Felicità d'Italia. Paesaggio, arte, musica, cibo [2 ed.] 8858126742, 9788858126745

Che cosa sono le felicità d'Italia? La musica, il cibo, la biodiversità agricola, il paesaggio, la tradizione artis

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Italian Pages 205 [217] Year 2017

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Felicità d'Italia. Paesaggio, arte, musica, cibo [2 ed.]
 8858126742, 9788858126745

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Storia e Società

Piero Bevilacqua

Felicità d’Italia Paesaggio, arte, musica, cibo

Editori Laterza

© 2017, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione febbraio 2017

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Anno 2017 2018 2019 2020 2021 2022

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2674-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

ad Alberto, Gioacchino, Cristina e Concetta, fratelli e sorelle d’una famiglia d’altri tempi

FELICITÀ D’ITALIA

I A PASSEGGIO CON CARLO CATTANEO Cultura e felicità Nel 1847, Carlo Cattaneo indirizzava una serie di lettere al viceconsole inglese a Milano, Robert Campbell, con le quali lo informava delle ragioni naturali e storiche della prosperità dell’agricoltura della Lombardia. L’occasione nasceva dal tentativo di fornire all’ospite britannico qualche informazione utile all’agricoltura dell’Irlanda, che dal 1844 era stata colpita da una devastante carestia, in seguito alla distruzione dei raccolti di patate ad opera della peronospora. A quei tempi era possibile che la maggioranza della popolazione di un paese vivesse su un’unica monocultura, quella delle patate, e che la diffusione di un fungo, la peronospora per l’appunto, favorita da condizioni climatiche avverse, facesse morire letteralmente di fame centinaia di migliaia di persone e in maggior numero ne costringesse alla fuga in America. Tutto questo mentre tante altre terre d’Irlanda – come osservò allora un grande contemporaneo, Friedrich Engels – erano impegnate nell’allevamento o nelle colture destinate al consumo di lusso della borghesia inglese1. Quelle lettere, che iniziano il 5 febbraio del 1847, verranno pubblicate nello stesso anno col titolo D’alcune istituzioni agrarie dell’Alta Italia applicabili a sollievo dell’Irlanda e costituiscono una essenziale storia dell’agricoltura e del territorio lombardo e al tempo stesso un impareggiabile distillato del pensiero di Cattaneo. Qui per 1   M. Caparrós, La fame, Einaudi, Torino 2015, p. 237. Più specificamente, R.N. Salaman, Storia sociale della patata, edizione riveduta a cura di J.G. Hawkes, Garzanti, Milano 1989, pp. 250 e ss.

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il momento, del tesoro di riflessioni contenute in quell’esile libretto, è utile riprendere una considerazione per così dire conclusiva, di bilancio. Una affermazione perentoria a cui Cattaneo si lascia andare dopo pagine e pagine impegnate a spiegare le condizioni particolarissime, di natura innanzi tutto e poi politiche e culturali, che avevano concorso al successo dell’agricoltura nella sua regione. «Poiché – ammoniva Cattaneo – la cultura e felicità dei popoli non dipendono tanto dalli spettacolosi mutamenti della politica, quanto dall’azione perenne di certi principi che si trasmettono inosservati in un ordine inferiore di instituzioni»2. Lo scrittore lombardo si diffonderà analiticamente su alcune di queste istituzioni, considerate di “ordine inferiore”, vale a dire poco visibili, non fissate in documenti scritti, tramandate per consuetudine, cristallizzate talora in forme di mentalità diffusa tra le comunità. Darà forma e definizioni anche meno vaghe all’allusione «spettacolosi mutamenti della politica», individuandoli nelle gigantesche trasformazioni subite dall’Italia dopo il crollo dell’Impero romano, con le invasioni barbariche, la nascita dei comuni e delle nuove città, la formazione degli Stati territoriali. A tali rivolgimenti, ricorda lo scrittore, le forme consuetudinarie avevano resistito lungo i secoli. E da tali «instituzioni» o «istituzioni», come alternamente le chiama Cattaneo, noi partiremo per il nostro viaggio nelle felicità d’Italia. Ma occorre prima soffermarsi con un po’ di agio analitico sulle altre parole contenute nell’affermazione dello scrittore lombardo. Che cosa è cultura, che cosa è felicità nel linguaggio di Cattaneo, intellettuale versatile e profondo, poligrafo dalle innumerevoli competenze? Che cosa significano tali parole nel lessico pubblico di quella società a metà del XIX secolo? Nella modernissima semantica dello scrittore lombardo il termine “cultura” assume una dimensione di attualità oggi sorprendente. Esso ha innanzitutto una valenza di utilità economica, a guisa di patrimonio attivo in grado di produrre ricchezza. Rientra, dunque, nella sfera dell’utilitarismo economico dell’economia politica nata nel secolo precedente. Ma con una intuizione più profonda ed eversiva rispetto a quella tradizione. In un saggio pubblicato sul «Politecnico» nel 1861, dal titolo programmatico Del pensiero 2   C. Cattaneo, D’alcune istituzioni agrarie dell’Alta Italia applicabili a sollievo dell’Irlanda, in Scritti economici, a cura di A. Bertolino, vol. III, Le Monnier, Firenze 1956, p. 115.

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come principio d’economia pubblica, Cattaneo ricordava che la scienza economica ereditata dall’Illuminismo aveva per così dire disegnato «la fisica della ricchezza», identificata nella natura, nel lavoro e nel capitale. Essa aveva però tenuto fuori, come irrilevante, quella che il nostro considerava la «psicologia della ricchezza», vale a dire l’umana intelligenza, la sua originale creatività, la forza trasformativa del reale affidata alla mente arricchita dagli studi3. «Non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere di ricchezza». E qui Cattaneo non solo non risparmiava critiche radicali ai grandi padri dell’economia politica: «Fa meraviglia che Genovesi ed Adamo Smith, ch’erano professori di filosofia, trascorressero colla mente sopra l’economia pubblica, senza intravedervi il costante dominio di quelle facultà mentali ch’erano il primo campo dei loro studi»4. Non scorgessero, cioè, nella mente umana, nel pensiero che essi studiavano, quella forza motrice della vita reale che è l’attività economica. E contro Smith anzi affondava la lama della polemica, ricordando la sua ingenua e falsa credenza secondo cui «le classi dotte non producono valore alcuno», perché oziose, manifestamente estranee alla sfera della produzione materiale di beni. Secondo il suo stile, e la sua vasta cultura, Cattaneo non si fermava alla critica. Con ampiezza di argomentazioni storiche inoppugnabili, su cui non possiamo soffermarci, ma che oggi ci appaiono perfino ovvie, mostrava la centralità, nello svolgimento della vita economica, di quella che oggi definiamo ricerca, sapere, know how. E addirittura, in un saggio coevo dedicato all’agricoltura inglese, arrivava a dettare gli indirizzi a cui avrebbero dovuto uniformarsi i nuovi studi di economia: «nei trattati di economia gli atti d’intelligenza oramai si dovrebbero classificare come fonte di valore per sé, quanto il lavoro ed il capitale»5. La cultura, dunque, quale fonte imprescindibile della vita economica, suo fondamento sin dai primordi della vita degli uomini 3   C. Cattaneo, Del pensiero come principio d’economia pubblica, in Id., Opere scelte, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, IV, Scritti 1852-1864, Einaudi, Torino 1972, p. 300. 4   Ivi, p. 302, corsivi nel testo. 5    C. Cattaneo, Dell’agricoltura inglese paragonata alla nostra, in Opere scelte, IV, cit., p. 49, corsivo nel testo.

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sulla Terra. Tuttavia, sarebbe un peccato di anacronismo attribuire a Cattaneo l’idea che il suo fine si esaurisse nell’incremento dell’agire economico. Questo lo pensano oggi tanti economisti, regrediti a tecnici specializzati della crescita economica, esperti di ristrette e semplificate sfere del reale. Non poteva certo sfiorare la mente di un grande intellettuale dell’Ottocento. E difatti il termine “cultura”, nel sintagma, nell’accoppiata di parole da cui siamo partiti, figura accanto al termine “felicità”. La cultura e la felicità andavano insieme e – grande novità che si era fatta strada nel corso del Settecento – la loro cooperazione era resa possibile dall’agire dei governi, dall’azione collettiva, e veniva a coinvolgere la società tutta intera: «i popoli», come diceva Cattaneo. Lo scrittore lombardo ovviamente ereditava un’idea di felicità che era stata elaborata, con varie modulazioni, sin dalla metà del secolo precedente. Contrariamente a quanto normalmente si crede, prima che il termine e il suo concetto si facessero strada nell’ambiente culturale della Rivoluzione americana e poi in quella francese, esso era stato elaborato con ricchezza e varietà di motivi dagli illuministi italiani. È addirittura del 1749 il primo libro che esprime sin nel titolo il nuovo concetto di felicità. In quell’anno Ludovico Antonio Muratori pubblica a Lucca Della pubblica felicità oggetto de’ buoni principi6. E la potenza innovativa delle argomentazioni non tradisce l’ardimento del titolo. Consapevole degli elementi soggettivi e psicologici che rientrano nella sfera sensitiva della felicità, Muratori ricorda tuttavia che se l’azione di ogni uomo è ispirata dal desiderio del bene personale, «Di sfera poi più sublime e di origine più nobile si è un altro desiderio, cioè quello del bene della società, del ben pubblico o sia della pubblica felicità», e perciò raccomandava al «principe saggio» di «procacciare al popolo qualunque comodo, vantaggio e bene che sia in mano sua»7. In quello stesso periodo e probabilmente qualche anno prima, nel 1746, l’abate Ferdinando Galiani, dopo aver discorso della natura e delle caratteristiche della felicità dei singoli, vede nell’azione pubblica la leva fondamentale per quella 6   L.A. Muratori, Della pubblica felicità oggetto de’ buoni principi, a cura di L. Bosi di Palma, Loescher, Torino 1971. 7   Ivi, p. 1 e p. 66. I corsivi sono nel testo. La segnalazione della primogenitura del termine “felicità” nel titolo di questo libro è in G.L. Beccaria, L’Italiano in 100 parole, Rizzoli, Milano 2014, p. 203.

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umanamente possibile della società: «Il buon governo adunque non è già quello in cui tutti sono felici, poiché questo governo non vi sarebbe mai, ma è quello in cui tutti possono essere felici, quando cause interne e particolari non lo impediscono. La tirannide è quel governo in cui alcuni pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice»8. Un paio di decenni più avanti, nel 1763, pur da un fondo di visione pessimistica sull’umana condizione – ma, proprio per questo, espressione di una posizione profondamente meditata – Pietro Verri insisteva sulla dimensione pubblica della felicità, accentuando i tratti egalitari della sua realizzazione: «Il fine dunque dell’immaginato patto sociale è il ben essere di ciascuno che concorre a formare la società: il che si risolve nella felicità pubblica riportata con maggiore uguaglianza possibile. Tale è lo scopo a cui deve tendere ogni legge umana. Dovunque le leggi positive abbiano questo scopo, ivi la società è fedele al patto sociale, ivi i diritti e i doveri d’ogni uomo sono chiari e sicuri»9. E sempre negli stessi anni, il padre italiano dell’economia politica, Antonio Genovesi, a proposito della durata delle città – che i moralisti immaginavano corrotte dai vizi degli uomini e destinate alla rovina – ricorreva all’espressione «felicità civile»10. Una dimensione del vivere collettivo che stava in equilibrio tra vizi e virtù dei cittadini e che assicurava la durata e il progresso degli organismi sociali. Ma forse il riformatore settecentesco che ha pensato più diffusamente e con più decisa inclinazione egalitaria al tema della felicità è stato Gaetano Filangieri. A partire dal 1780, con i cinque volumi della Scienza della legislazione egli ritorna spesso sul tema, con accenti che sembrano anticipare il radicalismo dei rivoluzionari francesi: «in questo Stato finalmente – egli sosteneva, perorando la causa di un nuovo assetto sociale – non ci sarà l’eguaglianza delle facoltà, che 8   F. Galiani, Dell’arte del governo, in Appendice a Della moneta, a cura di A. Merola, Introduzione di A. Caracciolo, Feltrinelli Milano 1963, p. 390. Per la datazione del frammento al 1746 si veda la nota del curatore, p. xli. 9   P. Verri, Del piacere e del dolore ed altri scritti di filosofia ed economia, a cura di R. De Felice, Feltrinelli, Milano 1964, p. 100. Il saggio citato apparve anonimo nel 1763 col titolo Meditazioni sulla felicità. 10   A. Genovesi, Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl’ignoranti che gli scienziati (1769), in Id., Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p. 446. La prima edizione delle Lettere è del 1764.

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è una chimera, ma l’eguaglianza della felicità in tutte le classi, in tutti gli ordini, in tutte le famiglie che lo compongono; eguaglianza, che deve essere lo scopo della politica e delle leggi»11. Quanta sorprendente e spiazzante modernità rispetto alle inique dottrine del presente! Certo, come ricordava Franco Venturi, le teorizzazioni di Filangieri e degli altri allievi del Genovesi costituivano «il più bel frutto del Settecento meridionale, il momento di fulgore e di gloria della cultura napoletana»12. Ma è anche vero che tali posizioni teoriche, le idee sulla felicità fondate sull’uguaglianza o che aspiravano all’uguaglianza fra i cittadini, circolavano nell’aria del XVIII secolo. E non è senza significato che Adam Smith, teorizzatore, nella sua Inquiry sulle origini della ricchezza delle nazioni, degli egoismi individuali quale sorgente virtuosa del libero mercato, dedicasse il secondo capitolo della Teoria dei sentimenti morali al Piacere della reciproca simpatia. Non «c’è nulla – egli teorizzava – che ci faccia più piacere che osservare in altri uomini una partecipazione a tutte le emozioni del nostro cuore e nulla che ci urti quanto la manifestazione contraria»13. Nella seconda metà del secolo e soprattutto nel suo ultimo scorcio, tali idee e sentimenti morali scesero dal cielo e presero a camminare sulla terra. Essi trovarono forme di espressione sempre più esplicitamente politiche. Il termine “felicità” comparve nel corso della Rivoluzione americana e venne suggellato, quale fine del nuovo Stato, nella Costituzione degli Stati Uniti. Ma è poi sul finire del Settecento, nel corso della Rivoluzione francese, nell’elaborazione di alcuni intellettuali radicali come Saint-Just, Robespierre, Babeuf che essa perde la dimensione puramente passiva di godimento individuale degli agi domestici (prevalente in ambito americano) per trasformarsi in una nuova concezione dell’organizzazione sociale. Come ha ricordato Domenico Losurdo, che ha dedicato un saggio specifico al tema, è nel 1793 che la nozione di felicità appare declinata in senso apertamente rivoluzionario. In quell’anno: 11   G. Filangieri, Scienza della legislazione, vol. II (1782), edizione critica a cura di M.T. Silvestrini, Centro di studi sull’illuminismo europeo “G. Stiffoni”, Venezia 2004, p. 238. 12   F. Venturi (a cura di), Illuministi italiani, tomo V, Introduzione a Riformatori napoletani, Ricciardi, Milano 1962, p. xv. 13    A. Smith, Teoria dei sentimenti morali (1752-59), Introduzione e note di E. Lecaldano, Rizzoli, Milano 2014, p. 89.

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nel corso del processo di radicalizzazione della rivoluzione francese, viene alla luce una nuova Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che, nell’art. 1, proclama: «Il fine della società è la felicità (bonheur) comune». L’art. 21 chiarisce poi: «I soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini sfortunati (letteralmente: infelici, malheureux), sia procurando loro un lavoro, sia procurando i mezzi per vivere a coloro che non sono in grado di lavorare». Nel passaggio dalla rivoluzione americana a quella francese, il diritto al «perseguimento della felicità» si è trasformato in diritto alla felicità e a quel minimo di mezzi materiali che la rendono possibile. Ovvero il diritto negativo (che garantisce la sfera privata da ogni interferenza estranea) si è trasformato in diritto positivo (che esige l’intervento pubblico per sanare situazioni di miseria e di infelicità diversamente irrimediabili)14.

Si tratta di un rilevante passaggio nella storia del pensiero politico e della civiltà umana. Nella formulazione dei rivoluzionari francesi, ricorda ancora Losurdo, «l’idea di felicità risulta indubbiamente nuova, e in modo sconvolgente, per l’Europa e per il mondo. La miseria e l’infelicità non appaiono più come una calamità naturale, esse chiamano in causa l’ordinamento politico-sociale»15. La felicità, dunque, entra a far parte dei diritti dell’uomo e non è passaggio da poco nella storia delle società umane. Giacché per millenni, per lo meno nei paesi dell’Occidente cristiano, la felicità era stata bandita dal novero delle possibilità terrene concesse agli uomini. Essa si poteva conseguire post mortem, quale eventualità della vita ultraterrena, premio promesso a una esistenza integerrima e preferibilmente segnata dalla sofferenza. La felicità ultraterrena della religione rivelata riguardava la ventura dei singoli, era ed è legata alla storia di ognuno, prevede i sommersi e i salvati, non ha niente a che fare con il progetto di un superiore assetto di società. La nozione di felicità, elaborata da frange dell’intellettualità borghese al suo sorgere, trascende la sfera individuale e abbandona il territorio della teologia. Essa affida alla politica – che da Machiavelli in poi si era teoricamente emancipata dalle vecchie servitù teologiche – il compito nuovo di rendere la vita di tutti degna di essere vissuta. Una 14   D. Losurdo, La felicità e la rivoluzione, in P. Venditti (a cura di), La filosofia e le emozioni. Atti del XXXIV Congresso Nazionale della Società Filosofica Italiana, Le Monnier, Firenze 2003. 15    Ibid.

