Il perturbante dell'architettura. Saggi sul disagio nell'età contemporanea 8806172565, 9788806172565

Lo straniamento all'interno delle pareti domestiche ha una lunga storia. Sensazioni di sottile o di opprimente inqu

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Il perturbante dell'architettura. Saggi sul disagio nell'età contemporanea
 8806172565, 9788806172565

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Anthony Vidier Il perturbante dell’architettura Saggi sul disagio nell’età contemporanea

Biblioteca Einaudi

Biblioteca Einaudi Arte. Architettura. Teatro. Cinema. Musica

Lo straniamento all’interno delle pareti domestiche ha una lunga storia. Sen­ sazioni di sottile o di opprimente inquietudine direttamente innestate nel cuo­ re della normalità quotidiana hanno accompagnato l’esperienza umana da sempre. Scrittori come E.T.A. Hoffmann e Poe ne hanno fatto il tema di straor­ dinari romanzi e racconti. Freud ne ha trattato dal punto di vista psicoanali­ tico. Anthony Vidler, in questo libro pubblicato nel 1992 e divenuto da allora un imprescindibile punto di riferimento per il dibattito critico e teorico, ana­ lizza gli effetti dell’azione del perturbante sull’architettura a partire dalla fi­ ne del Settecento, epoca in cui l’angoscia e lo spaesamento moderni hanno incominciato a divenire operanti. Ma è soprattutto ai nostri giorni che il per­ turbante non soltanto ha assunto il ruolo di fondamentale metafora di una generalizzata condizione d’invivibilità ma è entrato addirittura a far parte della strumentazione linguistica del progettista. Attraverso la raffinata lettu­ ra che Vidler ne compie, i progetti e le opere di alcuni tra i più noti architetti contemporanei - Peter Eisenman, Rem Koolhaas, Bernard Tschumi, John Hejduk, Coop Himmelblau, Elisabeth Diller e Ricardo Scofidio - mostrano un volto del tutto diverso da quello disimpegnato e ottimistico che solitamente appare: deformazioni, smembramenti, rotture, ben più che brillanti inven­ zioni stilistiche, risultano essere lo specchio infranto in cui si riflettono, in mo­ do più o meno consapevole, la perdita di radicamento e l’angoscia oggi do­ minanti nel mondo. Sommario: Introduzione. - Parte prima. Case: Case inospitali. - Sepolto vivo. - Nostalgia di ca­ sa. - Nostalgia. - Parte seconda. Corpi: L’architettura smembrata. - Perdere la faccia. - Trucco/Traccia. - Terreno mobile. - Case per cyborg. - Parte terza. Spazi: Spazio oscuro. - Posturbanesimo. - Psicometropoli. - Onirismo. - Architettura vagabonda. Trasparenza. - Indice analitico.

Anthony Vidler (1941) è professore e preside della Cooper Union School of Architectu­ re di New York. E uno dei piu autorevoli storici e critici dell’architettura del panorama odierno. I suoi interessi spaziano dalTIlluminismo all’epoca contemporanea. Ha scrit­

to numerosi libri tradotti in diverse lingue, tra i quali The Writing on the Walls: Archi­ tectural Theory in the Late Enlightment (Princeton Architectural Press, 1987), Clau­ de-Nicolas Ledoux 1736-1806 (Electa, 1994), e il più recente Arte, architettura e disa­ gio nella cultura moderna (Postmedia, 2005).

€ 23,00

Biblioteca Einaudi 214

John Hejduk, House for the Homeless. (Da Vladivostock, Rizzoli, New York 1989, P- M7)-

Anthony Vidier Il perturbante dell’architettura Saggi sul disagio nell’età contemporanea

Einaudi

Titolo originale

The Architectural Uncanny. Essays in the Modem Unhomely

© 1992 Massachusetts Institute of Technology, Cambridge (Mass.) - London La Casa editrice, esperite le pratiche per acquisire tutti i diritti relativi all’apparato illustrativo dell’opera, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito.

© 2006 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Traduzione di Barbara Del Mercato

www.einaudi.it ISBN 978-88-06-17256-5

Indice

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Prefazione

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Nota al testo

Il perturbante dell’architettura 3

Introduzione

Parte prima 19 53 65 73

Parte seconda 79 95 113 129 163

Case

Case inospitali Sepolto vivo Nostalgia di casa Nostalgia

Corpi

L’architettura smembrata Perdere la faccia Trucco/Traccia Terreno mobile Case per cyborg

Parte terza

Spazi

187 197 209 219 227 239

Spazio oscuro Posturbanesimo Psicometropoli Onirismo Architettura vagabonda Trasparenza

249

Indice analitico

Prefazione

Molta architettura contemporanea mi pare contraddistinta da qualità allarmanti e interessantissime: brandelli di forme neocostruttiviste imitano corpi smembrati, il lato da mostrare al pub­ blico scompare sottoterra o si perde in riflessi di specchio, «pare­ ti che vedono» ricambiano lo sguardo passivo di cyborg domesti­ ci, gli spazi sono sorvegliati da occhi mobili e da «trasparenze» simulate, i monumenti storici sono indistinguibili dalle riprodu­ zioni patinate. Ho sentito perciò il bisogno di esplorare alcuni aspetti dell’architettura e degli spazi perturbanti, cosi come sono stati caratterizzati in letteratura, filosofia, psicologia e architettu­ ra dall’inizio dell’ottocento a oggi. Segnato dalle sue origini risa­ lenti al pensiero romantico, il tema del perturbante ci aiuta a col­ legare la riflessione architettonica sulla natura peculiarmente in­ stabile della casa (house e home) a una meditazione più generale sui problemi dello straniamento sociale e individuale, dell’aliena­ zione, dell’esilio, della condizione dei senzatetto. L’architettura si associa intimamente alla nozione di pertur­ bante fin dalla fine del Settecento. Per un verso, la casa è stata teatro di infinite rappresentazioni di spettri e fantasmi aleggian­ ti, di sdoppiamenti, smembramenti e altri terrori letterari e arti­ stici. Da un altro punto di vista, gli spazi labirintici della città mo­ derna sono stati interpretati come fonti dell’angoscia moderna, a partire da rivoluzioni ed epidemie fino a fobie e alienazione; l’esi­ stenza stessa del romanzo giallo si basa su paure come queste «l’omicidio irrisolto è perturbante», scrisse lo psicanalista Theo­ dor Reik. Al di là di questo ruolo non poco teatrale, tuttavia, l’architet­ tura rivela la struttura profonda del perturbante in modi che non si limitano alla semplice analogia, dimostrando allarmanti trasfu­ sioni tra ciò che pare confortevole e accogliente (homely) e ciò che è decisamente spaesante e inospitale (unhomely). Cosi come è sta-

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Prefazione

to articolato teoricamente da Freud, il perturbante o unheimlich si radica, per etimologia e utilizzo, nella sfera domestica (dello heimlich), sollevando dunque problemi di identità legati al sé, all’al­ tro, al corpo e alla sua assenza: da qui nasce la sua forza nell’interpretare i rapporti tra psiche e dimora, corpo e casa, individuo e metropoli. Collegato da Freud al desiderio di morte, al fantasma della castrazione, al desiderio impossibile di fare ritorno all’utero materno, il perturbante è stato interpretato come un elemento do­ minante della nostalgia moderna, i cui elementi spaziali toccano ogni aspetto della vita sociale. Forse questo spiega perché, sulla scia della critica letteraria e psicanalitica successiva a Lacan e a Derrida, vari architetti con­ temporanei si siano appropriati di questo ambito per i loro studi sulla vita domestica e i suoi disagi, realizzando progetti che ten­ tano esplicitamente di provocare inquietudine e fastidio per rive­ lare i terrori occulti della casa. Tali progetti assumono il ruolo cri­ tico un tempo riservato alla letteratura e al pensiero sociale, in quanto si servono della forma architettonica e urbana per emula­ re le condizioni dello straniamento. Pur essendo impotenti di fron­ te al problema reale dei senzatetto, le loro diverse versioni di un perturbante spaziale riescono comunque ad articolare il funziona­ mento dell’architettura in rapporto al soggetto dedomesticato. Co­ me diagrammi analitici dello sguardo incarnato costruiti da un’ar­ chitettura protesica, spingono ai limiti la nozione di discorso teo­ rico in architettura, per riformularne i paradigmi di analisi spaziale. In questo libro non miro a una trattazione storica e teorica esauriente dell’argomento, né ho costruito o applicato una teoria completa del perturbante basata sulla fenomenologia, la dialettica negativa o la psicanalisi. Ho scelto, piuttosto, approcci che mi sem­ brano rilevanti nell’interpretazione di edifici e progetti contem­ poranei nati dal rinnovato interesse per il perturbante come me­ tafora di una condizione moderna fondamentalmente invivibile. In questo senso si tratta di un libro al tempo stesso storico (serve a situare il discorso contemporaneo entro la sua tradizione intel­ lettuale) e teorico (indaga i difficili rapporti tra politica, pensiero sociale e progettazione architettonica in un’epoca in cui le realtà dell’esistenza urbana e gli ideali della neo-avanguardia sembrano piu lontani che mai). La prima parte affronta il perturbante come concetto lettera­ rio, estetico, filosofico e psicanalitico da Schelling a Freud. Il sag­ gio di Freud sul perturbante, del 1919, è un punto di partenza teo­

Prefazione

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rico per discutere il filone del racconto inquietante negli autori ot­ to- e novecenteschi, compreso l’esempio preferito da Freud, cioè E.T.A. Hoffmann. Traccio la storia del perturbante spaziale, dal­ la sua genesi nell’estetica del sublime fino al suo pieno sfrutta­ mento nelle numerose «case stregate» immaginate nel periodo ro­ mantico da Victor Hugo, Thomas De Quincey, Charles Nodier e Herman Melville. La riflessione di Melville sui recessi segreti del­ la vita domestica conduce a una discussione sul ruolo del pertur­ bante nelle fantasie di sepoltura e ritorno, inscindibili dalla con­ sapevolezza storica e archeologica dell’ottocento. La qualità per­ turbante dell’archeologia nei siti di scavo da Pompei a Troia forni a Freud una metafora portante nello sviluppo della psicanalisi e lo spunto per la sua disquisizione sulla paura di essere sepolti vivi, un caso di esame nel suo studio psicanalitico del perturbante co­ me tipo particolare di paura, che si situa tra il terrore vero e pro­ prio e l’angoscia incipiente. Ammantato di nostalgia tardo otto­ centesca, del tipo evocato nelle fantasticherie malinconiche di Wal­ ter Pater, il perturbante divenne un tropo ugualmente efficace per immaginare il luogo di nascita «perduto», contrapposto alla casa senza radici della società postindustriale, negli scritti dei critici della modernità, da Gaston Bachelard a Martin Fleidegger. Questi temi ci offrono una base di partenza concettuale per esaminare alcuni progetti architettonici e urbanistici contempora­ nei che pongono, implicitamente o esplicitamente, la questione dello spaesamento nella cultura moderna. Nella seconda parte esa­ minerò i rapporti complessi e mutevoli che legano edifici e corpi, strutture e siti e che in anni recenti hanno caratterizzato il tenta­ tivo di destabilizzare le convenzioni dell’architettura tradiziona­ le, facendo riferimento alle teorie critiche dello straniamento, dell’indeterminazione linguistica e della rappresentazione usate come veicoli della sperimentazione architettonica di avanguardia. Qui il problema del perturbante diventa specifico, si incarna in forme architettoniche che tentano di esprimere il rapporto preca­ rio tra dimora psicologica e dimora fisica. L’analisi condotta da Freud sugli effetti inquietanti dei corpi smembrati è particolar­ mente ricca di spunti per chi voglia interpretare una frammenta­ zione architettonica che rifiuta l’incarnazione tradizionale della proiezione antropomorfica in una forma costruita. Cosi l’opera di Coop Himmelblau a Vienna, gruppo fondato da Wolf D. Prix e Helmut Swiczinsky alla fine degli anni sessanta, ha messo programmaticamente in discussione le verità architetto-

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Prefazione

niche assodate, ricorrendo a forme neocostruttiviste progettate espressamente per sfidare la nozione borghese di Heimlichkeit per mezzo della rimozione del corpo classico dalla sua collocazione pri­ vilegiata entro la teoria e la prassi architettonica. Concepiti tra­ mite un processo progettuale non molto diverso da una scrittura automatica, i progetti di Coop Himmelblau tentano di recupera­ re un collegamento immediato tra linguaggio corporeo e spazio, tra l’inconscio e il suo habitat. Segni di questo smembramento del­ la figura corporea nelle opere architettoniche sono evidenti anche, se pure in maniera meno evidente, nell’annullamento della figu­ ratività monumentale nella Staatsgalerie di James Stirling a Stoc­ carda - un edificio che, nonostante i suoi richiami ad archetipi classici, rifiuta di mostrare una facciata tradizionale. Il progetto di Bernard Tschumi per il nuovo parco di La Villette, nella zona nord-orientale di Parigi, sfrutta le critiche che già il modernismo aveva mosso, per mezzo di fotografia e cinema, all’antropomorfi­ smo classico. Le folies di Tschumi, versioni tardo novecentesche dei padiglioni nei parchi del Settecento, si uniscono alla teoria ci­ nematografica e al genere della bande dessinée, o fumetto, per crea­ re un’estetica di squilibrio calcolato. Ugualmente dedito a un’architettura che, per usare le sue pa­ role, «decompone» le forme dell’umanesimo classico, l’architetto newyorchese Peter Eisenman è stato influenzato dalla critica ra­ dicale del linguaggio filosofico elaborata da Jacques Derrida. Re­ sistendo agli echi superficiali della parola «decostruzione», Ei­ senman fa derivare le forme delle sue strutture semisepolte da trac­ ce geografiche che rispondono, forse inconsapevolmente, al pro­ blema della morte dell’architettura nei termini in cui lo teorizzò Hegel. A conclusione di questa sezione dedicata alle mutazioni del­ l’analogia corporea nell’architettura recente, identifico le caratte­ ristiche di ciò che si potrebbe definire bio-perturbante o tecnoperturbante, rappresentato dall’opera degli architetti newyorche­ si Elisabeth Diller e Ricardo Scofidio. I loro progetti si basano su un’attenta analisi delle indagini compiute da dadaisti e surrealisti sul corpo meccanico e trattano l’architettura e gli oggetti a essa correlati come dispositivi protesici sinistramente dotati di vita pro­ pria, in grado di produrre contaminazioni particolarissime tra bio­ logico e tecnologico. La loro ricerca diventa piu chiara grazie alla recente teorizzazione della cultura cibernetica compiuta da fem­ ministe come Donna Haraway, la quale ha introdotto il concetto

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di cyborg: un essere che non conosce le nostalgie associate alla na­ scita, ma produce tutti gli effetti spettrali del doppio, inteso come dispositivo euristico attraverso cui ripensare i rapporti politici di gender. La terza parte tratta delle implicazioni che il perturbante ha sull’urbanesimo e, in modo particolare, sull’interpretazione delle sue condizioni spaziali. Sulla scia degli affascinanti resoconti di Freud sugli effetti perturbanti del perdersi in città, e consapevo­ le della passione modernista per il singolo flâneur (da Breton a Benjamin) prenderò in esame i modi in cui psicologia e psicanali­ si hanno trovato nelle città un topos attraverso cui esplorare l’an­ goscia e la paranoia. Descrivo quella che potremmo chiamare una sensibilità posturbanistica che, dal surrealismo al situazionismo, ha contrastato la tendenza dell’urbanesimo moderno a voler co­ struire città senza memoria su altrettante tabulae rasae. Più inte­ ressati a tracce e residui (il materiale delle fantasticherie) che al nuovo, scrittori e architetti hanno escogitato modi sempre nuovi per mappare i riverberi sotterranei della città. Nelle loro attribu­ zioni, la territorialità perde ogni fissità, si mimetizza, si interra in altrettante emulazioni ironiche della strategia militare e geopoli­ tica; la soggettività diventa eterogenea, nomade, autocritica in am­ bienti erranti che rifiutano i luoghi comuni del focolare domesti­ co e della casa preferendo le incertezze della terra di nessuno. L’Office for Metropolitan Architecture (Oma) - inaugurato nel 1972 da Elia Zenghelis e Rem Koolhaas e dagli artisti Madelon Vriesendorp e Zoe Zenghelis, con studi a Londra, in Olanda e in Grecia - ha sempre esplorato con coerenza i legami psicologici del­ l’architettura urbana, servendosi di contrapposizioni postsurrea­ liste e di visioni moderniste riformulate ironicamente. Delirious New York di Koolhaas, pubblicato per la prima volta nel 1978, ap­ plicò all’architettura urbana una versione del «metodo critico pa­ ranoico» di Salvador Dali che gettò le basi dei suoi successivi in­ terventi indipendenti in Europa e indicò un cammino intellettua­ le poi imitato e trasformato da architetti olandesi più giovani, tra cui Wiel Arets e Wim Van den Bergh. Come direttori e fondato­ ri della rivista olandese «Wiederhalle», Arets e Van den Bergh hanno basato il loro lavoro su un’indagine continua del ruolo che memoria e desiderio svolgono nelle città. John Hejduk, più vicino a radici surrealiste nella sua lettura di André Breton e Raymond Roussel, ha sviluppato una forma di modernismo che si è opposta fin dall’inizio alle positività del funzionalismo, preferendo la pro-

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Prefazione

vocazione. Le costruzioni mobili di Hejduk, sede emblematica di una gamma di occupazioni moderne degne di Kafka, sono proget­ tate per la messa in scena di assalti di guerriglia in siti urbani pri­ vilegiati, da Vladivostok a Berlino. Questi architetti condividono tutti l’interesse per la sfera intangibile eppure palpabile dell’in­ conscio, un ambito che architettura e città dovrebbero sfruttare. Le nozioni di objet trouvé e ready-made sono considerate in appli­ cazione all’edificio nel suo complesso, il quale, nei suoi rapporti con la mente o con gli altri edifici, è in grado di suscitare associa­ zioni e, potremmo dire, di agire da veicolo per il genere di mecca­ nismi perturbanti già esplorati in Nadja di Breton o in Paysan de Paris di Aragon. Il libro si conclude con una valutazione del ruolo del soggetto moderno in architettura, cosi come è stato riformulato attraverso la teoria psicanalitica contemporanea. L’ideale modernista di un soggetto universale, rappresentato per mezzo della trasparenza e criticato da un postmodernismo pili opaco, è recentemente riaf­ fiorato nei programmi estetici di molti concorsi pubblici e in par­ ticolare in quelli per i grands projets parigini. La condivisione di un’estetica di questo tipo, inevitabilmente legata ai processi di ri­ specchiamento in una società dello spettacolo che tende a soppri­ mere qualsiasi profondità fenomenologica, sancirebbe la rottura di una lunga tradizione di incarnazioni antropomorfiche in archi­ tettura, con conseguenze spaziali perturbanti. Questo libro è stato scritto nell’arco degli ultimi cinque anni con il parziale sostegno della John Simon Guggenheim Founda­ tion, del National Endowment for the Humanities e di due con­ gedi sabbatici concessi dall’Università di Princeton. Alcuni capi­ toli sono stati pubblicati in risposta a quesiti formulati da varie persone: Suzanne Stephens («Skyline»), Hubert Damish e JeanLouis Cohen («Critique»), Michael Hays («Assemblage»), Ales­ sandra Ponte e Marco De Michelis («Ottagono»), Georges Teyssot e Pier Luigi Nicolin («Lotus International»), Ignazio Solà Mo­ rales («Quaderns»), Toshio Nakamura («A+U»), Mary Walls («AA Files») e France Morin (The New Museum for Contempo­ rary Art di New York). Peter Brooks, Michael Fried, Raphael Moneo, Mark Taylor, Bernard Tschumi e Susan Suleiman hanno gen­ tilmente acconsentito all’organizzazione di forum di discussione interdisciplinari. Mark Cousins mi ha offerto commenti impor­ tanti e Hal Foster mi ha incoraggiato a esplorare il perturbante nei suoi contesti contemporanei. I miei colleghi e amici di Princeton,

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tra cui Beatriz Colomina, Alan Colquhoun, Elisabeth Diller, Ralph Lerner, Robert Maxwell e Mark Wigley, hanno dato un contri­ buto importante allo sviluppo delle mie idee. I partecipanti ai miei seminari di critica e teoria per laureati a Princeton mi hanno co­ stretto ad affinare le mie argomentazioni. Il Doctoral Program in Architecture presso il Georgia Institute of Technology mi ha in­ vitato a presentare questo lavoro quando era ancora incompleto e le reazioni di docenti e studenti sono state importanti per le revi­ sioni. Peter Eisenman non ha mai smesso di essere un critico pro­ vocatorio e i suoi quesiti mi hanno aiutato a mettere a fuoco mol­ ti capitoli centrali del libro. Alla Mit Press, Roger Canover non ha mai fatto mancare il suo sostegno a questo progetto e sono parti­ colarmente grato a Matthew Abbate per la sua acribia curatoriale. Senza l’esempio intellettuale di Emily Apter, le cui osservazioni e i cui acuti consigli sono stati tutt’uno con la stesura fin dall’ini­ zio, il libro non avrebbe potuto essere scritto. Dedico questo libro alla memoria di un amico e interlocutore, Alvin Boyarsky, che nelle vesti di direttore della Architectural As­ sociation School of Architecture di Londra ha saputo creare un luo­ go insostituibile per il dibattito architettonico. Se la serie di semi­ nari e conferenze da me tenuti presso la AA nel 1989 si è trasfor­ mata nel primo abbozzo di questo libro è merito della sua insistenza, e il presente lavoro deve molto alle sue critiche affettuose. Parigi, estate 1992.

Nota al testo. La Parte prima, Case, è apparsa parzialmente in The Architecture of the Un­ canny: The Unhomely Houses of the Romantic Sublime from Hoffmann to Freud, in «Assemblage», n. 3, primavera 1987. Il capitolo L’architettura smembrata è uscito in forma diversa con il titolo The Building in Pain: The Body and Architec­ ture in Post-Modern Culture, in «AA Files», n. 19, 1990. Perdere la faccia è stato pubblicato in «Assemblage», n. 9, 1989. Trucco/traccia è stato pubblicato in Ber­ nard Tschumi, La Case Vide, The Architectural Association, London 1986, e in The Pleasure of the Architect: On the Work of Bernard Tschumi, in «A+U», set­ tembre 1988. Terreno mobile è stato pubblicato con il titolo After the End-of-theLine .-Notes on the Architecture of Peter Eisenman, in «A+U», n. speciale, prima­ vera-estate 1988, poi con il titolo Counter-Monumentality in Practice : Peter Ei­ senman’s Wexner’s Center, in The Wexner Centerfor the Visual Arts. The Ohio State University, Rizzoli - Ohio State University Press, New York 1989. Case per cy­ borg è apparso, in una versione ridotta, su «Ottagono», inverno 1990 [traduzio­ ne parzialmente utilizzata qui]. Spazio oscuro è stato pubblicato in F. Morin (a cura di), Interrupted Life, The New Museum of Contemporary Art, New York 1991. Psicometropoli è stato pubblicato per la prima volta con il titolo The Irony ofMetropolis : Notes on the Work of OMA, in«Skyline», maggio 1982. Onirismo è stato pubblicato come The Resistance of the City .-Notes on the Urban Architec­ ture ofWielArets, introduzione a Wiel Arets Architect, Rotterdam 1989. Archi­ tettura vagabonda è stato pubblicato su «Lotus International», primavera 1991 [traduzione parzialmente utilizzata qui]. Trasparenza è stato pubblicato su «Anyo­ ne», 1992.

