Il mondo dopo la fine del mondo. Facebook, l’arte contemporanea, la filosofia

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TOMMASO ARIEMMA IL MONDO DOPO LA FINE DEL MONDO FACEBOOK, L’ARTE CONTEMPORANEA, LA FILOSOFIA

Tutti i diritti riservati © 2012 et al. S.r.l. via Aristide de Togni 7 – 20123 Milano Prima edizione maggio 2011 ISBN 978-88-6463-076-2 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei titolari dei diritti e dell’editore. Progetto grafico della copertina di Salvatore Gregorietti www.etal-edizioni.it

Sommario

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Premessa

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Introduzione

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parte prima

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L’arte contemporanea come problema filosofico Il paradosso dell’arte contemporanea L’arte il cui essere è sospetto L’arte inesistente e il suo mondo L’arte inesistente e il fascino contemporaneo del vampiro

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parte seconda

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Il lato oscuro di Facebook Bombe H. Facebook e la fine del mondo

Il mondo dell’arte

Il mondo di Facebook

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“Mi piace”. Facebook e il trionfo dell’estetica Aldilà di Facebook Minimalismi Facebook e l’arte contemporanea

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Conclusione

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Ringraziamenti

Premessa

Questo libro nasce da una battuta o, meglio, da una provocazione che, come tante provocazioni, forza a pensare la verità. Questo libro nasce nel momento in cui mi trovo ad ascoltare divertito un filosofo italiano, che ora si è dedicato anima e corpo allo studio dei documenti e delle registrazioni nell’età contemporanea (telefonino, web, iPad). Lo ascolto spiegare come un social network come Twitter non sia niente di “virtuale”, nel senso di irreale o di insignificante, ma che implichi pesanti responsabilità sociali, soprattutto quando chi lo utilizza è un personaggio pubblico. Il filosofo racconta così l’imbarazzante caso del deputato americano Weiner che, nel maggio 2011, ha pubblicato su Twitter delle foto che lo ritraevano nudo. Scoperto da un suo avversario politico, è stato costretto a dimettersi. A conferma che i social network sono una cosa seria, e che non poteva proprio scherzarci sopra.

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Il filosofo, dopo aver dimostrato, con questo breve ma incisivo esempio, quanto desiderava, chiude con un affondo: “Il deputato aveva un solo modo per salvarsi, e cioè sostenere che si trattasse di una perfomance di arte contemporanea!”. È allora che tutti ridono. Rido anch’io, ma subito capisco che invece il fatto è serissimo, filosoficamente parlando. Il filosofo spiritoso aveva, a sua insaputa, mirabilmente individuato due modi assolutamente opposti di mostrare, propri del contemporaneo: uno che afferma che ciò che mostra è davvero ciò che mostra, l’altro che ciò che mostra non è davvero ciò che mostra. In questo libro trasformerò quella provocazione in un vero e proprio principio di analisi: mi concentrerò, dunque, sul fenomeno dell’arte contemporanea e su un social network. Ma non sarà Twitter, bensì Facebook, per la maggiore portata relazionale e sociale di questo network, e per le maggiori implicazioni filosofiche ed estetiche che comporta.

Introduzione

1964, l’anno in cui ci si rese conto che il mondo era finito e altri mondi avevano preso vita

I Beatles arrivano per la prima volta in America. Di lì a poco, le rivolte nei campus universitari avrebbero scosso tutti. È il 1964, e “l’estate della libertà” avrebbe scritto una pagina della storia dei diritti civili. È un anno di inizi, di inneschi. Ma è anche l’anno in cui viene pubblicato il libro di Marshall McLuhan Understanding Media: The Extensions of Man (in Italia tradotto con il titolo fuorviante Gli strumenti del comunicare), destinato ad avere un’influenza planetaria sul nostro modo di considerare i mass media. Nel libro si sostiene che gli strumenti che plasmiamo ci plasmano a loro volta. Ma, soprattutto, che lo sviluppo dei mass media ha generato una sorta di fine del mondo. Scrive: Dopo essere esploso per tremila anni con mezzi tecnologici frammentari e puramente meccanici, il mondo occidentale è ormai entrato in una fase di implosione. […] Dopo tremila

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anni di espansione in ogni settore e di crescente alienazione specializzata nelle innumerevoli estensioni tecnologiche del corpo umano e delle sue funzioni, il nostro mondo, con drammatico rovesciamento di prospettive, si è ora improvvisamente contratto. L’elettricità ha ridotto il globo a poco più che un villaggio.1

“Villaggio globale” sarà il celebre ossimoro di McLuhan. Come si è ridotto il mondo. Un’espressione su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro e su cui non mancano le perplessità. L’antropologo Marc Augé, per esempio, dice che il nostro mondo non ha affatto l’organizzazione spaziale di un villaggio.2 Ma con villaggio globale McLuhan si riferiva al potere di identificazione che prima la consistenza delle distanze rendeva molto difficile. Se viviamo in una sorta di villaggio globale è perché tutti conoscono tutti, ovvero hanno gli strumenti e le informazioni per identificarli. Gli unici che non conosciamo sono gli extraterrestri, ovvero quelli che provengono da un altro mondo. I mass media sono dei potenti strumenti di identificazione dell’altro. Lo includono nel villaggio globale, ovvero in uno spazio circoscritto dai media stessi. Una raggiunta delimitazione del mondo. Una fine mediatica del mondo. Professore di inglese e direttore del Centro per cultura 1  Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964), il Saggiatore, Milano 2002, pp. 9-11. 2  Si veda l’intervista su “la Repubblica”, 27 dicembre 2005, p. 41.

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e la Tecnologia dell’Università di Toronto, McLuhan non si è mai dichiarato ottimista o pessimista. Si è dichiarato, coerentemente, un apocalittico. Mentre viene pubblicato il testo di McLuhan, un professore di filosofia resta folgorato dalla seconda mostra presso la Stable Gallery di un artista allora non ancora divenuto un’icona planetaria. Il professore è Arthur C. Danto, l’artista è Andy Warhol. Warhol espone le sue celebri Brillo Boxes, scatole di prodotti commerciali che difficilmente potevano essere prese in considerazione come arte. Danto pubblicherà poco dopo un articolo sul “Journal of philosophy” intitolato The artworld, il mondo dell’arte. Per comprendere l’arte di Warhol, sostiene il filosofo, bisogna pensarla appartenente a un mondo a parte. Così, mentre McLuhan parlava di una fine del mondo, Danto parlava di un mondo nuovo, un mondo dopo la fine del mondo. Sono sempre le coincidenze a farci pensare. Le cose che accadono nello stesso tempo, gli insoliti legami. L’idea portante del libro che state leggendo nasce perché l’autore ha rilevato una convergenza singolare all’interno della cultura occidentale: due affermazioni che possono sembrare apparentemente contrapposte, ma che, se pensate insieme, disvelano un nuovo modo di comprendere le cose. Questo libro nasce mettendo insieme due ipotesi: se c’è una fine mediatica del mondo, a essa segue anche la nascita di un nuovo mondo, ciò che Danto chia-

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ma “il mondo dell’arte”. Mondo che non sarà certo l’unico. McLuhan e Danto, infatti, da buoni teorici, arrivano a cose già fatte. Se il mondo è finito per mano dei mass media, non è finito certo nel 1964, ma molto prima. E l’arte ha avanzato già il suo “mondo” con Marcel Duchamp, ben prima di Warhol. Nel 1917, sotto falso nome, Duchamp propone per una mostra, con il titolo Fontana, il suo celebre orinatoio, dichiarando, in seguito, che si trattava di un’opera d’arte a tutti gli effetti. Proprio quando, a livello mediatico, si era entrati nell’era dove tutti erano diventati improvvisamente ansiosi che cose e persone dichiarassero totalmente la propria natura.3 La dichiarazione di Duchamp andava ovviamente contro l’identificazione generale promossa dai mass media. Era, piuttosto, una dichiarazione di guerra. Quello che McLuhan e Danto non sanno nel 1964 è che, di lì a poco, nascerà Internet, tecnologia che porterà a compimento la fine mediatica del mondo. E da Internet nascerà il World Wide Web, ovvero un nuovo mondo, accanto a quello dell’arte. Mondo dell’arte e mondo del Web. Due mondi diversi, ma con una medesima origine: la fine del mondo, l’implosione del mondo generata dai mass media. Nuovi mondi, dove non è facile identificare opere e persone. L’espressione mondo dell’arte nasce proprio per spiegare le opere d’arte contemporanea difficili da 3 

Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., p. 12.

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classificare, e un dispositivo come Facebook, oggi, serve proprio per disciplinare il proliferare delle identità virtuali all’interno del mondo del Web. Nel caso dell’arte questa novità è facilmente percepibile. Prima della constatazione di ciò che il filosofo Arthur Danto ha chiamato mondo dell’arte, l’arte esponeva un’epoca del mondo, un’epoca andata e perduta. Era una delle attestazioni della fine di quel mondo. Con mondo dell’arte oggi si intende, invece, un mondo di relazioni sospette, difficilmente circoscrivibile e che costituisce l’aura di alcune opere d’arte contemporanea. Prima le opere d’arte, poi le identità virtuali del Web, ricreeranno altri mondi. Mondi sorti dalla saturazione delle informazioni che ci parlano continuamente del Mondo. Ma questo mondo, proprio perché reso sincronizzato dalle nuove tecnologie di comunicazione, è finito. Che il mondo sia finito non significa affatto che sia cessato. Significa che esso appare totalmente delimitato dai flussi di informazioni, non appare più tanto vasto, non appare più capace di darci dell’altro. Il mondo è finito nel momento in cui si è raggiunta un’equivalenza tra mondo e informazioni sul mondo, equivalenza che porta a compimento la tensione occidentale mirante a far coincidere il mondo con la sua mappa. Il mondo è finito nel momento in cui i suoi oggetti sono stati tutti identificati attraverso codici globali. Il mondo è finito nel momento in cui le percezioni delle distanze spazio-temporali tra questi oggetti sono mutate al punto da rendere poco importante che tali oggetti si trovassero dall’altra parte del mondo. Con lo

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sviluppo dei media di massa, e infine con Internet, le distanze spazio-temporali hanno avuto sempre meno peso, fino a diventare del tutto evanescenti. Con l’aumento della velocità di comunicazione il mondo si è contratto, ma tale contrazione non è stata senza conseguenze. Questa contrazione non è avvenuta da un giorno all’altro, ma fa parte della storia della nostra civiltà e ha subito almeno due grandi accelerazioni. Una prima accelerazione è possibile osservarla dalla seconda metà dell’Ottocento – con l’invenzione della ferrovia, della fotografia, dell’elettricità, del telefono e della radio e di tutti gli altri prodigiosi media che seguirono – fino agli anni sessanta del secolo scorso: si è avuta una vera e propria mutazione nel viaggio di cose, persone, e informazioni di ogni genere, e della loro riproducibilità. Una seconda accelerazione si è avuta proprio a partire dagli anni sessanta con l’invenzione di Internet e con la proliferazione della tecnologia digitale a esso connessa. Dalla prima accelerazione è nato il mondo dell’arte contemporanea, dalla seconda il mondo del Web. È necessario precisare che, quando parliamo di mondo dell’arte contemporanea, non ci riferiamo a tutta l’arte del presente, ma a una specifica forma d’arte che ha un suo proprio mondo e che ha avuto inizio con Duchamp e il Dadaismo, ovvero con ciò che Danto ha chiamato “trasfigurazione del banale”. La nostra ricerca ha come suo primo obiettivo, pertanto, quello di definire l’arte contemporanea per fare emergere il suo mondo.

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Il secondo obiettivo è quello di focalizzarsi su un particolare reagente all’interno del Web, ossia il social network Facebook, per fare emergere, anche qui, un altro mondo nato dalla contrazione mediatica del mondo: il mondo dove, ancora per poco, sarà possibile assumere diverse identità. il mondo e la sua fine

Tra le parole che usiamo di più c’è la parola mondo, tra le cose che certamente preoccupano di più c’è la fine del mondo. Questo libro parte, dunque, dal presupposto che la fine del mondo sia già avvenuta. Un presupposto paradossale e sconcertante, dato che, se la fine del mondo fosse accaduta davvero, questo libro difficilmente vedrebbe la luce. È evidente allora che con fine del mondo non si intende qui la scomparsa della vita umana, la distruzione del nostro pianeta. Con fine del mondo intendiamo una sorta di compimento di ciò che pensiamo e sappiamo del mondo. Perché il mondo è innanzitutto un’idea, una rappresentazione della mente. Una rappresentazione che tutti noi siamo in grado di fare. Che il mondo non sia una cosa, ma sia un che di immateriale può far certo inorridire qualcuno, soprattutto chi ha combattuto i filosofi che negavano una realtà oggettiva delle cose a vantaggio delle interpretazioni. È, questo, per esempio, il caso del filosofo Maurizio

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Ferraris, che non esita a tirar fuori argomenti forti a sostegno della tesi che, indipendente dalle nostre interpretazioni, esista un mondo esterno. Argormenti forti, come un terremoto. Con un terremoto si apre, infatti, il suo libro intitolato proprio Il mondo esterno, dove si legge: a un certo punto, il mondo esterno ha battuto un colpo; la stanza ha cominciato a tremare, sulle prime credevo che fosse un’allucinazione, non mi ero mai trovato nel pieno di un terremoto.4

La sua difesa della realtà delle cose, tuttavia, risulta debole proprio in relazione alla questione del mondo. Perché, se c’è una realtà esterna, indipendente da noi, questa non è ancora ciò che chiamiamo mondo. Per avere il mondo ci vuole altro. Ci vuole un’apertura non immediata, un’idea panoramica, qualcosa che non possiamo percepire come percepiamo un oggetto. La cosa che mi sta di fronte e che mi resiste non è tuttavia il mondo o un mondo. Il mondo è un insieme che, per definizione, non può essere dato tutto insieme. Cosa sia un mondo, o quanti mondi esistano, dipende dalle nostre convinzioni e dai dispositivi che le influenzano. L’idea del mondo è un’idea complessiva che orienta la nostra esistenza e articola il nostro rapporto con le cose. Un’idea che può essere aperta e angosciante perché produce in noi quel sentimento di infinità carico di op4 

Maurizio Ferraris, Il mondo esterno, Bompiani, Milano 2001, p. 16.

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portunità, ma anche di paura e di sospetto. Come ci ricorda Peter Sloterdijk: Il mondo è la circostanza per cui gli uomini capiscono che “ad esso si aggiunge sempre qualcosa” che eccede ciò che c’è lì intorno, ciò che è lì presente, ciò che lì è aperto. […] La rivelazione non è mai piena, e il sospetto nei confronti di ciò che è nascosto, e non si mostra, in principio non si può mai acquietare. Il mondo prende forma come un insieme di evidenza e mascheramento.5

L’idea contemporanea del mondo è certamente molto più rassicurante, benché le insidie non manchino. La rappresentazione del mondo che l’insieme dei mass media contemporanei produce è una rappresentazione che, per citare una provocazione di McLuhan, ci “massaggia”. Per comprendere questo processo di rassicurazione, di eliminazione dei sospetti, rivolgiamo la nostra attenzione all’arte contemporanea e al dispositivo di Facebook: due modi antitetici di porsi di fronte al sospetto.6 L’arte contemporanea, infatti, non fa che alimentarlo, mentre Facebook non fa che ridurlo. Solo se rapportiamo entrambi al problema del so5  Peter Sloterdijk, a cura di, Non siamo ancora stati salvati (2001), Bompiani, Milano 2004, p. 161. 6  Fondamentale per la nostra ricerca è il lavoro di Boris Groys, Il sospetto. Per una fenomenologia dei media (2000), Bompiani, Milano 2010. Le tesi generali, come pure le analisi, soprattutto in merito all’arte contemporanea, sono differenti. Il problema del sospetto, in rapporto alla funzione dei media e alla questione ontologica dell’altro, resta tuttavia il motivo ispiratore di questo libro.

