si è anche assistito, oltre che al revival del vecchio schema dell’imperialismo, all’inaspettato successo di un concetto dalle profonde radici storiche come «impero». L’idea di un «impero» – ovviamente coincidente con gli Usa e il limitato numero dei loro più fedeli alleati – ha conosciuto la maggiore fortuna soprattutto nel dibattito politico, sia presso i feroci critici degli Stati Uniti, che hanno spesso caricato di suggestioni apocalittiche la loro requisitoria9, sia presso gli ammiratori del ruolo – politico, militare ed economico – rivestito da Washington e dagli alleati occidentali. Per un verso, severi critici come Chalmers Johnson, Gore Vidal o Noam Chomsky hanno così utilizzato la formula «impero» per etichettare la politica estera degli Stati Uniti, accusati di agire secondo criteri sostanzialmente ‘imperialisti’10, mentre, per un altro, autori (dall’impostazione peraltro ben diversa) come Robert Kagan o Michael Ignatieff hanno celebrato gli Usa come un impero «benevolo» o come il cuore di una sorta di impero «umanitario», chiamato alla difesa dei

9 Su questo dibattito, cfr. E. Diodato, Impero e globalizzazione, in D. della Porta e L. Mosca (a cura di), Globalizzazione e movimenti sociali, Roma, Manifestolibri, 2003, pp. 197-209. Per una breve rassegna, cfr. D. Palano, Il destino della repubblica imperiale. La forma del potere sovrano nella trasformazione contemporanea, in V.E. Parsi – S. Giusti – A. Locatelli (a cura di), Esiste ancora la comunità transatlantica? Europa e Stati Uniti tra crisi e distensione, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 19-63. 10 C. Johnson, Le lacrime dell’impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano, Milano, Rizzoli, 2005, p. 23 (ed. or. The The Sorrows of Empire, New York, Metropolitan Books, 2004); Id., Gli ultimi giorni dell’impero americano, Milano, Garzanti, 2001 (ed. or. Blowback. The Costs and Consequence of the American Empire, New York, Metropolitan Books, 2000); G. Vidal, La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo?, Roma, Fazi, 2001; Id., Le menzogne dell’impero e altre tristi verità, Roma, Fazi, 2002, e Id., Democrazia tradita, Roma, Fazi, 2004, ora raccolti in Id., Trilogia dell’impero, Roma, Fazi, 2005, e N. Chomsky, Egemonia o sopravvivenza, Milano, Tropea, 2005 (ed. or. Hegemony or Survival. America’s Quest for Global Dominance. The American Empire Project, New York, Metropolitan Books, 2003). In un senso parzialmente diverso, cfr. anche B.R. Barber, L’impero della paura. Potenza e impotenza dell’America nel nuovo millennio, Torino, Einaudi, 2004 (ed. or. Fear’s Empire. War, Terrorism and Democracy, New York, W.W. Norton & Company, 2003), e, nell’ambito della discussione italiana, A. Asor Rosa, La guerra. Sulle forme attuali della convivenza politica, Torino, Einaudi, 2002, il quale, per esempio, definisce l’impero come «il gigantesco insieme di relazioni che tiene insieme i vari pezzi del suo dominio, – dominio che, quando si verifichino rischi nella sua sicurezza e compattezza, si tiene insieme con la guerra, – guerra che, a ogni passaggio del suo infinito dispiegarsi, allarga i confini dell’Impero, dà maggiore organicità e consistenza a quel sistema di relazioni, lo organicizza e lo normalizza, spinge più in profondità la sua presa sulle varie parti del mondo» (ivi, p. 193).

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diritti umani e alla promozione della democrazia11. Ma la medesima nozione di «impero» è stata riproposta più di recente anche nel campo degli studi internazionali, proprio per illustrare il ruolo assunto dagli Stati Uniti e per comprendere le caratteristiche della loro egemonia. Se già negli anni Ottanta Strange aveva adottato il termine «impero» per dar conto dell’assetto globale che stava prendendo forma12, negli ultimi anni la riflessione sulla «forma-impero» si è costantemente infittita, percorrendo due binari distinti, anche se in fondo convergenti. Per un verso, un primo percorso ha puntato a riabilitare la nozione di «impero», valorizzando le componenti positive di una simile forma di dominio politico e concentrandosi sulla leadership egemonica statunitense: in questo senso, ovviamente, la difficoltà principale consiste nell’articolare la distinzione fra «impero formale» e «impero informale», e, dunque, nella definizione dei caratteri specifici di un dominio imperiale esercitato in presenza di un sistema di Stati formalmente sovrani. Così, alcuni studiosi hanno proposto di intendere l’egemonia americana come un peculiare «impero informale», capace di conferire stabilità politica ed economica al sistema internazionale13. Lungo un secondo binario, il ‘ritorno’ dell’impero ha inoltre suggerito anche una riflessione meno centrata sul presente, ma rivolta piuttosto a una riconsiderazione del ruolo storico degli imperi, con l’obiettivo di colmare una lacuna tutt’altro che secondaria degli studi di Relazioni Internazionali, focalizzati quasi senza eccezione sui sistemi interstatali14. 11 Cfr., per esempio, R. Kagan, The benevolent Empire, in «Foreign Policy», 1998, n. 111, pp. 24-33, e M. Ignatieff, Impero light. Dalla periferia al centro del nuovo ordine mondiale, Roma, Carocci, 2003 (ed. or. Empire lite. Nation-building in Bosnia, Kosovo and Afghanistan, London, Vintage, 2003). 12 Cfr. S. Strange, The Future of the American Empire, in «Journal of International Affairs», XLII (1988), n. 1, pp. 1-7; Id., Toward a Theory of Transnational Empire, in E.O. Czempiel – J.N. Rosenau (eds.), Global Change and Theoretical Challenges: Approaches to World Politics for the 1990s, Lexington, Lexington Books, 1989, pp. 161-176. 13 Cfr. in questo senso, per esempio, la proposta di Niall Ferguson, il quale sostiene che, «se si adotta una definizione più ampia e complessa di impero, sembra possibile fare a meno del termine ‘egemonia’», tanto che «diventa infatti plausibile sostenere che l’impero americano, salvo alcune eccezioni, abbia finora preferito il dominio indiretto a quello diretto e l’impero informale a quello informale» (N. Ferguson, Colossus, Ascesa e declino dell’impero americano, Milano, Mondadori, 2006, p. 15; ed. or. Colossus. The Price of America’s Empire, New York, Penguin Press, 2004). Le ipotesi di Ferguson si basano peraltro sulla rilettura della vicenda del vecchio impero britannico, cfr. Id., Empire. How Britain Made the World, London, Allen Lane, 2003. In una direzione in parte simile a quella indicata da Ferguson si muovono anche le indicazioni di V.E. Parsi, L’impero come fato? Gli Stati Uniti e l’ordine globale, in «Filosofia politica», XVI (2002), n. 1, pp. 83-113; in parte differenti, sono invece le ipotesi interpretative di T. Barkawi – M. Laffey, The Imperial Peace: Democracy, Force and Globalization, in «European Journal of International Relations», V (1999), n. 4, pp. 403-434. 14 Cfr., per esempio, il fascicolo dedicato a Empires, Systems and States: Great Transformations in

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Proprio negli Stati Uniti, l’inatteso revival del termine è stato però favorito dal successo arriso nel 2000 a Empire, il testo con cui Michael Hardt e Antonio Negri hanno tentato di definire i contorni del nuovo paradigma di esercizio della sovranità configuratosi informalmente negli ultimi decenni15. Per molti versi sorprendente, almeno in Italia, il successo del saggio – nel quale vanno a innestarsi differenti matrici, dall’operaismo italiano degli anni Sessanta e Settanta ai subaltern studies, dal poststrutturalismo francese alla riflessione sull’impatto delle trasformazioni tecnologiche – è in realtà un segnale dell’interesse mostrato dalla teoria radicale nordamericana per i differenti filoni del neomarxismo europeo, rivisitati in una chiave fortemente antideterminista, alla luce dei dibattiti condotti nel quadro del decostruzionismo filosofico, del postcolonialismo, del postmodernismo e degli studi di genere16. Nella proposta di Hardt e Negri, l’«Impero» viene però evocato International Politics, della «Review of International Studies», XXVII (2001), curato da M. Cox, T. Dunne e K. Booth, e l’importante lavoro di ricostruzione svolto da H. Münkler, Imperi. Il dominio del mondo dall’antica Roma agli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 2008 (ed. or. Imperien. Die Logik der Weltherrschaft. Von Alten Rom Bis zu den Vereigniten Staten, Rohwolt, Berlin, 2005). 15 M. Hardt e A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2002 (ed. or. Empire, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2000). 16 Al momento della pubblicazione italiana, nel 2002, il libro, tradotto anche in spagnolo, tedesco, francese, cinese, turco e arabo, aveva già venduto complessivamente mezzo milione di copie (cfr. I. Dominijanni, Il backlash imperialista sull’Impero, in «il Manifesto», 14 settembre 2002, p. 14). Tra gli interventi nel dibattito possono essere tra l’altro segnalati, senza alcuna pretesa di completezza, innanzitutto i volumi di T. Atzert – J. Müller (hrsg.), Immaterielle Arbeit und imperiale Souveränität. Analysen und Diskussionen zu ‘Empire’, Münster, Westfälisches Dampfboot, 2004; G. Balakrishnan (ed.), Debating Empire, London-New York, Verso, 2003; A. Boron, Impero & Imperialismo. Una lettura critica di Michael Hardt e Antonio Negri, Milano, Punto Rosso, 2003 (ed. or. Impero & Imperialismo. Una lectura critica de Michael Hardt y Antonio Negri, Buenos Aires, Clacso, 2002); P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes. Reading Hardt and Negri, London-New York, Routledge, 2004, ma anche gli interventi di G. Arrighi, Genesi di un impero, in «Il Ponte», LVIII (2002), nn. 8-9, pp. 104-115; G. Balakrishnan, Virgilian Visions, in «New Left Review», 2000, n. 5, pp. 142-148; T. Barkawi – M. Laffey, Retrieving the Imperial: «Empire» and International Relations, in «Millennium», XXXI (2002), n. 1, pp. 109-127; J. Bellamy Foster, Imperialism and «Empire», in «Monthly Review», vol. LIII, n. 7; M. Bull, You Can’t Build a New Society with a Stanley Knife, in «London Review of Books», XXIII (2001), n. 19, 4 ottobre; A. Callinicos, The Actuality of Imperialism, in «Millennium», XXXI (2002), n. 2, pp. 319-326; E. Eakin, What is the Next Big Idea? Buzz is Growing for «Empire», in «New York Times», 7 luglio 2001; L. Panitch – S. Gindin, Gems and Baubles in «Empire», in «Historical Materialism», 2002; M. Rustin, Empire: A Postmodern Theory of Revolution, in «New Political Economy», VII (2002), n. 3, pp. 451-462; M. Shaw, Post-Imperial and Quasi-Imperial: State and Empire in the Global Era, in «Millennium», XXXI (2002), n. 2, pp. 327-336; R.B. Walker, On the Immanence/Imminence of Empire, in «Millennium», XXXI (2002), n. 2, pp. 337-345, e i contributi raccolti nei numeri monografici dedicati al volume dalle riviste «Theory and Event», 2000, n. 4; «Rethinking Marxism», 2001, nn. 3-4; «Cultural Studies», XVI (2002), n. 2; «Acme», II (2003), n. 2. Tra gli interventi italiani possono invece essere segnalati, oltre

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in un significato molto diverso da quello cui ricorrono tanto i critici quanti gli estimatori del ruolo ‘imperiale’ svolto dagli Stati Uniti sulla scena politica mondiale. Quando adottano il termine «Impero», i due autori intendono infatti riferirsi a un complesso di trasformazioni che testimonia l’emergere di «una nuova forma di sovranità»17. «L’Impero», scrivono nelle pagine iniziali del volume, «si sta materializzando proprio sotto i nostri occhi», perché «assieme al mercato mondiale e ai circuiti globali della produzione sono emersi un nuovo ordine globale, una nuova logica e una nuova struttura di potere: in breve, una nuova forma di sovranità»18. Ma se, per un verso, «l’Impero è il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo», per un altro, questa nuova forma di esercizio del potere sovrano non è riconducibile in alcun modo agli imperi del passato: né, dunque, all’impero romano, né all’impero britannico. Il termine «Impero» viene d’altronde utilizzato non come «una metafora che implica la definizione delle somiglianze tra l’attuale ordine mondiale e gli imperi di Roma, della Cina, quelli precolombiani ecc.», ma, al contrario, «come un concetto che esige un approccio essenzialmente teorico»19. Ed è in alle note di R. Ciccarelli, Democrazia e Impero secondo Antonio Negri, in «Democrazia e Diritto», XL (2001), n. 2, pp. 41-60; R. Gasparotti, L’impero e le sue alternative. Note e riflessioni in margine ai recenti libri di Hardt-Negri e Bolaffi-Marramao, in «Filosofia politica», XVI (2002), n. 1, pp. 145-154; L. Salter, Globalizzazione, tecnologia, e mito dell’indebolimento dello Stato: una critica alle dinamiche della postmodernità, in O. Guaraldo – L. Tedoldi (a cura di), Lo stato dello Stato, cit., pp. 64-84; il confronto tra Negri e Danilo Zolo, Dialogo su «Impero», in «Reset», 2002, n. 73, pp. 8-19 (ora riprodotto in A. Negri, Guide. Cinque lezioni su «Impero» e dintorni, Milano, Raffaello Cortina, 2003, pp. 11-33), e quello tra A. Negri – R. Esposito – S. Veca, Dialogo su impero e democrazia, in «Micromega», 2001, n. 5, pp. 115-134. Ovviamente, all’interno di questa discussione si collocano anche i due volumi di T.S. Murphy e A.-K. Mustapha (eds.), The Philosophy of Antonio Negri. I. Resistance in Practice, London, Pluto Press, 2005, e Id. (eds.), The Philosophy of Antonio Negri. II. Revolution in Theory, London, Pluto Press, 2007. D’altro canto, molte delle critiche emerse alle tesi di Empire sono state considerate (e in parte accolte) dai due autori, in una serie di lavori successivi, tra cui, per esempio: A. Negri, Cinque lezioni di metodo su moltitudine e impero, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002; H. Friese – A. Negri – P. Wagner (a cura di), Europa politica. Ragioni di una necessità, Roma, Manifestolibri, 2002; A. Negri, Guide, cit.; Id., L’Europa e l’Impero. Riflessioni su un processo costituente, Roma, Manifestolibri, 2003; M. Hardt – A. Negri, Moltitudine. Guerra e mutamento nel nuovo ordine mondiale, Milano, Rizzoli, 2004 (ed. or. Multitude. War and democracy in the Age of Empire, New York, Penguin Books, 2004); A. Negri, Movimenti nell’impero. Passaggi e paesaggi, Milano, Raffaello Cortina, 2006; A. Negri – G. Cocco, GlobAL. Biopotere e lotte in America Latina, Roma, Manifestolibri, 2006; A. Negri, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica, Milano, Feltrinelli, 2008 (ed. or. Fabrique de porcelaine. Pour une nouvelle grammaire du politique, Paris, Stock, 2006); Id., Dalla fabbrica alla metropoli. Saggi politici, Roma, Datanews, 2008. 17 M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 13 18 Ibid. 19 Ivi, p. 16.

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questa direzione, allora, che il concetto di «Impero» – come i due autori chiariscono nella Prefazione – viene a delinearsi, mostrando in particolare quattro attributi costitutivi, ossia l’assenza di confini, la sospensione della storia, la pervasività del potere, la vocazione alla realizzazione della pace perpetua: Il concetto di Impero è caratterizzato, soprattutto, dalla mancanza di confini: il potere dell’Impero non ha limiti. In primo luogo, allora, il concetto di Impero indica un regime che di fatto si estende all’intero pianeta, o che dirige l’intero mondo «civilizzato». Nessun confine territoriale limita il suo regno. In secondo luogo, il concetto di Impero non rimanda a un regime storicamente determinato che trae la propria origine da una conquista ma, piuttosto, a un ordine che, sospendendo la storia, cristallizza l’ordine attuale delle cose per l’eternità […] un regime che non possiede limiti temporali e che, in tal senso, si trova al di fuori della storia o alla sua fine. In terzo luogo, il potere dell’Impero agisce su tutti i livelli dell’ordine sociale, penetrando nelle sue profondità. L’Impero non solo amministra un territorio e una popolazione, ma vuole creare il mondo reale in cui abita. […] Infine, benché l’agire effettivo dell’Impero sia continuamente immerso nel sangue, il suo concetto è consacrato alla pace – una pace perpetua e universale fuori dalla storia20.

Esaminando le ipotesi sulla nuova «forma-impero», nelle prossime pagine vengono riconsiderati alcuni nodi al centro del vecchio dibattito marxista sullo Stato, di cui sono posti in luce tanto gli elementi chiave quanto i limiti e le incongruenze. Prendendo le mosse dalla contrapposizione teorica tra concezioni ‘strumentaliste’ e ‘funzionaliste’, e affrontando la questione dell’«autonomia» delle istituzioni politiche, la ricostruzione cerca di delineare inoltre i contorni principali della ricerca sui rapporti tra Stato ed economia condotta negli anni Ottanta e Novanta. Uno degli obiettivi di Empire è infatti sciogliere il nodo problematico relativo al nesso tra istituzioni politiche e ordine economico che l’ancora insufficiente sviluppo del capitalismo avrebbe in precedenza reso insolubile. La tesi al cuore di queste pagine è però che l’immagine della nuova «forma-impero» non riesca interamente a superare i limiti della vecchia riflessione marxista sullo Stato e il ruolo delle istituzioni politiche, e finisca con l’allestire, a dispetto delle dichiarazioni teoriche, un quadro piuttosto determinista. Al tempo stesso, però, l’ipotesi del nuovo «Impero» propone una lettura efficace della crisi della spazialità moderna e delinea una prospettiva capace di conferire una certa organicità al più recente dibattito radicale e di collocare in una nuova dimensione teorica la ricerca sulla globalizzazione e sulle trasformazioni della sovranità. 20

Ibid.

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3.2 Le geometrie dell’impero Nel suo monumentale e ancora incompiuto studio sulle origini dell’economia-mondo, Immanuel Wallerstein ha insistito con forza sul ruolo svolto dagli Stati nazionali nell’affermazione e nell’estensione del modo di produzione capitalistico, soffermandosi inoltre sul nesso strettissimo esistente tra la nascita del «capitalismo storico» e il consolidamento del sistema interstatuale. Compiendo un percorso logico inverso a quello seguito da Marx nel Capitale, Wallerstein non si è posto come obiettivo l’individuazione di un modello astratto del modo di produzione, ma ha piuttosto tentato di chiarire come la logica dell’accumulazione si sia storicamente imposta, da quali soggetti sia stata perseguita e grazie a quali modalità sia riuscita ad abbracciare un’area sempre più coincidente con quella del mondo intero. Secondo questa lettura, i primi germi di quello che sarebbe in seguito divenuto il sistema mondiale dell’economia moderna erano già individuabili nell’Europa della fine del XV secolo. Già in questa fase, iniziava infatti a emergere un nuovo vero e proprio sistema «mondiale», che, pur conservando alcune caratteristiche dei vecchi imperi, se ne discostava profondamente, originando un assetto radicalmente innovativo: Era un tipo di sistema sociale che il mondo non aveva ancora conosciuto, e che costituisce la caratteristica particolare del moderno sistema-mondo. È un’entità economica ma non politica, diversa dagli imperi, dalle città-Stato e dalle nazioni-Stato. Di fatto, essa comprende dentro i suoi confini (non si può parlare di frontiere) imperi, città-Stato e le emergenti «nazioni-Stato». È un sistema mondiale non perché comprenda il mondo intero, ma perché va al di là di qualsiasi unità politica definita giuridicamente. Ed è un’«economiamondo» perché il legame fondamentale tra le parti del sistema è economico, anche se veniva rinforzato in qualche misura da legami culturali e […] da accordi politici ed anche da strutture confederali21.

Chiarendo la differenza tra le vecchie realtà imperiali e il nuovo sistemamondo, Wallerstein riprendeva un punto cruciale degli studi dedicati da Fernand Braudel all’affermazione del capitalismo22. Mentre i vecchi imperi si 21

I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna. I. L’agricoltura capitalistica e le origini dell’economia-mondo europea nel XVI secolo, Bologna, Il Mulino, 19782, p. 31 (ed. or. The Modern World-System. I. Capitalist Agriculture and the Origins of the European World-Economy in the Sixteenth Century, New York, Academic Press Inc., 1974). 22 Cfr. F. Braudel, Capitalismo e civiltà materiale (secoli XV-XVIII), Torino, Einaudi, 1977, e Id., Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII). III. Le strutture del mondo, Torino, Einaudi, 1982 (ed. or. Civilisation matérielle, economie et capitalisme (XVe-XVIIIe siècle, Paris, Armand Colin, 1979).

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erano fondati sull’estrazione di tributi e imposte resa possibile dal monopolio della forza e dall’esistenza di una struttura burocratica e repressiva rigidamente centralizzata, la novità del nuovo world system consisteva nella natura prettamente economica della sua logica di dominio. Se questo mutamento non implicava la senescenza delle forme politiche di controllo e governo del territorio, imponeva però agli Stati nascenti un ruolo che, a differenza delle vecchie sintesi imperiali, li avrebbe visti impegnati principalmente nel compito di assicurare la regolarità delle transazioni commerciali e un’azione di espansione non militare ma prevalentemente economica23. Per quanto l’immagine al centro del libro di Hardt e Negri sembri contrastare la tesi di Braudel e Wallerstein, l’idea di «Impero» proposta dai due autori per descrivere l’ordine politico della globalizzazione risulta solo in parte alternativa a quella dei teorici dell’«economia-mondo». Gli spunti critici indirizzati da Hardt e Negri a questo filone di indagine si concentrano infatti principalmente sull’adozione di una teoria ‘ciclica’ dello sviluppo capitalistico da cui sarebbero espunti gli elementi conflittuali e il ruolo delle forze antagoniste alla dinamica della valorizzazione, ma non implicano in alcun modo una contestazione del carattere prevalentemente ‘economico’ del world-system inaugurato dal capitalismo moderno24. Anche 23

Wallerstein riprendeva la definizione della sintesi imperiale fornita da S.N. Eisenstadt, Empire, in International Encyclopedia of the Social Sciences, New York, MacMillan – Free Press, 1968, V, e Id., The political system of empires, New York, The Free Press, 1963. Per una ricostruzione storica e concettuale, si vedano anche: S. Breuer, Imperi, in «Enciclopedia delle Scienze Sociali», Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1994, IV, pp. 529-538; K. Breysig, Empire, in E.R.A. Seligman (a cura di), Encyclopedia of Social Sciences, London, MacMillan, 1935, V, pp. 497-506; M. Cartier, Imperi, in Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi, 1979, VII, pp. 145156; P. Colliva, Impero, in G. Pasquino, N. Bobbio e N. Matteucci (a cura di), Dizionario di politica, Torino, Utet, 19832 (I ed. 1976), pp. 540-544; G. Miglio, La sovranità limitata (1985), in Id., Le regolarità della politica. Scritti scelti raccolti e pubblicati dagli allievi, Milano, Giuffrè, 1988, II, pp. 1007-1074; V.E. Parsi, Impero, in R. Esposito e C. Galli (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 333-335, ma anche il vecchio lavoro di C. Schmitt, Il concetto d’Impero nel diritto internazionale. Ordinamento dei grandi spazi con esclusione delle potenze estranee, Roma, Istituto Nazionale di Cultura Fascista, 1941 (ed. or. Völkrrechtliche Grossraumordnung mit Intervetionsverbot für raumfremde Mächte. Ein Beitrag zum Reichsbegriff im Völkrrecht, Berlin-Leipzig-Wien, Deutscher Rechtsverlag, 1941). 24 In questo senso, Hardt e Negri osservano infatti: «Se è indubbiamente importante sottolineare la relazione fondativa tra il capitalismo, il mercato mondiale e l’espansione dei suoi cicli di sviluppo, una corretta attenzione alla dimensione originariamente universa o universalizzante dello sviluppo capitalistico non deve però mascherare la rottura e lo spostamento che possiamo osservare nella produzione capitalistica contemporanea e nelle relazioni globali di potere. Riteniamo che questo spostamento renda perfettamente chiaro e possibile il progetto capitalistico contemporaneo di fondere potere economico e potere politico o, in altre parole, di realizzare un ordine compiutamente capitalistico. In termini costituzionali,

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l’impero di cui Hardt e Negri intendono delineare i tratti non è infatti una forma di dominio politico, ma piuttosto uno sviluppo della logica di dominio economico propria del «capitalismo storico». Ciò che ai due autori preme sottolineare, nella definizione del nuovo «concetto di Impero», è invece il ‘salto’ di paradigma cui si assiste con la compiuta realizzazione del mercato mondiale, un ‘salto’ che non determina la senescenza dello Stato, ma, più semplicemente, ne ricolloca la struttura e le funzioni all’interno di un nuovo ordine e di una mutata gerarchia: Il nuovo paradigma è, a un tempo, sistemico e gerarchico, una fabbrica di norme e una produzione di legittimità a lungo termine che ricoprono l’intero spazio mondiale. È configurato, ab initio, come una struttura sistemica, dinamica e flessibile, articolata orizzontalmente. […] La totalità sistemica possiede una posizione dominante nell’ordine globale: rompe definitivamente con ogni precedente forma di dialettica e sviluppa una integrazione degli attori che pare lineare e spontanea. Allo stesso tempo, si manifesta sempre più chiaramente l’efficacia del consenso che raccoglie gli attori sotto un’autorità suprema dell’ordinamento. Tutti i conflitti, le crisi e le contestazioni fanno avanzare il processo di integrazione e, nella stessa misura, esigono un rafforzamento dell’autorità centrale. La pace, l’equilibrio e la cessazione del conflitto sono i valori verso cui tutto viene diretto. Lo sviluppo del sistema globale (e, in primo luogo, del diritto imperiale) appare come l’evoluzione di una macchina che impone delle procedure di continua contrattazione produttive di equilibri sistemici – una macchina che crea una domanda continua di autorità. La macchina sembra predeterminare l’esercizio dell’autorità e la sua azione sull’intero spazio sociale. Ogni singolo movimento viene inquadrato e può trovare il posto che gli è stato assegnato solo all’interno del sistema, in una relazione gerarchica predeterminata. Questo movimento precostituito definisce la realtà della costituzionalizzazione imperiale dell’ordine mondiale – il nuovo paradigma25.

Nell’architettura allestita in Empire – un’architettura solo apparentemente lineare, ma in realtà costituita da una complessa serie di cerchi concentrici, e talvolta persino offuscata dall’avvicendarsi di immagini, suggestioni e rimandi letterari – la nuova forma della sovranità non delinea né una la globalizzazione non è solo uno stato di cose, bensì una fonte di definizioni giuridiche che tende a determinare un’unica configurazione del potere politico sovranazionale» (M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 26). La critica (concentrata soprattutto su G. Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Milano, Il Saggiatore, 1996) è sviluppata anche successivamente: cfr. M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., pp. 225-227. Si veda però anche la replica dello stesso Arrighi, Genesi di un impero, cit., e Id., Lineages of Empire, in «Historical Materialism», vol. 10, 2002, n. 3, poi in G. Balakrishnan (ed.), Debating Empire, cit., pp. 29-42. 25 M. Hardt e A. Negri, Impero, cit., pp. 30-31.

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gerarchia di Stati dominati dagli Usa, né una sorta di vero e proprio governo politico mondiale di cui sarebbero espressione organismi internazionali come il Wto, l’Imf o la World Bank. La formazione delle Nazioni Unite e l’immagine kelseniana di un ordine giuridico globale, cui sono dedicate le prime pagine del volume, sono infatti interpretate soltanto come tracce della «tendenza che conduce verso una regolazione unitaria e centralizzata del mercato mondiale e delle relazioni globali di potere»26. Determinando «mutamenti effettivi nella costituzione materiale del potere e dell’ordine mondiale», il nuovo paradigma di esercizio della sovranità si definisce invece come «una fabbrica di norme e una produzione di legittimità a lungo termine che ricoprono l’intero spazio mondiale»27. Inoltre, si tratta di «una struttura sistemica, dinamica e flessibile, articolata orizzontalmente», come la «società di controllo» descritta da Michel Foucault e Gilles Deleuze28. Mentre nella «società disciplinare», cui Foucault dedica i suoi lavori più noti, «il dominio si costituisce attraverso una fitta rete di dispositivi o apparati che producono e regolano gli usi, i costumi e le pratiche produttive», nella «società di controllo» intervengono una serie di processi che mutano sostanzialmente i precedenti meccanismi del potere: La società del controllo (che si sviluppa agli estremi limiti della modernità e inaugura la postmodernità) […] è un tipo di società in cui i meccanismi di comando divengono sempre più «democratici», sempre più immanenti al sociale, e vengono distribuiti attraverso i cervelli e i corpi degli individui. I comportamenti che producono integrazione ed esclusione sociale vengono quindi sempre più interiorizzati dai soggetti stessi. In questa società, il potere si esercita con le macchine che colonizzano direttamente i cervelli (nei sistemi della comunicazione, nelle reti informatiche ecc.) e i corpi (nei sistemi del Welfare, nel monitoraggio delle attività ecc.), verso uno stato sempre più grave di alienazione dal senso della vita e dal desiderio di creatività29.