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possibilità che si presenta allora alla storia umana grazie all’avanzare dell’economia capitalistica, la quale lascia già intravedere, in Europa e in America, un incremento inedito della ricchezza economica privata. Un ammontare senza precedenti di beni, risorse e servizi che una più giusta ed egalitaria distribuzione può rendere strumento della pubblica, cioè generale, felicità. Una ripartizione dei beni che non ubbidisce, giova ricordarlo, a criteri di merito, ma ai bisogni dei cittadini, che sono universali. Come universali diventano tanti nuovi diritti, di cui le persone diventano titolari in quanto persone. Si pensi a quanto stabiliva la rivendicazione della «felicità comune» nella Costituzione della Francia rivoluzionaria del 1793 a proposito di uno strumento fondamentale dell’emancipazione dei cittadini, l’istruzione. «L’istruzione – stabiliva l’articolo 22 – è il bisogno di tutti. La società deve favorire con tutti i suoi mezzi il progresso della ragione pubblica e mettere l’istruzione alla portata di tutti i cittadini»16. Certo, Marx ci ha insegnato a distinguere tra ideologia e fatti reali. La felicità generosamente teorizzata dai grandi illuministi e dai teorici radicali l’avrebbero dovuta costruire le masse operaie, nelle nuove fabbriche industriali, a vantaggio delle classi borghesi dominanti. Non certo per il benessere di tutti. Infatti, la ricchezza prodotta dal nascente capitalismo avrebbe richiesto lo sfruttamento di massa del lavoro manifatturiero, l’assoggettamento degli uomini, delle donne e dei bambini alle macchine, alla disciplina e agli orari di lavoro senza limiti nei capannoni industriali17. Per costoro, per la grande massa dei proletari, la felicità si sarebbe allontanata per un paio di secoli dalle loro possibilità. E tuttavia quell’ideologia generosa non va trattata come una copertura dell’iniquità fondativa del capitalismo. Essa costituiva un’aspirazione sincera, anche se inconsapevolmente ingannevole, di alcuni gruppi intellettuali, svincolati idealmente dalle loro origini sociali. E comunque oggi non si può non apprezzarla come una anticipazione di futuri possibili, progetto di più avanzata civiltà, soprattutto nel nostro tempo. Oggi la cultura    Ibid.    Forse il testo più ricco di informazioni sull’opera di feroce disciplinamento messa in atto dai primi capitalisti, per trasformare contadini, artigiani, vagabondi, donne e bambini in classe operaia, è quello di S. Pollard, The Genesis of Modern Managment. A Study of the Industrial Revolution in Great Britain, Gregg Revivals, Aldershot 1993. 16 17

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capitalistica dominante inclina sempre più a promettere la felicità solo ad alcuni, ai più forti, ai più abili, ai “meritevoli”, agli “eccellenti”, come il Dio di Lutero prometteva la Grazia, ma solo quale dono probabile, alle persone più sobrie, operose e ubbidienti. Un modesto messaggio eversivo Dunque in quelle due parole Cattaneo condensava ormai quasi un secolo di acquisizioni teoriche e culturali del pensiero politico moderno, di elaborazioni e di concrete pratiche statuali. Ma nella sua affermazione perentoria era contenuta una tesi che andava ben oltre le acquisizioni, sia pure varie e multiformi, della dottrina. Nel suo pensiero non era tanto lo Stato, il principe con le sue savie leggi ad assicurare la felicità dei popoli. Non partiva dall’alto del potere costituito, dallo Stato, l’azione destinata a garantire conoscenza e benessere che si diffondevano nella società. Non erano ristrette élites a portare la luce del sapere nell’opaca massa del popolo. Questa impostazione viene perfettamente rovesciata. Il sapere che produceva ricchezza e benessere nasceva storicamente dall’elaborazione del popolo, affondava in anonime consuetudini elaborate nella vita materiale nel corso del tempo. Erano appunto il frutto di istituzioni, vale a dire di regole e di pratiche, che consentivano un continuo progredire delle condizioni generali della società. Quali erano, dunque, queste istituzioni che Cattaneo pone a fondamento della fortuna del popoli? Nell’opuscolo D’alcune istituzioni lo scrittore ne indica molte, con la consueta ricchezza documentaria. Noi non lo seguiremo diffusamente, perché altre sono le finalità del nostro racconto. Ma su alcune di esse è indispensabile soffermarsi. È necessario per afferrare il nocciolo di pensiero eversore che vi è racchiuso. Una delle più importanti, alla base della prosperità agricola e più in generale economica della Lombardia, è la cosiddetta «servitù d’acquedotto». Vale a dire il principio consuetudinario, affermatosi lungo i secoli nelle campagne lombarde, secondo cui nessun proprietario terriero poteva opporsi a lasciar passare nel proprio fondo un corso d’acqua destinato a irrigare le terre di un vicino. In virtù di tale principio, spiegava Cattaneo, «Non è necessario che “una maggioranza” di proprietari desideri introdurre in un territorio l’irrigazione, ma basta

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uno solo». Si trattava di una regola che poneva la possibilità d’uso del bene comune dell’acqua quale diritto universale, che sovrastava anche i vincoli e i confini della proprietà privata. «Il principio è che ognuno debba fare per li altri ciò che li altri, a caso uguale, debbono fare per lui. Quindi non si contano mai le persone, né si conferisce ad una maggioranza il diritto d’imporre i suoi interessi ad una minorità recalcitrante; il che troppo facilmente diviene travestimento del diritto del più forte»18. In questo caso una risorsa naturale particolare, l’acqua, che – come aveva teorizzato un maestro di Cattaneo, Gian Domenico Romagnosi – non si prestava ad essere delimitata entro i limiti del possesso privato, come un pezzo di terra o una casa, non ricadeva nel dominio esclusivo di qualcuno, ma era a disposizione di tutti. Quel principio, che aveva ispirato l’uso delle acque in quelle terre per circa duemila anni, aveva di fatto consentito, grazie alla diffusione di una rete sterminata di canali, rogge e derivazioni secondarie, la formazione dell’agricoltura irrigua19. Dunque, una delle più avanzate e prospere economie agricole d’Europa era stata resa possibile da quel principio, elaborato da masse anonime, fiorito dal seno di pratiche consuetudinarie esercitate lungamente su un territorio ben conosciuto e gestito secondo pratiche comunitarie. Cattaneo, infatti, include nel novero delle istituzioni che hanno contribuito alla «cultura e felicità dei popoli» della Lombardia, oltre ad alcune pratiche agricole come le rotazioni – di cui spiega acutamente anche i risvolti sociali che rimangono ignoti all’inesperto –, anche alcuni originali strumenti di aggregazione e gestione del territorio come i consorzi d’irrigazione e di bonifica («d’asciugamento»). L’abbondante presenza dell’acqua imponeva infatti forme organizzate e cooperative per la sua gestione, ma anche per la sua limitazione, quando essa creava paludi e impediva o danneggiava le coltivazioni. E in questa attenzione dello scrittore lombardo alle risorse naturali e alle caratteristiche del territorio noi ritroviamo oggi alcuni aspetti della genialità e attualità del suo pensiero. Egli esaltava con più vigore e convinzione di altri il ruolo dell’umana intelligenza e la sua capacità d’iniziativa, ma dava alla natura, alle sue caratteri   Cattaneo, D’alcune istituzioni, cit., pp. 126 e 127.    Cfr. P. Bevilacqua, Le rivoluzioni dell’acqua. Irrigazione e trasformazioni dell’agricoltura tra Sette e Novecento, in Id. (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, I, Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1989, pp. 255 e ss. 18 19

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stiche e potenzialità un ruolo che oggi sorprende. Non «basta – egli ripeteva – consultare l’umana volontà, ma è mestieri porre in conto le predisposizioni della natura». L’influenza delle buone leggi è importante, «ma vien preparata da un complesso di circostanze naturali che difficilmente si rinviene altrove»20. E tra queste circostanze naturali che favorivano la Lombardia poneva la «generale serenità della stagione estiva», ciò che consentiva di poter dire «avere clima europeo con estate quasi egizia», il che permetteva «la coltivazione indiana del riso, ignota a tutti i paesi di pari latitudine (45°a 46°N) e [che] regge anche all’altitudine di 150 metri sul livello del mare»21. Come si può constatare, qui come altrove e soprattutto nella celebre Introduzione alle Notizie naturali e civili su la Lombardia, Carlo Cattaneo elaborava un pensiero di sorprendente modernità, di cui pare non sia rimasta alcuna traccia nella cultura economica otto-novecentesca del nostro Paese22. La natura e le sue risorse quali componenti imprescindibili dello sviluppo economico. Sapere collettivo, tecniche, sapienti norme collettive costituiscono le forze motrici dell’umano progredire, ma in stretta e imprescindibile cooperazione con la ricchezza offerta dagli habitat naturali e al tempo stesso entro i loro limiti e vincoli. È anche grazie a questo nesso profondo tra regole di organizzazione sociale e dimensioni originali della natura che le istituzioni di cui parla Cattaneo assumono, in certi casi, la raffigurazione di forme dell’agire collettivo, in grado di creare una mentalità cooperativa, di far sentire ogni individuo elemento indispensabile, in certi casi, della salvezza comune. È questo il caso dei momenti drammatici delle alluvioni del Po lungo i paesi e villaggi rivieraschi, così descritti da Cattaneo: Nei momenti di pericolo tutte le porte dei canali di scolo, che attraversano li argini, vengono chiuse; e dietro loro si chiudono anche le porte dei canali minori. Se l’acqua giunge ad una altezza che si chiama di prima guardia, si pongono uomini in sentinella in tutti i luoghi ove li argini sono vicini alla viva corrente del fiume. Se si elevano al segno di seconda guardia si pongono due uomini ad ogni intervallo di circa 200 passi    Cattaneo, D’alcune istituzioni, cit., p. 70.    Ivi, p. 72. 22   Notizie naturali e civili su la Lombardia, con Introduzione di C. Cattaneo, G. Bernardoni, Milano 1844. 20 21

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(150 metri) in luoghi gà indicati e numerati con apposite pietre e che si provedono di capanne. Pronte voci d’avviso si fanno correre da stazione a stazione in caso di rotta. E li ingegneri hanno diritto di chiamare sulli argini tutte le popolazioni colli strumenti da lavoro; e anche di tagliare certi argini secondari per salvare i principali. È una lotta nella quale un popolo intelligente e vigile persevera da venticinque secoli23.

Istituzioni italiane Dunque le istituzioni descritte dallo scrittore lombardo costitui­ scono un patrimonio storico, elaborato nel corso di diversi secoli, da consegnare alle generazioni successive perché lo conservino e possibilmente lo incrementino ed estendano. Mattoni decisivi su cui si può costruire l’edificio dell’umano incivilimento. Ma un altro nascosto e per noi eversivo messaggio è racchiuso in questa feconda idea di Cattaneo. Le sue “istituzioni” non sono semplicemente o esclusivamente mezzo per conseguire la cultura e felicità dei popoli. Esse stesse sono già il fine, sono sapere e felicità godute dalle popolazioni. La loro realizzazione e la loro conservazione fanno tutt’uno con la finalità umana e sociale per le quali sono state create. La servitù d’acquedotto consente la circolazione collettiva dell’acqua e assicura elevati raccolti in maniera permanente alla popolazione, che lo voglia o no un potere statale sovrastante. Naturalmente, nel distillato teorico del pensatore lombardo, il popolo è un soggetto un po’ troppo indistinto per la nostra visione attuale, non contempla la divisione in classi in cui si articolava la società lombarda dell’Ottocento, che evidentemente non consentiva una egalitaria distribuzione di cultura e felicità, e anzi si fondava su uno sfruttamento intenso del lavoro contadino e bracciantile24. E tuttavia, a dispetto di tali limiti, l’idea che la felicità generale sia il fine dell’agire politico e che essa non provenga dall’alto, dall’azione illuminata del potere, ma costituisca il risultato della creatività    Cattaneo, D’alcune istituzioni, cit., p. 85.    Si veda una interpretazione storica meno idealizzata in G.L. Della Valentina, Padroni, imprenditori, salariati. Modelli capitalistici padani, in Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, cit., II, Uomini e classi, Marsilio, Venezia 1990, pp. 151 e ss. 23 24

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popolare, l’esito di un processo collettivo, si affaccia oggi nell’immaginario del nostro tempo con una forza dirompente. È un capovolgimento completo della visione che ha colonizzato e oggi domina le menti dei contemporanei. La nostra, da tempo, ha cessato di essere una società del fine per trasformarsi in una società del mezzo. Non è infatti la felicità pubblica l’obiettivo dei governi, la parola d’ordine dei partiti e dei mezzi d’informazione, ma la crescita economica, la corsa accumulativa per nuovi oggetti di consumo e servizi, da cui dovrebbe scaturire il nostro benessere. Ma la nostra vita è ormai tutta assorbita in quella corsa, è quella corsa. I nostri contemporanei corrono dietro il mezzo per eccellenza, il mezzo sovrano per giungere alla ricchezza, vale a dire il danaro, e si fanno mezzi essi stessi per raggiungerlo. La felicità – parola ormai proibita nella regressione calvinista delle società opulente – è un traguardo spostato in avanti, perché gli individui rimangono imprigionati nel mezzo per conseguirla, vale a dire, soprattutto, nel lavoro. Lavoro crescente, che travalica l’orario ufficiale delle prestazioni, che ha ormai sfondato i muri della sfera domestica e privata, che si mangia anche il tempo del riposo notturno25. Ma essi si fanno mezzi anche in quella sfera in cui sembrava realizzarsi ed esaurirsi la felicità del tempo presente, vale a dire nel consumo, nell’accaparramento crescente di beni, diventato anch’esso, nelle società ricche, un “lavoro”, una forma di saccheggio del tempo personale, un meccanismo compulsivo perennemente insoddisfatto e alla ricerca del fine che perennemente svapora. Un capovolgimento storico, come ha mostrato Zygmunt Bauman, che ha generato «la trasformazione dei consumatori in merce o, meglio ancora, la loro dissoluzione nel mare delle merci»26. Ma la nostra è diventata la società del mezzo anche nella sfera della lotta politica. Poiché si affida sempre più al potere la capacità di generare ricchezza e benessere, e dunque felicità, e anche i movimenti politici si pensano e vengono agiti come mezzi per conseguire poteri di governo. Tutto, nella scala lunga dei poteri, nell’universo delle umane 25   P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 93 e ss.; J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, Torino 2015. 26   Z. Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 27. I corsivi sono nel testo. Sulle dinamiche e gli effetti del consumismo, nel contesto esemplare della società americana, cfr. P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 34 e ss.

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relazioni, diventa mezzo di qualcos’altro, perché i fini sono ormai perduti e le trasformazioni sociali, il corso della storia, avanzano senza direzione e senza senso. È dunque ancora possibile ritrovare il fine, tornare a perseguire la pubblica felicità? Possiamo tornare a distinguere il mezzo dallo scopo, sottrarre gli individui all’imperio dei comportamenti di massa programmati dalle agenzie di marketing? Ora, nessuno può essere così ingenuo da sottovalutare il potere di condizionamento, la forza d’incidenza sui destini collettivi che lo Stato e soprattutto i poteri economici internazionali oggi possiedono. Appare difficile tagliare in qualche punto la maglia della rete che ci avviluppa, rompere la catena che ci trascina: è una realtà che ricade nell’esperienza quotidiana di ognuno. E tuttavia esistono sfere dell’agire che consentono la conservazione di istituzioni ereditate dal passato, che assicurano cultura e felicità, senza dover necessariamente piegare la volontà dei poteri statali o finanziari, senza conati insurrezionali, agendo entro spazi locali meglio controllabili, utilizzando strumenti che sono affidati ai cittadini. E in Italia più che altrove è possibile fare leva sulla “coscienza dei luoghi”, in grado di consentire agli individui di superare il loro “sbriciolamento” consumistico, di fondare e in parte ritrovare un nuovo potere collettivo, mettere insieme lotta e pubblica felicità27. Ebbene, per venire all’oggi e alle finalità del presente saggio: quali suggestioni teoriche sprigionano dalle riflessioni di Cattaneo sulle tante istituzioni che la storia più o meno remota del nostro Paese ci consegna? Con quale nuovo sguardo possiamo scoprire i patrimoni immateriali che, generalmente, non riusciamo più neppure a scorgere come tali, che rischiano di essere distrutti dalla voracità dissennata del capitalismo dei nostri anni? Quanto sapere e felicità possiamo ancora conseguire, nei nostri territori, con la nostra azione collettiva, difendendo e valorizzando i beni comuni e i beni pubblici, facendo tesoro di saperi tramandati che non reclamano diritti d’autore? E dunque quali sono le istituzioni che oggi possiamo considerare tali in un catalogo ideale della storia d’Italia? Non ci diffonderemo in una lunga e inutile elencazione. Anche se ci auguriamo che altri 27   Cfr. G. Becattini, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, con una Presentazione di Alberto Magnaghi e un Dialogo tra un economista e un urbanista di Giacomo Becattini e Alberto Magnaghi, Donzelli, Roma 2015.