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spetto possiamo comprendere la diffidenza verso la prima e il successo dell’altro. Mentre il mondo dell’arte contemporanea diventa sempre più sospetto, Facebook, invece, sta letteralmente contagiando il mondo del Web, con la sua struttura ordinata e identificante, cioè rassicurante. Il mondo del Web è un mondo vasto e insidioso: vi si trovano truffatori, impostori, pirati informatici, fughe di notizie. Un po’ come nel mondo fisico, con la differenza che non ci sono identità rigide, né potenti dispositivi di identificazione. Facebook vuole essere proprio questo dispositivo, lavorare contro il sospetto. È, pertanto, un particolare reagente all’interno del mondo del Web. Mondo che produce sospetto, che è integralmente costituito dal sospetto. Senza il Web, oggi il reticolo mediale composto da cinema, tv, quotidiani, fotografia, radio dormirebbe sonni tranquilli, avrebbe creato quel perfetto addomesticamento dell’uomo occidentale. Con il Web, con il suo mondo, si va al di là di quel mondo finito, organizzato e narrato dai media di massa. All’interno del Web, Facebook incarna, dunque, una controtendenza. Questo libro vuole, allora, indagare due strategie dell’apparire, due modi differenti di mostrare cose e persone. Due modi differenti di interagire con un mondo di riferimento, ovvero con le incognite che questo mondo pone. Da un lato l’arte contemporanea lavora all’ampliamento del suo mondo, dall’altro Facebook avanza una sorta di tribalizzazione del mondo del web, ovvero un controllo del suo caos.

parte prima

Il mondo dell’arte

L’arte contemporanea come problema filosofico

uno sfregio su uno sfregio

Una tela bianca, con cinque tagli. Che vale almeno nove milioni di euro. L’opera è di Lucio Fontana, esposta nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nel marzo del 2009, mentre veniva spostata per l’organizzazione di una mostra, gli addetti scoprono uno sputo sul vetro che proteggeva la tela. Uno sputo. L’allarme del museo entra in funzione solo quando si superano i quarantacinque centimetri di distanza. E così qualcuno ha sputato, non potendo far di meglio. Per rabbia, irritazione. L’arte contemporanea suscita non di rado gesti di protesta. Secondo una ricerca commissionata dalla stessa Galleria, Lucio Fontana viene percepito dal pubblico come non arte, e nello studio si può leggere di una visitatrice che andrebbe pure sulle barricate per dire che rifiuta Fontana. Ci sono alcuni che capiscono quest’arte, altri che fingono di capirla. Come l’allora ministro della Cultura Sandro Bondi, che nel 2008, in

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un’intervista al settimanale “Grazia”, afferma a proposito dell’arte contemporanea: “se visito una mostra faccio come molti, cioè fingo di capire. Ma sinceramente non capisco”. Molti si sentono presi in giro dall’arte contemporanea e il recente aumento di opere divulgative che la difendono, come Lo potevo fare anch’io. Perché l’arte contemporanea è davvero arte di Francesco Bonami, sortiscono spesso l’effetto opposto. Scrive Bonami partendo da Duchamp e arrivando fino a Fontana e oltre: Marcel Duchamp, il padre di tutte quelle che molti continuano a considerare imposture, credeva fermamente che l’arte è quello che immaginiamo sia arte. La sua prima grande provocazione, nel 1917, fu di presentare in una galleria un orinatoio capovolto, intitolandolo Fontana, e firmandolo con lo pseudonimo R. Mutt. Fu divorato vivo, ma innescò una rivoluzione. Il pisciatoio di ceramica bianco era veramente arte? Forse no. Artistica, geniale, liberatoria, sovversiva, fu l’idea, e questo basterebbe, e bastò, a farlo diventare arte. Prendiamo il taglio o il buco sulla tela di Lucio Fontana: una trovata, un semplice gesto, o un capolavoro? Un capolavoro. […] Certo, mettere le nostre feci in un barattolino può sembrare una cosa sciocca e infantile, per quanto necessiti di grande precisione, ma l’artista Piero Manzoni voleva dirci che essere artisti significa trasformare tutta la propria vita in arte, comprese le proprie scorie.1

Francesco Bonami, Lo potevo fare anch’io. Perché l’arte contemporanea è davvero arte, Mondadori, Milano 2007, pp. 13-14. 1 

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L’unico argomento dell’autore, alla base di tutti i suoi numerosi esempi, è che la caratteristica dell’arte contemporanea sia quella di esporre delle idee il cui merito maggiore non sta nello spessore dell’idea, ma nella sua tempistica. All’esclamazione del visitatore “Lo potevo fare anch’io!”, l’artista risponderebbe vittorioso “Sì, ma l’ho fatto prima io!” Il che non ci fa uscire, ovviamente, dall’equazione arte contemporanea = fregatura. E rende possibili, così, dichiarazioni simili a quella di Sandro Bondi, alla quale proprio Bonami ha risposto crudelmente: “Sembra che Bondi si sia addormentato nel 1895, quando fu lanciata la biennale, e risvegliato nel 2008”. La verità è che non è solo il ministro a essersi addormentato, a questo punto, e del resto il libro di Bonami, uscito nel 2007, non ha cambiato di molto la percezione dell’arte contemporanea. Sul sito del “Corriere della Sera”, nella pagina dell’articolo che racconta lo sputo a Fontana, i commenti degli utenti sono estremamente interessanti. Vale la pena di riportare l’ironico commento di Kiarag: Il visitatore, sicuramente esperto di arte moderna, in quanto ha volontariamente pagato un biglietto per entrare alla mostra, ha voluto esprimere il suo tormento interiore nel vedere una tela squarciata. È un gesto in cui vedo tutta la potenza di un sentimento che vuole andare al di là della semplice ammirazione dell’opera, ma vuole interagire con essa, andare oltre la visione e arrivare all’interazione. È difficile spiegarlo con così poco spazio a disposizione, ma lo sputacchiatore è un genio dell’arte, chi dice il contrario si vada a vedere Sanremo. Consiglierei ai curatori della mo-

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stra di conservare l’opera così com’è con tanto di sputo, perché se battuta all’asta, altro che nove milioni! Sbanchiamo del tutto, più di quel tizio che mette animali interi sotto formaldeide (che schifo!).2

per una definizione filosofica dell’arte contemporanea

Se diamo ragione a Bonami, il commento dell’utente dovrebbe essere preso sul serio e non con ironia, e lo sputo non essere tolto, ma diventare parte dell’opera d’arte, se non opera d’arte a sua volta. Del resto, l’ha fatto prima di tutti, è venuto in mente prima a lui! Il ragionamento di Bonami, secondo cui “L’importante è pensare, in ogni caso e possibilmente prima degli altri, la cosa giusta, al momento giusto”3 non coglie, a nostro parere, il vero merito dell’arte contemporanea. Dato che il suo testo ha un intento divulgativo e dovrebbe invitare i “distratti ai lavori”, come vengono definiti, a cogliere il valore dell’arte contemporanea, non si può non rilevare che il risultato ottenuto può essere davvero l’opposto. Forse per tale motivo la storica dell’arte Angela Vettese nel suo studio Si fa con tutto. Il linguaggio dell’arte contemporanea intitola il primo capitolo “L’idea non basta” e la tesi che porta avanti appare come un’implicita 2  http://www.corriere.it/dilatua/Primo_Piano/Cultura/2010/ 02/21/quello-sfregio-ai-tagli-di-fontana-quando-l-arte-suscita-rabbiapaolo-conti_full.shtml. 3  Francesco Bonami, op. cit., p. 13.

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polemica nei confronti della tesi di Bonami. Scrive a proposito di Beuys: Quando, nella perfomance I Like America and America Likes me (1974), Joseph Beuys si mise letteralmente in gabbia insieme a un coyote, coperto solo da un drappo di feltro e difeso da un bastone di rame, stava rievocando la vicenda di san Francesco con il lupo e ogni rapporto con un nemico potenziale, che può diventare amico solo se ci si impegna a mutare questa relazione con tolleranza e pazienza. Ma per raggiungere un tale significato metaforico, l’artista tedesco ha dovuto trovare un coyote (non si può dire “mi dia un coyote, per piacere”), creare una gabbia dentro a una galleria, studiare le possibilità di riuscita dell’esperimento, cioè di uscirne vivo, allenarsi a resistere alla paura, all’isolamento, ai bisogni fisici, allo sguardo degli altri. Chi voglia comprendere le implicazioni deve entrare nel suo processo costitutivo e chiedersi come funziona.4

Tuttavia, anche qui, nell’utile rassegna di casi esemplari dell’arte contemporanea, non si riesce a cogliere pienamente la caratteristica di tale arte. La nostra indagine, invece, affronta l’arte contemporanea come questione prettamente filosofica. Proprio perché la sua esperienza suscita spesso la domanda “è arte?”, l’arte contemporanea pone innanzitutto una questione ontologica, cioè filosofica nel senso più classico del termine. E, non di secondaria importanza, pone un mondo. Angela Vettese, Si fa con tutto. Il linguaggio dell’arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 3-4. 4 

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A proposito di termini, la questione dell’arte contemporanea si pone già a partire dal suo nome. Cominceremo proprio da qui, perché, se non ci interessa tanto capire se l’arte contemporanea sia buona o cattiva, ci preme subito dire che il termine arte contemporanea, da un punto di vista strettamente filosofico, è pessimo.

Il paradosso dell’arte contemporanea

non è un gioco da ragazzi

La questione che intendiamo affrontare ha l’aspetto di un gioco da bambini: si tratta di mettere alcune cose all’interno di un contenitore. Il contenitore in questione è l’arte contemporanea e le cose sono delle opere d’arte. Quali arti metteremo in questo contenitore? La risposta non è affatto semplice. Per complicare ancor di più le cose, partiremo da una scritta al neon apparsa recentemente sulla Galleria degli Uffizi di Firenze: “All art has been contemporary”. Tutta l’arte è stata contemporanea. In un certo senso è vero, ma in un altro senso no. In base a tale scritta, dovremmo mettere almeno tutta l’arte che viene proposta oggi. Tutta. Ma alla domanda che vi chiede di includere, nel gruppo di ciò che si chiama arte contemporanea, un concerto di musica rock, la risposta si fa certo attendere.

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Se la domanda è stata posta a un direttore di un museo di arte contemporanea, aspettatevi una risata o un volto nervoso. La risposta sarà, ovviamente, no. La scritta in questione è un’opera d’arte, un’opera di arte contemporanea dell’artista Maurizio Nannucci. Contemporanea non solo nel senso che è recente, ma nel senso che appartiene a un determinato gruppo di opere che porta il nome di arte contemporanea. Il contenitore da cui siamo partiti, ovvero il contenitore arte contemporanea contiene al suo interno un sottoinsieme che si chiama arte contemporanea. Il che genera ovviamente dei paradossi e diverse difficoltà di approccio. Cosa si intenderà, allora, per arte contemporanea? L’economista Donald Thompson, a cui si deve un pregevole libro sull’economia dell’arte contemporanea, mette in evidenza la difficoltà di rispondere alla domanda sulla sua definizione: “In realtà la domanda ne contiene due: cosa è contemporaneo, e cosa è arte. Rispondere alla prima domanda è molto più semplice, ma anche su quello manca un’opinione condivisa”.1 La sua soluzione, alla base del suo libro, è duplice: “l’arte contemporanea è non tradizionale ed è nata dopo il 1970”, oppure è ciò “che un’importante casa d’aste vende come ‘arte contemporanea’”.2 Thompson, per quanto sembri considerare diverse opzioni, non mette adeguatamente in evidenza che per arte contemporanea si intende qualcosa di esclusivo, al 1  Donald Thompson, Lo squalo da 12 milioni di dollari (2008), Mondadori, Milano 2009, p. 14. 2  Ivi, p. 15.

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di là delle questioni di datazione: i romanzi o il cinema di Hollywood sono, infatti, implicitamente esclusi. Con arte contemporanea si intende spesso, allora, un campo più ristretto e problematico rispetto a ciò che possiamo intendere con arte contemporanea in senso ampio e storico. C’è una difficoltà nella definizione, difficoltà che provoca a sua volta difficoltà nella percezione delle opere stesse. Perché la percezione si fonda sempre anche su ciò che si sa, su ciò che si dice. Non si dà percezione, per noi, senza una miscela di corpi e linguaggio. La percezione è associata sempre a una retorica, ossia a dei termini e degli enunciati archiviati da una cultura, all’interno della quale gli uomini pensano e parlano. Non esiste percezione “muta”, non esiste percezione umana senza teoria. Cogliere un’opera d’arte, come vedremo nel corso della trattazione, richiede una percezione dove l’occhio e l’orecchio, da soli, sono insufficienti. Per tale motivo è importante fare questione del termine arte contemporanea: per percepire meglio tale arte. l’arte contemporanea come genere d’arte

Per superare le difficoltà di individuazione dell’arte contemporanea consideriamo importante e utile la proposta della sociologa Nathalie Heinich, volta a individuare in ciò che si chiama arte contemporanea, in senso stretto, un particolare genere di arte, e non già un momento della sua evoluzione. Secondo la sociolo-

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ga, per arte contemporanea si deve intendere qualcosa di molto preciso, il cui valore artistico non sta più nell’oggetto proposto, ma nell’insieme delle mediazioni possibili tra l’artista e lo spettatore: racconti sulla fabbricazione dell’opera, leggende biografiche, tracce di performance, reti relazionali, groviglio di interpretazioni, pareti di musei chiamate a integrare oggetti che la violentano, tutto ciò contribuisce a creare l’opera tanto quanto la materialità dell’oggetto, se non di più.3

Il suo valore artistico riguarda un certo mondo. Tuttavia la proposta non esce dal paradosso, come Heinich stessa ammette, perché mantiene il termine intatto: arte contemporanea. Termine che, come abbiamo visto, genera subito delle incomprensioni. Per superare definitivamente la questione qui si propone, innanzitutto, un cambiamento del nome: anzi, a rigore, un vero e proprio nome d’arte. La chiameremo arte inesistente. Consapevoli che non sarà facile far adottare tale nome da un giorno all’altro, in queste pagine si difenderanno almeno le ragioni per cui l’espressione arte inesistente sia adeguata per ciò che viene chiamato oggi arte contemporanea in senso stretto e per accedere al suo mondo. Tra i compiti che vengono assegnati al filosofo da Platone, nel Cratilo, c’è quello di vegliare sui nomi dati 3  Nathalie Heinich, Per porre fine alla polemica sull’arte contemporanea, in Federico Ferrari, a cura di, Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo, Bruno Mondadori, Milano 2007, p. 65.

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alle cose. Un compito non da poco, visto che, al mutare dei nomi, anche le cose vengono percepite diversamente. È bene precisare subito che per arte inesistente non si intende un’arte che non esiste, ma quell’arte che ha un grado talmente basso di esistenza, da farci sospettare che non si tratti di arte. Con inesistenza, in questo caso, non si intende, dunque, un’inesistenza radicale, ma un grado minimo di esistenza artistica. Una cosa esiste in massimo grado in virtù delle relazioni che intrattiene con il già noto e identificato.4 Diviene inesistente se queste relazioni si interrompono o mutano in modo considerevole. L’arte inesistente è quell’arte che ha alterato in modo considerevole i rapporti con tutte le altre arti, al punto da farci sospettare del suo essere arte. Un’arte che si presenta senza lo splendore caratteristico dell’arte del passato. Essa rinuncia, infatti, al modello del genio, che aveva come effetto immediato quello di sottrarsi a ogni sospetto. L’arte inesistente sceglie soprattutto la libertà rispetto alla maestria dell’artista del passato. Damien Hirst, indiscusso protagonista di questo genere d’arte contemporanea, su questo punto è chiarissimo: Non penso sia normale per un trentenne venirsene fuori subito con grandi sculture del xx secolo. Non credo nel genio, ma credo nella libertà. Non penso di essere stato così bravo, 4  Per i concetti di inesistenza e di esistenza, in questo senso, si veda in particolare Alain Badiou, Secondo manifesto per la filosofia (2008), Cronopio, Napoli 2010.

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non ci credo. […] Non penso che gli artisti siano persone speciali. Secondo me sono persone normali che riescono a mettere a fuoco delle cose importanti per tutti.5

Se tale arte ha allora una potenza, questa consiste nella paradossale potenza che proviene dall’“avere una privazione”,6 secondo la quale potente non è solo ciò che si mostra integro e invincibile, ma anche ciò che si mostra estremamente fragile e precario. Il che spiega anche il bianco dominante, apparentemente neutrale, delle pareti dei musei di arte contemporanea. Lo spettatore non è più lì per ammirare, ma per cercare. Come se ci fosse stata una valanga di neve e ci fossero fortunati sopravvissuti. Come fa notare Danto, una tale arte “non è più fatta per essere soprattutto guardata. Forse scrutata, ma non soltanto guardata”.7 Inoltre, poiché l’esposizione di tale arte rientra in un porre come importante qualcosa che secondo il già noto non lo è, allora la produzione del sospetto è inevitabile. Come giustamente fa notare Groys, quando ciò che non è importante […] sembra trionfare su ciò che è importante, allora, secondo l’opinione generalmente diffusa, ci sono di mezzo intrighi segreti, ossia un 5  Damien Hirst e Gordon Burn, Manuale per giovani artisti (2001), postmedia books, Milano 2004, p. 203. 6  Su tale concetto si veda Giorgio Agamben, La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vincenza 2005, p. 276. 7  Arthur C. Danto, Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia (1997), Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 17.