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Ivi, p. 26. Ivi, p. 31. 28 Sull’idea della «società di controllo», si veda G. Deleuze, Foucault, Milano, Feltrinelli, 1987 (ed. or. Foucault, Paris, Minuit, 1986), e Id., Postscriptum: sulle società di controllo, in Id., Pourparlers, Macerata, Quodlibet, 2000. Per la lettura di Deleuze, cfr. M. Hardt, Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia, Milano, A-Change, 2000 (ed. or. Gilles Deleuze. An Apprenticeship in Philosophy, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1993). 29 M. Hardt e A. Negri, Impero, cit., p. 39. «La società del controllo», scrivono allora Hardt e Negri, può essere definita «come una intensificazione e generalizzazione dei dispositivi normalizzatori della disciplina che agiscono all’interno delle nostre comuni pratiche quotidiane; a differenza della disciplina, però, questo controllo si estende ben oltre i luoghi strutturati delle istituzioni sociali, mediante una rete flessibile e fluttuante» (ibid.). 27

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Ricorrendo ancora a una nozione foucaultiana, i due autori sostengono inoltre che la transizione delinea il passaggio a un contesto «biopolitico», contraddistinto da una inedita forma di potere – definita da Hardt e Negri come «biopopotere» – che non si limita a disciplinare gli individui all’interno dell’ordine istituzionale, ma punta a «organizzarli nella totalità delle loro attività», raggiungendo «la profondità delle coscienze e dei corpi e, a un tempo, la totalità delle relazioni sociali»30. Benché i due autori si riferiscano esplicitamente alla riflessione foucaultiana sulla «biopolitica», la loro proposta si discosta però dalla linea suggerita dall’intellettuale francese. In alcuni scritti importanti della seconda metà degli anni Settanta, Foucault aveva infatti illustrato l’ipotesi relativa alla genesi di una nuova forma di potere, il «biopotere», che avrebbe fatto la sua comparsa verso la fine del XVIII secolo investendo in modo nuovo la «vita». Secondo la celebre argomentazione svolta da Foucault nella Volontà di sapere, uno dei privilegi del potere sovrano era stato, per lungo tempo, «il diritto di vita e di morte», da intendere come forma paradigmatica di un tipo storico di società in cui il potere si esercitava nella forma del «prelievo» di ricchezze, risorse materiali, servizi, lavoro; a partire dall’«età classica», secondo Foucault, era invece iniziata a emergere una nuova forma di potere, «un potere destinato a produrre delle forze, a farle crescere e ad ordinarle piuttosto che a bloccarle, a piegarle o a distruggerle»31. Se questa nuova forma di potere era definita da Foucault come «biopotere»32, all’interno del suo discorso la «biopolitica» coincideva con un processo più ampio, che peraltro non pareva escludere del tutto la possibilità di resistenze e linee di tensione33. Inserendosi nel fitto dibattito condotto sulla 30

Ivi, p. 40. Secondo Foucault, il «biopotere», esercitato non più sulla morte ma sulla vita, prendeva corpo, a partire dal XVII secolo, lungo due traiettorie parzialmente differenti, anche se non antitetiche. «Uno dei poli», osservava, «è stato centrato sul corpo in quanto macchina», comprendendo i meccanismi di disciplinamento del corpo umano, mentre il secondo, formatosi nel XVIII secolo, «è centrato sul corpo-specie, sul corpo attraversato dalla meccanica del vivente e che serve da supporto ai processi biologici», assumendo quindi i contorni di «una bio-politica della popolazione». Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 120. 32 Ivi, p. 123. 33 «Bisognerà parlare di ‘bio-politica’», scriveva Foucault, «per designare quel che fa entrare la vita ed i suoi meccanismi nel campo dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un agente di trasformazione della vita umana; questo non significa che la vita sia stata integrata in modo esaustivo a delle tecniche che la dominano e la gestiscono; essa sfugge loro senza posa (ivi, p. 126). Cfr. anche M. Foucault, La politica della salute nel XVIII secolo, in Id., Archivio Foucault. 2. Poteri, saperi, strategie, Milano, Feltrinelli, 1997; M. Foucault, «Bisogna difendere la società», Milano, Feltrinelli, 1997; M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Milano, Feltrinelli, 2005; e Id., Nascita della biopolitica, Milano, Feltrinelli, 2005. 31

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«biopolitica»34, Hardt e Negri adottano le formule di Foucault, ma propongono una distinzione fra «biopotere» e «biopolitica» che punta a evitare i limiti dell’impostazione strutturalista35. Così, se il «biopotere» corrisponde a «una forma di potere che regola il sociale dall’interno, inseguendolo, interpretandolo, assorbendolo e riarticolandolo»36, la «biopolitica» (o, meglio, la «produzione biopolitica») allude invece alle potenzialità positive di quello che viene definito da Hardt e Negri come «corpo collettivo biopolitico»: un corpo che corrisponde in sostanza alla potenzialità del «lavoro vivo» nella trasformazione contemporanea37. In modo forse più significativo, Hardt e Negri cercano di mostrare la rilevanza che i meccanismi del «biopotere» 34

Cfr., come esempi di questa ricerca, la riflessione condotta da R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002, e Id., Bíos. Biopolitica e filosofia, Torino, Einaudi, 2004, ma anche gli importanti testi di G. Agamben, tra cui soprattutto Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995. Su questo dibattito, si veda A. Cutro (a cura di), Biopolitica. Storia e attualità di un concetto, Verona, Ombre corte, 2005, mentre, per alcune annotazioni problematiche, mi permetto di rinviare a D. Palano, L’enigma della «biopolitica»: vita, politica, natura umana, in «Teoria politica», XXIII (2007), n. 3, pp. 159-175. 35 Hardt e Negri, in questo senso, rivolgono a Foucault la vecchia, ma non infondata, critica secondo cui l’originaria impostazione strutturalista avrebbe condotto lo studioso francese ad espellere (implicitamente) dal proprio quadro gli elementi di resistenza e conflitto: «Non ci sembra», scrivono per esempio, «che Foucault – anche quando scopriva efficacemente l’orizzonte biopolitico della società e lo caratterizzava come piano di immanenza – sia mai riuscito a portare il suo pensiero al di fuori dell’epistemologia strutturalista che ha orientato la sua ricerca fin dall’inizio. Con epistemologia strutturalista intendiamo la reinvenzione di un’analisi funzionalista nel quadro delle scienze umane, un metodo che, di fatto, sacrifica la dinamica del sistema, la temporalità creativa dei movimenti e la sostanza ontologica della riproduzione sociale e culturale. Se a questo punto potessimo chiedere a Foucault chi o cosa guida il sistema o, piuttosto, che cosa è il ‘bios’, la sua risposta sarebbe ineffabile o sarebbe il silenzio. Ciò che in definitiva Foucault non è riuscito a cogliere sono le dinamiche reali della produzione nella società biopolitica» (M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 43). 36 Ivi, p. 39. «Il potere», in questo senso, «può imporre un comando effettivo sull’intera vita della popolazione solo nel momento in cui diviene una funzione vitale e integrale che ogni individuo comprende in sé e riattiva volontariamente. […] La funzione più determinante di questo tipo di potere è quella di investire ogni aspetto della vita e il suo compito primario è quello di amministrarla. Il biopotere agisce dunque in un contesto in cui ciò che è in gioco per il potere è la produzione e la riproduzione della vita stessa» (ibid.). 37 Secondo le loro parole: «dovremo essere in grado di identificare la nuova figura del corpo collettivo biopolitico, cosa che appare, a un tempo, contraddittoria e paradossale. Questo corpo diviene una struttura non negando l’originaria forza produttiva che lo anima, ma restituendogliela; esso diviene linguaggio (scientifico e sociale) in quanto moltitudine di corpi singolari e determinati in relazione tra di loro. Si può parlare dunque di produzione e riproduzione, di struttura e sovrastruttura, in quanto sono in gioco la vita, nel senso più ampio della parola, e la politica in senso proprio. La nostra analisi deve inoltrarsi nella giungla delle determinazioni produttive e conflittuali espresse dal corpo collettivo biopolitico» (ivi, p. 45).

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assumono nei processi produttivi odierni. «I grandi poteri finanziari e industriali», scrivono per esempio, «non producono solo merci, ma anche soggettività», «producono bisogni, relazioni sociali e cervelli», e, dunque, «producono i produttori»38. Questo passaggio, all’interno del loro percorso, è ovviamente molto importante, perché connette il livello della produzione a quello del potere, o, in altri termini, collega la dinamica della produzione all’insieme della riproduzione complessiva (e dunque alla riproduzione della «vita»). Ed è così scontato che venga riconosciuto un ruolo cruciale alla connessione comunicativa che organizza il pianeta: Da questo punto di osservazione la produzione biopolitica dell’ordine risulta immanente ai nessi immateriali della produzione del linguaggio, della comunicazione e dei simbolismi che vengono sviluppati dalle industrie della comunicazione. L’evoluzione delle reti comunicative è in relazione organica con l’emergere del nuovo ordine mondiale, in altri termini è, a un tempo, causa ed effetto, produttore e prodotto. La comunicazione non solo esprime, ma soprattutto, organizza il movimento della globalizzazione. Lo organizza moltiplicando e strutturando delle interconnessioni attraverso reti. […] La mediazione è stata assorbita nella macchina produttiva. La sintesi politica del sociale è fissata nello spazio della comunicazione. Questa è la ragione per cui le industrie della comunicazione hanno assunto una così grande importanza. Esse non solo organizzano la produzione su una nuova scala e impongono una nuova struttura adeguata allo spazio globale; esse, soprattutto, ne rendono la giustificazione immanente. Producendo, il potere organizza; organizzando, il potere parla esprimendosi come autorità. Comunicando, il linguaggio produce merci, ma soprattutto, crea delle soggettività, le mette in relazione e le ordina. Le industrie della comunicazione integrano l’immaginario e il simbolico nella fabbrica biopolitica non solo in quanto li mettono al servizio del potere, ma soprattutto perché, di fatto, li integrano nel suo funzionamento39.

L’idea della produzione biopolitica è importante, nel discorso di Hardt e Negri, per diversi motivi: innanzitutto perché, sviluppando le ipotesi centrate sul «lavoro immateriale», consente di affermare la sostanziale coincidenza di produzione e riproduzione; in secondo luogo, perché riesce a fondare l’immagine di uno spazio che, connettendo ogni ambito sociale, non conosce più alcun «fuori». Proprio quest’ultimo punto costituisce uno snodo fondamentale per l’articolazione dell’ipotesi dell’Impero, sia sotto il profilo della dinamica produttiva, sia sotto quello del modello giuridico. Se l’immagine 38

Ivi, p. 46. Ivi, p. 47. Sulle nozioni di «biopolitica» e «biopotere» utilizzate da Hardt e Negri, cfr., per esempio, J. Read, The Hidden Abode of Biopolitical Production: «Empire» and the Ontology of Production, in «Rethinking Marxism», XIII (2001), n. 3-4, pp. 24-30. 39

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della produzione biopolitica rappresenta il presupposto logico dell’ipotesi della «moltitudine» – intesa come soggetto che si oppone al biopotere globale – quella medesima immagine è anche alla base della descrizione della sovranità imperiale. Secondo Hardt e Negri, infatti, la sovranità imperiale non può essere compresa solo come superamento del modello moderno della sovranità, ma deve essere piuttosto intesa come un vero e proprio salto di paradigma. In altre parole, la sovranità imperiale non può essere ricostruita in via analogica partendo dal modello della sovranità statale, ma deve essere collocata all’interno del nuovo spazio definito dalla produzione biopolitica. Come scrivono, «abbiamo a che fare con un tipo particolare di sovranità che dovrebbe essere considerata liminale o marginale nella misura in cui agisce ‘in ultima istanza’, un tipo di sovranità che fissa il suo unico punto di riferimento nella assolutezza definitiva del potere che essa può esercitare»40. Non si tratta di una macchina che interviene costantemente, come l’apparato di polizia nel caso dello Stato, ma piuttosto di una «macchina high-tech», una macchina «costruita per controllare eventi marginali», «organizzata per dominare e, se necessario, per intervenire nei punti di rottura del sistema»41. Per questo, la razionalità della macchina imperiale sembra comprendere in modo originale i tre ideal-tipi individuati da Max Weber, conducendo alla tendenziale fusione della produzione economica con la costituzione politica: L’oggetto verso cui convergono le relazioni di potere imperiale è la forza produttiva del sistema, il nuovo sistema istituzionale ed economico biopolitico. L’ordine imperiale è formato non solo sulla base del suo potere di accumulazione e di estensione globale, ma anche della sua capacità di evolversi sempre più in profondità, di rinascere e di estendersi attraverso il reticolo biopolitico della società mondiale. L’assolutezza del potere imperiale è complementare alla sua completa immanenza alla macchina ontologica di produzione e ri40

M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 53. Ibid. In questo senso, è chiaro che Hardt e Negri pensano, per esempio, agli interventi umanitari e alla logica che li sostiene: «l’intervento morale è divenuto la prima linea dell’intervento imperiale. Di fatto, l’intervento presuppone che lo stato di eccezione si crei dal basso e che non abbia confini, per questo, esso si arma con i più efficaci strumenti di comunicazione in funzione della produzione simbolica del Nemico» (ivi, p. 50). «Questo genere di intervento continuo, morale e militare a un tempo, è di fatto, la forma logica di esercizio della forza deducibile da un paradigma della legittimazione basato su uno stato di eccezione permanente e sull’azione della polizia. Gli interventi sono sempre eccezionali anche se si verificano di continuo; hanno l’aspetto di azioni di polizia in quanto hanno il compito di mantenere l’ordine interno. In questo modo, l’intervento diviene un meccanismo efficace che, attraverso l’azione morale della polizia, contribuisce direttamente alla costruzione dell’ordine morale, normativo e istituzionale dell’Impero» (ivi, p. 52). 41

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produzione e, dunque, al contesto biopolitico. […] La norma fondamentale della legittimazione sarà dunque insediata nella profondità della macchina, nel cuore della produzione sociale. La produzione sociale e la legittimazione giuridica non devono essere intese rispettivamente come un fattore primario e secondario – o come elementi, di una base e di una sovrastruttura – bensì dovrebbero essere comprese in uno stato di parallelismo ed interconnessione assoluto e coestensivo attraverso la società biopolitica. Nell’Impero e nel suo regime di biopotere, la produzione economica e la costituzione politica tendono sempre più a coincidere42.

Che la svolta verso un nuovo paradigma non determini la senescenza dello Stato è peraltro chiarito con forza dai due autori, i quali stigmatizzano con una certa energia le letture che negli ultimi anni hanno posto la globalizzazione all’origine di una irreversibile crisi della sovranità statale. Per quanto sul piano interno l’autonomia dei singoli Stati nazionali risulti effettivamente erosa, e benché le multinazionali siano realmente in grado di operare al di sopra dell’autorità costituzionale delle singole unità statuali, il nuovo quadro non è affatto segnato da un incontrastato dominio degli attori ‘economici’. Al contrario, osservano, «la fase attuale viene completamente fraintesa se viene caratterizzata nel senso della vittoria dei gruppi capitalistici sullo stato»43. «Benché le multinazionali e le reti globali della produzione e della circolazione abbiano decisamente ridimensionato i poteri dello statonazione», scrivono, le «funzioni statuali e i dispositivi costituzionali sono stati dislocati su altri livelli e in altri ambiti»44. Con la crisi dello Stato fordista e keynesiano, si assiste all’«incorporazione delle sue funzioni nei dispositivi di comando che operano sul livello globale delle multinazionali», perché «l’unità dei singoli governi è stata disarticolata e le loro funzioni sono state trasferite a un complesso di organi separati (banche, organismi internazionali della pianificazione, e così via, che si aggiungono ai più tradizionali corpi separati) la cui legittimazione avviene al livello transnazionale del potere»45. In altre parole, lo Stato non viene semplicemente esautorato dall’azione delle multinazionali, perché, in realtà, le sue «funzioni costituzionali sono state 42

Ivi, p. 54. Ivi, p. 287. In questo senso, Hardt e Negri attaccano con forza la tesi della fine dello Stato: «Se le cose stessero davvero in questo modo, se lo stato avesse effettivamente cessato di amministrare gli affari del capitale collettivo e se la dialettica virtuosa tra lo stato e il capitale fosse davvero finita, dovrebbero essere soprattutto i capitalisti a essere terrorizzati dal futuro. Senza lo stato, il capitale sociale non dispone di alcun mezzo per pianificare e realizzare i suoi interessi collettivi» (ibid.). 44 Ivi, p. 288. 45 Ivi, p. 289. 43

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dislocate a un altro livello», all’interno proprio della nuova «costituzione dell’Impero»46. Grazie a un’immagine suggestiva, seppur non priva di ambiguità, Hardt e Negri descrivono dunque la costituzione imperiale come una «struttura piramidale, composta di tre piani, ognuno dei quali comprende numerosi livelli»47. Al primo piano di questa piramide, sono collocati gli Stati Uniti, alcuni Stati nazionali e una serie di associazioni dotate di un potere globale. Ovviamente questi attori, pur situandosi al vertice della piramide, non si trovano sul medesimo livello, ma occupano una posizione precisa all’interno di una gerarchia piuttosto rigida: Al vertice della piramide c’è un superpotere, gli Stati Uniti, che esercitano l’egemonia sull’uso globale della forza – un superpotere che sarebbe perfettamente in grado di operare da solo, ma che preferisce agire in collaborazione con gli altri poteri sotto l’egida delle Nazioni Unite. Questo singolare stato di cose si è definitivamente imposto alla fine della guerra fredda ed è stato confermato, per la prima volta, durante la guerra del Golfo. Al secondo livello di questo primo piano, nel momento in cui la piramide si allarga leggermente, c’è un gruppo di stati-nazione che controllano i principali strumenti monetari globali tramite i quali regolano gli scambi internazionali. Questi stati-nazione si ritrovano insieme in una serie di organismi – G8, i club di Parigi, Londra e Davos, e così via. Infine al terzo livello del primo piano, c’è un complesso eterogeneo di associazioni (comprendente più o meno le stesse potenze che esercitano l’egemonia sui livelli militari e monetari) che dispiegano un potere culturale e biopolitico di portata globale48.

Al di sotto del vertice della piramide, il secondo piano – «a partire dal quale il comando viene distribuito in un modo più estensivo e articolato su tutta la superficie mondiale» – è occupato tanto dalle «reti delle corporation capitalistiche transnazionali»49, quanto dall’insieme degli Stati nazionali, i 46

«L’affermazione delle multinazionali oltre e al di sopra dell’autorità costituzionale degli stati-nazione», ribadiscono ulteriormente, «non deve comunque farci credere che i dispositivi e i controlli costituzionali siano venuti meno e che le multinazionali, svincolatesi dagli stati-nazione, siano in grado di competere in completa libertà e di amministrarsi in totale autonomia. Le funzioni costituzionali sono state dislocate a un altro livello» (ibid.). 47 Ivi, p. 290. 48 Ibid. 49 «Queste organizzazioni produttive, che creano e alimentano i mercati», secondo la sintesi di Hardt e Negri, «si estendono trasversalmente sotto l’egida del potere centrale che occupa il primo piano della piramide del potere globale. […] Con la distribuzione globale dei capitali, delle tecnologie, delle merci e delle popolazioni, le multinazionali costruiscono una vasta rete di comunicazioni e assicurano la soddisfazione dei bisogni. Il vertice del comando mondiale unificato è dunque articolato dalle multinazionali e dell’organizzazione dei

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quali «agiscono essenzialmente in veste di organizzazioni territorializzate», svolgendo una molteplicità di funzioni50. Infine, al terzo piano della piramide imperiale si trovano gli «organismi che rappresentano gli interessi popolari nell’organizzazione del potere globale», ossia, «una varietà di organizzazioni che, in una qualche misura, sono indipendenti dagli stati-nazione e dal capitale» e, in particolare, quelle Ong che «si propongono di rappresentare gli ‘ultimi uomini’, coloro che non sono nelle condizioni di rappresentare se stessi»51. Ciò che è forse più importante, all’interno di questa metafora, è probabilmente il fatto che ognuno degli attori che compongono la piramide imperiale – ciascuno secondo una propria logica specifica – opera all’interno di uno spazio comune: uno spazio non privo di linee conflittuali, ma comunque unitario nel suo insieme. In altre parole, ciascuno di questi soggetti – dagli Stati Uniti alle Ong, dalle multinazioni agli Stati minori – agisce all’interno di coordinate comuni e, soprattutto, all’interno di una serie di vincoli che sono definiti dalla struttura reale del mercato mondiale e dalla struttura giuridica della costituzione imperiale. Anche se ognuno degli attori punta a portare avanti i propri interessi, e anche se esistono forti divergenze fra gli uni e gli altri, la loro azione rimane sempre all’interno dello spazio imperiale. Con un’operazione altrettanto gravida di suggestioni, Hardt e Negri istituiscono inoltre un’analogia – soltanto metaforica – tra la struttura pimercati. Il mercato mondiale omologa e differenzia i territori, riscrivendo così la geografia globale» (ibid.). 50 In effetti, scrivono, «gli stati-nazione svolgono svariate funzioni come, per esempio, la mediazione politica nei confronti dei poteri egemoni su scala globale, i negoziati con le multinazionali, la redistribuzione delle risorse in ordine ai bisogni biopolitici che emergono nel quadro dei loro territori. Gli stati-nazione fungono da filtri della circolazione mondiale e da regolatori dell’articolazione del comando globale. In altri termini, gli stati-nazione catturano e distribuiscono i flussi di ricchezza da e verso il potere globale e disciplinano le popolazioni, per quanto è ancora possibile» (ivi, p. 291). 51 Ivi, pp. 291-293. Per quanto riguarda in modo specifico le Ong, Hardt e Negri si riferiscono soprattutto a quelle che operano nel campo della difesa dei diritti umani, dell’assistenza medica o della lotta contro la fame. «Il loro mandato», scrivono, «non è tanto quello di far valere gli interessi di un gruppo determinato, quanto piuttosto quello di rappresentare direttamente gli interessi universali del genere umano. […] La loro azione risponde a un’istanza morale universale: ciò che è in gioco è, infatti, la vita stessa. […] Quello che queste organizzazioni realmente rappresentano è la forza vitale che anima il popolo globale e, in qualche modo, esse trasformano la politica in una questione che riguarda la vita generica, la vita in tutta la sua generalità. Queste Ong estendono la loro azione su tutto lo spazio biopolitico; sono i capillari delle reti del potere, o (per tornare alla nostra metafora) formano l’ampia base del triangolo del potere globale. A questo livello universale, le attività di queste Ong coincidono con le iniziative dell’Impero che, sul terreno del biopotere, vanno ‘al di là della politica’ per soddisfare i bisogni della vita stessa» (ivi, p. 293).

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ramidale della costituzione globale e il modello della «costituzione mista» con cui Polibio spiegava la fortuna e la resistenza dell’Impero di Roma. Al di là delle differenze abissali tra i due assetti storici e politici, l’idea che regge l’analogia proposta da Hardt e Negri è che l’equilibrio della nuova costituzione imperiale sia riconducibile non tanto all’assetto trifunzionale delle moderne costituzioni, fondate sul principio della divisione dei poteri, quanto a un modello di costituzione mista, basato sulla presenza di differenti corpi tra loro relativamente indipendenti. Se Polibio descriveva infatti l’Impero di Roma come «l’apice dello sviluppo politico in quanto riuniva le tre forme ‘buone’ di governo – la monarchia, l’aristocrazia e la democrazia – rispettivamente incorporate nelle figure dell’imperatore, del senato e dei comitia popolari»52, la medesima tripartizione di funzioni si può ritrovare all’interno della piramide dell’«Impero» contemporaneo. Anche i tre livelli della piramide dell’«Impero» postmoderno corrispondono infatti, rispettivamente, al momento monarchico, aristocratico e democratico: L’Impero con cui abbiamo a che fare è costituito – mutatis mutandis – da un equilibrio funzionale tra queste tre forme di potere: l’unità monarchica del potere con il suo monopolio globale della forza; le articolazioni dell’aristocrazia attraverso le multinazionali e gli stati-nazione; la rappresentanza democratica dei comitia compresa negli stati-nazione, nelle Ong, nei media e negli altri organismi «popolari».

In altri termini, la costituzione imperiale deve essere intesa non come una sorta di super-Stato globale, ma nei termini di un equilibrio instabile di corpi sociali operanti a vari livelli e con diverse specificità, secondo modalità paragonabili – almeno a livello figurato – a quelle che consentivano la coesistenza di monarchia, aristocrazia e democrazia nel modello romano53. I contorni di questa immagine si precisano ulteriormente quando i 52

Ivi, p. 294. «Secondo Polibio», scrivono, «la monarchia salda tra loro l’unità e la continuità del potere. Si tratta, infatti, della suprema istanza del potere imperiale. L’aristocrazia si identifica invece con la giustizia, con la misura e con la virtù; essa articola le sue reti attraverso il sociale sovrintendendo alla riproduzione e alla circolazione del potere imperiale. Infine, la democrazia organizza la moltitudine in base a uno schema della rappresentanza che subordina il popolo al potere del regime e costringe il regime a soddisfare i bisogni del popolo» (ibid.). 53 Secondo quanto scrive Hardt, «il grande vantaggio di una teoria della costituzione mista è che ci consente di riconoscere tutti questi poteri entro una coerente costituzione globale, senza costringerci a interpretarli come se fossero uniformi o univoci». Inoltre, precisa, «una teoria della costituzione mista rileva la differenza all’interno della costituzione e tiene conto delle distinzioni di potere entro il quadro di un ordine singolo e coerente», tanto che, così, «la sfida a cui la nozione contemporanea di Impero come costituzione mista deve far

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due autori passano a descrivere la ripartizione delle prerogative di governo determinata dal mutamento delle relazioni spaziali. L’Impero contemporaneo non rappresenta infatti un semplice ritorno al passato, né una forma degenerata della costituzione mista romana. «Il dispositivo contemporaneo», affermano, «deve essere invece inteso in termini postmoderni, come un processo che conduce al di là del modello liberale della costituzione mista», principalmente perché «il meccanismo costituzionale delle garanzie e lo schema dell’equilibrio sono stati alterati lungo due assi fondamentali»54. Il primo asse di questa trasformazione consiste in una «ibridazione» delle stesse funzioni, richiesta dalla trasformazione delle relazioni spaziali. «La sussunzione reale del lavoro sotto il comando del capitale e l’assorbimento della società globale nell’Impero costringono le figure del potere a distruggere le misure e le distanze spaziali che caratterizzavano le loro relazioni», tanto da mutare «la natura stessa dell’esercizio del potere»55. Sotto un primo profilo, la costituzione imperiale tende a configurarsi così non più come una costituzione mista, ma come una costituzione ibrida, perché le funzioni si dislocano a tutti i tre livelli della piramide imperiale, secondo una logica che vede intrecciarsi in modo inestricabile i compiti dell’elemento monarchico, dell’elemento aristocratico e di quello democratico: l’elemento monarchico della costituzione imperiale applica il proprio potere sull’unità del mercato mondiale, in cui sorveglia la circolazione delle merci, della tecnologia e della forza lavoro: esso è cioè chiamato a controllare la dimensione complessiva del mercato. Ma la globalizzazione del potere monarchico diviene ancora più chiara se viene analizzata dal punto di vista delle ibridazioni con le altre forme di potere. La monarchia imperiale non risiede in un luogo determinato: nell’Impero postmoderno non c’è più Roma. Il corpo della monarchia è, in se stesso, multiforme ed è disseminato nello spazio. L’ibridazione è ancora più evidente nel caso della mutazione dell’aristocrazia e, in particolare, nello sviluppo e nell’articolazione delle reti produttive e dei mercati, ove le funzioni dell’aristocrazia sono inestricabilmente legate a quelle della monarchia. Per l’aristocrazia postmoderna, il problema non è tanto quello di creare – per la produzione e la vendita delle merci – un accesso verticale tra periferia e centro, quanto, piuttosto, quello di assicurare una relazione continua tra un vasto orizzonte di produttori e consumatori

fronte consiste nello scoprire cosa i diversi poteri siano, come essi interagiscano, negozino, dominino l’un l’altro, di concerto o in contrasto». Cfr. M. Hardt, Impero, in A. Zanini – U. Fadini (a cura di), Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 167-171, specie p. 171. 54 M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 296. 55 Ibid.

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all’interno e tra i mercati. […] In questo contesto, l’ibridazione diviene il fattore più centrale e condizionante nella formazione dei circuiti della produzione e della circolazione. Infine, le prerogative democratiche dell’Impero, nel momento stesso in cui vengono a trovarsi in queste ibridazioni monarchiche e aristocratiche, modificano, per certi aspetti, le loro relazioni e introducono nuovi rapporti di forza56.

Il secondo asse del mutamento costituzionale consiste invece nel fatto che, in questa fase, il «comando deve essere esercitato in misura sempre più sistematica sulle scansioni temporali della società e, soprattutto, sulla soggettività», e proprio in questo passaggio risiede il principale carattere della transizione dal paradigma disciplinare al paradigma del controllo: Il potere viene esercitato direttamente sui movimenti delle soggettività produttive e sulla cooperazione; le istituzioni vengono ininterrottamente formate e ridefinite in base ai ritmi di questi movimenti e la topografia del potere non ha più esclusivamente a che fare con relazioni spaziali, ma con spostamenti temporali delle soggettività. Troviamo così, ancora una volta, quel non-luogo […] rilevato nel corso dell’analisi della sovranità. È dal non-luogo che vengono esercitate le ibride funzioni di controllo dell’Impero57.

In una serie di interventi successivi, Hardt e Negri sono tornati su questo punto, precisando in quali termini debba essere intesa la trasformazione della sovranità. Innanzitutto – hanno scritto per esempio in un contributo presentato all’Associazione Americana di Antropologia – la sovranità non deve essere intesa come «una sostanza autonoma» ma piuttosto come «una relazione tra sovrano e suddito», nel senso che «il potere sovrano non è mai assoluto», e «tende costantemente al consolidamento ed alla riproduzione della sua egemonia sul suddito». Nella transizione verso l’Impero, tale relazione si modifica però in modo radicale rispetto all’età moderna, tanto che persino gli Stati Uniti non possono essere più considerati come uno Stato realmente sovrano, almeno nel senso del vocabolario politico moderno. Anche il governo americano, infatti, «non è una fonte autonoma di sovranità, ma è integrato in un sistema globale di relazioni che definiscono la forma attuale di sovranità»58. A caratterizzare una simile sovranità è, dunque, proprio il fatto che essa si colloca all’interno di un nuovo ordine spaziale, dal quale è escluso l’«esterno»:

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Ivi, pp. 296-297. Ivi, p. 298. M. Hardt e A. Negri, Sovranità, in A. Negri, Guide, cit., pp. 55-66, specie p. 55.

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Durante tutta l’epoca moderna, la scena internazionale è stata dominata da un insieme di potenze sovrane nazionali che limitavano reciprocamente la propria sovranità e regnavano sulle nazioni e le regioni subordinate. Nel nostro attuale passaggio verso l’Impero, la sovranità degli Stati-nazione dominanti viene compromessa: essa è trasferita a un nuovo potere imperiale che la trasforma e che, essendo transnazionale, tende a un controllo globale. In un certo senso, si potrebbe asserire che questa sovranità imperiale è esternamente illimitata, in quanto avvolge per così dire l’intero globo. La sovranità imperiale non ha esterno, non ha un fuori. In un altro senso, d’altronde, la sovranità rimane (e deve sempre rimanere) limitata internamente dal rapporto tra dominatore e dominato. La sovranità ha sempre, in questo secondo senso, una doppia faccia, è necessariamente duale59.

Al di là delle forti suggestioni, non prive di richiami all’immaginario della science fiction60, la figura di un impero senza luogo e senza centro, tanto pervasivo da penetrare nella profondità delle coscienze, rischia di sembrare solo un raffinata esercitazione intellettuale senza qualsiasi riferimento alla realtà, come d’altronde la stessa idea di una forma di dominio che si esercita su uno «spazio liscio», privo di qualsiasi divisione o confine interno, pare definire soltanto l’ardita prefigurazione di un futuro presumibilmente remoto61. Il discorso di Hardt e Negri – insieme ad alcune espressioni talvolta enigmatiche – inizia però a chiarirsi se si comprende come dietro la nozione di «Impero» si nasconda l’idea del mercato mondiale, vero cuore di tutte le argomentazioni e sostanza della selva di immagini e metafore di cui Empire è affollato62. Quello cui alludono i due autori è ovviamente un mercato inteso non semplicemente come «immensa raccolta di merci», ma, secondo l’originaria impostazione marxiana, come ambito di costruzione delle relazioni sociali capitalistiche. Quando i due autori scrivono che «nello spazio liscio dell’Impero non c’è un luogo del potere» e che «il 59

Ivi, pp. 55-56. Su questo immaginario, cfr. F. Denunzio e G. Frezza, Gli imperi della fantascienza fra narrativa, cinema e tv, in «Filosofia politica», XVI (2002), n. 1, pp. 115-126, mentre sul potenziale evocativo dl libro di Hardt e Negri attira l’attenzione, fra gli altri, S. Villalobos-Ruminott, «Empire», A Picture of the World, in «Rethinking Marxism», XIII (2001), n. 3-4, pp. 31-42. 61 Per esempio, sembrano andare proprio in questa direzione le annotazioni critiche di Charles Tilly, che convergono verso un sostanziale scetticismo nei confronti di quelle interpretazioni che vengono invece intese all’interno di Empire come veri e propri assunti, senza alcuna dimostrazione: cfr. C. Tilly, A Nebulous Empire, in «Canadian Journal of Political Science», XXX (2002), n. 1, ora in G. Balakrishnan (ed.), Debating Empire, cit., pp. 26-28. 62 Un ulteriore sviluppo delle immagini del volume è proposto da N. Brown – I. Sezman – A. Negri – M. Hardt, ‘Subterranean Passages of Thought’: «Empire»’s Inserts, in «Cultural Studies», XVI (2002), n. 2, pp. 193-212. 60

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potere è, a un tempo, ovunque e in nessun luogo», essi alludono dunque alla struttura del mercato, e cioè a una forma di organizzazione senza centro, senza vertice e persino priva di stabili localizzazioni, ma capace di imporre la propria vigenza tendenzialmente in ogni ambito del globo. Parimenti, quando individuano come elemento costitutivo del nuovo assetto imperiale l’esaurimento della moderna barriera tra «dentro» e «fuori», e tra «interno» ed «esterno», si riferiscono ancora una volta alla tendenza espansiva del mercato capitalistico, definito, in un passo decisivo del loro saggio, come il vero «diagramma del potere imperiale»: il mercato capitalistico è una macchina che ha sempre funzionato contro qualsivoglia divisione tra un dentro e un fuori. È allergico alle barriere e alle esclusioni e si sforza sempre di includere ogni cosa nella propria sfera di dominio. Il profitto è generato solo dal contatto, dal coinvolgimento, dall’interscambio e dal commercio. Il mercato mondiale è il capolinea di questa tendenza. Nella sua forma ideale, il mercato mondiale non conosce nessun fuori: il suo dominio è il mondo intero. La forma del mercato mondiale è un modello per comprendere la sovranità imperiale. Come, per Foucault, il panopticon rappresentava il diagramma del potere della modernità, il mercato mondiale rappresenta adeguatamente […] il diagramma del potere imperiale63.

Proprio il riferimento al mercato mondiale chiarisce come l’«impero» descritto da Hardt e Negri non sia un’entità politica analoga ai vecchi sistemi imperiali, ma un estremo sviluppo della forma di dominio economico al centro delle ricerche di Arrighi e Wallerstein e dei loro studi sulle trasformazioni del sistema mondiale dell’economia moderna. Ed è d’altronde la stessa centralità del mercato mondiale a chiarire anche i principali snodi del discorso di Hardt e Negri, a partire dall’attenzione posta sul superamento di quella distinzione moderna tra «dentro» e «fuori» che costituisce uno dei nuclei centrali della loro riflessione, fino all’enfasi sul ruolo della costituzione statunitense, considerata, per le sue specifiche caratteristiche genetiche, come la prefigurazione della successiva costituzione imperiale. Intervenendo recentemente nel dibattito e ricostruendo con efficacia le radici storiche del concetto di «impero», Massimo Cacciari ha sostenuto che l’attuale revival del termine è per gran parte ingiustificato. L’idea di «civitas augescens», il riferimento alla «concordia» e alla capacità di allargare il diritto di cittadinanza – elementi cruciali nella fondazione concettuale 63

M. Hardt e A. Negri, Impero, cit., p. 181. Su questa immagine del mercato, e sui suoi limiti, cfr. le annotazioni di B. Maurer, On Divine Market and Problem of Justice: «Empire» as Theodicy, in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 57-72.