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ne scoprano di poco conosciute, di portata locale o più grandi, che qui non vengono menzionate per brevità. Ci sono istituzioni che si presentano già come tali, facilmente identificabili, frutto dell’azione anonima collettiva e talora anche del concorso dello Stato. Forse la prima da menzionare, la più antica e universale di tutte, è la famiglia, che in Italia ha svolto un ruolo alquanto peculiare e che di recente è stata oggetto di una ricostruzione storica internazionale per il XX secolo28. E certo una istituzione secolare dovrebbe essere considerata Venezia, oltre che una città incomparabile. Una istituzione in virtù della straordinaria lezione politica che la sua storia racchiude. Venezia infatti è sempre stata una città in pericolo, anche quando si trovava all’apice della sua grandezza. Già nel medioevo essa appariva condannata a morte per via dell’interramento progressivo della laguna provocato dai fiumi che vi sfociavano. Eppure la città è stata salvata grazie all’elaborazione di norme, di pratiche consuetudinarie, di politiche alte e basse che hanno fatto concorrere l’intera popolazione, ricchi e poveri, magnati e popolani, alla salvezza della laguna e della città29. Tutta la storia secolare di Venezia è la vicenda di una istituzione nel senso più pieno e completo descritto da Cattaneo. Ma per il nostro Paese occorre necessariamente rammentare i comuni, le parrocchie, l’Università, la scuola, i nostri borghi, il pae­ saggio. Dobbiamo alla cura di Mario Isnenghi e al lavoro di alcuni storici dell’età contemporanea l’individuazione di un catalogo, se non sempre di istituzioni, certo di tradizioni e simboli collettivi rilevanti nell’Italia otto-novecentesca, dal caffè all’osteria, dal Liceo classico alla piazza, dal cinema all’opera lirica30. Ma si danno anche altre formazioni di durata più limitata, su cui sicuramente non cade una pari condivisione. Una importante istituzione, nel nostro dizionario cattaneano, è stato il Partito comunista italiano, strumento di costruzione politica e civile dell’Italia repubblicana nel secondo dopoguerra. Una affermazione a cui occorre aggiungere la considerazione storica più generale che tutti i partiti 28   P. Ginsborg, Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature (19001950), Einaudi, Torino 2013. 29   P. Bevilacqua, Venezia e le acque. Una metafora planetaria, Donzelli, Roma 1998. 30   M. Isnenghi, I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1996; Id., I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997.

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popolari di massa, in Europa, tra Ottocento e Novecento, sono stati istituzioni decisive per la formazione delle nazioni contemporanee. Strumenti collettivi per l’elevazione culturale e l’approdo a condizioni di benessere di milioni di europei. Da non dimenticare, infine, in questa approssimativa rassegna, le istituzioni culturali, come ad esempio la casa editrice Laterza, oggi la nostra più antica, presidio culturale sorto nel cuore del Mezzogiorno, oppure l’Einaudi, centro di irradiazione della cultura mondiale nell’angusta provincia italiana a partire dagli anni Trenta31. Nelle pagine che seguono svolgeremo il nostro racconto intorno a quattro istituzioni: l’agricoltura e la cucina italiana, le nostre città, la canzone a Napoli, la tradizione associativa e cooperativa in Emilia Romagna. Come il lettore sa o facilmente immagina si tratta di istituzioni minacciate, in via di estinzione o completamente svuotate del loro spirito e dei loro caratteri originari. Costruzioni umane, esse sono soggette come tutti i fenomeni storici alle leggi del tempo, all’usura che investe tutto ciò che vive sotto il cielo. Ma ricostruirne oggi la storia, esaminarne da vicino le forme, il benessere generato, scoprire il loro costituire, talora, l’intima tessitura di una civiltà, può fornire alla coscienza collettiva del nostro tempo armi più esperte per la loro possibile rinascita, difesa e incremento. 31   L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999. Un esempio illuminante dell’opera di traduzione e introduzione nella cultura italiana dei maggiori studiosi d’Europa e del mondo è nei pareri dei consulenti: cfr. T. Munari (a cura di), Centolettori. I pareri di lettura dei consulenti Einaudi. 1941-1991, Prefazione di E. Franco, Einaudi, Torino 2015. Per la Laterza del dopoguerra, L. Masella, Laterza dopo Croce, Laterza, Roma-Bari 2007.

II AGRICOLTURA E CUCINA Una identità paradossale Che il mangiare sia fonte di felicità e comunque di godimento è affermazione che non necessita di molte argomentazioni perorative. Si comprende da sé, dal momento che esso costituisce la condizione irrinunciabile della vita, l’atto di affermazione di ogni vivente, indisgiungibile perciò da un senso di intimo appagamento. Naturalmente se sia semplice soddisfazione fisiologica, lo spegnimento della fame, oppure una percezione spiritualmente superiore, simile alla felicità, questo dipende dai piatti, ma anche dalle modalità dell’atto. Ci si sfama da soli e frettolosamente, magari stando in piedi, accanto al bancone di un bar, o si condivide un pasto con familiari e amici? In quasi tutto il nostro passato il desinare è stato un rito comunitario, consumato all’interno del gruppo familiare o del clan e comunque nelle forme di un godimento collettivo. In ambito mediterraneo – come probabilmente presso tutti i popoli della Terra – «Dividere il pane o il cibo – ha ricordato Vito Teti – significava fondare e rendere sacre unioni, legami, rapporti». E tale condivisione, in certe comunità, legava addirittura la vita e la morte: «Attraverso il cibo e l’acqua, vivi e defunti continuano il loro dialogo. Il mangiare unisce la metastorica famiglia contadina, di cui fanno parte “attiva” i “fratelli assenti”»1. Mangiare e bere insieme è stato un connotato antropologico delle comunità umane durato millenni, anche dentro le società industriali, dove solo negli ultimi decenni si sta sfilacciando. 1   V. Teti, Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Meltemi, Roma 1999, p. 75.

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L’arte di preparare il cibo, legata alla conoscenza profonda e tramandata di madre in figlia (più che di padre in figlio) dei materiali del pasto, vegetali e animali, dei condimenti, degli aromi, dell’uso del fuoco, della conservazione ecc., costituisce dunque una istituzione tra le più perenni della storia umana. Quelle che scorrono e resistono, per dirla ancora con Cattaneo, in un ordine inferiore di relazioni e di svolgimenti, al di là degli «spettacolosi mutamenti della politica». Che la cucina, la sapiente preparazione dei pasti, la gustosità dei singoli piatti, la varietà e il loro numero, la straordinaria differenziazione regionale e locale costituiscano un tratto originale della cultura degli italiani e della loro gioia di vivere, è ormai verità che appartiene al senso comune. È anzi diventata una retorica nazionale a volte stucchevole, un ingrediente quotidiano della società dello spettacolo, una componente ormai perenne dei palinsesti televisivi, che ingenera anche una confusione babelica in cui appare sempre più difficile districarsi2. Un successo dilagante, indubbiamente meritato, che trova spiegazioni e giustificazioni comprensibili, ma che per alcuni versi sta diventando paradossale. L’esplosione di popolarità che negli ultimi decenni la cucina italiana ha conosciuto in Italia e nel mondo è frutto di un insieme di processi storici molteplici, alcuni dei quali ben evidenti. Non c’è dubbio, ad esempio, che la crescita generale del tenore di vita della popolazione italiana lungo i decenni dopo la guerra mondiale e l’abbondanza di prodotti agricoli offerti dallo sviluppo industriale delle nostre campagne abbiano reso disponibili ai saperi culinari popolari la possibilità di esprimere con abbondanza di materiali i tesori di una lunga tradizione. I piatti che nelle famiglie contadine o operaie si preparavano nei giorni solenni delle feste son potuti diventare molto più frequenti se non quotidiani. Piatti dimenticati per la scarsità degli ingredienti sono tornati alla ribalta. Al tempo stesso, tanto le migrazioni interne del dopoguerra quanto la mobilità turistica interregionale, sia l’elevazione culturale generale della popolazione italiana sia la ricchezza di informazioni diffuse dai media, hanno mescolato in un unico paniere nazionale le culture alimentari delle singole regioni, a lungo separate e divise, anche se segnate da tanti tratti comuni. Ne è risultato un patrimonio di cucine,    F. La Cecla, Babel food. Contro il cibo kultura, il Mulino, Bologna 2016.

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di alimenti e di saperi che ha pochi termini di paragone nel mondo. I più frequenti viaggi all’estero degli italiani, il contatto con altre cucine e con la loro limitatezza e monotonia, hanno rafforzato l’orgogliosa consapevolezza del patrimonio senza eguali che essi hanno ereditato. Ma c’è un elemento di paradossalità in tanto successo. L’apoteosi della cucina alimentare italiana avviene in una fase storica in cui tanto i processi di produzione dei beni agricoli e di allevamento, quanto la loro trasformazione culinaria, sono sempre più assoggettati a logiche di standardizzazione industriale. Le cucine vengono sempre più separate dai territori in cui sono nate: rimangono le ricette, ma il materiale con cui i cibi vengono fatturati è privo di legame con i luoghi di produzione e spesso senza qualità. La lavorazione dei nostri salami di pregio con le carni di maiali ingrassati nel loro sterco, secondo le logiche infernali dell’allevamento in serie, mina alla radice un prestigio secolare. Gli ortaggi e la frutta abbondanti riversati sul mercato dall’agricoltura industriale, in poche varietà e sempre più privi di genuinità e sapore, rischiano di svuotare in pochi decenni una tradizione millenaria. Nel momento del più fragoroso successo mondiale la cucina italiana comincia a scendere sul piano inclinato della propria autodistruzione. Trascinata dalle logiche economiche del capitalismo del nostro tempo essa tende a cancellare, sotto l’uniformità della produzione seriale, la multiforme biodiversità che sta alla base, come vedremo, del suo trionfo storico3. Ora, giova ricordare che l’identità della cultura italiana fa tutt’uno con la sua multiforme varietà e in un certo senso con la sua stessa mancanza di una identità unitaria. Una molteplicità di espressioni e tradizioni da indurre autorevoli storici dell’alimentazione a decretare l’impossibilità di delineare una cucina italiana in senso stretto. Ed anzi a dover affermare che «“non esiste” una cucina italiana»4. È un paradosso davvero curioso che dice molto del carattere originario profondo e della singolare storia del nostro Paese. Perché, come hanno rilevato da tempo alcuni studiosi, da Ruggiero Romano 3   Rinviamo per brevità a P. Bevilacqua, La mucca è savia. Ragioni storiche della crisi alimentare europea, Donzelli, Roma 2002; C. Petrini, Buono, pulito e giusto. Principi di nuova gastronomia, Einaudi, Torino 2005. Ma il lettore troverà ampia bibliografia nelle pagine che seguono. 4   A. Capatti e M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Laterza, Roma-Bari 1999, p. vi; J. Dickie, Con gusto. Storia degli italiani a tavola, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 19.

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a Massimo Montanari, l’identità dell’Italia si è manifestata attraverso il cibo, nella varietà multiforme di esso, oltre che in altri caratteri, molto prima che essa si configurasse in termini politici per non dire in una entità di Stato-nazione5. È la pluralità delle espressioni artistiche e letterarie, delle forme urbane e dei paesaggi, dei linguaggi e dei dialetti, delle mentalità, e dunque dei cibi, l’identità che distingue l’Italia dagli altri paesi d’Europa e del mondo. «Il patrimonio culturale del Paese, in tutti i suoi aspetti, ha come suo principale carattere non la vastità o l’originalità, che pure lo denotano, ma la capillare articolazione sul territorio. La varietà irriducibile delle culture locali non contraddice l’identità nazionale, al contrario: la fonda»6. Occorre dunque, in sintesi, tentare di gettare uno sguardo ravvicinato sulle radici storiche dell’originalità, se non unicità del patrimonio alimentare italiano. Una originalità non pienamente rappresentabile, né spiegata e comprensibile, se si rimane all’interno delle vicende delle cucine, delle ricette e delle preparazioni dei piatti. Essa si coglie nella sua profonda pienezza solo se si collega la sua vicenda alla grande matrice naturale e storica da cui è fiorita: l’agricoltura e l’allevamento, i loro habitat e le loro evoluzioni millenarie. Le basi di una supremazia Ora, la nostra agricoltura e la sua storia particolarissima sono il frutto di due componenti forse uniche al mondo. Per un verso la varietà straordinaria di climi, di suoli, di sorgenti e corsi d’acqua, di piovosità, di rilievi, di habitat, che scandiscono la morfologia della Penisola. E stupisce non poco oggi apprendere che tali caratteristiche fossero già note alla geografia del mondo classico, mentre la grande maggioranza dei nostri contemporanei ne sa poco o nulla. Scriveva Strabone nel I secolo a.C., nei libri della sua Geografia dedicati al 5   R. Romano, Paese Italia. Venti secoli di identità, Donzelli, Roma 1997, pp. 23 e ss.; M. Montanari (a cura di), La cultura del cibo in Italia, Expo, Skira, Milano 2015, p. 21. Riflessioni che tuttavia trascurano l’identità prenazionale fornita dalla lingua volgare e dalla letteratura, la quale, anch’essa nella sua estrema varietà regionale e locale, ha rappresentato «un modo privilegiato per gli italiani di “essere italiani”» (A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana. I. Le origini e il Rinascimento, Einaudi, Torino 2009, p. xiii). 6   Montanari (a cura di), La cultura del cibo, cit., p. 23.

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nostro Paese: «L’Italia è soggetta a condizioni assai varie di clima e di temperatura, e questo fatto le comporta, in bene e in male, di avere anche una grande varietà di animali e di piante e in generale di tutto ciò che serve ai bisogni della vita»7. Una condizione di originalità che in età contemporanea ha potuto assumere una maggiore solidità comparativa alla luce di una conoscenza più completa della geografia-mondo. Ha scritto Lucio Gambi, il nostro maggior geografo del secondo Novecento: «L’Italia lungo i 1200 km dalla catena alpina al mare d’Africa squaderna una varietà di condizioni fisiche quanto se ne trova in altre regioni della Terra su un arco di meridiano di 3 o 4 migliaia di km»8. Tale varietà di ambienti naturali ha consentito l’economia dell’alpeggio estivo sulle Alpi, l’espansione dei vigneti a terrazzi della Valle d’Aosta, lo sfruttamento a castagneti, a vigneti, e ad alberi da frutto delle colline prealpine, soprattutto lombarde e piemontesi, l’agricoltura a cereali e foraggere e le risaie nella Valle padana, le coltivazioni promiscue dei rilievi appenninici e preappenninici dell’Italia centrale, la pastorizia transumante tra la montagna delle Marche e dell’Abruzzo e le pianure del Lazio e del Tavoliere di Puglia, il grano duro dei latifondi meridionali, i frutteti del Sud, i giardini della Sicilia subtropicale, la pastorizia mediterranea della Sardegna9. Ma, al fine di comporre un quadro più completo dell’originalità dell’ambiente italiano quale base della ricchezza alimentare del nostro Paese, non possiamo dimenticare il mare. L’Italia è in mezzo al più grande mare interno del pianeta. Un insieme di “pianure liquide”, per dirla con Fernand Braudel, che hanno inciso così tanto nelle 7   Strabone, Geografia. L’Italia. Libri V-VI, Introduzione, traduzione e note di A.M. Biraschi, Rizzoli, Milano 2000, p. 321. 8   L. Gambi, La costruzione dei piani paesaggistici, in M.P. Guermandi e G. Tonet (a cura di), La cognizione del paesaggio. Scritti di Lucio Gambi sull’Emilia Romagna e dintorni, Bononia University Press, Bologna 2008, p. 207. Su tale diversità, definita suggestivamente quale “mosaico ambientale italiano”, L. Rombai, Clima, suolo e ambiente, in G. Forni e A. Marcone (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, I, L’età antica. 1. Preistoria, Accademia dei Georgofili, Polistampa, Firenze 2002. Una puntuale comparazione tra le caratteristiche fisiche e geografiche dell’Italia con altre realtà europee in P. Tino, Territorio, popolazione, risorse. Sui caratteri originali della storia ambientale italiana, «I frutti di Demetra», 2007, n. 13. 9   Braudel ha ricordato che l’isola, nel XVI secolo, era «il primo paese del Mediterraneo per l’esportazione di formaggi» (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 1976, vol. I, p. 147).

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sue vicende storiche, ma che hanno fornito nei secoli una straordinaria varietà di materiale biologico per le cucine delle popolazioni rivierasche. Benché dotato di una ristretta piattaforma continentale, dunque meno pescoso di tanti altri mari e relativamente povero di plancton, il Mediterraneo è ancora ricchissimo di biodiversità, tanto che gli esperti valutano in circa 10 mila le varietà ittiche ancora presenti nel suo bacino10. Ma a questa varietà di ambienti, che ha consentito di accogliere quasi tutte le scoperte agricole realizzate dall’umanità nel corso dei secoli, ha corrisposto una storia, una vicenda tumultuosa di trasformazioni economiche, demografiche, politiche, culturali che per tanti versi rende unico il percorso millenario del nostro Paese. L’Italia non solo ha potuto far convergere le piante e i saperi agricoli di un vasto mondo, d’Oriente e d’Occidente, grazie alla potenza accentratrice dell’Impero romano, ma ha subìto, anche suo malgrado, le culture e le contaminazioni imposte dalle numerose invasioni e dai vari domini nel corso dell’era volgare. Osservato dal punto di vista agricolo, tale percorso non può non stupire per la molteplicità e ricchezza di elementi che lo compongono. Ricordiamo che, sin dalle origini, la Penisola ci si presenta come un coacervo di popoli e di etnie11. Prima dell’unificazione romana, quella che diventerà l’Italia era un territorio occupato da famiglie e clan di Galli, Liguri, Etruschi, Latini, Sabini, Sanniti, Messapi, Greci, Enotri, Siculi, Sicani ecc.12. E non c’è da stupirsi. Posta nel mezzo 10   Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo, I, cit., pp. 94 e ss.; Id., Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, Bompiani, Milano 1987. Una pagina significativa sulla pesca nel Sud in P. Tino, L’Italia meridionale e il mare. Pesca natura e insediamenti costieri tra XVIII e XX secolo, in P. Bevilacqua e P. Tino (a cura di), Natura e società. Studi in memoria di Augusto Placanica, Meridiana-Donzelli, Roma 2005, pp. 97 e ss. Sul Mediterraneo oggi, Agenzia europea dell’ambiente, Stato e pressioni sull’ambiente marino del Mediterraneo, Copenaghen 2000. Un quadro sommario delle maggiori varietà ittiche e del loro utilizzo culinario anche negli altri paesi rivieraschi in A. Davidson, Il mare in pentola. Pesci, crostacei e molluschi del Mediterraneo, Mondadori, Milano 1997. 11   C. Barberis, Le campagne italiane da Roma antica al Settecento, Laterza, RomaBari 1997, pp. 7 e ss.; M. Panetta, Il mondo antico. Dai Babilonesi ai Romani. Alle origini della dieta mediterranea, in Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, L’alimentazione nel mondo antico. Cibi e libri, Libreria dello Stato, Roma 1987, pp. 23 e ss. 12   Rimandiamo in maniera necessariamente sommaria a M. Cipolloni Sampò, Il neolitico dell’Italia peninsulare, in Forni e Marcone (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, I, L’età antica. 1. Preistoria, cit., pp. 173 e ss. Sugli Etruschi, che vantavano for-