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esercizio nascosto del potere e soprattutto denaro, molto denaro”.8

Non solo gli spettatori, ma anche coloro che acquistano un tale genere d’arte sono colpiti dal sospetto. Nel suo romanzo Al limite della notte, lo scrittore Michael Cunningham riproduce delle dinamiche tipiche del mercato dell’arte contemporanea. Il protagonista è un gallerista che deve affrontare spesso, come molti suoi colleghi, il disagio di un collezionista che ha provato a portare un’opera d’arte inesistente nella sua abitazione. Una riflessione all’interno del romanzo è certo degna d’attenzione: Non c’è gallerista a New York, o altrove, che non abbia ricevuto qualche variazione sul tema di questa telefonata: nella galleria era splendido, ma adesso, nel nostro soggiorno, è del tutto fuori luogo. […] La maggior parte dei colleghi di Peter dà perlopiù la colpa alle stanze, e Peter li capisce – le stanze non solo sono pacchiane e sovraccariche, ma recano anche quella tipica impronta del conquistatore, e il quadro o la scultura vi entrano solitamente come l’ultima preda.9

L’arte inesistente è un’arte che non è facilmente oggetto di preda e si sottrae a diventare un altro pezzo di arredamento. Si sottrae al design. Non ha nemmeno quell’autorevolezza per cui avrebbe il potere di riorganizzare gli altri oggetti di arredo intorno a sé. Boris Groys, Il sospetto, cit., p. 8. Michael Cunningham, Al limite della notte (2010), Bompiani, Milano 2010, pp.184-185. 8  9 

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È un’arte che si sottrae alle logiche della proprietà, indicando piuttosto una cultura del mezzo di espressione e della profanazione, radicalmente altra rispetto alla tradizionale sacralizzazione dell’arte. In fondo, le opere d’arte inesistente evocano le caratteristiche di Bartleby, lo scrivano protagonista del celebre racconto di Melville, che, a un certo punto, decide di non svolgere più il suo lavoro, opponendo un modo di fare che il suo datore di lavoro non riesce a identificare. Come Bartleby, queste opere hanno spesso un aspetto comune, banale e insieme un’identità sospetta che spinge a cercare le ragioni della loro anomalia. Non è un caso, allora, che il poeta Charles Simic, quando scrive delle pagine intense sull’artista Joseph Cornell, che “non sapeva disegnare, dipingere o scolpire, eppure era un grande artista americano”,10 immagina che l’artista avesse la stessa espressione del “Bartleby di Melville il giorno in cui decise di interrompere il lavoro per fissare il muro cieco fuori della finestra del suo ufficio”.11

10  Charles Simic, Il cacciatore di immagini (1992), Adelphi, Milano 2005, p. 40. 11  Ibidem.

L’arte il cui essere è sospetto

l’arte inesistente e la sua percezione

“Forse la neve aiuta – a capire cos’è la percezione.” Così scrive Grünbein nel suo poema su Cartesio.1 L’ipotesi è molto suggestiva, ma resterebbe ancora all’interno di una percezione troppo semplice, di una percezione minimale. Forse proprio l’esperienza dell’arte inesistente può essere molto meglio della neve, per comprendere la percezione umana. Forse, addirittura, perché è più fredda. Anche se si moltiplicano mostre e biennali, la partecipazione che tale arte sembra richiedere è ben poca cosa rispetto a un concerto rock o a un film pensato per il vasto pubblico. Una tale forma d’arte permetterebbe di capire che la percezione è un fatto complesso e per molti versi irriducibile, perché implica la questione, insidiosa, dell’altro. Durs Grünbein, Della Neve ovvero Cartesio in Germania (2003), Einaudi, Torino 2005, p. 9. 1 

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La questione dell’altro non potrebbe essere che insidiosa. Cos’è l’altro se non ciò che si aggiunge, ciò che si intromette, l’insidia stessa? La filosofia contemporanea ha posto spesso al centro della sua riflessione l’altro. Ma lo ha trattato anche con un certo buonismo, come se l’altro fosse sinonimo di buono, vero ed eterno. Come se fosse l’Altro, Dio stesso. L’opera d’arte ha presentato, fin dalle sue prime manifestazioni, delle sfide alla percezione. Ha mostrato innanzitutto che gli esseri umani sono capaci di una sorta di percezione estesa, non riducibile alla semplice percezione di forme e colori. Gli esseri umani colgono dell’altro in ciò che si mostra. Ai tempi di Platone questo altro che si poteva cogliere era qualcosa di sospetto. Ma, con l’evolversi della cultura occidentale, tale sospetto è stato sostituito integralmente da un processo di identificazione e di disciplinamento dell’arte stessa, capace di gustarla. Di non sospettarne più. L’opera d’arte inesistente ha, allora, il merito di aver riportato alla luce il carattere sospetto dell’altro che veniva percepito nell’opera. Ha risvegliato, così, la natura insidiosa della percezione stessa. Cosa percepiamo, infatti, nell’opera d’arte inesistente se non in primo luogo, una cosa sospetta, una cosa non ben identificata?

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la percezione estesa dell’opera

A parlare di percezione estesa, a proposito dell’arte contemporanea, è Arthur Danto.2 Fin dal suo primo articolo di rilievo in materia di filosofia dell’arte, ovvero Il mondo dell’arte, Danto pone un problema percettivo, a partire dall’esperienza delle Brillo Boxes di Warhol: delle scatole di compensato del noto prodotto commerciale senza particolari differenze visibili rispetto all’oggetto comune. Riflettendo su tale esperienza egli afferma: vedere qualcosa come arte richiede un elemento che l’occhio non è in grado di esplicitare – uno sfondo di teoria artistica e una conoscenza della storia dell’arte: un mondo dell’arte”.3 Per cogliere qualcosa come opera d’arte è necessario, dunque, una percezione estesa, ovvero la percezione non solo dell’oggetto, ma di un mondo intorno all’oggetto. Una percezione che coglie l’altro, qualcosa di invisibile come un’anima. Per chiarire ancora meglio tale concetto, Danto fa spesso l’esempio delle persone di colore e del razzismo. Una percezione minimale si soffermerebbe solo su ciò che l’occhio può cogliere per distinguere due persone: il colore della pelle, a questo punto, sarebbe rilevante. Ma, in tal modo, non si coglierebbe l’altro. Si tratterebbe di un modo assai limitato di percepire. 2  Si veda Arthur C. Danto, La storicità dell’occhio, Armando, Roma 2007, p. 123. 3  Id., Il mondo dell’arte, in “Studi di Estetica”, n. 27, 2003, p. 79.

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Le opere di quell’arte che chiamiamo inesistente, invece, stimolano a percepire, più di altre opere, in modo esteso. Molto spesso forme e colori, tecniche e dimensioni, affollano la nostra percezione minimale e non ci permettono di percepire in modo esteso. Un quadro eseguito con superba maestria attirerebbe la nostra attenzione principalmente su quest’ultima celandoci la sua anima, ovvero quell’atmosfera che rende quell’oggetto un’opera d’arte. arte e medium

L’altro che percepiamo nell’arte inesistente è intensificato dalla sua radicale dissomiglianza dalle opere d’arte del passato. Per arte inesistente si deve intendere, infatti, quell’arte la cui identità con l’arte (così come è stata considerata) è minima. Una delle ragioni di tale identità minima è il rapporto con il medium di riferimento. L’arte inesistente si caratterizza per il fatto di non avere specifici vincoli mediali.4 Si prenda il caso del celebre “squalo” di Damien Hirst. Come osserva Warburton: The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living di Damien Hirst consiste in uno squalo tigre morto collocato in una grande vasca di vetro e acciaio, sospeso in una so4  Su questo si vedano i fondamentali studi di Rosalind Krauss, in particolare Reinventare il medium (2004), Bruno Mondadori, Milano 2005.

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luzione al cinque per cento di formaldeide. In quest’opera, a parte il titolo, c’è poco che la distingua da un esemplare zoologico, che potrebbe altrettanto opportunamente essere esposto in un museo di storia naturale. L’elemento principale dell’opera – lo squalo – non è stato alterato in modo visibile, ma è semplicemente un grosso animale morto, e la vasca non ha nulla di particolare. Ciononostante è stato accolto come un’opera d’arte importante, una delle opere principali di uno degli artisti britannici di maggior successo degli ultimi tempi. Come molta arte di Hirst, quest’opera esamina alcuni aspetti della nostra relazione con la morte, sia attraverso le implicazioni metaforiche, suggerite dal titolo, sia per il fatto di metterci in contatto immediato con un vero animale morto. Il soggetto è tradizionale. Il medium non lo è.5

L’arte inesistente non ha un medium di riferimento fisso, ma può adottare ogni volta come medium oggetti comuni, corpi viventi, materiale organico ecc. Questa vera e propria inclusione generalizzata dei media più differenti è una risposta a quella cattura del quotidiano operata dai mass media e che ha la sua origine con la diffusione della fotografia. La trasfigurazione dell’oggetto comune operata dall’arte inesistente sarebbe incomprensibile se non la misurassimo con la trasfigurazione mediatica del reale operata dai mass media. Dove c’è una identificazione crescente a opera dei media, l’arte inesistente oppone una disidentificazione. Nigel Warburton, La questione dell’arte (2003), Einaudi, Torino 2004, pp. 75-76. 5 

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Proprio per il suo molteplice rapporto con i media, l’arte inesistente è anche una riflessione critica sul medium, una vera e propria mediologia dell’arte, come ha giustamente sottolineato Régis Debray, a proposito di Duchamp: Nei fatti, e per il suo lavoro, è Duchamp che ha inaugurato la mediologia dell’arte. […] Mi domandate un’opera d’arte? Ecco, prendete questo orinatoio, mettetelo nel museo, e guardatevi bene dentro: è uno specchio. Vi scoprirete che un museo è un accumulo di indici puntati: “Attenzione: questo è da vedere”.6

Con l’avvento dell’arte inesistente si è spesso sostenuto che ogni cosa possa diventare un’opera d’arte. Il che non è del tutto vero. In questo modo si confonde arte e mezzo di espressione. Il medium di riferimento per un artista, infatti, non esaurisce la sua arte, poiché quest’ultima è invece la capacità di conferire esistenza artistica a un medium. Tradizionalmente, l’arte viene identificata per il suo medium principale (ciò che chiamiamo medium di riferimento) che organizza gli altri media. La pittura, per esempio, è il medium di riferimento, che consiste nell’organizzazione, a sua volta, di altri media, come il colore a olio o l’acquerello. Quando identifichiamo un’opera di Francis Bacon come pittura, ci stiamo muovendo in questa direzione. La storia dell’arte si è organizzata come storia della Régis Debray, Vita e morte dell’immagine (1992), il Castoro, Milano 2010, p. 100. 6 

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pittura, della scultura, della fotografia, del cinema ecc, perché l’arte era facilmente identificabile con il suo medium di riferimento. In questo senso un autorevole storico come Gombrich è in errore quando sostiene che “non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti”7, perché la storia dell’arte si è organizzata, strategicamente, intorno all’aspetto più comune tra Caravaggio e Lucian Freud, ovvero il medium di riferimento (la pittura in questo caso), per poter avanzare innanzitutto una continuità, necessaria a una narrazione teorica. Per quanto riguarda ciò che chiamiamo arte inesistente, la prima conseguenza dell’apertura mediale è la sua pluralità e differenziazione interna. L’arte inesistente, infatti, non si distingue solo dalle altre arti in modo radicale, ma ciascuna forma di arte inesistente si differenzia dall’altra altrettanto radicalmente. L’enorme varietà mediale contribuisce all’oscurità di tale forma d’arte, perché la rende meno tradizionale. Diventa difficile orientarsi. Come se ci trovassimo in un mondo nuovo e inesplorato. la bellezza dell’arte inesistente

Ciò che rende l’arte inesistente difficilmente identificabile come arte è anche il suo rapporto con la bellezza. Perché si prentende che quest’ultima debba essere Ernst Gombrich, La storia dell’arte (1950), Phaidon, London 2008, p. 21. 7 

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chiara, immediatamente percepibile e che sia necessariamente contenuta nell’oggetto artistico, come se fosse una delle sue proprietà. Altrimenti l’espressione “belle arti” non avrebbe senso. Invece, proprio nell’arte inesistente sembra avanzare il disgustoso, l’orrido, il traumatico piuttosto che lo splendore dell’armonia. Ma trovare un’opera brutta vuol dire implicitamente che non è arte. Allora, se l’arte inesistente ha un merito, questo è possibile rintracciarlo proprio nel difficile rapporto che intrattiene con la bellezza. Una delle grandi conquiste dell’arte inesistente, infatti, è di aver separato arte e bellezza.8 Il che non significa ovviamente che tale arte sia necessariamente brutta. Piuttosto essa svela una proprietà fondamentale della bellezza, ovvero quella di non appartenenere ad alcun oggetto, in modo necessario, né di essere una questione meramente soggettiva. La bellezza non è una proprietà delle cose, ma una possibilità delle cose. Ha luogo nella relazione con gli uomini e, pertanto, ha più le caratteristiche di un’atmosfera, di una variazione climatica. La nostra posizione può sembrare simile a quella avanzata da Danto nel suo L’abuso della bellezza. Da Kant alla Brillo Box (2003), postmedia books, Milano 2008, ma se ne discosta sensibilmente, poiché, per quest’ultimo, l’abbandono della bellezza, proprio dell’arte contemporanea, implica comunque una padronanza della bellezza, anche se in modo negativo. La nostra tesi, invece, è che la bellezza non è una proprietà dell’oggetto. Nessun artista può conferire necessariamente una bellezza all’opera, perchè la bellezza è di carattere relazionale. Appartiene piuttosto al “mondo”, così come è stato da noi inteso. 8 

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Diremo piuttosto che la bellezza è una proprietà del mondo, intendendo per mondo ciò che non è riducibile all’oggetto o al soggetto. Poiché un’opera d’arte è sempre un oggetto candidato all’apprezzamento, la non conformità estetica dell’opera d’arte inesistente ci dice implicitamente che, se apprezziamo quest’arte, se la troviamo bella, allora bello si dice di molte cose, molte di più di quelle che credevamo. Nella nostra introduzione abbiamo parlato della fine del mondo, ovvero della contrazione del mondo per mezzo dei mass media. La fine del mondo implica anche, necessariamente, una fine della bellezza, nel senso che l’intensificazione dell’azione dei mass media produce anche una limitazione della bellezza stessa: canoni meno numerosi e sempre più diffusi, come la diffusione della chirurgia estetica attesta. L’arte inesistente ha il merito allora di produrre altra bellezza, proprio perché implica un altro mondo. Un mondo dell’arte.

L’arte inesistente e il suo mondo

arte e non arte

Se il termine arte inesistente ci libera dal paradosso generato dal termine arte contemporanea, non ci fa uscire, come dimostreremo, dall’intrinseca paradossalità di tale arte e, in generale, di ogni opera d’arte. Se sappiamo adesso individuare meglio questa arte particolare, quello che individuiamo è ancora qualcosa di paradossale. Ma questa volta tale paradossalità ci avvicina alla paradossalità di ogni opera d’arte e dunque, paradossalmente, rispetto alle altre arti essa mostra una continuità e perfino una coerenza. Spesso si tende a considerare ciò che chiamiamo arte inesistente come una forma eccezionale di arte. Ciò che qui si sostiene è diverso. L’arte inesistente si comporta come altre forme d’arte. Ovviamente con delle differenze rilevanti. L’arte inesistente sarebbe quell’arte che incontra la non-arte al punto da farci sospettare che si tratti ancora di arte. L’arte inesistente è, dunque, quell’arte nei cui confronti poniamo la seguente domanda: “è arte?”, piuttosto che “è bella?”.

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Tuttavia sarebbe un errore ritenere, come fanno molti, che solo quest’arte intrattenga un rapporto con la non-arte. In questo senso, un artista come Tony Cragg risulta essere molto ingenuo quando sostiene il suo rapporto con la non-arte come se fosse un’esclusiva del contemporaneo. Partendo dal celebre orinatorio di Duchamp, sostiene: Chiaramente esso rappresentò uno shock per la società borghese di quegli anni; ma bisogna anche tenere presente che, all’inizio del nostro secolo, il mondo della non-arte era ancora molto vasto. E quel processo, che io chiamo nominativo, è l’atto di “nominare” oggetti, materiali, metodi che appartengono al mondo della non-arte, per trasferirli nel mondo dell’arte. Nel xix secolo erano davvero pochi i materiali utilizzati in scultura; infatti, le sculture erano, tradizionalmente, di gesso, di legno, marmo e bronzo. Dopo cento anni di nominazione, sappiamo di poter fare scultura con tutto, dagli escrementi all’oro – a questo punto risulta, anzi, difficile pensare a una materia che non sia stata usata. Il mondo della non-arte si è dunque molto ridotto e ora corrisponde esattamente al mondo dell’arte – essi sono diventati quasi sovrapponibili.9

L’atteggiamento di Cragg, come si è detto, è molto ingenuo, perché crede che la non-arte sia solo un differente “materiale” da utilizzare. L’arte, almeno ogni forma d’arte occidentale, per essere tale deve necessariamente mostrarsi anche come Tony Cragg, La parola e la forma. Scritti di Tony Cragg, Diabasis, Reggio Emilia 2008, p. 135. 9 

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non-arte. Come ha messo bene in evidenza il filosofo Boris Groys: Una prassi artistica viene riconosciuta come tale se è paradossale. Se un’arte sembra arte non vale come arte, ma come kitsch. Se l’arte sembra non-arte, essa è semplicemente non-arte. Al fine di essere riconosciuta come tale, l’arte deve contemporaneamente sembrare e non sembrare arte.10

Questa tesi, che potrebbe sembrare solo molto contemporanea, è condivisa anche da quei teorici dell’arte che nel Settecento hanno ricercato i fondamenti delle belle arti. Tra tutti, Immanuel Kant. Quando, infatti, si tratta di stabilire in che modo l’arte bella si differenzi dall’artigianato, il celebre filosofo sostiene: Di fronte a un prodotto dell’arte bella bisogna diventar consapevoli che è arte e non natura, ma la finalità della sua forma deve tuttavia sembrare così libera da ogni costrizione di regole arbitrarie come se fosse un prodotto della mera natura. […] Dunque, la finalità nel prodotto dell’arte bella, benché sia intenzionale, deve sembrare non intenzionale; vale a dire, l’arte bella deve poter essere guardata come natura, benché si sia consapevoli del fatto che è arte.11 10  Boris Groys, Post scriptum comunista (2006), Meltemi, Roma 2008, p. 80. 11  Immanuel Kant, Critica della capacità di giudizio (1790), bur, Milano 2004, p. 425.