Abbreviazioni usate nel testo. EH G. w. F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, vol. II, Einaudi, Torino 1976. T. A. Hoffmann, Il consigliere Krespel, in Romanzi e racconti, vol. II, Ei­ naudi, Torino 1969.

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s. freud, Il perturbante (1919), in Opere 1917-1923 (L’io e l’es e altri scrit­ ti), vol. IX, Boringhieri, Torino 1977.

T. A. Hoffmann, L’Orco Insabbia, in Romanzi e racconti, vol. I, Einau­ di, Torino 1969.

Il perturbante dell’architettura

In memoria di Alvin Boyarsky

Introduzione

C’è qualcosa di inquietante - è cosi che comincia. Ma al­ lo stesso tempo bisogna andare in cerca di quel «qualcosa» di piu remoto, che è già a portata di mano. ernst bloch,

Philosophische Ansicht Des Detektivsromans.

La sensibilità contemporanea vede il perturbante sbucare in parcheggi deserti nei pressi di centri commerciali abbandonati o fatiscenti, nel trompe-l’œil sugli schermi dello spazio simulato e, dunque, nei margini consumati e nelle apparenze superficiali del­ la cultura postindustriale; ebbene, questa sensibilità ha le sue ra­ dici e sceglie i propri luoghi comuni in una tradizione lunga, ma essenzialmente moderna. I loci apparentemente benigni e total­ mente anonimi, le ambientazioni domestiche e leggermente pac­ chiane, l’immediato sfruttamento come frisson di un pubblico già stanco, tutto indica il perturbante come l’erede di una sensazione di disagio identificata per la prima volta verso la fine del xvni se­ colo. Esteticamente un’efflorescenza del sublime burkiano, una ver­ sione addomesticata del terrore assoluto, da sperimentare tra gli agi domestici e relegata nel genere minore del Märchen o della fia­ ba, il perturbante trovò la sua prima dimora nei racconti di E.T.A. Hoffmann e di Edgar Allan Poe. Il motivo prediletto era proprio il contrasto tra un interno sicuro e casalingo e l’invasione spaven­ tosa a opera di una presenza estranea; a livello psicologico, svol­ geva un ruolo di sdoppiamento, dove l’altro è, strano a dirsi, per­ cepito come una replica di sé, tanto piu spaventevole perché ap­ parentemente uguale. Al centro dell’angoscia provocata da simili presenze estranee c’era un’insicurezza di fondo: quella di una classe di recente isti­ tuzione, che non si sentiva completamente a casa in casa propria. In questo senso, potremmo caratterizzare il perturbante come la quintessenza della paura di tipo borghese: una paura attentamen­ te costretta entro i limiti della concreta sicurezza materiale e il principio di piacere fornito da un terrore che, almeno da un pun­ to di vista artistico, era saldamente sotto controllo. Il perturban­ te era, in questa prima incarnazione, una sensazione esperibile al

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Il perturbante architettonico

meglio nella privatezza di un interno. Ernst Bloch non fu il primo a osservare che ... l’ambientazione in cui si gusta al meglio un libro giallo è fin troppo con­ fortevole e accogliente: in una poltrona comoda, sotto una piantana accesa, con tè, rum e tabacco, protetti e pacificamente immersi in cose pericolose e futili1.

Il gusto vicario per il perturbante è una costante nella cultura mo­ derna e i mutamenti nei media lo hanno reso solo più intenso. Il perturbante però, come osservò Walter Benjamin, fu genera­ to anche dalla comparsa delle grandi città, dalle folle sgradevol­ mente eterogenee e dalle nuove proporzioni degli spazi, i quali esi­ gono un punto di riferimento che, pur non confutando una certa instabilità, riesce comunque a dominarla esteticamente. Qui il pun­ to di vista privilegiato (quello dell’osservatore di Hoffmann che si mantiene a cauta distanza dal mercato guardando dalla «Finestra del cugino» con un cannocchiale, di Poe e Dickens che osservano la folla, di Baudelaire che si perde nei boulevard brulicanti di gen­ te) è un tentativo di preservare un senso di sicurezza individuale, sostenuto solo precariamente dalla ricerca infinita del detective che segue tracce e indizi nel caos apparente della vita urbana moderna2. Nel contesto della città ottocentesca, l’alienazione dell’indivi­ duo espressa da autori che vanno da Rousseau a Baudelaire si rafforzò gradualmente grazie allo straniamento economico e socia­ le sperimentato effettivamente dalla maggior parte degli abitanti. Per Benjamin Constant, il quale scriveva nel periodo successivo al­ la Rivoluzione francese e all’impero napoleonico, lo straniamento urbano era una conseguenza dello stato centralizzato e della con­ centrazione del potere politico e culturale, dove tutte «le consue­ tudini locali» e i legami comunitari erano brutalmente recisi: Individui, sperduti in un isolamento che è contro natura, straniati dal luogo dove son nati, senza piu contatto col passato, vivi solo d’un effimero presente, buttati come atomi su d’una piana immensa e piatta, si staccano da una patria che il loro sguardo non ritrova piu da nessuna parte’. 1 e. bloch, Philosophische Ansicht des Detektivsromans (1965), in Literarische Aufsät­ ze, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1965. 2 w. benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire, in Gesammelte Schriften, vol. I, Frank­ furt am Main 1974, pp. 605-53 [trad. it. Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi 1962, pp. 109-30: «Angoscia, ripugnanza e spavento suscitò la folla metropolitana in quelli che primi la fissarono in volto» (p. 109). ’ B. constant, De l’esprit de la conquête et de l'usurpation dans les rapports avec la civi­ lisation européenne (1814), in Œuvres, Bibliohèque de la Pléiade, Paris 1957, p. 984 [trad, it. Conquista e usurpazione, Einaudi, Torino 1983, p. 48].

Introduzione

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Per Marx, una trentina di anni più tardi, lo straniamento in­ dividuale era divenuto alienazione di classe. Come egli osservò nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, lo sviluppo del sistema degli affitti nel migliore dei casi aveva trasformato la «casa» in un’illusione temporanea. Abbiamo detto [...] che l’uomo ritorna ad abitare le caverne, ecc., ma vi ritorna in una forma estraniata, ostile. Nella sua caverna, in questo elemen­ to naturale che si offre spontaneamente al suo godimento e alla sua prote­ zione, il selvaggio non si sente estraneo, e anzi vi si sente a casa come il pe­ rce nell’acqua. Ma l’abitazione del sottosuolo, dove vive il povero, è un’abi­ tazione ostile, «che si comporta come una potenza estranea, e gli si offre solo per quel tanto che egli offre ad essa il frutto del suo sudore di sangue»; egli non la può considerare come sua dimora ove possa finalmente dire: «qui so­ no a casa mia»; anzi egli vi si trova nella casa di un altro, in una casa estra­ nea, dove l’altro ogni giorno si apposta per metterlo alla porta se non paga l’affitto4.

Qui la questione dell’«estraneo», che più tardi divenne una no­ zione fondamentale nella sociologia di Georg Simmel e dei suoi se­ guaci all’inizio del secolo successivo, si univa con urgenza politica a ciò che Hegel aveva chiamato Entfremdung e Marx denominò Entäusserung. Questo senso di straniamento era rafforzato intellettualmente dalle qualità fastidiosamente transitorie della duplice base su cui poggiava ogni certezza ottocentesca: storia e natura. L’abitudine perturbante della storia a ripetersi, a riaffiorare in momenti im­ previsti e indesiderati, la caparbietà con cui la natura resiste all’as­ similazione di attributi umani e la sua tragica propensione all’iso­ lamento inorganico: tutto questo parve a molti confermare l’im­ possibilità di «vivere confortevolmente» nel mondo. Lo strania­ mento, in questi termini, sembrava la naturale conseguenza di una concezione della storia, dell’implacabile spinta del tempo che, men­ tre spazzava via il passato per far spazio al futuro, rimaneva ne­ cessariamente incerto solo a proposito del presente. Tutti i rime­ di a tale incertezza, i quali spaziavano dalla rivoluzione alla re­ staurazione, dalla riforma all’utopia, dovevano fare i conti con i 4 K. Marx, Ökonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844 [trad. it. Ma­ noscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2ooo'5, p. 138]. Cfr. anche l’osser­ vazione precedente di Marx nello stesso manoscritto: «L’uomo ritorna ad abitare nelle ca­ verne, la cui aria però è ormai viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai solo a titolo precario, rappresentando esse per lui una estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare», ibid., p. 129.

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Il perturbante architettonico

dilemmi della temporalità, legati al contesto inospitale del «qui e adesso» anche mentre immaginavano un «là e poi». A questa an­ sia del tempo, espressa negli sforzi intellettuali di immaginare fu­ turi impossibili o di ritornare a passati altrettanto impossibili, si accompagnava il fascino per le conseguenze degli errori del tem­ po: da un lato gli effetti distopici dell’interferire inusitatamente con lo sviluppo naturale delle cose, dall’altro gli effetti psicologi­ ci di shock passati e futuri. Sempre piu generalizzato in quanto condizione dell’angoscia moderna, alienazione collegata alle proprie origini individuali e poetiche nel romanticismo, nella metropoli, il perturbante diven­ ne infine pubblico. Inteso come un modo di sentire, non era più facilmente confinato negli interni domestici o relegabile nei covi immaginari delle classi misteriose e pericolose: travalicava i confi­ ni di classe con la stessa facilità di pestilenze ed epidemie. E for­ se per questo che, a partire dagli anni settanta dell’ottocento, il perturbante metropolitano fu sempre più spesso annoverato tra le malattie della metropoli, un disturbo patologico da cui erano po­ tenzialmente afflitti gli abitanti di tutte le grandi città; un distur­ bo che era sfuggito, grazie alla forza dell’ambiente, al dominio iperprotetto del racconto. In questo caso il perturbante veniva iden­ tificato con tutte le fobie associate alla spazialità, compresa «la peur des espaces» o agorafobia, alla quale si sarebbe presto af­ fiancato il suo inverso, la claustrofobia. In tal guisa psicologizzato, il perturbante emerse alla fine del xix secolo come una particolare occorrenza delle molte malattie moderne, dalle fobie alle nevrosi, variamente descritte da psica­ nalisti, psicologi e filosofi come un allontanamento dalla realtà che la realtà stessa rendeva necessario. Il suo spazio era ancora un interno, ma ora l’interno della mente, che non conosceva limiti di proiezione o introversione. I suoi sintomi comprendevano la paura dello spazio, la quale conduceva alla paralisi dei movimen­ ti, e la paura temporale, che causava amnesie storiche. In entrambi i casi il perturbante emergeva, come dimostrò Freud, dalla tra­ sformazione di qualcosa che un tempo appariva familiare e do­ mestico in qualcosa di decisamente diverso - da heimlich a un­ heimlich. Nel suo saggio sul perturbante, pubblicato nel 1919, Freud scel­ se di dare inizio alla sua indagine sullo straniamento personale ed estetico esaminando i complessi significati del termine tedesco che indica «perturbante», das unheimliche, letteralmente «non heim-

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lieh» (in inglese unhomelyf. Da un certo punto di vista, il saggio Das Unheimliche di Freud era in apparenza lo studio di un genere letterario e di un sentire estetico, e del resto la dettagliata lettura freudiana del racconto di E.T.A. Hoffmann, L’Orco Insabbia è ce­ lebre e commentatissima dalla critica letteraria. In quanto contri­ buto allo studio psicanalitico della letteratura II perturbante si af­ fianca a opere quali II doppio di Otto Rank e lo studio su Edgar Allan Poe compiuto da Marie Bonaparte6. Ma al di là dell’interes­ se mostrato da Freud nei confronti di questo tema durante la guer­ ra, e sotteso alla complessa argomentazione del saggio stesso, sem­ bra esserci stato un interesse socio-psicologico piu ampio. Per Freud la Unheimlichkeit era piu di una semplice sensazio­ ne di non appartenenza, era la propensione fondamentale di ciò che è familiare a rivoltarsi contro i suoi padroni, per diventare im­ provvisamente defamiliarizzato, dereale, come in un sogno. Die­ tro alle parvenze di un’innocua indagine sulle dimensioni psicolo­ giche del perturbante letterario, il saggio di fatto precipitò il per­ turbante in un territorio piu disturbante: quello del desiderio di morte. Scritto nel periodo successivo a quello in cui Freud cercò di penetrare i traumi della guerra, prima con Considerazioni attua­ li sulla guerra e la morte e Caducità del 1915-16, poi con Lutto e me­ lanconia, per concludere con la prefazione a uno studio collettivo sulle nevrosi di guerra, Il perturbante sembra incorporare, seppure in forma non dichiarata, molte osservazioni sulla natura dell’an­ goscia e dello shock che egli non era riuscito a includere negli stu­ di piu clinici sullo shock da granata. Parimenti, questo saggio pa­ re per molti versi anticipare l’allargamento della psicanalisi alle problematiche sociali che avverrà con Al di là del principio di pia­ cere del 1920. I temi dell’angoscia e della paura provocate da un senso vero o presunto di Unheimlichkeit sembravano particolar­ mente appropriati a un momento in cui, come osservò Freud nel 1915, l’intera Heimat d’Europa, culla e dimora apparentemente sicura della civiltà occidentale, stava attraversando un periodo di regressione barbarica; un momento in cui la sicurezza territoriale che aveva promosso la nozione di una cultura unitaria si era in­ franta, provocando una cocente delusione nei confronti del «mu’ s. Freud, Das Unheimliche (1919) [trad. it. Il perturbante, in Opere, vol. IX, Boringhieri, Torino 1977, pp. 77-118]. Tutte le citazioni da questo saggio sono tratte da questa edizione e indicate con «P». 6 C£r. o. rank, Der Doppelgänger, in «Imago», III (1914), pp. 97-164 [trad. it. Il dop­ pio: uno studio psicoanalitico, Se, Milano 2001].

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seo» universale della «madrepatria» europea7. La sede del pertur­ bante non era piu esclusivamente confinata alla casa o alla città, ma giungeva piu adeguatamente fino alla terra di nessuno tra le trincee, o fino ai campi devastati dai bombardamenti. In un momento in cui la storia pareva avere subito una bruta­ le battuta d’arresto, il perturbante rafforzò i propri legami natu­ rali con la nostalgia, unendosi a quello che a molti scrittori post­ bellici sembrò lo «spaesamento trascendentale» che György Lukàcs identificava con la condizione umana8*. La nostalgia di casa o del­ la patria {homesickness}, ovvero la nostalgia per la casa natale e au­ tentica, emerge cosi di fronte al colossale sradicamento della guer­ ra e della conseguente Depressione come il corollario mentale e psicologico alla mancanza di una casa {homelessness). E in questo contesto che si inseriscono le riflessioni malinconiche di filosofi come Martin Heidegger e Gaston Bachelard sulla natura (perdu­ ta) della «dimora», compiute attraverso letture nostalgiche dei poe­ ti del primo, romantico perturbante. Per Heidegger unheimlich, o ciò che Hubert Dreyfus preferisce tradurre con unsettledness (scom­ bussolamento, turbamento) riguardava, almeno nella sua formu­ lazione del 1927, la condizione fondamentale dell’angoscia nel mondo, il modo in cui il mondo era esperito come «non una ca­ sa». Nei termini di Dreyfus, Non solo gli esseri umani non sono che interpretazione, cosi che le nostre pratiche non possono mai radicarsi nella natura umana, nel volere divino, o nella struttura della razionalità, ma questa condizione è di tale radicale sradi­ camento da far sentire chiunque fondamentalmente turbato {unheimlich'), ov­ vero, chiunque percepisce che gli esseri umani non potranno mai sentirsi a ca­ sa nel mondo. Questo, secondo Heidegger, è il motivo per cui ci gettiamo con tanta determinazione nel tentativo di sentirci a casa e al sicuro’.

Naturalmente, dopo la seconda guerra mondiale Heidegger stesso mise le proprie ricerche al servizio di tale sicurezza. Ten­ tando di individuare le radici dell’abitare precedenti l’avvento dell’angoscia e tradendo una profonda nostalgia per il premoder­ 7 s. Freud, Zeitgemäßes über Krieg und Tod (19x5) [trad. it. Considerazioni attuali sul­ la guerra e la morte, in Opere, voi. Vili, Boringhieri, Torino 1984, pp. 121-50]. 8 G. lukàcs, Die Theorie des Romans [trad. it. Teoria del romanzo, Pratiche, Parma 1994, p. 68]: «l’antico parallelismo tra la struttura trascendentale nel soggetto raffiguran­ te e le forme prodotte nel mondo esteriorizzato è infranto, e [...] gli ultimi fondamenti del­ la raffigurazione non hanno piu una patria». ’ h. L. Dreyfus, Being-in-tbe-World : A Commentary on Heidegger’s «Being and Time», Division I, Mit Press, Cambridge (Mass.) 1991, p. 37.

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no, i suoi scritti successivi gettarono le basi per un vero e proprio discorso sull’abitare, successivamente ripreso tanto dai fenomenologi quanto dai postmodernisti dell’ultima ora10. Questa coincidenza tra sensibilità (intellettuale ed esistenziale) dell’esilio, nomadismo forzato ed esperienza diretta di una vita sen­ za fissa dimora come fu quella della Depressione non fece che raffor­ zare la sensazione sempre piu forte che l’uomo moderno fosse, es­ senzialmente e fondamentalmente, senza radici: «La mancanza di una casa si appresta a diventare il destino del mondo», scrisse Hei­ degger nella sua celebre Lettera sull’umanismo nel 1947. Allo stesso tempo, per le avanguardie moderniste il perturbante si offri prontamente come uno strumento di «defamiliarizzazione» o ostranenie-, come se un mondo estraniato e allontanato dalla propria natura potesse essere richiamato in sé solo per mezzo di uno shock, per effetto di cose rese volutamente «strane». Gli ar­ tisti e gli autori espressionisti, da Kubin a Kafka, esplorarono i malesseri meno nostalgici del perturbante moderno, propugnando i temi del doppio, dell’automa e della derealtà quali sintomi di un’esistenza poststorica. Gli artisti simbolisti, futuristi, dadaisti e naturalmente surrealisti e metafisici, riconobbero nel perturbante uno stato tra il sonno e la veglia che si prestava particolarmente a essere sfruttato. In questo modo, il perturbante si rinnovò come categoria estetica, ma ripensato come il segnale stesso della pro­ pensione modernista allo shock e al disturbante. «L’estraneità al mondo, - osservò Adorno citando il saggio di Freud sul perturbante - è un momento dell’arte». Per Adorno, in effetti, il movimento segreto del perturbante era l’unico modo ca­ pace di spiegare il motivo per cui gli shock piu violenti e i gesti di straniamente dell’arte contemporanea, si­ smogrammi d’una forma di reazione universale e inevitabile, sono pili vicini di ciò che appare semplicemente vicino solamente in virtù della sua realificazione storica11.

Le tecniche artistiche dello straniamento, asserì, hanno reso l’ar­ te meno alienata della condizione che vorrebbero affrontare. 10 «In diretta contraddizione con l’enfasi inizialmente posta sull’essenziale esperienza umana del turbamento, l’Heidegger più tardo si sforza di darci ‘la visione di un nuovo radi­ camento, il quale un giorno potrebbe persino riuscire a ricatturare, in una forma nuova, il ra­ dicamento di un tempo che ora sta scomparendo’», ibid., p. 337. Dreyfus cita da Was heißt Denken? di Heidegger [trad. it. Che cosa significa pensare?, in Saggi e discorsi, Milano 1976]. 11 T. w. adorno, Ästhetische Theorie [trad. it. Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975, pp. 260-61].

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E incontestato che la situazione antagonistica, ciò che nel giovane Marx si chiamava alienazione e autoalienazione, non è stata una degli agenti piu deboli nella formazione della nuova arte. Ma questa appunto non era una co­ pia, non era la riproduzione di quella situazione. Denunciando la situazione, trasponendola in «imago», l’arte è divenuta l’altro della situazione e tanto libera quanto la situazione proibisce ai viventi di esserlo12.