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del Mediterraneo, ricca di acque, di terre fertili, di clima mediamente temperato, la Penisola non poteva non attrarre le genti in transito in quella regione avanzata del mondo antico13. Alcune di queste famiglie, infatti, provenivano da altre terre e avevano attraversato il mare e comunque tutte possedevano le proprie culture agricole e pastorali, i propri saperi culinari più o meno reciprocamente contaminati. E non appaia eccessivo questo riandare a un tempo così remoto del nostro passato, a popoli delle cui agricolture, in genere, sappiamo abbastanza poco. Ancora agli inizi del Novecento uno storico dell’agricoltura italiana poteva tranquillamente affermare: «Data la disuguaglianza fortissima tra provincia e provincia d’Italia, e non solo per condizioni di terreno, di clima, di vicinanza maggiore o minore al mercato, ma ben anche per caratteri etnici delle rispettive popolazioni, occorrerebbe una storia speciale per ciascuna di esse»14. La comprensione dell’agricoltura vuole i tempi lunghi della storia. Diversamente dai prodotti industriali, frutto di una storia recente e continuamente sottoposti a trasformazione, i beni agricoli possiedono una continuità millenaria legata alla loro struttura genetica. Benché soggetti anch’essi a selezioni e ibridazioni, oggi sono sulla nostra tavola gli stessi alimenti di cui si nutrivano i nostri antenati diverse migliaia di anni fa. Il grano del nostro pane e della nostra pasta, con tutte le sue innumerevoli modificazioni, ha circa diecimila anni di storia. Non è meno antica la patata, proveniente dalle Ande peruviane o dalle alte valli del Cile. E non certo breve potrebbe essere l’elenco di frutta e legumi che hanno alle spalle un così lungo passato. D’altro canto, la continuità degli elementi botanici, tra il mondo antico e il mondo moderno, è stata accertata per uno dei rivolgimenti agricoli più rilevanti e più studiati che segnano l’età contemporanea: il processo storico che va sotto il nome di rivoluzione agricola inglese l’agricoltura più avanzata nell’Italia pre-romana, G. Sassatelli, L’alimentazione degli etruschi, in J.-L. Flandrin e M. Montanari (a cura di), Storia dell’alimentazione, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 135 e ss. Un rapido sguardo d’insieme a questa fase ora anche in F. Parasecoli, Al dente. Storia del cibo in Italia, Leg Edizioni, Gorizia 2014, pp. 25 e ss. 13   Un vasto affresco del Mediterraneo preistorico, in cui si evidenzia una sorprendente mobilità di uomini e scambi di manufatti, in C. Broodbank, Il Mediterraneo. Dalla preistoria alla nascita del mondo classico, Einaudi, Torino 2015. 14    V. Niccoli, Saggio storico e bibliografico dell’agricoltura italiana dalle origini al 1900, Unione Tipografico-Editrice, Torino 1902, p. 27.

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se. Ha scritto Mauro Ambrosoli in una sua fondamentale ricerca: «Un dato risulta inequivocabile: la restrutturazione dell’agricoltura dell’Europa occidentale venne condotta su un patrimonio botanico già in possesso all’agricoltura antica»15. La grande eredità romana Una Penisola così varia e diversificata per condizioni fisiche naturali, al centro dei traffici mediterranei, a partire dal I secolo d.C. è diventata il cuore della prima globalizzazione agricola della storia umana. La formazione dell’Impero romano ha completato un processo grandioso di trasferimento e acclimatazione di piante da ogni regione del mondo sui suoli dell’Italia. E usare il termine Italia qui non è anacronistico, perché in età imperiale già lo si faceva. Da tempo, per la verità, l’azione colonizzatrice, militare e commerciale della Roma repubblicana aveva già creato una circolazione e comunicazione tra le varie agricolture regionali della Penisola. Ma con l’Impero, grazie soprattutto alla conquista del Mediterraneo orientale, si fa stabile il processo di immissione progressiva di nuove piante, tanto nelle colonie quanto nella madre patria, da varie campagne del mondo16. A tal proposito suona oggi esemplare la testimonianza di uno dei più grandi eruditi del mondo antico, Plinio il Vecchio, il quale suggerisce un’idea di quanto il nostro Paese fosse allora crocevia del cosmopolitismo dell’agricoltura mediterranea e dei suoi contatti familiari con l’Asia: «In questi ultimi 10 anni è stato introdotto in Italia dall’India un miglio di colore nero a grani grossi, e con lo stelo che somiglia alla canna. Cresce in altezza fino a 7 piedi, ha lunghissime chiome»17. D’altro canto, noi possediamo un vero monumento testimoniale del carattere cosmopolita dell’agricoltura italiana in questa fase. La 15   M. Ambrosoli, Scienziati, contadini e proprietari. Botanica e agricoltura nell’Europa occidentale, 1350-1850, Einaudi, Torino 1992, p. 423. 16   Cfr. A. Dosi e G. Pisani Sartorio, Ars culinaria. Dal Piemonte alla Sicilia i piatti degli antichi Romani sulle loro (e sulle nostre) tavole, Donzelli, Roma 2012, pp. 18 e ss. 17   P. Bevilacqua, I caratteri originali dell’agricoltura italiana, in C. Petrini e U. Volli (a cura di), La Cultura italiana, vol. VI, Cibo, gioco, festa, moda, Utet, Torino 2009, p. 10.

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Res rustica di Columella – che condensa al livello più alto i molteplici saperi del mondo occidentale in materia di agricoltura e allevamento, fondando anzi la scienza agronomica18 – offre uno stupefacente repertorio della varietà di piante, ortaggi, frutta che vegetavano nelle campagne italiane (ma in parte anche europee) della prima età imperiale. E a quell’epoca i nomi indicanti le varietà conservavano ancora la loro origine geografica, vera o presunta che fosse. Ad esempio, Columella ci informa sull’esistenza del fico africano, calcidico, libico, lidio, rodio ecc., oppure dell’uva sorrentina, gallica, libica, pompeia­ na; delle varie lattughe di Cappadocia, della Betica, di Cadice, di Cipro; della pera siriana, mirapia, favoniana ecc., e altre che «sarebbe lungo enumerare»19. Dunque, nelle nostre campagne, già in età antica le popolazioni contadine avevano consuetudine con una straordinaria biodiversità agricola insieme a un repertorio non comune di varietà delle stesse specie. E potevano dunque dar vita, con una creatività che ad altri popoli era impedita, a una cucina di straordinaria multiformità e ricchezza. Appare perciò abbastanza comprensibile come tali saperi “bassi”, appresi, applicati e sperimentati sul suolo e nelle cucine, si siano poi trasferiti alle classi alte della società imperiale romana, che li hanno adottati e arricchiti per le loro sontuose manipolazioni culinarie. Com’è noto agli studiosi, per avere una idea abbastanza dettagliata del livello raggiunto dalla cucina romana nella prima età imperiale, utilizziamo – oltre alle tracce sparse nella grande tradizione letteraria latina – un testo specifico, assai prezioso. Benché probabilmente incompleto, alterato e manipolato, il De re coquinaria di Marco Gavio Apicio mostra non solo il grado di raffinatezza dei gusti alimentari della nobiltà romana, ma anche la stupefacente ricchezza di elementi vegetali e animali che concorrevano a fare della tavola delle classi alte un repertorio di incomparabile opulenza. E anche in questo caso, come in Columella, si può osservare la natu18   A. Saltini, Il sapere agronomico. Empirismo e sapere scientifico: nasce a Roma la scienza agronomica, in G. Forni, A. Marcone (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, I, L’età antica. 2. L’Italia romana, Accademia dei Georgofili, Polistampa, Firenze 2002. 19   Columella, L’arte dell’agricoltura e libro sugli alberi, traduzione di R. Calzecchi Onesti, Introduzione e note di C. Carena, Einaudi, Torino 1977, p. 397. Si veda in sede storica, A. Marcone, La circolazione dei prodotti. Roma megalopoli, in Forni e Marcone (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, I, L’età antica. 2. L’Italia romana, cit., pp. 334 e ss.

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ralezza con cui si nominano piante e ingredienti del mondo mediterraneo e orientale entrati nei ricettari romani. A proposito di un «Elettuario per la digestione», cioè un preparato sciropposo per ben digerire, Apicio consigliava: «prendi 60 g di cumino, 30 g di zenzero, 30 g di ruta verde, pochi datteri polposi, 30 g di pepe, 270 g di miele; il cumino sia o etiopico o libico o siriaco»20. Ma impressionante oggi appaiono, alla luce della ricostruzione storica, il numero e la varietà degli alimenti presenti nella cucina di allora: i molteplici tipi di pane, e di “paste” (su cui ritorneremo), la copiosa disponibilità di erbe e di ortaggi, la gran parte dei quali familiari ormai da secoli sulle nostre tavole, dai cetrioli alle zucche (provenienti dall’India), ma allora arricchiti dalla presenza anche di tuberi e radici a noi oggi ignoti, come ad esempio la colocasia. Non meno stupefacente è il numero di frutti freschi, secchi, selvatici, presenti a tavola o lavorati nelle confetture21. E a tal proposito giova ricordare che in età imperiale diventano familiari piante importanti come il pesco (prunus persica), in realtà originario della Cina e trasmigrato in Medio Oriente, o l’albicocco (prunus armeniaca), questo sì probabilmente proveniente dalla Persia22. Ma prodigiosamente ampio era poi il repertorio degli altri elementi che dalle campagne entravano nella cucina imperiale: i semi, utilizzati in vario modo, le spezie, gli aromi secchi e in sciroppo, naturalmente le olive e i vari oli regionali e infine le uve e i vini, davvero innumerevoli, provenienti dalle province italiche con la loro tipicità locale (Anconetano, Sorrentino, Venafrano ecc.) o dai dintorni dell’impero23. E così pure impressionante – confezionata in un numero sorprendentemente 20   Apicio, L’arte della cucina. Manuale dell’esperto cuoco della Roma imperiale, Introduzione, traduzione e commento di C. Vesco, Scipioni, Roma 1990, p. 47. Sul cosmopolitismo legato alle spezie, F. Pullia, Stili culinari dell’età imperiale, in M. Montanari e F. Sabban (a cura di), Storia e geografia dell’alimentazione, Utet, Torino 2004, vol. II, pp. 537 e ss. 21   Cfr. E. Salza Prina Ricotti, Alimentazione, cibi, tavola e cucine nell’età imperiale, in Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, L’alimentazione nel mondo antico. I Romani. Età imperiale, Roma 1987, p. 111, che utilizza ampiamente le informazioni di Apicio. F.M. Amato, La cucina di Roma antica, Newton Compton, Roma 2004, p. 147; M. Corbier, La fava e la murena: gerarchie sociali dei cibi a Roma, in Flandrin e Montanari (a cura di), Storia dell’alimentazione, cit., pp. 161 e ss. 22   G. Barbera, Tuttifrutti. Viaggio tra gli alberi da frutto mediterranei fra scienza e letteratura, Prefazione di C. Petrini, Mondadori, Milano 2007, pp. 12 e ss. e p. 172; Dosi e Pisani Sartorio, Ars culinaria, cit., pp. 74 e ss. 23   Cfr. Salza Prina Ricotti, Alimentazione, cibi, tavola, cit., pp. 75-80.

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elevato di piatti – è la varietà delle carni. Si trattava di un alimento da cui i poveri erano in genere esclusi e ricavato sia dai normali allevamenti, specializzati o domestici, sia dalla cacciagione24. Mentre analogo ricco repertorio si ritrova per quanto riguarda molluschi, crostacei e pesci che i Romani, avevano imparato ad allevare sin dall’età repubblicana25. Non deve sorprendere più di tanto la ricchezza alimentare e la sontuosità della cucina imperiale romana, se si rammenta che in quell’angolo della Terra dove sono fiorite le prime grandi civiltà umane, tra Medio Oriente e Mediterraneo, già intorno al 1700 a.C. l’alimentazione delle classi alte aveva raggiunto livelli di particolare ricchezza. Come ha illustrato l’assirologo francese Jean Bottéro, è stato grazie alla tardiva lettura di alcune tavolette in scrittura cuneiforme, appartenenti all’Università di Yale, in Usa, scambiate a lungo per prescrizioni farmaceutiche e rivelatesi ricette culinarie, che è stato possibile scoprire la cucina dell’antica Mesopotamia26. Vale a dire l’elaborazione culinaria di una regione in cui la fertilità della terra, la ricchezza d’acqua di due grandi fiumi e la potenza dell’irraggiamento solare consentirono un’agricoltura storicamente precoce e particolarmente ricca in mezzo ad altipiani desertici. Grazie a queste fonti siamo in grado di conoscere le portate di un banchetto reale di 1600 anni avanti Cristo27 e di stilare un inventario impressionante di derrate che costituivano il rancio degli antichi mesopotami: cereali, verdure varie, frutta – essenzialmente cocco, ma anche mele, pere, fichi, melograni, uva – bulbi e radici, “tar24   I Romani utilizzavano i vivaria, riserve recintate in cui allevavano animali di grossa taglia e anche specie esotiche (Pullia, Stili culinari, cit., p. 537). 25   È Plinio il Vecchio a rammentare, nel libro X delle sue Storie naturali, l’introduzione dell’allevamento di ostriche, di murene e di altri pesci già in età repubblicana, oltre alla pratica di “seminare” pesce proveniente da altri mari lungo le coste dell’Italia (Plinio il Vecchio, Storie naturali (Libri VIII-XI), a cura di F. Maspero, Rizzoli, Milano 2011, pp. 289-291 e p. 219 a proposito del ripopolamento del pesce scaro). 26   J. Bottéro, La più antica cucina del mondo, in AA.VV., La cucina e la tavola, Presentazione di J. Ferniot e J. Le Goff, Dedalo, Bari 1987, pp. 38 e ss. Cfr. anche L. Milano, La Mesopotamia, in Montanari e Sabban (a cura di), Storia e geografia, cit., vol. I, pp. 19 e ss. Per le origini e i contributi più remoti del mondo orientale all’agricoltura e all’alimentazione, C. Boudan, Le cucine del mondo. Geopolitica del gusto, Presentazione di C. Trimani, Donzelli, Roma 2005, pp. 35 e ss. e passim. 27   J. Bottéro, La plus vieille cuisine du monde, Éditions Louis Audibert, Paris 2002, pp. 157 e ss.

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tufi” e funghi, erbe da condimento, carni grasse e soprattutto bestiame minuto, maiali, pollame, con l’esclusione dei gallinacci, arrivati più tardi, di cui si consumavano anche le uova, e la cacciagione, pesci di mare e di acqua dolce, cheloni, crostacei e frutti di mare e, tra gli insetti, almeno le cavallette; latte, “burro” ed altri grassi animali (strutto ecc.) e vegetali (sesamo ed olio); manne di alberi vari, poi miele d’api per addolcire i cibi e prodotti minerali (sale, cenere?) per dare maggiore consistenza al sapore28.

Roma imperiale non riuscì mai ad assoggettare pienamente quelle terre e quei popoli, anche nella fase del loro declino, ma è facile immaginare la circolazione di piante, alimenti e saperi che dovette svolgersi tra quella regione e il Mediterraneo prima dell’era cristiana e immediatamente dopo, anche grazie alla grande unificazione compiuta in precedenza da Alessandro Magno29. Gli orti arabi Com’è noto da tempo il medioevo non costituì solo la perdita gigantesca dell’eredità romana, agricola e culinaria, accompagnata dal tracollo delle città. Se è vero che per secoli sia i saperi agronomici sia gli elementi della cucina di quell’epoca di splendore scomparvero dalla nostra Penisola, o comunque si dispersero – in modi che ci rimangono ignoti – nelle varie isolate comunità, è anche vero che i popoli venuti dal Nord portarono e innestarono in area mediterranea le loro particolari culture agricole e soprattutto pastorali30. I popoli del Nord erano infatti prevalentemente allevatori. Tacito aveva notato, con un certo disprezzo “cittadino”, che i Germani vivevano insieme ai loro animali e ignoravano gli alberi da frutta e le città31.    Bottéro, La più antica cucina del mondo, cit., p. 29.    Una sorgente fondamentale di globalizzazione agricola che portò a Roma semi e piante anche dalla lontanissima Cina furono in realtà le spezie, la cui presenza nell’Occidente antico è stata sottovalutata (cfr. Dosi e Pisani Sartorio, Ars culinaria, cit., p. 126). 30   M. Montanari, Modelli alimentari e identità italiana, in Petrini e Volli (a cura di), La Cultura italiana, cit., p. 73; M. Montanari, Il cibo come cultura, Laterza, RomaBari 2004, pp. 13-14. 31    Tacito, Germania, a cura di E. Risari, Mondadori, Milano 1991, pp. 23 e 29. 28 29

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Del resto, persino i Longobardi invasori, insediatisi in parte della Penisola tra il VI e il IX secolo, vennero ad arricchire, con le loro tradizioni dell’allevamento degli animali, soprattutto del maiale, culture già presenti, ovviamente fra le popolazioni di area padana e che si svilupparono nei secoli successivi grazie anche all’affermarsi del paesaggio del bosco. Anche se, per tutta l’età moderna, si sarebbero confrontate sul piano culinario due Europe: una dedita al consumo della carne, l’altra, quella mediterranea, al consumo delle erbe32. Ma a proposito di allevamenti giova ricordare che nel tardo medioevo fa la sua comparsa, nelle campagne del Mezzogiorno, ed esattamente negli stagni e acquitrini della valle del Sele, il bufalo. Nessuna fonte documentaria è in grado di informarci con certezza su quale sia stata la sua provenienza, se sia stato introdotto dai Longobardi o se sia arrivato dalla Sicilia. Ma è accertato che, a partire dal 1265, questo bovide trova il suo habitat naturale nelle terre umide della piana di Battipaglia sia per lavoro, per la pulizia dei canali infestati dalle erbe, sia soprattutto per il latte e per la fabbricazione di formaggio. Una attività destinata a diventare un’economia diffusa su un territorio più vasto e a produrre quella mozzarella che da tempo è ormai universalmente riconosciuta come uno dei formaggi più pregiati esistenti al mondo33. È fuor di dubbio, come ha messo in luce più volte Massimo Montanari, che nel medioevo la cultura alimentare del nostro Paese finisce col fondere la propria tradizione mediterranea con quella del Nord Europa, con un insieme di arricchimenti e trasformazioni che investono anche il gusto. Ma, osservato dal punto di vista della storia dell’agricoltura, il medioevo, soprattutto nei secoli IX e X, si rivela una fase storica che dilata ulteriormente le relazioni – che erano state così centrali nel mondo imperiale romano – tra Occidente e Oriente. Sono 32   M. Baruzzi e M. Montanari (a cura di), Porci e porcari nel Medioevo: paesaggio, economia, alimentazione, Clueb, Bologna 1981, pp. 27-42; S. Cinotto, La civiltà del grasso. Prodotti tipici e cultura del maiale nel Piemonte orientale, Edizioni Mercurio, Vercelli 2005, pp. 13-14. Sulle due Europe, M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 137 e ss. Sul paesaggio del bosco, gli allevamenti ecc., si veda ora R. Raho, I paesaggi dell’Italia medievale, Carocci, Roma 2015, pp. 49 e ss. e pp. 124 e ss. 33   Si veda il persuasivo saggio di P. Cantalupo, La comparsa del bufalo nelle terre del Salernitano, nonché L. Rossi, La piana, il principe e la bufala. Note storiche sull’allevamento bufalino nella provincia di Salerno, in P. Cantalupo (a cura di), Il bufalo nella storia e nell’economia del Salernitano, «Annali cilentani», Quaderno 1, 1990.