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dell’imperium populi romani – sembrano infatti del tutto assenti nello scenario della globalizzazione, anche perché l’attuale «progressiva convergenza dei sistemi economici e politici» pare riprodurre piuttosto una dinamica simile a quella del vecchio imperialismo64. Se Cacciari nega perciò al ‘governo politico’ della globalizzazione (e soprattutto alla politica statunitense) qualsiasi capacità inclusiva, Hardt e Negri trovano invece proprio in questo punto uno degli elementi caratterizzanti del nuovo paradigma della sovranità, formatosi dallo sviluppo estremo della struttura costituzionale nordamericana. A differenza di quello europeo, lacerato da una crisi costitutiva e dalla reintroduzione di schemi trascendentali, il modello americano di sovranità avrebbe infatti riconosciuto e affermato l’immanenza del potere costituente, celebrato come potenza produttiva della società e proiettato verso una costante e (almeno inizialmente) illimitata espansione verso un «fuori» destinato ad essere incluso nella rete costituzionale. Mentre il modello europeo di sovranità si era indirizzato a una conquista finalizzata all’esclusione65, il modello repubblicano americano, capace di includere la forza espansiva del potere costituente, si era mosso verso una estensione inglobante66. Con 64

Mentre – scrive Cacciari – «solo il patto che nasce dallo sforzo, dal desiderio, dalla passione anche, di individualità universali, può fondare un’idea di impero come imperium populi», un «foedus tra soggetti già ridotti a uno, precedentemente omologati, non sarebbe tale, ma soltanto l’imposizione ai vinti delle norme del vincitore». Cfr. M. Cacciari, Digressione su impero e tre Rome, in H. Friese, A. Negri e P. Wagner (a cura di), Europa politica. Ragioni di una necessità, cit., pp. 21-42, specie p. 32. 65 Questa lettura della modernità europea (e della genesi della dottrina della sovranità) occupa infatti un posto importante nel discorso di Empire; in sintesi, secondo Hardt e Negri, «in politica, come nella metafisica, il problema principale era quello di eliminare la forma medievale della trascendenza, che rischiava di inibire la produzione e il consumo, mantenendo però gli effetti del dominio della trascendenza in una modalità adeguata alle forme della socializzazione e della produzione della nuova umanità. Il centro del problema della modernità era dunque evidenziato dalla filosofia politica ove la nuova forma della mediazione diede la risposta più adeguata – un dispositivo politico trascendente – alle forze rivoluzionarie dell’immanenza» (M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 91). Su questa lettura della modernità europea come lacerata da una crisi congenita e sul ruolo del «potere costituente», sono da vedere però le argomentazioni, certo più articolate, contenute in A. Negri, Problemi di storia dello Stato moderno. Francia: 1610-1650, in «Rivista critica di storia della filosofia», 1967, n. 2, pp. 182-220; Id., Descartes politico o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano 1970; Id., L’anomalia selvaggia. Saggio su potere e potenza in B. Spinoza, Milano, Feltrinelli, 1981; e soprattutto Id., Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Roma, Manifestolibri, 20022 (I ed. Milano, SugarCo, 1994). 66 «La prima caratteristica della sovranità americana», secondo quanto scrivono, «è che, in opposizione alla trascedenza della sovranità europea, essa afferma l’immanenza del potere. […] La produzione costituente tuttavia conduce a – o viene giustificata da – una procedura di autoriflessione espressa da una sorta di balletto dialettico. Questa è la seconda caratteristica del principio della sovranità americana» (M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., pp. 158-159).

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una modalità che sembra ripresentare le medesime caratteristiche dell’ascesa imperiale della repubblica romana, le tensioni interne si risolvono dunque verso l’esterno, mediante una costante espansione territoriale. Ma, osservano ancora Hardt e Negri, «questa democratica tendenza espansiva, implicita nella rete dei poteri, deve tuttavia essere accuratamente distinta da una forma di espansione puramente espansionistica o imperialistica», principalmente perché si tratta di una potenza espansiva «inclusiva e non esclusiva»67. In altre parole, «quando si espande, la sovranità immanente non si annette e non distrugge i poteri che affronta, ma al contrario, si apre per integrarli nella sua rete», e, così, «attraverso la rete costitutiva dei poteri e dei contropoteri, l’intero corpo della sovranità viene continuamente riformato»68. Proprio percorrendo questa linea, il modello statunitense aveva iniziato a mostrare, seppur solo in nuce, i tratti della futura costituzione imperiale: La sovranità, come potere che si espande in rete, si trova sulla cerniera che collega la repubblica democratica all’Impero. L’Impero può essere rappresentato soltanto come una repubblica universale, una rete di poteri e contropoteri strutturati da un’architettura inclusiva e illimitata. L’espansione imperiale non ha nulla a che fare con l’imperialismo e neppure con l’iniziativa delle forme statuali votate alla conquista, al saccheggio, al genocidio, alla colonizzazione e alla schiavitù. Contro questo imperialismo, l’Impero estende e consolida il modello della rete dei poteri69.

Se la caratteristica fondante della sovranità imperiale americana era il riferimento a uno spazio «sempre aperto», l’esaurimento di quella stessa dimensione spaziale – e cioè la chiusura della prospettiva della «frontiera», decisiva nella prima fase della storia degli Stati Uniti – aveva determinato

Ma questa tendenza trova un limite nell’apertura verso l’esterno: «il principio della sovranità americana si apre con straordinaria determinazione verso l’esterno, come se volesse espellere dalla sua Costituzione la necessità del controllo e il momento della riflessione. La terza caratteristica del principio della sovranità americana è perciò la sua tendenza a mettere in atto un progetto aperto ed espansivo, lanciato verso un piano operativo che non conosce limiti. […] L’idea di espansione si oppone irriducibilmente alle forze della limitazione e del controllo» (ivi, p. 159). 67 Ivi, p. 160. 68 Ibid. 69 Ibid. In questo senso, l’idea di uno spazio in costante espansione è uno dei tratti alla base della netta distanza dal modello europeo: «la sovranità, sviluppatasi in Europa a partire dal XVI secolo, era determinata da uno spazio chiuso i cui confini dovevano essere costantemente sorvegliati dall’amministrazione. La sovranità moderna risiede, dunque, soprattutto ai limiti. Nella concezione imperiale, al contrario, la logica del potere viene incessantemente rinnovata e ricreata nel corso dell’espansione» (ivi, pp. 160-161).

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un passaggio ulteriore, un’estensione della rete della sovranità imperiale al di fuori dei confini americani. Ripercorrendo le fasi principali della storia costituzionale degli Usa, Hardt e Negri individuano così, verso la fine del XIX secolo, in coincidenza con la chiusura dello spazio imperiale, l’emergere di un imperialismo analogo a quello europeo, superato solo dopo la conclusione della guerra del Vietnam e la fine del ciclo di protesta degli Sessanta. Proprio al principio degli anni Settanta iniziano così ad affiorare le prime tracce di quel progetto egemonico all’origine dell’Impero postmoderno, destinato a trasformare la «frontiera globale» nello «spazio aperto della sovranità imperiale». Lo snodo cruciale si colloca però dopo la fine della Guerra fredda, in corrispondenza con la prima guerra del Golfo, non tanto perché in questo passaggio si espliciti il ruolo di unica superpotenza degli Stati Uniti, quanto perché questi ultimi vengono investiti di una funzione specifica, che può essere correttamente intesa solo all’interno della transizione verso l’Impero. «L’importanza della guerra del Golfo», scrivono in questo senso, derivava «dalla dimostrazione che gli Stati Uniti erano l’unica potenza in grado di dirigere la giustizia internazionale non in relazione a motivazioni d’ordine nazionale, ma in nome del diritto globale»70. In altre parole, gli Stati Uniti erano chiamati ad agire, utilizzando la forza, non per perseguire interessi nazionali, ma per perseguire l’interesse dell’«Impero». Naturalmente, quando Hardt e Negri enfatizzano questo punto, non intendono i valori ‘universali’ che legittimano l’intervento come valori effettivamente indiscutibili e superiori agli interessi nazionali, ma puntano piuttosto a mettere in luce come l’insieme di istituzioni internazionali e sovranazionali creato dopo la Seconda guerra mondiale e rafforzatosi dopo la fine della Guerra fredda rappresenti qualcosa di più di una semplice giustapposizione degli interessi nazionali, proprio perché riflette – anche se non rappresenta fedelmente – la realtà ormai dispiegata dello spazio imperiale71. Ed è dunque in questa direzione che va intesa 70

Ivi, p. 172. «Molte potenze avevano già preteso di agire in nome di un interesse universale, ma», scrivono, chiarendo la loro posizione, «il ruolo degli Stati Uniti è sostanzialmente diverso. Anche il loro richiamo all’universale è naturalmente falso, ma lo è in un modo del tutto particolare. La polizia mondiale americana agisce nell’interesse dell’Impero, non dell’imperialismo. In tal senso, come ha affermato George Bush, la guerra del Golfo ha annunciato la nascita di un nuovo ordine mondiale» (ibid.). In modo ancora più specifico, sottolineano con forza come la dimensione imperiale sia connessa alla creazione di un complesso giuridico sovranazionale: «La legittimazione dell’ordine imperiale non può essere basata solo sull’efficacia delle sanzioni legali e della forza militare che le impone. Deve crescere, di pari passo, con la produzione delle norme giuridiche internazionali che formalizzano il potere dell’attore egemonico in termini durevoli e legali. Il processo costituzionale che era iniziato con Wilson raggiunge qui la maturità. […] Negli anni della guerra fredda ci fu una moltiplicazione di 71

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l’affermazione secondo cui gli Usa sono chiamati a svolgere un ruolo non imperialistico ma, propriamente, «imperiale»: Con la conclusione della guerra fredda, gli Stati Uniti furono chiamati a garantire e ad aumentare l’efficacia giuridica del processo di formazione di un nuovo diritto sovranazionale. Così come, nel I secolo avanti Cristo, i senatori chiesero ad Augusto di assumere le prerogative imperiali per l’amministrazione del bene comune, allo stesso modo, anche oggi, le organizzazioni internazionali (le Nazioni Unite, gli organismi finanziari internazionali e le organizzazioni umanitarie) chiedono agli Stati Uniti di assumere il ruolo centrale nel nuovo ordine mondiale. In tutti i conflitti regionali della fine del XX secolo, da Haiti al Golfo Persico e dalla Somalia alla Bosnia, agli Stati Uniti è stato richiesto di intervenire militarmente – si tratta infatti di autentiche e sostanziali richieste, e non di manovre propagandistiche per mettere a tacere il dissenso interno agli Stati Uniti. Anche se erano riluttanti, i militari americani avrebbero risposto alle chiamate in nome della pace e dell’ordine. Questa è una delle caratteristiche determinanti dell’Impero: esso risiede in un contesto mondiale che lo invoca di continuo. Gli Stati Uniti sono la polizia della pace, ma solo in ultima istanza, quando le organizzazioni sovranazionali per il mantenimento della pace richiedono un’attività organizzativa e un complesso articolato di iniziative giuridiche72.

A dispetto del ruolo assegnato agli Usa, è però importante ricordare come, secondo Hardt e Negri, il modello della sovranità imperiale, pur avendo origine dalla Costituzione americana, non abbia il proprio centro di imputazione negli Stati Uniti, ma si estenda piuttosto come una rete inclusiva senza centro. La posizione privilegiata degli Usa «nella nuova costituzione mondiale dell’autorità imperiale» viene spiegata dai due autori con il ricorso al ruolo americano nella lotta contro l’Urss e al posto occupato nello scenario successivo alla Guerra fredda. Ma il privilegio è anche «determinato in termini ancora più decisivi da una tendenza imperiale immanente alla Costituzione», proprio perché «il progetto costituzionale americano è concepito per realizzare un programma di articolazione di uno spazio aperto organismi internazionali capaci di produrre diritto e, nel contempo, di ridurre le resistenze alla loro azione. […] la proliferazione di queste differenti organizzazioni internazionali e il loro consolidamento in un complesso di relazioni simbiotiche – come se ognuna chiedesse alle altre di essere legittimata – ha comportato un superamento del diritto internazionale, inteso in termini negoziali e contrattuali e ha dato notevoli indicazioni sull’avvento di un’autorità centrale, un motore dell’azione giuridica legittimato a livello sovranazionale. Le grandi istituzioni internazionali, che erano sorte nella limitata dimensione dei negoziati e degli accordi, hanno prodotto una proliferazione di organismi e attori che hanno cominciato ad agire come se ci fosse un’autorità centrale a sanzionare il diritto» (ivi, pp. 172-173). 72 Ivi, p. 173.

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e di continua reinvenzione di molteplici e, a un tempo, singolari relazioni che si intramano in reti attraverso un campo illimitato»73. In altri termini, il modello imperiale prende origine dagli Stati Uniti, ma si estende al di là dei confini americani, delineando un assetto sovranazionale che presenta marcate discontinuità rispetto al passato: L’idea contemporanea di Impero è nata nel corso dell’espansione su scala globale del progetto interno alla Costituzione americana. È infatti nel corso dell’espansione dei processi costituzionali interni che inizia la fase costituente dell’Impero. Il diritto internazionale è sempre stato negoziato nella forma di un processo contrattuale tra parti esterne – dall’epoca descritta da Tucidide nel dialogo tra gli Ateniesi e i Meli, ai tempi della ragion di stato, sino al sistema delle relazioni tra gli stati moderni. Oggi, il diritto implica, piuttosto, un processo istituzionale costitutivo e interno. La rete degli accordi e delle associazioni, i canali di mediazione e le risoluzioni dei conflitti, il coordinamento tra le differenti dinamiche degli stati: tutto viene istituzionalizzato nell’ambito dell’Impero74.

Coerentemente con l’impostazione marxiana cui intendono attenersi, Hardt e Negri non considerano soltanto la «costituzione materiale» del nuovo Impero postmoderno, ma – seguendo lo stesso percorso con cui Marx abbandonava la «sfera rumorosa del mercato» per entrare «negli antri nascosti della produzione» – puntano a mostrare come la rete del controllo biopolitico pianti le proprie radici nelle trasformazioni economiche intervenute nel corso del XX secolo. Anche in questo caso, è il modello di Welfare State emerso dal New Deal roosveltiano a essere letto come spia della tendenza verso l’Impero. Definito dalla sintesi di taylorismo, fordismo e keynesismo, il New Deal viene descritto nelle pagine di Empire come la forma più avanzata di «governamentalità disciplinare» e come un assetto in cui «l’intera società, in tutte le sue articolazioni produttive e riproduttive», oltre a essere «sussunta sotto il comando del capitale e dello stato», tende a essere governata «esclusivamente dalle norme della produzione capitalistica»75. Se, in questo senso, Hardt e Negri non fanno che riformulare 73

Ivi, pp. 173-174. Ivi, p. 174. 75 Ivi, p. 230. Più precisamente: «Questo sistema non aveva […] molto in comune con il Welfare realizzato in Europa da politiche economiche e sociali che miscelavano assistenza pubblica e incentivi imperialisti. Il New Deal dipendeva da un’altra scelta, che prevedeva l’investimento diretto, da parte del Welfare, di tutte le relazioni sociali e che introduceva un regime disciplinare temperato da una maggiore partecipazione nella gestione dei processi di accumulazione. Il capitalismo voleva essere trasparente ed essere regolato da uno stato pianificatore». Inoltre, all’interno di questa «società-fabbrica», la società civile veniva or74

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sinteticamente l’immagine della società-fabbrica già delineata fin dalla fine degli anni Sessanta all’interno del paradigma teorico operaista76, e in seguito ridefinita dalla scuola francese della regolazione, l’aspetto innovativo della loro discussione è offerto dall’accento sugli effetti che il New Deal avrebbe avuto, nel lungo periodo, sull’assetto del mercato mondiale. La vittoria statunitense nella seconda guerra mondiale, sancendo l’epilogo del vecchio imperialismo europeo, riarticola infatti il mercato mondiale secondo le linee guida tracciate dal Welfare State roosveltiano. I tre principali processi al centro di questa transizione – la decolonizzazione, il decentramento della produzione e la diffusione delle forme disciplinari di governo – definiscono così i contorni di un ordine economico e politico mondiale, che, ben prima della caduta del blocco sovietico, preludono alla graduale formazione dell’Impero. Mediante la decolonizzazione, il mercato mondiale viene «progressivamente riassestato lungo linee gerarchiche dettate dagli Stati Uniti»77, mentre, grazie al secondo dispositivo, si realizza il graduale decentramento della ganizzata attorno alle esigenze delle produzione industriale: «La disciplina è sia una forma della produzione, sia una forma del governo, di modo che la società disciplinare e la produzione disciplinare tendono a coincidere perfettamente. In questa nuova società-fabbrica, le soggettività produttive vengono fabbricate come funzioni unidimensionali al servizio dello sviluppo capitalistico. Le figure, le strutture e le gerarchie della divisione del lavoro vengono massicciamente socializzate e minuziosamente definite nella misura in cui la società civile viene assorbita dallo stato: le nuove norme della subordinazione e i regimi della disciplina capitalistica vengono estesi su tutto il sociale» (ibid.). 76 Per una ricostruzione di questo filone teorico, cfr., per esempio, M. Birkner – R. Foltin, (Post)Operaismus. Von der Arbeiterautonomie zur Multitude. Geschichte und Gegenwart, Theorie und Praxis. Eine Einführung, Stuttgart, Schmetterling, 2006; G. Trotta – F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Dai «Quaderni rossi» a «Classe operaia», Roma, Derive Approdi, 2008; P. Virno – M. Hardt (eds.), Radical Thought in Italy. A potential politics, Minneapolis, Minnesota University Press, 1996; S. Wright, Storming Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist Marxism, London-Sterling, Pluto Press, 2002. Letture che riflettono su queste matrici teoriche sono quelle proposte, per esempio, da T. Brennan, The Italian Ideology, in «Critical Inquiry», XXIX (2002), n. 29, ora in G. Balakrishnan (ed.), Debating Empire, cit., pp. 97-120, e A. Callinicos, Toni Negri in Perspective, in «International Socialism», 2001, n. 91, ora in G. Balakrishnan (ed.), Debating Empire, cit., pp. 120-143. 77 M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 232. Ovviamente, il processo di decolonizzazione non è inteso da Hardt e Negri come un processo lineare, se non altro per il ruolo giocato dalla guerra del Vietnam, definita come «l’episodio che pose fine all’ambigua eredità del vecchio mantello colonialista, che per gli Stati Uniti rischiava di compromettere definitivamente qualsiasi prospettiva imperiale di una ‘nuova frontiera’» (ivi, p. 233). Ad ogni modo, scrivono, «il mercato mondiale fu riorganizzato dopo la guerra del Vietnam: un mercato mondiale che distruggeva tutte le frontiere rigide e le procedure gerarchiche dell’imperialismo europeo. Il completamento della colonizzazione fissava il punto di arrivo di una nuova gerarchizzazione delle relazioni di dominio, le chiavi del quale erano saldamente nelle mani degli Stati Uniti» (ibid.).

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produzione a livello globale, secondo un movimento in due tappe che, in un primo tempo, vede una sostanziale continuità con i metodi del vecchio imperialismo, e successivamente, dopo la guerra del Vietnam, assegna un ruolo centrale alle multinazionali. In sostanza, queste ultime «iniziarono a distribuire sempre più massicciamente le loro attività su tutta la superficie mondiale, sino agli estremi angoli del pianeta», «trasferirono la tecnologia essenziale per costruire il nuovo asse produttivo dei paesi subalterni», «mobilitarono la forza produttiva e le capacità produttive locali», «polarizzarono i flussi di denaro che circolavano con un raggio sempre più ampio in tutto il mondo»78: in altre parole, ristrutturando i flussi della produzione su un piano effettivamente globale, le multinazionali costruivano la base da cui la costituzione imperiale avrebbe preso gradualmente forma. Infine, l’ultimo dei tre dispositivi indicato da Hardt e Negri individua come fondamentale «la diffusione delle forme disciplinari di produzione e di governo in tutto il mondo», con la conseguenza, tra l’altro, della «trasformazione della massiccia mobilitazione popolare impegnata nelle lotte di liberazione in una mobilitazione di massa per la produzione»79. Per effetto di queste trasformazioni, il mercato mondiale, ormai divenuto una realtà, avrebbe assunto il valore di base del nuovo ordine. «Il mercato mondiale, in quanto struttura gerarchica di comando», scrivono infatti, «divenne il fattore decisivo in tutte le zone 78 Ibid. Il ruolo delle multinazionali era ovviamente economico, ma andava a influire in modo significativo anche sugli Stati e sulle loro capacità di regolazione: «I flussi», osservano infatti, « furono fatti convergere, prevalentemente, verso gli Stati Uniti, che coordinavano e garantivano – quando non li dirigevano direttamente – le operazioni e i movimenti delle multinazionali. Questa fu una tra le più decisive fasi costituenti dell’Impero. Mediante le attività delle grandi compagnie transnazionali, la perequazione e la mediazione dei saggi di profitto, furono sottratte al potere dei principali stati-nazione. Ma, soprattutto, gli interessi capitalistici legati ai nuovi stati-nazione postcoloniali, lungi dal fare opposizione all’intervento delle multinazionali, si svilupparono sullo stesso loro terreno, consolidandosi sotto il loro controllo. Attraverso il decentramento dei flussi produttivi, furono perciò determinate nuove economie regionali e una nuova divisione globale del lavoro. Non era ancora un ordine globale, ma un ordine in gestazione» (ivi, pp. 233-234). 79 Ivi, p. 234. «I leader degli stati socialisti», notano in questo senso Hardt e Negri, «accettarono dunque la sostanza del progetto disciplinare», con conseguenze peraltro molto lontane da quelle prodotte nei paesi occidentali: «I contadini di tutto il mondo vennero sradicati dai campi e dai villaggi e spediti nella fornace incandescente della produzione mondiale. Il modello ideologico esportato dai paesi dominanti (in particolare, dagli Stati Uniti) consisteva in una sintesi tra i regimi salariali fordisti, i metodi tayloristici dell’organizzazione del lavoro e un Welfare modernizzatore, paternalistico e protettivo. […] Gli alti salari di un regime fordista associato a un sistema assistenziale pubblico furono la ricompensa concessa ai lavoratori per aver accettato la disciplina e per essere entrati nella fabbrica globale. Occorre tuttavia sottolineare che i rapporti di produzione che si erano sviluppati nei paesi dominanti non vennero mai impiantati con la stessa forma nelle aree subordinate dell’economia globale» (ibid.).

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e le aree che erano state dominate dall’imperialismo», proprio perché «era la pietra angolare di un nuovo sistema che poteva dirigere le reti globali della circolazione»80. Tra i risultati più rilevanti (ma ancora parziali) di questo processo, spiccano sicuramente la crescente mobilità globale della forza lavoro e quella che Hardt e Negri definiscono come la «fine del Terzo Mondo». Per un verso, infatti, «la crescente mobilità di larga parte del proletariato mondiale è un’altra conseguenza dell’unificazione tendenziale del mercato globale»81, mentre, per un altro, «la mobilità delle popolazioni rende sempre più difficoltoso amministrare separatamente i mercati nazionali (in particolare, il mercato del lavoro)», con l’effetto – certo in parte paradossale – che «i lavoratori che fuggono dal Terzo Mondo per lavorare o per arricchirsi nel Primo contribuiscono a sciogliere le frontiere tra i due mondi»82. Ovviamente, Hardt e Negri non puntano a sostenere l’idea di un sostanziale annullamento delle differenze economiche e sociali fra Nord e Sud del mondo, ma intendono piuttosto mettere in luce gli effetti prodotti dalla mobilità internazionale sulla segmentazione del mercato del lavoro, anche all’interno dei Paesi occidentali: Il Terzo Mondo, di certo, non scompare nell’unificazione del mercato mondiale: al contrario, viene a trovarsi al centro del Primo, nelle forme dei ghetti, delle favela e delle bidonville che si producono e si riproducono ininterrottamente. A sua volta, il Primo Mondo si trasferisce nel Terzo assumendo le fisionomie delle borse valori, delle banche, delle multinazionali e dei gelidi grattacieli ove si trovano le centrali del denaro e del potere. In definitiva, la geografia politica ed economica viene destabilizzata così radicalmente da rendere fluide e mobili le frontiere tra le diverse aree del mondo. Il mercato mondiale tende così a divenire la sola dimensione coerente per l’applicazione effettiva del comando e del management capitalistico83.

Quello sancito dal New Deal globale è però solo un movimento ancora parziale all’ordine imperiale, perché l’integrazione del mercato mondiale garantita dal processo di disciplinamento deve essere approfondita da un processo ben più radicale, che Hardt e Negri illustrano ricorrendo all’immagine marxiana del passaggio dalla «sussunzione formale» a quella «reale»84. Tentando di chiarire i termini del passaggio all’Impero, i due autori 80

Ivi, p. 238. Ivi, p. 239. 82 Ibid. 83 Ivi, pp. 239-240. 84 Nel Capitale, e soprattutto nel cosiddetto Capitolo VI inedito, Marx, trattando del processo 81

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definiscono infatti il mutamento nell’organizzazione del mercato mondiale proprio come un salto verso una «sussunzione reale» che avrebbe comportato non soltanto un’intensificazione degli scambi di merci e dei flussi finanziari, ma soprattutto una «vasta trasformazione dei rapporti sociali e produttivi», il superamento dell’architettura disciplinare del Welfare State e la ristrutturazione informatica destinata a sancire la nuova centralità del «lavoro immateriale»85. Tali processi, al cuore del passaggio alla sussunzione reale, formano così le basi su cui la nuova costruzione imperiale – con la sua costituzione mista, l’ibridazione delle funzioni controllo e la logica di amministrazione – inizia a prendere corpo in modo compiuto. Proprio in coincidenza con questo passaggio, come scrivono in un punto chiave della loro argomentazione, inizia infatti a emergere il «quasi-stato globale del regime disciplinare»: il completamento del mercato mondiale e una generale perequazione […] non possono esclusivamente dipendere da fattori monetari e finanziari, ma devono essere realizzati attraverso una vasta trasformazione dei rapporti sociali e produttivi. La disciplina è il dispositivo che si trova al centro di questa trasformazione. Nel momento in cui si forma una nuova realtà sociale che vede il concatenarsi dello sviluppo del capitale e della proletarizzazione della popolazione all’interno di un unico processo, anche la forma politica del comando deve essere modificata e articolata in forme e dimensioni appropriate: deve essere edificato un quasi-stato globale del regime disciplinare86.

lavorativo, aveva distinto la fase della «sussunzione formale», in cui il capitale si limitava a utilizzare metodi di organizzazione del lavoro precedenti, e la fase della «sussunzione reale», in cui il capitale passava direttamente a riorganizzare il processo lavorativo, utilizzando le macchine, scomponendo il lavoro dei singoli e ricomponendolo in una forma più economica di cooperazione collettiva. Cfr. K. Marx, Il Capitale. Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1989, I, pp. 371-372 (ed. or. Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie. I, Hamburg, Meissner, 1867), e Id., Il Capitale: Libro I. Capitolo VI inedito. Risultati del processo di produzione immediato, Firenze, La Nuova Italia, 1970, pp. 53-63. 85 Sulla questione del «lavoro immateriale», cfr. anche M. Hardt, Affective Labor, in «Boundary 2», XXVI (1999), n. 2; W.F. Haug, «General Intellect» und Masseintellektualität, in «Das Argument», XLII (2000), n. 2, pp. 183-203; F. Haug, Immaterielle Arbeit und Automation, in «Das Argument», XLII (2000), n. 2, pp. 204-214; M. Lazzarato, Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività, Verona, Ombre corte, 1997; e C. Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguista dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Bellinzona, Casagrande, 1995. 86 M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 241.

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3.3 Un nuovo Zusammenbruch? Aprendo negli Stati Uniti un dibattito inaspettatamente ampio e vivace, l’affresco dipinto in Empire non ha mancato di attirare critiche anche piuttosto severe. Molti lettori si sono concentrati soprattutto sull’assenza di basi empiriche nel lavoro di Hardt e Negri, un’assenza che rischia spesso di rendere il saggio più simile a un suggestivo affresco, che a una realistica descrizione di grandi tendenze storiche. I due autori – ha osservato per esempio Giovanni Arrighi – «utilizzano in maniera eccessiva metafore e teorie ed evitano sistematicamente le prove empiriche»: «molti lettori resteranno certamente affascinati dall’erudizione sfoggiata nel libro, ma quelli più smaliziati rimarranno perplessi da affermazioni di fatto non sostenute da prove empiriche o, quel che è peggio, facilmente falsificabili sulla base delle prove a disposizione»87. Questo limite di fondo emerge, per esempio, in due passaggi cruciali nelle argomentazioni di Empire, ossia a proposito della scomparsa del «Terzo Mondo» e del ruolo della mobilità della forza lavoro. Sotto il primo profilo, per quanto sia anacronistico parlare ancora di «Terzo Mondo» (se non altro perché il «Secondo Mondo» non esiste più in quanto tale), appare piuttosto discutibile sostenere – come sembrano fare Hardt e Negri – che «la distanza tra la povertà dello scomparso terzo mondo (o sud) e la ricchezza dello scomparso primo mondo (o nord) sia diminuita in misura significativa», perché, in realtà, «i dati a disposizione dimostrano una straordinaria persistenza del divario nel reddito tra nord e sud, valutato dal Pil pro capite»88. Sotto il secondo profilo, inoltre, «non sono esatte neppure le loro osservazioni sulla direzione e le dimensioni dei flussi attuali di capitale e lavoro»89, che appaiono sovrastimare notevolmente non solo il volume complessivo della mobilità della forza lavoro, ma anche gli effetti che questa avrebbe sugli investimenti di capitale, con conseguenze ovviamente rilevanti sulla validità delle tesi al cuore di Empire90. Critiche 87

G. Arrighi, Genesi di un impero, cit., p. 107. Ibid. In questo senso, osservava Arrighi: «nel 1999 il reddito medio pro capite dei paesi dell’ex terzo mondo era solo il 4,6% di quello dei paesi del primo mondo, vale a dire quasi identico a quello del 1960 (4,5%) e del 1980 (4,3%). Se escludiamo dal computo la Cina, la percentuale dimostra un calo continuo: dal 6,4% del 1960 al 6,0% del 1980 e al 5,5% del 1999» (ibid.). 89 Ibid. 90 Non si tratta infatti di elementi secondari nell’argomentazione di Hardt e Negri, ma di tasselli in fondo insostituibili: «la visione ottimistica di Hardt e Negri», scrive Arrighi, «si basa in gran parte sul presupposto che il capitale sotto l’Impero tenda verso un duplice livellamento delle condizioni di vita della moltitudine: per mezzo della mobilità del capitale da nord a sud da una parte, e attraverso la mobilità della forza lavoro da sud a nord, dall’altra. Ma se questi 88

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simili sono state inoltre indirizzate anche a un altro punto importante delle argomentazioni di Hardt e Negri, quello che riconosce una nuova centralità (economica ma anche politica) al cosiddetto «lavoro immateriale». Per esempio, Leo Panitch e Sam Gindin, oltre a sottolineare la completa assenza di dettagli empirici, hanno contestato con forza che i «lavoratori immateriali», occupati nei settori della comunicazione e della manipolazione simbolica, abbiano una rilevanza quantitativa e qualitativa nel complesso della forza lavoro mondiale91. Ovviamente, la discussione si è però concentrata anche su una serie di aspetti ulteriori, particolarmente rilevanti per quanto concerne la definizione del nuovo «paradigma» di esercizio della sovranità. Uno dei punti attorno ai quali è ruotato il dibattito è in effetti costituito dalla visione sostanzialmente eurocentrica che, nonostante tutto, alimenta l’affresco di Empire. Per quanto riconoscano una distorsione eurocentrica all’interno della tradizione marxista, e soprattutto nella lettura storica che emerge dal Capitale92, Hardt e Negri – a giudizio di alcuni critici – non riescono a liberarsi interamente di questa eredità. Kevin C. Dunn, per esempio, ha riconosciuto che Empire articola un sostanziale ripensamento degli assunti di base della riflessione internazionalistica (come l’idea di anarchia, l’immagine della natura, l’ipotesi dell’interdipendenza) e che, inoltre, «riconosce il bisogno di esaminare le relazioni del potere globale al di fuori dei limitati confini europei», offrendo

meccanismi non sono operativi – come sembra non lo siano nel momento attuale – la strada verso la cittadinanza globale e un reddito garantito per tutti può diventare molto più lunga, accidentata e insidiosa di quanto Hardt e Negri ci vogliono far credere» (ivi, p. 108). 91 Cfr. L. Panitch – S. Gindin, Gems and Baubles in «Empire», cit., pp. 55-57. Ma, più in generale, la valutazione è fortemente critica perché Empire viene giudicato come un libro «frustrante», «pieno di promesse ma anche di inconsistenze, auto-contraddizioni, voli di esagerazione e lacune logiche» (ivi, p. 52). Nella stessa direzione, vanno anche le osservazioni di P. Thompson, Foundation and Empire. A critique of Hardt and Negri, in «Capital & Class», 2005, n. 86, pp. 73-98. Ovviamente, anche l’idea della centralità del «lavoro immateriale» è stata al centro di discussioni spesso piuttosto critiche, tra cui possono essere ricordati, per esempio, gli interventi, contenuti in «Rethinking Marxism», XIII (2001), n. 3-4, di S. Resnick – R. Wolff, «Empire» and class analysis, ivi, pp. 61-69; N. Dyer-Witheford, Empire, Immaterial Labor, the New Combinations, and the Global Worker, ivi, pp. 70-80; A. Galloway, Protocol, or How Control Exist after Decentralisation, ivi, pp. 81-88. 92 Cfr. per esempio M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 122, quando affrontano la riflessione dedicata da Marx all’India: «Marx non ha alcuna cognizione della specificità della società indiana e delle sue potenzialità. […] Ma il punto non è tanto la sua mancanza di informazioni, quanto il fatto che egli si rappresentava la storia extraeuropea sulla falsariga delle strade già percorse dall’Europa. [...] L’India può progredire solo se si trasforma in società occidentale: il mondo intero può avanzare se segue le tracce dell’Europa. L’Eurocentrismo di Marx non è poi tanto diverso da quello di Las Casas».