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Come si può notare, le belle arti devono necessariamente mostrarsi anche come non-arte se vogliono essere apprezzate adeguatamente. capovolgimento del rapporto tra arte e non-arte

Lungi dall’essere esclusiva di ciò che nel Settecento si è chiamato belle arti, il rapporto con la non-arte è una caratteristica di ogni forma d’arte. Si pensi all’arte medioevale, dove il pittore doveva esprimere l’alterità divina, far figurare il Cristo, e dunque quanto più l’arte lasciava intravedere l’artista, tanto più non rivelava il divino. Ars est celare artem (l’arte è celare l’arte) è la celebre locuzione latina il cui senso profondo indica proprio la manifestazione paradossale di ogni opera d’arte. L’arte, nella sua manifestazione, deve cedere posto alla non-arte. Solo il mito di un’arte pura o autonoma ci vieta di pensare la natura più autentica dell’arte. Il celebre critico d’arte Clement Greenberg, con la sua teoria dell’arte modernista, ha dato un considerevole contributo a tale mito, credendo nella possibilità di raggiungere una purezza e un’autonomia dell’arte attraverso la padronanza dei suoi mezzi espressivi. Nel saggio Pittura modernista del 1961 così espone la sua tesi: “L’arte realistica e naturalistica aveva dissimulato i mezzi espressivi, usando l’arte per celare l’arte; il modernismo usava l’arte per richiamare l’attenzione sull’arte”.12 12  Clement Greenberg, Il trionfo del modernismo e della pittura americana, in Giuseppe Di Giacomo e Claudio Zambianchi, a cura di, Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 85.

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Secondo Greenberg, la pittura dell’espressionismo astratto, che rinunciava alla tridimensionalità (caratteristica della scultura), mettendo quindi in evidenza la piattezza della superficie che è propria della pittura, raggiungeva la purezza del proprio campo espressivo. A ragione il filosofo Jacques Rancière si è scagliato contro questa idea dell’arte, mettendo in luce le contraddizioni che emergono proprio dalla centralità della piattezza in pittura. Come giustamente afferma: La piattezza pittorica non è mai stata sinonimo di autonomia dell’arte. La superficie piana è sempre stata una superficie di comunicazione in cui le parole e le immagini scivolano le une sulle altre. La rivoluzione antimimetica non ha mai significato l’abbandono della somiglianza.13

Come ogni forma d’arte, l’arte inesistente non si sottrae al rapporto con la non-arte, ma lo rovescia anche. Nel senso che la frase di Kant, prima citata, per l’arte inesistente vale esattamente al contrario. Diremo allora, invertendo Kant, che l’arte inesistente è ciò che deve poter essere considerata arte, quando siamo consapevoli che non lo è. L’arte inesistente interverrebbe nel nostro modo di intendere l’arte, farebbe passare un che di inesistente, come se i suoi oggetti provenissero da un altro mondo. Un mondo dell’arte.

Jacques Rancière, Il destino delle immagini (2003), Pellegrini, Cosenza 2007, pp. 150-151. 13 

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l’arte inesistente e il suo mondo

Con l’espressione mondo dell’arte a torto è stato inteso una sorta di mondo separato e chiuso, fatto di critici, galleristi, direttori di museo, vari addetti ai lavori, che controllerebbero l’arte e soprattutto il suo mercato. In realtà, come confessa candidamente uno dei maggiori teorici di tale mondo, ovvero il filosofo George Dickie – padre della “teoria istituzionale dell’arte” –, la teoria di un tale mondo nasceva per spiegare proprio ciò che chiamiamo arte inesistente, l’arte il cui essere arte è sospetto. Come, infatti, afferma: La teoria istituzionale è stata avanzata per la prima volta, in ossequio e con l’ausilio de Il mondo dell’arte di Arthur Danto, come un modo per conferire senso al dadaismo e ad altri strani tipi di arte della nostra epoca.14

Tuttavia la teoria del mondo dell’arte rendeva tale mondo, volente o nolente, una sorta di setta, un qualcosa di esclusivo, senza considerare cosa in realtà avesse generato l’idea di un altro mondo. La teoria del mondo dell’arte diventa in Dickie una “teoria istituzionale dell’arte”, attenta ai processi sociali che permettono di classificare un qualcosa come opera d’arte. Il termine, come ribadito da Dickie, è stato proposto negli anni sessanta da Danto per sostenere filosoficamente le opere di Andy Warhol, in particolare le sue Brillo Boxes. Successivamente, Danto ha articolato George Dickie, L’artista romantico, in “Discipline Filosofiche”, xv, 2, 2005, p. 208. Traduzione lievemente modificata. 14 

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meglio la sua idea del mondo dell’arte, idea che ha ispirato Dickie, ma che non rispecchiava, tuttavia, il suo pensiero. Come lui stesso ammetterà in una delle sue opere più importanti: Ho esposto per la prima volta le mie reazioni filosofiche alle scatole di Brillo nel 1965, su invito dell’American Philosophical Association. Il saggio che lessi in quell’occasione si intitolava Il mondo dell’arte, e allora ne ricavai la soddisfazione perversa di vederlo del tutto incompreso. L’articolo sarebbe rimasto a sonnecchiare in qualche vecchio numero del sepolcrale “Journal of Philosophy” se non fosse stato per due filosofi intraprendenti, Richard Sclafani e George Dickie, che gli hanno conferito una modesta fama. Gliene sono molto grato, e sono ancor più grato a coloro che hanno eretto quella cosa che porta il nome di “teoria istituzionale dell’arte” sulla base di un’analisi del Mondo dell’arte, benché quella teoria sia lontanissima da qualsiasi cosa io sostenga: non sempre i nostri figli vengono fuori come avremmo voluto. Ciononostante, in un classico conflitto edipico, devo dare battaglia alla mia progenie, perché non credo che la filosofia dell’arte debba cedere a quel che si dice io abbia generato.15

Per Danto il mondo dell’arte di Dickie non si rivela essere il vero mondo dell’arte: per mondo dell’arte, infatti, Danto intende il mondo storico, più ampio di qualsiasi restrizione istituzionale o di settore. I critici che stroncano un artista, per esempio, spesso non ne Arthur C. Danto, La trasfigurazione del banale (1981), Laterza, Roma-Bari 2008, p. xxvii. 15 

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arrestano l’affermazione, e gli attori che determinano il successo non sono riducibili a pochi specialisti. È piuttosto l’epoca, il contesto storico, nella sua complessità di significati e relazioni, a rendere possibile l’emergere di artisti. Nonostante tali precisazioni, sia Danto che Dickie applicano il concetto di mondo dell’arte a tutta l’arte, non solo a quella forma d’arte particolare che chiamiamo arte inesistente. Ciò che sosteniamo, invece, è molto semplice: è l’arte inesistente, ed essa sola, a implicare necessariamente un nuovo mondo. Ovvero un modo differente di guardare le stesse cose. Le cose abituali perdono l’identità che il flusso contemporaneo di informazioni conferisce loro. È vero che attraverso tale arte spesso riflettiamo sul nostro mondo, sulla realtà quotidiana, ma ciò è dovuto al fatto che l’arte inesistente presenta un’estraneità maggiore. Si assume il punto di vista dell’estraneo. Grazie all’arte inesistente il proprio e l’estraneo si scambiano, proprio in virtù di quello scambio, di quel capovolgimento che l’arte inesistente attua tra arte e non-arte. Le opere d’arte inesistente provengono non da un’altra epoca di questo mondo, ma da un altro modo di considerare le cose. Si tratta, nella sua fruizione, di una sorta di immigrazione culturale. Fare esperienza di tale arte è innanzitutto prendere in considerazione dell’altro. Lasciarlo passare. Oltre i nostri confini mentali, che sono spesso più rigidi di ogni dogana.

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il mondo dell’arte come mondo aperto

Un mondo è ciò che rende possibile l’incontro con l’altro. Esso è l’apertura non immediata all’altro. C’è un vero mondo solo se l’apertura è davvero tale, ovvero se tale mondo si presenta come ignoto, insidioso, da scoprire, perfino incomprensibile. Ci si dischiude un mondo quando le cose non sono ancora identificate, o sono difficili da identificare: sono altre in senso forte. Le opere d’arte inesistente implicano un mondo ancora aperto, ciò che si chiama mondo dell’arte. Un mondo innanzitutto difficile da circoscrivere, e che non è un’istituzione. Rispetto alla versione di Dickie e a quella di Danto, l’espressione mondo dell’arte andrebbe intesa come mondo possibile, o addirittura come mondo virtuale, perché, nel caso dell’arte inesistente, si tratta precisamente di oggetti che assumono un’identità diversa da quella che gli avremmo attribuito. Quando l’arte contemporanea ha manifestato la capacità di prendere le distanze dall’arte tradizionale in modo radicale, prendendo di petto la questione dei media e della loro avanzata, si è parlato dell’impossibilità della definizione dell’arte, proprio perché essa apriva un mondo, un mondo di problemi e di perplessità.

L’arte inesistente e il fascino contemporaneo del vampiro

l’opera d’arte nell’epoca del desiderio di immortalità corporea

Il filosofo e critico d’arte Groys consiglia ai filosofi, e a chi vuole comprendere il contemporaneo, di leggere, tra le altre cose, Dracula.1 Così, egli sostiene, è possibile comprendere meglio la contemporanea ossessione per il corpo immortale. I vampiri non sono più degli esseri da combattere, ma sempre più degli individui da emulare. La cultura di massa ha lentamente cambiato i suoi atteggiamenti nei confronti del vampiro. Il segreto di tale cambiamento non va cercato solo nell’accentuarsi dell’ossessione per il proprio corpo. Il fascino contemporaneo del vampiro va rintracciato, infatti, in un profondo cambiamento della figura del vampiro stesso. Non si sarebbe allora in errore a consigliare allo stesso Groys una lettura che probabilmente lo farà rabbrividire: Twilight di Stephenie Meyer. Boris Groys, Corpi immortali, in “La rosa di nessuno”, n. 5, 2010, p. 124. 1 

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Un libro che si richiama solo vagamente al celebre e ottocentesco Dracula di Bram Stoker e che, proprio per questo motivo, forgia i suoi vampiri con i desideri e le ossessioni del contemporaneo. Il successo planetario della sua opera, divenuta una vera e propria saga, e presto trasposta cinematograficamente, ne fa un vero e proprio specchio del nostro tempo, delle nostre speranze e delle nostre paure. I suoi vampiri sono delle figure convergenti, ossia delle figure che raccolgono caratteristiche di altre figure dell’immaginario della cultura di massa, come quella del supereroe. Dimenticatevi il tormentone della minaccia della luce: i vampiri della Meyer non bruciano alla luce del sole, ma brillano come diamanti. Dimenticatevi la bara dove trascorrevano le ore diurne, per uscire poi a caccia di sangue umano nella notte: non ne hanno affatto bisogno. Queste sono solo alcune delle innovazioni che hanno reso questi vampiri ancora più attraenti dei loro parenti letterari dell’Ottocento. L’immortalità corporea dei vampiri è stata sempre oggetto di dannazione per tali esseri, ma nel nostro immaginario essi hanno subito nel tempo come un’evoluzione genetica, che ha fatto del vampiro il corteggiatore ideale delle adolescenti e non più il loro carnefice. Nei romanzi della Meyer, oltre a trasformarvi in un suo simile, un morso del vampiro vi renderà ancora più belli, belli e immortali. Un vampiro che farebbe fallire qualsiasi chirurgo plastico.

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il museo e la fine della missione dell’arte

Il contesto in cui il citato Boris Groys consiglia la lettura di Dracula non è da sottovalutare. Groys ritiene che Dracula intercetti il comune desiderio dell’immortalità. Ma, e qui sta l’originalità della sua riflessione, questo desiderio può essere soddisfatto, al di là dell’immaginario vampiresco, solo da una pratica museale per i viventi, da uno Stato che si comporta come un Museo. Per Groys il museo è una macchina per la produzione della durata, dell’immortalità delle cose. Essendo, d’altra parte, anche l’uomo un corpo tra altri corpi, una cosa tra altre cose, deve darsi anche per lui la possibilità di partecipare all’eternità museale.2

Il vampiro non è solo il non-morto, ma – soprattutto nella saga narrativa di Twilight – il perfettamente conservato. Tale declinazione del vampiro può emergere solo nella nostra società, caratterizzata da quella che Giorgio Agamben ha definito “museificazione del mondo”,3 dove il valore più alto è rappresentato dalla conservazione delle cose e dall’esclusione della morte. Non è più l’eroismo il valore di riferimento, ovvero la rinuncia all’immortalità corporea. Ecco perché il vampiro non è più combattuto. Come sostiene ancora Groys a proposito del romanzo di Bram Stoker: Boris Groys, Corpi immortali, cit., p. 121. Si veda Giorgio Agamben, Profanazioni, nottetempo, Roma 2005, p. 96. 2  3 

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Gli eroi del romanzo vi difendono accanitamente il loro diritto ad una morte naturale. Da allora, la lotta contro la società dei vampiri, società che garantisce e produce immortalità corporea, continua ancora nella cultura di massa occidentale – sebbene nessuno neghi la seduzione esercitata dal vampiro. L’avversione nei confronti dell’eternità corporea non è certamente nuova: ne sono testimonianza le storie di Faust, Frankenstein e Golem. Tuttavia queste storie sono sorte in un tempo in cui la fede nell’immortalità dell’anima non era ancora del tutto estinta.4

Il vampiro oggi ci seduce proprio per la sua longevità. L’attenzione corrente della nostra società è tutta dedicata al principio che anima il Museo, ovvero a un modo di mummificare i viventi. Il filosofo Peter Sloterdijk, proprio riflettendo sull’opera di Boris Groys, ha messo in relazione il principio del Museo con la funzione della piramide presso gli antichi Egizi, ovvero con la stanza funebre in essa contenuta e nella quale veniva deposta la mummia del faraone. […] secondo Groys, non avremo mai capito nulla del sistema dell’arte nella civiltà moderna fino a quando non avremo fatto attenzione al modo in cui la stanza funebre viene riutilizzata in essa. [… ] Ciò accade ovunque dei corpi, anche quelli che non sono dei faraoni, debbano essere deposti in vista di una conservazione che li possa rendere eterni.5

4  5 

Giorgio Agamben, Profanazioni, cit., p. 125. Peter Sloterdijk, Derrida egizio (2006), Cortina, Milano 2007, p. 73.

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Quando allora Baudrillard ha parlato di una “sarcofagia” perseguita con accanimento nella nostra società, aveva individuato la strategia fondamentale del controllo sui viventi, ciò che produce la museificazione del mondo. Nel suo Lo scambio simbolico e la morte ha scritto: Mummificato nel suo casco, le sue cinture, i suoi attributi della sicurezza, il guidatore non è più che un cadavere, chiuso in un’altra morte, non mitica questa: neutra e oggettiva come la tecnica, silenziosa e artigianale. Saldato alla sua macchina, inchiodato su di essa, non corre più il rischio di morire, perché è già morto. Qui è il segreto della sua sicurezza, come della bistecca sotto il cellofan: avvolgervi in un sarcofago per impedirvi di morire.6

Ma se oggi si guarda al Museo e al principio che lo anima, la domanda che sorge spontanea è la seguente: che fine ha fatto l’arte? Non spettava all’arte rendere eterne le cose, immortalarle? Oppure, proprio il prevalere della cura museale sull’arte stessa conferma ciò che un grande filosofo come Hegel ha sostenuto, ovvero che “l’arte è una cosa del passato?” la natura mortale dell’arte e la sua cura

Non senza audacia è stato scritto che “Hegel, se fosse ancora tra noi, dedicherebbe un saggio al silicone!”.7 6  Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (1976), Feltrinelli, Milano 2002, p. 197. 7  Stefano Moriggi e Gianluca Nicoletti, Perché la tecnologia ci rende umani, Sironi, Milano 2009, p. 49.