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infatti gli Arabi a continuare e a rendere più sistematica e più vasta la contaminazione – che aveva avuto il suo epicentro prima in Grecia e poi a Roma – con il Vicino e Medio Oriente. Gli Arabi infatti accompagnarono la loro fulminea espansione militare con una operazione di trasferimento di piante, soprattutto dall’India – la grande madre delle piante antiche – grazie a sistemi intensivi di irrigazione in cui furono maestri, con tecniche di coltivazione particolarmente avanzate, al punto da indurre uno storico inglese, Andrew M. Watson, a utilizzare l’espressione «rivoluzione agricola araba del medioevo»34. In effetti, se non fu rivoluzione – implicante anche processi rilevanti di trasformazione sociale –, certamente si trattò di un vasto processo di innovazione agronomica e di acclimatazione di piante tropicali, grazie all’uso sapiente e intensivo dell’acqua in zone aride o comunque temperate. Le varietà botaniche asiatiche – che godevano nei luoghi d’origine di un clima caldo e dell’apporto fondamentale delle piogge monsoniche nei mesi dell’estate – vennero impiantate nella Penisola arabica, in Nord Africa, ma anche in Andalusia e nella nostra Sicilia35. E si trattò di piante di grande importanza per l’avvenire e l’arricchimento delle cucine antiche. Gli Arabi portarono in Sicilia il riso asiatico (Oryza sativa) – da distinguere da quello africano (Oryza glaberrima), coltivato per alcuni millenni in Africa occidentale –, una pianta dei climi tropicali che aveva origini molteplici: l’India, la Cina, la Thailandia36. Già un altro cereale indiano si era diffuso in Nord Africa e in Europa, aggiungendosi al grano, al miglio, all’orzo con cui si sfamavano da millenni le popolazioni dell’Occidente: il sorgo. Ma con gli Arabi diventava allora sistematica la diffusione di questo straordinario grano dell’Oriente che era il riso, con le sue numerosissime varietà, conosciuto da alcuni millenni nei luoghi d’origine, di gran lunga più produttivo dei 34   A.M. Watson, The Arab Agriculture Revolution and its Diffusion (700-1100), in «The Journal of Economic History», 1974, n. 1. 35   T.G. Glick, Hydraulic Technology in Al-Andalus, in S. Khadra Jayyusi (edited by), The legacy of Muslim Spain, E.J. Brill, Leiden, New York-Köln 1994, vol. II, p. 974. L’autore rammenta che spesso gli agricoltori arabi utilizzarono o ripresero intensivamente infrastrutture irrigatorie già create in Spagna e altrove dai Romani. 36   A.M. Watson, Agricultural Innovation in the Early Islamic World, Cambridge University Press, Cambridge 1983, p. 15; D. Brothwell e P. Brothwell, Food in Antiquity. A Survey of the Diet of Early People, John Hopkins University Press, BaltimoreLondon, pp. 102 e ss.

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cereali tradizionali. Esso venne acclimatato nelle regioni temperate dell’Occidente dovunque esistessero abbondanti risorse idriche e trovò nuove patrie a Valencia e in Sicilia, dove, per quel po’ che se ne sa, svolse una funzione agricola e alimentare importante37. Dalla Sicilia, per vie che rimangono ignote, il riso trasmigrò nel Nord Italia, trovando habitat più confacenti – sia per la ricchezza di acque che per la mancanza o minore virulenza della malaria – nella Bassa Lombardia e nel Piemonte orientale. Almeno a partire dal XV secolo – ma forse anche dal secolo precedente – il riso si ritrova in ambiente lombardo grazie all’abbondanza di acque e alla diffusione di paludi che rendevano conveniente la coltivazione e l’uso di terre marginali38. Da questo oscuro passaggio storico ha origine l’attuale primato italiano di maggiore produttore di riso in Europa, ma al tempo stesso una secolare tradizione culinaria di risotti svariatissimi, che ormai ha travalicato i tradizionali confini lombardi. Ritorneremo sui cereali, per annodare un altro legame che connette la nostra cucina, grazie a un alimento fondamentale della nostra tradizione, all’azione innovatrice degli agricoltori arabi. Ma prima occorre ricordare altre piante, sconosciute al mondo classico, che gli Arabi portano nelle campagne della Sicilia e che poi risaliranno la Penisola. E tra queste un rilievo di primissimo piano hanno gli agrumi, destinati a dare una impronta di assoluta originalità al nostro paesaggio, oltre ad arricchire di nuove essenze la nostra cucina. A parte il cotone, arrivano nell’isola, nel corso del secoli VIII e IX, il cedro, l’arancio amaro, il limone, la lima, il pomelo (Citrus grandis). Il cedro (Citrus medica) era per la verità già conosciuto dai Romani 37   Watson, Agricultural Innovation, cit., p. 17. Per una più ampia geografia della diffusione del riso, Te-Tzu Chang, Rice, in K.F. Kiple, K.C. Ornelas (edited by), The Cambridge World History of Food, Cambridge University Press, Cambridge 2000, vol. I, pp. 39 e ss. 38   Sulla diffusione del riso, G. Novelli e G. Sampietro, La risicultura e la malaria nelle zone risicole d’Italia, Ministero dell’Interno, Ministero dell’Economia Nazionale, Roma 1925. L. Messadaglia, Per la storia delle nostre piante alimentari. Il riso, Tipografia S. Bernardino, Siena 1938; P. Bevilacqua, Le rivoluzioni dell’acqua. Irrigazione e trasformazioni dell’agricoltura tra Sette e Novecento, in Id. (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, I, Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1989, pp. 271 e ss. Vero è che nel testo di Anonimo Toscano, Il libro della cocina, del XIV secolo, compare una ricetta di Riso per li ‘nfermi (E. Faccioli, Arte della cucina. Libri di ricette. Testi sopra lo scalco, il trinciante e i vini dal XIV al XIX secolo, Edizioni il Polifolo, Milano 1966, p. 55).

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ma è molto probabile che esso, in ragione della sua lunga conservabilità, arrivasse in Italia per vie commerciali e che fosse poco o nulla coltivato. Non sempre alla conoscenza di un frutto o di una pianta corrispondevano il sapere tecnico e la pratica della sua coltivazione. E infatti uno dei meriti dei coltivatori arabi, oltre al trasferimento di biodiversità botanica, è la perizia, la sapienza con cui praticavano le coltivazioni. Essi erano capaci di realizzare agricolture intensive, in grado di sfruttare la terra col massimo risultato produttivo, grazie al sapiente uso dell’acqua e all’associazione delle piante, alle rotazioni e alle concimazioni. La riconquista dell’Andalusia da parte dei re Cattolici, mostra come la cacciata dei moriscos a partire dal XVII secolo dalle terre che avevano coltivato per alcuni secoli corrisponda all’abbandono di una agricoltura altamente intensiva e accurata39. D’altra parte, grazie alla ricostruzione che ne ha fatto uno storico francese, Henri Bresc, noi abbiamo una testimonianza esemplare del grado di civiltà agricola raggiunta dagli Arabi in Sicilia, in virtù delle fiorenti agricolture ancora presenti nella Conca d’Oro nel XIV secolo40. Un luogo per il quale non mancano ammirate testimonianze di viaggiatori e studiosi. Nel 1139, ospite a Palermo alla corte di Ruggero II, il geografo arabo Al-Idrisi poteva scrivere ammirato: «dentro la cerchia delle mura che tripudio di frutteti, quale magnificenza di ville e quante acque dolci correnti, condotte in canali dai monti»41. Gli agrumi operarono in Sicilia e poi nel resto del Sud un significativo mutamento nel paesaggio, perché essi si inserirono nel vecchio “giardino mediterraneo”, probabilmente di origine greca, descritto da Emilio Sereni, che racchiudeva entro muretti e recinzioni di difesa dalle capre e dalle pecore alberi d’ulivo, la vite, il mandorlo, il gelso nero ecc.42. Ma sicuramente essi entrarono nell’alimentazione e nella preparazione dei piatti in cucina. Il limone, così come la 39   Watson, Agricultural Innovation, cit., p. 184. Più specificamente E. Garcia Sánchez, Agriculture in Muslim Spain, in Khadra Jayyusi (edited by), The Legacy of Muslim Spain, cit., pp. 991 e ss. 40   H. Bresc, Les jardins de palerme (1290-1460), in «Mélanges de l’École française de Rome», 1974, n. 84; G. Barbera, Conca d’oro, Sellerio, Palermo 2012, pp. 60 e ss. 41   Barbera, Conca d’oro, cit., p. 66. In una prospettiva proiettata verso gli sviluppi dell’età contemporanea si veda anche l’ampia monografia di S. Lupo, Il giardino degli aranci. Il mondo degli agrumi nella storia del Mezzogiorno, Prefazione di M. Aymard, Marsilio, Venezia 1990, pp. 15 e ss. 42    E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1962, p. 39, p. 100 e passim.

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canna da zuccherro – altra pianta introdotta dagli Arabi in Sicilia e destinata a un grande avvenire nei secoli successivi in tutta Europa –, si affiancarono o sostituirono nella preparazione e conservazione di alcuni cibi l’aceto e il miele, che avevano dominato nella cucina romana e del mondo antico. Furono perciò elementi importanti per la formazione di un nuovo gusto nel medioevo43. La capacità degli agricoltori arabi di acclimatare in Occidente piante tropicali grazie al sapiente uso dell’acqua, che si espresse al meglio con la coltivazione della canna da zucchero, trovò tuttavia la sua più larga e più fortunata applicazione nella coltivazione degli ortaggi. È un aspetto largamente ignorato eppure utile per comprendere come si è formata la nostra tradizione culinaria. Alcuni di questi ortaggi sono diventati fondamentali nella nostra cucina: gli spinaci, le melanzane, probabilmente trasportate dalla Persia al tempo della Conquista, e i carciofi, che i Romani conoscevano in forma di cardo selvatico e che evidentemente gli Arabi sostituirono con varietà geneticamente migliorate. Naturalmente anche gli ortaggi e le varie erbe conosciute già nel mondo antico entravano nell’orticoltura irrigua dell’Andalusia, di Valencia e della Sicilia, ma spesso con nuove e più produttive varietà. L’agricoltura degli Arabi, come ormai sappiamo da testimonianze autorevoli lasciateci da alcuni suoi grandi agronomi, non solo acclimatava in Occidente piante nate in Oriente, ma praticava, grazie alla straordinaria conoscenza della botanica, tecniche agricole avanzate (innesti, potature delle piante, tipi di rotazione, modi di semina, forme di irrigazione ecc.) che hanno contribuito a rendere poi stabili e durature le loro innovazioni44. Infine, occorre ricordare un contributo rilevante dato dagli Arabi alla nostra agricoltura e alla nostra cucina, quello meno noto, anche se legato a una questione storiograficamente controversa. È l’intro43   Watson, Agricultural Innovation, cit., p. 28. Sulla canna da zucchero nella piana di Palermo, Barbera, Conca d’oro, cit., pp. 82 e ss. Sul ruolo degli agricoltori siciliani che, grazie ai mercanti portoghesi, lo diffusero in Europa, A. Huetz Lemps, Bevande coloniali e diffusione dello zucchero, in Flandrin e Montanari (a cura di), Storia dell’alimentazione, cit., pp. 490 e ss. Per il mutamento del gusto e la creazione di dolci grazie allo zucchero, Capatti e Montanari, La cucina italiana, cit., p. 60; Parasecoli, Al dente, cit., p. 94. Per il suo uso nella farmacopea d’Europa, S.W. Mintz, Storia dello zucchero. Tra politica e cultura, Einaudi, Torino 1990, p. 105. 44   James Dickie (Yaqub Zaki), The Ispano-Arab Garden: Notes Towards a Typology, in Khadra Jayyusi, The Legacy of Muslim Spain, cit., pp. 1018 e ss., che si sofferma soprattutto sui giardini nelle città andaluse.

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duzione in Sicilia e nel Sud della Spagna del grano duro, il Triticum durum, con cui nell’era volgare si è cominciato a fare la pasta. Secondo Watson, questa varietà di cereale, originaria dell’Abissinia e di alcune regioni del Sud e dell’Est del Mediterraneo, era sconosciuta nelle aree in cui verrà coltivata solo dopo l’ascesa dell’Islam. Ritrovamenti archeologici hanno mostrato la sua presenza soltanto nell’Egitto bizantino, ma non altrove. Solo dopo la Conquista si diffuse in tutto il Mediterraneo mussulmano, nel Maghreb, nell’Asia centrale, in Spagna e in Italia45. Grazie al grano duro si realizzò l’«assai comune semolino per il cous cous del Nord Africa e di alcune altre paste del mondo arabo». E con molta probabilità da quel tipo di pastificazione – ma sicuramente da quella varietà di grano – provengono i nostri maccheroni e poi gli spaghetti e insomma i nostri tipi di pasta, l’alimento principe della cucina italiana. Sappiamo che già i Romani, com’era abbastanza inevitabile, vista l’esperienza secolare nell’uso delle farine, realizzavano alcuni tipi di paste come la lagana ecc.46. Non è però noto come si sia passati alla pasta medievale italiana. A suo tempo anche Emilio Sereni dichiarò, in un suo celebre saggio, la difficoltà di ricostruire questa storia. Sebbene, sbagliando, egli cercò di provare la primogenitura della fabbricazione della pasta a Napoli47. Ancora oggi gli storici registrano questa difficoltà48. E Watson, con lo scrupolo dello studioso di rango, ricorda anch’egli prudentemente che se la diffusione del grano duro da parte degli Arabi è fuori discussione, certamente «La storia dei macaroni, spaghetti e altre paste fatte di grano duro è più difficile da tracciare». E tuttavia egli aggiunge un tassello importante a questa vicenda. Le parole italiane e iberiche che definiscono la pasta sono ricavate dall’arabo itrīya: una radice che sembra indicare una comune origine e storia49. Gli storici ci assicurano però che la pasta è presente nei ricettari arabi già nel IX secolo, mentre risulta    Watson, Agricultural Innovation, cit., pp. 20-21.    Capatti e Montanari, La cucina italiana, cit., p. 59. Per le varie “paste” nella cucina imperiale romana (Alica, Siligo, Simila ecc.), Salza Prina Ricotti, Alimentazione, cibi, tavola e cucine nell’età imperiale, cit., p. 72. 47   E. Sereni, Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno. I Napoletani da “mangiafoglia” a “mangiamaccheroni”, in Id., Terra nuova e buoi rossi e altri saggi per una storia dell’agricoltura europea, Prefazione di R. Zangheri, Einaudi, Torino 1981. 48    Dickie, Con gusto, cit., p. 25. 49    Watson, Agricultural Innovation, cit., p. 22. 45 46

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ampiamente diffusa nella Sicilia occidentale e oltre fin dal XII secolo. Il geografo arabo Al-Idrisi che, come abbiamo già visto, viveva alla corte di Ruggero II il normanno nel XII secolo, testimonia che a Trabia, nei pressi di Palermo, «si fabbricano i vermicelli /itrīya/ in tale quantità da approviggionare oltre ai paesi della Calabria, quelli dei territori musulmani e cristiani»50. Nuove agricolture per nuovi cibi Rammentiamo che non è nostra intenzione rifare, sia pure in breve, una storia della cucina italiana. Esiste in proposito una sterminata letteratura, italiana e internazionale, parte della quale autorevolissima, che – nel caso si possedesse la competenza e l’energia per tentarla – renderebbe del tutto superflua l’impresa. E appare giusto qui aggiungere che, in tale ambito disciplinare, la ricerca storica rende veramente giustizia, una volta tanto, alla grandezza della nostra tradizione nazionale. Ma il nostro fine, più limitato, è utilizzare anche questo patrimonio storiografico per mostrare gli elementi di originalità, provenienti dal mondo agricolo e dell’allevamento, ma anche dalle peculiarità della geografia e della più generale storia italiana: i dati di natura e cultura che hanno concorso a formare il grande corpus del nostro regime alimentare. E, per il nostro Paese, non si può non partire da un dato di assoluta originalità della sua vicenda alimentare. Lo ricordiamo con le parole di due autorevoli storici della materia, Alberto Capatti e Massimo Montanari: «L’Italia delle cento città e dei mille campanili è anche l’Italia delle cento cucine e delle mille ricette»51. E di questa connotazione occorre riprendere qui non tanto gli elementi della strabordante varietà e diversità di cui ci siamo già occupati, ma in primo luogo rammentare un dato davvero singolare della nostra storia: la preminenza e disseminazione senza pari delle strutture urbane nel territorio della Penisola. Siamo qui di fronte a un dato strutturale, a un elemento originario della nostra storia destinato ad avere un influsso rilevantissi50   Dickie, Con gusto, cit., p. 28. Capatti e Montanari, La cucina italiana, cit., p. 60, ricordano anche il ruolo svolto da Genova e dalle Repubbliche marinare nella diffusione della pasta nell’economia-mondo del tempo. 51   Capatti e Montanari, La cucina italiana, cit., p. vii.