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così un contributo importante alla riflessione contemporanea. Ciò nonostante, la discussione di Hardt e Negri non riesce a evitare almeno due inconvenienti: da un primo punto di vista, soccombe – come scrive Dunn – a una sorta di «impulso presentista» che conduce a enfatizzare gli elementi di rottura del presente rispetto al passato; e, soprattutto, sotto un secondo profilo, assume «che ciò che è vero nel contesto occidentale debba essere vero anche per il mondo in generale», scontrandosi però con una serie di difficoltà piuttosto evidenti per quanto concerne la corretta comprensione del funzionamento della sovranità statale e del sistema interstatale al di fuori dell’Occidente e, specialmente, in Africa93. Era inoltre quasi scontato che il quadro dipinto da Hardt e Negri confliggesse con due affollate schiere di oppositori, costituite, in primo luogo, da quanti ritrovavano nella politica estera di George W. Bush l’ultima filiazione del vecchio imperialismo americano, e, in secondo luogo, da quanti, dopo l’euforia della globalizzazione, tornavano a riconoscere il ruolo ancora decisivo degli Stati e della Realpolitik. I primi dovevano ritrovare in Empire molti elementi discutibili, come per esempio una valutazione fin troppo entusiastica dell’esperienza costituzionale statunitense, ma, soprattutto, dovevano indirizzare i loro attacchi all’immagine della costituzione imperiale: un’immagine che – come si è visto – si limita a collocare gli Usa al primo gradino della piramide del potere globale, senza però assegnare a Washington lo scettro del potere imperiale94. Emblematiche sono, da questo 93 K. C. Dunn, Africa’s Ambiguos Relation to Empire and «Empire», in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 143-162, specie p. 159. Su questi limiti, cfr. anche alcuni contributi raccolti nel fascicolo di «Rethinking Marxism», XIII (2001), n. 3-4, come K. Surin, Dossier on «Empire», pp. 89-94; P.K. Mishra, The Fall of the Empire or the Rise of the Global South?, pp. 95-99; D. Moore, Africa: the black hole at the middle of «Empire»?, pp. 100-118; J. Hutnyk, Tales from the raj, pp. 119-136. In una prospettiva problematica più ampia, questi nodi sono segnalati anche da S. Seth, Back to the Future?, in G. Balakrishnan (ed.), Debating Empire, cit., pp. 43-51 (che, in particolare, si richiama alla rilettura di Marx proposta da D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton, Princenton University Press, 2000); B. Neilson, Provincializing the Italian Effect, in «Cultural Studies Review», XI (2005), n. 2, e S. Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, Ombre corte, 2008. Sulle connessioni con l’ambiente e l’ambientalismo, si sofferma invece W. Chaloupka, The Irreprensible Lightness and Joy of Being Green: «Empire» and Environmentalism, in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 199-216, mentre un’interessante critica, che articola una prospettiva femminista, al grande affresco di Empire è proposta da L. Quinby, Taking the Millenialist Pulse of «Empire»’s Multitude: A Genealogical Feminist Diagnosis, in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 231-251 94 Cfr., per esempio, A. Callinicos, The Actuality of Imperialism, cit., specie p. 320, che, oltre a segnalare l’assenza di seri dati economici, ritiene che Hardt e Negri non dimostrino affatto la scomparsa dei conflitti interstatali (e dunque dell’imperialismo); si veda inoltre anche J.B.

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punto di vista, le osservazioni svolte da Atilio A. Boron, che ha raccolto gli elementi di una sorta di requisitoria contro Empire, indirizzandosi in particolare verso l’idea di una struttura imperiale priva di centro e nettamente diversa dal vecchio imperialismo. In realtà, secondo una simile critica, Hardt e Negri dimenticano, per esempio, il ruolo cruciale del Fmi, della Banca Mondiale e del Wto, un ruolo che ha indebolito la «sovranità» degli Stati ma che appare del tutto funzionale agli interessi economico-politici del «centro» statunitense95. Inoltre, la logica dell’imperialismo, pur attraverso una serie di trasformazioni, non sembrerebbe venir meno, nel senso che i singoli Stati nazionali continuano a sostenere e favorire quelle imprese transnazionali che sono basate sul loro territorio, attraverso una serie di strumenti economici e fiscali96. Infine, nell’interpretazione della trasformazione della sovranità e nell’immagine della costituzione imperiale, mentre viene sopravvalutata l’azione svolta dalle organizzazioni sovranazionali, risulta invece del tutto sottovalutato il ruolo degli Stati Uniti, i quali si trovano in una posizione ambivalente: da un lato, sostengono quelle organizzazioni, ma, dall’altro, si sottraggono al loro gioco quando i vincoli imposti dai trattati internazionali rischiano di imbrigliare troppo strettamente le decisioni di politica estera o le linee della politica economica97. Un punto altrettanto contestato è rappresentato dalla tesi del declino dello Stato, ovviamente connessa a quella dell’emergere dalla sovranità imperiale, perché attorno a questo nodo si è aggregato uno schieramento di oppositori concordi nell’evidenziare la sostanziale resistenza proprio del ‘vecchio’ Stato sovrano. Ma, probabilmente, ad attirare la maggior parte delle critiche Foster, Imperialism and «Empire», in «Monthly review», LIII (2001), n. 7, il quale contrappone le tesi di Hardt e Negri a quelle di I. Mészáros, Beyond Capital, New York, Monthly Review Press, 1995. 95 «Nel caso latinoamericano», osserva per esempio Boron, «ciò significa che la sovranità popolare è stata privata di quasi tutti i suoi attributi e che nessuna decisione strategica in materia economica o sociale viene adottata nel paese senza la previa consultazione con – e dietro approvazione di – qualche rilevante agenzia di Washington» (A.A. Boron, Impero & imperialismo, cit., p. 94). 96 Cfr. ivi, pp. 97-98. 97 In sostanza, una simile critica punta a ribadire dunque la validità di fondo della teoria dell’imperialismo, poggiando sul rapporto strumentale fra imprese transnazionali e politiche statali, oltre che sullo squilibrio fra centro e periferia del sistema mondiale: «è l’interesse dei grandi conglomerati d’impresa che controllano, secondo i loro desideri, il governo degli Stati Uniti, il congresso, il potere giudiziario, i grandi mezzi di comunicazione di massa, le principali università e centri studi e tutto un fitto intreccio, che consente loro di detenere una formidabile egemonia sulla società civile. Istituzioni cosiddette ‘intergovernative’ o internazionali come il Fmi, la Banca Mondiale, il Wto e altre simili, sono al servizio degli interessi corporativi nordamericani» (ivi, p. 82).

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è stata, ancora una volta, l’idea – ribadita con forza nelle pagine di Empire – secondo cui gli Usa, a dispetto della loro forza militare, non occupano il ‘centro’ dell’impero in via di costituzione98. Un rilievo simile è stato in effetti indirizzato alle tesi di Hardt e Negri anche da osservatori assai poco inclini a riprendere le vecchie ipotesi della teoria dell’imperialismo, ma egualmente scettici verso l’idea di un sistema privo di un «centro» politico99. Così, anche chi ha sostenuto l’opportunità di recuperare la nozione di «impero» per comprendere la politica internazionale contemporanea, come per esempio Michael E. Cox, ha considerato l’immagine di un impero che non abbia il suo centro politico, economico e militare negli Stati Uniti e a Washington come un’ipotesi che sopravvaluta una serie di elementi puramente tendenziali. «Dopo tutto», ha affermato Cox, «l’economia americana continua ad ammontare a quasi il 30% del prodotto mondiale, è circa il 40% più grande di ogni suo vicino rivale, il dollaro rimane ancora potente e Wall Street è tuttora il centro del sistema finanziario internazionale», mentre «le enormi risorse a disposizione del governo americano non solo gli conferiscono un grande ruolo nel dare forma al contesto materiale nel quale tutti ci troviamo a vivere, ma forniscono loro anche una massiccia influenza all’interno di quegli organismi la cui funzione è il governo dell’economia mondiale»100. L’immagine dell’Impero senza centro è apparsa ad altri interpreti come piuttosto fragile anche perché l’ordito complessivo di Empire – concepito negli anni Novanta, e dunque nel corso del decennio segnato dal trionfo (almeno apparente) della Pax Americana – è risultato rapidamente scalzato dagli eventi seguiti al settembre 2001, dalla «guerra globale» al terrorismo e, 98

Si tratta, peraltro, di un nodo su cui Hardt e Negri si soffermano sin dalle prime pagine di Empire, quando scrivono: «Molti identificano negli Stati Uniti l’autorità suprema che domina la globalizzazione e il nuovo ordine mondiale. […] La nostra ipotesi di fondo, che sia emersa una nuova forma di sovranità imperiale, contraddice entrambe queste concezioni. Né gli Stati Uniti, né alcuno stato-nazione costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista. […] Gli Stati Uniti occupano una posizione indubbiamente privilegiata nell’Impero, ma questo privilegio non deriva dalle somiglianze quanto piuttosto dalle differenze rispetto alle vecchie potenze imperialiste europee» (M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 15) 99 A questo tipo di critiche, Hardt e Negri hanno tentato di rispondere in varie occasioni, come, per esempio, nel confronto con N. Brown e I. Sezman, The Global Coliseum: on «Empire», in «Cultural Studies», XVI (2002), n. 2, pp. 177-192, specialmente pp. 179-180. 100 M.E. Cox, Il ‘nuovo’ impero americano. Verso una teoria della dottrina Bush, in V.E. Parsi – S. Giusti – A. Locatelli (a cura di), Esiste ancora una comunità transatlantica?, cit., pp. 65-100, specie p. 92. Cfr. anche M. Cox, September 11th and US Hegemony. Or Will the 21st Century Be American Too?, in «International Studies Perspective», III (2002), pp. 53-70; Id., The Empire’s Back in Town: Or America’s Imperial Temptation – Again, in «Millennium», XXXII (2003), n. 1, pp. 1-27; Id., Empire, imperialism and the Bush Doctrine, in «Review of International Studies», XXX (2004), n. 4, pp. 585-608.

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soprattutto, dal ritorno marcato all’unilateralismo nella politica estera americana101. «L’assunto centrale del libro», ha osservato per esempio Chantal Mouffe, «e cioè la fine dell’imperialismo e l’emergere di una nuova forma di sovranità senza centro, è stato mandato in frantumi in maniera spettacolare dalle guerre intraprese dagli Stati Uniti dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001»102. E, in effetti, la raffigurazione di un Impero sostanzialmente pacifico al proprio interno e in cui le ‘vecchie’ rivalità interstatali tramontano a seguito della crescente centralità del mercato (e della lex mercatoria globale) non poteva che essere messo a dura prova da una realtà che pareva invece consegnare una indiscutibile centralità – politica e militare – proprio agli Stati Uniti103. Se l’affollata schiera dei critici ha messo in luce soprattutto i limiti connessi a una rivisitazione del marxismo eccessivamente disinvolta, o alla 101

In qualche modo, notano anche Passavant e Dean, «l’evento dell’11 settembre» sembra aver «interrotto la logica dell’Impero», evidenziando le difficoltà incontrate – non solo a livello a teorico – dal dibattito: cfr. P.A. Passavant – J. Dean, Representation and Event, in Ead. (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 315-328, specie p. 326. 102 C. Mouffe, Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 123-124 (ed. or. On the Political, London, Routledge, 2005). Sostanzialmente in linea con questa critica, è anche Domenico Losurdo, che in effetti scarta senza esitazioni l’idea che l’Impero sia privo di centro: «questa tesi», scrive Losurdo, «finisce inconsapevolmente col riecheggiare essa stessa il linguaggio dell’impero, che sin dal suo emergere ha preteso di essere mosso non da meschini calcoli nazionali bensì da un provvidenziale ‘destino manifesto’ e che oggi più che mai ama presentarsi come l’incarnazione dell’universalità e di un vero e proprio disegno divino» (D. Losurdo, Il linguaggio dell’impero. Lessico dell’ideologia americana, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 285-286). In una chiave differente, che si concentra invece sulla vicenda costituzionale americana, si collocano le considerazioni proposte da P. Fitzpatrick, The Immanence of «Empire», in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 31-56, di cui però è da vedere anche Id., The Law of Enduring Freedom, in «Law, Social Justice & Global Development Journal», 2001, n. 2 [http://www2.warwick.ac.uk/fac/soc/ law/elj/lgd/2001_2/fitzpatrick/]. 103 Ovviamente, Hardt e Negri si sono confrontati in più sedi con le problematiche poste dalla nuova stagione politica, e, per esempio, la prima sezione di Moltitudine, è dedicata proprio alle nuove modalità della guerra. In particolare, non rilevano alcuna contraddizione fra il ritorno della guerra (nella forma della «guerra globale al terrorismo») e la struttura imperiale: «L’onnipresenza del nemico e la minaccia del disordine», scrivono per esempio, «risultano necessari per legittimare la violenza imperiale», tanto che il nemico diventa effettivamente «una funzione costitutiva della legittimazione» (M. Hardt – A. Negri, Moltitudine, cit., p. 50). Secondo Mouffe, però, non si assiste a un reale ripensamento delle tesi di Empire, perché, se i due autori «ammettono il ruolo chiave degli Stati Uniti», essi «rifiutano di considerarlo un potere imperialista»: «si tratterebbe soltanto di una versione unilaterale di impero, che essi insistono nel presentare come una rete decentrata di potere. L’unica differenza è che mentre il libro precedente era perentorio nell’affermare l’esistenza di fatto dell’impero, ora gli autori sostengono di limitarsi a indicare una tendenza chiaramente riconoscibile in un gran numero di processi contemporanei» (C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 124).

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seducente ma illusoria figura dell’Impero senza centro, è invece probabile che proprio il tentativo di abbandonare i vecchi schemi teorici costituisca il tratto più innovativo del volume, oltre che, forse, anche quello in grado di sopravvivere più a lungo alla sua inattesa fortuna editoriale. Al di là della suggestione delle immagini, delle forzature polemiche e delle formule altisonanti che hanno reso il testo una sorta di manifesto teorico104, l’idea di un nuovo paradigma della sovranità, la metafora della costituzione ibrida e, soprattutto, l’ipotesi di una nuova relazione tra lo Stato e il mercato mondiale hanno offerto infatti uno stimolo importante a una ripresa delle riflessioni sulle conseguenze ‘politiche’ della globalizzazione105. Pur da una posizione molto lontana, Vittorio Parsi, per esempio, ha sostenuto che gli aspetti più importanti del contributo di Hardt e Negri vanno rinvenuti non nella suggestione delle immagini, ma nel peculiare carattere dell’ordine «neoimperiale» postbellico106. Un ordine che, pur fondato sulla presenza di un forte Stato egemone, deve essere ricondotto non tanto all’equilibrio egemonico, quanto, piuttosto all’ideal-tipo dell’«ordine costituzionale» delineato da G. John Ikenberry107, anche se ovviamente Hardt e Negri intendono 104

Su questo punto cfr., per esempio, le considerazioni di S. Žižek, Have Michael Hardt and Antonio Negri rewritten the «Communist Manifesto» for the Twenty-First Century? in «Rethinking Marxism», XIII (2001), n. 3-4, pp. 190-198, e Id., The Ideology of Empire and Its Traps, in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Enpire’s New Clothes, cit., pp. 253-264, ma anche quelle, più critiche, di E. Meiskins Wood, A Manifesto for Global Capitalism?, in G. Balakrishnan (ed.), Debating Empire, cit., pp. 61-82. 105 Molte delle sollecitazioni a riconsiderare il ruolo dello Stato sono giunte peraltro, negli ultimi anni, proprio da riflessioni critiche e radicali: cfr. sul punto J.H. Hobson, The ‘second state debate’ in International Relations Theory: theory turned upside-down, in «Review of International Studies», XXVII (2001), pp. 395-414. Sul dibattito più recente, si vedano anche le indicazioni di P.P. Portinaro, Il futuro dello Stato nell’età globale, in R. Gherardi (a cura di), Politica, consenso e legittimazione. Trasformazioni e prospettive, Roma, Carocci, 2002, pp. 67-82. 106 «Il clamore intorno alle tesi di Negri e Hardt», nota infatti Parsi, «ha finito però per oscurare un fatto che era abbondantemente sotto gli occhi di tutti. E cioè che l’egemonia neoimperiale degli Stati Uniti non costituiva per nulla una novità del dopo guerra fredda. Anzi. L’egemonia neoimperiale ha rappresentato la chiave di volta della strategia americana di pacificazione postbellica di ciò che chiamiamo Occidente (con senso politico non del tutto coincidente rispetto a quello culturale)». Cfr. V.E. Parsi, L’alleanza inevitabile. Europa e Stati Uniti oltre l’Iraq, Milano, Università Bocconi Editore, 2006 (II ed.), p. 37. Ma si vedano anche le considerazioni svolte in Id., L’impero come fato, cit.; Id., Che cosa resta dell’Occidente, in «Filosofia politica», XVIII (2004), n. 1, pp. 43-64, e Id., Dalla global governance al multilateralismo, «La Comunità Internazionale», LIX (2004), n. 3, pp. 475-486, mentre, sui caratteri del sistema bipolare, Id., Il sistema bipolare e la lunga Guerra fredda, in G.J. Ikenberry – V.E. Parsi (a cura di), Manuale di Relazioni Internazionali, cit., pp. 21-39. 107 Cfr. G.J. Ikenberry, Dopo la vittoria. Istituzioni, strategie della moderazione e ricostruzione dell’ordine internazionale dopo le grandi guerre, Milano, Vita e Pensiero, 2003 (ed. or. After Victory. Institutions, strategic restraint and the rebuilding of order after major wars, Princeton, Princeton Uni-

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la «costituzione» in termini ben diversi da quelli che utilizza il politologo statunitense. In Empire infatti – come nei filoni neo-liberali delle Relazioni Internazionali, ma diversamente dalle teorie dell’imperialismo – le norme e le organizzazioni sovranazionali sembrano avere una rilevanza e un’autonomia rispetto ai singoli Stati nazionali che hanno contribuito alla loro creazione: ma, naturalmente, questa autonomia risulta essere solo ‘relativa’ nei confronti del mercato mondiale e della sua logica di valorizzazione108. Inoltre, come nei filoni del globalismo cosmopolita, l’aspirazione a una democrazia mondiale e a una giustizia sovranazionale non vengono intesi come semplici travestimenti ideologici degli interessi della potenza egemone, ma come una tendenza reale, sebbene tale tendenza, secondo Hardt e Negri, risulti comprensibile solo all’interno della formazione imperiale109. Dal punto di vista teorico, Tarak Barkawi e Mark Laffey hanno inoltre evidenziato le notevoli sollecitazioni che Empire, proprio mentre si dirige contro le raffigurazioni tradizionali dell’ordine internazionale, fornisce all’impianto di base delle Relazioni Internazionali. Pur presentando una serie di evidenti limiti110, il lavoro di Hardt e Negri ha il merito di riproporre, insieme alla nozione di impero, una visione dell’«internazionale» capace di superare la «trappola territoriale» alla base delle Relazioni Internazionali, e cioè quella rappresentazione stilizzata e semplificata secondo cui i confini riescono a contenere – come barriere impermeabili – le relazioni sociali111. versity Press, 2001), ma anche i saggi raccolti in Id., America senza rivali?, Bologna, Il Mulino, 2004, e Id., Il dilemma dell’egemone. Gli Stati Uniti tra ordine liberale e tentazione imperiale, Milano, Vita e Pensiero, 2007 (ed. or. Liberal Order and Imperial Ambition. Essays on American Power and World Politics, Cambridge, Polity Press, 2006), in particolare Il potere americano e l’impero della democrazia capitalista, ivi, pp. 187-223 (ed. or. American Power and the Empire of Capitalist Democracy, in «Review of International Studies», 2001-2002, pp. 191-221). 108 In questo senso, la distanza rispetto alle teorie dell’imperialismo risulta chiara dalle argomentazioni di Alex Callinicos, The Actuality of Imperialism, cit., p. 325. Un esame della visione dell’«imperialismo legale» suggerito da Empire è proposto, invece, da R. Buchanan – S. Pahuja, Legal Imperialism: «Empire»’s Invisible Hand?, in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 73-93. 109 Ed è quindi piuttosto scontata la critica di Martin Shaw, Post-Imperial and Quasi-Imperial: State and Empire in the Global Era, cit. 110 Barkawi e Laffey non nascondono i motivi di insoddisfazione nei confronti di Empire: la rottura che individuano fra sovranità moderna e postmoderna non è infatti giudicata come «sostenibile», mentre «la loro analisi dell’Impero oscura le continuità con le più vecchie storie del ‘moderno’ imperialismo»; inoltre, la descrizione dell’ordine emergente è «notevolmente banale», la loro periodizzazione storica «altamente discutibile» e la mancanza di attenzione per gli aspetti economici, politici e militari della governance appare addirittura «deformante» (T. Barkawi – M. Laffey, Retrieving the Imperial, cit., p. 111). 111 La nozione di «trappola territoriale» è ripresa da J. Agnew – S. Corbridge, Mastering Space. Hegemony, Territory and International Political Economy, London, Routledge, 1995, ma, su

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«Cominciando con lo stato e poi analizzando le sue attività nel mondo politico, le Relazioni Internazionali», secondo Barkawi e Laffey, «oscurano le relazioni di costituzione reciproca mediante cui vengono prodotti gli stati, le società e gli altri fenomeni internazionali»112. Al contrario, sarebbe indispensabile riconoscere i complessi processi di costruzione simbolica che attraversano i confini, secondo procedure analoghe a quelle seguite da Paul Gilroy nel suo studio sull’«Atlantico nero»113. Per diversi aspetti, come l’enfasi sulla produzione della soggettività e la rilettura della sovranità, Empire, sostengono Barkawi e Laffey, sembra procedere in questa direzione, decostruendo, in qualche misura, la stessa immagine della sfera «internazionale»114. Sotto quest’ultimo profilo, come hanno sostenuto lo stesso Laffey e Jutta Weldes, Hardt e Negri attaccano la tradizionale narrazione della sovranità sotto almeno tre profili: in primo luogo, perché, ponendo alla base della loro analisi la conflittualità, ridefiniscono la sovranità come «forma sociale capitalistica»; in secondo luogo, perché, portando alla luce la relazione costitutiva dell’Europa con le sue colonie, attaccano l’eurocentrismo che sta alla base dell’immagine della sovranità; infine, perché, riabilitando la nozione di impero, sfidano l’usuale contrapposizione, emersa nel dibattito sugli effetti della globalizzazione, fra sostenitori della tesi della fine dello Stato e quanti invece ritengono che lo Stato sia destinato ancora oggi a un lungo avvenire115. Così, nel discorso di Hardt e Negri – sebbene i due autori conservino alcuni consistenti debiti con la tradizione – «lo stato sovrano e il suo potere possono essere minati dalla globalizzazione capitalistica, ma il capitale continua ad avere bisogno dello stato». Pertanto, «la ‘dialettica stato-capitale’ è conflittuale solo dal punto di vista del capitalista individuale», mentre «l’internazionale è […] una singola ‘macchina imperiale’ composta questo aspetto, mi permetto di rinviare anche alle considerazioni svolte in D. Palano, Lo spazio politico: territori, confini, potere, in A. Agustoni – P. Giuntarelli – R. Veraldi (a cura di), Sociologia dello spazio, dell’ambiente e del territorio, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 54-90, ora in Id., Frammenti di potere. Tracce di politica nella metamorfosi dello spazio, cit., pp. 41-88. 112 T. Barkawi – M. Laffey, Retrieving the Imperial, cit., p. 112. 113 Cfr. P. Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, Roma, Meltemi, 2003 (ed. or. The Black Atlantic. Modernity and Double Consciousness, London – New York, Verso, 1993). 114 Si vedano, peraltro, anche i commenti di M. Shaw, Post-Imperial and Quasi-Imperial: State and Empire in the Global Era, cit., e R.B.J. Walker, On the Immanence/Imminence of Empire, cit. 115 Cfr. M. Laffey – J. Weldes, Representing the International: Sovereignty after Modernity, in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 121-142, specie pp. 127-128. Secondo Callinicos, in realtà Hardt e Negri non avrebbero offerto neppure in questo caso un contributo originale, perché l’intera tradizione marxista vede la dimensione «internazionale» in questi termini: cfr. A. Callinicos, The Actuality of Imperialism, cit., p. 321.

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di una serie di organizzazioni nazionali e sovranazionali unite sotto un’unica logica di dominio»116. A dispetto di questi meriti, al cuore delle tesi di Hardt e Negri esiste però un limite, passato sovente inosservato tanto ai critici più severi quanto ai più convinti sostenitori, ma dalle implicazioni talmente rilevanti da rischiare di invalidare persino le intuizioni più acute. Si tratta di un limite per alcuni aspetti analogo a quello con cui Wenders rappresentava la ‘fine del mondo’, nel senso che anche gli autori di Empire finiscono col rappresentare l’esaurimento della conquista del globo da parte del capitale negli stessi termini catastrofici con cui, in Until the End of the World, veniva raffigurata la colonizzazione tecnologica di ogni più remoto angolo della terra. Sebbene Hardt e Negri, a differenza di Wenders, accolgano con entusiasmo l’annuncio del ‘collasso’ dell’Impero, entrambe le prospettive risultano dominate dall’imminenza della catastrofe e di un crollo pressoché inevitabile. Non del tutto paradossalmente, infatti, secondo Hardt e Negri, proprio quando l’impero emerge nitidamente dal crepuscolo della modernità e dal tramonto degli Stati nazionali, le sue basi iniziano a sprofondare, mostrando una fragilità inaspettata e la radice di una congenita lacerazione. L’idea di un impero decadente e alimentato dalla sua stessa corruzione non è comunque soltanto un espediente retorico o il velo con cui occultare la compattezza del nuovo ordine globale e delle sue radici produttive, ma la base più profonda dell’architettura teorica allestita da Hardt e Negri. A ben vedere, infatti, tutte le carte gettate sul tappeto nel corso dell’esposizione – dalla crisi della modernità europea al modello di sovranità della costituzione americana, dalla contraddizione tra capitale e sovranità statale alla «dialettica» della sovranità coloniale, dalla crisi dell’imperialismo fino alla sussunzione reale e alla realizzazione del mercato mondiale – sono finalizzate a preparare la logica conclusione del declino della forma imperiale. La stessa contraddizione che contrappone le esigenze dell’accumulazione capitalistica ai confini degli Stati nazionali giunge a esplodere con la realizzazione del mercato mondiale, mentre la tendenza costitutiva del capitale a oltrepassare ogni limite spaziale e temporale non può che scontrarsi contro l’ultimo limite possibile, imposto dall’assenza di qualsiasi ulteriore sbocco esterno. 116 M. Laffey – J. Weldes, Representing the International: Sovereignty after Modernity, cit., p. 129. Anche in questo caso, però, Laffey e Weldes non risparmiano critiche a Empire, proprio per i debiti che ancora conserva nei confronti della tradizionale immagine della sovranità: per esempio, ritengono che, prima dell’avvento del nuovo assetto imperiale, gli Stati fossero realmente sovrani e, inoltre, sottovalutano notevolmente il ruolo giocato dalla coercizione militare. In conclusione, perciò, «il risultato rimane una cattiva storia e una comprensione povera della realtà odierna dell’internazionale, non ultima di quella coercitiva» (ivi, p. 138).

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È molto probabile che le prime analisi sull’imperialismo formulate dai teorici marxisti all’inizio del Novecento derivassero gran parte della loro forza dalla capacità di rappresentare l’assetto politico ed economico di una specifica stagione storica come l’annuncio della fine del capitalismo. Prevedendo l’inasprirsi dei conflitti e la fatale comparsa della guerra, quelle ipotesi coglievano certo un elemento importante e indiscutibile di quella stagione e del nuovo ruolo assunto dagli Stati nazionali, ma, ipostatizzando un assetto congiunturale nella teoria dello Zusammenbruch o nell’immagine della «fase senescente del capitalismo», esse finivano con l’approdare a uno schema determinista, destinato a indirizzare la ricerca su un binario morto. Quando Hardt e Negri si confrontano con la tradizionale teoria dell’imperialismo mettono in luce proprio come gli esponenti di questo filone avessero rinunciato a rivedere le basi delle loro ipotesi, travisando completamente il significato del New Deal e limitandosi a forzare i dati della realtà per adeguarli allo schema dello «stadio supremo del capitalismo». A dispetto di questa critica, in gran parte condivisibile, Empire soffre però di un limite per molti versi analogo, perché, nel diagramma teorico che lo sostiene, il ‘miraggio’ della compiuta realizzazione del mercato mondiale svolge la stessa funzione cui adempivano l’idea della completa spartizione del mondo nella teoria leniniana dell’imperialismo, o l’idea della caduta del saggio di profitto nell’ipotesi dello Zusammenbruch. Ciò non comporta soltanto la surrettizia reintroduzione dello schema determinista criticato sul piano programmatico dai due autori, ma – con conseguenze ben più rilevanti e radicali – finisce con lo squalificare l’intero complesso della loro costruzione teorica. Come verrà mostrato nelle prossime pagine, ciò risulta evidente soprattutto nel caso della teoria dello Stato, perché, a dispetto di intuizioni che rinnovano sensibilmente il vecchio dibattito marxista sul funzionamento delle istituzioni politiche, lo spettro della realizzazione del mercato mondiale finisce col rinchiudere in un quadro predeterminato ogni analisi concreta.

3.4 Lo Stato come ‘strumento’ e come ‘funzione’ Riflettendo sull’epilogo fallimentare dell’esperimento rivoluzionario bolscevico, nel 1993 Otto Kallscheuer tornò a interrogarsi sulla carenza della teoria marxista dello Stato, un nodo problematico che durante gli anni Settanta aveva innescato un fitto e spesso aspro dibattito intellettuale. Se nel 1978, replicando insieme a Elmar Altvater ad alcune osservazioni di Louis Althusser, aveva di fatto difeso la possibilità di rintracciare nel Capitale indicazioni

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metodologiche decisive per comprendere le funzioni dello Stato117, quindici anni dopo Kallscheuer metteva in luce l’esistenza, al cuore della stessa concezione marxiana, di una contraddizione di fondo. Kallscheuer non negava che dalle pagine di Marx potessero essere effettivamente ricavati elementi utili alla comprensione del funzionamento delle istituzioni politiche nelle società capitalistiche, ma riteneva piuttosto che, accanto alla concezione dello Stato come «strumento» nelle mani del capitale, convivesse contraddittoriamente l’idea – presente soprattutto negli scritti giovanili ma mai di fatto abbandonata – dello Stato rivoluzionario come «espressione» della comunità dei suoi membri. In altre parole, alla concezione realistica dello Stato come «strumento», si sarebbe affiancata l’idea della politica come realizzazione di una comunità potenziale, un’idea che sarebbe rimasta al fondo anche dei lavori marxiani della maturità e al centro, per esempio, della celebrazione della «libera associazione» edificata dai comunardi parigini118. Se certo la lettura di Kallscheuer proponeva elementi di riflessione particolarmente rilevanti (soprattutto nel quadro di un dibattito sull’eredità di Marx dopo l’Ottantanove), la contraddizione che segnalava non era certo l’unico nodo problematico, perché in effetti la concezione marxiana conteneva al proprio interno anche ulteriori ambiguità, nascoste proprio al cuore di quella visione dello Stato come ‘strumento’ che Norberto Bobbio ha collocato con forza all’interno delle teorie realistiche della politica119. Per quanto sia pressoché indiscutibile il fatto che Marx considerasse lo Stato come un ‘mezzo’, con cui le classi dominanti assicuravano e rafforzavano le basi del loro potere, non è però troppo difficile scorgere all’interno delle sue pagine illustrazioni anche molto diverse delle modalità con cui lo Stato avrebbe garantito l’interesse del capitale e delle frazioni sociali dominanti. Quando, verso la fine degli anni Sessanta, iniziò a prendere corpo la cosiddetta ‘riscoperta’ dello Stato, l’esistenza negli scritti di Marx di raffigurazioni del livello ‘politico’ tra loro molto diverse divenne d’altronde quasi un luogo comune, oltreché il nodo al centro di complesse e non sempre fruttuose indagini filologiche120. Persino tralasciando gli scritti ‘giovanili’, nei lavori 117 Cfr. E. Altvater – O. Kallscheuer, Stato e riproduzione complessiva dei rapporti di dominio capitalistici, in L. Althusser et al., Discutere lo Stato. Posizioni a confronto su una tesi di Louis Althusser, Bari, De Donato, 1978, pp. 205-219. 118 Si veda O. Kallscheuer, Lo Stato come espressione e come strumento. La contraddizione dell’interpretazione marxista dello Stato e della democrazia, in «Teoria politica», IX (1993), n. 2, pp. 15-35. 119 Cfr. N. Bobbio, Marx, lo stato e i classici (1983), in Id., Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino, Einaudi, 1999, pp. 53-70. 120 La migliore esemplificazione di questa ricerca (anche filologica) rimane probabilmente il testo di D. Zolo, La teoria comunista dell’estinzione dello Stato, Bari, De Donato, 1974.