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L’affermazione è tuttavia importante perché ci mette nell’ottica del grande filosofo, che, a proposito dell’arte, nelle sue celebri Lezioni di estetica, ha sostenuto: Il nostro mondo, la nostra religione e la nostra formazione razionale sono di un grado oltre l’arte come grado supremo per esprimere l’assoluto. L’opera d’arte non può soddisfare dunque il nostro ultimo, assoluto bisogno, non adoriamo più alcuna opera d’arte, e il nostro rapporto con l’opera d’arte è di tipo più meditativo.8

Tuttavia se il filosofo sostiene che l’arte non è più capace di svolgere la sua funzione spirituale, bisogna capire che cosa Hegel intendesse per Spirito o assoluto. Lo Spirito è ciò che affronta e vince la morte, ciò che si conserva nel mutamento.9 Hegel si rende conto che in passato gli uomini hanno creduto che le opere destinate alla contemplazione potessero soddisfare il bisogno primario dello spirito. Ma Hegel fa già parte dell’epoca del Museo, ovvero di ciò che conserva l’arte e che permette di studiarla. Danto ha acutamente ricordato in un suo recente studio che negli stessi anni in cui Hegel teneva conferenze di estetica a Berlino, l’Altes Museum di Schinkel (come venne chiamato) era in costruzione. Hegel era entusiasta della prospettiva di 8  Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni di estetica (1823), Laterza, Roma-Bari 2000, p. 8. 9  Si veda Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello Spirito (1807), Bompiani, Milano 2000, p. 87.

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poterne visitare le collezioni, e di poter vedere lo sviluppo delle varie scuole di pittura dal punto di vista storico.10

Forse nessuno più di Hegel, allora, ha compreso la natura mortale dell’arte. Ciò che è stato chiamato “morte dell’arte”, proprio a partire da Hegel e dalle sue considerazioni sul destino dell’arte, non chiarisce, tuttavia, il pensiero lucidissimo del filosofo. Per Hegel, infatti, dire che l’arte sia una cosa del passato non significa che non si farà più arte, ma che il nostro rapporto con l’arte, le aspettative nei confronti dell’arte, sono profondamente mutati. L’arte non è morta, piuttosto ha rivelato la sua natura mortale e precaria. Essa non conserva, non può immortalare fondandosi sulle sue potenzialità. Affinché sia capace di ciò, essa deve essere curata frequentemente. E ciò che deve essere curato, non è il sano, l’integro, bensì l’esposto, il fragile. L’aumento vertiginoso dell’importanza del curatore della mostra rivela questa natura dell’arte. Anche a proposito di tale figura, coerentemente, Groys ha sostenuto: Sembra che in origine l’opera d’arte sia malata, bisognosa d’aiuto; per vederla, gli spettatori devono essere condotti ad essa proprio come lo staff di un ospedale porta i visitatori a visitare il paziente a letto. Non è una coincidenza che la parola “curatore” sia etimologicamente collegata a “cura”. Fare il curatore significa curare.11 10  11 

Arthur C. Danto, L’abuso delle bellezza, cit., p. 82. Boris Groys, Il museo nell’epoca della cultura di massa, in Stefano

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l’arte inesistente e il suo vampirismo

Compito dell’arte critica contemporanea – ovvero dell’arte che non ci sta a trattenersi semplicemente nel Museo, né a intrattenere semplicemente un pubblico – è quello di mettere a nudo la conservazione ansiosa della società orientata verso il Museo. Un esempio di questo atteggiamento critico può essere l’opera dell’artista Tran Ba Vang, che nelle sue opere, soprattutto fotografiche, riflette acutamente sull’ossessione per la forma del corpo e per l’immortalità. I soggetti rappresentati vengono mostrati mentre indossano pelli di corpi conformi per vestire il loro corpo nudo, oppure vengono invecchiati i soggetti, soprattutto femminili, delle opere d’arte tradizionali. L’arte di Tran Ba Vang non rientrerebbe, tuttavia, in ciò che abbiamo chiamato arte inesistente, innanzitutto per il medium di riferimento tradizionale (pittura, fotografia). L’arte inesistente si oppone, invece, in modo singolare, al desiderio di conservazione proprio della nostra epoca. Tale forma d’arte, infatti, reagirebbe al “fascino contemporaneo del vampiro” con un vampirismo sui generis, obsoleto, ottocentesco, perché non formulerebbe nessun imperativo estetico, ma piuttosto una richiesta. Per essere arte, essa, infatti, deve essere presa in considerazione come arte, e quindi, come i vampiri di altri tempi, essa direbbe: “lasciami entrare”.12 Chiodi, a cura di, Funzioni del museo. Arte, museo, pubblico nella contemporaneità, Le Lettere, Firenze 2009, p. 41. 12  Come è infatti noto, i vampiri di Stoker dovevano essere invitati per entrare nelle case delle vittime.

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Una richiesta, una pietà dell’arte, molto più forte di qualsiasi invito a cambiare la nostra vita. Si tratta, infatti, in questo caso, di allargare veramente i nostri orizzonti concettuali, di accogliere l’altro e con esso il sospetto che lo caratterizza. L’arte inesistente presenta una consistente opacità mediatica che non la lascia facilmente identificare. Per questo motivo, essa non può essere immediatamente edificante. Essa, piuttosto, cerca di penetrare e complicare le nostre identificazioni. Un’azione decisamente sovversiva, se si pensa che oggi siamo nell’epoca dell’identificazione di massa. Un’epoca dove sempre più persone sono chiamate a identificarsi attraverso dei media che cercano di rendere quanto più trasparente e immediata l’esposizione di sé. Siamo ovviamente al polo opposto rispetto alla strategia praticata dall’arte inesistente. Tale strategia contraria vede il suo compimento, o il suo livello più alto, nell’estetica che attraversa un social network come Facebook e che ci apprestiamo ad analizzare.

parte seconda

Il mondo di Facebook

Il lato oscuro di Facebook

dalla non-identità dell’arte all’identificazione diffusa

Tra l’arte contemporanea e il Web c’è stata subito un’intesa, una familiarità. Sono entrambi reazioni all’implosione mediatica, e dunque aperture di mondo. Tuttavia gli artisti sostengono ciò che per loro rappresenta la dimensione virtuosa della Rete: “La dimensione virtuosa della Rete […] non è rappresentativa, cioè non riproduce, non simula, non emula, ma genera azioni, relazioni, dinamiche sociali”.1 Perché questa precisazione? Il motivo è semplice: da quasi dieci anni la rete sta subendo un processo di implosione, una svolta identitaria e documentaria. La rete sta diventando un potentissimo strumento di identificazione di massa. Dove tutti possono riconoscere tutti, dove le ricadute di tale identificazione diffusa si traducono in un maggior controllo dei soggetti. Il villaggio globale di McLuhan ha infettato anche la Andrea Balzola e Paolo Rosa, L’arte fuori di sé, Feltrinelli, Milano 2011, p. 83. 1 

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Rete. Quest’ultima, da rete di sostegno, creata per non cadere nel vuoto, per essere supporto di navigazioni, di esplorazioni del non noto, è divenuta la rete del ragno, dove gli utenti sono incollati, catturati da chi ha tessuto un’altra rete. Oggi questo ragno si chiama Facebook, il social network più diffuso al mondo. Chi ne prenderà il posto, proseguirà certo in questa direzione. Facebook oggi è talmente diffuso che appare quasi ridondante parlarne. Tuttavia l’obbiettivo di questa analisi sarà proprio capire la sua genesi e i suoi effetti principali, come la fine del mondo del Web. È in atto un nuovo capitolo della storia dell’identità personale e della sua certificazione. Dove le persone si autodenunciano involontariamente. Prima della svolta identitaria dei social network (vedremo più avanti il significato di tale svolta) l’identificazione di qualcuno o qualcosa è stata sempre un processo faticoso, imposto, e spesso non efficace. Mass media come fotografia e televisione, hanno compiuto certo passi da gigante, ma tralasciavano (e tralasciano) molti individui, per concentrasi su chi diventa qualcuno. La grande massa degli spettatori era soggetta all’identificazione burocratica delle carte d’identità e non sempre era facile che un’investigazione riuscisse a rivelare la rete relazionale di un singolo individuo. Il mito, poi, di un Grande Fratello capace di controllare tutto e tutti si è rilevato spesso solo un mito. Come giustamente sottolinea lo storico Valentin Groebner: Apparati amministrativi che lavorano senza difficoltà, ingranaggi amministrativi astratti e freddi calcolatori non

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esistono se non nei sublimi, tersi universi della teoria. Le minacciose fantasie di rilevazione e sorveglianza totali del singolo da parte di una siffatta violenta macchina burocratica e le evocazioni dell’onnisciente Grande Fratello, che dal Novecento in poi sono sempre presenti nei discorsi sull’identificazione, derivano esse stesse da topoi letterari e religiosi molto più antichi di monitor e schede. […] Queste fantastiche e malinconiche varianti del topos dell’occhio che tutto vede e tutto registra hanno poco a che vedere con le tecniche d’identificazione realmente efficaci. Lo studio dei regimi totalitari del Novecento fornisce piuttosto un esempio del fatto che la sorveglianza, anche nel presente moderno, è nella stragrande maggioranza dei casi una questione massimamente terrena e caotica.2

Con Facebook tutto è mutato. Mi è capitato di vedere una foto pubblicata da un utente di Facebook, una foto di una manifestazione di protesta dove vi partecipava come militante politico. Non tutti i volti dei manifestanti erano ben visibili, ma l’utente aveva taggato (secondo il gergo del social network) molti amici nella foto, e, passando il mouse sulla loro immagine, compariva il loro nome e cognome, proprio per renderli riconoscibili. L’utente voleva condividere la propria esperienza con i suoi amici, ma ha fornito, nello stesso tempo una potente indentificazione per terzi. Certo, ci sono le impostazioni della privacy, ma, per quanto raffinate, queste impostazioni non sono certo facili da gestire e Valentin Groebner, Storia dell’indentità personale e della sua certificazione (2004), Casagrande, Bellinzona 2008, p. 239. 2 

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un varco si crea sempre se vogliamo sfruttare tutte le potenzialità comunicative del mezzo. Recentemente si esalta il ruolo dei social network nell’esito delle rivolte nordafricane del 2011, ma la verità è che i rivoltosi (soprattutto i giovani egiziani) hanno evitato di far circolare i loro documenti su social network come Facebook, perché controllati dall’intelligence del regime.3 Come spirito, come senso, siamo agli antipodi dell’arte contemporanea, che offriva una non-identità, che faceva pensare e anche innervosire, che faceva andare alla ricerca delle ragioni. il potere di facebook

Il social network Facebook sta cambiando le nostre vite, le nostre abitudini. Il Web sta interferendo sempre di più con la realtà al di là di esso. La vittoria di Obama negli Stati Uniti, per esempio, sarebbe stata impossibile prima di Facebook. Ha sfruttato questo potentissimo mezzo e ha avuto ragione. Facebook sta ridefinendo, nemmeno tanto lentamente, i rapporti sociali: mette sempre di più in contatto le persone tra loro, accelera gli incontri e la formazioni di nuovi gruppi, catalizza interessi e attenzioni. Scrive Alessandro Ferrari nel suo pungente e credibile romanzo Facebook: domani smetto: Si veda Giovanna Loccatelli, Twitter e le rivoluzioni, Editori Riuniti, Roma 2011, p. 207. 3 

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Tommaso Facebook l’ha scoperto da poco. Pensava di ritrovarci i compagni del liceo, le ex-fidanzate, la compagnia del cortile. Quello di cui gli parlavano tutti, insomma. Poi gli è venuta una specie di folgorazione. Il social network più diffuso al mondo. Tutti i più grandi hanno una loro pagina.4

Ovviamente, come già recita il titolo del romanzo, Facebook presenta qualche inconveniente: per molti è diventato una droga e tutto il romanzo di Ferrari ruota proprio intorno a questa dipendenza. Come quando il protagonista si ritrova ancora in ufficio pur di restare collegato a Facebook: Sei seduto alla scrivania. Sigaretta che si consuma da sola nel posacenere comprato a Parigi nel ’95, quando ancora fumare era fico. Ciabatte di Homer Simpson ai piedi, boxer extralarge da “stasera resto a casa da solo a guardarmi un film di Mel Gibson”. Computer acceso davanti. Facebook, ovviamente. Sei preso. Da due ore lasci commenti alle foto della cena aziendale che hai postato ieri notte dal telefonino. […] Alzi la testa e capisci che sei in ufficio. Guardi il calendario di Facebook. È sabato. Da quando vieni in ufficio di sabato in boxer e ciabatte? Ti rispondi che probabilmente dormi direttamente lì, hai la connessione veloce ipergratuita e nessuno ti rompe le scatole. Ma non è che ti senti molto sollevato da questa ipotesi. Forse è un incubo. Cerchi di svegliarti, ma no questo non è un incubo, questa è la tua vita. Questo è Facebook. Per la prima volta in sei mesi ammetti che forse hai un problema.5 4  Alessandro Q. Ferrari, Facebook: domani smetto, Castelvecchi, Roma 2009, p. 48. 5  Ivi, pp.17- 18.

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E così, proprio come accade per le droghe, aumentano coloro che, dopo averne abusato o semplicemente dopo averne fatto uso, mettono successivamente in guardia le persone dagli effetti collaterali. Tutti devono sapere (che Facebook è una trappola): è il questo il titolo di un articolo che circola in rete, firmato dal mediattivista Franco Berardi Bifo. Nell’articolo Bifo denuncia la chiusura su Facebook della pagina “Tutti devono sapere”: una pagina contro la riforma dell’istruzione del Ministro Gelmini, che aveva ottenuto molti consensi e molta partecipazione. Per qualche violazione del regolamento del social network, la pagina è stata chiusa. Facebook ha un regolamento. Ma la semplice chiusura dà a Bifo il pretesto per scagliarsi contro Facebook in modo apocalittico. Scrive: Ricevo sempre più spesso messaggi (spesso comicamente disperati) di persone che sono state bannate dal social network, e annaspano perché la loro socialità si alimentava sempre più degli scambi di messaggi, e della continua consultazione del sito nel quale chi è solo (quasi tutti lo sono di questi tempi) può trovare la coccolante conferma della sua esistenza, e la sensazione di avere amici, anche se più tempo passi davanti allo schermo, meno amici avrai nella carne e nello sguardo. Io protesto insieme a molti altri contro la cancellazione autoritaria della pagina “Tutti devono sapere”. Però vorrei cogliere questa occasione per dire a tutti (anche ai diecimila iscritti della pagina bannata) che questa è una lezione su quel che è Facebook, e su quello che sta diventando la Rete, nella fase del Web 2.0: un ordigno totalitario,

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una bomba psichica a tempo destinata a distruggere ogni empatia tra esseri umani.6

Bifo non è certo l’unico a criticare Facebook. Nello stesso articolo si fa spesso riferimento a Jaron Lanier, pioniere della realtà virtuale e ora critico del Web. Il suo volume Tu non sei un gadget ruota intorno all’idea che la cultura digitale si stia impadronendo sempre di più delle nostre vite e che bisogna opporre resistenza. Non mancano, nella sua critica, parole dure contro Facebook: Quello che l’analisi computerizzata dei testi di tutte le scuole del Paese ha fatto all’istruzione è esattamente quello che Facebook ha fatto all’amicizia. In entrambi i casi, la vita è stata trasformata in un database.7

Ritornando in Italia, è da citare un’altra critica apocalittica, avanzata ancora una volta da una persona che al Web ci crede e che aveva una pagina su Facebook, anch’essa poi inspiegabilmente chiusa: Maddalena Mapelli, coordinatrice del blog “Ibridamenti”. In un articolo ci spiega come Facebook sia un “dispositivo omologante e persuasivo”, dannoso per la nostra creatività e libertà.8

6  Franco Berardi Bifo, Tutti devono sapere (che Facebook è una trappola), http://www.nazioneindiana.com/2010/11/02/tutti-devono-sapereche-facebook-e-una-trappola/ 7  Jaron Lanier, Tu non sei un gadget, Mondadori, Milano 2010, p. 93. 8 Si veda Maria Maddalena Mapelli, Facebook. Un dispositivo omologante e persuasivo, in “aut aut”, n. 347, 2010, pp.115-126.

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A queste critiche apocalittiche verrebbe da rispondere che Facebook, alla fine, è uno strumento come tanti e che ognuno ne fa quello che vuole (Facebook è una cosa buona se lo sai usare bene). Giuseppe Riva, psicologo dei nuovi media, osservando una possibile gamma di usi dei social network come Facebook, sostiene: Da una parte troviamo gli utenti che utilizzano i social network come strumento espressivo, per esempio per condividere con gli amici i momenti salienti della loro vita: il matrimonio o il primo anno di vita del loro bambino. All’estremo opposto della scala, i social network sono usati come strumento professionale a scopo promozionale e persuasivo. Nel centro troviamo gli utenti che impiegano i social network per organizzare la propria vita relazionale. In altre parole, i social network sono in grado di offrire una risposta ai bisogni di utenti molto diversi.9

Tuttavia non può non venire in mente il celebre monito di McLuhan di considerare gli effetti psicologici e sociali dei media, indipendentemente dall’uso che se ne fa.10 Facebook ha compiuto una mutazione nel nostro relazionarci alle cose e agli altri, ed è un fatto. La questione, dal nostro punto di vista, è che gli apocalittici sono troppo moderati. 9  Giuseppe Riva, I social network, il Mulino, Bologna 2010, pp. 25-26. 10  Si veda Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964), il Saggiatore, Milano 2002, p. 19.