A sostegno della propria osservazione, Adorno cita il detto di Freud in base al quale «il terribile è terribile in quanto di nascosto è fin troppo familiare. Per questo viene respinto»1’. La familiarità dello straniamento nell’arte moderna, conclude Adorno, contrap­ posta alla distanza dell’opera d’arte «classica» e apparentemente familiare, nasce proprio dalla «rimozione» degli effetti dell’arte mo­ derna; il fatto che essa sia stata snobbata dai critici contemporanei è in realtà un segno della sua segreta comprensibilità. Cosi storicizzato, il perturbante potrebbe essere inteso come una significativa risposta psicanalitica ed estetica allo shock au­ tentico del moderno, un trauma che, aggravato dalla sua impen­ sabile ripetizione su di una scala ancor piu terribile durante la se­ conda guerra mondiale, non è stato esorcizzato dall’immaginario contemporaneo. Straniamento e spaesamento si presentano, da un punto di vista intellettuale, come le due parole d’ordine del secolo, cui il riaffiorare periodico di frotte di senza casa (a volte causate dalla guerra, a volte dalle disparità nella distribuzione della ricchezza) ha fornito sempre nuovi impulsi materiali e po­ litici. Se, dunque, il perturbante si è affermato come modo di pen­ sare in due epoche postbelliche (dopo il 1919 e dopo il 1945), il suo riemergere in veste di sensibilità estetica a partire dalla metà degli anni sessanta ci appare a un tempo la continuazione della sua posizione privilegiata nella «dialettica negativa» dell’avan­ guardia modernista - un ruolo che acquista forza doppia in virtù dell’ironia consapevole operata sul modernismo a opera del post­ modernismo - e un prodotto delle nuove condizioni tecnologi­ che della rappresentazione culturale. Si delinea cosi un pertur­ bante postmoderno, il prodotto di una rilettura di Freud a ope­ ra di Lacan e Derrida, ma anche dell’applicazione della teoria critica all’analisi della cultura popolare14. Per Lacan, il pertur12 Ibid. [trad. it. cit., pp. 366-67]. 13 Ibid. [trad. it. cit., p. 260]. 14 Recentemente, lo stesso saggio di Freud sul perturbante è stato oggetto di analisi critiche per i suoi lapsus «unheimlich». Cfr., per esempio, H. cixous, La Fiction et ses fantò-

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bante rappresenta il punto di partenza dell’analisi freudiana dell’angoscia, «immagine [stessa] della mancanza»15; per Derrida il perturbante si affaccia sinistro dietro i legami instabili tra si­ gnificante e significato, autore e testo16; per Baudrillard, la sua propensione al doppio, all’elisione tra realtà e finzione, l’insi­ stenza sul trompe-l’œil, lo pongono al centro della spiegazione del simulacro17. La forza interpretativa del perturbante si è rinnovata, per con­ tro, nella letteratura e nella pittura ma soprattutto nei film, do­ ve le tracce della sua storia intellettuale sono state raccolte e mes­ se al servizio di una sensibilità interamente contemporanea. Il per­ turbante domestico e suburbano di David Lynch in Velluto blu e, piu recentemente, nella serie televisiva Twin Peaks ironizza su mezzo secolo di film inquietanti e sui relativi luoghi comuni, men­ tre il perturbante metropolitano de 11 cielo sopra Berlino di Wim Wenders gioca su una rifigurazione postbellica dell’inquietudine storica di Walter Benjamin. La nascita di un genere di fanta­ scienza che esplora le dimensioni ramificate del cyberspazio e dei suoi abitanti, i cyborg, compendiate nell’ormai classico Neuro­ mante di William Gibson, ha dato voce a un’ossessione spettrale prettamente moderna: quella provocata dalla perdita di punti di riferimento corporei e spaziali tradizionali, dalla dilagante sosti­ tuzione del «reale» con il simulato, nella realtà virtuale dei com­ puter. Nell’ambito della critica femminista contemporanea, infi­ ne, figure come Sarah Kofman e Kaja Silverman hanno riletto Freud scetticamente, notando le ovvie difficoltà insite in una teomes. Une lecture de [’«unheimliche» de Freud, in «Poétique», X (1972), pp. 199-216; s. weber, The Sideshow, or: Remarks on a Canny Moment, in «Modern Language Notes», LXXXVIII (1973), pp. 1102-33; s. KOEMAN, 1.'enfance de Tart, Payot, Paris 1970; œ., Le Double e(s)l le diable, Quatre romans analytiques, Galilée, Paris 1973, pp. 135-81; N. hertz, Freud and the Sandman, in j. v. harari (a cura di), Textual Strategies: Perspectives in PostStructuralist Criticism, Cornell University Press, Ithaca 1979, pp. 296-321; j. derrida, La Double séance, in La Dissemination, Seuil, Paris 1972, pp. 300-1 [trad. it. La disseminazio­ ne, Jaca Book, Milano 1989]; id., La carte postale: de Socrate à Freud et au-delà, Flamma­ rion, Paris 1980 [trad. it. Speculare su Freud, R. Cortina, Milano 2000]. 15 j. LACAN, L’Angoisse, seminario, 1962-63, trascrizione inedita. 16 «Saremo indotti infinite volte [a rileggere Das Unheimliche di Freud] dai paradossi del dubbio e della ripetizione, dalla cancellazione del confine tra ‘fantasia’ e ‘realtà’, ‘sim­ bolo’ e ‘simboleggiato’, dai riferimenti a Hoffmann e alla letteratura fantastica, da consi­ derazioni sul significato duplice del termine: ‘Heimlich’ è quindi un termine che sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere in conclusione col suo contrario: unheimlich. Unheimlich è in un certo modo una variante di heimlich», in derrida, La Dou­ blé séance cit. p. 249 [trad. it. cit.]. 17 j. Baudrillard, De la séduction, Seuil, Paris 1979, p. 91 [trad. it. Della seduzione, Se, Milano 1997].

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ria che privilegia la reazione maschile al «trauma perturbante» della mancanza femminile18. Inserendosi piu direttamente nella tradizione di Marx e Sim­ mel e scrivendo nel contesto che vede il riemergere del razzismo e l’aumento dei senza casa, Julia Kristeva ha sottolineato la coin­ cidenza tra «stranezza» e «spersonalizzazione», già presente nel­ la teoria freudiana, tracciando la lunga storia degli estranei, i cui fantasmi sono più vicini a noi di quanto non vorremmo ammette­ re e i cui bisogni, come dimostrato da Michael Ignatieff e Tzvetan Todorov, non sono affatto diversi dai nostri19. In un’acuta let­ tura della «nazione» postcoloniale nello spazio e nel tempo, Ho­ mi Bhabha si è similmente appropriato del perturbante per parlare del ritorno di «migranti, minoranze, diasporici» verso le città, «lo spazio entro cui sono messe in atto le identificazioni emergenti e i nuovi movimenti sociali». Ciò che Bhabha chiama «la perples­ sità del vivere» potrebbe, in questi termini, essere interpretato at­ traverso una teoria del perturbante che destabilizzi le nozioni tra­ dizionali di centro e periferia - le forme spaziali di ciò che riman­ da alla nazione - al fine di comprendere in che modo ... i confini che assicurano i limiti coesivi della nazione occidentale si tra­ mutino a poco a poco in una polemica marginalità interna che consente di parlare sia della minoranza, dell’esilio, del marginale, dell’emergente - sia a nome di quest’ultime20.

Come concetto, dunque, il perturbante ha trovato la propria dimora metaforica, come era naturale, nell’architettura: prima nel­ la casa, stregata o non stregata, che pretende di offrire il massimo di sicurezza mentre invece si apre all’intrusione segreta del terro­ re, e poi nella città, dove ciò che un tempo era protetto da mura e 18 s. freud, Fetischismus (1927) [trad. it. Feticismo, in Opere, vol. X, Boringhieri, To­ rino 1981, pp. 491-503]. Silverman, tra gli altri, nell’utilizzare questo argomento ad aper­ tura della discussione sul rapporto tra visione, feticismo e complesso di castrazione nel sog­ getto maschile ci offre, implicitamente, un modo per reinterpretare le dimensioni spaziali del perturbante freudiano in termini che ribaltano le categorie tradizionali di esteriorità e interiorità, pubblico e domestico. Cfr. K. su.vhrman, The Acoustic Mirror: The Female Voice in Psychoanalysis and Cinema, Indiana University Press, Bloomington 1988, pp. 17 sgg. ” j. KRISTEVA, Etrangers a nous-même, Fayard, Paris 1988, p. 277 [trad. it. Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano 1990]; M. Ignatieff, The Needs of Strangers, Penguin Books, Harmondsworth 1985 [trad. it. 1 bisogni degli altri, il Mulino, Bologna 1986); T. TODOROV, Noms et les autres: la reflexion française sur la diversité humaine, Seuil, Paris 1989 [trad. it. Noi e gli altri, Einaudi, Torino 1996]. 20 H. Bhabha, DissemiNation : Time, Narrative,and the Margins of the Modem Nation, in h. bhabha (a cura di), Nation and Narration, Routledge, London - New York 1990, pp. 319320, 300 [trad. it. Nazione e narrazione, Meltemi, Roma 1997, p. 482].

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dall’intimità, la conferma della comunità - pensiamo alla Ginevra di Rousseau - è reso strano dalle incursioni spaziali della moder­ nità. In entrambi i casi, naturalmente, il «perturbante» non è una proprietà dello spazio stesso, né può essere provocato da una par­ ticolare conformazione dello spazio: è, nella sua dimensione este­ tica, la rappresentazione di uno stato mentale di proiezione che appunto cancella i confini tra reale e irreale per provocare un’am­ biguità disturbante, uno slittamento tra sonno e veglia. In questo senso, forse, è difficile parlare di un perturbante «ar­ chitettonico» negli stessi termini in cui si parla di un perturbante letterario o psicologico; quel che è certo, nessun singolo edificio né alcun trucco progettuale potrà matematicamente suscitare una sensazione inquietante. In ogni momento della storia della rap­ presentazione del perturbante, tuttavia, e in alcuni momenti del­ la sua analisi psicologica, agli edifici e agli spazi che hanno fatto da sfondo a esperienze inquietanti sono state conferite caratteri­ stiche riconoscibili. Tali qualità quasi tipiche, se non addirittura banali (le caratteristiche delle case stregate nei romanzi gotici so­ no ben note) non sono, ovviamente, perturbanti in sé, ma sono state comunque viste come emblematiche del perturbante, come segni culturali dello straniamento in periodi particolari. Di conse­ guenza, la psicologia ai suoi inizi giunse persino a considerare lo spazio come una causa della paura o dello straniamento che fino ad allora erano stati appannaggio privilegiato della letteratura: per una vecchia generazione di sociologi lo «straniamento spaziale» era qualcosa di più di un’invenzione e rappresentava proprio la mi­ stura di proiezione mentale e caratteristiche spaziali associata al perturbante. Da questo punto di vista, il perturbante architettonico invo­ cato in questo libro è necessariamente ambiguo, e mescola aspet­ ti della sua storia letteraria, della sua analisi psicologica e di ma­ nifestazioni culturali. Se si interpretano edifici o spazi reali attra­ verso questa lente non è perché essi stessi possiedano proprietà perturbanti, quanto perché essi agiscono, da un punto di vista sto­ rico o culturale, come rappresentazioni dello straniamento. Vo­ lendo far derivare un’unica premessa dallo studio del perturbante nella cultura moderna, questa è che non esiste un’architettura per­ turbante, bensì solo un’architettura alla quale, di quando in quan­ do e per fini diversi, si attribuiscono qualità inquietanti. Il moderno senso del perturbante, tuttavia, come cercherò di dimostrare, non è il semplice perdurare di un luogo comune ro­

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mantico, o un sentimento confinato al genere artistico dei racconti di fantasmi e dell’orrore. La spiegazione teorica datane da Freud, e successivamente da Heidegger, pone il perturbante in una posi­ zione di grande rilievo tra le categorie alle quali potremmo rivol­ gerci per interpretare la modernità e in particolar modo le sue con­ dizioni di spazialità architettonica e urbana. Das Unheimliche è un modello che mette il desiderio di «casa» e la lotta per raggiungere la sicurezza domestica di fronte a quel che ne sembra l’opposto: la homelessness reale e intellettuale. Co­ si facendo, esso rivela la fondamentale complicità esistente tra que­ ste due condizioni, riuscendo a cogliere la difficile condizione del­ la prassi teorica architettonica dei tempi moderni. Essendo esso stesso un concetto che ha continuato a riemergere, con effetti va­ riabili, negli ultimi due secoli, il perturbante è inoltre utile come modello interpretativo trasversale rispetto alle periodizzazioni de­ gli storici, ordinate in categorie come romanticismo, modernismo e postmodernismo, come modo per comprendere un aspetto della modernità che ha arricchito di un nuovo significato la nozione omerica di «nostalgia del ritorno». Allo stesso modo, riflettere sulla categoria del perturbante per­ mette di riscrivere la teoria estetica tradizionale e modernista nel­ la sua applicazione a categorie quali l’imitazione (il doppio), la ri­ petizione, il simbolico, il sublime. Questioni di genere (gender) e di soggetto potrebbero essere ricollegate al discorso ininterrotto dello straniamento e dell’Altro, nel contesto sociale e politico dell’esclusione razziale, etnica e delle minoranze. Infine, il riaf­ fiorante problema dei senzatetto (mentre assistiamo alla demoli­ zione sistematica delle ultime tracce di capitalismo assistenziale), dona un alone di particolare urgenza a tutte le riflessioni sullo spaesamento moderno. Ë proprio nel suo confronto con la prassi politica e sociale, tut­ tavia, che la teoria estetica dello straniamento trova un banco di prova ferreo e problematico. U' espressione formale e critica del­ l’alienazione, come dovettero scoprire amaramente le prime avan­ guardie, non corrisponde sempre e chiaramente all’opera di tra­ sformare, o persino migliorare nella pratica tali condizioni. Le in­ dagini formali sulla defamiliarizzazione, basate su rovesciamenti carnevaleschi delle norme estetiche, sulla sostituzione del sublime con il grottesco, del domestico con il perturbante, possono fin trop­ po facilmente essere interpretate come superficiali o caricaturali. Di fronte alla condizione intollerabile di chi si trova a essere real-

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mente senza un tetto o una casa, qualsiasi riflessione sullo spaesamento «trascendentale» o psicologico rischia di banalizzare o, peg­ gio, di esprimere sufficienza o superiorità nei confronti dell’azio­ ne politica o sociale. Detto questo, mi sento ancora di suggerire la possibilità che il tema del perturbante, considerato sia storicamente sia nelle sue di­ mensioni postfreudiane, apra questioni piu ampie di quanto non si veda nei progetti architettonici, permettendo di affrontare pro­ blemi che hanno resistito pervicacemente a qualsiasi soluzione di tipo politico o progettuale e che sembrano tuttora inerenti alla no­ stra condizione tardo novecentesca. In questo senso, intendo usa­ re le diverse connotazioni di questo tema in modo suggestivo e cri­ tico insieme, intendendone le varie manifestazioni testuali e ar­ chitettoniche come contributi problematici a una storia tuttora incompiuta, all’interno della quale ciò che è homely, domestico e nostalgico deve misurarsi con la minaccia costante, l’invasione in­ sistente e spesso sovversiva dei suoi «opposti». Se l’elaborazione teorica del perturbante, infatti, ci aiuta a in­ terpretare le condizioni dello straniamento moderno, le caratteri­ stiche speciali dell’architettura e dell’urbanesimo come arti che de­ finiscono lo spazio ci permettono di spingere il nostro discorso fi­ no al dominio del tangibile. È qui che il «vuoto» descritto dalla filosofia posthistoire si ripete nel mondo in modo quasi perturban­ te, è qui che il problema della unhomely home, o «casa inospitale», trova le espressioni piu preoccupanti e soluzioni ugualmente pro­ blematiche. Ciò si verifica su vari livelli interrelati, letterali e fe­ nomenici. Sul piano letterale, agli «spazi vuoti» che l’urbanesimo ha creato o di cui si è appropriato - lo sgombero di territori occu­ pati o vuoti - si accompagna, sul piano fenomenico, la tabula rasa immaginata dalle utopie moderniste, fino al punto in cui entrambi i piani si intersecano nei luoghi comuni dello sviluppo urbano mo­ derno. Il compito di colmare tali vuoti - quel che Ernst Bloch ha definito gli «spazi vuoti del capitalismo» - diviene appannaggio dell’architettura, la quale è costretta, in mancanza di un passato vissuto, a cercare un terreno poststorico su cui basare una « auten­ tica» dimora per la società21. Procedendo su di un terreno ancor piu letterale, dunque, l’architettura si trova a «ripetere» la storia, non importa se lungo linee tradizionali o d’avanguardia, e questa ripe21 e. bloch, Building in Empty Spaces (1959), in The utopian function of art and litera­ ture : selected essays, Mit Press, Cambridge (Mass.) 1988.

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tizione provoca a sua volta un’inquietante sensazione di déjà-vu, se pensiamo che lo stesso Freud parlò del perturbante come «coazio­ ne a ripetere». Le esigenze apparentemente inconciliabili della ne­ gazione assoluta del passato e del completo «ripristino» del passa­ to trovano qui un punto di incontro, poiché si devono inevitabil­ mente affidare a un linguaggio di forme architettoniche che, almeno in superficie, sembra richiamare en abîme motivi ormai logori. Impostato in questi termini, il perturbante potrebbe riacquisi­ re una connotazione politica, in quanto condizione stessa dell’in­ quietudine contemporanea; ciò che negli anni sessanta era una pre­ senza cosi palese nella teoria e nella pratica, una presenza che in larga misura negava ciò che vi era di formale nell’architettura in fa­ vore di una prassi sociale, utopica o materiale, sembra oggi, negli anni novanta, soppresso da un formalismo apparentemente nichi­ lista e fine a se stesso. A mio parere, però, l’elemento politico non è cosi facilmente eliminabile dalla pratica culturale, e proprio nel punto in cui esso riesplode nelle tecniche formali che lo reprimo­ no esso assume le caratteristiche del perturbante. Jeffrey Mehlman osservò per primo che le rivoluzioni possiedono la caratteri­ stica intrinseca di provocare, attraverso la ripetizione nella prati­ ca e nei testi, una sorta di effetto unheimlich21. Nel presente lavoro mi limiterò a osservare che, nell’architettura contemporanea, i con­ tinui riferimenti alle tecniche dell’avanguardia private dell’origi­ nario impulso ideologico, la comparsa di una rivoluzione estetica compiuta cui è stata sottratta qualsiasi speranza di redenzione so­ ciale, quanto meno si avvicina alle condizioni che, secondo Freud, sono tali da provocare sensazioni perturbanti. Forse è per questo che personalmente una simile repressione dell’elemento politico mi turba: perché nell’ambito dei molti progetti che mirano a pro­ durre una rottura radicale nei modi di espressione culturale, aleg­ gia ancora il fantasma di una politica di avanguardia, una politica che si sta dimostrando difficile esorcizzare completamente. Questo elemento perturbante - scrisse Freud - non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, ma è invece un che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi e ad essa estraniatosi soltanto a causa del processo di ri­ mozione. [...] il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nasco­ sto e che è invece affiorato (P 102). 22 j. MEHi.MAN, Revolutions and Repetitions : Marx/Hugo/Balzac, University of Califor­ nia Press, Berkeley 1977, pp. 3-7. Mehlman descrive il suo libro come «una meditazione sulla perversione dell’impulso a ripetere in due delle sue formulazioni più notevoli: il ‘per­ turbante’ (das Unheimliche) e ‘l’istinto di morte’» (p. 3).

Parte prima Case

Victor Hugo, La maison visionnée, 1866. Casa a Pleinmont, Guernsey.

Case inospitali

Alcune lingue moderne non possono rendere le pa­ role tedesche «una casa unheimlich» che con un’espres­ sione [«a haunted house»] che noi renderemmo con [...] «una casa abitata dagli spettri». Sigmund Freud, Il perturbante.

Il topos di gran lunga piu popolare del perturbante ottocente­ sco fu la casa stregata. Leitmotiv ricorrente tanto nell’immagina­ rio letterario quanto nel revival architettonico, le sue raffigura­ zioni in fiabe, racconti dell’orrore e romanzi gotici fu all’origine di un genere narrativo senza precedenti, diventato prima della fi­ ne del secolo il simbolo del romanticismo stesso. La casa fu un luo­ go privilegiato per le inquietudini perturbanti: l’apparente dome­ sticità, la sedimentazione di storie familiari e nostalgie, il ruolo di ultimo e piu intimo rifugio dell’agio privato acuivano per contra­ sto il terrore di un’invasione a opera di spiriti estranei. Il crollo della Casa Usher di Edgar Allan Poe fu paradigmatico: Non appena scorsi l’edificio, mi invase l’anima un sentimento di intol­ lerabili tenebre [...] non medicava il sentimento nessuno di quegli affetti, cattivanti perché poetici, con cui la mente per solito accoglie le piu crude im­ magini del terribile e della desolazione1.

Eppure la casa Usher, nella descrizione di Poe, pur evocando premonizioni di «fantastiche larve» non mostrava nulla di ester­ namente poco confacente. Le sue «mura spoglie» e «le vacue oc­ chiaie delle finestre» erano spoglie e disadorne, ma eventuali sen­ sazioni di sventura erano piu facilmente attribuibili all’immagina­ zione del narratore che a un qualche dettaglio particolare della casa stessa. Osservate con occhio oggettivo le pietre antiche, le scultu­ re, gli arazzi e i trofei avevano anzi in comune una certa aria fa­ miliare. L’«atmosfera» che circondava la casa, l’odore cimiteriale che «esalava dagli alberi corrotti, il grigio muro, la pozza tacitur­ na» era difficile da spiegare: «vaghe emozioni», apparentemente frutto di un sogno. Si giungeva quasi involontariamente alla con­ 1 e. a. POE, The Complete Tales and Poems, The Modera Library, New York 1938, p. 231 [trad. it. Iracconti, Einaudi, Torino 1983, vol. I, p. 237].

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clusione che quelle fossero le proprietà della casa, insinuatesi fin nelle pietre, fatali di per sé, e che la casa rappresentasse una for­ za perturbante; di queste cose ci si rendeva conto a dispetto di ogni ragione, in un processo di consapevolezza tanto piu inquietante per via dell’assoluta normalità dell’ambientazione, dell’assenza di un terrore esplicitato. Si produceva un effetto di disturbante estra­ neità in ciò che aveva i tratti evidenti di un qualcosa di familiare: Gli oggetti che mi circondavano [...] non potevo negare quanto tutto ciò mi fosse noto, e tuttavia mi stupivo avvertendo quanto estranee fossero le fantasie che quelle immagini usitate sommovevano in me2*.

La paradigmatica casa stregata di Poe, tuttavia, mostrava tut­ ti i segni rivelatori del luogo stregato, sistematicamente ricavati dai predecessori romantici. Il luogo era desolato, le pareti spoglie e quasi letteralmente «senza volto», le finestre «come occhi» ma esanimi, «vacue». Tale casa custodiva, inoltre, secoli di memoria e tradizione, incarnati nelle pareti e negli oggetti, i muri erano se­ gnati dalle «macchie del tempo» e dal degrado della pietra, gli ar­ redi erano scuri, le stanze cupamente sovrastate da soffitti a vol­ ta - di fatto, era già un museo, una collezione come quella raccol­ ta da Alexandre du Sommerard nell’Hôtel de Cluny, anche se qui era preservata in ricordo di una famiglia. Anche gli Usher, infine, erano quasi estinti, gravati da una storia con sentore di tomba, nel­ la dimora di famiglia che un tempo era stata viva e la cui struttu­ ra ricordava «gli antichi legni intagliati, per lunghi anni imputri­ diti in una qualche abbandonata segreta, non mai tocchi da fiato di aria mondana»’. La casa, dunque, era una cripta, predestinata a finire a sua vol­ ta sepolta, un evento prefigurato dalla «fessura pressoché invisi­ bile» che la attraversava verticalmente dal tetto alle fondamenta. All’interno, dipinta da Usher stesso, c’era un’immagine di quella che sembrava la tomba della casa, una scena che, per le sue carat­ teristiche e per la sua «astrattezza» appare al narratore piu per­ turbante di qualsiasi altra: Una delle concezioni fantastiche del mio amico, che non era cosi rigoro­ samente partecipe dello spirito dell’astrazione, può essere sia pur vagamen­ te adombrata in parole. Un minuscolo dipinto rappresentava l’interno di una segreta, una galleria immensamente lunga, ad angoli retti; i muri erano bas­ si, lisci, bianchi, ininterrotti, disadorni affatto. Taluni elementi accessori ser­ 2 Ibid., p. 233 [trad. it. cit., vol. I, p. 241]. 5 Ibid. [trad. it. cit., vol. I, p. 240].

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vivano ad esprimere l’idea che quello scavo si trovava sotto la superficie del­ la terra, a grande profondità. In nessun punto del suo enorme percorso si os­ servava una via d’uscita, né si scorgeva torcia, o altra fonte artificiale di lu­ ce; tuttavia dovunque si diffondeva un’onda intensa di luce, che avvolgeva il tutto di uno splendore sinistro e incongruo4.