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marxiani possono essere infatti rinvenute le tracce di almeno tre immagini ben distinte, anche se non necessariamente contraddittorie: la prima incentrata sull’idea dello Stato come semplice e flessibile ‘strumento’ nelle mani della borghesia, la seconda costruita sull’idea della ‘relativa’ autonomia di uno Stato oggetto delle contrapposizioni interne tra le varie frazioni sociali capitalistiche, e la terza diretta a raffigurare lo Stato come garante ‘neutrale’ dell’accumulazione capitalistica. In questo senso, un primo gruppo di scritti può per esempio sostenere l’immagine del puro ‘strumento’, ossia l’idea che lo Stato sia un’organizzazione priva di sostanziale autonomia, creata dalla borghesia nel corso della sua ascesa, nel passaggio dall’età feudale alla società capitalistica: nell’Ideologia tedesca si legge per esempio che lo Stato è «la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità […] al fine di garantire reciprocamente le loro proprietà e i loro interessi»121, mentre una celebre frase del Manifesto, precisando con maggiore nettezza questo punto, definisce lo Stato come «una giunta amministrativa degli affari comuni di tutta la classe borghese»122. La tesi della ‘relativa autonomia’ dello Stato dalla classe capitalistica, o quantomeno da alcune delle sue frazioni, risulta invece avvalorata da un’altra serie di passaggi e, in particolare, dalle analisi svolte da Marx sulla Francia del 1848, in cui la repubblica viene raffigurata come la «forma politica» sede delle fratture e delle alleanze interne al blocco borghese123. In alcune pagine del Terzo libro del Capitale, quando Marx passa a considerare l’evoluzione del capitalismo verso le società per azioni, si può infine individuare anche un salto nella lettura della funzione dello Stato, inteso sempre più come garante non degli interessi della classe borghese, ma della permanenza del processo di accumulazione del capitale. Illustrando la tendenza verso il monopolio determinata dalla socializzazione del capitale, Marx riteneva per esempio pressoché inevitabile «l’intervento dello Stato» nella gestione dell’economia124, e, proprio richiamandosi a questa ipotesi di fondo, nell’Anti-Dühring Engels delineò con nettezza i tratti della figura dello 121 K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti, Roma, Rinascita, 1958, p. 60; ed. or. Die deutsche Ideologie. Kritik der neuesten deutschen Philosophie in ihren Repräsentanten Feuerbach, B. Bauer und Stirner, und des deutschen Sozialismus in seines verschidenen Propheten (1845-1846), in Id., Werke, Berlin, Dietz Verlag, III (1969), pp. 5-530. 122 K. Marx –F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Milano, Mursia, 1973, p. 25 (ed. or. Manifest der Kommunistichen Partei, London, 1848). 123 Cfr. K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Roma, Editori Riuniti, 1992, ed. or. Die Klassenkämpfe in Frankreich 1848 bis 1850 (1850), Leipzig, 1895, e Id., Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Roma, Editori Riuniti, 1991, ed. or. Die achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte (1852), Hamburg, 1869. 124 K. Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, cit., III, p. 520.

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Stato «capitalista collettivo ideale», destinato ad assumere direttamente la direzione della produzione sociale125. I tre principali filoni che alla fine degli anni Sessanta tentarono di avviare una riflessione marxista sullo Stato poterono ricorrere – con uguale legittimità teorica – alle differenti immagini che Marx ed Engels avevano delineato, seppure in modo soltanto frammentario, nei loro scritti126. Riprendendo i risultati della celebre indagine condotta da Charles Wright Mills sull’élite statunitense, Ralph Miliband poteva per esempio declinare l’idea dello Stato come «giunta amministrativa» della classe dominante insistendo sull’estrazione sociale e culturale del personale collocato al vertice delle strutture politiche, burocratiche e militari127, mentre Nicos Poulantzas, richiamandosi soprattutto agli scritti storici di Marx, poteva sostenere la tesi della «relativa autonomia» del livello politico128. Innescando una contrapposizione piuttosto vivace, Poulantzas rimproverava a Miliband di concepire il legame tra Stato e capitale solo nei termini di una filiazione ‘sociologica’ delle élite politiche dalle élite economiche, dimenticando come le classi dirigenti fossero soltanto semplici ‘amministratrici’ dell’accumulazione capitalistica129. Al di là delle divergenze e delle contrapposizioni, tanto 125 «Ad un certo grado dello sviluppo», scriveva infatti Engels in un famoso passo dell’Anti-Dühring, «il rappresentante ufficiale della società deve assumerne la direzione. [...] lo Stato moderno è l’organizzazione che la società capitalistica si dà per mantenere il modo di produzione capitalistico di fronte agli attacchi sia degli operai sia dei singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale» (F. Engels, Anti-Dühring, Roma, Editori Riuniti, 1985, pp. 267-268; ed. or. Herrn Eugen Dühring’s Umwälzung der Wissenschaft. Philosophie, Politische Oekonomie, Sozialismus, Leipzig, 1878). 126 Per una ricostruzione essenziale del dibattito degli anni Sessanta e Settanta e dei principali filoni teorici, cfr. AA.VV., Il capitale e lo stato. Crisi della «gestione della crisi», Verona, Bertani, 1979; L. Basso (a cura di), Stato e crisi delle istituzioni, Milano, Mazzotta, 1978; G. Carandini (a cura di), Stato e teorie marxiste, Milano, Mazzotta, 1977; M. Carnoy, The State and Political Theory, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1984; G. Gozzi (a cura di), Le trasformazioni dello Stato. Tendenze del dibattito in Germania e in Usa, Firenze, La Nuova Italia, 1980; B. Jessop, The Capitalist State. Marxist Theory and Methods, Oxford, Martin Robertson, 1982; G. Marramao, Politica e complessità. Lo Stato tardo-capitalistico come categoria e come problema storico, in AA.VV., Storia del marxismo, Torino, Einaudi, 1982, IV, pp. 513-591; R. Miliband, Marxism and Politics, Oxford – New York, Oxford University Press, 1977; A. Martinelli (a cura di), Stato e accumulazione del capitale, Milano, Mazzotta, 1977. 127 R. Miliband, Lo stato nella società capitalistica, Bari, Laterza, 1970 (ed. or. The State in Capitalist Society, London, Weidenfeld and Nicholson, 1969). 128 N. Poulantzas, Potere politico e classi sociali, Roma, Editori Riuniti, 1971 (ed. or. Pouvoir politique et classes sociales de l’état capitaliste, Paris, Puf, 1968). 129 Per il dibattito, cfr. N. Poulantzas, The Problem of the Capitalist State, in «New Left Review», 1969, n. 58, pp. 67-78, e R. Miliband, The Capitalist State: Reply to Nicos Poulantzas, in

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l’approccio strumentalista di Miliband, quanto quello strutturalista di Poulantzas tendevano però a fornire un’immagine dello Stato in gran parte convergente: un’immagine che in sostanza giungeva a raffigurare lo Stato nei termini di uno ‘strumento’ nelle mani delle classi dominanti. Sia nel caso in cui il livello istituzionale risultasse privo di qualsiasi autonomia, sia nel caso in cui l’autonomia dalle frazioni sociali dominanti fosse «relativa», il punto comune consisteva nella relazione di dipendenza dello Stato dagli strati sociali capitalistici, e non dall’assetto delle relazioni sociali e dalla logica complessiva dell’accumulazione. Muovendosi in una direzione per molti versi differente, il dibattito sulla teoria marxista dello Stato condotto nella Rft partì invece dalla rappresentazione del processo complessivo della riproduzione delineata nelle pagine del Capitale. Per quanto assumesse spesso i contorni di un dibattito sulla «derivazione» dello Stato, la riflessione giunse a un notevole livello di elaborazione, sia sotto il profilo teorico, sia dal punto di vista delle interpretazioni delle tendenze politiche ed economiche contemporanee. Sul versante della definizione teorica, il contributo di Claus Offe fornì per esempio una griglia concettuale capace di orientare una serie considerevole di indagini specifiche, dedicate alle strutture educative, alla politica sociale e soprattutto alla «crisi fiscale» dello Stato130. Coniugando l’impostazione marxista ereditata dalla Teoria critica con l’analisi sistemica sviluppata dalla scienza politica nordamericana131, Offe delineò un’immagine secondo cui lo Stato risultava essere proprio una sorta di «funzione», e cioè un insieme di istituzioni la cui attività era volta principalmente a garantire il processo di accumulazione. In questo senso, lo Stato non era più inteso come un mezzo, più o meno

«New Left Review», n. 59, 1969, pp. 53-60. 130 Per quanto riguarda la ricerca di C. Offe, cfr. Strukturprobleme des kapitalistischen Staates, Frankfurt a.M, Suhrkamp, 1973; Id., Berufsbildungsreform. Eine Fallstudie über die Reformpolitik, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1975; i saggi raccolti in Id., Lo stato nel capitalismo maturo, Milano, Etas, 1977; Id., Ingovernabilità e mutamento nelle democrazie, Bologna, Il Mulino, 1982; Id., Contradictions of the Welfare States, London, Hutchinson, 1984; Id., Disorganized Capitalism, Cambridge, Polity Press, 1985. Per il dibattito condotto all’interno di questa prospettiva, si vedano invece C. v. Braunmühl et al., Probleme einer materialistischen Staatstheorie, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1973; R. Ebbinghausen (a cura di), Bürgerliche Staat und politische Legitimation, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1976; J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Roma-Bari, Laterza, 1975 (ed. or. Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1973); J. Hirsch, Staatsapparat und Reproduktion des Kapitals, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1974; J. O’Connor, La crisi fiscale dello stato, Torino, Einaudi, 1977 (ed. or. The Fiscal Crisis of the State, New York, St. Martin’s Press, 1973). 131 Cfr. sul punto G. Gozzi, La sociologia critica. Tra analisi dello stato e teoria dei sistemi, in C. Offe – G. Lenhardt, Teoria dello stato e politica sociale, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 7-15.

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autonomo, governato dalla classe dominante, ma risultava essere piuttosto una sorta di sistema, del tutto neutrale rispetto alle varie frazioni sociali, il cui scopo era di garantire la permanenza dello sviluppo economico e la regolarità dell’accumulazione di capitale. Proprio polemizzando con l’impostazione ‘strumentalista’, in un contributo steso con Volker Ronge, Offe scrisse perciò che lo Stato, lungi dall’essere «il ‘servitore’ o lo ‘strumento’ d’una classe contrapposta a un’altra», non era altro che il difensore «degli interessi comuni di tutti i membri di una società di classe capitalistica»132. Ben più delle contemporanee riflessioni di Miliband e Poulantzas, il principale obiettivo polemico del dibattito sulla «derivazione» era costituito dalla vecchia teoria dello Stato del capitale monopolistico, avviata dalle ricerche sul capitale finanziario di Rudolf Hilferding, ‘canonizzata’ dal saggio di Lenin sull’imperialismo e in seguito ripresa e ridefinita secondo differenti prospettive. Facendo derivare la funzione delle istituzioni politiche dei paesi capitalistici dai caratteri generali dell’imperialismo individuati da Lenin, anche questa impostazione – non sempre coerente e spesso distorta dalle finalità della contrapposizione politica – avvalorava una concezione ‘strumentalista’ dello Stato, perché, certo in modo assai meno raffinato di quanto avveniva nelle riflessioni di Miliband e Poulantzas, riteneva che l’azione dello Stato fosse linearmente determinata dagli interessi del capitale finanziario. Nella sua opera più nota, agli inizi del Novecento, Hilferding aveva già indicato i termini essenziali di questa lettura, secondo cui la formazione del monopolio sul mercato interno necessitava di un legame sempre più stretto con lo Stato, sia per garantire una politica doganale protezionista, sia per far valere all’estero i propri interessi finanziari e conquistare nuove zone di influenza. A proposito della svolta antiliberista compiuta dai paesi europei verso la fine dell’Ottocento, il teorico marxista, per esempio, aveva scritto: È […] necessario uno stato forte, capace di far valere i suoi interessi finanziari all’estero e di servirsi della propria potenza per estorcere agli stati meno potenti vantaggiosi trattati di fornitura e favorevoli transazioni commerciali; uno stato che possa spingersi in ogni parte del globo per fare del mondo intero una zona di investimento del proprio capitale finanziario; uno stato, infine, sufficientemente forte per condurre una politica espansionistica e incorporare nuove colonie133.

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C. Offe – V. Ronge, Tesi per una fondazione teorica della nozione di «Stato capitalistico» e per una metodologia materialistica della politologia, in L. Basso (a cura di), Stato e crisi delle istituzioni, Milano, Mazzotta, 1978, pp. 35-51, specie p. 36. 133 R. Hilferding, Il capitale finanziario, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 441 (ed. or. Das Finanzkapital, Wien, Verlag der Wiener Volksbuchandlung Ignaz Brand Co, 1910).

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Non diversamente da Hilferding, ma in termini ancora più espliciti, Bucharin nell’Economia mondiale e il capitalismo aveva sostenuto che ogni sistema economico sviluppato si era già tramutato in «un trust ‘nazionale’ statale sui generis», spingendosi inoltre a definire gli Stati moderni come l’«espressione precisa degli interessi del capitale finanziario»134. A chiarire con ancora maggiore nettezza questa posizione (e a fornirne la sintesi sicuramente più fortunata) fu però il ‘saggio popolare’ di Lenin sull’Imperialismo, nel quale le tesi di Hilferding venivano coniugate con i risultati delle ricerche di John A. Hobson sulla politica estera delle potenze europee. Apparentemente lineare, il discorso di Lenin procedeva dal riconoscimento della formazione dei monopoli e dell’egemonia del capitale finanziario su tutti i differenti rami della produzione sociale, per poi giungere alla conclusione della inevitabilità delle politiche imperialiste e, soprattutto, dello scontro militare fra le potenze occidentali per la spartizione del mondo. Anche in questo caso, lo Stato era raffigurato come uno strumento, del tutto privo di autonomia, nelle mani dei monopoli e del capitale finanziario: con l’avvento della fase imperialista, scriveva per esempio Lenin, «i monopoli capitalistici hanno preso il primo posto nell’economia e nella politica», provocando l’acuirsi della «lotta di un piccolo numero di potenze imperialistiche per la partecipazione al monopolio»135. Se in Stato e rivoluzione elaborò una riflessione in parte più articolata sulle funzioni (oltre che sull’inevitabile «estinzione») delle istituzioni politiche, nel saggio sull’imperialismo Lenin si soffermava invece esclusivamente sul ruolo dello Stato come agente dell’espansione esterna e come ‘strumento’ per estendere il monopolio; in questo quadro, andava a collocarsi anche la celebre immagine dello «Stato rentier», lo «Stato del capitalismo parassitario in putrefazione»136, sostenuto non soltanto dal capitale finanziario, ma anche dall’«aristocrazia operaia» privilegiata dalle politiche monopolistiche. Oltre a essere permeate da una serie di palesi contraddizioni logiche, le tesi di Lenin fornivano evidentemente un’immagine stilizzata e quantomeno semplificata non solo della logica di funzionamento delle istituzioni politiche nelle società capitalistiche, ma anche dei legami tra gruppi economici e potere politico. A dispetto di questi limiti, la teoria dello Stato del capitale monopolistico continuò a detenere una posizione privilegiata nelle riflessioni dei marxisti almeno fino al termine degli anni Sessanta, pur in 134

N. Bucharin, L’economia mondiale e l’imperialismo, Roma, Samonà e Savelli, 1966, p. 236 (ed. or. Mirovoie Choziajstvo i Imperializm, Moskva, 1915). 135 V.I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 148-149 (ed. or. Imperializm, kak vyssaja stadija kapitalizma, 1916). 136 Ivi, p. 142.

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presenza di un contesto storico e politico abissalmente differente rispetto a quello in cui l’originaria teoria dell’imperialismo aveva preso le mosse. Spesso associata a una rappresentazione del mercato internazionale che riproponeva ritualmente le formule dei primi del Novecento, la stilizzata immagine dello Stato, ‘strumento’ di espansione militare saldamente collocato nelle mani del capitale finanziario, fornì lo sfondo anche a indagini di una certa complessità. Rivisitando la teoria di Lenin e rafforzandone i presupposti ‘sottoconsumisti’, Paul Baran e Paul Sweezy, nella loro celebre indagine sul Capitale monopolistico, individuarono per esempio l’esistenza di un legame piuttosto lineare tra le «società per azioni gigante», resesi addirittura indipendenti dal capitale finanziario, e le istituzioni di governo, e, pur ammettendo che potessero maturare «contrasti tra impresa e stato», scrivevano che questi dovevavano essere intesi semplicemente come «riflessi di contrasti all’interno della classe dominante»137. Per quanto nelle loro tesi «per una metodologia materialistica della politologia» Offe e Ronge avessero buon gioco nel denunciare i forti limiti della teoria dello «Stato del capitale monopolistico» e di tutte le concezioni ‘strumentaliste’, era però piuttosto evidente come nella loro proposta rimanesse una lacuna, solo apparentemente marginale, relativa alla relazione tra lo Stato e la dimensione internazionale. Mentre la connessione con la dottrina leninista dell’imperialismo – pur rivista alla luce della teoria sottoconsumista del «surplus» – consentiva per esempio a Baran e Sweezy di individuare le funzioni svolte dallo Stato sia all’interno dell’economia statunitense, sia al suo esterno, Offe e Ronge – come d’altronde gran parte degli autori protagonisti del dibattito tedesco – non contemplavano neppure il problema. Quello che miravano ad elaborare era infatti un quadro teorico astratto, così come astratte erano state le leggi di movimento individuate da Marx nel Capitale, e perciò si limitavano a raffigurare lo Stato come una forma istituzionale deputata alla garanzia del processo di accumulazione, destinataria da un lato di input dalla società e, dall’altro, erogatrice di output, che in alcuni casi (per tipologia e quantità) potevano anche finire col porre in crisi la stabilità del sistema. Anche per il fatto di ereditare l’impostazione sistemica elaborata da Easton, Offe aveva costruito la propria teoria dello Stato assumendo l’ipotesi ‘astratta’ di un sistema economico e politico chiuso, dal quale era di fatto espunto il problema della dimensione esterna. Non diversamente, anche autori tedeschi meno influenzati dall’approccio sistemico delinearono schemi 137

P.A. Baran – P.M. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Torino, Einaudi, 1968, p. 58 (ed. or. Monopoly Capital. An Essay on the American Economic and Social Order, New York, Monthly Review Press, 1966).

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interpretativi centrati sulla dimensione nazionale, trascurando non solo il ruolo dello Stato come agente internazionale, ma anche, talvolta, la stessa relazione tra il sistema politico-amministrativo e la dimensione mondiale del mercato138. Se il nesso con l’arena internazionale rimaneva la lacuna principale del dibattito sulle ‘funzioni’ dello Stato capitalistico, questo stesso problema era invece in gran parte assente per tutte le concezioni ‘strumentaliste’: tanto per quelle che – come nel modello di Lenin – ipotizzavano un legame diretto tra élite economiche e livello politico, quanto per quelle che riconoscevano alla politica una «relativa autonomia»139. L’ipotesi ‘astratta’ di un sistema chiuso o ‘relativamente autonomo’ dall’esterno – ipotesi comune alla gran parte delle teorie marxiste che si discostavano dalle versioni strumentaliste e dalla riproposizione rituale dello schema leninista dello Stato del capitale monopolistico – poteva apparire, nella golden age delle economie occidentali, come una ‘semplificazione’ teorica del tutto irrilevante ai fini della validità dell’analisi. Quella stessa semplificazione testimoniava però tutte le carenze di una teoria dello Stato che, pur incentrandosi sulla relazione tra Stato e dimensione economica, considerava prioritariamente – e come unico terreno rilevante – lo ‘spazio chiuso’ della dimensione nazionale. In breve, non solo veniva così del tutto sottovalutata la questione della eventuale gerarchia esistente tra i diversi Stati, ma, soprattutto, venivano programmaticamente espunti dall’analisi quei fenomeni di internazionalizzazione della produzione e degli scambi che nei decenni seguenti avrebbero costituito il presupposto di qualsiasi analisi sulla ‘crisi’ della sovranità statale. Proprio richiamandosi a questo dibattito, oggi gli autori di Empire sostengono che l’insufficienza della teoria marxista dello Stato non fosse semplicemente il frutto di una distorsione ideologica o di una carenza di sforzi intellettuali, ma costituisse invece l’esito inevitabile di un ancora insufficiente sviluppo del modo di produzione capitalistico. Per quanto nel piano origina-

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Emblematico è, in questo senso, il percorso di Joachim Hirsch, che in effetti negli anni Ottanta iniziava a mutare sensibilmente il proprio schema analitico, mediante una reintroduzione piuttosto tradizionale della dimensione internazionale: cfr., in questa direzione, le annotazioni di W. Bonefeld, Reformulation of the State Theory, in «Capital & Class», 1988, n. 33, pp. 96-127. 139 Lo stesso Poulantzas, per esempio, non aveva sostanziali difficoltà a confrontarsi, già all’inizio degli anni Settanta, con il nodo dell’internazionalizzazione dell’economia, limitandosi a rivisitare la tradizionale teoria dell’imperialismo: cfr. N. Poulantzas, L’internazionalizzazione dei rapporti capitalistici e lo stato nazionale, in L. Ferrari Bravo (a cura di), Imperialismo e classe operaia multinazionale, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 283-317 (ed. or. L’internationalisations des rapports capitalistes et l’Etat-nation, in «Les Temps Modernes», 1973, n. 319, pp. 1456-1500).

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rio del Capitale avesse previsto un volume sullo Stato, anche lo stesso Marx non aveva mai messo realmente mano a quella sezione del suo lavoro, non tanto per le tormentate circostanze della sua riflessione, quanto per la consapevolezza che qualsiasi analisi realistica sul ruolo e le funzioni dello Stato poteva essere condotta soltanto dopo la realizzazione del mercato mondiale, e cioè nel momento in cui il capitale avesse effettivamente superato tutti i confini nazionali. Al tempo in cui Marx scriveva – secondo Hardt e Negri – «i lineamenti costituzionali di ogni singolo stato-nazione […] erano determinati dai saggi di profitto e dai differenti regimi dello sfruttamento corrispondenti alle diverse economie nazionali»: in questo senso, la teoria e la pratica dello Stato nazionale – in quanto «specifica organizzazione del limite» – risultavano strutturalmente in contraddizione con la realtà del modo di produzione capitalistico e con la sua tendenza a superare qualsiasi ostacolo alla propria estensione. Questa contraddizione strutturale tra Stato e capitale, secondo gli autori di Empire, può essere risolta solo oggi, grazie alla realizzazione del mercato mondiale e all’abbattimento di qualsiasi barriera alla valorizzazione, consentendo finalmente – come scrivono – il compimento della riflessione marxiana sullo Stato: Una teoria marxiana dello stato può essere elaborata a condizione che confini e barriere siano superati nella conclusiva coincidenza tra stato e capitale. In altri termini il declino dello stato-nazione, nel suo significato più profondo, sancisce la maturazione delle relazioni tra stato e capitale […]. Oggi è forse finalmente possibile definire (sempre che ve ne sia ancora il bisogno) i lineamenti dei due volumi perduti di Marx140.

Ponendosi come sviluppo della ricerca marxiana, l’immagine dell’Impero elaborata da Hardt e Negri si propone così, al tempo stesso, come la soluzione e il superamento della questione dello Stato che Marx non affrontò mai direttamente. E soprattutto – continuando a rifiutare non solo l’idea di un’autonomia del livello politico, ma anche qualsiasi versione ‘strumentalista’ – Empire intende colmare la lacuna più grave al fondo della riflessione sullo Stato come ‘funzione’ dello sviluppo capitalistico, incapace di uscire dalla gabbia teorica del sistema ‘chiuso’. L’interrogativo principale è però se l’operazione di Hardt e Negri riesca realmente. O se, invece, la soluzione da loro proposta non rischi di riaprire una lacuna altrettanto insidiosa.

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M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 224.

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3.5 La «forma-Stato» e il mercato mondiale Pur percorrendo binari spesso deviati (e distorti) dalle vicende politiche nazionali, anche in Italia prese corpo negli anni Settanta un filone di indagine, che, rifacendosi in parte allo stesso Poulantzas, oltre che ai gramsciani Quaderni del carcere, si mosse sostanzialmente sul versante ‘strumentalista’. Alcuni allievi di Galvano della Volpe, come soprattutto Umberto Cerroni, avviarono inoltre una ricerca che intendeva porre le basi per una vera e propria «scienza politica marxista», capace di sviluppare quelle intuizioni frammentarie che Marx non aveva approfondito, ma che si potevano ritrovare, oltre che in alcune pagine sparse delle opere mature, soprattutto nella giovanile Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico141. A differenza di quanto avveniva nei lavori di Poulantzas, gran parte delle indagini degli autori italiani si risolse però in una discussione sul metodo di Marx del tutto ‘preliminare’ alle ricerche sul concreto funzionamento dello Stato contemporaneo142, e così – almeno se riferita alla riflessione italiana – non risultava affatto pretestuosa l’osservazione di Norberto Bobbio, secondo cui gran parte dei protagonisti del dibattito mostrava una marcata tendenza ad abusare del «principio d’autorità», sopperendo con «dotte e sottili esegesi di testi marxiani o marxisti» all’assenza di un vero «studio delle istituzioni politiche»143. All’origine di una cruciale discussione intorno all’esistenza di una teoria marxista dello Stato, la critica di Bobbio era rivolta solo parzialmente all’aspetto «realistico» della riflessione dell’autore del Capitale, e intendeva piuttosto sottolineare l’assenza di una teoria «normativa» della democrazia in un filone di pensiero concentrato esclusivamente sulle modalità e gli strumenti della conquista del potere. Replicando all’accusa di «abuso del principio di autorità», Danilo Zolo ricordò a Bobbio che ricerche marxiste sulle istituzioni politiche contemporanee non erano affatto assenti, ma cominciavano a infittirsi notevolmente, mentre, con maggiore foga polemica, lo stesso Negri, valendosi anche delle indagini condotte da marxisti come Agnoli, Altvater, O’Connor e Offe, sostenne che l’unico modo corretto di impostare la questione della teoria marxista dello Stato era di intenderla 141 Cfr. per esempio U. Cerroni, Esiste una scienza politica marxista?, in Id., Crisi ideale e transizione al socialismo, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 89-114. 142 Cfr., su questi limiti, L. Ornaghi, Stato e società nella teoria marxista contemporanea (a proposito della riflessione di Umberto Cerroni), in «Il Politico», XLII (1977), n. 2, pp. 353-366, specie pp. 359-361. 143 N. Bobbio, Esiste una dottrina marxistica dello Stato? (1973), in Id., Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, Einaudi, 19775 (I ed. 1976), pp. 21-41, specie p. 26.

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come «un capitolo del Capitale», e cioè come uno sviluppo della teoria dell’accumulazione delineata da Marx nei suoi lavori economici144. La replica non era in effetti pretestuosa, perché, proprio battendo sul tasto della continuità della teoria del valore con le nuove funzioni assunte dallo Stato nel capitalismo avanzato, anche nel quadro del filone «operaista» italiano aveva preso avvio, già dalla fine degli anni Sessanta, una peculiare ‘riscoperta’ delle istituzioni politiche145. Seppur accennata (in termini estremamente stilizzati) anche nelle prime riflessioni condotte da Raniero Panzieri e Mario Tronti sui «Quaderni rossi» al principio degli anni Sessanta, l’idea di uno Stato ‘pianificatore’ – dipinto come lo strumento istituzionale adeguato al livello di sviluppo raggiunto dal «neo-capitalismo» – iniziò a essere approfondita con maggiore convinzione e continuità verso la fine del decennio, grazie a indagini che rintracciavano soprattutto nel New Deal i tratti specifici dello «Stato-piano», e cioè dell’assetto istituzionale in grado di gestire il processo della riproduzione in un quadro di fondo definito dalla combinazione di taylorismo, fordismo e keynesismo. Percorrendo questo sentiero, lo stesso Tronti, che in Operai e capitale aveva riletto la teoria del valore in termini che assegnavano un ruolo decisivo esclusivamente al conflitto salariale, rivide criticamente la propria sottovalutazione del livello istituzionale e imboccò un percorso di riscoperta dell’«autonomia del politico» destinato a protrarsi per due decenni. In un seminario tenuto nel 1971 all’Università di Torino, Tronti arrivò infatti a riconoscere che, in alcune fasi di forte conflitto sociale e instabilità, proprio l’«autonomia» del livello politico (inteso come combinazione di ceto politico e struttura amministrativa) poteva emergere come fattore risolutivo: in altre parole, quello scontro tra «operai» e «capitale» che qualche anno prima egli aveva descritto come irresolubile, poteva essere deciso dalla presenza di un ceto politico compatto, coeso con il personale burocratico e capace di giocare lo strumento istituzionale a proprio favore146. Se fino a quel momento, pur con qualche ambiguità, Tronti aveva sostanzialmente descritto lo Stato come una ‘funzione’ del capitale, evocando anche l’immagine engelsiana del «capitalista collettivo ideale», ora pareva dunque spostarsi più decisamente verso una concezione ‘strumentalista’, secondo cui lo Stato era uno stru144 Cfr. D. Zolo, Stato socialista e libertà borghesi, Bari, Laterza, 1976, e A. Negri, Esiste una dottrina marxista dello Stato? (1976), in Id., La forma stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 273-287. Una risposta ad entrambi era contenuta nella Prefazione a N. Bobbio, Quale socialismo?, cit., pp. VII-XVIII. 145 Cfr. C. Donolo, Il ’68 e la ripresa della riflessione marxista sullo Stato, in F. Cavazzutti et al., Accumulazione, società civile, Stato, Venezia, Arsenale, 1980, pp. 19-31. 146 Cfr. M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Milano, Feltrinelli, 1977.

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mento relativamente ‘flessibile’ – e relativamente autonomo sia dalle forze in conflitto, sia dallo stesso processo di accumulazione – nelle mani delle frazioni politiche al potere. Avviando anche un articolato lavoro di ricostruzione storico-teorica di alcune fasi cruciali di passaggio politico-istituzionale, quelle provvisorie intuizioni si discostavano però, più di quanto potesse apparire, dalla versione strumentalista ‘moderata’ proposta da studiosi come Poulantzas. Mentre la ‘relativa autonomia’ dello Stato di cui parlavano i teorici strutturalisti e neogramsciani era principalmente un’autonomia dalle varie frazioni della ‘classe dominante’, quella cui Tronti alludeva era invece, propriamente, un’autonomia del livello istituzionale dal livello ‘economico’ (o meglio, dalle due sfere della produzione diretta e della valorizzazione in cui esso si articolava). In questo senso, Tronti sosteneva che in alcune fasi di blocco del rapporto dinamico tra produzione e valorizzazione, determinate dall’innalzamento dello scontro sociale, il livello istituzionale potesse far valere un’iniziativa in larga parte autonoma, capace di ristabilire, su basi mutate, le condizioni dell’equilibrio147. Incentrata in gran parte sull’esempio del New Deal, questa ipotesi, assai più che con la riflessione neo-gramsciana, presentava diverse analogie con la proposta teorica che, verso la fine degli anni Settanta, avrebbe formulato Theda Skocpol. Sulla scorta di alcune suggestioni marxiste, nei suoi studi dedicati all’analisi comparata del processo rivoluzionario in Francia, Russia e Cina, Skocpol avrebbe infatti riconosciuto i contorni di una sostanziale autonomia dello Stato, delle sue strutture burocratiche e degli obiettivi di quanti operavano all’interno dei suoi apparati amministrativi148. Anche per Skocpol, inoltre, il New Deal costituiva un esempio particolarmente illuminante del ruolo che le istituzioni politiche potevano giocare in una fase di crisi economica e sociale (pur non contrassegnata da mutamenti rivoluzionari), perché la stessa introduzione dei meccanismi del Welfare State rooseveltiano – che nell’analisi di Hardt e Negri viene interpretata come un frutto del ciclo conflittuale successivo al ’17 sovietico – era intesa come esito delle scelte ‘relativamente autonome’ del livello statale149. 147 Cfr. in particolare M. Tronti (a cura di), Stato e rivoluzione in Inghilterra, Milano, Il Saggiatore, 1977; Id., Soggetti, crisi, potere. Antologia di scritti e interventi, Bologna, Cappelli, 1980; Id., Il tempo della politica, Roma, Editori Riuniti, 1980. 148 Cfr. T. Skocpol, Stati e rivoluzioni sociali, Bologna, Il Mulino, 1981 (ed. or. States and Social Revolutions: A Comparative Analysis of France, Russia and China, Cambridge, Cambridge University Press, 1979). 149 La lettura di Skocpol, in questo caso, ha alimentato un dibattito piuttosto articolato: cfr., per esempio, T. Skocpol, Political Response to Capitaliste Crisis: Neo-Marxist Theories of the State and the Case of the New Deal, in «Politics and Society», X (1988), n. 2, T. Skocpol – K.