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Nelle pagine che seguono saremo allora più apocalittici, addirittura in senso letterale. Non bisogna attendere il 2012 per la fine del mondo, per l’apocalisse, questo è certo. Non perché la data sia sbagliata, ma perché il fatto è già avvenuto. E Facebook, come abbiamo avanzato fin dall’inizio, ha a che fare con una determinata fine del mondo. La fine del mondo del Web. Un mondo, quello del Web, a sua volta sorto da una fine del mondo.

Bombe H. Facebook e la fine del mondo

il pianista che aveva paura del mondo

Una fine del mondo è già avvenuta. Eppure qualcuno potrebbe dimostrare facilmente il contrario: il mondo non è affatto finito e molto probabilmente non finirà. Bisogna intendersi, allora, su ciò che chiamiamo mondo, perché, forse, una delle prime conseguenze della fine del mondo è che non sappiamo più cosa sia – il mondo. Cominceremo, allora, facendo intervenire un personaggio che è stato privato del mondo fin dalla sua nascita. Forse potrà indicarci una strada. Cominceremo, pertanto, con un esempio letterario. “Non si può suonare il pianoforte di Dio”: è questa la singolare motivazione che spinge il pianista chiamato Novecento a restare sulla sua nave che sta per esplodere. Novecento, il celebre personaggio del monologo di Alessandro Baricco, su quella nave è nato e da essa non è mai sceso. Non scenderà nemmeno quando, ormai ridotta a un rottame, verrà deciso di farla saltare in aria.

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La verità è che Novecento, divenuto uno straordinario pianista sulla nave, ha paura del mondo. La verità è che una volta ha provato a scendere, ma senza successo. Qualcosa lo ha bloccato. Così racconta: Non è quel che vidi che mi fermò/ È quel che non vidi. Puoi capirlo fratello?, è quel che non vidi… lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne/ C’era tutto/ Ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo/ Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu/ Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me/ Ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi/ Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la vera verità, che non finiscono mai e quella testiera è infinita/ Se quella tastiera è infinita, allora/ Su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio/ […] Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce/ E quanto ce n’è/ Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla…/ Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una

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donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò. Lasciatemi tornare indietro.1

Sulla nave, Novecento aveva accesso al mondo solo indirettamente e in modo discreto, finito. Aveva piuttosto informazioni sul mondo, in sua assenza. Il suo personaggio ci fa capire bene che cos’è il mondo: un’apertura irriducibile e senza fine. Questa essenza del mondo è stata recentemente ribadita da Peter Sloterdijk e messa in relazione con l’evoluzione dell’uomo. Attraverso le informazioni che poteva ricevere sul mondo, l’uomo si è liberato sempre più dal mondo stesso. Così riassume la sua tesi: Fin dagli inizi l’uomo ha sviluppato due o tre operazioni di base che lo aiutano a risolvere l’enigma del mondo. In primo luogo, riesce a colpire un oggetto con un altro oggetto molto duro in modo che il primo venga aperto e sia così possibile vederne l’interno. È una prima vittoria nei confronti dell’ambiente, un primo passo per avvicinarsi al mondo. In secondo luogo, può gettare qualcosa – il gesto per eccellenza con cui si crea la distanza. Se posso gettare, non ho più bisogno di avere un contatto fisico con l’ambiente, posso ritrarmi e vivere in una specie di incubatrice, a una certa distanza dalle cose; posso raffinare le mie tecniche e mantenere distante il mondo.2 Alessandro Baricco, Novecento, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 55-57. Peter Sloterdijk, La costruzione telematica del reale, in “aut aut”, n. 336, 2007, p. 111. 1 

2 

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I mass media sono oggi innanzitutto potentissimi strumenti per lanciare delle informazioni. Sono gli strumenti più potenti attraverso i quali teniamo il mondo distante. È possibile pertanto comprendere, alla luce di quanto detto, la celebre affermazione di McLuhan, che vedeva il nostro mondo, caratterizzato da mass media quali radio e televisione, come un villaggio globale. Quest’espressione significa, implicitamente, che il mondo come apertura non c’è più. Tutto si è concentrato. Il mondo è imploso. È facile, allora, trarre la conclusione apocalittica: quando abbiamo solo informazioni sul mondo, il mondo non c’è più come tale. Quando furono sganciate le prime bombe atomiche, molti credettero che il mondo si avvicinasse alla fine. Qualche anno dopo, il filosofo Martin Heidegger arrivò alla stessa conclusione. Anche per lui una bomba era stata sganciata. Ma non era quella atomica. Da quel momento in poi il mondo non ci sarebbe stato più. Almeno fino all’invenzione del Web e di Facebook. la catastrofe mediatica, ovvero la bomba h(eidegger)

Il mondo è finito molto prima dell’avvento di Facebook. Se ne sono accorti in pochi. Anche perché a questa fine manca l’aspetto allarmante: si può convivere benissimo con essa.

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Tra coloro che hanno preso coscienza di questa catastrofe silenziosa, spicca il filosofo Martin Heidegger. Forse la sua è stata una strategia: gridare alla catastrofe, per minimizzare la sua adesione al nazismo, che ha gettato più di un ombra sulla grandezza del suo pensiero. Oltre a essere stato un grande filosofo, infatti, Heidegger è stato anche un nazista tra i tanti. Nel 1966, in un’intervista concessa non senza difficoltà allo “Spiegel”, Heidegger parla della sua adesione al nazismo, ma non sarebbe tanto il nazismo la cosa più importante da pensare. Un’altra catastrofe è avvenuta. Ed è una catastrofe tecnica, anzi mediatica. Così risponde Heidegger al suo intervistatore: Tutto funziona. Questo è appunto l’aspetto inquietante: che tutto funziona e che il funzionare spinge sempre a un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappa e sradica sempre più l’uomo dalla terra. Non so se lei sia spaventato: io, in ogni caso, lo sono dopo che ho visto le fotografie della terra scattate dalla luna. Non c’è affatto bisogno di una bomba atomica: lo sradicamento dell’uomo esiste già.3

Le foto scattate dalla luna sono la testimonianza di uno stravolgimento delle distanze e della percezione del mondo stesso. Sedici anni prima, Heidegger era stato ancora più esplicito, ancora più apocalittico:

3  Günter Neske ed Emil Kettering, a cura di, Risposta. A colloquio con Martin Heidegger (1988), Guida, Napoli 1992, pp.122-123, corsivo mio.

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Tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano. Dove si poteva giungere, una volta, solo dopo settimane e mesi di viaggio, l’uomo ora arriva in una notte di volo. Notizie che una volta si ricevevano solo dopo anni, o che semplicemente restavano ignote, giungono oggi all’uomo in un attimo, di ora in ora, attraverso la radio. […] Il culmine dell’eliminazione di ogni possibilità di lontananza è raggiunto dalla televisione, che ben presto coprirà e dominerà tutta la complessa rete delle comunicazioni e degli scambi tra gli uomini. […] Tutto fluisce e si confonde nell’uniforme assenza di distanza. Come? Questo confondersi di tutto nell’assenza di distanza non è forse ancora più inquietante di un’esplosione che riduca tutto in minuti frammenti? L’uomo è ossessionato dal pensiero di ciò che potrebbe accadere in conseguenza dell’esplosione di una bomba atomica. L’uomo non vede ciò che già da lungo tempo è avvenuto […].4

Heidegger, dunque, ha visto la fine del mondo, ma non poteva sapere che il mondo sarebbe un giorno ritornato. come se l’attacco nucleare fosse avvenuto. da internet al web

Leggenda vuole che Internet sia nato per sopravvivere a un possibile attacco nucleare sovietico.5 Le co4  Martin Heidegger, Saggi e discorsi (1954), Mursia, Milano 1976, pp. 109-110. 5 Si veda Albert-László Barabási, Link. La scienza delle reti (2002), Einaudi, Torino 2004, p. 157.

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municazioni non dovevano cessare in caso di simile attacco. La storia vuole che sia nato proprio mentre tutti guardavano il cielo ammirando la conquista della luna. Come acutamente ha osservato il geografo Franco Farinelli: Conosciamo con relativa precisione quando, nel funzionamento del mondo, spazio e tempo della fisica classica, meridiani e paralleli sono improvvisamente entrati in crisi e la modernità è terminata: nell’estate del 1969. Nelle sere di quell’estate eravamo tutti con il naso per aria, a guardare la luna, perché erano i giorni in cui l’uomo vi posava per la prima volta il piede e in tal modo sembrava iniziasse a farne una seconda terra. Si aveva davvero l’impressione di essere entrati in una nuova era. Ed era proprio così, ma per una ragione per molti versi opposta a quella celebrata dalla televisione e dai giornali: non si trattava della conquista dello spazio (inteso come cosmo), della sua annessione al corpo terrestre, ma al contrario della sua fine (della fine dello spazio inteso come moderno modello del mondo). Negli stessi giorni infatti, in silenzio, nasceva Arpanet, la prima forma della rete: negli Stati Uniti due computer, abolendo ogni problema di velocità di trasmissione, dunque di distanza metrica, iniziavano a dialogare fra di loro riducendo gli atomi in bit, in immateriali unità di informazione.6

Internet porta fino alle estreme conseguenze lo sviluppo dei mass media. Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009, p. 159. 6 

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Non importa che l’attacco nucleare non ci sia mai stato. Il mondo è finito lo stesso. Internet, ovvero la possibilità di avere a una velocità infinita delle informazioni, ha fatto implodere sempre di più il mondo. La precisione vuole che Internet non sia il Web. Internet, in senso stretto, è solo l’infrastruttura che mette in relazione i computer. Il Web nasce nel 1990, invece, per trattenere in un luogo virtuale, in un vero e proprio mondo, il flusso di informazioni reso possibile dalla tecnologia di Internet (del resto la dicitura esatta del Web è World Wide Web: la prima cosa che il Web deve essere è appunto World, un mondo). La Rete, ovvero il Web, è una rete di sostegno, un piano dove è possibile incontrarsi. L’inventore del Web, Tim Berners-Lee, è molto chiaro su questo punto: Internet era già in funzione negli anni settanta, ma trasferire informazioni restava troppo complesso per quanti non fossero esperti di informatica. […] Poi hanno inventato la posta elettronica. L’e-mail permette di spedire messaggi da una persona all’altra, tuttavia non creava uno spazio in cui l’informazione potesse esistere in permanenza e dove potevi andare a cercarla. I messaggi erano volatili. (Il World Wide Web, sovrapponendosi a Internet, avrebbe appunto regalato all’informazione questo spazio.)7

Tim Berners-Lee, L’architettura del nuovo Web (1999), Feltrinelli, Milano 2001, p. 30. 7 

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Fin dal 1980, Berners-Lee voleva creare uno spazio per l’informazione, quando l’informazione aveva ormai distrutto lo spazio e con esso il mondo. Si trattava di far risorgere il mondo. Un mondo nuovo. Il mondo dopo la fine del mondo. Il Web diventa così una sorta di mondificazione del flusso di informazioni reso possibile da Internet. Nel 2004, quando il giovanissimo Mark Zuckerberg metterà sul Web il suo programma Thefacebook (prima versione di Facebook) non farà altro che potenziare il Web per farlo finire, farlo implodere, facendolo assomigliare al mondo finito, dalla cui fine era nato il Web: Non sarebbe stato soltanto il voyerismo a indurre la gente a utilizzare Thefacebook, come l’aveva chiamato, ma le sue potenzialità interattive. Per dirla in parole più semplici, il sito avrebbe riprodotto ciò che accadeva quotidianamente nel mondo reale, quel qualcosa che promoveva le esperienze sociali nel college, che induce le persone a frequentare determinati bar e locali e persino aule e sale mensa: per incontrarsi, legare e conversare, ma certo!8

La Rete non sarebbe più stata incontro, ma rappresentazione e simulazione, e soprattutto strumento di identificazione di massa. La stessa partecipazione sarebbe stata ridotta al minimo, attraverso il continuo servirsi del famosissimo pulsante Mi piace/non mi piace. 8  Ben Mezrich, Miliardari per caso. L’invenzione di Facebook: una storia di soldi, sesso, genio e tradimento (2009), Sperling & Kupfer, Milano 2010, p. 91.

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Con Facebook si arriva allo stadio massimo di ciò che Žižek ha chiamato “anoressia informativa”.9 Come chi soffre di anoressia, perdiamo il gusto delle cose, ma in questo caso per eccesso: perché ci viene costantemente richiesto di esprimerlo. Facebook si fa erede, allora, del tradizionale atteggiamento estetico che la nostra cultura ha da tempo imposto.

Slavoj Žižek, Lacrimae rerum. Saggi sul cinema e il cyberspazio (2006), Scheiwiller, Milano 2009, p. 330. 9 

Mi piace. Facebook e il trionfo dell’estetica

verremo giudicati

Facebook è stato creato da uno studente di Harvard. Almeno da quanto è possibile sapere dalla biografia romanzata di Ben Mezrich, Miliardari per caso, divenuta in seguito un film, The social Network, Facebook non è stata la sua prima creatura. Mark Zuckerberg si era già guadagnato una fama in tutta Harvard, nel 2003, per avere creato il sito Facemash.com, dove era possibile giudicare l’aspetto fisico delle studentesse, con la produzione di una relativa classifica, in base alle foto contenute negli archivi digitali degli studentati di Harvard. Il modo in cui Mark aveva ottenuto tali foto e la natura stessa del sito (che ebbe un enorme afflusso di visitatori, al punto da creare seri problemi alla rete di Harvard) generarono molta disapprovazione in tutto il campus, al punto che il caso passò davanti a una commissione disciplinare. Mark ebbe tuttavia un’enorme visibilità che di lì a poco lo avrebbe portato alla creazione di Facebook.

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La cosa più interessante, per comprendere ciò che nel celebre social network si sarebbe conservato, è un certo spirito di fondo, non privo di un’eco apocalittica, riassunto nelle frasi che accoglievano i visitatori del sito Facemash.com: “Siamo stati ammessi per l’aspetto che abbiamo? No. Verremo giudicati per il nostro aspetto? Sì”.1 Facebook avrà a che fare con l’aspetto, con la nostra foto. Non avrebbe il successo che ha, senza questa dimensione estetica. facebook e l’estetica

Mi piace. Oggi molti premono questo pulsante per commentare tutto quello che passa sul web. Come se fosse una cosa naturale. Facebook è un social network, che, come altri, non si limita ad avere un proprio spazio, ma invade altri spazi. Il pulsantino Mi piace, ormai in molte pagine Web, conferma l’avvenuta espansione dell’atteggiamento che Facebook diffonde. Ovvero un atteggiamento estetico. Facebook ha potuto fare parte delle nostre vite per il semplice fatto che noi eravamo già pronti ad accoglierlo. È ormai da tempo che la nostra società si regge su una certa risposta all’informazione. Almeno da quando abbiamo sviluppato l’atteggiamento estetico. Un tale atteggiamento è stato prodotto a un certo punto della nostra storia. E precisamente nel Settecento. 1 

Ben Mezrich, op. cit., p. 48.

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Quando giornali, pettegolezzi, stampe varie con i relativi gossip cominciano a diffondersi all’interno della società in un modo senza pari. Quando l’esercizio del gusto diventa l’esercizio più frequente di un numero crescente di persone. Dobbiamo allo storico Robert Darnton una grande difesa del Settecento come secolo dell’informazione. Non dobbiamo quindi attendere i grandi mass-media. Secondo lo storico, infatti: Immaginiamo l’Antico Regime come un semplice e tranquillo mondo perduto: una società senza telefoni, senza televisione, senza Internet, eccetera. In realtà quel mondo non era affatto semplice: era soltanto differente. Aveva una densa rete di comunicazione fatta di media e modi oggi dimenticati […] i segreti del re venivano messi a nudo sotto l’Albero di Cracovia e i media si intrecciavano in un sistema di comunicazione tanto potente da rivelarsi decisivo nella caduta dell’Antico Regime.2

Oltre al peso delle informazioni, il ruolo che assume la manifestazione del proprio gusto non è da tenere in minore considerazione. Nel Settecento cambia il rapporto con l’arte, per esempio, ma soprattutto con la realtà. Molte persone sono chiamate a valutare, a giudicare. Si forma un pubblico. L’esercizio del gusto ha luogo, ed è questa la cosa fondamentale, sempre di più intorno a fattori puramente visivi, a posture che permettono la giusta visioRobert Darnton, L’età dell’informazione. Una guida non convenzionale al Settecento (2003), Adelphi, Milano 2007, pp. 52 e 91. 2 

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ne. Le persone si esercitavano, non a caso, dinanzi a un panorama, a un belvedere. Come ha messo bene in evidenza il filosofo Larry Shiner: Per assaporare un paesaggio “pittoresco”, era necessario osservarlo nello stesso modo in cui si sarebbe guardato un dipinto. Questo atteggiamento puramente visivo ci sembra tanto naturale che è facile farsi sfuggire quello che invece fu il cambiamento da un atteggiamento morale e utilitaristico a un atteggiamento estetico.3

Un tale atteggiamento estetico diventerà sempre più importante. Come se tutto ciò che accade non ci stesse davvero accadendo. Il mondo di Facebook è il mondo del giudizio, il mondo del gusto e dell’informazione giunto a compimento. La fine del mondo del Web, che allo spettacolo aveva opposto l’incontro. Se si intende con apocalisse soprattutto il giorno del giudizio, con la conseguente fine del mondo, si può comprendere come Facebook voglia farla finita con il mondo del Web, nel senso che costituisce un reagente alla sua proliferazione. il trionfo dell’estetica e il trionfo di facebook

Il diffondersi dell’atteggiamento estetico, ovvero del giudicare ciò che ci è offerto alla vista, implica non 3 

Larry Shiner, L’invenzione dell’arte (2001), Einaudi 2010, p. 180.