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mo sui caratteri della nostra agricoltura e della nostra cucina52. Un aspetto su cui convergono non pochi studiosi e a cui sarà dedicato un capitolo di questo libro. A volte, in origine, si tratta di un rapporto di dominio, talora anche aspro, da parte dei proprietari terrieri insediati in città, sulle comunità contadine. Henri Desplanques, studiando alcuni statuti delle città umbre, ha mostrato anche le diffuse e dure forme di imposizione che i contadini subivano ad opera dei signori allo scopo di dissodare e colonizzare le loro terre53. E tuttavia – soprattutto ai fini specifici del nostro racconto – occorre rammentare che quelle stesse città, nel corso di alcuni secoli, hanno messo a disposizione i capitali per intraprendere bonifiche, dissodamento di terre, investimenti di miglioramento fondiario e di intensificazione della produzione agricola. Si pensi alle bonifiche e all’espansione della risicultura promosse dalle città del Veneto, dell’Emilia, della Lombardia54. Città che non solo hanno governato e plasmato i loro contadi, come già Cattaneo aveva rilevato55, ma al cui interno i ceti colti hanno elaborato e raffinato i materiali e le ricette del mondo contadino. La cucina infatti, come è stato ricordato per la fase più alta della sua elaborazione, l’età del Rinascimento, impone «un intervento intellettuale che valga a razionalizzare l’attività empirica degli operatori»56. Essa non era solo fatta di pietanze, ma anche di strumentazioni, accoppiamenti, successione dei piatti, combinazio52   C. Barberis, Le campagne italiane da Roma antica al Settecento, Laterza, RomaBari 1997, pp. 177 e ss. Montanari, Il cibo come cultura, cit., p. 28 e passim; Bevilacqua, I caratteri originali, cit., pp. 13 e ss. Da ultimo Dickie, Con gusto, cit., pp. 9-10. 53   H. Desplanques, Campagne ombriennes. Contributions à l’étude des paysages ruraux en l’Italie centrale, Colin, Paris 1969, p. 179. 54   Si veda, ad esempio, S. Ciriacono, Acque e agricoltura. Venezia, l’Olanda e la bonifica europea in età moderna, Franco Angeli, Milano 1994; F. Cazzola, Il ritorno alla terra. Proprietà fondiaria, bonifiche e trasformazioni agrarie nelle campagne italiane del ’400 e del ’500, Università di Bologna, Bologna 1983. 55   C. Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858), in Id., Opere scelte, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, IV, Scritti 1852-1864, Einaudi, Torino 1972. Si vedano ora le pertinenti considerazioni su questo aspetto del pensiero di Cattaneo in G. Consonni, La bellezza civile. Splendore e crisi della città, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2013, pp. 27 e ss. In un quadro europeo, Marino Berengo ha ricordato che «il controllo cittadino sul territorio, se è uno dei caratteri inconfondibili nella storia d’Italia, non è però un fatto italiano soltanto» (M. Berengo, L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed età moderna, Einaudi, Torino 1999, p. 112). 56   E. Faccioli, La cucina, in Storia d’Italia, vol. V, I documenti, tomo I, Einaudi, Torino 1973, p. 993.

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ne delle bevande ecc. che comportavano una elaborazione sofisticata e complessa dell’umana pratica del desinare. È comprensibile che in città come quelle italiane del tardo medioevo e della prima età moderna, popolata e governata da nobili e ricchi mercanti, la straordinaria disponibilità di beni agricoli e di carni animali del contado e di pesci del mare, di fiumi e di laghi – oltre che di vini e spezie provenienti da territori lontani – abbia fornito la possibilità di mettere a frutto per alcuni secoli tutta la creatività e la fantasia che cuochi sempre più specializzati erano in grado di esercitare. Un valente storico inglese, studioso di vicende italiane, il già citato John Dickie, si è spinto ad affermare che «La cucina italiana è una cucina cittadina»57. E, con un ragionamento alla Cattaneo, ha ricordato come le città hanno dato il nome a tanti prodotti e piatti tipici destinati a grande successo e durata: il prosciutto di Parma, i saltimbocca alla romana, la bistecca alla fiorentina, il pesto alla genovese, la pizza napoletana, il risotto alla milanese, il pesto alla trapanese, le olive ascolane, la mostarda di Cremona ecc.58. Osservazione fondata, che conferma il rilievo storico delle città, e che tuttavia rischia di falsificare la realtà storica, perché non esaurisce l’immenso patrimonio rurale della cucina italiana. La quale, come torneremo a vedere, se spesso si presenta con un volto urbano (anche perché documentata e tramandata a noi da testi scritti e quindi da intellettuali cittadini), ha una vastissima base contadina e popolare59. La città ci ha messo sempre la tecnica e il danaro, ma l’origine è sempre nella terra e nei millenari saperi contadini applicati alla sua manipolazione. Non bisogna mai dimenticare che le città non solo costituivano il cuore del potere politico, ma possedevano la scrittura, cioè la capacità e possibilità di nominare le cose, di darne notizia. Un potere che ovviamente mancava ai ceti produttori e alle massaie, normalmente analfabeti. I trattati e i ricettari di cucina si scrivevano in città perché di regola i contadini sapevano produrre il cibo ma non sapevano scriverne. È indubbio tuttavia che le città abbiano svolto un ruolo    Dickie, Con gusto, cit., p. 90.    Ivi, pp. 9-10.    Come ha più volte ricordato Montanari, e come vedremo più avanti. Si veda anche V. Teti, Le culture alimentari nel Mezzogiorno continentale in età contemporanea, in A. Capatti, A. De Bernardi e A. Varni (a cura di), Storia d’Italia. Annali 13. L’alimentazione, Einaudi, Torino 1998, p. 74. Si veda anche A. Morosetti, La cucina rurale italiana, Feltrinelli, Milano 2013. 57 58 59

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di arricchimento e di creatività aggiuntiva, per così dire, nella elaborazione dei piatti. Del resto, è facile immaginare che in nessuna casa di contadino, per quanto agiato, si potessero sperimentare così tante combinazioni di erbe, legumi, farine, sughi, aromi, ortaggi, frutta, spezie, condimenti ecc. come nelle dimore dei ceti alti delle città. Qui infatti è avvenuto l’incontro fra la sapienza tutta popolare, normalmente affidata alle donne, nell’uso e selezione dei semi, nella raccolta e conservazione delle piante e nella realizzazione dei piatti in cucina, e l’elaborazione intellettuale dei ceti colti. Da questa fusione realizzata nei centri urbani è nata una letteratura di prima grandezza, destinata a fare scuola in Europa e nel mondo. Una fioritura di trattatistica e di componimenti che ha fatto dell’Italia sino a buona parte del XVII secolo il centro di irradiazione della cultura alimentare in Europa. È stato scritto in proposito: Sono toccati alla cultura italiana il merito e la responsabilità di elaborare le strutture e le forme di tale letteratura, di portarla per gradi alla pienezza espressiva in virtù di apporti individuali e collettivi – da parte di modesti cittadini, di principi, di prelati, di uomini di scienza, di tecnici, di eruditi, di moralisti – di accompagnarla fino al limite della maturità, segnato nell’età del Rinascimento, quando a una trattatistica di rango corrisponde un costume conviviale condotto (...) a spiegate manifestazioni di una straordinaria sapienza organizzativa e inventiva, alla sublimazione di ogni gesto e accadimento nei momenti emozionanti di un rituale laico60.

È pur vero, come ha ricordato spesso Montanari, che «L’apporto della cultura popolare alla costruzione del modello alimentare italiano sembra infatti essere stato particolarmente rilevante. La gastronomia urbana dell’Italia medievale e moderna mostra un forte retrogusto rurale, percepibile con chiarezza, anche se con evidenza non immediata, nei libri di cucina e in tutta la documentazione. Non è una semplice opposizione/integrazione fra campagna e città, ma più in generale una complicità fra cultura dei ceti subalterni e cultura dei ceti dominanti, borghesi o nobiliari»61. Certo è che la disponibilità finanziaria dei mercanti e del patriziato cittadino comporta per lo sviluppo della cultura alimentare italiana    Faccioli, La cucina, cit., p. 994.    Montanari, Modelli alimentari e identità italiana, cit., p. 78.

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questa rilevante novità: mettere in opera, trasformare in cibo, tutta la straordinaria biodiversità che era diffusa allo stato potenziale nelle campagne e nei vari habitat della Penisola. Con qualche aggiunta di spezie ed essenze che il commercio mondiale faceva agevolmente giungere nelle nostre città. Così nel trattato di Anonimo Toscano, Libro della cocina (XIV secolo), si resta sbalorditi nel leggere le ricette in cui compaiono tutti i componenti vegetali, erbe e legumi, dai cavoli ai finocchi, dalla borragine allo zafferano, dalla cannella al cardamomo, dagli asparagi alla senape, dalle varie lattughe alle zucche, dai porri alle cipolle, dai navoni alle rape, dai raponcelli ai ceci, dai piselli alle fave, dalle lenticchie ai fagioli, dai funghi alle carote, dal rafano alle pere ecc.62. Per non citare, ovviamente, l’elenco dei vini. Non dissimile stupore desta leggere il testo di Cristoforo di Messisbugo, Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale, stampato a Ferrara nel 1549, relativamente, ad esempio, agli ingredienti di origine animale che entravano nelle ricette del tempo: «carne di manzo, vaccina, vitella di più sorti, porci selvatici e domestici, cervo, daino, capriolo, agnello, capretto, castrone, porchette, lepri, conigli, ghiri, pavoni, fagiani selvatici e domestici, pernici, coturnuci, francolini, tordi, starne, beccafichi, quaglie, porzane, tortorelle, paperi, grue, oche, tarabusi, aironi, beccaroelli, anadre selvatiche e domestiche, arzavole [specie di anatre selvatiche] grosse, mezzane e picciole, giriole, pivieri, felizette ed altri uccelli»63. Si resta storditi di fronte a tanti animali che evidentemente popolavano le nostre selve, alcuni dei quali oggi non più identificabili. E anche un po’ sgomenti a immaginare le stragi che allora si compivano nei boschi, nelle campagne, nei cortili. Ma il lungo elenco, che lo storico deve pur fare, mostra come la tavola rinascimentale italiana dei signori cittadini si era ormai innalzata e forse aveva superato in ricchezza e sontuosità i banchetti della Roma imperiale64. 62   Cfr. Faccioli, Arte della cucina, cit., pp. 21 e ss. Si veda anche C. Benporat, Storia della gastronomia italiana, Mursia, Milano 1990, pp. 18 e ss. 63   Faccioli, Arte della cucina, cit., p. 267. Significativo di una ricchezza di biodiversità agricola “povera e popolare” è la straripante enumeratio del commediografo Ruzante, nella sua Prima orazione relativa al contado di Padova (Faccioli, La cucina, cit., p. 1008). 64   Neppure la Roma dei papi fu e sarà poi da meno: cfr. M.A. Fabbri Dall’Oglio, Il trionfo dell’effimero. Lo sfarzo e il lusso dei banchetti visti nella cornice fastosa delle feste nella Roma barocca, lungo il percorso dell’evoluzione del gusto e della tavola nell’Italia

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Il trionfo degli orti Certo, questo si applica soprattutto alle città del Centro-Nord, che hanno avuto, a partire dai comuni medievali, uno sviluppo demografico, un’espansione urbanistica, una ampiezza di autonomia politica e di ricchezza economica senza precedenti rispetto al resto d’Italia e d’Europa. Anche se, a tal proposito, occorre ricordare che per responsabilità di una vecchia tradizione storiografica è stato a lungo offuscato il ruolo culturale delle città meridionali, tra età medievale e moderna, sol perché prive di autonomia politica all’interno delle strutture unitarie di un regno che è durato diversi secoli. Una vulgata ormai contraddetta dalla ricerca recente65. D’altra parte, come ha ricordato Alberto Guidoni, autorevole storico delle nostre città, nel Sud a una minore continuità di insediamenti urbani nell’antichità e nel medioevo ha corrisposto una notevole «ricchezza di esperienze dell’età rinascimentale e barocca»66. Ai fini del nostro racconto, del resto, occorrerebbe rammentare che nell’Italia meridionale la più marcata ruralità del territorio, se per un verso comportava comprensibilmente una più povera elaborazione culinaria, per un altro vedeva un lussureggiare di specializzazioni agricole che i vantaggi straordinari del clima e i secolari saperi contadini rendevano possibile. Nel libro di Giovan Battista Crisci Lucerna de’ corteggiani, del 1634, «il primo vero repertorio di prodotti e specialità del Centro-Sud»67, si può cogliere la straordinaria varietà di beni agricoli legati non ai nomi delle città, ma a località e territori più delimitati. E così apprendiamo – pur restando in territorio campano – della rinomanza di cui godevano allora Arienzo per le ciliegie, le mele, le pesche e le albicocche; San Giovanni per i fichi; Capodichino per le prugne rosse; Amalfi e Giugliano per le pesche; Procida per le albicocche; fra Seicento e Settecento, Ricciardi & Associati, Roma 2002, pp. 151 e ss., per i vari menu in occasioni di feste e ricevimenti solenni. 65   Cfr. Raho, I paesaggi dell’Italia medievale, cit., pp. 193-198. 66   Si tratta di una considerazione a margine della storia delle piazze italiane: E. Guidoni, Gli spazi, i monumenti, i materiali: storia e interpretazioni, in L. Barbiani (a cura di), La piazza storica italiana. Analisi di un sistema complesso, Marsilio, Venezia 1992, p. 57 e p. 71. Sull’espansione dell’urbanistica musulmana nel Sud e più tardi sulla fioritura dei centri minori tra Cinquecento e Seicento, E. Guidoni, Introduzione a Storia dell’arte italiana. Parte Terza. Situazioni momenti indagini, I, Inchiesta sui centri minori, Einaudi, Torino 1980, pp. 13 e ss. 67    Capatti e Montanari, La cucina italiana, cit., p. 26.

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Posillipo per le mele bianche e l’uva moscatella; Somma per le visciole e le pere; Sorrento per le pesche, le prugne e le mele; San Pietro per i fichi ecc. Una varietà pulviscolare di produzioni legate ai luoghi, che si estende poi anche alle manifatture di altre regioni, come i caci e le provole della Sila, del Pollino, di Eboli ecc.68. D’altro canto, non bisogna neppure sottovalutare il ruolo delle città meridionali nella valorizzazione culinaria del loro vastissimo paniere agricolo e pastorale. Non solo perché Napoli è stata per diversi secoli dell’era volgare la più popolosa città d’Italia, e ha significativamente prodotto il più antico ricettario italiano, il due-trecentesco Liber de coquina e altro ancora69. Ma perché le città del Sud, anche se piccole, e benché non potessero attingere ai vertici culinari delle corti rinascimentali di Roma, Firenze, Ferrara, Venezia ecc., utilizzarono pur sempre con creatività il ricco patrimonio di piante e frutta, che non solo avevano intorno, ma in cui erano immerse. Senza considerare il ruolo alimentare che la vicinanza del mare ha svolto in città piccole e medie, non solo della Campania, ma anche della Puglia (Bari, Brindisi, Taranto, Molfetta, Barletta, Trani, Gallipoli), della Calabria estrema (Reggio) e soprattutto della Sicilia. È degno di nota, ai fini della nostra riflessione, che già in età medievale «gran parte del baronaggio vivesse non in campagna ma nelle quattro grandi città di Palermo, Messina, Catania e Siracusa»70 e quindi sostenesse un consumo alimentare sontuoso. Ma non meno rilevante appare il fatto che tutte le maggiori città dell’isola – Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Trapani, Agrigento, Marsala – sono collocate sulla costa71. Testimonianza tangibile    Ibid.    Ivi, p. 41. Gli autori ricordano che il testo, probabilmente nato nell’ambiente della corte angioina, inizia intenzionalmente con il trattare delle verdure, cioè con il materiale agricolo e contadino della cucina, anziché con le carni, per definizione alimento dei ceti ricchi. 70   D. Ligresti, Catania dalla conquista dell’autonomia alla fine del Regno di Carlo V, in L. Scalisi (a cura di), Catania. L’identità urbana dall’antichità al Settecento, Domenico Sanfilippo Editore, Catania 2009, p. 140. Su Palermo si veda anche O. Cancila, Palermo, Laterza, Roma-Bari 1999. 71   Spesso si ricorda giustamente lo splendore di Palermo dalla dominazione araba in poi (C. De Seta e L. Di Mauro, Palermo, Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 34 e ss.) ma si dimenticano centri come Messina, «uno dei porti più attivi del Mediterraneo» in età normanna (A. Ioli Gigante, Messina, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 15) e «una stella di prima grandezza» fra Cinque e Seicento (E. Guidoni e A. Marino, Storia dell’urbanistica. Il Seicento, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 78). Sul ruolo giocato dall’isola nello spazio del canale di Sicilia, Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo, I, cit., pp. 107 e ss. 68 69