Le case abbandonate, reali o immaginarie, avevano sull’osserva­ tore un effetto simile. Quelle descritte da Victor Hugo sulle isole di Jersey e Guernsey, autentiche figure dello spaesante esilio dell’autore, avevano caratteristiche comuni alla Casa Usher, con la differenza che esse non erano «stregate» da uno spirito fami­ liare immaginario, ma in virtù della superstizione degli isolani. Accade talvolta a Jersey o a Guernsey che, in campagna e perfino in città, passando per un luogo disabitato, o anche in una strada popolatissima, s’in­ contri una casa con l’ingresso barricato. L’agrifoglio ostruisce la porta; orri­ bili intrichi di assi inchiodate otturano le finestre del pianterreno: quelle dei piani superiori sono chiuse ed aperte nel tempo stesso, perché i telai sono fis­ sati coi lucchetti, ma i vetri sono infranti.

Una casa simile, uccisa dal vuoto stesso che la invade e dalle su­ perstizioni affastellatesi nella zona, «è una casa ‘visionata’ {une maison visionée]. Di notte la frequenta il diavolo»5. Tra queste «case morte» ce n’era una che affascinava partico­ larmente Hugo, una casa abbandonata nel villaggio di Pleinmont a Guernsey. Lo scrittore vi tornò tre volte in sette anni per dise­ gnarla da angolature diverse e ne fece uno dei motivi centrali de I lavoratori del mare. Riprodotto a inchiostro marrone e biacca, que­ sto piccolo cottage di pietra a due piani non mostra niente di straor­ dinario. Le quattro finestre (quelle al piano terra murate), l’unica porta, il tetto spiovente e il camino non sembrano nulla di più dell’archetipo di «casa disegnata da un bambino», una banale an­ tologia degli elementi fondamentali per l’abitare. Come osservò Hugo stesso, ... il luogo è bellissimo, la casa va bene. Questa casa, costruita in granito a due piani, si erge in mezzo all’erba. Non ha nulla del rudere: è compietamente abitabile. I muri sono grossi e solido il tetto. Nemmeno una pietra manca a quelli, non una tegola a questo.

Si pensava, tuttavia, che fosse stregata e, pur nella sua semplicità «aveva un aspetto strano». Per prima cosa, il luogo deserto, qua­ 4 Ibid., p. 237 [trad. it. cit., vol. I, pp. 246-47]. 5 v. HUGO, Les travailleurs de la mer, in Œuvres complètes. Roman III, Robert Laffont, Paris 1985, pp. 50-51 [trad. it. I lavoratori del mare, Barion, Milano 1928, p. 59].

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si interamente circondato dal mare, era forse troppo bello: «La sua posizione è magnifica e, per conseguenza, sinistra». Così il con­ trasto tra le finestre murate al piano terra e quelle aperte e vuote al piano superiore, che «si aprono sulle tenebre interne» donava­ no alla struttura un’aria quasi antropomorfa: «Quei fori aperti e neri anche di giorno sembrano due orbite vuote». Un’iscrizione enigmatica sulla porta sprangata addensava il mistero, rivelando che l’edificio e il suo abbandono risalivano a prima della Rivolu­ zione: «elm-pbilg 1780». Il silenzio e il vuoto, infine, aggrava­ vano l’aura tombale: «par di vedere una tomba con finestre, alle quali possono affacciarsi gli spettri». Per spiegare la nomea di luo­ go infestato dai fantasmi Hugo si servi di tali misteri, sommati al­ le antiche tradizioni locali. Chi erano gli abitanti originari della casa? Perché fu abbandonata? Perché non c’è un nuovo proprie­ tario? Perché nessuno coltiva il campo che la circonda? Queste domande, tutte inesplicabili senza il ricorso a cause sconosciute o metafisiche, aggiungevano qualcosa all’atmosfera dominante: Questa casa è impressionante a mezzogiorno, che sarà mai a mezzanot­ te ? Guardandola, si guarda un segreto. [...] Enigmi. Il sacro orrore è tra quel­ le pietre. L’ombra che invade quelle stanze vietate è piu che ombra: è parte dell’ignoto6.

Il terrore diventa una protezione per la casa, la quale, con lo svol­ gersi dell’intreccio, si trasforma in un luogo paradossalmente si­ curo per chi non è soggetto ai suoi poteri stregati, la casa di con­ trabbandieri e rinnegati, esiliati e fuggiaschi. Solo chi vive ai mar­ gini saprebbe sentirsi a casa in una dimora cosi inquietante. La leggenda di un crimine commesso all’interno della casa - un atto inespiabile dal quale quest’ultima non si era mai ripresa - si ricol­ lega dunque al presente che essa protegge, e il cerchio di una di­ mora uccisa dai ricordi si completa in questa immagine di una tom­ ba abitata dai suoi profanatori: «La casa, come l’uomo, può di­ ventare cadavere. Basta che una superstizione la uccida. Allora essa diviene terribile»7. Tale «terrore», tuttavia, non equivaleva del tutto a quello pre­ scritto da Edmund Burke; nella gerarchia dei generi romantici il perturbante era intimamente legato (pur conservando rispetto a esso curiose differenze) al piu grandioso e serio «sublime», cate­ 6 Ibid., pp. 119-20 [trad. it. cit., p. 148]. ’ Ibid., p. 51 [trad. it. cit., p. 59].

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goria principe di ogni aspirazione, nostalgia, irraggiungibilità. Poe, dunque, nel tentativo di definire la particolare sensazione evoca­ ta dalla Casa Usher, l’aveva acutamente distinta dalle sensazioni piu terrificanti normalmente collegate al sublime: «Era gelido il cuore, affranto, infermo; tetra, sconsolata meditazione, che nes­ suna sevizia dell’immaginazione poteva aizzare al sentimento del sublime»8. Tradizionalmente, tutti i sottogeneri del sublime - il grottesco, la caricatura, la fiaba, il melodramma, il romance di fantasmi - era­ no naturalmente considerati capaci di sovvertirne le premesse piu importanti e le ambizioni trascendenti. Burke aveva identificato nel terrore la principale causa del sublime, ma aveva allo stesso tempo ammesso che non tutto ciò che induceva terrore era subli­ me910 . Allo stesso modo, il sublime descritto da Kant come annida­ to esclusivamente nella mente, poiché propenso a «pensare l’irraggiungibilità della natura», non era applicabile a tutte le idee di cose irraggiungibili. Ogni sforzo per raggiungere un’espressione sublime era minato da molteplici insidie, oscillanti tra le cadute di tono e il nonsenso. Vari esperti di retorica, tra cui Longino e JeanPaul Richter, hanno colto la tendenza del sublime a cadere nel ri­ dicolo, un opposto, oltretutto, che condivideva molte caratteri­ stiche con il suo piu serio antecedente. Ritengo che la bruttezza - affermò Burke - abbia un certo rapporto con l’idea di sublime. Ma non insinuerei affatto che la bruttezza per se stessa sia un’idea sublime, a meno che non sia unita a qualità tali da eccitare un forte terrore1“.

Il perturbante, tuttavia, era forse la qualità piu sovversiva in assoluto, non solo perché poteva essere facilmente banalizzato, ma anche perché a tratti appariva del tutto indistinguibile dal su­ blime. Burke stesso aveva incluso questa sensazione indefinita, ma sempre piu popolare, tra quelle associate all’oscurità da cui scaturiva il terrore, insieme con la notte e l’oscurità assoluta: «[si] consideri quanto la notte aumenti il nostro terrore in tutti i casi di pericolo, - osservò, - e come le nozioni di fantasmi e folletti, sui quali nessuno può formulare idee chiare, impressionino gli ani­ 8 POE, The Complete Tales and Poems cit., p. 231 [trad. it. cit., vol. I, p. 237]. ’ e. burke, A Philosophical Enquiry into the Origin ofour Ideas of the Sublime and Beau­ tiful (1757) a cura di James T. Boulton, University of Notre Dame Press, Notre Dame 1968, pp. 39-40 [trad. it. Inchiesta sul bello e sul sublime, Aesthetica, Palermo 1998, p. 71]. 10 Ibid., p. 119 [trad. it. cit., pp. 131-32].

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mi»11. II perturbante rappresentò una tale minaccia nel corso dell’intera epoca romantica che Hegel, nel vano tentativo di pre­ servare la memoria di un sublime autentico nei testi ebraici, tentò di erigere una barriera contro la sfera rappresentata dal «magico, il magnetico, il demoniaco, l’aristocratica fantomaticità della chia­ roveggenza medianica, la malattia del sonnambulismo», banden­ do queste forze oscure dal regno chiaro e trasparente dell’arte. Hegel fu comunque costretto ad ammettere la generale preoccu­ pazione dei suoi contemporanei nei confronti di quei «poteri sco­ nosciuti» entro i quali «vi deve essere [...] una indecifrabile ve­ rità dell’orrore che non si lascia cogliere e apprendere... »12. Oltre ottant’anni dopo, Freud riconobbe il perturbante come una categoria estetica che, almeno nelle sue connotazioni condi­ vise, esisteva entro i limiti di «tutto ciò che ingenera angoscia e terrore», ovvero entro i limiti tradizionali del sublime (P 81). Fu quasi con gioia che egli si ripropose di studiare, contro «le esau­ rienti esposizioni offerte dall’estetica, che preferisce occuparsi del bello, del sublime, dell’attraente», sentimenti di genere apparen­ temente opposto, repellenti e penosi {ibid.). Di esplorare, in altre parole, i margini del sublime anziché il suo centro riconosciuto. Per Freud, il perturbante si presentava evidentemente come uno strumento particolarmente utile a sgonfiare un’estetica vuota nell’interesse del sapere psicanalitico, una schermaglia che riflet­ teva un attacco più generalizzato alla psicologia metafisica: Il perturbante [...] appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che in­ genera angoscia e orrore, ed è altrettanto certo che questo termine non vie­ ne usato in senso nettamente definibile, tanto che quasi sempre coincide con ciò che è genericamente angoscioso. E lecito tuttavia aspettarsi che esista un nucleo particolare e tale da legittimare l’impiego di una particolare termino­ logia concettuale. Saremmo lieti di conoscere in cosa consista questo nucleo comune che consente appunto di sceverare, nell’ambito dell’angoscioso, un che di «perturbante» (P 81).

Era particolarmente difficile, dunque, definire con precisione questo particolare tipo di inquietudine angosciosa. Né terrore as­ soluto, né lieve angoscia, il perturbante era più semplice da de­ scrivere in termini negativi che non basandosi sulla sua essenza propria. Era dunque distinto dall’orrore e dalle sensazioni di pau­ 11 Ibid., p. 59 [trad. it. cit., p. 86], 12 G. w. F. Hegel, Vorlesungen über die Ästhetik [trad. it. Estetica, Einaudi, Torino 1976, vol. I, pp. 272-73].

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ra estrema; non era identificato unicamente con il parapsicologi­ co - il magico, l’allucinatorio, il mistico e il soprannaturale non implicavano necessariamente sensazioni «perturbanti»; né esso era presente in tutto ciò che appariva strano, anomalo, grottesco o fan­ tastico, oltre a essere, infine, l’esatto opposto del caricaturale o del distorto, i quali, per via del loro elemento di esagerazione, non riuscivano a incutere paura. Avendo qualcosa in comune con cia­ scuno di questi generi alleati della paura, il perturbante rivelava la sua non specificità, rafforzata dalla molteplicità di termini intra­ ducibili che servivano a indicarne la presenza nelle varie lingue. E vero che Freud tentò in un primo momento di giungere a una definizione basata sulla linguistica comparata, ma egli dovette ben presto desistere di fronte a unheimlich, inquiétant, sinistre, lugu­ bre, étrange, mal à son aise, sospechoso, de mal aguéro, siniestro e, naturalmente, uncanny, anch’esso intraducibile. Il greco offriva solamente xenos (straniero, estraneo) e il latino solo locus sospectus, o «luogo unheimlich» (P 83). Eppure, nonostante l’irritazio­ ne di Freud, l’effetto complessivo di questo insieme di termini cer­ tamente delimita, se non la parola, almeno un campo semantico, un insieme di attributi. Il perturbante, dunque, si troverebbe a es­ sere sinistro, inquietante, sospetto, strano, qualcosa di meglio ca­ ratterizzato come «timore» che non come terrore, qualcosa che trae forza dalla propria inesplicabilità, da un senso di disagio la­ tente, piuttosto che da una fonte di paura precisamente definita uno spiacevole presentimento piu che un’apparizione tangibile. A questo proposito, il termine inglese uncanny risulta forse più uti­ le di quanto Freud fosse propenso ad ammettere: letteralmente «al di là del ken» - al di là del sapere - da canny, letteralmente «in possesso di conoscenze o abilità»15. Già lo psicologo Ernst Jentsch, in un saggio del 1906 che Freud utilizzò come punto di partenza per la sua indagine, aveva accen­ nato allo stretto legame esistente tra psicologia e linguaggio: Il nostro idioma tedesco sembra aver generato un costrutto piuttosto fe­ lice con il termine unheimlich. Esso sembra senza dubbio esprimere che a

u Can deriva dall’anglosassone can o cann, presente indicativo di cunnan, «sapere, es­ sere capace» legato all’olandese kunnan e al tedesco können, «sapere». Canny, o cannie si­ gnifica dunque «cauto, prudente, assennato, attento» e anche «abile, esperto». Da questo il significato si estende a «dotato di potere soprannaturale», «versato in magia». Ne deri­ va il significato di uncanny come «misterioso, estraneo, spaventoso, preternaturalmente strano, innaturale e anomalo», legato a canny in modo non dissimile da quello che riman­ da unheimlich a heimlich.



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fronte di un’esperienza perturbante una persona non si sente zu Hause [a ca­ sa] nella questione, non si sente heimich [a proprio agio], che la situazione gli è estranea14.

Jentsch attribuiva la sensazione di perturbamento a una fonda­ mentale insicurezza causata da una «mancanza di orientamento», una sensazione di invasione del mondo vecchio, familiare e abi­ tuale da parte di qualcosa di nuovo, estraneo e ostile. Come sin­ tetizzato da Freud, per Jentsch ... [la] condizione essenziale perché abbia luogo il perturbante [è da indivi­ duare] nell’incertezza intellettuale. Il perturbante sarebbe propriamente sem­ pre qualcosa in cui per cosi dire non ci si raccapezza. Quanto piu un uomo di orienta nel mondo che lo circonda, tanto meno facilmente riceverà un’im­ pressione di turbamento \Unheimlichkeit\ da cose o eventi (P 83).

Nonostante la riluttanza di Freud nell’accettare i limiti di questa spiegazione (stigmatizzò la definizione di Jentsch definendola «non esauriente») quest’ultima servi comunque a sottolineare una prima relazione del perturbante con l’elemento spaziale e ambientale: la re­ lazione legata all’«orientamento», al «saper trovare la strada». I molteplici significati e le affiliazioni del termine tedesco unheimlich si rivelarono piu promettenti per gli scopi che Freud si era prefissi, poiché servirono, a un tempo, a chiarire il funziona­ mento del perturbante come principio sistematico e a situarne il dominio saldamente entro i confini del domestico e del casalingo, cosi da permetterne la decifrazione nell’esperienza individuale co­ me il prodotto inconscio di un romance familiare. A questo fine, Freud si avvicinò espressamente alla definizione di unheimlich at­ traverso il suo apparente contrario, heimlich, mettendo cosi in lu­ ce le inquietanti affiliazioni tra i due termini e fissando il primo come una diretta derivazione dall’altro. Traendo da due diziona­ ri ottocenteschi lunghe citazioni, Freud lasciò che la sua argo­ mentazione si svolgesse, per cosi dire, da sé (P 84-87)15. Nel Wör14 E. jentsch, Zur Psychologie des Unheimlichen, in «Psychiatrisch-Neurologische Wo­ chenschrift», XXII (25 agosto 1906), p. 195. La seconda parte dell’articolo fu pubblicata sulla stessa rivista, XXIII (1° settembre 1906), pp. 203-5. Sono grato a Jeannette Treiber della University of California, Davis, per la traduzione dell’articolo di Jenstch. 15 L’esposizione dettagliata dell’indagine lessicale, che pare invitare il lettore a parte­ cipare alla ricerca, fu naturalmente inscenata in modo premeditato da Freud. La sua argo­ mentazione, come è stato osservato dai critici, è costruita minuziosamente per raggiunge­ re una conclusione già determinata. Il ritmo insistente del dizionario, l’accumularsi di «si­ gnificati» ramificati ricordano lo stile di una comparsa di tribunale. Trascinato dalle numerose citazioni lessicologiche tratte da fonti bibliche e tedesche, questo brano inseri­ va inoltre il perturbante in un ampio campo culturale che, dopo Schiller e Schelling, si era

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terbuch di Daniel Sanders (i860), per esempio, la prima defini­ zione di heimlich è «che appartiene alla casa» e «non straniero, fa­ miliare, domestico». Qualcosa di associato all’intimità, «fidato e intimo» «che rammenta il focolare, il grato senso di quieto appa­ gamento, ecc., senso di agio, di tranquillità e di sicura protezione, come quello che suscita la casa confortevole, raccolta nel suo re­ cinto». Sanders cita una lunga lista di esempi: «Distruggere la Heimlichkeit del paese natio». «Non ho trovato facilmente un po­ sticino cosi appartato e heimlich». «Ce lo immaginavamo cosi co­ modo, cosi grazioso, cosi gradevole e heimlich». «In quieta Heim­ lichkeit, circondata da angusti limiti». Gli autori svevi e svizzeri apparivano particolarmente suscettibili a tali nozioni e Sanders lo­ calizzò il termine nella sua grafia regionale e pittoresca: «Come tornava a sentirsi heimelich Ivo alla sera, quando giaceva a casa sua». «Nella casa mi ha colto un tale senso di heimelig». «La cal­ da stanza, il meriggio heimelig». «La capanna dove un tempo era stato spesso seduto cosi heimelig, in piena gioia, nella cerchia dei suoi». La parola heimlich è dunque collegata alla domesticità (Häus­ lichkeit), all’essere a casa (heimatlich) o alla socievolezza (freund­ nachbarlich)11'. Dietro tali immagini di felicità e già aleggiante negli esempi tratti da Sanders, tuttavia, incombe qualcosa di decisamente non heimlich: «L’uomo che poco prima gli era stato cosi estraneo», «I possidenti protestanti non si sentono [...] heimlich tra i loro sud­ diti cattolici». «Chi viene da lontano [...] non vive del tutto heim­ elig (a casa sua, in buon vicinato) tra la gente. Già consapevole dell’intrusione dell’estraneo, Sanders stesso pare preoccupato del fatto che, come egli stesso avverte: «Quest’accezione [originale] avrebbe meritato di diventare generale, per evitare che il signifi­ cato migliore del termine cadesse in disuso»; egli teme che heimrafforzato in epoca romantica. L’effetto cumulativo delle diverse pagine di voci di dizio­ nario riportate da Freud pressoché testualmente, risulta, come ha osservato Hélène Cixous, a sua volta un po’ inquietante, poiché Freud si serve di Sanders e dei Grimm per girare ri­ petutamente e ossessivamente intorno al suo concetto, dapprima assecondando le intui­ zioni dei lettori alla maniera di Holmes con Watson, poi gettandosi senza incertezze su un indizio minimo - una singola frase di Schelling - il quale emerge come il principio fonda­ mentale del perturbante psicanalitico. Cfr. h. cixous, fiction and Its Phantoms: A Reading of Freud's «Das Unheimliche», in «New Literary History», VII (1976), pp. 525-48. Il te­ sto di Freud, nota Cixous, è di per sé «uno strano romanzo teorico», «una sorta di teatro dei burattini all’interno del quale marionette vere e marionette false, vita vera e vita si­ mulata sono manipolate da un regista sovrano ma capriccioso» (p. 525). 16 D. sanders, Wörterbuch der deutschen Sprache, 3 voll., Otto Wigand, Leipzig i860, vol. I, p. 729.

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lieh si rivolterà contro se stesso, acquisendo come unico significa­ to quella sua seconda accezione, quella di «nascosto, celato, in mo­ do da non farlo sapere ad altri», come in «Fare qualcosa di heim­ lich (dietro le spalle di qualcuno) [...] parti heimlich (che la decenza impone di tener coperte)». Lo slittamento dalla casa verso il pri­ vato, la latrina («lo stanzino heim lieh »), il segreto e dunque magi­ co («l’arte heimlich») era fin troppo facile. Il passo verso unheim­ lich, osservò quindi Sanders, era breve: ... vedi [...] soprattutto per il contrario, ««»-»: disagevole, che suscita tre­ pidante orrore. «Gli apparve unheimlich come un fantasma» [...] «Prova un orrore unheimlich». «Unheimlich e rigido come una figura di pietra». «La nebbia unheimlich chiamata fumo di capelli»17.

In maniera non dissimile, i fratelli Grimm, instancabili racco­ glitori di folklore e miti, fornirono la definizione di heimlich nel loro Deutsches Wörterbuch (1877) tracciando un’idea di tranquil­ lità domestica, di ciò che pertiene alla casa {house e home), di un sentimento di sicurezza e libertà dalla paura - un’idea che aveva gradatamente assunto le sfumature sinistre e minacciose del suo apparente contrario, unheimlich, o unhomely (letteralmente, disa­ gio o inquietudine che turba la quiete della casa). 4. Dal significato di «natale», «domestico», si sviluppa inoltre il concetto di: sottratto a occhi estranei, celato, segreto.[...] Heimlich è accostato a un verbo che indica l’azione di nascondere. [...] Funzionari che impartiscono consigli importanti e da tener segreti in af­ fari di Stato si chiamano consiglieri heimlich, ma l’aggettivo nell’uso odier­ no è stato sostituito da geheim (segreti). [...] Heimlich quanto alla conoscenza: mistico, allegorico, un significato heim­ lich, mysticus, divinus, occultus, figuratus. Heimlich ha diverso significato nell’accezione seguente: sottratto alla conoscenza, inconscio. [...] Heimlich vale anche: chiuso, impenetrabile alla ricerca. Il significato di «nascosto», «pericoloso» [...] si sviluppa ulteriormente, sic­ ché heimlich assume il significato abitualmente proprio di unheimlich: «a vol­ te mi sento come un uomo che vaga nella notte e crede agli spettri; per lui ogni angolo è sinistro (heimlich) e dà i brividi18.

Freud fu attratto da questo lento cammino delle sensazioni legate alla casa, prima positive e rassicuranti, poi ambigue e inospitali, e fu lieto di scoprire che «heimlich è quindi un termine che svilup­ pa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere in con17 Ibid. 18 j. e w. grimm, Deutsches Wörterbuch, 16 voll., S. Hirzel, Leipzig 1854-1954, vol. IV/2,p. 874.

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clusione con il suo contrario unheimlich» (P 87). Sanders propo­ neva persino una citazione attestante che «tra le molteplici sfu­ mature del suo significato [heimlich} ne mostra anche una in cui coincide col suo contrario, unheimlich». Il brano in questione, trat­ to da un’opera del drammaturgo Karl Ferdinand Gutzkow, inclu­ deva la frase: «Noi lo chiamiamo unheimlich, Lei lo chiama heim­ lich». Freud lo psicanalista trovava ancora piu interessante la pri­ ma parte del medesimo brano: - Gli Zecks sono tutti heimlich. heimlich? - Beh, [...] sono come una Non ci si può camminare sopra senza qua potrebbe tornare in superficie. lo chiama heimlich'9.