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poche conseguenze nelle abitudini delle persone. La conseguenza più importante è la riduzione della capacità di agire. Prima del Settecento, le opere d’arte, per esempio, non venivano semplicemente godute. Invadevano la nostra esistenza, mutavano il nostro modo di pensare. Non solo: non si era affatto a distanza dalle opere, in un godimento disinteressato. Nel 1778 Mozart, in una lettera al padre, poteva ancora lamentarsi di una situazione oggi inimmaginabile: mentre teneva un concerto nel salone della duchessa di Chabot, nessuno gli prestava veramente attenzione. Tutti facevano altro, e così a Mozart sembrava di suonare per i muri.4 Questo accadeva nei palazzi, ma nei teatri d’opera la situazione era certo peggiore: gli aristocratici sedevano proprio sul palcoscenico e non mancavano di dare fastidio. Non vi era un pubblico che sedeva in platea, prestando attenzione e rispetto. Con la diffusione dell’atteggiamento estetico, prima citato, tutto questo cambiò. Le persone non davano fastidio, certo, ma non socializzavano nemmeno più tanto. Erano intrattenute, nel senso forte del termine. E oggi, ciò che è stato chiamato “società dello spettacolo”, ha fatto proprio questo principio per tutti gli aspetti della vita. Siamo costantemente intrattenuti, rinviati a giudizio in un modo molto più sottile di qualsiasi richiesta formulata da un pubblico ministero. 4 

Larry Shiner, L’invenzione dell’arte, cit., pp.176 e sgg.

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Tra Facebook e l’esposizione artistica – così come si presenta nell’epoca in cui si afferma l’atteggiamento estetico – vi sarebbe più di un legame. Non solo per quanto riguarda il giudizio, lo stare a guardare. Facebook, infatti, si fa erede della cultura estetica occidentale non solo per quanto riguarda l’estetica dello spettatore, ma anche per quella propria dell’artista. Secondo Groys, social network come Facebook “danno alle popolazioni globali la possibilità di collocare le proprie fotografie, i propri video e i testi secondo le modalità tipiche di una mostra d’arte”.5 Il trionfo di Facebook rientra in quel processo di estetizzazione della vita, che va oltre la sfera dell’arte e che coinvolge tutti gli aspetti della quotidianità. Il trionfo di Facebook coincide con ciò che Michaud ha chiamato “trionfo dell’estetica”6 e con l’affermarsi di ciò che Böhme ha chiamato “economia estetica”,7 dove diventa sempre più importante la messa in scena di sé. Le confessioni quotidiane su Facebook, l’esprimere se stessi costantemente aggiornato, riprendono una caratteristica dell’arte moderna (che scompare quasi nell’arte contemporanea), prima ristretta agli artisti e adesso diffusa e democratizzata: l’espressione autentica di un’interiorità. Facebook riprende la stessa illusione che poteva generare un’arte come quella di van Gogh o di Pollock, 5  Emanuela De Cecco, World Wide Hardware. Intervista a Boris Gorys, in “Mag”, n. 2, 2011, pp. 19-20. 6  Si veda Yves Michaud, L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica (2003), Idea, Roma 2007. 7  Si veda Gernot Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena (2001), Christian Marinotti, Milano 2010, p. 51.

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ovvero un profondo legame con i mezzi espressivi per esprimere originalità e autenticità. Come ha acutamente osservato Heinich, un tale legame viene rispettato dall’arte moderna grazie all’uso dei materiali classici, nella misura in cui il pennello intinto nel colore e passato sulla tela (o la matita, o il carboncino ecc.) e la materia grezza modellata e martellata dallo scultore garantiscono una continuità evidente tra corpo dell’artista e opera realizzata.8

Ma, mentre per l’artista moderno l’espressione dell’interiorità era un esercizio di libertà e avveniva spesso attraverso processi traumatici (si pensi a van Gogh), all’interno di un dispositivo come Facebook la messa in scena di sé diventa accessibile, semplificata e dunque standardizzata all’interno di procedure rigide, ma soprattutto diventa funzionale a un processo di identificazione di massa. A tale processo l’arte contemporanea, che abbiamo definito inesistente, si oppone incarnando un’estetica negativa, un altro modo di mostrare, capace di turbare le categorie ben identificate di cosa, artista, opera d’arte, spettatore. Essa, infatti, mostra innanzitutto degli indecidibili, ovvero cose, situazioni e persone dove l’identificazione risulta difficile, minacciata dal sospetto che ciò che viene presentato non sia davvero tale (che l’artista non sia davvero un artista, che l’opera sia semplicemente 8 

Nathalie Heinich, op. cit., p. 61.

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un oggetto comune, che lo spettatore si trovi di fronte a qualcosa che non merita attenzione). Facebook eredita l’atteggiamento estetico tradizionale, atteggiamento che trova il suo compimento nell’odierna società dello spettacolo, che consiste soprattutto nella partecipazione minimale, lontana dal rischio e a distanza visiva. Con il pulsante Mi piace e con le agevolate pratiche di messa in scena di sé viene abbassata al minimo l’intensità della partecipazione, affinché tutti possano partecipare. Mentre l’arte contemporanea ci chiede di prendere in considerazione, con notevole turbamento delle nostre categorie mentali, oggetti e pratiche non ben identificati, Facebook ci chiede sostanzialmente di compiere sforzi assai minimi. Lo stesso concetto di amicizia si svuota di senso. Come è stato osservato: Una delle principali critiche al fenomeno Facebook è il cambiamento della qualità e della quantità dei rapporti umani, che produce uno svuotamento di significato del concetto di amicizia. Basta un semplice click su un’icona per divenire amici. Da recenti studi emerge però che un normale utente di Facebook interagisce regolarmente con solo cinque o sei dei suoi “amici” e non sono più di 150 quelli con cui è davvero in contatto. […] Una persona è in grado di mantenere solo un numero limitato di contatti umani duraturi. Per un senso di gratificazione dell’io, nelle community sociali il numero di persone accettate come “amici” può salire invece fino ad alcune migliaia, trasformando di fatto questo eccesso di contatti in puri voyeur.9 Franziska Nori, World wide me, in Antonio Glessi et al., a cura di, Identità virtuali, Silvana, Milano 2011, p. 14. 9 

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Per il giornalista Malcom Gladwell, proprio perché social network come Facebook sono fondati sui legami deboli e sulla partecipazione minima, non possono cambiare l’ordine, soprattutto politico, delle cose. Un tale dispositivo di comunicazione favorisce i legami deboli che ci permettono di accedere alle informazioni, rispetto a quelli forti che ci aiutano a perseverare di fronte al pericolo. Sposta le nostre energie dalle organizzazioni che incoraggiano attività strategiche e disciplinate a quelle che incoraggiano l’elasticità e l’adattabilità. Permette ai militanti di esprimere le loro idee, ma rende più difficile che quelle idee abbiano qualche impatto. I social media sono adatti a rendere più efficiente l’ordine sociale che esiste già. Non sono un nemico naturale dello status quo.10

Ecco perché le autorità di ogni paese, e soprattutto gli Stati Uniti, caldeggiano la loro diffusione. Ai governanti piace, davvero. Come è stato osservato, “i regimi dittatoriali hanno iniziato a usare in maniera sofisticata e consapevole i social network, per reprimere il consenso”.11

10  Malcom Gladwell, Twitter non fa la rivoluzione, in “Internazionale”, 4 febbraio 2001. 11  Giovanna Loccatelli, op. cit., p. 167.

Aldilà di Facebook

facebook e l’aldilà

Chi ha frequentato Mark Zuckerberg quando era studente, lo descrive sempre come un individuo che solo nel mondo del Web riusciva a sentirsi a casa, in un mondo. Come è possibile leggere ancora dalla biografia di Mezrich: Sul suo viso stretto era assente qualsiasi altra espressione. E il suo atteggiamento – quel modo di apparire chiuso in se stesso, persino mentre era impegnato in una dinamica di gruppo, persino lì, al sicuro tra i suoi confratelli – era di un tale imbarazzo che faceva quasi pena. […] Fin dalle superiori aveva potuto constatare che i suoi pensieri apparivano più chiari quando lasciava che fluissero dalle sue dita. Visto da fuori, il rapporto che aveva con il computer pareva più facile e tranquillo di qualunque relazione potesse avere con una persona del mondo esterno. Sembrava felice unicamente quando guardava il proprio riflesso nello schermo. Probabilmente era qualcosa che aveva a che fare con il controllo: quando era al computer, il ragazzo aveva sempre in

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pugno la situazione. O forse era qualcosa di più, una sorta di simbiosi che si era creata dopo anni e anni di pratica. Quel mondo gli apparteneva. Sotto sotto, a volte forse era l’unico mondo che gli appartenesse.1

Quello che per molti era il mondo reale, per Mark Zuckerberg era motivo di impaccio e vergogna. Quel mondo, o quel che ne rimaneva, aveva qualcosa di pesante, che rendeva difficile ogni approccio: il corpo. Sul Web, Mark poteva mettere tra parentesi il suo corpo, navigare tra le pagine e gli algoritmi del suo computer. In fondo, stava contribuendo alla creazione di quel mondo senza carne che è il Web. Qualcosa di molto simile a un Aldilà, un mondo dopo la fine del mondo. Viene da pensare, allora, che il Web, e con esso Facebook, sia molto simile a un mondo dei morti, almeno come Platone lo aveva descritto in uno dei suoi dialoghi più celebri, il Cratilo. Un mondo dove le persone sono attratte da un dio che le vincola con il più forte dei legami, e che si avvale del fatto che riesce a “trovarsi con loro solo quando l’anima sia pura di tutti i vizi e le passioni che s’accompagnano al corpo”.2 Il mondo del Web (e di Facebook) si avvale dello stesso principio: ci si presenta senza corpo. È una caratteristica fondamentale dei social network. Come è stato giustamente osservato:

1  2 

Ben Mezrich, op. cit., pp. 13 e 39-40. Platone, Cratilo, 404 a.

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il social network rimuove dall’interazione il corpo e i significati che questo porta con sé: nell’interazione faccia a faccia il soggetto è il suo corpo […] nei social network la fisicità e l’immediatezza del corpo reale vengono sostituite da un corpo virtuale, composto da una pluralità di immagini parziali e contestualizzate: il mio corpo diventa la somma del mio volto truccato prima di andare a una festa, le mie gambe e il mio seno in costume da bagno, e cosi via.3

Su Facebook, la piccola foto sul nostro profilo somiglia, allora, più a una lapide continuamente aggiornata che a una singolarità vivente. facebook e il suo monito(r)

Il nostro profilo su Facebook impone subito una rigida impostazione, o, più precisamente, un regime di visibilità. Attraverso Facebook siamo monitorizzati. Non solo nel senso che molti possono osservare i nostri gusti e le nostre conversazioni, quanto piuttosto nel senso, più sottile, che il nostro monitor esercita la sua funzione originaria: quella di indurci a fare delle cose, di esprimere dei moniti. La parola “monitor”, infatti, significa “ciò che ci ammonisce”. Come ci ricorda il filosofo Peter Szendy: Come per l’equivalente francese moniteur, la parola inglese monitor indicava inizialmente un istruttore, una guida o un allenatore; con il tempo e con il progresso tecnologico, 3 

Giuseppe Riva, op. cit., p. 30-31.

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però, è divenuto un termine che designa un apparecchio di sorveglianza o un sistema di informazione (si parla così di monitor cardiaco o anche di monitor di controllo).4

Con Facebook il monitor ritorna alle sue origini, ovvero diventa qualcosa che ci spinge a fare e a essere in un certo modo. In primo luogo, ci spinge ad apparire in un certo modo, a rientrare in un preciso regime di visibilità. Come non ha mancato di rilevare Maddalena Mapelli: […] rispetto alle libertà espressive che il blog consente, fin dai primi atti che noi compiamo, nel momento in cui siamo chiamati a produrre un’immagine di noi stessi, Facebook ci persuade a seguire un preciso regime di visibilità che non è esplicitamente prescritto ma che si articola su una serie di ingiunzioni. Nel momento in cui ci iscriviamo a Facebook e iniziamo a costruire il nostro profilo, ci viene chiesto di inserire il nostro nome e cognome, la data di nascita, un indirizzo e-mail, una descrizione di noi stessi e una nostra immagine, il nostro avatar, il nostro alter ego digitale. “Upload a profile picture” è l’ingiunzione che tutti noi riceviamo. Possiamo scegliere di non far vedere a nessuno o di condividere solo con gli amici alcuni dei nostri dati sensibili, quali la data di nascita o l’indirizzo e-mail. Quel che invece non possiamo in alcun modo nascondere è il nostro nome e cognome e la nostra immagine. Se decidiamo di non caricarne alcuna, apparirà, al posto del nostro volto, un’immagine poco attraente: un grande punto interrogativo che in calce rinnoPeter Szendy, Interecettare. Estetica dello spionaggio (2006), Isbn Edizioni, Milano 2008, pp. 40-41. 4 

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va l’ingiunzione “Upload a profile picture”. […] la quasi totalità degli utenti è indotta a utilizzare il proprio nome e cognome anagrafico e a pubblicare una foto vera di sé. In questo senso la promozione visiva di sé risponde alle finalità del dispositivo stesso, […] che ci vuole tutti presenti in un certo modo, un po’ come nella nostra carta di identità, con dati anagrafici veri.5

Il mondo di Facebook è un mondo fatto di identità visive, di identità che si contengono e si identificano a vicenda. soggetti sospetti. diffidate di cartesio

Se il Web ha significato per molto tempo anche una certa invenzione di sé, un assumere spesso delle identità fittizie, Facebook, al contrario, ha represso il più possibile tale creatività, svelandone il suo carattere sospetto. Quella che prima poteva essere definita creatività, ovvero la cultura dell’avatar, è ora vista sempre di più con sospetto. Un segnale di questa guerra all’avatar è ben espresso implicitamente in tutto il film di James Cameron, Avatar. Nel 2154 una compagnia del pianeta terra colonizza il pianeta Pandora, per estrarre un prezioso minerale. L’unico impedimento è la presenza del popolo indigeno dei Na’vi, umanoidi ostili ai colonizzatori umani. Maria Maddalena Mapelli, Facebook. Un dispositivo omologante e persuasivo, cit., pp. 118-119. 5 

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Per costringerli ad andarsene dal luogo dove si trova il più consistente giacimento del prezioso materiale, vengono utilizzati degli avatar dei Na’vi, ibridi genetici tra l’uomo e i Na’vi creati dagli scienziati, a cui degli esseri umani possono collegarsi attraverso un’interfaccia tecnologica che permette loro di assumere il controllo del corpo dell’avatar, come se si trattasse del proprio. Chi si collega all’avatar cade in una sorta di coma, che gli permette di possedere il corpo dell’ibrido genetico. Gli umani possono far valere così degli infiltrati, per sbarazzarsi dei Na’vi. Ovviamente, in questa sede, non ci interessa tanto sapere come finisce la storia, quanto sottolineare che alla fine del film l’umano infiltrato diventerà un vero e proprio Na’vi, rinunciando così alla sua natura umana, e sopprimendo soprattutto il meccanismo dell’avatar. Uno dei messaggi del film potrebbe essere questo: rinuncia a una doppia identità, scegli piuttosto chi veramente sei. Ritornando al Web: in questo mondo virtuale, vero e proprio mondo ultraterreno, i soggetti, messo il corpo tra parentesi, si rivelano per quello che sono: delle cose sospette, delle cose di cui sospettare. Potrebbero essere chiunque, attraverso i loro avatar telematici. La cultura occidentale ha fatto proprio il pensiero di Cartesio, fraintendendo così la vera natura del soggetto. Cartesio, com’è noto, ha creato la prima vera filosofia del soggetto, mirabilmente riassunta della frase: “cogito ergo sum”, penso dunque sono. Ovvero: il soggetto può mettere benissimo tra parentesi il corpo, gli basta il pensiero per sostenere la sua esistenza.