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della proiezione secolare della Sicilia nel mercato mediterraneo, ma anche ragione della ricca presenza del pesce nell’alimentazione e nel ricettario della cucina regionale. Una tradizione in cui per millenni ha primeggiato il tonno, e alla cui pesca, dalle coste dell’isola, si son dedicati Greci, Persiani, Berberi, Arabi e Spagnoli72. Ma torniamo agli orti. Ha ricordato opportunamente Massimo Montanari che i mercati rurali e urbani non sono affatto scomparsi nell’Italia dell’alto medioevo. Nonostante, ovviamente, il ridimensionamento della popolazione. E per il successo di tale persistenza l’orto ha giocato un ruolo rilevante quanto poco noto e studiato. Esso «rappresenta per i contadini medievali una sorta di zona franca, al riparo dai prelievi signorili: se i cereali, il vino, il lino sono soggetti a canoni pesanti, solitamente parziari, ossia corrispondenti a una parte del raccolto, l’orto è invece a completa disposizione della famiglia contadina»73. Gli orti – per millenni luogo d’origine degli alimenti quotidiani, a tutte le latitudini del pianeta e intorno a tutte le città – hanno avuto in Italia un ruolo importante per lo sviluppo dell’agricoltura e per lo speciale rapporto tra questa e la cucina74. «Le città italiane – ha ricordato Mauro Ambrosoli – fra Cinque e primo Ottocento furono anche il centro di una fitta rete orticola che forniva l’alimentazione per il ceto medio basso»75. E nel Sud, per ragioni che attengono al clima e alla tradizione agronomica, tale rete ha svolto un ruolo di primissimo ordine nell’offerta di biodiversità agricola e nel dare sapidità, freschezza, varietà stagionali continue alle cucine di tutti i ceti sociali. La storiografia è avara su questo terreno, per l’ovvia difficoltà di ricostruire processi poco o nulla documentati – gli orti, come abbiamo visto, sfuggivano alla fiscalità baronale o statale, e dunque a ogni registrazione – che si esaurivano nel piccolo commercio

72   V. Consolo, La pesca del tonno in Sicilia e R. Lentini, Economia e storia delle tonnare di Sicilia, in V. Consolo (a cura di), La pesca del tonno in Sicilia, Sellerio, Palermo 2008, pp. 15 e ss. e p. 32. Sulla tradizione culinaria, A. Pallotta, La cucina siciliana di mare in oltre 400 ricette, Newton Compton, Roma 2006; Dosi e Pisani Sartorio, Ars culinaria, cit., pp. 382 e ss. 73   M. Montanari, Colture, lavori, tecniche, rendimenti, in G. Pinto, C. Poni e U. Tucci (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, II, Il medioevo e l’età moderna, Accademia dei Georgofili, Polistampa, Firenze 2002, p. 61. 74    Per gli orti in Europa in età moderna, B.H. Slicher Van Bath, Storia agraria dell’Europa occidentale (500-1850), Einaudi, Torino 1972, p. 335 e passim. 75   M. Ambrosoli, L’orticoltura e i giardini, in Pinto, Poni e Tucci (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, II, cit., p. 508.

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locale o nell’autoconsumo. Senza dire che nelle regioni del Sud, più che altrove, le popolazioni godevano e hanno goduto per secoli della prossimità della macchia mediterranea, una sorgente libera e gratuita di bacche, frutti selvatici ed erbe. È vero che la macchia mediterranea è, sotto il profilo storico, una formazione secondaria, ma la deforestazione di questa parte della Penisola è cominciata già in età romana76. Essa ha rifornito anche gli strati più poveri della popolazione, in vari momenti dell’anno, di azzeruoli, melagrane, sorbe, corbezzoli, carrube, cornioli, giuggiole, more di rovo e more di gelso, nespoli invernali ecc., e al tempo stesso di una straordinaria varietà di erbe già note sin dal mondo antico: dalla cicoria alla borragine, dalla borsa del pastore all’ortica, dal finocchio selvatico al lampascione. Varietà vegetali che oggi non solo sono ancora presenti nelle nostre campagne, ma assumono un nuovo valore dietetico e impreziosiscono la nostra cucina77. Napoli, naturalmente, ancora una volta, fa caso a sé, se si pensa che in virtù della storica prevalenza degli ortaggi nell’alimentazione quotidiana i napoletani sono stati chiamati “mangiafoglia” per alcuni secoli78, come ci ha illustrato con dovizia e divertimento storicoletterario Emilio Sereni79. Leandro Alberti, attraversandone il territorio e i dintorni, rimase colpito nell’osservare che «intorno la città sono vaghi e belli giardini di Naranci, Limoni, Cedri e altri simili frutti»80. E a Napoli, proprio per questo ampio consumo di prodotti orticoli, destinati a una popolazione di diverse centinaia di migliaia di abitanti, si era creato un meccanismo di scambio tra città e campagna, un impegno di cura cittadina della fertilità agricola degli orti, che ancora nel XVIII secolo colpiva un osservatore come Goethe: Un grandissimo numero di persone, giovani e adulti per lo più miseramente vestiti, si occupano a portar su gli asini, fuor della città, le im76   B. Andreoli, L’uso dei boschi e degli incolti, ivi, p. 126. A. Morosetti, Il bosco e le erbe di campo in cucina: le ricette tradizionali della civiltà rurale: alimenti, ricette, piatti tradizionali, Dutch Communications & Editing, (s.l.) 2001. 77    G. Picchi, Una nuova cultura delle erbe, in C. Barberis (a cura di), Ruritalia. La rivincita delle campagne, Donzelli, Roma 2009, pp. 199 e ss. 78   È nota la secolare commistione di abitati e campagna intorno a Napoli, che era alla base della produzione agricola destinata alla città sin dall’età classica. Cfr. C. De Seta et al., I casali di Napoli, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 7 e ss. e G.E. Rubino, Pianura, ivi, pp. 160 e ss. 79    Sereni, Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno, cit. 80   L. Alberti, Descrittione di tutta Italia ed isole pertinenti ad essa (...), P. Ugolino, Venetia 1588, p. 185.

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mondizie. Il territorio vicino a Napoli non è se non un solo orto, ed è un piacere vedere quanti legumi vengono introdotti in città, tutti i giorni di mercato, e con quanta cura si riportino subito ne’ campi, per affrettare la vegetazione, gli avanzi delle cucine. Essendo incredibile il consumo degli ortaggi, il fusto e le foglie de’ cavoli, de’ broccoli, de’ carciofi, degli agli e delle lattughe formano gran parte delle spazzature e perciò si affrettano a raccoglierle. Due grandi ceste flessibili sono sospese sulla schiena di un asino, e non solo vengono tutte riempite, ma vi si ammucchia su il resto con un’arte speciale. Non può esservi un orto senza un asino81.

Ma già da secoli nel resto del Sud orti e agricoltura specializzata per il mercato erano andati crescendo, tenendo in qualche modo vivi e arricchendo i saperi agronomici e culinari elaborati a partire dall’età classica. Ad esempio in Puglia, dove sin dal pieno medioevo si espandono in direzione di Barletta, Trani, Bisceglie le colture del vino, dell’olio, del gelso, del cotone e dello zafferano. E naturalmente Bari, che aveva conosciuto la dominazione araba, e che già a metà Trecento primeggiava per il suo olio d’oliva. Fondamento, com’è noto, della civiltà alimentare mediterranea82. Non diversamente Reggio Calabria, già descritta dal geografo arabo Al-Idrisi nel XII secolo come città ricca di frutteti, si andrà arricchendo, in virtù di una fitta corona di casali, ma anche grazie alla disseminazione di piccole unità fondiarie nel territorio urbano, di orti e giardini mediterranei83. Non diverse pratiche si svolgevano intorno alle città della Sicilia, come ad esempio a Messina, centro commerciale preminente 81   J.W. Goethe, Lettere da Napoli. Nella traduzione di Giustino Fortunato, Introduzione e cura di M. Rossi Doria, Guida, Napoli 1983, p. 80. Sugli orti di Napoli tra età moderna e contemporanea, P. Tino, Campania felice? Territorio e agricolture prima della “grande trasformazione”, Prefazione di P. Bevilacqua, Meridiana Libri-Donzelli, Catanzaro-Roma 1997. 82   Per la specializzazione agricola in Puglia, L. Chiappa Mauri, Popolazione, popolamento, sistemi colturali, spazi coltivati, aree boschive ed incolte, in Pinto, Poni e Tucci (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, II, cit., p. 43. Ma si veda ora anche P. Dolena (a cura di), Mezzogiorno rurale. Olio, vino e cereali nel Medioevo, Mario Adda Editore, Bari 2010. Su Bari che, già nel Cinquecento, aveva intorno una campagna “senza vuoti”, S. Russo, La città e i suoi casali, in F. Tateo (a cura di), Storia di Bari, I, Nell’antico regime, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 92 e ss.; M. Petrignani e F. Porsia, Bari, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 39. 83    G. Currò e G. Restifo, Reggio Calabria, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 27 e pp. 77 e ss.

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nel Mediterraneo per diversi secoli, come abbiamo già accennato, e in primo luogo nell’altra capitale del Regno, Palermo, collocata nei giardini della Conca d’Oro. Centro agricolo arabo di prima grandezza, esso si andrà arricchendo di biodiversità e di varietà agricole raggiungendo, nel corso dell’età moderna, vertici oggi difficilmente immaginabili. Si pensi che nel giardino del feudo di Misilmeri appartenente al principe della Cattolica, realizzato dal grande botanico Francesco Cupani, si trovavano alla fine del XVII secolo ben 300 diverse specie e varietà di alberi da frutto. Descritto nell’opera Hortus Catholicus, del 1696, il giardino vantava 35 varietà di mandorli, 17 di ciliegi, 48 di fichi, 45 di meli, 73 di peri, 21 si susino, 21 di aranci ecc.84. Giova osservare, in conclusione, che a differenza delle monoculture, dell’agricoltura specializzata che in età contemporanea andrà sempre più affermandosi nelle campagne italiane come nel resto d’Europa, l’orto ha avuto una influenza molto più diretta e marcata sulle pratiche culinarie. Non solo perché forniva cibo fresco quotidiano alle donne in cucina e quindi suggeriva elaborazioni e piatti vari. Ma anche perché le massaie ortolane e i loro uomini interagivano a loro volta con le dinamiche strettamente agricole, selezionando e migliorando le varietà, innovando i metodi di coltivazione, sulla base di esigenze, che nascevano dal gusto, dalla sperimentazione giorno per giorno in cucina e a tavola. L’ultima globalizzazione agricola Com’è noto, con l’arrivo delle piante americane in Europa, le campagne del mondo si unificano in un’unica agricoltura globale. Se si fa eccezione per le piante strettamente tropicali, soprattutto la frutta (ananas, mango, papaya ecc.), ma anche alcune “spezie”, come il cacao e la vaniglia, tutte le varietà agricole più importanti, che crescevano e prosperavano da millenni nelle terre del Nuovo Mondo, si diffondono nelle pianure e nelle colline d’ Europa85. Ol-

84   G. Barbera, L’orto di Pomona. Sistemi tradizionali dell’arboricoltura da frutto in Sicilia, L’Epos, Palermo 2000, p. 56. 85   Ma dai tropici dei diversi paesi sono arrivati e si sono inseriti nel paesaggio delle

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tre che, ovviamente, in Africa e in altre aree del Vecchio Mondo. In genere diciamo America, ma dovremmo essere più precisi e specificare: America Latina e Centro America. Perché è da lì, dal Sud, dai paesi che diventeranno il Messico, il Perù, il Cile, il Brasile ecc. che proviene il prezioso patrimonio botanico destinato a imprimere uno slancio senza precedenti all’agricoltura europea e mondiale. Dalle foreste del Nord America, dalle terre degli attuali Stati Uniti e Canada, pressoché prive di una tradizione alimentare d’un qualche rilievo, non arriverà nulla di importante86. L’acquisizione di germoplasma e di varietà botaniche che la conquista dell’America assicurò all’Europa e al resto del Vecchio Mondo è di portata incalcolabile. Ha scritto fondatamente lo storico Roberto Mantelli, che gli europei attinsero di fatto «ad un patrimonio vivente (un capitale biologico) plasmato dagli amerinidi a partire dal materiale genetico offerto dal loro ambiente. L’agricoltura europea poté cioè condividere un patrimonio di piante e animali scaturito dalla selezione – cosciente e incosciente – effettuata da contadini e allevatori dai primordi della rivoluzione neolitica americana, una selezione che diede vita a specie più utili e produttive di quelle ancestrali e selvatiche»87. Si potrebbe dire che nel giro di due o tre secoli gli agricoltori europei si impossessarono di un patrimonio biologico che aveva richiesto alle popolazioni amerinidi il lavoro di diversi millenni di storia88. Ora, diversamente dal materiale botanico acclimatato dagli Arabi in Sicilia e nell’Europa del Sud, che entrerà immediatamente nell’attività produttiva, le piante che arrivano dal Sud America impiegheranno decenni e talora qualche secolo per diventare familiari ai nostri contadini. Si trattava di piante – che in America, ricorda Mantelli, facevano tutt’uno con la cucina, la cultura ancestrale, i culti religiosi locali – troppo nuove e sconosciute perché potessero superare immediatamente la diffidenza dei coltivatori, che peraltro nostre città e dei dintorni gli alberi ornamentali. L. Gambi, I valori storici dei quadri ambientali, in Storia d’Italia, vol. I, I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, p. 13. 86   Boudan, Le cucine del mondo, cit., p. 99. 87   R. Mantelli, Le piante erbacee del nuovo mondo nella storia dell’agricoltura italiana, Università degli Studi, Genova 1994, p. 21. 88   Sugli effetti di lungo periodo di questo scambio Europa-America, A.W. Crosby, Imperialismo ecologico. L’espansione biologica dell’Europa, Laterza, Roma-Bari 1988; Id., Lo scambio colombiano: conseguenze biologiche e culturali del 1492, Einaudi, Torino 1992.

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dovevano apprendere non solo il modo di cucinarle, ma anche le pratiche per coltivarle. Patate, mais, pomodori, peperoncini, alcune specie di zucche, rappresentavano meraviglie le cui virtù e segreti richiedevano tempo per essere scoperti. Per la verità per alcuni di questi vegetali non esistevano segreti, come per i fagioli. I Greci e i Romani conoscevano il fagiolo dell’occhio (Dolichos), così detto per la caratteristica macchia nera al centro del chicco bianco, probabilmente proveniente dall’Africa e coltivato nelle campagne italiane anche nel medioevo89. Benché la straordinaria diversità biologica dei fagioli americani (Phaseolus vulgaris), adatti ai climi caldi e a vegetazione estiva, fu una novità di grande rilievo per la varietà di sapori che introdusse nel mondo dei legumi. Entrarono allora in scena i noti borlotti, cannellini ecc. con la loro sorprendente varietà di colori, rosso, amaranto, bianco, nero90. Sicché un legume tipico dell’alimentazione contadina cominciava – a partire pare dal Veneto, dove iniziò la sua penetrazione nelle campagne italiane – a diventare un ingrediente estremamente versatile per una infinità di piatti91. Ma anche altri nuovi ortaggi ebbero meno lenta diffusione nel nostro Paese, come il peperone e le diverse varietà di peperoncini, destinati a diventare, oltre che degli ottimi conservanti alimentari, le spezie a buon mercato della cucina contadina92. Ma le piante che impiegarono più tempo a entrare regolarmente nel circuito produttivo della nostra agricoltura, come il mais e la patata, furono anche quelle destinate ad avere il più rivoluzionario impatto sul regime alimentare di tutto il Vecchio Mondo. La straordinaria resa produttiva del mais, capace di superare da dieci a venti volte quella del nostro grano e di tutti i cereali antichi, una volta insediatosi nelle rotazioni agrarie diede un contributo fonda89   L. Messadaglia, Per la storia dell’agricoltura e dell’alimentazione, Federazione Italiana dei Consorzi Agrari, Piacenza 1932, pp. 65-66, ricorda l’espressione di Virgilio «vilis phaseolus» e la prima diffusione dei nuovi fagioli americani nel Bellunese. 90   Sui fagioli, scoperti da Colombo a Cuba, M. Sentieri, I semi dell’Eldorado, in M. Sentieri e G. Zazzu (a cura di), I semi dell’Eldorado. L’alimentazione in Europa dopo la scoperta dell’America, Dedalo, Bari 1992, p. 99. 91   Mantelli, Le piante erbacee, cit., pp. 139 e ss. M. Guarnaschelli Gotti, Grande Enciclopedia illustrata della gastronomia, Mondadori, Milano 2007, pp. 438 e ss. 92   Il peperoncino, conosciuto in America Latina da almeno 5000 anni a.C., arriva in Italia nel 1535: J. Andrews, Chili peppers, in The Cambridge World History of Food, I, cit., p. 282; Guarnaschelli Gotti, Grande Enciclopedia illustrata, cit., pp. 812-813. V. Teti, Storia del peperoncino. Cibi, simboli e culture tra Mediterraneo e mondo, Donzelli, Roma 2015.