[...] Heimlich'? [...] Cosa intende con fonte nascosta o uno stagno essiccato. avere la costante impressione che l’ac; Oh, noi lo chiamiamo unheimlich, Lei

Questo senso di riaffioramento inaspettato di una fonte un tem­ po sotterranea, di unheimlich paragonato a un ritorno inquietan­ te, trovava conferma in altri brani citati da Sanders nei quali la nozione di heimlich inteso come «nascosto» si ricollegava all’idea di qualcosa di «sepolto». Se il sonno, dunque, era per certi aspet­ ti «heim’lig», i cimiteri erano «tranquilli, incantevoli e heimlich, un luogo senza uguali per il loro riposo» e la sepoltura non era nul­ la piu che «gettare in una fossa o Heimlichkeiten». «Ho radici as­ solutamente heimlich», esclama uno degli autori citati da Sanders, «mi protendo verso la terra profonda»20. In questo senso, lo unheimlich pareva per cosi dire sbucare da sotto lo heimlich, per riemergere quando si credeva fosse sopito per sfuggire ai legami della casa. Freud trovò un’ulteriore conferma a tale attribuzione in un afo­ risma citato anch’esso da Sanders e tratto dal filosofo Schelling: « Unheimlich è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, na­ scosto, e che è invece affiorato»21. Freud fece di questa frase il ful­ cro fondamentale della propria indagine: essa ritorna come un mo­ tivo dominante nel corso del saggio e offre un vero e proprio «prin­ cipio» che, intimando una versione prepsicanalitica del «ritorno del rimosso», permette a Freud di andare oltre la semplice «in­ certezza intellettuale» presupposta da Jentsch. Potremmo dire, an­ zi, che l’intera argomentazione su cui si basa 11 perturbante avreb” sanders, Wörterbuch der deutschen Sprache cit., vol. I, p. 729, mentre cita dal ro­ manziere e drammaturgo Karl Ferdinand Gutzkow (1811-78). 20 Ibid. 21 Ibid.



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be finito con il ricadere su questa affermazione apparentemente semplice, la quale avrebbe potuto essere compresa, secondo Freud, solo tramite il concetto di rimozione. Sanders, a dire il vero, aveva tratto la felice «definizione» schellinghiana di perturbante dalla Filosofia della mitologia del 1835, il tardo tentativo compiuto da Schelling per sintetizzare la storia della religione con l’antropologia dei culti. In quel testo, Schelling aveva avanzato un’ipotesi in base alla quale le origini del perturbante sarebbero state ricollegabili a quelle della religione, della filosofia e della poesia. Secondo la sua formulazione, che an­ ticipava Nietzsche, l’esistenza del perturbante era necessaria in quanto forza da superare, un primo passo verso la nascita della poesia. Parlando dei canti omerici, giudicati tra gli esempi piu pu­ ri di sublime, Schelling proponeva che essi fossero proprio il ri­ sultato di una soppressione iniziale, l’asservimento del mistero, del mito e dell’occulto alla civiltà. Come l’Apollineo era nato dal Dio­ nisiaco, e con effetti simili, il sublime omerico si fondava sulla ri­ mozione del perturbante: Proprio perciò la Grecia ha un Omero, perché ha i misteri, ossia perché ha riportato vittoria completa su quel principio del passato che nei sistemi orientali era ancora dominatore ed esteriore, ed è riuscito a ricacciarlo com­ pletamente nell’interno, ossia nel segreto, nel mistero (da cui invece era usci­ to allo scoperto in origine). Il puro cielo che si libra sopra dei poemi omeri­ ci poteva distendersi sulla Grecia solo dopo che il potere oscuro e ottene­ brante di quel principio sinistro (sinistro si definisce tutto ciò che doveva restare nel segreto, nell’occulto, nella latenza ed invece è uscito allo scoper­ to); [...] solo dopo che il principio autenticamente religioso fu occultato nell’interiorità e lo spirito fu lasciato completamente libero all’esterno, l’età omerica potè per la prima volta pensare a creare quella storia degli dèi pura­ mente poetica22.

Oltre a fornire a Freud un comodo punto di partenza, questa descrizione di un «principio sinistro», - basato com’era su di una rimozione primigenia, sull’uccisione di un padre («Omero», disse Schelling, « non ha prodotto la mitologia, ma egli stesso è il pro­ dotto della mitologia)23 - riassumeva l’idea di unheimlich evocata dai romantici. Fenomeno psicologico ed estetico insieme, il per­ turbante fissava e destabilizzava a un tempo. I suoi effetti erano garantiti da ovìautenticità originaria, da una prima sepoltura, e re22 f. w. j. Schelling, Philosophie derMytologie, 2 voll., Wissenschaftliche Buchgesell­ schaft, 1966, vol. II, p. 649 [trad. it. Filosofia della mitologia, Mursia, Milano 1990, p. 388]. 25 tbid. [trad. it. cit., p. 389].

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si ancora più potenti da un ritorno che, nella civiltà, era autentica­ mente fuori luogo. C’era qualcosa, dunque, di non semplicemente stregato, bensì di rivisitato da una forza che si pensava defunta da molto tempo. La psiche e la sensibilità estetica del Romanticismo erano assai ben disposte nei confronti di una simile forza: in qual­ siasi momento ciò che in superficie appariva accogliente e confor­ tante, sicuro e scevro da superstizioni rischiava di divenire preda di un qualcosa che avrebbe dovuto rimanere segreto e che invece, infiltrandosi in una fessura del progresso, era ritornato24. Tra i principali professionisti del perturbante - che Hegel chia­ mava quel genere di «nozioni visionarie», attraverso cui «non si esprime nulla se non un malessere dello spirito», dove «la poesia si trasforma in nebulosità, illusorietà e vuoto» - Hegel annovera­ va lo scrittore E.T.A. Hoffmann, il quale aveva saputo divenire tutt’uno con il genere del perturbante. Fu precisamente quest’au­ ra di indecifrabilità ad attrarre Freud verso Hoffmann, senza con­ tare che i racconti di Hoffmann si presentavano come esempi per­ fettamente compiuti della «teoria del perturbante» di Schelling in tutte le sue possibili permutazioni. L’esplorazione quasi sistematica compiuta da Hoffmann nel terreno dei rapporti tra heimlich e unheimlich, familiare ed estra­ neo, si estese, per nulla casualmente, a un esame altrettanto mi­ nuzioso del ruolo dell’architettura nel rappresentare le impres­ sioni e nel servire come strumento per le relative manifestazioni narrative e spaziali. Hoffmann stesso era un architetto non pro­ fessionista, uno scenografo teatrale e un «collezionista» di case strane, come scrittore e musicista l’architetto che ammirava di più era Karl Friedrich Schinkel, al quale commissionò il disegno delle scene per la sua opera Ibridine25. L’importanza dell’architet24 L’esempio di perturbante estetico offerto da Schelling, descritto nelle fasi prece­ denti della sua produzione e ora rielaborato, era quello delle sculture appartenenti al fron­ tone del Tempio di Egina, un tempo il pezzo forte della gliptoteca di Leo von Klenze a Mo­ naco. Per Schelling queste sculture, per metà primitive e per metà moderne, rappresenta­ vano uno stadio particolare nello sviluppo dell’arte occidentale. 25 Hoffmann osservò in una lettera a Carl Reichscount von Brühl, direttore generale del Teatro Reale (Berlino, 26 gennaio 1816) che nessuno sarebbe stato piu adatto di Schinkel a mettere in scena il suo dramma Undine, essendo capace di «penetrare cosi profon­ damente lo spirito autentico del romantico»; tempo prima Hoffmann aveva espresso il de­ siderio di «suscitare l’interesse di Schinkel per la storia di Undine». «In particolare, vor­ rei mi costruisse un autentico, magnifico sepolcro Gotico», disse Hoffmann. Cfr. j. c. sah1.1N (a cura di), Selected Letters of E.T.A. Hoffmann, University of Chicago Press, Chicago 1977, pp. 254-56. La prima di questa «opera magica» ebbe luogo il 3 agosto 1816, con sce­ nografie di Schinkel.

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tura nell’idea hoffmanniana di perturbante, tuttavia, era dimo­ strata da qualcosa di più di una semplice collaborazione con un progettista di talento. Per i romantici della generazione di Hoff­ mann l’architettura svolgeva un ruolo fondamentale nella rap­ presentazione della natura, un autentico microcosmo del mondo sociale e naturale. Kant, dopotutto, ne aveva fatto una metafora della sua intera filosofia, spiegando in termini architettonici le re­ lazioni strutturali del pensiero, mentre per i Giovani Tedeschi, dopo Goethe, l’architettura era, nelle sue incarnazioni gotiche o classiche, una visione della perfezione estetica - classica come nor­ ma, gotica in quanto testimone della nascita della nazione. Per Schiller, Schelling, i fratelli Schlegel e più tardi per Hegel l’ar­ chitettura rappresentò un tema cruciale nella riflessione sull’este­ tica. Hölderlin, Novalis e Clemens Brentano trovarono materia­ le per le loro visioni orfiche nei templi e nei fori di un’antica età dell’oro. Caspar David Friedrich ritrasse le rovine e le tracce di una simbolica perfezione distrutta dal tempo e dagli elementi. Hoffmann, nonostante la sua spiccata ironia, trovò nell’architet­ tura il segno tangibile di un’armonia musicale inarrivabile per mezzo dei suoni. Egli «progettò» inoltre meticolosamente l’ambientazione dei racconti, delineando spazi che, simpatetici com’erano, facevano da cassa di risonanza per la dimensione psi­ cologica dei suoi personaggi: non semplice illustrazione di un ter­ rore gotico primitivo, ma equivalenti costruiti del perturbante psi­ cologico in architettura. Nei racconti di Hoffmann troviamo numerose case stregate. La casa dell’archivista Lindhorst ne 11 vaso d’oro, per esempio, è a tut­ ti gli effetti simile esteriormente a tutte le altre abitazioni della sua strada. Solo il picchiotto di bronzo scolpito tradisce qualcosa del perturbante celato all’interno. Varcata la soglia, tuttavia, gli spazi apparentemente familiari di biblioteche, serre e studi ri­ schiano a ogni momento di trasformarsi in ambienti fantastici e semiorganici: stanze formate da palme con foglie dorate che co­ prono il soffitto e tronchi di bronzo che si ergono come colonne vive, giardini tropicali non illuminati da nessuna fonte di luce esterna. Meno fantastica ma più perturbante, la dimora deserta de La casa disabitata si presenta alla strada, come il rudere di Hugo, con le finestre murate; il suo stato di abbandono contrasta con il fondale sfarzoso del viale, è come ... una casetta larga quanto quattro finestre e cosi bassa da superare di poco col suo primo piano le finestre a pian terreno dei due imponenti palazzi tra

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i quali era incastrata [...] tetto in rovina, muri scoloriti [...] le finestre erano velate [...] quelle al pian terreno addirittura murate26.

Il castello di Rossitten ne 11 maggiorasco, infine, dall’esterno sem­ bra romantico e basta, una tetra rovina perseguitata dal fato dei suoi proprietari, mentre all’interno il rapido passaggio da una confortevole sicurezza a un ambiente disagevole e insicuro pro­ duce un effetto semionirico, come quando qualcosa di familiare si tramuta in estraneo. Nessuna di queste case, tuttavia, è utile a illustrare la struttu­ ra del perturbante quanto quella descritta nel racconto II consi­ gliere Krespel. Pubblicato per la prima volta nel 1818 e incluso l’an­ no seguente nella raccolta I confratelli di San Serapione, questo rac­ conto presenta il rapporto tra perturbante e architettura senza ricorrere all’apparato del sogno, del mistero o dell’infestazione da parte di spiriti o fantasmi27. Il racconto si apre con la descrizione apparentemente secon­ daria della costruzione di una casa. A prima vista, come osserva il narratore, non è che l’esempio di uno dei «tiri più pazzi e birbo­ ni» del consigliere, egli stesso «uno degli uomini piu originali e stravaganti» (K 29). L’edificio, che come ci viene detto è il dono di un principe regnante del luogo in cambio di servigi legali, fu co­ struito in fondo a un giardino del consigliere secondo i dettami al­ quanto particolari di quest’ultimo. Una volta acquistati i materia­ li, averli fatti ammucchiare in loco, aver tagliato le pietre, spento la calce, setacciato la sabbia, il consigliere aveva lasciato a bocca aperta i vicini rifiutando qualunque aiuto da parte degli architet­ ti e assoldando direttamente un capomastro, operai, garzoni e ma­ novali per intraprendere l’opera. Cosa ancora piu straordinaria, il consigliere non aveva né commissionato né redatto egli stesso un progetto per l’edificio, limitandosi a scavare un fossato perfetta­ mente quadrangolare per le fondamenta. I muri, secondo le sue istruzioni, furono eretti dai muratori senza porte né finestre giu­ sto dell’altezza indicata dal committente. Nonostante l’evidente follia di una simile procedura, il lavoro fu eseguito allegramente

26 E. T. A. hoffmann, Der Sandmann. Das ode Haus, Philip Reclam, Stuttgart 1969, pp. 46-47 [trad. it. Romanzi e racconti, Einaudi, Torino 1969, vol. I, pp. 769-70]. La casa esisteva davvero, al n. 9 dell’Unter den Linden, a Berlino. 27 io., Rat Krespel, in Die Serapionsbrüder, Poetische Werke, 6 voll., Aufbau-Verlag, Berlin 1958, vol. IV, pp. 32-56. Le citazioni sono tratte da II consigliere Krespel, in Ro­ manzi e racconti cit., vol. II, pp. 29-51, d’ora in poi «K».

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dagli operai, abbondantemente rifocillati con cibi e bevande. Un giorno Krespel gridò: «Alt! »ei muri furono terminati (K 29-30). A quel punto il consigliere prese a comportarsi in modo stra­ no: camminava avanti e indietro nel giardino e si avvicinava alla casa da ogni direzione finché, grazie a questa complicata triango­ lazione, «trovò» il posto giusto per la porta e ordinò che venisse aperta nella pietra. Una volta entrato in casa, determinò con lo stesso metodo finestre e tramezzi, decidendone in modo apparen­ temente spontaneo posizione e misure. La casa, a quel punto, fu terminata. Per celebrare la nuova residenza Krespel invitò i mu­ ratori e le loro famiglie, ma nessun amico o conoscente, a una fe­ sta durante la quale suonò il violino. Il risultato di tutte queste ma­ novre fu «uno spettacolo a vedersi - non c’erano due finestre ugua­ li!... All’interno, invece, la casa era arredata in modo da dare un senso di comodità assolutamente particolare» (K 30). Nel racconto di Hoffmann questa breve introduzione aneddo­ tica serve a presentare il carattere particolare del musicista, avvo­ cato e liutaio Krespel, la cui bellissima ma sventurata figlia Anto­ nia, dotata quando cantava di una voce singolarmente armonica e perturbante, è relegata in casa e costretta al silenzio, poiché lo sfor­ zo le sarebbe fatale. Alla luce della narrazione seguente, che rac­ conta la storia della seduzione di Antonia e dell’ultima canzone che la condurrà alla morte, la descrizione della folle dimora di Kres­ pel potrebbe sembrare un segno tra tanti dell’insensatezza del pro­ prietario, o al massimo un concettismo letterario. In questo caso l’edificio non sarebbe che un frammento pittoresco, una vivace in­ troduzione alla vicenda narrata. Su di un altro piano, tuttavia, proprio l’eccentricità di Krespel nel rifiutare un architetto, figura il cui istinto professionale aveva già mostrato effetti disastrosi nel romanzo «architettonico» di Goethe Le affinità elettive, ci induce a leggere una morale nell’in­ troduzione di Hoffmann. Forse le ridicolaggini del consigliere so­ no il veicolo per una garbata satira del mito dell’architetto «natu­ rale», un mito comune all’illuminismo quanto all’età romantica. In quella leggenda l’architetto era raffigurato come un personaggio rousseauiano che, abbandonato nella selva primigenia, è immedia­ tamente in grado di costruire e anzi fissa le leggi stesse dell’archi­ tettura già dalla posa del primo pilastro o dall’intelaiatura delle pri­ me travi. Krespel in quanto progettista «antinaturale», dunque, era destinato a fare guai con i suoi gesti primitivi e maldestri, dimo­ strando, come a Hoffmann piaceva dimostrare, i valori negativi dei

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miti sentimentali. Seguendo questa linea di lettura potremmo an­ che supporre che rifiutando l’aiuto dell’architetto (un professioni­ sta moderno) e ricorrendo ai muratori (costruttori e geometri tra­ dizionali), Krespel diventi un paradigma del mecenate romantico, il quale ritorna alle «radici» di un’edilizia autenticamente tedesca ripristinando la saggezza delle corporazioni artigiane. O forse la casa di Krespel andrebbe considerata come una spe­ cie di paradigma del bello in architettura. Dopo tutto le sue fon­ damenta furono gettate su un quadrato perfetto; rammentando che Krespel era un musicista potremmo pensare ai rapporti, trac­ ciati infinite volte nella teoria classica, tra architettura e musica, in virtù dei quali l’architettura dovrebbe riecheggiare nelle pro­ prie armonie geometriche le armonie musicali. Anche questa era un’analogia molto amata dai romantici: Schelling aveva annun­ ciato che «l’architettura è in generale musica congelata» e aveva citato il mito di Anfione, il quale con il suono della sua cetra ave­ va fatto muovere le pietre, costruendo le mura di Tebe28. Questa idea dell’architettura come musica concreta suscitò numerosi com­ menti. In Massime e riflessioni Goethe trasformò quel motto in « musica pietrificata» e, richiamando il mito di Orfeo, spiegò il suo modo di comprendere l’architettura parlando di una sorta di «ar­ monia estinta»: «i suoni svaniscono ma l’armonia permane»29. In questo senso, la casa di Krespel è come un grande carillon, che can­ ta in vece di Antonia, la quale è costretta al silenzio: la prima e unica volta in cui la si udì cantare la casa finalmente brillò di luce riflessa e «le finestre si illuminarono con maggior lucentezza del solito». Poco, nel bizzarro aspetto esterno della casa, richiama le armonie pietrificate di Orfeo, le «pareti ritmiche» evocate da Goethe, del resto Krespel era un musicista assai poco ortodosso50. Seguendo le linee di questa analogia sinestetica potremmo giun­ gere a interpretare la casa come una diretta replica in pietra della personalità musicale di Krespel, una replica non solo della sua ec­ centricità esteriore, ma anche del suo animo. Ci viene detto, in­ fatti, che il suo comportamento esteriore è un riflesso diretto del­ le sue emozioni più intime: 28 F. w. j. Schelling, The Philosophy of Art, University of Minnesota Press, Minnea­ polis 1989, p. 177 [trad. it. La filosofia dell’arte, Prismi, Napoli 1997]. 29 w. Goethe, Maximen und Reflexionen, in Werke, Hamburger Aubsgabe, Hamburg 1953, vol. XII, p. 474. 50 Ibid. Goethe sostituì la «musica congelata» di Schelling con l’espressione «musica silente» (verstummte Tonkunst).

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Ci sono individui [...] ai quali la natura - o un particolare destino - ha strappato via il velo sotto cui noi tutti celiamo la nostra porzione di follia. Ras­ somigliano a quegli insetti dalla scorza sottile: il gioco dei muscoli, vivace, evi­ dente, li fa apparire malformati; ma subito dopo riprendono la loro forma na­ turale. Ciò che in noi rimane pensiero, in Krespel diventa azione (K 40).

Dunque i gesti apparentemente «folli» e i balzi «irrazionali» del consigliere non sono altro che l’espressione esteriore del suo spi­ rito, il quale si mantiene sano nonostante la follia superficiale, o forse grazie a essa. Il caos delle facciate esterne della casa, para­ gonato al senso di ordine che regna all’interno, sarebbe dunque analogo a questa condizione di rimozione rovesciata. Un simile schema di rovesciamenti attraversa l’intero racconto, il quale met­ te costantemente in opposizione i termini della pazzia o del male apparenti e quelli della sanità o del bene rivelati. La mise-en-abìme del sotto sopra e del rovesciamento tra interno e esterno trova nella casa la sua cristallizzazione e prefigurazione. Questa caratterizzazione ci induce a un’ultima osservazione che non ci costringe piu, per così dire, a girare attorno alla casa co­ me metafora, permettendoci per contro di varcare la soglia di un edificio la cui struttura coincide con lo stato d’animo della storia e dunque ci offre un metodo per interpretarla. L’esterno della ca­ sa, ricordiamolo, ci è stato descritto come «insolito», mentre l’in­ terno è accogliente, ... era uno spettacolo a vedersi [tollsten, «folle» o «pazzo»] - non c’erano due finestre uguali!... All’interno, invece, la casa era arredata in modo da dare un senso di comodità assolutamente particolare [Wohlbehaglichkeit, «be­ nessere», «tranquillità»] ; me lo assicurarono tutti quelli che ci entrarono pri­ ma di me (K 30).

Se volessimo continuare a utilizzare i termini fin qui usati, ciò si­ gnifica che l’interno della casa era accogliente mentre l’esterno non lo era affatto, a riprova dell’intuizione di Freud secondo cui un unico passaggio separa la casa accogliente dalla casa stregata e, in quel passaggio, ciò che è riparato e sicuro diventa segreto, oscuro e inaccessibile, pericoloso e colmo di terrori: che «heimlich è quin­ di un termine che sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere in conclusione con il suo contrario unheimlich». La casa di Krespel, tuttavia, se vista in questi termini è una struttura che di fatto rovescia la direzione generale del movimen­ to perturbante: da accogliente verso non accogliente, da heimlich verso unheimlich - un movimento che troviamo in molti racconti di fantasmi dove una casa apparentemente confortevole diviene

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gradualmente un luogo dell’orrore. La casa di Krespel non tenta minimamente di nascondere l’inquietante stranezza del suo aspet­ to esteriore. In questo contesto, è bene ricordare che durante la costruzione della casa le attività di Krespel erano esse stesse al­ quanto unheimlich-, - Largo! - comandò Krespel. Corse a un’estremità del giardino e quin­ di si riavvicinò adagio adagio fino al muro di quel suo cubo; scosse la testa contrariato, corse all’altra estremità del giardino, tornò ad avvicinarsi al mu­ ro... ripetè varie volte lo stesso giochetto e finalmente, quasi toccando la pa­ rete col naso aguzzo, gridò forte: - Qua... qua, ragazzi! Apritemi la porta... Apritemi una porta qui... (K 30; corsivo mio).