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Come arriva a questa conclusione? Semplice: ipotizzando una fine del mondo. Una fine del mondo teorica, ovviamente. Un esperimento mentale di un filosofo del Seicento. Nelle sue celebri Meditazioni, Cartesio sostiene che può mettere in dubbio l’esistenza di ogni cosa, del mondo intero. Come se finisse il mondo. Resta il soggetto, che non può dubitare di star dubitando di tutto. Dunque è certo almeno del suo dubbio, cioè del suo pensiero. Pensa, dunque esiste certamente. Ma questo soggetto che pensa, questo soggetto che io sono, è certo inoffensivo. Cartesio ha messo su una vera e propria favola del soggetto. L’esperienza comune ci dice, in effetti, il contrario della filosofia di Cartesio: non è il soggetto a dubitare semplicemente, bensì il soggetto è ciò di cui si dubita. Un corpo di un uomo di fronte a noi può celare le sue intenzioni, per lo più dobbiamo credergli. Ma un soggetto è ciò di cui si può sempre dubitare. Potrebbe fare qualsiasi cosa. Sul Web, allora, il soggetto esce come allo scoperto, nella sua essenza. Ha messo tra parentesi il suo corpo, e ora può essere chiunque, rubare l’identità di un altro, per esempio. Con Facebook, tutto questo è stato fortemente contrastato. Un profilo fantasioso, o che cerca di fare le veci di un’altra identità, può essere in ogni momento segnalato dagli utenti come profilo falso o addirittura come furto d’identità.6 Si veda Maria Maddalena Mapelli, Per una genealogia del virtuale. Dallo specchio a Facebook, Mimesis, Milano 2010, pp. 33-35. 6 

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Come cercheremo di dimostrare nel prossimo capitolo, il dispositivo-Facebook rivela di aver compreso la radice fondamentale dei media e di essersi così inserito pienamente nella competizione che la nostra tradizione di pensiero da sempre ha organizzato per i media stessi.

Minimalismi Facebook e l’arte contemporanea

la lotta per la trasparenza la fine del web e la vittoria di facebook

Per meglio comprendere il fenomeno Facebook bisogna comprendere come sono cambiate le cose. Capire che cosa è davvero accaduto. L’11 settembre 2001 il crollo delle Torri Gemelle ha sconvolto il mondo e ha ridisegnato i confini politici ed economici dell’intero pianeta. L’evento per eccellenza. Tuttavia è interessante cercare di capire, che cosa è davvero accaduto. Se, a un’analisi più attenta, l’evento non si sfogli e riveli il suo interno. Quel giorno, infatti, ci sono state una vittoria e una sconfitta non solo sul campo politico, quanto sul piano mediatico. Quel giorno tutti hanno assistito a qualcosa senza chiedersi cosa stesse rendendo possibile tutto quello. Quel giorno, l’11 settembre 2001, la televisione ha vinto su tutti i media con cui era in competizione: sul cinema, sull’arte e soprattutto sul Web. Ha vinto nella gara della trasparenza, che è la gara che la nostra cultura, da Platone fino ad oggi, ha allestito per i media.

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Il mezzo di comunicazione è tanto più buono, quanto più riesce a essere immediato e trasparente, quanto più riesce a rendersi invisibile come medium. Massima diffusione, minima opacità. Non si può che sottoscrivere, allora, l’analisi del sociologo Jay David Bolter su ciò che è accaduto l’11 settembre. Secondo Bolter, infatti, la televisione ha vinto su tutti gli altri media: Essa – sostiene il sociologo – ha garantito immediatezza attraverso il flusso delle immagini “dal vivo” e l’infinita riproposizione del collasso strutturale delle torri. Più di un testimone della tragedia ha affermato che non è riuscito a vedere ciò che aveva visto se non dopo essere arrivato a casa e aver assistito alla “copertura” televisiva dell’evento: la televisione ha svolto dunque la funzione di validare la realtà dell’esperienza. Il medium cinematografico, al contrario, esce sconfitto dal confronto. Sia i giornalisti che i soggetti intervistati sembrano voler sottolineare la straordinaria somiglianza dell’evento con un film. In altre parole, la tremenda capacità distruttiva è stata pianificata in modo troppo perfetto per essere reale; assomiglia piuttosto a una produzione che Hollywood avrebbe voluto realizzare. Che dire di Internet? Come se l’è cavata questo nuovo medium? Nonostante l’impressionante numero di contatti ricevuto dai principali siti di news, non c’è stata di fatto competizione rispetto alla capacità televisiva di catturare l’immaginario collettivo con le sue immagini dal vivo. Nelle settimane seguenti l’attentato, inoltre, Internet è stato rappresentato piuttosto negativamente, come lo strumento mediante il quale i terroristi avevano potuto organizzare i loro piani.1 1 

Jay David Bolter e Richard Grusin, Remediation. Competizione e

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Il Web avrebbe rimediato a questa sconfitta solo con la sua fine. Prima di Facebook, era il luogo per eccellenza della crisi dell’identità e della sua sperimentazione.2 Era il luogo dove le persone potevano fingere di essere altro e altri. Un luogo certo insidioso, un vero e proprio mondo. Adatto soprattutto a esploratori, navigatori, pirati. Sul Web, una volta, si navigava. Oggi, con Facebook, le cose sono cambiate: come se si fosse toccato terra e si fosse invitato tutti. Il Web è finito, dando vita a Facebook. A partire dal 2001, si assiste a una vera e propria svolta identitaria dei social network. Anche se un social network simile a Facebook fu creato nel 1996, ovvero Sixdegrees, la sua chiusura nel 2001 è significativa: fino a quel momento a nessuno interessava molto rendere esplicita la propria rete sociale e non c’erano significativi investimenti su tale dispositivo. Nel 2001 nasce invece una seconda generazione3 di social network, come Ryze, e subito dopo Friendster. Ogni utente era identificabile proprio grazie all’esplicitazione della sua rete sociale (gli amici). Ma l’infrastruttura informatica lasciava a desiderare. Il medium si avvertiva e non era affidabile. Uno strumento, come ci insegna Heidegger,4 non è efficace per ciò che fa una sola volta, ma per ciò integrazione tra media vecchi e nuovi (1999), Guerini e Associati, Milano 2003, pp. 21-22. 2  Si veda Sherry Turkle, La vita sullo schermo (1996), Apogeo, Milano 2005. 3  Si veda Giuseppe Riva, op. cit., pp. 79-81. 4  Si veda Martin Heidegger, Sentieri interrotti (1950), La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 20.

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che permette durevolmente di fare. Il nostro rapporto con i mezzi è innanzitutto un rapporto di fede in questi stessi mezzi. Non è un caso che i migliori vengano chiamati Hi-Fi, sigla che notoriamente sta per High Fidelity. Un social network come Facebook ha fatto dell’affidabilità la sua ossessione, al punto tale da portare questo principio alla radice del medium stesso. Uno dei punti di forza di Facebook sta nell’aver compreso come funzionano davvero i media, che cosa mediano. Facebook si spinge, pertanto, al livello minimale del medium. Come è stato ben chiarito dai sociologi Bolter e Grusin, un medium è “ciò che rimedia”,5 ovvero il medium di un altro medium. Pertanto un medium, soprattutto un medium di comunicazione, è totalmente affidabile quando l’affidabilità abbraccia entrambi i media della relazione, ovvero quando l’esposizione e ciò che viene esposto sono sicuri. Solo su questo terreno Facebook può vincere la competizione con la televisione, oltre che con gli altri social network. Ecco, perché, oltre a una solida struttura informatica, Facebook deve rendere trasparenti e affidabili i suoi stessi utenti, ovvero ciò che il medium Facebook media, mette in contatto. Non potendolo fare attraverso la coercizione (che ne decreterebbe il fallimento), lo fa tramite persuasione. Ecco, infatti, dove si nasconde il segreto del successo di Facebook: nell’invito alla trasparenza fatto agli utenti, invito che è un vero e proprio monito. Come ben 5 

Jay David Bolter e Richard Grusin, op. cit., p. 93.

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sintetizza David Kirkpatrick, autore di una documentata storia del “fenomeno Facebook”, il social network si basa sull’identità reale: Su Facebook è importante essere se stessi, oggi come nel febbraio 2004, quando il servizio fu lanciato a Harvard. L’anonimato, l’interpretazione dei ruoli, gli pseudonimi e i nomignoli sono sempre stati la norma sul web: basti pensare agli screen name di AOL. Ma su Facebook si usano poco. Se inventate un personaggio, o alterate profondamente il modo in cui vi presentate, non otterrete grandi risultati su Facebook: se non interagite nei vostri panni, gli amici non vi riconosceranno o non ricambieranno l’amicizia. Uno dei metodi principali con cui gli altri utenti di Facebook possono sapere che voi siete davvero chi dite di essere è quello di esaminare la lista dei vostri amici. Di fatto, i vostri amici convalidano la vostra identità. Per avviare questo processo di convalida reciproca occorre usare il proprio vero nome.6

Gli amici su Facebook hanno, in primo luogo, dunque, una funzione identificante. Una funzione primitiva, che da sempre ci permette di capire chi siamo (dimmi chi frequenti e ti dirò chi sei). Tuttavia questa rete, per la prima volta, diventa visibile, dichiarata, documentata. Nessun documento di identità è mai stato così preciso. Le impronte digitali, come pure la nostra carta d’identità ci dicono solo di un’identità astratta, generica. Potenzialmente pericolosa. Da un normale documento di identità non possiamo sapere le amiciDavid Kirkpatrick, Facebook. La storia (2010), Hoepli, Milano 2011, pp. 11-12. 6 

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zie, gli interessi, le circostanze relative a un individuo. Con Facebook, le relazioni e le circostanze diventano visibili e mappate. Come acutamente ha sostenuto il padre del Web Tim Berners-Lee, creazioni come Facebook allontanano gli utenti dal Web aperto e diventano dei veri e propri recinti di contenimento.7 strategie minimaliste

Tra gli interessi di Mark Zuckerberg, almeno fino all’ottobre 2011, figurano Platone e il minimalismo. Il padre della filosofia e una corrente artistica contemporanea. Le differenze fondamentali tra l’esposizione su Facebook di cose e persone e quella effettuata dall’arte che abbiamo chiamato inesistente, ruotano proprio intorno a come questa coppia viene affermata in entrambi i dispositivi. Platone è il filosofo della “sincerità mediale”,8 ossia dell’immagine fedele e della comunicazione trasparente, oltre che il filosofo delle mondo delle idee, ovvero del primato dell’ideale sulla sensibilità. Da questo punto di vista, il ridurre ai minimi termini il design del sito, caratteristico di Facebook, al fine di rendere il più trasparente possibile la comunicazione, più che il minimalismo artistico contemporaneo sposa il minimalismo filosofico di Platone. 7  Si veda Franco Berardi Bifo e Carlo Formenti, L’eclissi, Manni, Lecce 2011, p. 18. 8  Per questo concetto si veda il saggio di Boris Groys, Il sospetto, cit., pp. 56-68.

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Il minimalismo, come forma d’arte, è, invece, l’opposto della comunicazione trasparente. Il suo ridurre ai minimi termini l’espressione artistica produce, infatti, interpretazioni contrastanti, nonché un sospetto fondamentale spesso proprio per l’inafferrabilità della sua idea, né esplicita, né trasparente. In tal caso, l’arte contemporanea sottolinea un aspetto fondamentale dell’idea e del pensiero, che la tradizione filosofica, da Platone in poi, ha sempre mancato. Come sottolinea Boris Groys: L’uomo non pensa, egli parla soltanto. Ma l’uomo viene da altri uomini sospettato non solo di parlare, ma anche di pensare, cioè di “intendere” necessariamente ciò che dice. La realtà del pensiero è la sola realtà del sospetto che si impone necessariamente all’osservatore che considera le altre persone che parlano.9

Divenendo sempre più concettuale, l’arte fa dell’idea il cuore della sua non identità. In questo modo le Brillo Box di Warhol saranno sempre diverse dalle Brillo Box comuni, per l’idea che incarnano. Non qualcosa di dato e di trasparente, ma, proprio quando gli elementi espressivi sono ridotti al minimo, qualcosa che innesca spesso un’avventura senza fine per cogliere l’idea nascosta nell’opera, non priva di contrasti. È quanto accade, per esempio, a tre amici in Arte, l’opera teatrale di Yasmina Reza: l’oggetto del contendere è un quadro bianco, pagato moltissimo da uno 9 

Ivi, p. 58.

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degli amici. Quale sia il senso di questo quadro e il suo valore scatenerà un vero terremoto nella loro amicizia. L’interpretazione finale di uno dei protagonisti dice molto bene le potenzialità di un quadro così minimalista: Sotto le nuvole bianche cade la neve. Non si vedono né le nuvole bianche né la neve. Né il freddo né il riflesso bianco della terra. Solo un uomo, con gli sci, che scende. Cade la neve. Cade finché l’uomo scompare nel vuoto. Serge, un mio vecchio amico, ha comprato un quadro. Una tela di un metro e sessanta, per uno e venti circa. Rappresenta un uomo che attraversa lo spazio e poi scompare.10

10 

Yasmina Reza, Arte (1994), Einaudi, Torino 2006, p. 51.

Conclusione

Molti credono di possedere un’identità. Ma si sbagliano. Essa rientra in un processo di identificazione, che si gioca al di là della cosa rappresentata. Per molto tempo i filosofi, e non solo loro, hanno sostenuto che l’identità fosse una proprietà delle cose. Ma essa è invece scandita da documenti, registrazioni, tracce (nella memoria e nelle cose), ovvero da specifici dispositivi. L’identità è il frutto di un’archiviazione che, non di rado, è soggetta a essere dichiarata e, dunque, mostrata. Al punto che è sempre possibile porre la domanda: “ci è sempre dato scegliere come chi essere identificati?”.1 Siamo sempre soggetti a dispositivi di identificazione personali e impersonali. Facebook e l’arte contemporanea incarnano, a tal proposito, due modi di identificazione radicalmente opposti: mentre l’arte contemporanea presenta una 1 

Si veda Valentin Groebner, op. cit., p. 17.

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disidentificazione, negando ciò che mostra, Facebook avanza l’identificazione massima, attraverso le strategie che abbiamo analizzato (visualizzazione della rete sociale, anoressia informativa, monitorizzazione, sincerità mediale), ma entrambi testimoniano il fatto fondamentale che l’identificazione si gioca al di là degli individui. Come giustamente ha scritto Valentin Groebner: L’identità non è qualcosa che il singolo possiede in quanto tale, ma […] al pari dell’identitas medioevale, essa definisce un insieme di segni collettivamente usati, grazie alla cui combinazione di volta in volta individuate una persona viene riconosciuta.2

Una delle tesi fondamentali sostenute in questa ricerca è che l’identificazione massima pone una fine del mondo, dove il mondo è la possibilità dell’oltre, la possibilità che a qualcosa si possa aggiungere dell’altro. La possibilità che il mostrato abbia dietro qualcos’altro: un’idea, un’altra realtà, che genera sospetto e ricerca. Con la sua identificazione, Facebook produce una vera e propria fine del mondo del Web. Al contrario, la strategia dell’arte contemporanea si è rivelata una vera e propria apertura di mondo: contro le identificazioni, essa pone oggetti, situazioni, incontri dove diventa evidente che c’è qualcosa di non evidente, che sfugge, che si sottrae, anche quando l’oggetto mostrato sembra essere comune e ben identificato. Con Facebook, le speranze di apertura del Web sem2 

Valentin Groebner, op. cit., p. 27.

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brano essersi di colpo contratte e, per andare al di là del noto e del celebrato, forse vale la pensa soffermarsi ancora intorno all’arte, soprattutto intorno a quell’arte che non sembra tale. Forse vale la pena lasciarla entrare nei nostri pensieri. Forse il mondo dell’arte è ora l’unico mondo dopo la fine del mondo.

Ringraziamenti

Questo testo probabilmente non sarebbe stato possibile senza i corsi svolti presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, nell’a.a. 2010-2011. Ringrazio tutti gli studenti che, con i loro interventi, hanno permesso di rivedere molti punti del testo e di essere più chiaro. Parte del testo, soprattutto quella relativa all’arte contemporanea, è stata presentata nella quinta edizione (2011) del Trip filosofico, grazie a Franco Rendano e Katia Bazzocchi che ne hanno sostenuto ancora l’iniziativa. L’idea del libro, nel suo complesso, è stata presentata il 13 ottobre 2011, durante un seminario del ciclo di Filosofia in ¾, progetto sostenuto dall’Università del Salento. Un particolare ringraziamento va a Giovanni Carrozzini, Caterina Annese, Sergio Solombrino, Andrea Bardin, che mi hanno aiutato non poco a rendere il discorso più robusto e articolato. E “last but not least”: un ringraziamento speciale va a Stefania La Rosa, che per prima ha ritenuto plausibile la tesi del testo, quando a tutti sembrava folle.