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Pur inoltrandosi su un sentiero di indagine estremamente promettente, i lavori di Skocpol e degli altri esponenti del filone neo-statista si trovarono ben presto a scontrarsi contro un ostacolo ben più insidioso delle critiche formulate da Gabriel Almond e da altri difensori del paradigma sistemico della political science150, principalmente perché – come ha notato Leo Panitch – l’idea dell’autonomia dello Stato veniva rilanciata nel dibattito scientifico proprio nel momento in cui la sovranità degli Stati-nazione sembrava dissolversi sotto l’implacabile azione del processo di globalizzazione151. A minacciare l’ipotesi dell’autonomia dello Stato era infatti soprattutto quel processo di rapida crescita di flussi finanziari, scambi di merci e diffusione delle informazioni, che, a partire dagli anni Ottanta, oltrepassando le frontiere nazionali, pareva destinato a erodere ogni residua traccia di effettiva ‘sovranità’ delle istituzioni politiche. Quella stessa minaccia risultava inoltre ancora più insidiosa laddove, invitando a riconsiderare uno dei luoghi comuni più consolidati sulla ‘sovranità’ statale, spingeva a riconoscere come l’idea di spazi realmente chiusi, impermeabili alla penetrazione di attori economici, politici e sociali, si fosse sempre fondata su assunti sostanzialmente irrealistici152. Non diversamente da quanto era avvenuto nel dibattito sulla «derivazione» dello Stato, anche le teorie neo-weberiane, concentrandosi sulla relazione Stato-società ed escludendo quasi completamente dallo spettro problematico della loro analisi il nodo della relazione con la dimensione internazionale della produzione e degli scambi, si trovavano perciò del tutto impreparate ad affrontare teoricamente la sfida proveniente da quella che – con la terminologia di Hardt e Negri – può essere definita come la realizzazione del «mercato mondiale». Rileggendo criticamente la storia del Novecento, Tronti ha scritto recentemente che la scoperta teorica dell’«autonomia del politico» coincise di fatto «con la sua inapplicabilità pratica», perché proprio alla fine degli anni Sessanta prese avvio l’affermazione incontrastata della logica di mercato, destinata a dissolvere ogni lontana parvenza di potenziale autonomia del livello Fingold, Explaining New Deal Labor Policy, in «American Political Science Review», vol. 84, 1989, n. 4, pp. 1297-1315, ma anche M. Goldfield, Worker Insurgency, Radical Organization, and New Deal Labor Legislation, in «American Political Science Review», vol. 83, 1989, n. 4, pp. 1257-1282. 150 Cfr. il noto articolo di G. Almond, The Return to the State, in «American Political Science Review», vol. 82, 1988, n. 3, pp. 853-874, oltre che, nello stesso fascicolo, le osservazioni di E.A. Nordlinger – T.J. Lowi – S. Fabbrini, The Return to the State: Critiques, pp. 875-901. 151 L. Panitch, Rethinking the Role of the State, cit., pp. 83-113. 152 Per questa tesi, cfr. L. Bonanate, Una giornata del mondo. Le contraddizioni della teoria democratica, Milano, Bruno Mondadori, 1996, in particolare pp. 74-99.

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politico da quello economico153. Più che da quella sorta di ‘illusione ottica’ che, secondo Tronti, avrebbe impedito di riconoscere già in quel periodo il tramonto della «grande politica», i limiti dell’ipotesi dell’«autonomia del politico» erano in realtà connessi all’assunto di un sistema sostanzialmente ‘chiuso’. In questo senso, non era per esempio casuale che lo stesso Tronti, pur avendo a suo tempo riconosciuto come la «dimensione corretta» per comprendere la crisi economica e politica dell’Italia degli anni Settanta fosse proprio quella «internazionale», si fosse poi limitato a collocarla «sullo sfondo»154. Anche in questo caso, quella che pareva semplicemente una sorta di ‘sospensione’ argomentativa, un artificio retorico occasionale, faceva trasparire una lacuna di fondo per molti aspetti analoga al limite che aveva caratterizzato il dibattito tedesco sulla «derivazione». Sorvolando sulla dimensione internazionale (e dunque non solo sull’assetto dell’ordine interstatuale, ma anche sui flussi trasnazionali di merci e denaro) era possibile considerare come una circostanza del tutto normale la stanzialità delle relazioni produttive e lo stabile radicamento degli investimenti all’interno dei confini dello Stato, nel territorio nazionale e addirittura nel tessuto di ogni singola città. In altri termini, escludere dalla teoria il problema del nesso tra istituzioni politiche e mercato mondiale significava ipostatizzare le condizioni del tutto peculiari ed eccezionali della golden age postbellica, in cui gli elevati livelli di profittabilità, fornendo costanti e stabili attrattive agli investitori, avevano conferito una straordinaria solidità all’equilibrio dinamico del ‘compromesso fordista’. Con il venir meno di quelle condizioni, l’ipotesi dell’autonomia del politico era destinata a mostrare tutta la fragilità teorica delle proprie basi, determinando anche la crisi degli schemi con cui erano state raffigurate e spiegate le relazioni non solo tra politica ed economia, ma, soprattutto, tra produzione e mercato e tra «fabbrica» e «società». Senza cogliere l’eccezionalità delle condizioni del boom postbellico, Tronti, negli anni Sessanta, aveva in effetti incentrato la propria interpretazione della teoria del valore su una rivisitazione del rapporto tra la «fabbrica» e la «società». Rileggendo con indubbia originalità soprattutto il Primo libro del Capitale, aveva individuato la possibilità dell’insorgere della crisi non in un elemento oggettivo (come avveniva nella teoria ortodossa con il riferimento alla caduta del saggio di profitto), ma nell’interruzione del ciclo 153 M. Tronti, La politica al tramonto, Torino, Einaudi, 1998, p. 71. Su questa lettura è da vedere anche il bilancio stilato in Id., Politica e destino, Roma, Sossella, 2006, che contiene una serie di interventi, fra gli altri, di Aris Accornero, Alberto Asor Rosa, Mauro Calise, Massimo Cacciari e Rita Di Leo. 154 M. Tronti, Operaismo e centralità operaia, in F. D’Agostini (a cura di), Operaismo e centralità operaia, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 15-25, in particolare p. 15.

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di valorizzazione determinato dalla concreta conflittualità operaia. Il riemergere, all’interno del processo lavorativo, di quel Doppelcharakter della forza lavoro di cui aveva parlato Marx, faceva sì che all’interno della cooperazione produttiva potesse lacerarsi l’unità del processo di valorizzazione: in questo caso la «fabbrica», in quanto luogo della produzione, poteva mostrarsi come sede dell’accrescimento del valore d’uso del lavoro collettivamente ricomposto, rompendo la logica dello scambio monetario vigente nella sfera della circolazione155. Mentre illustrava dunque i contorni di una teoria del valore fondata sull’idea di una precedenza logica e storica della «classe operaia» rispetto al «capitale», Tronti poteva anche rileggere, seppur in una chiave parzialmente semplificata, alcune categorie elaborate da Marx nella celebre Einleitung inedita del ’57 a Per la critica dell’economia politica156. E, in particolare, poteva riformulare il nesso tra «produzione-distribuzione-scambio-consumo» nei termini della contrapposizione tra «fabbrica» e «società», stabilendo dunque una sostanziale identità, da un lato, tra la produzione e la «fabbrica», e, dall’altro, tra il complesso di «distribuzione-scambio-consumo» e la «società». Benché questa rivisitazione fosse viziata da una lettura parziale (e fortemente politica) della dimensione della «produzione», essa risultava particolarmente efficace nel dar corpo a uno scenario non privo di suggestioni, perché era proprio mediante queste categorie che Tronti, nel 1962, si spingeva a prevedere il futuro della terziarizzazione e delle nuove funzioni dello Stato, scrivendo: Quanto più avanza lo sviluppo capitalistico, cioè quanto più penetra e si estende la produzione del plusvalore relativo, tanto più necessariamente si conchiude il circolo produzione-distribuzione-scambio-consumo, tanto più, 155

Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Torino, Einaudi, 19712 (I ed. 1966). Per una rilettura di questa operazione, cfr. P.F. Bell e H. Cleaver, Marx’s Crisis Theory as a Theory of Class Struggle, in «Review in Political Economy», 1982, n. 5, pp. 189-261, e S. Wright, Storming Heaven, cit. 156 In questo passo, Marx, dopo aver esaminato le diverse fasi in cui si articola il processo di valorizzazione, scriveva: «Il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo, siano identici, ma che essi rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, differenze nell’ambito di una unità. La produzione assume l’egemonia tanto su se stessa, nella sua determinazione antitetica, quanto sugli altri momenti. Da essa il processo ricomincia sempre di nuovo. Che lo scambio e il consumo non possano essere elementi egemonici è cosa che si comprende da sé. Altrettanto si dica della distribuzione in quanto distribuzione di prodotti. Ma come distribuzione degli agenti della produzione è essa stessa un momento della produzione. Una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione, uno scambio determinati, nonché i determinati rapporti reciproci tra questi diversi momenti» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. 1857-1858, Firenze, La Nuova Italia, 1970, I, p. 25; ed. or. Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Rohenwurf). 1857-1858, Berlin, Dietz Verlag, 1953).

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cioè, si fa organico il rapporto tra produzione capitalistica e società borghese, tra fabbrica e società, tra società e Stato. […] È su questa base che la macchina dello Stato politico tende sempre più a identificarsi con la figura del capitalista collettivo, sempre più diventa proprietà del modo capitalistico di produzione e quindi funzione del capitalista157.

Benché fornisse un’immagine dello Stato come «funzione del capitale» per gran parte analoga a quella sviluppata dal dibattito tedesco sulla «derivazione», Tronti considerava la contrapposizione tra «fabbrica» e «società» – e dunque fra ‘società’ e ‘Stato’ – come di fatto irriducibile. Le due dimensioni della «fabbrica» e della «società» – che pure aveva ritenuto divenissero sempre più organicamente connesse – erano destinate a non sovrapporsi mai integralmente. A escludere questa eventualità era la stessa base del modo di produzione capitalistico, che richiedeva necessariamente la combinazione dialettica del momento della produzione, da un lato, e della fase di distribuzione-scambio-consumo, dall’altro. In questo senso, dunque, benché la «fabbrica» tendesse a impadronirsi della «società» fino al punto di dare l’illusione di svanire, Tronti – proprio riferendosi alla diversità di queste due logiche della sintesi sociale – scriveva che i due momenti, anche quando avessero raggiunto «un perfetto grado di reciproca integrazione a livello economico», avrebbero comunque continuato «politicamente a contrapporsi»158. In qualche modo, l’idea della irresolubile dicotomia tendeva a tradurre in un’aggiornata terminologia marxista l’equilibrio instabile al cuore del ‘compromesso fordista’ postbellico. Quando però quell’equilibrio andò in crisi – per effetto di un insieme di circostanze tra loro strettamente connesse, che andavano dalla conflittualità operaia della fine degli anni Sessanta alla crisi energetica del ’73, dall’inconvertibilità del dollaro alla combinazione di inflazione e stagnazione economica – anche lo schema delineato da Tronti iniziò a mostrare la corda. Invece di mettere in questione l’affidabilità teorica della dicotomia fabbrica-società, Tronti intravide proprio nella strada dell’autonomia del politico una soluzione: collocato al confine tra fabbrica e società, tra la sfera produttiva e la sfera di circolazione, scambio e consumo, il livello istituzionale poteva giocare un ruolo di mediazione capace di rimettere in sesto l’equilibrio perduto. Concentrandosi esclusivamente sul terreno nazionale, quella soluzione non si avvedeva però che l’irresolubile dicotomia stava già, in qualche modo, per essere risolta, non grazie a un intervento di

157 158

M. Tronti, La fabbrica e la società (1962), in Id., Operai e capitale, cit., pp. 51-52. M. Tronti, Operai e capitale, cit., p. 235.

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mediazione politica e neppure mediante un riavvio della virtuosa dialettica del boom, ma, più semplicemente, grazie all’eliminazione del suo primo polo, o, quantomeno, di quella ‘eccezionale’ stanzialità degli investimenti che era sembrata scontata negli anni Sessanta. In altre parole, l’incremento degli scambi mercantili, la diffusione transnazionale della produzione, l’abbattimento dei vincoli doganali e, soprattutto, la crescita senza precedenti dei mercati finanziari – in una parola, l’insieme dei processi connessi alla ‘globalizzazione’ – procedevano a scalzare le basi stesse su cui si era fondata la forza contrattuale dei lavoratori nella stagione fordista. Difficoltà analoghe a quelle incontrate dal neo-marxismo trontiano si opposero anche alla ricerca condotta in Francia dalla cosiddetta ‘scuola della regolazione’, frutto di una articolata combinazione tra lo strutturalismo di Althusser, il filone neo-gramsciano e alcune intuizioni della tradizione operaista italiana. Insistendo sugli aspetti organizzativi, autori come Michel Aglietta, Robert Boyer e Alain Lipietz, a partire dalla fine degli Settanta, ripresero la nozione di «fordismo» utilizzata da Gramsci per fornire coerenza all’idea di un ben preciso regime di accumulazione, connesso a uno specifico paradigma tecnologico, caratterizzato da un rapporto equilibrato tra investimenti, incrementi di produttività e livelli salariali. Parte integrante di questo assetto complessivo erano considerati naturalmente anche consolidati compromessi istituzionali, incaricati del governo coordinato delle politiche dei redditi, e una sorta di blocco egemonico capace di tenere insieme – come un vero e proprio «paradigma» – le diverse dimensioni della dinamica sociale159. Non troppo diversamente da quanto avvenne per l’ipotesi dell’«autonomia del politico», anche la teoria regolazionista del «fordismo» assunse i panni della nottola di Minerva, destinata a spiegare le ali soltanto al crepuscolo, nel senso che anch’essa vide la luce proprio nella fase in cui l’assetto ‘eccezionale’ della golden age postbellica si avviava al suo epilogo, 159

Cfr., per esempio, M. Aglietta, Régulation et crise du capitalisme, Paris, Calmann-Levy, 1978; Id., Les metamorphoses de la société salariale, Paris, Calmann-Levy, 1984; R. Boyer, La theorie de la régulation: une analyse critique, Paris, La Découverte, 1986; R. Boyer – J. Mistral, Accumulazione, inflazione, crisi, Bologna, Il Mulino, 1985. Per sintesi, diversamente orientate, si vedano M. de Vroey, A regulation approach interpretation of contemporary crisis, in «Capital & Class», 1984, n. 27, pp. 45-66; S. Clarke, Overaccumulation, class struggle and the regulation approach, in «Capital & Class», 1988, n. 36; F. Gambino, Critica del fordismo regolazionista, in E. Parise, Stato nazionale, lavoro e moneta nel sistema mondiale integrato. Ipotesi di nuovi profili costituzionali, Napoli, Liguori, 1997, pp. 215-240. Per quanto al centro delle riflessioni di A. Gramsci su Americanismo e fordismo (1934), in Id., Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, III, pp. 2137-2181, la nozione di «fordismo» venne delineata negli anni Venti da autori tedeschi: cfr. sul punto S. Mezzadra, La costituzione del lavoro. Hugo Sinzheimer e il progetto weimariano di democrazia economica, in «Quaderni di azione sociale», 1994, n. 2, pp. 57-71.

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lasciando dietro di sé l’immagine di compatti assetti sociali e istituzionali centrati sulla relazione salariale e sull’idea di investimenti tendenzialmente stabili nel tempo. Tentando di dar conto della crisi del fordismo, gli autori della scuola regolazionista hanno elaborato, seppure in modo non univoco, l’ipotesi di un nuovo regime di accumulazione ‘post-fordista’, i cui contorni sono rimasti però fino ad ora piuttosto sfumati. Proprio criticando l’ipotesi del post-fordismo, una serie di autori, come Simon Clarke, John Holloway e Werner Bonefeld, ha ripreso alcune intuizioni accennate nel corso del dibattito sullo Stato degli anni Settanta per uscire dalla contrapposizione tra la concezione ‘strumentale’ e quella ‘funzionale’ e per confrontarsi con la nuova centralità del mercato mondiale. L’idea di fondo al cuore del discorso di questi autori è che lo Stato non sia da intendere né come uno ‘strumento’ e neppure come una semplice ‘funzione’, ma piuttosto come una «forma» specifica delle relazioni sociali capitalistiche. Questa lettura costituisce per molti versi lo sviluppo di una ipotesi del giurista sovietico Evgenij Pašukanis, che negli anni Trenta delineò i tratti essenziali di una critica marxista del diritto. Compiendo un’operazione per alcuni aspetti parallela a quella svolta da Lukács in Storia e coscienza di classe, Pašukanis raffigurò il diritto come un prodotto della divisione del lavoro e della dissoluzione della comunità medievale realizzate dal capitalismo; mentre però il filosofo ungherese si soffermava soprattutto sull’aspetto della ‘reificazione’ ideologica, il giurista intendeva il diritto non tanto come una mistificazione ideologica, quanto, soprattutto, come una «forma» delle relazioni sociali capitalistiche, e cioè come la forma di un rapporto sociale ‘astratto’ tra individui privi di organici legami sociali160. Contestando inoltre l’idea di una identità tra Stato e diritto, il giurista attribuiva all’istanza statale proprio il compito di esercitare la garanzia dello scambio tra equivalenti, in un quadro in cui la relazione tra diritto e ordinamento statuale si definiva come risultato di un processo di fatto ininterrotto. Riprendendo questa impostazione, già verso la fine degli anni Settanta, John Holloway e Sol Picciotto potevano sostenere che l’analisi dello Stato dovesse mostrare come esso costituisse una peculiare «forma» delle relazioni sociali radicate nel modo di produzione161. Come 160 In altre parole, scriveva Pašukanis, «in una società dove esiste il denaro, nella quale, quindi, il lavoro privato individuale diventa sociale soltanto attraverso la mediazione dell’equivalente generale, sono già presenti le condizioni per l’esistenza della forma giuridica con le sue con le sue contraddizioni tra soggettivo ed obiettivo, tra privato e pubblico». Cfr. E.B. Pašukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, Bari, De Donato, 1975, p. 56 (ed. or. Obscaja teorija prava i marksizm, Moskva, 19273). 161 J. Holloway – S. Picciotto, Capital, Crisis and the State, in «Capital & Class», 1977, n. 2,

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nella proposta di Offe e nel dibattito sulla «derivazione», anche secondo questi autori lo Stato agiva come garante dell’insieme della riproduzione, ma l’accento posto sulla ‘forma’ delle relazioni capitalistiche implicava l’idea che la ‘crisi’ derivasse non da leggi economiche ‘oggettive’, bensì dalla crisi delle relazioni mercantili determinata dall’insorgere della conflittualità. In qualche modo, l’esistenza del lavoro ‘astratto’ – e cioè l’esistenza della forza lavoro necessaria al processo produttivo – non era considerata come un dato costante, bensì come un presupposto da ricreare costantemente. Inoltre, a differenza di quanto aveva sostenuto Marx nel Capitale, secondo questi autori l’«accumulazione primitiva» non era un processo concluso, ma una dinamica costante e interminabile, connessa alla stessa sopravvivenza delle relazioni sociali capitalistiche. Sulla scorta di questa ipotesi, diventava possibile ridiscutere non solo la relazione tra ‘Stato’ e ‘società’, ma anche le versioni ‘strumentali’ e ‘funzionali’ del rapporto tra ‘Stato’ e ‘capitale’162. Soprattutto, però, l’ampliamento dello spettro analitico alla dinamica dell’accumulazione primitiva consentiva a questi studiosi di abbandonare l’ipotesi della centralità della relazione salariale che, tra l’altro, aveva costituito la base della teoria dell’autonomia del politico. Da questo punto di vista, non è perciò affatto casuale che lo stesso Holloway, negli anni Novanta, abbia stigmatizzato le letture della globalizzazione centrate sulla ‘fine’ della sovranità degli Stati nazionali. Confrontata con la fluidità del rapporto di capitale, la ‘sovranità’ economica e l’autonomia dello Stato dal capitale, lungi dall’essere la regola, potevano essere infatti descritte soltanto come casi eccezionali e temporalmente molto limitati163. Quando in Empire, giungendo allo snodo per loro cruciale della formazione del mercato mondiale, Hardt e Negri sostengono la necessità di considerare l’«accumulazione originaria» come un processo ininterrotto pp. 76-101. Cfr. anche, a cura degli stessi autori, State and Capital. A Marxist Debate, London, Edward Arnold, 1978. 162 Esempi significativi di letture che procedono in questa direzione sono M. De Angelis, The Beginning of History. Value struggle and global capitale, London, Pluto Press, 2007, e S. Federici, Caliban and The Witch. Women, the Body, and the Prmitive Accumulation, New York, Autonomedia, 2004. 163 J. Holloway, Global Capital and the National State, in «Capital & Class», 1994, n. 52, pp. 23-49. Sul dibattito condotto nell’ambito di questo filone, cfr. però anche W. Bonefeld – J. Holloway (eds.), Post-fordism and Social Form. A Marxist Debate on the Post-Fordist State, London, MacMillan, 1991; S. Clarke (ed.), The State Debate, London, MacMillan, 1991, i tre volumi, curati da W. Bonefeld – R. Gunn – J. Holloway –K. Psychopedis, Open Marxism, London, Pluto, 1992-1995; W. Bonefeld – J. Holloway (a cura di), Global Capital, National State and the Politics of Money, London, MacMillan, 1996; W. Bonefeld – K. Psychopedis (a cura di), The Politics of Change. Globalization, Ideology and Critique, London – New York, Palgrave, 2000.

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– operante anche nella società dell’informazione e del lavoro immateriale – si richiamano proprio a una lettura simile della relazione tra capitale e Stato164. E, proprio sulla scorta di questa ipotesi, possono relativizzare non solo la specifica ’eccezionalità’ della stagione fordista, ma anche la peculiare relazione tra capitale e Stato nazionale che quella fase avrebbe espresso, affermando con forza la tesi della fine di ogni autonomia del politico, ossia dell’autonoma capacità di regolazione politica dei flussi economici: con il declino della sovranità nazionale entra contestualmente in crisi la cosiddetta autonomia del politico. Le rappresentazioni del politico come una sfera autonoma in grado di organizzare il consenso e come un luogo di mediazioni dei conflitti tra le forze sociali oggi non hanno più molto senso. Il consenso viene determinato assai più efficacemente da fattori economici, come gli equilibri delle bilance commerciali e la speculazione sui valori dei titoli. Il controllo su questi movimenti non è più nelle mani delle forze politiche a cui viene tradizionalmente attribuita la sovranità, e il consenso non è più un prodotto dei processi politici, bensì di altri mezzi. Il governo e la politica stanno per essere completamente integrati nel sistema del comando globale165.

La fine dell’autonomia del politico e la strutturale senescenza dello Stato nazionale166, non devono però essere intesi, come si è visto, nei termini di una vittoria delle corporations sullo Stato. I caratteri propri della «forma-Stato», dunque, non vengono meno, ma, più semplicemente, vengono ricollocati all’interno della geometria variabile della «forma-impero», e le funzioni dello Stato – lungi dall’essere eliminate o riassorbite dagli 164

Cfr. M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., in particolare pp. 242-244 e 281-284. Ivi, p. 288. 166 Su questo punto, peraltro, Hardt e Negri non sembrano avere esitazioni: «lo stato-nazione, che era stato il garante dell’ordine internazionale e la chiave di volta della sovranità e della conquista imperialista, con il sorgere delle forze e delle organizzazioni antimperialiste divenne il fattore maggiormente destabilizzante per l’ordine internazionale. In questo modo, una volta in rotta, l’imperialismo è stato costretto ad abbandonare o distruggere il gioiello del proprio arsenale prima che qualcuno glielo ritorcesse contro» (ivi, p. 312). Ma non si tratta di un processo congiunturale, che possa essere invertito da un mutamento politico: «il declino dello stato-nazione non è semplicemente la risultante di una posizione ideologica che potrebbe essere rovesciata da una volontà politica: si tratta, invece, di un processo strutturale irreversibile. La nazione non era soltanto una formazione culturale […] ma anche – e probabilmente soprattutto – una struttura giuridico-economica. Il declino di questa struttura può essere adeguatamente ricostruito se si guarda all’evoluzione di un insieme di corpi giuridico-economici globali come il Gatt, il World Trade Organization, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. La globalizzazione della produzione e della circolazione, sostenuta da questo asse giuridico sovranazionale, sovrintende le strutture giuridiche nazionali» (ibid.). 165

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attori economici – sono dislocate su altri livelli. In altri termini, la forma istituzionale, come forma specifica delle relazioni sociali diretta a riprodurre costantemente le condizioni del processo di accumulazione, viene assunta all’interno della rete del controllo imperiale, il cui carattere «sistemico» discende proprio dal perseguimento dell’obiettivo dell’accumulazione originaria attraverso strategie non formalizzate, ma puntuali e variabili nel tempo. D’altronde, va proprio in questa direzione la descrizione della logica dell’amministrazione imperiale compiuta da Hardt e Negri in uno dei passaggi cruciali di Empire. Se infatti nei vecchi regimi disciplinari della sovranità nazionale «l’amministrazione operava nel senso di una integrazione lineare dei conflitti avvalendosi di un apparato coerente in grado di reprimerli», all’interno del nuovo contesto imperiale «l’amministrazione diviene un’amministrazione frattale (multifunzionale) che integra i conflitti senza imporre un apparato, ma controllando le differenze»167. Ciò comporta ovviamente una serie di rotture rispetto alla vecchia immagine dell’azione burocratica. In primo luogo, «la gestione degli obiettivi politici tende a essere dissociata dalla gestione degli strumenti burocratici», perché «il problema dell’amministrazione non è quello dell’unificazione, ma quello della multifunzionalità strumentale»168. Inoltre, «invece di contribuire all’integrazione sociale, l’amministrazione imperiale agisce come un dispositivo differenziante e deterritorializzante», al punto che la stessa azione amministrativa «è diventata non strategica e, di conseguenza, la sua legittimazione fa leva su una serie di mezzi eterogenei e indiretti»169. Infine, l’amministrazione imperiale si basa sulla sua «efficacia locale», ossia sull’esistenza di una serie di poteri dislocati a livello locale, che però non contraddicono i principi di fondo dell’istanza imperiale. Quest’ultimo è un punto estremamente importante, perché in effetti, nelle argomentazioni di Hardt e 167

Ivi, p. 316. Ibid. 169 Ivi, pp. 316-317. Da un lato, dunque, «l’amministrazione tende a mettere in funzione procedure specifiche che consentono al regime di confrontarsi direttamente con le singolarità sociali» e «risulterà tanto più efficiente quanto più sarà in grado di stabilire contatti diretti con i differenti elementi della realtà sociale» (ivi, p. 316); dall’altro, «l’autonomia e l’unità dell’azione amministrativa vengono conformate alle logiche strutturali in funzione della costruzione dell’Impero, come le logiche poliziesche e militari (le logiche repressive delle forze potenzialmente o realmente sovversive nel contesto della pace imperiale), le logiche economiche (l’imposizione del mercato che, a sua volta, è dominato dal regime monetario) e le logiche che presiedono all’ideologia e alla comunicazione», anche se «l’amministrazione non è strategicamente orientata alla realizzazione delle logiche imperiali» e «si sottomette a esse nella misura in cui esse animano i grandi strumenti militari, monetari e comunicativi – i quali, a loro volta, autorizzano la stessa amministrazione» (ivi, p. 317). 168

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Negri, «l’autonomia locale è una condizione fondamentale, la conditio sine qua non dello sviluppo del regime imperiale», in quanto il consenso si forma proprio «grazie all’efficacia locale del regime»170. In questo senso, la costituzione imperiale pare avvicinarsi, più che al modello polibiano, all’idea medievale171: in effetti, non è casuale che, per illustrare la logica dell’amministrazione imperiale e la portata della rottura rispetto alla logica della burocrazia di tipo weberiano, i due autori di Empire ricorrano proprio all’esempio dell’Europa medievale (in cui l’esistenza di una pluralità di poteri militari, finanziari e ideologici non era affatto in contraddizione – almeno sotto il profilo teorico – con l’unità e la coerenza dell’Impero), e a quello (certo piuttosto problematico) delle organizzazioni mafiose. «In entrambi i casi», scrivono, «l’autonomia procedurale, le applicazioni differenziali e i legami territoriali tra i diversi segmenti delle popolazioni, insieme a un limitato specifico esercizio della violenza legittima, non erano generalmente in contraddizione con il principio di un ordinamento unificato e coerente», perché «questi sistemi della distribuzione del potere amministrativo erano tenuti insieme dall’efficacia di un complesso di poteri militari, finanziari e ideologici»172. Secondo una logica simile, dunque, «anche l’autonomia dei corpi amministrativi localizzati non contraddice l’amministrazione imperiale ma, al contrario, agevola l’espansione della sua efficacia globale»173. Com’è ovvio, autonomia non significa però in alcun modo indipendenza, e così questi poteri dislocati a livello locale agiscono solo all’interno dei limiti fissati dalla costituzione imperiale. I confini all’interno dei quali si svolge la dinamica amministrativa sono determinati dalla stessa struttura costituzionale dell’Impero, ossia dalle stesse forze che compongono la piramide imperiale e, soprattutto, da quei soggetti che occupano il suo vertice. Il comando imperiale, infatti, «non ha alcun ac170

Ivi, p. 318. Sull’ambiguita dell’analogia con il modello dell’impero romano, cfr. anche le annotazioni di G. Balakrishnan, Introduction, in Id. (ed.), Debating Empire, cit., pp. VII-XIX, specialmente pp. XII-XII. 172 M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 318. «Nell’ordinamento medievale», chiariscono ancora, «quando il sovrano ne aveva bisogno, il vassallo doveva fornire uomini armati e denaro (mentre l’ideologia e la comunicazione erano in gran parte controllate dalla Chiesa). Nel sistema mafioso, l’autonomia amministrativa della famiglia e il dispiegamento di una violenta funzione poliziesca sul territorio erano perfettamente aderenti alle norme fondamentali del capitalismo e sostenevano le classi che avevano in mano il potere politico» (ibid.). Per un’analisi che considera la mafia come un peculiare sistema di amministrazione, formulando una serie di ipotesi estremamente utili anche per il ripensamento del ruolo e delle funzioni dello Stato, cfr. M. Santoro, La voce del padrino. Mafia, cultura, politica, Verona, Ombre corte, 2007. 173 M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 318. 171

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cesso agli spazi locali e alle sequenze temporali della vita a cui si applica l’amministrazione, non mette le mani sulle singolarità, né sulle loro attività», ma punta a salvaguardare «l’equilibrio generale del sistema globale»174. In altre parole, il comando riflette non solo l’esistenza di uno spazio realmente globale, ma anche le forze che hanno materialmente realizzato tale unificazione. Così, le modalità con cui opera il comando imperiale corrispondono a quelli che vengono definiti come i «tre strumenti globali assoluti», ossia «la bomba, il denaro e l’etere»175. Ognuno di questi tre strumenti è fondamentale, perché è proprio la loro esistenza a configurare la realtà dello spazio globale (come spazio unificato sotto il profilo militare, monetario e comunicativo) e a rendere dunque il mercato mondiale un dato non reversibile ma strutturale. Da un certo punto di vista, l’enfasi sul denaro e sulla comunicazione non appare sorprendente, perché si allinea (pur con alcuni elementi specifici) alle letture condotte negli ultimi decenni sulla globalizzazione176. Altrettanto importante è però l’attenzione dedicata alla componente militare, non tanto perché gli Stati Uniti detengano una supremazia nel campo degli armamenti nucleari, quanto perché è la stessa comparsa di questa tecnologia ad alterare sostanzialmente il raggio dell’azione militare e, così, a infliggere, anche sotto questo profilo, un duro colpo alla reale autonomia dei singoli Stati. In effetti, le implicazioni della comparsa delle armi termonucleari vanno molto al di là del piano semplicemente militare:

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Ivi, p. 320. Ibid. 176 Entrambi occupano d’altronde un ruolo importante nell’architettura di Empire: per un verso, il denaro è infatti «il secondo mezzo globale per realizzare il controllo assoluto», perché, «nel momento in cui tutte le strutture monetarie tendono a perdere qualunque titolo di sovranità, emerge l’ombra di un’unica e unilaterale riterritorializzazione monetaria concentrata nelle città globali, vale a dire nei centri politici e finanziari dell’Impero» (ivi, p. 321); per l’altro, «l’etere è il terzo e fondamentale strumento del controllo imperiale», con conseguenze distruttive sugli Stati: «La gestione della comunicazione, l’organizzazione di un sistema educativo e la regolazione della cultura sono oggi più che mai altrettante prerogative sovrane. Ma tutto ciò si risolve nell’etere. I sistemi contemporanei della comunicazione non sono subordinati alla sovranità: al contrario, è la sovranità che sembra subordinata alla comunicazione – o meglio, la sovranità si articola nei sistemi della comunicazione. Nel settore della comunicazione, i paradossi che esprimono la dissoluzione della sovranità territoriale e nazionale sono infatti più macroscopici che altrove. […] A questo punto, tocchiamo l’estremo limite della dissoluzione delle relazioni fra ordine e spazio. A questo punto, la loro relazione può essere pensata soltanto in un altro spazio, in un altrove che, in linea di principio, non può che essere compreso nell’articolazione degli atti della sovranità» (ivi, pp. 321-322). Sull’importanza della dimensione comunicativa, cfr. J. Dean, The Networked Empire: Communicative Capitalism and the Hope for Politics, in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 265-288. 175

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La panoplia delle armi termonucleari, che svetta sulla cima dell’Impero, rappresenta una possibilità permanente di annientamento della vita stessa. Si tratta di una forma di violenza assoluta, di un nuovo orizzonte metafisico che altera definitivamente la concezione secondo la quale lo stato possiede legittimamente il monopolio della forza. Nella modernità, questo monopolio era stato legittimato sia dall’espropriazione delle armi possedute da una massa violenta e anarchica – una disordinata turba di individui che si massacravano tra di loro – sia come strumento di difesa contro il nemico, e cioè contro altri popoli organizzati in stati. Questi mezzi della legittimazione erano entrambi finalizzati alla sopravvivenza della popolazione. Al giorno d’oggi, però, non funzionano più. L’espropriazione della violenza dalle mani di una presunta popolazione incline all’autodistruzione tende a trasformarsi in una serie di operazioni di polizia finalizzate al mantenimento delle segmentazioni nei territori produttivi. Anche la seconda giustificazione non possiede più alcuna efficacia, dal momento che la guerra nucleare fra stati sovrani è un’eventualità inconcepibile. Lo sviluppo delle tecnologie nucleari e la loro concentrazione imperiale ha limitato la sovranità della maggior parte dei paesi del mondo, privandoli del potere decisionale sulla guerra e sulla pace che costituiva il titolo fondamentale nella definizione tradizionale della sovranità. Ma, soprattutto, la minaccia suprema della bomba ha ridotto qualsiasi guerra a un conflitto limitato, a una infinita guerra civile, a una guerra sporca ecc. Ha trasformato qualsiasi guerra nell’appannaggio esclusivo del potere amministrativo e della polizia177.