Comportandosi quasi come un cieco guidato esclusivamente dal suo bastone e dal naso, Krespel non agisce come una persona nor­ male, che prima vede qualcosa e poi la indica, ma sceglie di corre­ re verso qualcosa e poi di toccarla. Se vede, è solo con una visio­ ne molto ravvicinata, quasi tattile. Questa impressione trova con­ ferma piu avanti nella narrazione, quando Krespel è descritto come un uomo che «cammina come un ubriaco o un cieco: pareva che tutti i momenti dovesse andare a sbattere contro qualcosa e fare qualche danno», anche se poi grazie a uno strano senso riusciva a evitare di rompere le tazze sul tavolo e ad aggirare uno specchio a figura intera che inizialmente gli era sembrato un varco. Solo una persona quasi cieca avrebbe potuto scambiare quella specchiera per qualcos’altro. Ancora, dopo cena Krespel fabbrica minuscoli oggetti di osso con i resti della lepre appena mangiata ed è descritto come un gioielliere miope che vede ingranditi gli og­ getti piu piccoli e sfocati quelli più grandi. Eppure, in senso lette­ rale, Krespel ovviamente ci vede, egli pare piuttosto reprimere con­ sapevolmente le piene facoltà della vista per esercitarne altre, più profonde e potenti. Questa repressione dell’occhio troverà una spiegazione in altri racconti perturbanti di Hoffmann, in partico­ lare in quello scelto da Freud come luogo del perturbante stesso: L’Orco Insabbia, un racconto in cui la «libidine dell’occhio» come la chiamerebbe Walter Pater, si manifesta in ogni combinazione immaginabile51. In L’Orco Insabbia Hoffmann, come osservò Freud, privile­ gia il potere degli occhi - un lettore con una passione per il quan­ 51 E. T. A. hoefmann, L'Orco Insabbia, in Romanzi e racconti, Einaudi, Torino 1969, vol. I, pp. 653-84. Tutte le citazioni da questo racconto saranno indicate con «OI». [Nel­ la traduzione italiana del saggio di Freud sul perturbante, questo racconto è citato con il titolo 11 mago sabbiolino (N.d. T.)].

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titativo può contare la descrizione di oltre sessanta paia di occhi, per non contare il sacco di occhi che il leggendario Orco Insab­ bia porta con sé, o la «miriade» di occhi evocati dalle lenti scin­ tillanti del mercante di barometri Coppola, o la ripetizione in­ cessante di riferimenti velati agli organi della vista sotto forma di sguardi, occhiate e visioni. Potremmo dividere i ruoli svolti da questi oculi in due categorie. Da un lato ci sono gli occhi che ve­ dono chiaramente la realtà del mondo così come appare, per esem­ pio gli occhi di Clara, «luminosi» e «infantili», che vedono «so­ lo la superficie colorata del mondo» (OI 662), non vanno oltre le apparenze. Dall’altro lato abbiamo occhi più potenti, quelli dell’Orco Insabbia e forse di Natamele: per quanto offuscati dalla sabbia, vedono al di là delle apparenze. I lucidi occhi di Clara so­ no descritti come specchi: riflettono il mondo esterno come «un lago di Ruys-dael, in cui si rispecchia il nitido azzurro di un cie­ lo senza nubi, un rigoglio di alberi e di fiori, la vita variopinta e serena di un ricco paesaggio» (OI 666). Il secondo tipo di sguar­ do, più fosco, è descritto come illuminato da una luce interiore, da un fuoco. Sono occhi che, più che riflettere, proiettano, ri­ versando forze profonde sul mondo esterno, adoprandosi per cambiarlo e distorcerlo. Ai possessori di strumenti potenzial­ mente così letali, dei semplici specchi sembrano esanimi: «Li ho, i miei occhi, - dice Clara, - guardami dunque! [...] Natamele guarda negli occhi di Clara; ma è la morte che con gli occhi di Clara amorosamente lo guarda» (OI 669). Chi non possiede al­ tro che specchi, chi ha occhi sereni, non ha paura di perderli: l’Orco Insabbia, afferma, Clara, «non ha modo di sciuparmi gli occhi» (OI 666). Chi invece è dotato di una vista interiore e perturbante vive nel timore di perdere i propri poteri; una volta scollegato dall’oc­ chio fisico, quello mentale potrà essere annientato senza troppe difficoltà, o addirittura sopraffatto da occhi più potenti. Freud in­ terpreterà la paura di perdere la vista come un sostituto della pau­ ra dell’evirazione, citando «la relazione sostitutiva che pur si ma­ nifesta in sogno, nella fantasia e nel mito tra occhio e membro vi­ rile» (P 93). In questo modo, dopo la morte del padre, l’Orco Insabbia appare come il distruttore, colui che annienta, separa e castra, tanto da indurre in Nataniele un’angoscia distruttiva lega­ ta a tutto ciò che può influenzarlo (visivamente). In L'Orco Insabbia, tuttavia, esiste una terza categoria di oc­ chi: le copie meccaniche che, siano esse fabbricate a imitazione

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dei veri globi oculari come nel caso di Olimpia oppure per accre­ scere i poteri degli occhi reali in forma di occhiali o telescopi, sem­ brano sempre possedere qualità perturbanti. Il cannocchiale ven­ duto da Coppola a Natamele, per esempio, ha il potere di infon­ dere vita negli occhi artificiali di Olimpia: «Ma guardando sempre piu acutamente attraverso il suo cannocchiale gli sembrò [...] co­ me se all’improvviso i suoi sguardi si fossero accesi ed ora fiam­ meggiassero sempre piu vivacemente» (OI 673). Il cannocchiale è inoltre capace di trasformare un occhio vivo in uno morto, co­ me quando Natamele estrae distrattamente il cannocchiale dalla tasca per puntarlo su un cespuglio indicato da Clara e inquadra accidentalmente gli occhi della ragazza. Cosi facendo, si trova tra­ sportato in un lampo al momento della sua visione fatale del cor­ po smembrato di Olimpia, la bambola di legno. Questi occhi mec­ canici sono quindi dei doppi, i prodotti di un’arte che abbellisce la natura; accrescono i già formidabili poteri dell’occhio naturale e molto spesso lo ingannano. Sono autentici strumenti di trampe­ l’ oeil. L’arte come un doppio della natura, rispecchiante la paurosa duplice esistenza dell’uomo, un’esistenza divisa tra ego e ego che osserva se stesso era un tema ricorrente in Hoffmann e nella let­ teratura romantica in generale. Il racconto di Hoffmann intitola­ to 1 sosia ruota attorno a un pittore e al suo doppio, senza trala­ sciare la doppia vita presente nella sua arte. In un altro racconto, Gli elisir del diavolo lo sdoppiamento della natura nell’arte riman­ da alla storia di Pigmalione, il quale con il suo amore riuscì ad ani­ mare la statua di Galatea. In questo caso, Hoffmann riscrive la storia di Ovidio sostituendo alla statua un dipinto, il quale pren­ de sinistramente vita davanti al suo autore Francesko. In entram­ bi i casi, il raddoppiamento operato dall’arte, che riesce a ingan­ nare l’occhio, è visto come intrinsecamente pericoloso. Al termi­ ne de I sosia, infatti, il pittore Haberland rinuncia alla vera Nathalie preferendole l’ideale puro che vive nella sua mente, men­ tre in Gli elisir del diavolo la Venere vivente di Francesko è una forza diabolica. L’arte, inventata per arginare la minaccia di scom­ parsa dell’Uomo, per esempio tracciando sulla parete i contorni dell’ombra della persona amata, si trasforma nel segno demoniaco della morte; in questo modo, come Freud ha dimostrato, l’arte stes­ sa assume i tratti del perturbante. L’arte è perturbante perché copre la realtà come un velo e per­ ché è ingannatrice. Non imbroglia, però, a causa della sua natura

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intima, ma piuttosto possiede il potere di ingannare grazie alla proiezione dei desideri dell’osservatore. Come ha notato Jacques Lacan, la favola di Zeusi che dipinge grappoli d’uva scambiati per frutti veri dagli uccelli non significa che l’artista avesse riprodot­ to perfettamente i grappoli, ma solo che persino gli occhi degli uc­ celli erano stati tratti in inganno: «trionfo, sull’occhio, dello sguar­ do». Per contro, quando il pittore Parrasio trionfa su Zeusi di­ pingendo sulla parete una tenda cosi verosimile da indurre Zeusi a chiedere di vedere il quadro sottostante, è in gioco la relazione tra lo sguardo dell’osservatore, pieno di ansia di possesso, e l’in­ ganno del dipinto32. Da qui si sviluppa il rapporto sinistro tra il doppio, maschera e rappresentazione insieme, e l’occhio vorace e maligno che esige l’autoinganno. Non è strano, quindi, che il consigliere Krespel reprimesse il potere dei suoi occhi costringendosi intenzionalmente alla miopia e privilegiando il tatto e l’udito, i sensi piu importanti per un mu­ sicista. Nel contesto della mitologia romantica che attribuiva alla vista sinistre proprietà distruttive (il malocchio) e dissimulatrici (la maschera), Krespel ambiva inoltre a una specie di innocenza volontaria, raggiungibile attraverso una percezione del mondo de­ gli oggetti uguale a quella di un bambino. Solo cosi egli poteva fab­ bricare una casa che non fosse un «doppio» maligno, una proie­ zione volontaria delle sue passioni peggiori, una casa che custo­ disse invece l’interiorità del suo artefice, in un interno integro e al riparo da qualsiasi tensione. Questo spiegherebbe il motivo per cui l’esterno della casa appariva unheimlich e l’interno heimlich: in quanto trascrizione meccanica, scrittura automatica dell’animo in­ diviso di Krespel, essa funzionava come Un percorso a doppio sen­ so, un passaggio per ritrovare dal perturbante la rassicurante am­ bientazione domestica. Cosi come il comportamento bizzarro del consigliere è interpretato dal Professore come un segno stravagante di normalità, cosi l’insolito aspetto esterno della casa è una sicura indicazione del senso di familiarità che regna all’interno. «Ciò che proviene dalla terra, - osserva il Professore, - [Krespel] lo rende alla terra; ma ciò che è divino egli lo sa ben conservare dentro di sé» (K 40). La sua abitazione folle, costruita in un’epoca in cui l’analisi non esisteva, era un meccanismo di autoconservazione. 32 j. lacan, Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, 1964 [trad. it. Il se­ minario, Libro XL I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 1979, p. 105].

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In questo senso, la casa era uno strumento terapeutico: Kres­ pel ha trovato in questa maschera di pazzia un modo per tenere a bada il mondo e raggiungere la calma interiore - un modo astuto, dopotutto, per perseguire ciò che Hoffmann chiamava il «Sera­ pions Prinzip», un tratto comune a tutti i membri della confra­ ternita secolare protagonista della serie di racconti con lo stesso nome. Alla luce di questo ideale, il mondo esterno era usato come una leva con cui azionare il mondo interiore dell’artista, traccian­ do confini netti tra vita e poesia. Per far questo, l’artista doveva coltivare una sorta di calma interiore, una Besonnenheit, o stato mentale, che controllava il rilascio di immagini e traduceva gli sti­ moli provenienti dal mondo esterno adattandoli alla sfera spiri­ tuale. Come ha concluso Maria Tatar, ... senza questo dono, la tela del pittore rimane bianca, il manoscritto dello scrittore è composto da pagine vuote, la partitura del compositore non con­ tiene nemmeno una nota e l’artista in generale viene tacciato di pazzia dalla società”.

Krespel, prima dell’epoca dell’analisi, ha preservato il proprio io poetico ricorrendo a un confine artificiale, a una casa che era, in un’accezione specifica, specchio della sua anima. L’abitazione di Krespel, con il suo rapporto particolare tra in­ terno ed esterno va ad aggiungersi a molte altre case perturbanti ot­ tocentesche, attraverso le quali interno ed esterno, come heimlich e unheimlich, diventano topoi privilegiati del perturbante. L’ambientazione tipica dei racconti di storie di fantasmi, l’interno apparen­ temente accogliente che a poco a poco si trasforma in uno strumento orrorifico, è stata descritta in molte versioni: una famiglia allegra, di solito riunita dopo cena, gli uomini che fumano la pipa di fronte al camino acceso, le donne intente al cucito, i bambini in via ecce­ zionale alzati fino a tardi. Era l’evocazione nostalgica della veillée, una visione della casa e della vita domestica di stampo campagnolo, particolarmente amata nell’era dello spopolamento delle campagne e dell’emigrazione urbana. In un’ambientazione cosi rassicurante era possibile assaporare con delizia i racconti del terrore, e molti scrittori insistettero sulla necessità di aggiungere sempre un tempo­ rale, per rafforzare la sensazione di trovarsi in un interno protetto. Pensiamo per esempio a L’ospite sinistro di Hoffmann, nel quale i cinque ingredienti, «l’autunno, il vento, il fuoco, il caminetto, il ” M. Tatar, Spellbound: Studies on Mesmerism and Literature, Princeton University Press, Princeton 1978, p. 126.

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punch» suscitano «piccoli brividi segreti», un timore del sopranna­ turale assai piacevolmente prolungato dai racconti che rammenta­ vano agli astanti il mondo di spiriti in cui erano immersi34. Anche Thomas De Quincey, versato nell’arte di evocare sogni terrorizzanti, a volte con l’aiuto artificiale dell’oppio, era convin­ to della necessità di disporre di un solido punto di osservazione per intraprendere il viaggio interiore. Il luogo delle sue fantasti­ cherie stimolate dal laudano era un semplice cottage bianco nella valle di Graesmere, un tempo proprietà di Wordsworth, «cinto di siepi fiorite», era una casetta accogliente, in una valle riparata, le cui semplici stanze erano colme di libri e riscaldate da fuochi alle­ gri35. Anche De Quincey era convinto che le sue avventure men­ tali dovessero essere corredate da inverno e temporali infurianti, e intanto sorseggiava innocentemente il liquido insidioso che già era stato alla base delle fantasie del sublime architettonico che egli ricordava di avere letto in Coleridge, il quale a sua volta si era ispi­ rato a un ricordo impreciso delle Carceri di Piranesi36. Aggiungendosi a una già ricca tradizione di «travisamenti» piranesiani, che andavano da Horace Walpole a Loutherbourg, fino a William Beckford, De Quincey adombrò la prima meditazione romantica su quel che potremmo chiamare il perturbante spazia­ le, un perturbante non piu completamente legato agli sconvolgi­ menti spaziali legati a repressione e ritorno o agli slittamenti invi­ sibili fra le sensazioni di heimlich e unheimlich, bensì uno che tro­ vava raffigurazione negli echi abissali del vuoto immaginario37. Nel suo labirinto verticale De Quincey immagina l’artista, Piranesi, prigioniero di una vertigine en abîme da lui stesso creata, peren­ 34 Hoffmann, Der unheimliche Gast, in Die Serapionsbrüder, voi. VII, pp. 103-53 [trad, it. I.'ospite sinistro, in Romanzi e racconti cit., vol. II, pp. 540-76]. 35 T. de quincey, Confessions of an English Opium Eater, Penguin, Harmondsworth 1971, p. 93 [trad. it. Confessioni di un oppiomane, Einaudi, Torino 1973, p. 72]. 36 L’analisi più esaustiva della catena di interpretazioni romantiche delle incisioni del­ le Carceri piranesiane è quella di l. keller, Piranèse et les romantiques français, le mythe des escaliers en spirale, Librairie de José Corti, Paris 1966. Keller riassume la serie di fantasie ispirate da Piranesi in De Quincey, Alfred du Musset, Charles Nodier e Théophile Gau­ tier, oltre a tracciarne gli influssi su Balzac, Hugo, Baudelaire e Mallarmé. L’erede mo­ dernista di questo mito del movimento fu Sergej Ejzenstein; per il suo uso delle varie tra­ sformazioni delle Carceri, cfr. M. tafuri, La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino 1980. 37 Cfr. M. Praz, Introductory Essay, in p. fairclough (a cura di), Three Gothic Novels, Penguin, Harmondsworth 1968, in cui si rileva l’influsso delle Carceri su II castello di Otran­ to di Horace Walpole (1765), Dreams, Walking Thoughts and Incidents di William Beckford (1783) e, piu in generale, sulla letteratura del periodo Rivoluzionario. Praz cita due studi classici su tali filiazioni: j. Andersen, Giant Dreams, Piranesi’s Influence in England, in « Eng­ lish Miscellany», III (Roma, 1952), e keller, Piranèse et les romantiques français cit.

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nemente proteso verso lasommità di scale incompiute, all’interno del labirinto carcerario. E un brano celebre: Si vede una scala che corre lungo i muri, e su di essa sale faticosamente, a tentoni, lo stesso Piranesi: seguite la scala un po’ più in su e vedete che ter­ mina improvvisamente, senza un parapetto, in modo che chi ne abbia rag­ giunto l’estremità, con un altro passo non può che precipitare giu nel vuoto. Qualunque sia la fine del povero Piranesi, voi pensate che almeno le sue fa­ tiche debbano in qualche modo finire qui: ma alzate gli occhi, e vedrete una seconda scala che s’inerpica ancor piu in alto, e su di essa c’è di nuovo il Pi­ ranesi, ma questa volta proprio sull’orlo dell’abisso. Alzate di nuovo gli oc­ chi e vedrete un’altra rampa di scale ancor piu aeree: e di nuovo il povero Pi­ ranesi si affatica nella sua penosa salita: e sempre cosi, finché le scale inter­ rotte e il Piranesi si perdono entrambi lassù nel buio della sala’8.

De Quincey supera il semplice godimento burkiano di fronte al sublime e alla indeterminatezza delle rovine, intimando un per­ turbante spaziale pienamente sviluppato. Arden Reed ha riscon­ trato un rapporto con il perturbante freudiano sia nella «onnipo­ tenza del pensiero» tipica delle visioni ipnagogiche di De Quin­ cey, sia nello spazio infinitamente ripetuto derivante da una lettura che unifica tutte le Carceri in un’unica catena di associazioni mental-spaziali”. Tale ripetizione, come ha osservato Derrida com­ mentando la riconferma da parte di Freud della affermazione di Nietzsche a proposito dell’«eterno ritorno dell’identico», ha un che di diabolico. Per questo Derrida afferma, a proposito di Aldi là del principio di piacere di Freud, che L’intero testo è caratterizzato da un movimento diabolico, esso mima l’atto di camminare, cammina senza sosta, ma non avanza: traccia regolar­ mente un passo dopo l’altro, ma non permette di guadagnare nemmeno un centimetro di terreno40.

Questa continua coazione a ripetere è dunque perturbante, sia per le sue associazioni con il desiderio di morte, sia in virtù dello «sdoppiamento» insito in un incessante moto senza movimento. I disegni di Piranesi, in effetti, servirono a molti romantici co­ me altrettanti tropi (sempre male interpretati) di instabilità spa­ ziale, a significare una pulsione abissale verso il nulla. Il resocon­ to che De Quincey fece delle sue conversazioni con Coleridge die58 de quincey, Confessions of an English Opium Eater cit., pp. 105-6 [trad. it. cit., p. 88], ” A. reed, Abysmal Influence : ßaudelaire, Coleridge, De Quincey, Piranesi, Wordsworth, in «Glyph», IV (1978), pp. 189-206. 40 Derrida, La carte postale: de Socrate à Freud et au-delà cit.

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de origine a una lunga tradizione di interpretazioni-travisamenti di Piranesi, lungo la quale le stampe delle Prigioni, inizialmente descritte come sogni, come deliri indotti dai farmaci e come pri­ gioni mentali, assumono l’aspetto di labirinti entro cui l’artista è costretto a girovagare, metafore della mente romantica. Cosi Charles Nodier, senza una citazione esplicita ma eviden­ temente tramite una rilettura creativa di De Quincey, sviluppò en­ tusiasticamente questo tema in un racconto pubblicato nel 1836 e intitolato, eloquentemente, Piranesi - una favola di dimensioni proto-borgesiane in cui lo spazio della riflessione interiore è evo­ cato come simbolo della crescita infinita delle biblioteche, la ripe­ tizione di Babele, lo sdoppiamento privo di un originale del mon­ do nel libro41. Nodier descrive un tipo di patologia che chiama «mo­ nomania riflessiva» (monomanie réflective) alla quale trova un analogo spaziale nelle stravaganze di quelli che definisce i «castelli in Spagna» di Piranesi. Qui il bibliofilo romantico traccia una di­ stinzione interessante tra le convenzioni del sublime cosi come es­ se erano raffigurate nei quadri di John Martin e gli strani «incu­ bi» piranesiani: Le rovine di Piranesi sono sul punto di crollare. Gemono, piangono. [...] L’effetto dei suoi edifici grandiosi non è meno straordinario. Fanno venire le vertigini, come se le si stesse misurando da una grande altezza, e quando ricerchiamo l’origine dell’emozione che ci invade, rimaniamo sorpresi nel tro­ varci tremanti di paura su uno dei cornicioni, o a osservare gli oggetti vorticanti sotto i nostri occhi dal capitello di una delle colonne. Ma l’incubo di Piranesi non consisteva in questo .Sono certo che Martyn [sic] avesse l’incubo dello spazio e della moltitudine : Piranesi certamente aveva l’in­ cubo della solitudine e della costrizione, della prigione e della bara, di colui a cui manca l’aria per respirare, la voce per gridare e lo spazio per divincolarsi42.

In questo modo Charles Nodier distingue lo spazio generico del sublime - quello dell’altezza, della profondità e dell’estensione de­ scritto da Burke - dallo spazio del perturbante, che è quello del si­ lenzio, della solitudine, della costrizione in un interno e del soffo­ camento: lo spazio mentale entro cui temporalità e spazialità ven­ gono meno. La vertigine del sublime si affianca alla claustrofobia 41 ch. nodier, Piranèse, contes psychologyques, à propos de la monomanie reflective, in Œuvres complètes de Charles Nodier, 12 voli., Eugène Renduel, Paris 1832-37, vol. XI, pp. 167-204 [trad. it. Piranesi : racconti psicologici sulla monomania riflessiva, Pagine d’arte, Mi­ lano 2001]. Per uno studio del topos della biblioteca in Nodier, cfr. d. barrière, Nodier Vhomme du livre, Plein Chant, Bassac 1989. 42 nodier, Piranèse cit., pp. 188-89 (corsivo mio). Anche le citazioni successive sono tratte da questo racconto.

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del perturbante. Cosi, immaginando un palazzo costruito da Pira­ nesi, forse «PAmpio magnifico collegio», Nodier contrappone al­ la «grandiosità imponente» e alla «grandissima magnificenza» dell’esterno un interno ancora ingombro del legname e delle pie­ tre del cantiere. Nulla è compiuto, completo o chiaro: L’enorme scala si avvita e si contorce, e il profondo vestibolo e la lunga galleria che conducono fino a una scala ancora piu stretta sono a tal punto ostruiti da costruzioni temporanee che è quasi impossibile immaginare una possibile via di uscita per gli operai, e nella fantasia pare di sentirli mentre si lamentano, piangono, gridano esausti, affamati, disperati.