I tre strumenti del controllo imperiale definiscono dunque le linee fondamentali della trasformazione dello spazio politico, secondo una logica sostanzialmente irreversibile. All’interno di questa configurazione, però, gli strumenti del controllo si organizzano in una geometria variabile, che riflette d’altronde la struttura della costituzione imperiale. «La bomba», scrivono infatti, «è un potere monarchico, il denaro aristocratico e l’etere democratico». Così, sebbene possa sembrare «che i gangli del meccanismo siano nelle mani degli Stati Uniti» – come se, aggiungono, «gli Stati Uniti fossero la nuova Roma o un grappolo di nuove Rome: Washington (la bomba), New York (il denaro) e Los Angeles (l’etere)» – in realtà «qualsiasi concezione territoriale dello spazio imperiale viene continuamente destabilizzata dalla flessibilità, dalla mobilità e dalla territorializzazione che riguardano il nucleo dell’apparato imperiale»178. E, d’altro canto, la flessibilità della confi177

M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., pp. 320-321. Ivi, p. 322. In questo senso, precisano, «il monopolio della forza e la regolazione del denaro possono ancora avere alcune determinazioni territoriali, ma non la comunicazione», perché quest’ultima «è divenuta il fattore centrale per la determinazione dei rapporti di produzione, è alla guida dello sviluppo capitalistico e trasforma le forze produttive», col risultato che si genera «uno scenario assolutamente aperto» (ivi, pp. 322-323). 178

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gurazione imperiale, inevitabilmente priva di un permanente radicamento territoriale, è un carattere che discende in modo pressoché scontato dalla centralità che il mercato mondiale – come reticolo di relazioni di potere – assume nell’architettura teorica di Hardt e Negri. In questo senso, la stretta connessione tra mercato mondiale e struttura del governo imperiale non è semplicemente l’inevitabile pegno pagato alla fortuna della ‘globalizzazione’ e alle sue raffigurazioni più o meno positive. L’idea chiave della formazione del mercato mondiale – centrale per tutta l’argomentazione di Empire – esprime infatti un richiamo diretto alla riflessione marxiana. Benché Marx non avesse mai effettivamente posto mano neppure al progettato volume sul mercato mondiale, i due teorici dell’«Impero» ritengono che nei manoscritti preparatori al Capitale, stesi tra il ’57 e il ’58, egli fosse giunto a prefigurare quel salto di paradigma storicamente realizzatosi soltanto alla fine del XX secolo. Immaginando le successive tappe dello sviluppo capitalistico e la dinamica della «sussunzione reale», grazie al proprio metodo di analisi tendenziale, nei Grundrisse Marx sarebbe riuscito a prefigurare non solo la condizione di abbattimento di ogni ostacolo fisico e politico all’estensione dell’accumulazione, ma anche i contorni di una teoria dello Stato non oscurata dalla presenza dello Statonazione. Il punto cruciale di questa lettura è però che Marx avrebbe colto la centralità, nel nuovo contesto, del «lavoro astratto» e dell’«astrazione» del lavoro: un’astrazione intesa non semplicemente come affermazione di un sistema di scambio di equivalenti, e neppure soltanto come ‘oggettivazione’ nella merce di determinate quantità di lavoro, ma, piuttosto, come continua creazione del lavoro astratto come base della produzione, come ininterrotta accumulazione originaria volta a ricostituire la forma delle relazioni sociali. Sotto questo profilo, giungendo a prefigurare la realizzazione del mercato mondiale, Marx avrebbe anche proceduto a riformulare la legge del valore come legge del plusvalore, alla luce di un’ipotesi di fondo secondo cui la realizzazione storica del «capitale sociale» sposta il fuoco dell’analisi sulla determinazione sociale del plusvalore, e cioè sui processi conflittuali di consolidamento del lavoro socialmente necessario179. È proprio a questa lettura 179

Questa lettura si richiama in parte alla ricostruzione del concetto di «capitale sociale» condotta, sulle pagine di Marx, da Roman Rosdolsky, Genesi e struttura del «Capitale» di Marx, Bari, Laterza, 1971 (ed. or. Zur Entstehungsgeschichte des Marxshen «Kapital», Frankfurt – Wien, Europäische Verlagsanstalt – Europa Verlag, 1955), ma riprende anche le ipotesi avanzate, in forma differente, da A. Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale, Milano, Feltrinelli, 1978 (ed. or. Geistige und körperliche Arbeit. Zur Theorie der gesellschaftlichen Synthesis, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1970), e H.J. Krahl, Costituzione e lotta di classe, Milano, Jaca Book, 1973, (ed. or. Konstitution und Klassenkampf, Frankfurt a.M., Verlag Neue

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che Hardt e Negri sembrano richiamarsi quando si riferiscono agli esiti del ciclo di mobilitazione collettiva della fine degli anni Sessanta e dell’inizio dei Settanta: «Nella terminologia di Marx», osservano infatti, «il fenomeno indicava un enorme aumento del valore del lavoro necessario – cosa che, dal punto di vista del capitale, significava una diminuzione proporzionale del tempo impiegato per produrre plusvalore (e quindi profitto)». «Per i capitalisti», scrivono ancora nella stessa direzione, «il valore del lavoro necessario costituisce una grandezza quantitativa oggettiva – il prezzo della forza lavoro non è diverso da quello del grano, del petrolio e delle altre merci – mentre, in realtà, è un valore socialmente determinato, indicativo di un complesso di lotte sociali», e, infatti, «l’enorme aumento del salario sociale […] durante la crisi degli anni Sessanta e Settanta era l’effetto immediato dell’accumulazione delle lotte sul terreno della riproduzione, nello spazio del non-lavoro, nel mondo della vita»180. In questo caso, come emerge chiaramente dalle parole dei due autori di Empire, la determinazione del valore del lavoro necessario appare come un processo definito a livello sociale e non come un processo determinato semplicemente dall’oggettivazione della forza lavoro all’interno della cooperazione produttiva. Il piano del «capitale sociale» si configura così – concettualmente e storicamente – come uno spazio conflittuale nel quale viene a determinarsi, in modo certo problematico e come esito di contrapposizioni mutevoli, il livello storico del lavoro socialmente necessario. Inoltre, un simile spazio appare non solo come l’effetto della dilatazione a livello sociale del processo complessivo della produzione immediata, ma, piuttosto, come l’insieme dei processi di produzione e riproduzione. E, soprattutto, anche all’interno della dinamica della riproduzione della forza lavoro – e dunque nell’ambito della produzione dei presupposti sociali della produzione – si mostrano i contorni di una sostanziale autonomia, da intendersi sotto due differenti (ma complementari) profili: in primo luogo, come potenziale autonomia dei singoli momenti della riproduzione dallo specifico ambito della produzione di plusvalore, e, in secondo luogo, come spazio di un potenziale innalzamento del lavoro socialmente necessario innescato da dinamiche indipendenti dalla dinamica della valorizzazione. Proprio in questo senso, l’accumulazione originaria non può che essere intesa come un processo interminabile, come un costante processo di riproduzione di

Kritik, 1971), ed è stata sviluppata organicamente in A. Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Milano, Feltrinelli, 1979. Per i passi relativi a questa interpretazione, cfr. in particolare K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. 1857-1858, cit., II, per esempio, pp. 95-148, e pp. 241-258. 180 M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 256.

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presupposti sociali la cui perpetuazione non può essere affidata agli automatismi del mercato e alla subordinazione della società alla sfera della produzione immediata. Se, all’interno di questa lettura, la formazione del mercato mondiale è dunque intesa come un processo ininterrotto di accumulazione originaria, e dunque come un processo virtualmente interminabile, l’idea al cuore del testo di Hardt e Negri, proprio quando insiste sull’ipotesi della completa realizzazione del mercato mondiale, tende invece a procedere in una direzione opposta. La costitutiva tendenza del capitale a estendersi, abbattendo ogni ostacolo naturale o artificiale, viene infatti a cozzare contro il limite invalicabile dell’esaurimento di ogni ulteriore potenziale espansione, rendendo impraticabile la prosecuzione della dinamica dell’accumulazione. In questo modo, il compimento del mercato mondiale – all’interno di un quadro in cui, a prescindere dalle intenzioni degli autori, si riaffacciano il determinismo, l’oggettivismo e persino l’attesa del finale Zusammenbruch – tramuta la realizzazione dell’imponente edificio imperiale nella catastrofe della sua imminente caduta. Non è così certo casuale, che, per dare coerenza allo spettro del ‘crollo’, i due autori si richiamino in più punti della loro argomentazione alla teoria dell’accumulazione di Rosa Luxemburg181. In effetti, alcune delle idee chiave al cuore di Empire – come soprattutto l’idea della tensione immanente al capitale a estendersi, cercando un «fuori» non capitalistico destinato fatalmente a essere inglobato – mostrano una evidente derivazione dalla riflessione della marxista polacca. Proprio Rosa Luxemburg, ritenendo che gli schemi di riproduzione del Secondo libro del Capitale si riferissero a una condizione di equilibrio per gran parte irrealistica, sostenne d’altronde che l’esistenza di una dimensione esterna non capitalistica era essenziale per la perpetuazione del processo di accumulazione. Nell’analisi luxemburghiana, il capitalismo era inoltre definito – con una terminologia per molti aspetti vicina a quella di Empire – come la prima forma economica che, pur recando «in sé la tendenza immanente ad espandersi in tutto il mondo e ad espellere tutte le altre forme economiche», non poteva «esistere da sola, senza altre

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Cfr., per esempio, ivi, pp. 101-102, 214-215, 253-254. Ricostruendo in modo sintetico il contributo luxemburghiano, per esempio, scrivono: «Il capitale è come un organismo che non può vivere senza spingersi al di fuori dei suoi confini per nutrirsi del suo ambiente esterno. Il fuori gli è necessario. […] La proletarizzazione progressiva degli ambienti non capitalistici è una continua riapertura del processo dell’accumulazione originaria – e, quindi, della capitalizzazione degli stessi ambienti capitalistici. […] Per la Luxemburg, quest’ultima è la vera e propria innovazione storica della conquista capitalistica. […] Il processo di capitalizzazione interiorizza il fuori» (ivi, pp. 214-215).

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forme economiche come suo ambiente e terreno di sviluppo»182. A dispetto delle numerose critiche, centrate sugli errori logici dell’Accumulazione del capitale183, il punto chiave dell’argomentazione luxemburghiana consisteva proprio nell’idea che, prima o poi, la contraddizione strutturale tra l’infinita necessità espansiva del capitale e l’irrimediabile limite fisico del mondo dovesse giungere all’esplosione. In altri termini, proprio quando il mercato capitalistico avesse dispiegato la propria rete su tutto il globo e fosse venuto meno qualsiasi ulteriore sbocco esterno, si sarebbero realizzate le condizioni del ‘crollo’ dell’economia fondata sul valore di scambio. Nello stesso momento della costituzione del mercato mondiale – come nella costruzione di Hardt e Negri – sarebbe dunque iniziata la sua dissoluzione: L’accumulazione del capitale avanza e si estende a spese degli strati sociali e dei paesi non-capitalistici, li erode e li incalza in un ritmo sempre più rapido. Tendenza generale e risultato ultimo di questo processo è la dominazione mondiale esclusiva della produzione capitalistica. Raggiunta questa, entra in funzione lo schema di Marx: l’accumulazione, cioè l’ulteriore espansione del capitale, diviene impossibile, il capitalismo entra in un vicolo cieco, non può più fungere da veicolo storico dello sviluppo delle forze produttive, raggiunge il suo limite economico obiettivo184.

Se Rosa Luxemburg evocava la prospettiva tendenziale del crollo finale semplicemente per spiegare la logica dell’espansione imperialista, Hardt e Negri pongono invece quella stessa immagine al centro della loro architettura teorica. Quando infatti sostengono che la costituzione dell’«impero», resa possibile dal compimento del mercato mondiale, abolisce qualsiasi distinzione tra «dentro» e «fuori», tra «interno» ed «esterno», tra «centro» e «periferia» e tra «Nord» e «Sud», rilanciano proprio lo schema luxemburghiano dello Zusammenbruch, in cui la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico non veniva più collocata nella fondazione contrad182 R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, Torino, Einaudi, 1960, p. 460 (ed. or. Die Akkumulation des Kapitals, Berlin, Buchhandlung Vorwärts, 1913). 183 Le critiche mettevano in luce come gran parte del ragionamento di Luxemburg fosse viziato da un errore logico che escludeva impropriamente che l’espansione della produzione potesse essere realizzata all’interno dello stesso mercato capitalistico grazie a un aumento dei redditi di lavoratori e capitalisti. Si veda per esempio il noto testo di N.I. Bucharin, L’imperialismo e l’accumulazione del capitale, Bari, Laterza, 1972 (ed. or. Der Imperialismus und die Akkumulation des Kapitals, Wien – Berlin, 1926), e, per una sintetica esposizione del dibattito, P.M. Sweezy, Introduzione a R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, cit., pp. IX-XXXII. 184 R. Luxemburg, Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica, in Id., L’accumulazione del capitale, cit., p. 574.

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dittoria del ‘capitale’, ma nella irresolubile opposizione tra una inestinguibile tensione espansiva e un «fuori» irrimediabilmente limitato. Mentre Luxemburg intendeva il «fuori» essenzialmente nei termini di mercati esterni, sfere geografiche e strati sociali non inseriti nell’economia capitalistica, Hardt e Negri intendono l’«ambiente esterno» soprattutto nei termini di potenziale forza-lavoro non ancora inglobata nel circuito dell’accumulazione, o meglio, all’interno della cooperazione produttiva capitalistica, ma il senso finale e la logica del ragionamento non risultano per questo differenti. In altri termini, se Luxemburg alludeva ai territori non ancora inglobati all’interno del modo di produzione capitalistico, Hardt e Negri si riferiscono invece alle dimensioni sociali non ancora inglobate all’interno della cooperazione produttiva, dimensioni che – nella fase della «sussunzione reale» – vengono invece totalmente ricomprese nella dinamica del capitale sociale. «Ciò che viene integrato», in questa fase, «non è l’ambiente non capitalistico, bensì è il terreno stesso del capitale», secondo una dinamica che conduce a una riorganizzazione complessiva delle relazioni sociali: in altri termini, la sussunzione non è più formale, ma compiutamente reale. Il capitale non guarda più al di fuori, ma all’interno, di modo che la sua espansione non è più di tipo estensivo, ma prevalentemente intensivo. Questo passaggio è caratterizzato da un salto qualitativo nell’organizzazione tecnologica del capitale. Gli stadi precedenti della rivoluzione industriale avevano introdotto macchine produttrici di beni strumentali e di altre macchine; ora abbiamo invece a che fare con macchine che producono materie prime e beni alimentari, vale a dire, con macchine che producono la natura e con altri tipi di macchine che producono cultura. […] Con la tecnologia moderna, tutta la natura è diventata capitale o, quanto meno, è stata assoggettata al capitale. Mentre l’accumulazione moderna era basata sulla sussunzione formale dello spazio non capitalistico, l’accumulazione postmoderna avviene tramite la sussunzione reale dello stesso spazio capitalistico185.

Per quanto i due autori dichiarino di rifarsi a un approccio «che rompe i ponti metodologici con tutte le filosofie della storia» e che «rifiuta qualsiasi concezione deterministica dello sviluppo storico e qualsiasi celebrazione ‘razionale’ del risultato»186, la loro ipotesi sul ‘crollo’ dell’Impero torna così a configurarsi in termini almeno in parte deterministici. E, seppure in un quadro differente da quello delineato dalla ‘legge’ della caduta tendenziale del saggio di profitto, la loro raffigurazione dell’Impero e della sua logica

185 186

Ivi, p. 255. M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 60.

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di governo dello spazio globale si chiude all’interno di una contraddizione ‘strutturale’, interamente ‘oggettiva’, che finisce col riprodurre proprio il determinismo del marxismo ortodosso187. Sotto il profilo della riflessione sullo Stato, l’aspetto forse più significativo dell’operazione consiste nel fatto che la necessità di fornire coerenza al disegno della «caduta» dell’impero impone ad Hardt e Negri di rivedere criticamente l’ipotesi della «forma-Stato», recuperando l’immagine – certo assai meno originale – della contrapposizione tra Stato e società, oltre che la vecchia ipotesi della irresolubile contrapposizione tra «fabbrica» e «società» formulata da Tronti negli anni Sessanta. La prospettiva della realizzazione del mercato mondiale viene infatti a coincidere – nelle pagine di Empire – con il compimento della «sussunzione reale» del lavoro e con la celebre prefigurazione della crisi del modo di produzione fondato sullo scambio avanzata da Marx in alcuni passi conclusivi dei Grundrisse. Nelle pagine del cosiddetto Frammento sulle macchine, Marx aveva delineato sommariamente i contorni di una teoria del crollo del capitalismo diversa da quella centrata sulla caduta del saggio di profitto esposta nel Capitale: in questo caso, il capitale era definito come una «contraddizione in processo», che, per il fatto di tendere a «ridurre il tempo di lavoro a un minimo», ma continuando a porre «il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza», sarebbe esplosa determinando il «crollo della produzione basata sul valore di scambio»188. Richiamandosi a questa lettura – e identificando tra loro la sussunzione reale, la realizzazione concreta del capitale sociale e il compimento del mercato mondiale – anche Hardt e Negri scrivono che nell’Impero il prodotto del lavoro cooperativo risulta incommensurabile nei termini classici della legge del valore189. Ciò che più importa non è però che descrivano questo processo come un esito della trasformazione tecnologica e produttiva centrata sulla figura del «lavoro immateriale», ma piuttosto, che per chiarirne la logica ricorrano alla dicotomia costituita dalla «fabbrica» e dalla «società».

187

In una direzione in parte analoga vanno le critiche di C. Mouffe, Sul politico, cit., p. 128, e A. Moreiras, A Line of Shadow: Metaphysics in Counter-Empire, in «Rethinking Marxism», XIII (2001), n. 3-4, pp. 216-226. Ma, in chiave più generale, cfr. i rilievi di E. Laclau, Can Immanence Explain Social Struggles?, in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 21-30, ripresi anche in Id., La ragione populista, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 226-231 (ed. or. On Populist Reason, London, Verso, 2005). 188 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., II, pp. 401-402. Queste pagine dei Grundrisse erano già state pubblicate da Panzieri, e quindi introdotte nel dibattito italiano, nel 1964, con il titolo Frammento sulle macchine, in «Quaderni rossi», n. 4, 1964, pp. 289-300. 189 Cfr. M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., pp. 330-336.

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In un loro saggio precedente, dedicato a un’analisi critica dello «Stato postmoderno», Hardt e Negri sono in effetti tornati a riproporre, più di trent’anni dopo, le stesse formule che Tronti aveva enunciato all’inizio degli anni Sessanta a proposito del nesso tra «fabbrica» e «società». Pur riconoscendo come nell’era postmoderna la fabbrica sembri svanire in quanto sede fisica della produzione, hanno affermato che la società risulta integralmente «permeata dal regime della fabbrica, e cioè dalle regole specifiche dei rapporti di produzione capitalistici»190. Inoltre, è illusoria la stessa impressione secondo cui negli anni Ottanta l’area dello Stato si sarebbe contratta a vantaggio della dimensione della società, perché proprio quest’ultima appare «realmente sussunta all’interno dello Stato»: la società civile non esiste più; lo Stato non ha più bisogno di essa come terreno di mediazione e di recupero dell’antagonismo sociale o di legittimazione del suo ruolo. Più precisamente, se si può dire che la società civile esiste, si deve dire che essa esiste solo come proiezione virtuale, strutturata all’interno della circolarità del sistema statuale autopoietico, mentre i referenti sociali reali, antagonistici, ne vengono esclusi attraverso il metodo dell’elusione. […] Gli spazi lisci delle società di controllo e la compattezza della sussunzione reale sono passati al di sopra dei canali delle istituzioni di mediazione che hanno dato un appiglio alla strategia socialista191.

Riprendendo questa idea – e connettendola all’immagine deleuziana della «società del controllo» – Hardt e Negri tornano dunque a sostenere anche in Empire la tesi della senescenza della «società civile», intesa non solo come momento di mediazione politica, ma anche, secondo l’accezione hegeliana, come sfera dello scambio di equivalenti. «Nel nostro tempo», scrivono per esempio, «la società civile non è più un adeguato momento di mediazione tra il capitale e la sovranità», tanto che essa appare del tutto superata dalla realtà della nuova società del controllo: questa destrutturazione può essere intesa […] come declino della dialettica tra lo stato capitalistico e il lavoro, come declino dell’efficacia del ruolo dei sindacati e, infine, come declino della rappresentanza del lavoro nella costituzione. Il dissolvimento della società civile accompagna il passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo […] Oggi, le istituzioni che strut-

190

M. Hardt – A. Negri, Il lavoro di Dioniso. Per la critica dello Stato postmoderno, Roma, Manifestolibri, 1995, p. 16 (ed. or. integrale Labor of Dionysus. A critique of the State-form, Minneapolis – London, University of Minnesota Press, 1994). 191 Ivi, p. 79. Su questo stesso nodo, cfr. anche M. Hardt, The Withering of Civil Society, in «Social Text», 1995, n. 45, pp. 27-44.

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turavano la società disciplinare (la scuola, la famiglia, l’ospedale, la fabbrica), che sono poi le stesse o assomigliano molto a quelle della società civile, sono ovunque in crisi. […] Il crollo delle istituzioni, il dissolvimento della società civile, il declino delle discipline: tutto ciò implica il levigarsi della precedente striatura della società moderna. A questo punto sorgono le reti della società del controllo192.

L’insistenza su questo punto non deve essere interpretata come una pura esercitazione intellettuale, perché proprio l’idea della fine della società come sfera dello scambio e della mediazione, se da un lato costituisce il corollario della tesi della sussunzione reale come presupposto del superamento della legge del valore, dall’altro risolve definitivamente quella dicotomia tra «fabbrica» e «società» che Tronti aveva ritenuto irresolubile. In altre parole, la chiusura sempre più stretta tra la «produzione» e la fase di «distribuzione-scambio-consumo», mentre da un lato trasforma la «società» intera in «fabbrica», dall’altro consente il superamento della necessità logica dello scambio mercantile. Questo ‘meccanismo’ teorico non può che risultare del tutto deterministico nelle sue forme, anche perché lo spettro della «moltitudine» non rappresenta molto più che l’ombra ambigua e sfuggente di un soggetto collettivo, potenzialmente già unificato dentro le reti della cooperazione produttiva, o meglio, dentro le reti della produzione biopolitica193. Ma, sotto il profilo dell’immagine dello Stato, e del livello politico, un simile meccanismo conduce a una serie di cortocircuiti di fatto insolubili. Mentre infatti la prospettiva della «forma-Stato» intende l’esistenza del lavoro astratto come esito di una interminabile «accumulazione originaria» operante all’esterno del processo della produzione immediata, l’ipotesi della «sussunzione reale» e del compimento del mercato mondiale si fonda su un’immagine in cui il lavoro astratto è inteso come risultato della trasforma192

M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., p. 306, ma cfr. anche pp. 303-308. Per un esame critico della figura della moltitudine, cui si può qui solo accenare, cfr., per esempio, alcuni contributi compresi in «Rethinking Marxism», XIII (2001), n. 3-4, come per esempio di J. Beverly, Who are the Christians today?, ivi, pp. 144-148; S. Ansaldi, The Multitude in «Empire»: biopolitical alternatives, ivi, pp. 137-143; J. Beasley-Murray, Lenin in America, ivi; L. Cox, Barbarian Resistance and Rebel Alliances: social moviments and «Empire», ivi; J. Ludmer, An Agenda for the Multitudes, ivi, pp. 168-172, oltre alla replica di M. Hardt – A. Negri, Adventures of the Multitude, ivi, pp. 236-243. Sugli aspetti teorici e politici della nozione di moltitudine, sono da vedere, però anche K. Shapiro, The Myth of the Multitude, in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 289-314; F. Bowring, From the Mass Worker to the Multitude. A Theoretical Contextualisation of Hardt and Negri’s Empire, in «Capital & Class», 2004, n. 83, pp. 101-132, e T. Mertes, Grass-Roots Globalism, in G. Balakrishnan (ed.), Debating Empire, cit., pp. 144-154. Cfr., però, anche il discorso svolto in seguito in M. Hardt – A. Negri, Moltitudine, cit.; A. Negri, Guide, cit., specialmente pp. 109-142; e Id., Movimenti nell’Impero, cit. 193

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zione tecnologica interna al processo lavorativo194. In questo quadro – come avveniva d’altronde nel Frammento sulle macchine – l’astrazione del lavoro e la creazione di una cooperazione lavorativa all’interno del processo produttivo entrano ‘logicamente’ in conflitto con il meccanismo dello scambio di equivalenti operante sul mercato delle merci. In qualche modo, in uno sviluppo estremo della dicotomia di «fabbrica» e «società», le due modalità della sintesi sociale – il denaro e la cooperazione produttiva – entrano fra loro in conflitto, determinando, nel fatale scontro contro la barriera del compimento dell’Impero, il crollo del sistema fondato sul valore di scambio. Dal punto di vista della comprensione della logica operativa delle istituzioni politiche, l’azione dell’Impero viene così fatalmente descritta nei termini di un intervento arbitrario, parassitario e «corrotto», secondo modalità non troppo differenti da quelle con cui Lenin, nella certezza della «senescenza» del capitalismo, definiva lo Stato della fase imperialista come «Stato rentier». Ma ciò che forse è ancor più rilevante è che alla luce di questa nuova riproposizione della teoria del ‘crollo’, sia le modalità operative, sia le concrete funzioni svolte dai differenti livelli istituzionali (sovranazionali, 194

In questo senso, sono difficilmente equivocabili le espressioni con cui Hardt e Negri si riferiscono alla nozione marxiana di general intellect: «a un certo punto dello sviluppo capitalistico – che Marx preconizzava come uno stato futuro – i poteri del lavoro si confondono con quelli della scienza, della comunicazione e del linguaggio. Il general intellect è una forma di intelligenza sociale collettiva creata con l’accumularsi della conoscenza, della tecnica e del sapere operativo. Il valore del lavoro è realizzato, in tal senso, da una nuova e concreta forza lavoro, attraverso l’appropriazione e il libero uso delle nuove forze produttive. Quello che Marx vedeva nel futuro non è altro che il nostro tempo. Le radicali trasformazioni della forza lavoro e l’incorporazione della scienza, della comunicazione e del linguaggio nelle forze produttive hanno ristrutturato da cima a fondo la fenomenologia del lavoro e l’intero orizzonte della produzione» (M. Hardt – A. Negri, Impero, cit., pp. 338-339). In termini ancora più espliciti, osservano: «la potenza del lavoro associato agli affetti qualifica la forza lavoro tanto quanto il lavoro intellettuale. Il biopotere comprende le nuove capacità produttive della vita, che sono – a un tempo – intellettuali e corporee. La potenza produttiva, oggi, è infatti completamente biopolitica: essa attraversa e costituisce direttamente non solo la produzione, ma l’intero ambito della riproduzione. Il biopotere diviene un agente di produzione quando tutto il contesto della riproduzione viene sussunto sotto il comando del capitale – ossia, quando la riproduzione e le relazioni vitali che la sostanziano divengono direttamente produttive. Il biopotere è un altro modo per dire sussunzione reale della società da parte del capitale, ed entrambi sono sinonimi di ordine globale della produzione» (ivi, p. 339). Ma questi sono solo i presupposti dell’emergere della moltitudine dalla struttura ‘logica’ della società del controllo: «Le potenze scientifiche, affettive, linguistiche della moltitudine trasformano con estrema aggressività le condizioni della produzione sociale. La moltitudine si riappropria delle forze produttive con una metamorfosi radicale, come in una scena demiurgica. È una revisione completa della produzione della soggettività cooperante, una contaminazione e un meticciato con le macchine, di cui si era riappropriata, reinventandole completamente, la moltitudine» (ivi, p. 340).

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nazionali e subnazionali) risultano sfumarsi fino all’indistinzione, giungendo a suggerire l’immagine di un sistema totalitario e persino – come ha notato Giorgio Carnevali – ambiguamente «u-topico»195. Evidentemente, infatti, come ha osservato Danilo Zolo, «se tutto è imperiale, niente è imperiale» e, allora, diventa di fatto impossibile «individuare i soggetti sovranazionali portatori degli interessi o delle aspirazioni imperiali», o anche comprendere chi «esercita le funzioni imperiali»196. In qualche misura, una simile conclusione è destinata a imporsi e a chiudere lo spettro dell’analisi all’interno di un quadro determinista, come conseguenza dello schema teorico che Hardt e Negri adottano nel momento in cui seguono l’ipotesi della «sussunzione reale» e, soprattutto, della crescente indistinzione fra i due poli della «fabbrica» e della «società». Quando evocano l’immagine della «società di controllo», e quando si riferiscono alla fine della «società civile», come sfera della mediazione economica e politica, i due autori di Empire non si limitano a far convergere due tradizioni di pensiero differenti, e in fondo non incompatibili, ma imboccano anche un sentiero che non può non offuscare la specificità delle istituzioni politiche e del ruolo che esse sono chiamate a svolgere all’interno dello spazio imperiale. Lungo questo sentiero, infatti, riprendono la dicotomia di «fabbrica» e «società» elaborata negli anni Sessanta a partire da quella lettura politica che puntava a scindere teoricamente il momento della «produzione» dalle fasi di «distribuzione-scambio-consumo». Ma, invece di considerare l’opposizione fra le due polarità come irresolubile, tendono a scorgere nella realizzazione della «società di controllo» e nel pieno dispiegamento della «sussuzione reale» la scomparsa della «società» nella «fabbrica»: in altre parole, ritrovano nella crescente socializzazione del processo di produzione immediato un processo che, di fatto, conduce alla tendenziale inclusione di ogni sfera sociale e di ogni ambito di vita all’interno della cooperazione produttiva. E i risultati di 195

G. Carnevali, Dell’impero imperfetto (Voci per un dizionario minimo del dopo 11 settembre), in «Teoria politica», XVIII (2002), n. 3, pp. 73-84, ora in Id., Dopo la caduta. Questioni di teoria politica nell’età del declino americano, Padova, Liviana, 2007, specie p. 78. «Quel potere che emana da un Logos onnipervasivo e del quale abbiamo oggi esperienza nel quotidiano risolversi del politico nell’economico, quel potere che di conseguenza nega ‘l’irrompere dell’Eccezione e della Decisione politica’», si chiede in particolare Carnevali, «cos’ha a che fare con l’imperium? Non ne ha forse uccisa l’idea stessa? Ancora: si potrà mai immaginare che sia, a un tempo, imperiale e spersonalizzato nel suo comando, tale da non prevedere l’esistenza di un imperator? Infine: l’ordine della globalizzazione, dove alla Politica sono comunque assegnati ruoli di secondo piano, non ha forse qualche rassomiglianza con l’anarchia internazionale? E c’è qualcosa di più estraneo all’ordine imperiale dell’anarchia internazionale?» (ivi, pp. 78-79). 196 D. Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 119.

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una simile estensione – o ‘socializzazione’ della produzione – non possono che essere, per un verso, l’effettiva realizzazione del mercato mondiale e di quel «capitale sociale» prima inteso come semplice astrazione teorica, e, per un altro, la senescenza della sintesi sociale fondata sullo scambio monetario. Dato che l’astrazione del lavoro risulta già compiuta all’interno del processo lavorativo sociale, la mediazione mercantile e l’astrazione garantita del denaro risultano private della razionalità in precedenza garantita dalla misura del tempo individuale di lavoro (ormai divenuto «incommensurabile» a seguito della socializzazione del lavoro), e, perciò, la stessa riproduzione della forma mercantile deve configurarsi come la perpetuazione arbitraria e parassitaria di un assetto segnato da un’irreversibile obsolescenza. A dispetto dell’apparente coerenza logica dell’architettura teorica, in questo modo non si può però non rinunciare all’idea dell’«accumulazione originaria» come processo ininterrotto e, soprattutto, non si può non perdere ogni caratterizzazione della specificità delle istituzioni rispetto al ‘mercato’ e alla specifica dinamica della produzione immediata. In altre parole, dato che tutto il ragionamento si fonda sull’idea di una dicotomia tra processo lavorativo ‘sociale’ e processo di valorizzazione, tra «fabbrica» e «società», e tra «produzione» e «distribuzione-scambio-consumo», la dissoluzione della «società» all’interno della «fabbrica» comporta anche la dissoluzione della specificità della riproduzione. Se nell’Einleitung del ’57 la produzione compariva, per così dire, due volte, come produzione in particolare e come produzione in generale, nella forzatura politica ereditata da Empire questi due volti tendono a sovrapporsi nell’immagine della produzione biopolitica e, dunque, di un processo lavorativo esteso socialmente in ogni ambito di vita. La stessa dinamica della «riproduzione» non può che trovarsi schiacciata su quella della produzione, fino a diventare sostanzialmente la stessa cosa, nel senso che per un verso si trova assorbita nel processo di valorizzazione, mentre, per l’altro, coincide con il processo della produzione immediata, completamente socializzato. Ma l’effetto pressoché inevitabile non può che essere, da questo punto di vista, l’esclusione sia dell’idea che esista una sfera riproduttiva, distinta (e potenzialmente autonoma) dal processo lavorativo e dalla cooperazione produttiva, all’interno della quale possa determinarsi storicamente un innalzamento del livello del lavoro socialmente necessario, sia – contestualmente – dell’idea che le istituzioni (non operanti nell’ambito strettamente economico) siano chiamate a intervenire in questo stesso ambito, assolvendo alla perpetuazione del processo di «accumulazione originaria», alla costruzione dei presupposti del processo produttivo stesso e, dunque, alla creazione degli ‘incentivi sociali all’investimento’. In altre parole, l’assorbimento della società nella produzione biopolitica e la dissolu-

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zione della ‘società civile’ finiscono col mostrarsi soltanto come una sorta di ‘dissolvimento’ teorico dell’autonomia logica della sfera riproduttiva, producendo un quadro inevitabilmente determinista e totalizzante. Un quadro in cui l’Impero – come ha sottolineato Zolo – sembra sfumare in «una sorta di ‘categoria dello spirito’», «presente in ogni luogo poiché coincide con la nuova dimensione della globalità»197.

3.6 Un nuovo spazio Se negli anni Novanta lo ‘Stato’ pareva destinato a un declino tanto lento quanto irreversibile, l’avvento – dopo l’11 settembre 2001 – di quella che è stata efficacemente definita come la «seconda globalizzazione», sembra aver rovesciato almeno in parte la situazione198. Per quanto l’area del ‘mercato’ appaia ben lontana dal vedere effettivamente scalfita la propria supremazia, l’irrompere sulla scena internazionale di nuovi attori e di sfide in larga parte inedite sembra aver riconsegnato agli Stati – o, quantomeno, ad alcuni di essi – spazi di manovra rilevanti, sia sul terreno economico, sia nell’ambito della politica internazionale. Rovesciando semplicemente la tesi del trionfo dell’economia, molte letture del passaggio in atto tendono però a raffigurare i contorni di un ritorno della ‘politica’ in cui quest’ultima è identificata senza residui con l’intervento delle istituzioni nell’area delle relazioni mercantili o con l’uso della forza militare. Il paradosso di entrambe queste letture è però che esse continuano a riprodurre la ‘moderna’ identificazione tra ‘politico’ e ‘statuale’, senza porre realmente in questione né il nesso tra ‘mercato’ e ‘istituzione’, né l’assunto della dipendenza dell’uno dall’altro. In questo senso, se le raffigurazioni della globalizzazione ‘economica’ tendevano a dipingere un quadro nel quale qualsiasi attore ‘politico’ svaniva gradualmente, l’enfasi sul ‘ritorno’ della politica rischia invece di offuscare gli elementi di novità che contrassegnano l’orizzonte spaziale contemporaneo. Nonostante la riflessione sull’«impero» e sul nuovo «paradigma» di esercizio della sovranità allestisca una costruzione teorica estremamente complessa, capace di svincolarsi da molti dei rischi impliciti nella tesi di un governo globale, chiamato a ‘regolare’ il magmatico fluire dei mercati internazionali, essa – come si è visto – non sfugge interamente alle seduzioni del determinismo. 197

Ibid. Cfr. M. Revelli, La seconda globalizzazione, in «Carta», IV (2002), n. 5, pp. 36-67, ora in Id., Carta d’indenità. Cronache d’inizio secolo. 1998-2005, Roma-Napoli, Carta – Intra Moenia, 2005, pp. 57-92, ma anche Id., La globalizzazione. Definizioni e conseguenze, in «Teoria politica», XVIII (2002), n. 3, pp. 45-62. 198

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Pur presentando in termini positivi la conclusione di una colonizzazione capitalistica e tecnologica capace di giungere ‘fino alla fine del mondo’, la tesi della tendenziale scomparsa di ogni ulteriore ‘frontiera’, oltre che di ogni possibile spazio di espansione, finisce col rinchiudere i lineamenti del nuovo «paradigma» all’interno di uno schema determinista in cui mercato e istituzione (ed ‘economico’ e ‘politico’) vengono di fatto a confondersi senza possibilità di distinzione, e nel quale vengono a smarrirsi interamente gli stessi confini tra la funzione direttamente produttiva e quella della creazione degli ‘incentivi sociali all’investimento’. Più ancora che per le soluzioni proposte, il recente dibattito sulla crisi della moderna spazialità, sullo smarrirsi delle nette distinzioni tra inside e outside, oltre che sulle nuove e ancora indefinite architetture istituzionali che in questo contesto prendono forma, è importante per i problemi che sottopone alla riflessione teorica. Oltre a confermare ancora una volta l’urgenza di una «teoria politica dello Stato contemporaneo» capace di fare realmente i conti con l’ingombrante eredità dello Stato moderno199, proprio la consapevolezza dello sgretolarsi delle più consolidate geometrie spaziali mostra l’inadeguatezza di gran parte dell’armamentario teorico a nostra disposizione, invitando a indirizzare lo sguardo su quei nuovi rompicapo scientifici che iniziano a profilarsi ormai nitidamente. A partire da quel singolare paradosso, che – alla conclusione della parabola moderna, di fronte alla globalizzazione dei mercati, alla deterritorializzazione politica e al definitivo fallimento della ‘moderna’ pretesa di ridurre qualsiasi potenziale conflitto «interno» al rapporto giuridico – sembra riconsegnare allo Stato una funzione originariamente ‘politica’. Una funzione – ormai non più di-

199

Per l’argomentazione della necessità di una tale teoria, cfr. L. Ornaghi, Per una teoria politica dello Stato. Prime notazioni e schiarimenti, in «Quaderni di scienza politica», II (1995), n. 3, pp. 335-369, che, in particolare, osserva che «alle ormai vecchie dispute storiografiche e concettuali sullo Stato come ‘fenomeno particolare’ piuttosto che come ‘fenomeno generale’ […] si può […] impedire di camuffarsi continuamente con panni diversi, solo se si riusciranno ad affinare le nozioni, l’una strettamente correlata con l’altra, di ‘istituzione (politica)’ e di ‘regime politico’» (ivi, p. 366). Senza un chiarimento teorico sulla nozione di ‘istituzione’, infatti, «la teoria politica contemporanea resta imprigionata […] in quella sequenza, che tale riesce ad essere solo per intero unificata dal processo di progressiva acquisizione – e poi di ancor più rapida scomposizione – della univocità di un ‘nome’, personificato con fin troppa facilità forse proprio perché alquanto mimetico»; e, soprattutto, «non può che oscillare tra la riproposizione di una qualche sovranità, magari chiamata con termini diversi e assai meno efficai quali quello di ‘decisione’, e la continua, sempre parziale registrazione della ‘crisi’ di poteri erroneamente creduti ancora del tutto ‘politici’: che però tali sono, alla fin fine, solo in forza del fatto che vennero unitariamente ricompresi e giustificati – un tempo – con un nome proprio, e dentro un potere qualificato come ‘perpetuamente’ sovrano» (ivi, pp. 368-369).

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retta al governo ‘sovrano’ di un’economia ‘senza confini’ o di un conflitto anch’esso irresolubile nell’obsoleta dicotomia inimicus-hostis – che torna a scoprire le radici più profonde del vincolo politico proprio nella riproduzione puntuale di un rapporto di cittadinanza, via via più incomponibile all’interno di qualsiasi stabile frontiera, e nella costante ridefinizione dei ‘confini dell’eccezione’200. All’interno di questo scenario, l’ipotesi dell’«Impero», come ha notato Vittorio Parsi, ha costituito, nonostante i limiti, «una risposta di straordinaria innovatività alla crisi teorica e interpretativa del concetto di sovranità statale che la globalizzazione sembrava aver definitivamente marcato lungo il corso degli anni Novanta»201. Più che un tentativo di oltrepassare, o superare teoricamente lo Stato, l’idea dell’«Impero» deve essere infatti intesa come una sorta di neue Darstellung, come un tentativo di comprendere l’azione, le funzioni e il ruolo dello Stato all’interno della nuova dimensione spaziale. In una simile prospettiva, l’«Impero» – più che un sostituto dello Stato – tende a configurarsi come un «concetto» in grado forse di approssimare la portata di quella «rivoluzione spaziale» in cui il vocabolario politico della modernità non può che mostrarsi in una luce differente. Lungo questo sentiero, la tendenza verso la costruzione dello spazio imperiale deve essere ovviamente intesa come un processo di lungo periodo, in cui certo si possono ritrovare alcune soglie critiche e nel quale l’ascesa mondiale degli Stati Uniti gioca un peso significativo, ma che non coincide semplicemente né con l’egemonia statunitense, né con l’assetto costituzionale edificato dagli Usa dopo la Seconda guerra mondiale, e neppure con la politica americana dell’ultimo ventennio. La struttura imperiale, probabilmente, può essere compresa proprio come spazio globale concretamente costruito dalla realizzazione del mercato mondiale, dallo sviluppo della comunicazione e dalle tecnologie belliche, e occupato da una pluralità di soggetti politici ed economici tra loro persino in conflitto. Per questo, la ‘repubblica imperiale’ – caratterizzata da una molteplicità di attori, ma al tempo stesso dal fatto di costituire uno ‘spazio chiuso’ – può essere intesa come una rielaborazione dell’ipotesi neomedievale enunciata, seppur solo in termini problematici, da Hedley Bull a metà degli anni Settanta: un’ipotesi in cui la «sovranità» degli Stati non scompare, ma si accompagna all’emergere di nuovi soggetti (sovranazionali

200 Cfr., su questo aspetto, le considerazioni di S. Sassen, The Repositioning of Citizenship: Emergent Subjects and Spaces for Politics, in P.A. Passavant – J. Dean (eds.), Empire’s New Clothes, cit., pp. 175-198. 201 V.E. Parsi, L’alleanza inevitabile, cit., p. 36.

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e subnazionali) chiamati a esercitare un potere ‘legittimo’, richiesto – in qualche misura – dalle stesse esigenze di unità della «repubblica» 202. È molto probabile che la conclusione del «momento unipolare» sia destinata a produrre conseguenze rilevanti sull’equilibrio interno della ‘repubblica imperiale’, oltre che una ricollocazione degli attori all’interno della gerarchia di ruoli e funzioni203. Ma – se l’ipotesi al cuore della genesi dello spazio politico globale è corretta – ciò non dovrebbe comportare tanto una rottura della struttura imperiale e un ritorno al passato, quanto una dislocazione dei conflitti (e della lotta sulla legittimità) a un livello diverso rispetto al passato e anche rispetto alla stagione della Guerra fredda. Un livello di confronto i cui contorni sono tracciati – in modo probabilmente irreversibile – proprio dalla stessa ‘unificazione’ tecnica (economica, comunicativa e militare) del mondo. D’altronde, il concetto di «Impero» e le ipotesi sul nuovo «paradigma» di esercizio della sovranità possono essere cosiderati come un tentativo (forse impreciso e ancora insufficiente) di pensare la politica nella fase dell’«unità tecnica del mondo», di cui Schmitt aveva intravisto la potenziale fisionomia. Un’unità tecnica che ovviamente non può essere un’unità politica capace di pacificare il mondo sotto un solo governo mondiale, e che dunque non elimina – e non può eliminare – il ‘politico’ dall’esperienza umana, ma che, piuttosto, viene a collocare il ‘politico’, il conflitto e la distinzione fra amico e nemico su un piano radicalmente inedito. A questo livello, pensare l’«umanità» come soggetto unitario non è soltanto un’esercitazione retorica o una raffinata mistificazione ideologica, ma un’esigenza effettivamente politica, che per questo non può che configurare la millenaria contrapposizione fra amicus e hostis in termini diversi rispetto al passato. Ogni progetto di reale unificazione politica dell’umanità, d’altronde, non può che riscoprire invariabilmente la realtà del conflitto. E ogni ipotesi di unità politica del genere umano non può che reggersi – e trovare il fondamento della propria legittimità – nella figura al tempo stesso umana e disumana di un nemico assoluto, oltre che nella prospettiva di un’incombente apocalisse. In questa dimensione, nella policentrica struttura dello spazio imperiale, è così inevitabile che la pace e la promessa di un ordine eterno, garantito sull’intero pianeta e ‘fino alla fine del mondo’, tendano costantemente a rovesciarsi nel rischio dell’«ultima guerra dell’umanità». E che, privata 202 Cfr. H. Bull, La società anarchica. L’ordine nella politica mondiale, Milano, Vita e Pensiero, 2005 (ed. or. The Anarchical Society. A Study of Order in World Politics, London, MacMillan, 1997; I ed. Basingstoke, Palgrave, 1977). 203 Si tratta d’altro canto di uno scenario che Hardt e Negri considerano in molto esplicito, ragionando sul possibile ritorno del multipolarismo: cfr. M. Hardt – A. Negri, Moltitudine, cit., pp. 363-374.

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della forza unificante del kat-echon, «ogni unità del mondo», come scriveva Schmitt, debba preludere cupamente «al trapasso ad una nuova pluralità, densa di catastrofi». O mostrare agli uomini «il segno che è giunta la fine dei tempi»204.

204

C. Schmitt, L’unità del mondo, cit., p. 319.

Indice dei nomi

Abruzzese A., 31 Accarino B., 9, 107 Accornero A., 229 Ackerman B., 117-118, 138 Agamben G., 13, 91, 114, 185 Aglietta M., 232 Agnew J., 212 Agnoli J., 225 Agustoni A., 11, 213 Alexander J.C., 157 Almond G., 228 Althusser L., 215-216, 232 Altini C., 21 Altvater E., 215-216, 225 Andreatta F., 73 Ansaldi S., 247 Archibugi D., 32, 37, 75 Armao F., 135 Aron R., 28 Arrighi G., 177, 182, 195, 205 Asor Rosa A., 175, 229 Attinà F., 73 Atzert T., 76, 177 Auciello N., 97 Avant D.D., 135 Baccelli L., 159 Bagge Lausten C., 80 Bahnu M.P., 163 Balakrishnan G., 76, 137, 177, 182, 194, 201, 207, 237, 247 Baran P., 222 Barber B.R., 175 Barberis G., 20-21, 27, 40 Barcellona P., 14, 27 Barkawi T., 176-177, 212, 213 Basso L., 218, 220 Beasly-Murray J., 247 Beck U., 37, 66-68, 70, 146 Behn S., 11, 102 Bell P.F., 230 Bellamy Foster J., 177 Bellocchio L., 173 Beltrame A., 31

Bendersky J.W., 43 Berlin I., 155, 157 Bertinetti R., 109 Besussi A., 65 Beverly J., 247 Bin R., 118 Birkner M., 201 Birnbaum P., 26, 40 Bobbio N., 32, 97, 117, 148, 181, 216, 225226 Böckenförde E.-W., 55, 140, 166 Boggs C., 27, 40 Bolaffi A., 5, 26, 39, 103 Bonanate L., 16, 29, 32, 73, 116, 133, 174, 228 Bonefeld W., 223, 233-234 Bonetti P., 125 Bonomi G., 97 Booker M.K., 109 Booth K., 177 Borgognone G., 117 Boron A.A., 177, 207 Bovero M., 160 Bowring F., 247 Boyer R., 232 Bradbury R., 109 Braudel F., 180, 181 Braunmühl C. v., 219 Brennan T., 201 Breuer S., 181 Breysig K., 181 Bridges G., 43 Brown N., 194, 209 Brugo I., 36 Brunner O., 55 Brunt R., 43 Brzezinski Z., 73 Buchanan R., 212 Bucharin N., 221, 243 Buci-Glucksmann C., 97 Bull H., 145, 253, 254 Bull J., 177 Burdick E., 3 Bush G.W., 84, 207

258 Buzan B., 73, 80 Byron G.G., 1 Cacciari M., 78, 195-196, 229 Calise M., 229 Callinicos A., 177, 201, 207, 212-213 Campi A., 7, 41 Canetti E., 60-62 Canfora L., 31 Canovan M., 111 Cantimori D., 41 Caracciolo A., 10, 54, 166 Carandini G., 218 Caretti L., 2 Carnevali G., 55, 84-85, 249 Carnoy M., 218 Cartabia M., 149 Cartier M., 181 Caruso R., 131 Casadei T., 132 Casalini B., 118 Casey S., 107 Castles F.G., 173 Cavallari G., 172 Cavallo R., 14, 141 Cavazzutti F., 226 Cazzaniga G.M., 159 Cerroni U., 225 Cesa M., 80, 165 Chakrabarty D., 207 Chaloupka W., 207 Chandler D., 43 Chomsky N., 175 Ciaramelli F., 14 Ciccarelli R., 178 Clarke S., 232-234 Cleaver H., 230 Coady C.A.J., 120 Cocco G., 178 Cohen-Almagor R., 126 Cole D., 120 Colliva P., 181 Colombo A. (Alessandro), 43, 73, 165 Colombo A. (Arrigo), 110 Colombo P., 77 Conrad J., 130 Conze W., 31 Coralluzzo V., 73, 117, 134, 135 Corbridge S., 212 Costa P., 160 Cox L., 247 Cox M., 177, 209

INDICE

DEI NOMI

Cox R.W., 97 Crawford J., 33, 161 Critchley S., 44, 62 Cromwell O., 7 Crouch C., 64 Cutro A., 185 Czempiel E.O., 176 D’Agostini F., 229 Dahl R.A., 114 Danieli Y., 153 De Angelis M., 234 De Giovanni B., 97 De Simone A., 107 de Vroey M., 232 Dean J., 76, 177, 195, 207, 210-213, 238, 245, 247, 253 Deidda A., 109 Deleuze G., 183 della Porta D., 125 della Volpe G., 225 Dennison G., 115 Denunzio F., 194 Derrida J., 52 Dershowitz A., 117 de Sousa Santos B., 82 Di Leo R., 229 Di Rienzo E., 165 Diamond L., 16, 24 Diodato E., 175 Domenichelli M., 109 Dominijanni I., 177 Donolo C., 226 D’Orsi A., 135 Doucet M.G., 70 Drake F., 5 Dunn J., 31 Dunn K.C., 206, 207 Dunne T., 177 Duso G., 41 Dworkin R., 120 Dyer-Witheford N., 206 Eakin E., 177 Easton D., 222 Ebbinghausen R., 219 Ehr-Soon Tay A., 160 Eisenstadt S., 181 Elshtain J.B., 120 Engels F., 217-218 Escobar R., 4 Esposito R., 178, 181, 185

INDICE

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DEI NOMI

Evangelista M., 118, 120, 128, 144 Evangelisti V., 36 Fabbrini S., 228 Fadini U., 192 Fai R., 14 Falk R., 37, 75, 145, 146 Fatovic C., 115 Federici S., 234 Ferejon J., 114 Ferguson N., 176 Ferrari Bravo L., 223 Ferraro G., 36 Ferri F., 43 Fingold K., 228 Fiorina M.P., 19 Fisichella D., 26, 55 Fitzpatrick P., 210 Focarelli C., 162 Foltin R., 201 Foradori P., 148 Forti S., 36 Fossati M., 117 Foster J.B., 208 Foucault M., 183, 184 Fox G.H., 33, 161 Franck T., 33, 161 Freud S., 62, 101 Freund J., 28 Frezza D., 111 Frezza G., 194 Friese H., 78, 178, 196 Frosini V., 112 Fukuyama F., 14-25, 36, 86 Gaddis J.L., 116 Galli C., 7, 9, 36, 41-42, 55, 107, 174, 181 Galloway A., 206 Gambino F., 232 Gamble A., 26-27, 39 Garton Ash T., 118 Garufi T., 27 Gasparotti R., 178 George E., 3 Gherardi R., 172, 211 Gibson W., 171 Giddens A., 37, 66-68, 70, 146 Gill S., 97 Gilroy P., 213 Gindin S., 177, 206, Ginex G., 31 Giovanni di Gaunt, 6

Giuntarelli P., 11, 213 Giusti S., 80, 163, 175, 209 Goldblatt D., 75, 145 Goldfield M., 228 Goldoni M., 115, 118 Goodwyn L., 111 Gozzi G., 112, 218-219 Gramsci A., 43, 56, 97, 232 Grassi D., 16 Greblo E., 31 Greenberg K., 132 Greppi G., 62 Groppi T., 118 Gross O., 117, 137 Grossberg L., 43, 44 Guaraldo O., 173, 178 Guardamagna D., 109 Gunn R., 234 Habermas J., 29, 37, 49, 74, 75, 146, 219 Hamilton A., 115 Hänninen S., 44 Hannum H., 128 Hardt M., 37, 75, 83, 177-178, 181-215, 224, 228, 234-237, 239-250, 254 Hardy H., 155 Hasenclever A., 80 Hatzopoulos P., 80 Haug F., 204 Haug W.F., 43, 204 Hawkins J., 5 Hegel G.W.F., 16 Held D., 31, 75, 145, 146 Helfferding W., 43 Hennis W., 26, 39 Herman D., 118 Hesse K., 55 Hilferding R., 220-221 Hirsch J., 219, 223 Hobbes T., 22, 79 Hobson J.H., 211 Hobson J.A., 221 Hoffmann S., 157 Holloway J., 233-234 Holsti K.J., 135 Honore T., 128 Hont I., 119 Howarth D., 62 Hunter A., 98 Huntington S.P., 16, 19, 86 Hutnik J., 207 Huxley A., 109

260 Ignatieff M., 118-167, 175-176 Ignazi P., 73 Ikenberry G.J., 73, 173, 211 Ilardi M., 26, 39 Inoguchi T., 32 Jackson R., 33 8 Jefferson T., 109, 115 Jessop B., 218 Johns F., 115 Johnson C., 175 Jünger E., 7 Kagan R., 24, 175, 176 Kaldor M., 134-135, 150 Kallscheuer O., 215-216 Kapstein E.B., 73, 172 Keane J., 32 Kervégan J.-F., 85 Klein C., 126 Kojève A., 20-21 Koselleck R., 91 Krahl H.-J., 240 Krain M., 15 Kramer S., 3 Kubrick S., 3 Kupchan C., 73 Kurtz R., 27, 40 Laclau E., 44, 56-57, 62, 69, 98-99, 245 Laffey M., 176-177, 212-214 Lanchester F., 47 Lanzillo M.L., 4, 21 Lash S., 66, 146 Laski H., 59 Latour B., 58 Lawrence F., 36 Lazzarato M., 204 Le Pen J.-M., 71 Lefort C., 59 Lenhardt G., 219 Lenin (Vladimir Ilicÿ Ulianov), 220-221, 248 Leopardi G., 2 Levinson S., 117 Lewis S., 109-113 Lilla M., 42, 136 Lincoln A., 109, 115, 119 Linz J., 16 Lipietz A., 232 Locatelli A., 73, 80, 131, 163, 175, 209 Long H., 110 Losurdo D., 31, 134, 210

INDICE

DEI NOMI

Lowi T.J., 228 Ludmer J., 247 Lukács G., 233 Luke H.J., 2 Lumet S., 3 Luxemburg R., 242-244 Machiavelli N., 22, 79 MacIntyre A., 51 Mahr A., 16 Manferlotti S., 110 Mann M., 172 Marazzi C., 204 Marchart O., 62 Marramao G., 218 Martinelli A., 218 Marx K., 16, 180, 200, 204, 206, 216-218, 222, 224-226, 230, 234, 240-241, 245, 248 Mastanduno M., 73 Mastropaolo A., 27, 40, 73 Matheson R., 35 Matteucci N., 117, 181 Maurer B., 195 Mayer P., 80 McCarthy C., 3 McGrew A.G., 75, 145 McVeigh T., 127 Mearsheimer J.J., 73 Mehlinger H.D., 15 Meiskins Wood E., 211 Mertes T., 247 Mészáros I., 208 Mezzadra S., 207, 232 Michels R., 28 Miglio G., 11, 28, 40, 41, 55, 138, 181 Milana F., 201 Miliband R., 218-220 Mills C.W., 218 Mindus P., 113 Mishra P.K., 207 Mistral J., 232 Mittelman J.H., 173 Monceri F., 160 Monda A., 3 Moore D., 207 Moreiras A., 76, 245 Morgan H., 5 Morgenthau H.J., 22 Morlino L., 16 Mosca G., 28 Mouffe C., 26, 28-108, 140, 210, 245

INDICE

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DEI NOMI

Mulgan G., 27, 40 Müller J., 76, 177 Münkler H., 177 Murphy T.S., 178 Murray R.K., 124 Mustapha A.-K., 178 Muzzioli F., 3, 109 Nagl L., 51 Nagle J.D., 16 Napoleone Bonaparte, 9 Nardin T., 166 Negri A., 37, 75, 78, 83, 177-178, 181-215, 224-226, 228, 234-237, 239-250, 254 Neilson B., 207 Nelson C., 43-44 Newman E., 32 Niebuhr R., 22 Nietzsche F., 18 Nordlinger E.A., 228 Nuciari M., 135 Nye J. Jr., 73 Oakeshott M., 49 O’Connor J., 219, 225 Odysseos L., 43, 171 Offe C., 219-220, 222, 225, 234 Ohmae K., 172 Ojakangas M., 43 O’Meara P., 15 Omero, 2 Ornaghi L., 31, 41, 55, 172, 173, 225, 252 Orwell G., 109 O’Sullivan N., 58, 69 Owen N., 118, 128 Paggi L., 97 Pagliani C., 135 Pahuja S., 212 Palano D., 4, 11, 24, 36, 41, 77, 163, 173, 175, 185, 213 Paldan L., 44 Palumbo A., 77 Panebianco A., 173 Panitch L., 173, 177, 206, 228 Panizza F., 73 Panizza R., 173 Pannikar R., 82 Panzieri R., 226, 245 Pape R., 131 Pareto V., 28 Parise E., 173, 232

Parsi V.E., 4, 73, 163, 173, 175-176, 181, 209, 211, 253 Pasquino G., 117, 181 Pasquino P., 55, 114 Passavant P.A., 76, 177, 195, 207, 210-213, 238, 245, 247, 253 Pašukanis E., 233 Peraton J., 75, 145 Petito F., 43, 80, 171 Picciotto S., 233 Piccone P., 43 Pitkin H., 51 Pizzorno A., 29 Poggi G., 100, 173 Portelli H., 97 Portinaro P.P., 22, 26, 39, 55, 102, 173, 211 Posner R., 120 Poulantzas N., 218-220, 223, 225, 227 Preterossi G., 55, 114, 140, 162 Procacci S., 80 Psychopedis K., 234 Purdy J., 163 Putnam R.P., 19 Quinby L., 207 Ragona U., 35 Raleigh W., 5 Rancière J., 40, 64 Rao R., 163 Rasmussen D., 50 Rawls J., 49-50 Razeto Migliaro L., 97 Read J., 186 Reicke S., 55 Reisman M., 33, 161 Reiter H., 125 Resnick S., 206 Resta C., 11, 102, 171 Revault d’Allonnes M., 27, 40 Revelli M., 21, 27, 36, 40, 66, 251 Rich R., 33, 161 Rigotti F., 157 Rittberger V., 80 Robin C., 4 Rodhes E., 163 Roehrssen C., 55 Romero G.A., 36 Ronge V., 220, 222 Rorty R., 75 Rosanvallon P., 27, 40

262 Rosdolsky R., 240 Rosecrance R., 173 Rosenau J.N., 176 Roshwald M., 3 Rossi P., 97 Roth B.R., 33, 161 Rustin M., 99, 177 Saint-Simon C.H. de, 25 Salkow S., 35 Salter L., 177 Salvadori M.L., 97 Sandel M., 50, 51 Santoro M., 157, 237 Sartori G., 55, 93, 94 Sassen S., 173, 253 Scalone A., 59 Scheuner U., 27, 40, 55 Schiera P., 11, 40-41, 112, 138 Schmitt C., 4, 5, 7-14, 21, 25, 30, 33, 38-49, 54, 56-60, 69, 77-82, 85, 88-97, 99-108, 136-141, 160-161, 165-166, 170-171, 181, 254-255 Schorer M., 107 Schroeder W., 44 Schulhofer S.J., 120 Schulze H., 112 Scott R., 171 Segal B., 36 Seligman E.R.A., 181 Sen A., 142 Seth S., 207 Sezman I., 194, 209 Shakespeare W., 2, 6 Shapiro K., 247 Shaw M., 173, 177, 212-213 Shelley M., 1, 18 Shelley P., 1 Shklar J.N., 157 Showstack Sassoon A., 43 Shute N., 3 Silei G., 4 Singer W., 135 Skocpol T., 19, 227-228 Sloterdijk P., 8, 12, 107 Sohn-Rethel A., 240 Somaini E., 17 Staff I., 41 Staten H., 52 Stavrakakis Y., 62 Stepan A., 16 Sternberger D., 55

INDICE

DEI NOMI

Stewart A.M., 117 Strange S., 172, 176 Strauss A., 37, 75 Strauss L., 46 Surin K., 207 Sweezy P., 222, 243 Taine H., 28 Talete di Mileto, 5 Tarizzo D., 58, 62 Taylor C., 50-51 Tedoldi L., 173, 178 Thachrah R., 117 Thompson P., 206 Tilly C., 194 Tocqueville A. de, 19 Tommissen P., 55 Torfing J., 62 Townshend C., 117 Tronti M., 19, 27-29, 40, 42, 226-231, 245247 Trotta G., 201 Tucidide, 22, 79 Tully J., 80 Ulmen G., 43 Urbinati N., 77 Vaccaro S., 77 Van Creveld M., 135 Veca S., 157, 178 Vegetti M., 21 Veraldi R., 11, 213 Verne J., 169 Vidal G., 175 Villalobos-Ruminott S., 194 Virno P., 201 Vitale A., 41 Vitale E., 160 Vladeck S., 115 Volpi F., 103 Wæver O., 80 Wagner P., 78, 178, 196 Walker R.B., 177, 213 Wallerstein I., 180-181, 195 Walzer M., 50, 132, 164 Weber M., 187 Weibel P., 58 Weinrich H., 91 Weiss L., 173 Weldes J., 213-214

INDICE

263

DEI NOMI

Wenders W., 170, 214 Wendt A., 80 Wheeler H., 3 Wiesel E., 153 Wilkinson P., 117 Wohlforth W., 73 Wolff R., 206

Wright S., 201, 230 Zamjatin E., 109 Zanini A., 192 Žižek S., 27, 62, 65, 86, 211 Zolo D., 12, 26, 30, 77, 95, 134, 146, 148, 159-160, 178, 216, 225-226, 249, 251

Filosofia politica

1. 2.

D. Palano, Fino alla fine del mondo. Saggi sul ‘politico’ nella rivoluzione spaziale contemporanea A. Salvatore, Giustizia in contesto. La filosofia politica di Michael Walzer



B

enché esprimano una distanza critica nei confronti delle visioni fatalisti­ che della globalizzazione, i saggi compresi in questo volume non riconoscono nello «spirito postpolitico» contemporaneo soltanto l’esito di una deformazione ideologica. Al contrario, partono dal presupposto che l’«era postpolitica» sia una realtà evidente del nostro tempo. E, infine, puntano a scorgere nell’aspirazione a un governo universale e a una democrazia globale qualcosa di più di un’utopia affascinante ma irrea­ lizzabile. Naturalmente, l’«unità del mondo», intesa come unità politica del genere umano sotto un unico, grande Stato mondiale, continuerà a essere solo un miraggio irraggiungibile. Ma, a dispetto della sua ir­ realizzabilità, l’unità politica del mondo diventa una prospettiva indispensabile, un progetto reso necessa­ rio dalla rivoluzione spaziale contemporanea. È piut­ tosto scontato che il mondo degli umani non cesserà di mostrarsi nel futuro come un «pluriversum», facendo costantemente riemergere la fatale contrapposizione fra amico e nemico. Ma, in quanto determinata dalla nuova struttura spaziale, quella contrapposizione non può che configurarsi in una forma, al tempo stesso, antica e del tutto inedita. Una forma in cui l’«umanità» è chiamata a combattere contro i suoi nemici.

D

amiano Palano è professo­ re associato di Scienza politica e insegna presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuo­ re. Tra i suoi lavori: Il potere della moltitudine. L’invenzione dell’inconscio collettivo nella teoria politica e nelle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento (Milano 2002); Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica in Italia (Milano 2005) e Frammenti di potere. Tracce di politica nella metamorfosi dello spazio (Roma 2009). In copertina: Politici del sud, foto di Giovanni Gallo, maggio 2008.