AH’interno di questa costruzione Nodier, come aveva fatto De Quincey, introduce lo stesso Piranesi, con un piede posato sul pri­ mo gradino e lo sguardo fisso all’interno, da cui «un destino in­ vincibile» lo costringe a spingersi fino al livello piu alto. Que­ sta «strana ossessione», instillata nel suo animo dal sonno, è allo stesso tempo sogno ed emblema di un destino piu generalizzato del genio romantico: «Deve continuare a salire, tra ostacoli e pericoli, per trionfare o morire». Lo spazio abissale di questa ascesa è simi­ le a quello descritto da De Quincey, ma è anche molto elaborato, Io sfondo per la serie di stadi che conducono verso l’infinito. Oh, come farà a farsi strada, il povero Piranesi, tra quelle travi oppri­ menti e le impalcature fragili che si flettono e scricchiolano ? Come avanzerà tra questi pilastri instabili fissati l’uno all’altro con giunti sottili e traballan­ ti? [...] tra la massa di pietre mal posate e le volte basse e pericolose che a quelle pietre si aggrappano [...]? Si seguirebbe con apprensione anche l’abi­ le procedere della più piccola lucertola ! Eppure Piranesi sale e, anche se la mente può a stento immaginarlo, ar­ riva. - Arriva, ahimè, ai piedi di un edificio simile al primo, che presenta le

stesse difficoltà di accesso, lo minaccia con gli stessi pericoli, esige lo stesso sforzo in proporzioni ancora maggiori, amplificate dalla stanchezza, dallo sfi­ nimento e anche dall’età avanzata [...] Ma nonostante tutto Piranesi conti­ nua a salire; deve salire e salire e arrivare. - E arriva. Arriva, stravolto, decrepito, spossato, debole come un’ombra; è arriva­ to al piano inferiore di un edificio simile al primo edificio.

Piranesi, dunque, sale senza sosta in uno spazio ancora pittorica­ mente controllato dalle leggi della prospettiva, ma che diminuisce a ogni ripetizione, «fino al momento in cui [gli edifici] si perdono in una lontananza che l’immaginazione riesce a stento a misura­ re». A questo punto persino Piranesi, «Piranesi che osserva ogni nuovo edificio con terrore, che sale, che cammina, che arriva, sul punto di cedere alla tristezza inesprimibile di non giungere mai al temine della propria sofferenza», diviene «impercettibile... come



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un puntino nero su di un piano evanescente quasi perso nelle profondità dei cieli». Al di là di questo, afferma Nodier con malcelato sollievo, «non c’è altro che spazio»43. Per Nodier questa promenade architecturale, lunga e volutamente estenuante, ha la funzione di delineare lo spazio del «son­ no morboso», della «tortura intollerabile» che si collega alla mo­ nomania della riflessione interiore, dove «tutte le impressioni si prolungano senza fine, dove ogni minuto diventa un secolo». Es­ sa funge inoltre da preludio a un’altra indagine altrettanto in­ quietante dello spazio mentale: quella compiuta dal Conte G., un ricco scapolo che, deciso a ritirarsi dal mondo, pianifica il restau­ ro dell’interno del suo castello secondo «il progetto fantastico di un palazzo piranesiano». Dietro alla costruzione vera e propria d’un simile spazio, un «labirinto di pietre», si nasconde il na­ scondiglio solitario del proprietario, il quale, come un personaggio delle 120 Giornate di De Sade, si difende dal mondo per mezzo di una rete impraticabile di collegamenti interrotti: «gallerie aggira­ bili solo con pazienza e coraggio, anguste scale, ora in salita ora in discesa, tagliate da corridoi bui e disorientanti che non conduco­ no da nessuna parte... » Solo il ballatoio più stretto, che provoca il panico in chi lo attraversa, conduce all’appartamento del Con­ te, un rifugio quasi impenetrabile dove per tre anni il proprietario ha vissuto in solitaria meditazione «come lo stilila sulla colonna». Il Conte viene trovato pacificamente defunto nel suo letto, nel cuore di questa Babele interiorizzata: egli ha raggiunto un grado di «alienazione» che non corrisponde, sottolinea Nodier, alla fol­ lia descritta dai dottori. Siamo di fronte a qualcosa di simile al di­ stacco (anch’esso descritto da Nodier) raggiunto da uno studioso che, in cerca di solitudine, si ritira in un appartamento dotato di funi su cui egli si mantiene in equilibrio, sempre più lontano dal­ la porta: è una «strana alienazione che lascia libere tutte le altre facoltà dell’intelligenza sviluppata [...] il fanatismo della perfet­ tibilità»44. Tale interiorità era, secondo Nodier, la sede autentica del perturbante, il luogo della resistenza finale contro «l’avanza­ re del progresso»45. 43 Ibid., p. 193. Dopo questa lunga variazione e tema su De Quincey Nodier osserva, forse non del tutto ingenuamente: «L’immagine di cui parlo è stata forse descritta in qual­ che luogo, ma fu Piranesi a disegnarla» (p. 193). 44 Ibid., pp. 194-200. 45 II dramma di Nodier, naturalmente, era quello del bibliotecario diviso tra una bi­ bliofilia feticista e una bibliofobia nata dall’odio per l’inarrestabile moltiplicazione dei li-

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Il passaggio da heimlich a unheimlich, ora operante a un livel­ lo totalmente mentale, rafforza l’ambiguità tra mondo reale e so­ gno, mondo reale e mondo dello spirito, riuscendo a minare il sen­ so di sicurezza necessario ai sognatori di professione. Seguendo il precetto kantiano secondo cui il piacere è raggiungibile attraver­ so il terrore e tramite una certa conoscenza della sicurezza (« a pat­ to che noi ci troviamo al sicuro [l’aspetto dei fenomeni naturali terrificanti] è tanto più attraente in virtù della sua natura pauro­ sa»), l’esteta del terrore è riuscito a erigere solide mura contro la paura, per potersi concedere un po’ di questo sentimento. Ma quando il luogo del perturbante diventa la mente, tali barriere so­ no difficili da mantenere e si dissolvono rapidamente in materia di sogno che assedia il luogo del suo stesso timore. La veillée dunque, o la «stay-up-late evening», come Michael Riffaterre ha tradotto il titolo della poesia di Rimbaud46, diventa essa stessa inquietante, la sua sicurezza smentita e offuscata dalla fine prevista - dalle sere in cui, come nel racconto di Hoffmann, il padre di Natamele attende l’arrivo dell’Orco Insabbia silenzio­ samente seduto in poltrona «mandando in giro grosse nuvole di fumo, sicché ben presto tutti quanti eravamo immersi in mezzo al­ la nebbia» (OI 654), fino alla sera descritta da Rimbaud, durante la quale la tappezzeria e il frontone del focolare si confondono con il sogno di un viaggio, salvo poi riapparire come il segnale della normalità e quindi della morte. bri nell’èra della stampa: vedi, per esempio, il racconto Le Bibliomane, in Giuvres, vol. XI, pp. 25-49 [trad. it. Il bibliomane, Biblioteca minima, Novoli 2001]. D’altro canto, Nodier doveva ricavare un qualche sollievo dalla permanenza in questo luogo cosi heimlich, luogo di sereno studio e pacifico ritiro. Il ruolo centrale della biblioteca nella topografia di No­ dier, dall’utopia letteraria di Mes rêveries, scritta durante il Terrore, fino alla minuziosa ar­ chitettura della biblioteca di Maxime in L’Amour et le grimoire, scritto oltre trent’anni do­ po, ne fanno quasi un mondo sacro (cfr. barrière, Nodier cit., pp. 28-31). Che abbia sede in un vecchio castello o in sale appositamente costruite, la biblioteca è definita dalla sua architettura: «L’intero edificio era composto di un’unica lunga stanza, rettilinea, illumi­ nata da est e da ovest attraverso finestre ogivali, e a sud aperta su un giardino, piccolo ma piuttosto ben distribuito» (Nodier, L’Amour et le grimoire, Garnier, Paris 1961, p. 530). Al centro di questa sala rettangolare c’è un lungo tavolo nero che ne riproduce la pianta, sistemato in modo da lasciare spazio per camminarci attorno; alle pareti si vedono solo i dorsi in pelle dei libri. La vicinanza con il giardino stabilisce un rapporto tra i libri e il li­ bro, piu grande, della natura, che è di per sé un dizionario inesauribile. Quasi ad antici­ pare la semplice forma lineare della Bibliothèque Sainte-Geneviève di Henri Labrouste, con il suo ingresso al piano terra che simula quello di un giardino filosofico, Nodier co­ struisce minuziosamente un luogo entro il quale l’eroe può voltare le spalle alla frivola so­ cietà del teatro, rifiutandone le «maschere» in favore della «meditazione» offerta dalla bi­ blioteca. D’altro canto, in contrasto con l’ambientazione di questi rifugi per bibliofili, la biblioteca assume la forma più minacciosa di una Babele incontrollata. 46 M. riffaterre, Germeneutic Models, in «Poetics Today», IV (1983), n. 1, pp. 7-16.

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L’illuminazione ritorna verso il centro dell’edificio. Dalle due estremità della sala, decorazioni qualunque, si congiungono armoniose elevazioni; la muraglia davanti a chi veglia è una successione psicologica di sezioni, di fre­ gi, di fasce atmosferiche, e di accidenti geologici. - Sogno intenso e rapido di gruppi sentimentali con creature di ogni carattere in mezzo a tutte le ap­ parenze4’.

Sarà a partire dall’incontro tra una di queste veillées e la città mo­ derna che Rimbaud svilupperà la sua personale visione dell’abisso piranesiano: le Città di Illuminazioni. Da Hoffmann a Rimbaud, in racconti e in molte veillées, il fu­ mo è dunque un agente di dissoluzione che tramuta il tessuto del­ la casa nella profondità del sogno; allo stesso modo, in quanto stru­ mento del sublime, il fumo ha sempre reso oscuro ciò che altri­ menti si sarebbe mostrato troppo chiaramente. Nulla ci sembra radicato e casalingo quanto la vita del narra­ tore nel racconto di Herman Melville lo e il mio camino, il quale trascorre il suo tempo fumando tranquillamente la pipa accanto a un camino ugualmente fumante47 48. Avverso alla modernizzazione e determinato a mantenere un patto di amicizia con il suo vecchio e silenzioso amico, il camino, questo narratore ha catturato la fan­ tasia di chiunque abbia mai visto qualcosa di pragmatico e di soli­ damente «americano» nella ricerca del centro della casa in un fo­ colare: una tradizione di coloni fondatori, radicata nell’antropo­ logia di Semper e la cui espressione architettonica sono le Prairie Houses di Frank Lloyd Wright49. 11 narratore, non c’è dubbio, amava il suo camino, che regala­ va calore e stabilità all’intera casa da un punto di vista struttura­ le e funzionale, senza mai ribattere come invece faceva sua mo­ glie. Esso rappresentava, alquanto simbolicamente, l’ultimo ba­ stione di un passato positivo contro le intrusioni di un presente indesiderato. Eppure il camino, come il narratore è pronto ad am­ mettere, era per certi versi un tiranno: con una base di dodici pie­ di per lato e largo quattro piedi alla sommità, usurpava compietamente il centro della casa, impedendo il passaggio da un lato all’al­ 47 a. rimbaud, Veillées [Illuminations], in Œuvres, a cura di S. Bernard e A. Guyaux, Classiques Garnier, 1987, pp. 281-82 [trad. it. Veglie, in Opere in versi e in prosa, Garzan­ ti, Milano 1989, p. 347]. 48 h. Melville, I and My Chimney, in Pierre, Israel Potter, The Confidence Man, Tales and Billy Budd, The Library of America, New York 1984, pp. 1298-1327 [trad. it. Io e il mio camino, in Racconti, Einaudi, Torino 1954, pp. 393-430]. 49 Cfr. ad esempio v. h. litman, The Cottage and the Tempie: Melville’s Symbolic Use of Architecture, in «American Quarterly», II (1969), pp. 638 sgg.

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tro e costringendo gli abitanti a continui spostamenti periferici. A dire il vero, la sua presenza era divenuta talmente ingombrante da trasformare il narratore in uno schiavo. Il camino era il sovrano della casa; il suo «padrone» si teneva in disparte e si rimetteva a esso per qualunque cosa, giungendo fino a proteggerlo dalla di­ struzione isolandosi dal mondo esterno e montando una guardia ininterrotta affinché esso non venisse demolito mentre lui era di­ stratto. Il racconto è pervaso dalla paura: paura di essere privati di una «spina dorsale» con la rimozione del camino, paura di per­ dere «l’unica cosa stabile» della propria dimora, paura di affron­ tare la moglie, paura - data la forma e la prestanza verticale del camino - di una perdita di virilità. Il camino forniva anche un altro tipo di sostegno. Era l’og­ getto centrale della vita immaginaria del narratore, reminiscenza a un tempo delle distanti piramidi d’Egitto e delle pietre druidiche innalzate per antichi riti; rappresentava l’intera, romantica storia delle origini, un monumento primigenio capace di donare cosi come di togliere la vita, un precursore del fuoco eterno e del­ la tomba dei re. Non solo: era anche uno strumento di conoscen­ za, un osservatorio puntato verso i cieli. Di dimensioni quasi in­ commensurabili, era irriducibile ai calcoli matematici dell’archi­ tetto (sdegnosamente chiamato «scriba»). Con i suoi recessi che nascondevano misteri sconosciuti e le pareti esterne mute e im­ permeabili era, come lo avrebbe descritto Hegel, il tipo perfetto di architettura simbolica, un oggetto non ancora separato dal mon­ do magico dei demoni o dalla proiezione delle fantasie umane. La casa si sviluppava attorno a questa tomba-piramide, affidandosi al camino per avere sostegno e supporto. Grazie alla sua ubica­ zione, quest’ultimo era una sorta di labirinto che proteggeva il centro interno da intrusioni profane. Ne nasceva una gran conlusione di stanze passanti, una delle quali dotata di ben nove por­ te, che davano luogo a un complesso sistema di relazioni: «ogni stanza è come un sistema filosofico in se stessa: un ingresso o pas­ saggio ad altre stanze e sistemi di stanze, in modo che ne risulta un intero sistema di ingressi». Simile alla mappa mentale di una persona che vaghi persa nei propri pensieri, «quando percorrete la casa, avete l’impressione di andare sempre in qualche posto, e di non giungervi mai». E addirittura possibile perdersi comple­ tamente: E come perdersi nei boschi: girate e continuate a rigirare attorno al ca­ mino, e se mai arrivate in qualche punto, è al punto donde siete partito, in



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modo che vi tocca ricominciare di bel nuovo, col bel risultato di non giun­ gere mai in nessun posto5“.

Questo ci fa venire in mente uno schema simile di ripetizione perturbante: la descrizione che Freud fa della strana esperienza vissuta nel quartiere di una città di provincia, «sul cui carattere non potevano esserci dubbi», mentre cammina lungo una stradi­ na alle cui finestre si affacciano donne imbellettate. Ma dopo avere vagato senza meta per un bel po’, improvvisamente mi ritrovai nella medesima strada, dove la mia presenza incominciò ad attirare l’attenzione, e la mia rapida ritirata ebbe un’unica conseguenza: dopo qual­ che altro giro vizioso mi ritrovai per la terza volta nel medesimo luogo. A questo punto mi colse un sentimento che non posso definire altro che per­ turbante (P 98).

Freud paragona questo «ritorno non intenzionale» che trasforma una tranquilla cittadina italiana (Genova) in un luogo di clau­ strofobia piranesiana all’esperienza di smarrirsi in una foresta mon­ tana, dove «a dispetto di tutti gli sforzi per giungere a una strada segnata o almeno nota, si ritorna ogni volta nello stesso luogo», o a quella di procedere a tentoni «in una stanza sconosciuta immer­ sa nel buio», «cercando la porta o l’interruttore», tornando a ur­ tare per l’ennesima volta contro lo stesso mobile (P 98). Il narra­ tore di Melville sperimenta una simile sensazione di smarrimento di fronte al potere perturbante del camino e sembra ugualmente poco disposto a sondare le motivazioni inconsce dei suoi atti «in­ volontari». Questa necessità di dissimulare l’origine della dipendenza si ri­ flette nella riluttanza del narratore a decifrare o interpretare il suo ermetico camino. E come se fosse il suo stesso corpo a essere mi­ nacciato di estinzione, ed egli preferisce che la piramide rimanga una forza primaria, precedente alla scrittura, resistente a qualun­ que spiegazione come i geroglifici prima di Champollion. Nem­ meno quando l’architetto, in un ultimo tentativo di persuadere il proprietario a demolire il camino, inventa la storia di «un na­ scondiglio ermeticamente chiuso [...] una camera, un armadio se­ greto [...] avvolto nel piu profondo mistero» il narratore si lascia convincere ad andarla a cercare - non perché non creda alla sua esistenza, ma piuttosto il contrario: perché crede troppo ai miste­ ri. Ciò che il camino nasconde, cioè il mondo occulto del camino melville,

I and My Chimney cit., p. 13 n [trad. it. cit., p. 411].

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stesso e del narratore, dovrebbe rimanere nascosto. «Infiniti ma­ lanni, - afferma - son nati dal voler profanamente violare i reces­ si segreti», a perfetta riproposizione del principio di Schelling. Si giunge cosi a una specie di tacito trattato tra i poteri sovversivi e quelli consolatori della casa, grazie al quale, almeno finché il pro­ prietario vive, alla casa in muratura è concesso di rimanere una di­ mora autentica.

Sepolto vivo Quella che un tempo era stata la città di Pompei as­ sunse un aspetto completamente diverso, ma non un aspetto vivente; ora pareva piuttosto che essa si pietri­ ficasse totalmente in un’immobilità esanime. Eppure da essa scaturiva la sensazione che la morte stesse comin­ ciando a parlare.

Wilhelm Jensen, Gradiva1.

Destinato a sedere accanto al camino fino alla morte, il narra­ tore di Melville è, letteralmente, un sepolto vivo - una condizio­ ne rafforzata dalla somiglianza tra il camino stesso e una pirami­ de egiziana. Qui Melville si stava esercitando con un altro tropo del perturbante, uno che bene interseca l’interesse ottocentesco per l’archeologia e la cui esplorazione letteraria segue, quasi cro­ nologicamente, le successive «riscoperte» e gli scavi dei siti anti­ chi: Egitto, Pompei, Troia. Come Freud osservò piu tardi, il ri­ portare alla luce ciò che era stato a lungo sepolto non solo offriva una facile analogia con i processi psicanalitici, ma rispecchiava per­ fettamente il movimento del perturbante stesso: «Alcuni vorreb­ bero attribuire la palma del perturbante all’idea di venir seppelli­ ti in stato di morte apparente» (P 105). Tra tutte le aree archeologiche, quella di Pompei parve a mol­ ti scrittori incarnare al massimo grado le condizioni della unheimlichkeit, sia perché era stata letteralmente «sepolta viva» e si era conservata quasi completamente, sia per il carattere peculiare e spiccato di città «domestica», composta di case e botteghe. Le cir­ costanze del suo seppellimento avevano permesso alle tracce della vita quotidiana di sopravvivere con un’immediatezza sbalorditi­ va. L’attrattiva di Pompei, in confronto a quella di Roma, dipen­ deva (su questo tutti i visitatori concordavano) dalla sua natura fa­ miliare e domestica. Le strade, le botteghe e le abitazioni tra­ smettevano immediatamente al viaggiatore proveniente dal nord una sensazione di intimità e domesticità allo stesso tempo. Cha­ teaubriand, che vi passò nel 1802, rimase colpito dal contrasto tra «i monumenti pubblici, costruiti con grande spesa in marmo e gra1 w. jensen, Gradiva: Una fantasia pompeiana (1903), citato in s. freud, Der Wahn und die Träume in W. Jensens «Gradiva», 1907 [trad. it. Il delirio e i sogni nella «Gradiva» di Wilhelm Jensen, in Opere, vol. V, pp. 273-75].

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nito» e tipici di Roma, e «le abitazioni private», edificate con «le risorse di semplici individui» di Pompei: «Roma non è che un va­ sto museo; Pompei è antichità vivente»2*. Immaginò persino una nuo­ va forma di museo non monumentale, che lasciasse al loro posto attrezzi, mobili, statue e manoscritti trovati tra le rovine (e nor­ malmente trasferiti al museo di Portici) e ricostruisse tetti e muri delle case per una mise-en-scène della vita quotidiana nella Roma antica. Si imparerebbe di più circa la vita domestica del popolo romano e lo sta­ to della civiltà romana da qualche passeggiata restaurata a Pompei, che leg­ gendo tutte le opere dell’antichità, - osservò, proponendo cosi un’anticipa­ zione dei musei delle tradizioni popolari novecentesche: - Basterebbe qual­ che mattone, qualche mattonella e un po’ di stucco, pietra, legno e carpenteria [...] un bravo architetto potrebbe eseguire il restauro secondo lo stile locale, di cui troverebbe esempi nei paesaggi dipinti sulle pareti stesse delle case pompeiane Cosi, senza spese eccessive, si sarebbe potuto creare «il piu splendido museo del mondo», «una città romana conservata nella sua inte­ rezza, come se gli abitanti se ne fossero andati da un quarto d’ora»5.

Altri autori, da Winckelmann a Le Corbusier, attestarono il carattere dimesso e comune delle rovine: la cosiddetta Villa di Dio­ mede, la Casa del Fauno, la Casa di Championnet, la Casa del For­ naio non furono che alcune delle abitazioni descritte con minuzia di particolari e «restaurate» da generazioni di studenti di archi­ tettura. La sensazione di essere penetrati in uno scenario dome­ stico da poco abbandonato era rafforzata dalla pletora di utensili di uso comune che gli scavi portarono alla luce (alcuni dei quali la­ sciati accuratamente sul posto a beneficio dei visitatori), ma an­ che dallo sguardo su usi e costumi, e persino sulla vita sessuale, of­ ferto dalle pitture parietali. Ciò che nei musei era stato nascosto per ragioni di pruderie, veniva mostrato sulle pareti come parte di un panorama completo, un vero studio etnografico. Pierre-Adrien Paris ricopiò accuratamente il bassorilievo priapeo sulla parete di una piccola bottega, mentre il giovane Flaubert lo trovò l’unico ornamento memorabile della città4. 2 Barone Taylor, lettera a Charles Nodier, Sur les villes de Pompei et d’Herculanum, in F.-R. DE chateaubriand, Œuvres romanesques et voyages, vol. Il, Bibliothèque de la Pléia­ de, Paris 1969, p. 1505. 5 Ibid., vol. Il, p. 1475. 4 G. flaubert, Correspondance,!, 1830-1851, Gallimard, Paris 1973, p. 773. Lettera a Louis Bouilhet: «Ah, povero amico, come mi siete mancato a Pompei! Vi mando i fiori che ho raccolto in un bordello sulla cui soglia è posto un fallo eretto. In questa abitazione c’erano più fiori che in tutte le altre. Il seme di antichi falli, caduto a terra, ha forse fertilizzato il terreno».

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Eppure, nonostante la loro palese domesticità, le rovine non avevano nulla di accogliente. Dietro l’aspetto quotidiano, infatti, era in agguato un orrore ugualmente visibile: gli scheletri abbon­ davano. Nel quartiere dei soldati, come osservò Creuzé de Lesser, «i giudici morirono con gli imputati» e i resti dei prigionieri era­ no ancora incatenati ai muri. Contrariamente alla morte di Ercolano, che secondo la mitologia popolare avvenne lentamente, quel­ la di Pompei fu improvvisa. Gerard de Nerval ricreò la visione ter­ rificante della pioggia di ceneri incandescenti che soffoca e ustiona gli abitanti in fuga. Di questa orribile distruzione non si seppe nul­ la fino alla metà del xvni secolo, quando essa venne alla luce di pa­ ri passo con il suo contesto, meno inquietante e apparentemente più normale. Lo sguardo archeologico era spietato: Alla metà del secolo scorso gli studiosi cominciarono gli scavi di queste immense rovine. Oh! sorpresa incredibile: trovarono una città sepolta dal vulcano, case sotto le ceneri, scheletri nelle case, mobili e immagini accanto agli scheletri5.

I ,a città non era, evidentemente, un sito archeologico comune, con le sue rovine sbiancate dal sole e private dei segni delle distinzio­ ni sociali: qui la storia pareva sospesa nella contrapposizione rac­ capricciante di questi resti spaventosi e dei loro dintorni appa­ rentemente rassicuranti. Il museo delle tradizioni popolari di Cha­ teaubriand era, di fatto, ancora abitato. Questo scontro drammatico tra heimlich e unheimlich fece di Pompei un luogo del perturbante letterario e artistico per gran par­ te del xix secolo, vuoi nelle formulazioni mistiche di Nerval o nei melodrammi popolari di Bulwer Lytton, nel romanticismo a tutto tondo di Théophile Gautier o negli intrecci onirici di Wilhelm Jen­ sen. L’étrange, l’inquiétant, das Unheimliche, tutti trovarono la lo­ ro collocazione naturale in narrazioni incentrate sull’idea di una storia sospesa, del sogno che prende vita, del passato che ritorna nel presente. Pompei, a differenza delle ambientazioni tradizio­ nalmente scelte per le infestazioni demoniache od orrorifiche, ave­ va un grado di verosimiglianza archeologica e di pari drammati­ cità storica che ne facevano il veicolo perfetto, in un secolo osses­ sionato dai fuggevoli rapporti tra passato e presente, per quello che Gautier chiamò di volta in volta «l’idéal rétrospectif», «la chimère rétrospective» o, parlando proprio di Pompei, «l’amour 5 G. de nerval, Œuvres, 2 voll., Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1952, vol. I,p. 1175.

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rétrospectif»6. La caratteristica particolare di questo sguardo ri­ volto al passato era la spiazzante mescolanza di passato e presen­ te, il suo insistere sui diritti dei morti non sepolti, la forza impe­ rante sul fato dei suoi soggetti. A Pompei pareva che la storia, quel solido regno di spiegazioni e fatti materiali, stesse prendendosi la rivincita sui suoi artefici. In questi termini, Pompei si candidava a tutti i livelli come un esempio di perturbante da manuale: dall’orrore implicito nella sfe­ ra domestica, fino alla rivelazione di misteri religiosi e non che, secondo Schelling, sarebbe stato meglio non rivelare. Il racconto di Gautier Arria Marcella mette in continua contrapposizione gli aspetti della città - banale e straordinario, triviale e serio, subli­ me e grottesco: la brillantezza della luce e la trasparenza dell’aria si contrappongono alla cupa tonalità della nera sabbia vulcanica, alle nuvole di polvere scura sollevate dai passi e alle ceneri onni­ presenti. In questo racconto, il Vesuvio stesso sembra pacifico quanto Montmartre - un anziano che, come il proprietario del ca­ mino melvilliano, «fuma la pipa» in silenzio, a onta della sua re­ putazione terrorizzante. La contrapposizione tra la moderna sta­ zione ferroviaria e la città antica, la contentezza dei turisti a spas­ so per le strade costellate di tombe, le «frasi banali» della guida che racconta le morti orribili dei cittadini di fronte ai loro resti: tutto confermava il potere del luogo di riprodurre sistematicamente le strutture del perturbante7. Anche a un livello puramente estetico Pompei pareva riflette­ re la lotta identificata da Schelling tra i misteri oscuri delle prime religioni e la trasparenza sublime degli inni omerici - ma ribalta­ ta: come se volesse reinscenare la battaglia per recuperarne il lato inquietante. I primi scavi di Pompei, infatti, avevano rivelato un tipo di antichità in netto contrasto con la visione sublime di Winckelmann e dei suoi seguaci. I dipinti, le sculture e i manu­ fatti religiosi, in questa città di fondazione greca, erano lungi dal­ le forme neoplatoniche dell’immaginazione neoclassica. Fauni, cu­ pidi, satiri, priapi, centauri e prostitute di entrambi i sessi pren­ devano il posto della grazia apollinea e della forza laocoontea dell’estetica winckelmanniana. I misteri di Iside e una schiera di culti egiziani si sostituirono all’alta filosofia e ai riti dell’acropoli. 6 th. gautier, Arria Marcella, souvenir de Pompei, in Récits fantastiques, Flammarion, Paris 1981, p. 246 [trad. it. Arria Marcella, Jettatura, Guida, Napoli 1984, p. 24]. 7 Ibid., pp. 240 sgg. [trad. it. cit., pp. 19 sgg.].

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L’archeologia, rivelando ciò che avrebbe dovuto rimanere invisi­ bile, aveva irreparabilmente confermato l’esistenza di un «lato oscuro» del classicismo, tradendo non solo il sublime piu elevato, ma anche il mondo di una mitologia moderna meticolosamente co­ struita nel tempo. Schelling, propugnatore con Goethe e Schiller dell’architettura classica come «musica congelata», aveva già rile­ vato le insidie di questa archeologia esprimendo un giudizio am­ biguo sulle sculture del tempio di Egina, «perfezionate» il piu pos­ sibile da Thorvaldsen, ma che ancora tradivano le distorsioni ca­ ratteristiche di un’arte presublime. Schelling avanzò l’ipotesi che i loro tratti simili a maschere incarnassero «una certa aura pertur­ bante» e fossero il frutto di una religione piu antica e misteriosa, che ora tornava a manifestarsi8. Forse l’aspetto piu imperdonabile di questo tradimento ar­ cheologico fu quello di mostrare palesemente l’erotismo classico un mondo fino ad allora parafrasato e circoscritto, che improvvi­ samente si offriva alla vista dei turisti e all’interpretazione degli storici. Un disvelamento tanto scandaloso non solo incentivò una letteratura di dubbia qualità, da d’Harcanville a de Sade, ma an­ che, come dimostrarono gli esponenti della successiva generazio­ ne di romantici, scosse pericolosamente l’impianto dell’estetica classica. I frammenti inquietanti ritrovati negli scavi furono mol­ lissimi, ma niente quanto le tracce erotiche eccitò la fantasia di co­ loro che, da Chateaubriand a Gautier, già perseguivano l’idea di minare le basi del sublime piu elevato. Uno dei resti piu affascinanti di Pompei, descritto nei partico­ lari da molti dei primi visitatori e con gusto dalle guide, era un frammento di terra bruciata rinvenuto sotto un portico della Ca­ sa di Diomede e conservato nel museo di Portici. Chateaubriand osservò: Il portico che cinge il giardino di questa casa è costituito di pilastri qua­ drati, riuniti a gruppi di tre. Sotto questo primo portico ne è stato rinvenu­ to un secondo: è là che la giovane donna il cui seno è impresso nel pezzo di terra che ho visto a Portici fu soffocata’.

Questa semplice ma lugubre «impressione» fu al centro di una se­ rie di meditazioni, ciascuna delle quali era una riflessione sulla pre­ cedente e tutte aventi in comune una medesima sostanza: lo stra­ 8 Schelling, Philosophie derMytologie cit., vol. II, p. 653 [trad. it. cit., p. 397]. ’ chateaubriand, Œuvres romanesques et voyages cit., vol. II, p. 1474.

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no modo in cui la natura colta dagli spasimi della morte si era tra­ sformata, per così dire, in artista di se stessa: «La morte, come una scultrice, ha modellato la sua vittima» (Chateaubriand). La rasso­ miglianza con la storia di Pigmalione e Galatea era difficile da igno­ rare, e dava una certa soddisfazione (non scevra da elementi de­ primenti) scoprire che la teoria classica dell’imitazione era stata sorpassata da eventi fortuiti. Allo scultore la cui creazione è tan­ to verosimigliante da dare l’impressione di arrossire quando lui l’abbraccia, all’artista che si innamora e «sposa» la sua statuina d’avorio, si sostituisce la natura, o ancor meglio la storia, che ha forgiato la propria opera d’arte usando la vita come materiale e trasformando, in un rovesciamento che non mancò di impressio­ nare l’immaginario romantico, la bellezza vitale in una traccia sen­ za vita. Seguendo il malcelato sottotesto erotico della città sepol­ ta, inoltre, questa traccia non era solo uno scheletro o un corpo mummificato bensì lo spettro di un seno, un frammento che, in un’epoca alle prese con il problema di restaurare e completare le statue monche, esigeva di essere ricostituito, almeno nell’immagi­ nazione. In qualità di frammento, questo segno di nature morte negati­ vo e pietrificato si affiancò senza difficoltà agli altri frammenti si­ mili, artistici e letterari, che un tempo indicavano un passato ir­ recuperabile ed evocavano un desiderio insostenibile di plenitudi­ ne futura: il Torso del Belvedere, i marmi di Elgin, la Venere di Milo. A differenza di questi, però, la terre cuite pompeiana nella sua isolata specificità anatomica rappresentò un sezionamento del corpo molto piu crudele, imponendo dunque un maggiore sforzo interpretativo: la sua condizione era piu simile a quella del brac­ cio perduto della Venere di Milo che a quella della statua stessa. Suo equivalente archeologico avrebbe forse potuto essere la trave di una capanna o il disegno di un tessuto preservatosi nel fango es­ siccato. Il sezionamento del corpo in parti significative, ciascuna delle quali rappresenta la bellezza perfetta del tutto, è naturalmente un luogo comune dell’estetica classica. Zeusi, dopo tutto, aveva as­ semblato l’esemplare del bello selezionando e combinando le par­ ti migliori dei suoi modelli. Era proprio contro questo tipo di imi­ tazione meccanica che avevano combattuto Winckelmann e i suoi allievi, proponendo al suo posto una specie di neoplatonismo pre­ romantico, un idealismo entusiasta. Ma i romantici stessi, pur con­ dividendo l’antipatia di Winckelmann per la copia, investirono

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ugualmente il frammento di un’importanza più che frammentaria. Costretti a riconciliare l’esistenza materiale dei frammenti - quan­ tità sempre crescenti di cocci e pezzetti del passato si ammontic­ chiavano nei sotterranei dei nuovi musei - con la loro metafisica organicistica, preferirono prendere il frammento cosi com’era e coltivarlo come un oggetto su cui meditare. Nella famosa formulazione di Schlegel, il frammento «come una piccola opera d’arte, dovrebbe essere completamente avulso dal mondo circostante, chiuso in se stesso come un riccio». Que­ sta chiusura, che rende il frammento simile a un aforisma, tutto ripiegato su se stesso, da un certo punto di vista lo monumenta­ lizza, consentendogli di essere inquadrato e stabilizzato entro il contesto delle sue origini storiche. Da un altro punto di vista, tut­ tavia, da questo ermetismo esala una sorta di potenzialità meta­ storica dovuta all’incompletezza, che mette il frammento a parte di un dialogo immaginario, di «una catena o una corona di fram­ menti». In questo modo il frammento può diventare un «proget­ to», «il germe soggettivo di un oggetto in divenire», «un fram­ mento del futuro». Come conclude Schlegel, «molte opere degli Antichi sono divenute frammenti. Molte opere dei Moderni sono frammenti fin dalla nascita»1011 . Se in questi termini lo status del «pezzo di terra» di Chateau­ briand risulta rafforzato, esso lo è ancora di più come oggetto di un amore impossibile, il tema sviscerato in Arria Marcella di Gau­ tier. In questo racconto sulla città sepolta come habitat del per­ turbante, l’«eroe», Octavien, si perde in una «profonda contem­ plazione»: Stava esaminando con grande attenzione un pezzo di cenere nera pietri­ ficata, su cui era impressa un’impronta concava: si sarebbe detto un pezzo di matrice di statua, spezzatasi dopo la fusione; l’occhio allenato di un arti­ sta vi avrebbe facilmente riconosciuto l’impronta di un seno mirabile, e di un fianco di stile purissimo, pari a quello di una statua greca. Si sa, e qual­ siasi guida turistica ve lo dice, che questa lava, raffreddatasi attorno al cor­ po di una donna, ne ha conservato l’incantevole contorno".

Tale contemplazione genera il sogno perturbante della festa di Ar­ ria Marcella, durante la quale Octavien, grande estimatore della scultura e noto per avere chiesto alla Venere di Milo di conceder­ 10 F. schlegel, Athenaeum, frammento 206, citato in p. lacoue-labarte e j.-l. l.' Absolu littéraire, Seuil, Paris 1978, pp. 126, 101. 11 Gautier, Arria Marcella cit., pp. 237-38 [trad. it. cit., p. 17].

nancy,

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gli un abbraccio dal suo «seno di marmo», si trova finalmente fac­ cia a faccia con l’originale da cui era stata forgiata la copia. La sta­ tua, assecondando il desiderio dell’uomo, «gli avvolse il corpo con le magnifiche braccia statuarie, fredde, dure e rigide come il mar­ mo». Il rovesciamento è evidente e sottolineato esplicitamente da Gautier: il corpo vivo, impresso nel calco di terra, una volta tor­ nato in vita assume i tratti dell’imitazione artistica. L’estetica clas­ sica veniva dunque rappresentata come qualcosa di morto, a van­ taggio della vita contenuta nei «frammenti» naturali, i quali a lo­ ro volta erano destinati a essere completati solo dalla forma vana di un desiderio sognato. In base a questa analogia potremmo interpretare anche il «re­ stauro» onirico degli edifici smembrati di Pompei che, nel racconto di Gautier, precedono l’incontro di Octavien con la sua Galatea. In questa notte già strana, una «giornata notturna» in cui la luce della luna pare dissimulare la frammentazione degli edifici, ripa­ rando «la città fossile per una qualche rappresentazione di una vi­ ta immaginaria», Octavien nota uno «strano restauro» che deve essere stato iniziato con grande rapidità quello stesso pomeriggio da un architetto sconosciuto: Lo strano restauro compiuto tra il pomeriggio e la sera da un architetto misterioso sconvolgeva Octavien, che era sicuro di aver visto alla luce del so­ le la stessa casa in un pietoso stato di rovina. Lo sconosciuto restauratore do­ veva aver lavorato molto in fretta, visto che le abitazioni vicine avevano lo stesso aspetto solido e nuovo12.

Il sogno di un passato restaurato, quasi fosse una copia esatta di una restitution disegnata da uno studente di architettura per la Eco­ le des Beaux Arts, serve, come la visione di Arria Marcella, a re­ stituire la storia non alla vita ma alla morte: «Tutti gli storici era­ no stati ingannati; l’eruzione non era mai successa». L’archeolo­ gia, con il suo materialismo rigoroso aveva, almeno per un mo­ mento, sconfitto la temporalità. Saremmo tentati di leggere nel racconto di Gautier un attacco implicito ai ricostruttori (usciti dal­ la Ecole des Beaux Arts o medievalisti, non fa differenza) che ten­ tavano disperatamente di trasformare le vestigia del passato in mo­ numenti storici contemporanei. Laddove, tuttavia, nelle visioni troppo puntuali degli architet­ ti veri e propri (ricostruttori o conservatori che fossero) l’effetto 12 Ibid., p. 253 [trad. it. cit., p. 29].

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estetico tendeva verso il sublime a uso dei turisti, molte volte una reazione a qualcosa che a forza di ri-rappresentazioni e riprodu­ zioni era divenuto una copia di se stesso - Carcassonne, l’Acropoli e naturalmente Pompei sono esempi calzanti - l’effetto del perturbante così come è affrontato da Gautier diventa meno pre­ vedibile. Il sublime, nella definizione di Kant, nasceva principal­ mente da una sensazione di inadeguatezza di fronte a forze supe­ riori; lo stato mentale del perturbante, legato alla morte o alla fru­ strazione del desiderio, era sublime e al tempo stesso minacciava di banalizzare il sublime. Nella versione descritta da Gautier, il sublime era presagio di morte vivente, di fronte alla quale il de­ stino storico degli abitanti di Pompei sembrava quasi preferibile. Octavien, dunque, ritornando sul luogo del suo sogno e trovando i resti di Arria «che riposano ostinatamente nella polvere», si di­ spera e rimane sospeso in uno stato di gelo, distanza, banalità ugua­ le a quello della sua agognata statua. Allo stesso modo d’Aspremont, in un altro racconto di Gautier intitolato iettatura, dopo ave­ re rischiato la morte in duello e aver ucciso il suo avversario tra le rovine di Pompei, lascia la città come «una statua ambulante», per poi finire suicida. Il suo corpo non sarà mai ritrovato13. Chi sfida­ va i resti dei sepolti vivi evidentemente rischiava di condividerne il destino. In un rovesciamento apparentemente strano, tuttavia, le tom­ be di Pompei, la città dei morti, erano, a differenza delle cata­ combe di Napoli e Roma, raramente oggetto di meditazioni ne­ cropolite. Anzi, per i compagni di Octavien, esse risultavano as­ solutamente piacevoli: «Questa strada costeggiata da sepolcri, che per la sensibilità moderna sarebbe ben lugubre in una città |...] non ispira nessuna repulsione, nessuno di quei terrori fan­ tastici che i nostri lugubri sepolcri sanno suscitare». Piuttosto, il visitatore sperimentava in questo cimitero pagano «una vaga curiosità e un senso di gioiosa pienezza del vivere». Come pa­ stori in Arcadia, i visitatori scherzano allegramente, consapevo­ li del fatto che in quelle tombe «invece di un orrendo cadavere» c’erano solo ceneri, «l’idea astratta della morte» e non l’oggetto in sé14. Tale piacere di fronte a una morte ritualizzata era in contrasto con il terrore per la morte precoce degli abitanti sotto l’eruzione, ” gautier, Iettatura, in Récits fantastiques cit., p. 379 [trad. it. cit., p. 138]. 14 n>., Arria Marcella cit., p. 243 [trad. it. cit., p. 22].

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e sembrava in un certo senso esorcizzare l’effetto inquietante del resoconto della morte di Arria Marcella fatto dalla guida: - E qui - disse il Cicerone con il suo solito tono distratto cosi poco con­ facente al senso delle parole, - che è stato ritrovato, insieme ad altri dicias­ sette scheletri, quello della dama la cui impronta è esposta al museo di Na­ poli”.

Alla paura provocata

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nomade, a vivere in bidonvilles, bungalow e senza dubbio in ca­ panni da giardino, caravan e persino in macchina in un futuro non troppo lontano. Heidegger se la prenderà con il trionfo della tec­ nica, Sedlmayr con la «perdita del centro», ma il ritornello non è tanto diverso. Paul Claudel sintetizzò quel sentimento quando de­ scrisse il suo appartamento parigino come nulla piu di un numero, «una specie di luogo geometrico, un buco qualsiasi, tra le sue quat­ tro mura». Nemmeno una casa indipendente aveva piu radici, «ap­ piccicata a terra con l’asfalto per non doversi scavare un buco nel terreno»3. Tutti insistevano sul fatto che la casa era ormai solo un oggetto (una house non più home}, un ritornello riemerso succes­ sivamente come uno dei principali motivi conduttori del postmo­ dernismo. Il conseguente tentativo di ricostruire la casa {home} su fonda­ zioni più stabili, in base alle specifiche di contromodernisti e so­ gnatori nostalgici, completa di cantina e soffitta, vecchie mura e comodo caminetto, è però stata oggetto di una critica immancabi­ le nelle operazioni nostalgiche: l’immagine trionfa sulla sostanza. Preso dall’ambizione di recuperare il passato, il postmodernismo ha generalmente sostituito i segni della sua assenza e forse, cosi fa­ cendo, ha creato una casa invasa da spettri più reali di quelli che infestano le abitazioni moderniste e, nonostante i suoi sforzi, non più confortante, né stabile. Certo, rimane da vedere se la mera im­ magine di «casità» o «casitudine» sia sufficiente a sostituire ciò che è andato perduto, o almeno a fornire un luogo adatto al gioco onirico. Come i suoi predecessori, infatti, la nostalgia di una di­ mora fissa finisce inevitabilmente per cadere nel paradosso di qua­ lunque nostalgia: la consapevolezza che, nonostante l’anelito ver­ so un luogo e un tempo precisi, l’oggetto del desiderio «non è né qui né li, né presente né assente, non è ora né poi», per dirla con il filosofo Vladimir Jankélévic, intrappolato nell’irreversibilità del tempo e, dunque, fondamentalmente instabile4. ’ p. Claudel, Oiseau noir dans le soleil levant, citato in G. Bachelard, La Poétique de l’espace, Presses Universitaires de France, Paris 1957, p. 42 [trad. it. La poetica dello spa­ zio, Dedalo, Bari 1999]. 4 v. jankélévic, L'irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 346 sgg.

Parte seconda

Corpi

Coop Himmelblau, House Vektor II (House Meyer-Hahn). Diisseldorf.

L’architettura smembrata *

[Il mio corpo] è ovunque: la bomba che distrugge la mia casa intacca anche il mio corpo, in quanto la mia casa era già un’indicazione del mio corpo. jean-Paul sartre, L'essere e il nulla.

Tutto ci induce a credere che l’idea del monumento architet­ tonico come incarnazione e rappresentazione astratta del corpo umano, un’idea la cui autorità in fatto di proporzioni e figure si basa sull’analogia antropomorfa, sia stata abbandonata con il crol­ lo della tradizione classica e la nascita di un’architettura asservita alla tecnologia. Se escludiamo il vano tentativo compiuto da Le Corbusier per fissare il modulor come base delle misurazioni e del­ le proporzioni, pare che la lunga tradizione di riferimenti al corpo (da Vitruvio passando per Alberti, Filarete, Francesco di Giorgio e Leonardo) sia stata definitivamente abbandonata con l’insorge­ re di una sensibilità modernista piu dedita alla protezione razio­ nale del corpo che non alla sua inscrizione matematica o all’emu­ lazione pittorica. In questo contesto è interessante notare un recente ritorno all’analogia corporea a opera di architetti anche molto diversi fra loro, quali Coop Himmelblau, Bernard Tschumi e Daniel Libeskind, tutti preoccupati di inscrivere nuovamente il corpo come re­ ferente e ispirazione figurativa nella propria opera. Questo nuovo appello alle metafore fisiche, tuttavia, si basa evidentemente su di un «corpo» radicalmente diverso da quello che era al centro della tradizione umanistica. Cosi come è descritto nella forma architet­ tonica, sembra essere un corpo a pezzi, frammentario, se non ad­ dirittura deliberatamente smembrato e mutilato fino a essere qua­ si irriconoscibile. E non solo: questo «corpo» viene presentato, paradossalmente, come un segno di distacco radicale proprio dal!'umanesimo classico, una rottura fondamentale da tutte le teorie architettoniche miranti all’armonia domestica. Evocato come re­ * Questo capitolo deve molto al saggio di E. scarry, 77>