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mentale all’alimentazione della popolazione europea, che avrebbe conosciuto una crescita continua e senza precedenti. La pianta del granturco, a vegetazione estiva, ma che si adattava anche ai climi del Nord, ebbe in Italia una diffusione generale, a tutte le latitudini della Penisola. Ma trovò le migliori condizioni di sviluppo e di espansione laddove le estati non erano completamente asciutte e le piogge di agosto e di settembre imprimevano uno sviluppo vigoroso alle piante. Così alcune regioni del Nord, come il Veneto, divennero terre d’elezione di questo nuovo cereale93. La polenta, un piatto destinato ad avere un ruolo centrale nell’alimentazione contadina della Pianura padana, troverà nel mais, com’è noto, il suo ingrediente fondamentale, e assai spesso unico. Nonché causa della malattia della pellagra, per la carenza di vitamina pp (pellagra preventing), che affliggerà quelle popolazioni per tutta l’età contemporanea94. Più tormentato itinerario di acclimatazione e di utilizzo alimentare ha avuto invece la patata nelle nostre campagne e dunque nelle nostre cucine. Proveniente dalla regione delle Ande e diffusasi nelle valli del Cile e negli altri paesi del Sud America, questo straordinario tubero, con un valore nutritivo tre volte superiore al grano95, capace di sfamare milioni di contadini durante l’inverno, era stato introdotto in Italia ai primi del XVII secolo dai Padri carmelitani scalzi, che lo avevano portato dalla Spagna e dal Portogallo96. Ma nonostante le raccomandazioni dei botanici si afferma stabilmente e diffusamente nelle nostre campagne solo a partire dalla metà dell’Ottocento97. È da allora che ha cominciato a diventare un sostituto del frumento, prima di trasformarsi in un ingrediente importante in tanti piatti della cucina moderna: dagli gnocchi al 93   Mantelli, Le piante erbacee, cit., pp. 39 e ss. Nell’alto Milanese il mais era già presente nel 1789 (ivi, p. 117). 94   Cfr. M. Sentieri, La cucina come strategia di sopravvivenza, in Sentieri e Zazzu (a cura di), I semi dell’Eldorado, cit., pp. 147 e ss.; Mantelli, Le piante erbacee, cit., pp. 39 e ss. Nonché il vecchio e utile L. Messadaglia, Per la storia delle nostre piante alimentari. Il mais o granturco, Tip. D. Bernardino, Siena 1935. 95   E. Messer, Potatoes (White). Potato (solanum tuberosum), in The Cambridge World History of Food, I, cit., p. 192. 96   G. Biadene, Storia della patata in Italia. Dagli scritti dei Georgici (1625-1900), Avenue Media, Bologna 1996, p. 18. 97   D. Gentilcore, Italiani mangiapatate. Fortuna e sfortuna della patata nel Belpaese, il Mulino, Bologna 2013, pp. 93 e ss.

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purée, dalle numerose varietà di zuppe e minestre alle patate fritte o infornate, ai vari contorni di carne e di pesce98. Per certi aspetti, potremmo dire che una vicenda analoga ha subìto un altro ortaggio, destinato ad avere un ruolo fondamentale nella cucina italiana contemporanea: il pomodoro. Esso ha un ruolo e rilievo anche culturale e simbolico, dal momento che è diventato nell’immaginario nazionale un ortaggio mediterraneo, ingrediente fondamentale della dieta popolare, di cui si è dimenticata la lontana origine amerinide. Un destino toccato in genere a gran parte delle piante americane, che in Europa hanno dato vita a una cucina differente dai modelli culturali delle società in cui erano sorte99. Per l’insediamento del pomodoro nelle nostre campagne le caratteristiche fisiche e il clima hanno avuto un ruolo importante e specifico. Arrivato da noi probabilmente subito dopo la Spagna, si adattò bene nelle nostre campagne perché il «clima ed il suolo erano simili a quelli del Messico centrale», di cui l’ortaggio era originario. Ma il suo successo – è stato riconosciuto – è anche legato al fatto che «Le abili mani dei giardinieri italiani migliorarono il pomodoro attraverso pratiche selettive trasformandolo in un grosso, liscio frutto dalla pelle spessa, rispetto a quello che era arrivato nel sedicesimo secolo»100. Infine, degna di nota della versatilità degli agricoltori italiani, un’altra pianta proveniente dall’America centrale, che non ebbe alcun successo nelle terre meridionali d’Europa, ma che trovò nel nostro Sud e soprattutto in Sicilia un habitat d’elezione: il ficodindia. Qui, com’è noto, la pianta è entrata a far parte del paesaggio reale e simbolico dell’isola, e i suoi frutti hanno svolto per tanto tempo la funzione di «pane dei poveri», arricchendo il già sontuoso artigianato delle confetture e della gelateria101. 98   Ivi, pp. 168 e ss. Gli gnocchi, noti nella nostra cucina sin dal medioevo, si arricchirono più tardi col nuovo ingrediente americano: C. Barberis, Mangitalia. La storia d’Italia servita a tavola, Donzelli, Roma 2010, p. 73. 99   M. de los Angeles Pérez Samper, Lo scambio colombiano e l’Europa, in Montanari e Sabban (a cura di), Storia e geografia, cit., vol. I, p. 358. 100   J. Long, Tomatoes, in The Cambridge World History of Food, I, cit., pp. 356357. Sulla difficile penetrazione del pomodoro nelle pratiche culinarie italiane, D. Gentilcore, La purpurea meraviglia. Storia del pomodoro in Italia, Garzanti, Milano 2010. Sulla completa assimilazione delle piante americane nella cucina meridionale, soprattutto a partire dall’Ottocento, Teti, Il colore del cibo, cit., pp. 174-177. 101    Barbera, L’orto di Pomona, cit., p. 105; G. Barbera e P. Inglese, Ficodindia, L’Epos, Palermo 2001.

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In merito al ritardo con cui, in Italia come nel resto d’Europa e del mondo, le piante americane si diffusero e si radicarono, il lettore di oggi non deve stupirsi. La lentezza temporale con la quale le innovazioni tecniche si diffondevano nel mondo preindustriale è un fatto ben noto ed esplorato dagli storici. Piuttosto il nostro lettore dovrebbe disporsi in uno stato di ammirazione per il lavoro di adattamento e di acclimatazione compiuto dai contadini, che normalmente sfugge a ogni rilevazione storica. Ammirazione per lo sforzo oscuro e la sapienza creativa a cui deve così tanto la ricchezza della cucina italiana dei nostri tempi. Scenari contemporanei Che cosa accade all’agricoltura italiana e alle nostre cucine in età contemporanea? La loro biodeversità e ricchezza vengono accresciute o tendono a deperire, a diventare sempre più uniformi sotto l’avanzare della modernizzazione capitalistica? Rispondere compiutamente a simili domande comporterebbe non la stesura di un paragrafo, ma la compilazione di un intero libro. La vastità della letteratura in materia, soprattutto relativamente alla vicenda delle cucine e alla storia del cibo, rendono oggi superfluo un tale compito. Quel che qui interessa è tracciare, a grandi linee, il senso di direzione che negli ultimi due secoli questi due grandi ambiti del nostro Paese vengono ad assumere. E soprattutto entro quali scenari ci muoviamo nei nostri anni. Rispetto a tutte le epoche precedenti, la più grande novità che l’età contemporanea può vantare, in Italia come nel resto dell’Occidente, è la progressiva scomparsa delle carestie. Una delle piaghe delle società preindustriali viene debellata in modo definitivo. Lo spettro della fame scompare dall’immaginario depresso delle popolazioni povere. Un risultato reso possibile non solo grazie alla modernizzazione sempre più spinta delle campagne, all’aumento della produttività del lavoro, all’innalzamento delle rese, ma anche per merito della rivoluzione ottocentesca dei trasporti. Nel corso dell’Ottocento possono arrivare in Europa derrate alimentari da ogni parte del mondo. Il dominio coloniale qui rivela i privilegi di cui ha goduto il Vecchio Continente. Come è stato opportunamente ricordato, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo «terminò a poco a poco la

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fame abituale, quotidiana nei paesi ricchi che divennero il centro di un sistema mondiale, ossia smisero di dipendere dalle loro terre, dai loro climi, dai loro contadini, dai loro raccolti. Perché crearono un ordine globale nel quale il cibo non si produce, si compra. E il resto del mondo dovette adattarsi»102. C’è un’evidente forzatura in tale rappresentazione, perché i paesi ricchi hanno continuato a produrre e ad accrescere il volume delle loro derrate. Ma lo schema è analiticamente impeccabile, e storicamente fondato, perché i consumi dei paesi ricchi hanno accresciuto a dismisura la domanda di beni da altri angoli del mondo, costringendo i paesi ex coloniali a industrializzare la loro agricoltura, a ridurre l’economia contadina di sussistenza e a creare i milioni di affamati che le statistiche dell’Onu continuano a ricordarci come una componente sistemica del capitalismo contemporaneo. La navigazione a vapore, l’invenzione delle navi in ferro dotate di apparecchi di refrigerazione offriranno la possibilità di trasporto su lunghe distanze anche di materie facilmente deperibili, come la carne103. Ai primi del XX secolo arriva in Italia come nel resto d’Europa, quale effetto di una circolazione delle merci a scala globale, una inedita quantità e varietà di cibi. Anche i frutti di piante che per ragioni climatiche non potevano trovare posto nelle nostre campagne: dalle banane alle noci di cocco, dalle ananas ai datteri, giungono ora direttamente sulle nostre tavole. Mentre entrano sempre più decisamente nell’alimentazione quotidiana anche dei ceti medi i “prodotti coloniali”, vale a dire il caffè, il cacao e il cioccolato, il tè, un tempo destinati alle élites. Nasce insomma, com’è stato detto, una «economia alimentare mondiale»104. Dunque, anche se non arrivano in Italia e in Europa nuove piante coltivabili nelle nostre campagne – salvo qualche singola specie –, una rivoluzione di nuovo tipo investe le strutture tradizionali dell’alimentazione. Occorre rammentare, tuttavia, che, almeno a partire dalla metà del    M. Caparrós, La fame, Einaudi, Torino 2015, p. 242.    G. Pedrocco, La conservazione del cibo: dal sale all’industria agro-alimentare, in Capatti, De Bernardi e Varni (a cura di), Storia d’Italia, cit., pp. 379 e ss. 104   Y. Péhaut, L’invasione dei prodotti d’oltremare, in Flandrin e Montanari (a cura di), Storia dell’alimentazione, cit., pp. 584 e ss. Una vasta ricostruzione delle vicende del cacao – arrivato in Italia subito dopo la Spagna –, del caffè di origine africana e del tè, in B.A. Weinberg e B.K. Bealer, Caffeina. Storia, cultura e scienza della sostanza più famosa del mondo, Presentazione di E. Illy, Donzelli, Roma 2002. 102 103

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XVII secolo, il nostro Paese ha cessato di essere la guida e il modello per tutte le altre cucine europee. Alla ricchezza della biodiversità agricola, degli allevamenti, della pesca ecc. non corrisponde più lo stesso primato nell’elaborazione culinaria, com’era accaduto per buona parte dei secoli precedenti. Questo ruolo, com’è noto, viene assunto dalla Francia, che diventerà il centro propulsore della creatività in cucina e sarà in grado di elaborare un nuovo stile alimentare per le nascenti borghesie nazionali. Anche sul piano agricolo il nostro Paese appare attardato rispetto al Nord Europa. A partire dal XVIII secolo le campagne inglesi ottengono risultati produttivi straordinari nella produzione dei cereali e da allora diventano il modello da imitare per tutte le altre realtà agricole europee. La trasformazione in senso capitalistico della produzione agricola decide sempre di più se un’agricoltura è moderna o arcaica, se è ricca o è povera. Un paradigma emulativo mette in competizione i paesi del Vecchio Continente, ma crea anche la scala dei nuovi valori con cui si giudicano le realtà economiche105. Senza dubbio, sul piano delle strutture produttive, l’Italia agricola appare meno dinamica di altri paesi europei. La condizione di vita della maggioranza della popolazione contadina, specie al Sud, non conosce miglioramenti di rilievo. È quella arretratezza sociale, culturale e civile che negli anni Ottanta dell’Ottocento l’Inchiesta Jacini denuncerà all’opinione pubblica nazionale e ai governi di allora. Era un modo di valutare le economie agricole coerente con i paradigmi di razionalità di quel tempo. Ma esso nascondeva un elemento di ricchezza e anche di primato dell’agricoltura italiana che allora – nel momento in cui si valutava capitalisticamente la capacità produttiva della terra per unità di superficie e la produttività del lavoro – veniva comprensibilmente trascurato. Anzi, considerato un segno di arretratezza. Le «cento Italie agricole» lamentate da Jacini, la frammentazione locale delle nostre agricolture, costituivano il segno di una mancata omogeneità delle strutture produttive. Esse erano ben lontane dall’efficiente uniformità delle aziende capitalistiche della Gran Bretagna o dell’Olanda. Ma per noi oggi esse testimoniano, a posteriori, la permanente straordinarietà della biodiversità agricola del nostro Paese. Guardata con altri paradigmi di razionalità econo105   Rinviamo, per tale aspetto, a P. Bevilacqua, La “storia economica” e l’economia, in P. Ciocca e G. Toniolo (a cura di), Storia economica d’Italia, I, Interpretazioni, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 159 e ss.

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mica, privilegiando la multiformità biologica delle piante, la ricchezza delle varietà, la mutevole disseminazione dei paesaggi, dei saperi locali e dunque dei legami diretti con le cucine, l’agricoltura italiana in età contemporanea appare come un ambito dotato di un dinamismo e di una ricchezza che non coincide perfettamente con i criteri di valore capitalistici. Essa non solo ha conservato i suoi patrimoni, e non è rimasta immobile, ma ha percorso a modo suo, secondo i caratteri della sua storia e i vantaggi originali dei suoi habitat, i sentieri della modernità. Tra l’età moderna e l’epoca contemporanea, antiche vocazioni produttive, regionali e locali si confermano e si sviluppano ulteriormente. L’Italia padana, soprattutto la bassa pianura, grazie alla diffusione dell’agricoltura irrigua si specializza nelle produzioni cerealicole e nell’allevamento, e al tempo stesso, grazie a un uso tecnicamente più avanzato dell’acqua, nella produzione del riso. Coltura asiatica, come sappiamo, di cui l’Italia si assicurerà il primato produttivo a livello europeo. Anche le agricolture dell’Italia centrale, agricolture promiscue – quelle del bel paesaggio italiano – dominate dal contratto di mezzadria, ad uno sguardo storico meno orientato alla produttività capitalistica sono apparse sotto altra luce, che non quello dell’arretratezza106. Ma sono state le campagne del Sud, quelle valutate come le più immobili e arcaiche, che hanno conosciuto una loro “rivoluzione agricola” di tipo diverso rispetto a quella del Nord Europa. Gli agricoltori meridionali, in una economia sempre più dominata dalla domanda internazionale, hanno scelto di sviluppare al massimo la loro vocazione, rispondente alle tradizioni agronomiche e ai caratteri locali degli habitat. Almeno dalla metà del XVIII secolo e in maniera sempre più decisa nei secoli successivi, l’agricoltura meridionale, in consonanza con altre agricolture dell’Europa mediterranea, si è orientata verso la coltivazione degli alberi107. Ulivi, viti, mandorli, meli, peri, peschi, albicocchi: eredità, come abbiamo visto, di una lunga storia di scambi mediterranei e di geniali sforzi di acclimatazione locale, essi diventano gli avamposti 106   Cfr. S. Anselmi, Mezzadri e mezzadrie nell’Italia centrale, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, II, Uomini e classi, Marsilio, Venezia 1990, pp. 201 e ss. 107   P. Bevilacqua, Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Donzelli, Roma 1996, pp. 161 e ss.; F. Cazzola, Contadini e agricoltura in Europa nella prima età moderna, Clueb, Bologna 2014, pp. 324 e ss.

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di un’economia aperta al commercio mondiale. E gli agrumi, che assicuravano un monopolio naturale alle regioni costiere della Sicilia e della Calabria, della Puglia e della Campania, diventano nel corso del XIX secolo e nella prima metà del XX un avamposto del commercio agricolo meridionale nel mondo108. Per la produzione di questi frutti, si passa dai sontuosi giardini della nobiltà e della ricca borghesia alle piantagioni, alle aziende di varie dimensioni, senza che questo significhi un impoverimento della biodiversità agricola. Al contrario, sono proprio gli agrumi che ai primi dell’Ottocento incrementano il già ricco patrimonio botanico, aggiungendo all’arancio amaro e dolce, al limone, al cedro, al limo, al bergamotto, alla lumia, al chinotto, anche la nuova pianta del mandarino, destinato a una grande fortuna commerciale109. Al tempo stesso, un’altra vocazione antica di queste terre conosce un’evoluzione di tipo mercantile-capitalistico, uscendo dai confini dell’autoconsumo e del commercio locale, e proiettandosi nel mercato internazionale. L’orto di un tempo diventa orticoltura commerciale. Nel corso del Novecento la diffusione nel Sud di ampi sistemi di irrigazione valorizza in maniera straordinaria i vantaggi naturali del clima. Sicché, insieme agli alberi, gli ortaggi possono prosperare in maniera incomparabile rispetto alle regioni del Nord Europa. Ai primi degli anni Ottanta del secolo scorso il Sud forniva all’Italia il 57% della produzione ortofrutticola nazionale. Contribuendo così in maniera rilevante a fare del nostro Paese il maggiore produttore continentale e il maggiore esportatore al mondo di generi ortofrutticoli110. La grande frattura del Novecento Sia per quanto riguarda la storia dell’agricoltura sia per il rapporto tra questa e la tradizione alimentare italiana l’età contemporanea appare divisa in due. È la stessa frattura che per tanti altri aspetti    Lupo, Il giardino degli aranci, cit., pp. 32 e ss.    Barbera, L’orto di Pomona, cit., pp. 58-60. 110   P. Bevilacqua, Clima, mercato e paesaggio agrario, in Id. (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, I, Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1989, p. 674. 108 109

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sociali separa il XX secolo come in due ere distinte. Si tratta di una vicenda che insegna molto al nostro tempo e ci offre suggerimenti per l’avvenire. È infatti di grande significato quel che tra Otto e Novecento avviene nelle nostre campagne. Il processo di modernizzazione delle nostre agricolture, lo sviluppo di grandi aziende agricole a salariati, l’introduzione di moderni macchinari agricoli, l’incremento dell’allevamento bovino in stalla non avvengono né a spese di una riduzione della biodiversità, né degli equilibri ambientali locali. Al contrario, soprattutto nel campo degli alberi da frutto, gli agronomi “costitutori”– cioè i tecnici che creano nuove varietà di piante – non solo migliorano e rendono più resistenti le vecchie varietà, ma riescono a selezionarne di nuove, arricchendo un paniere già molto colmo. Perfino il paesaggio agrario, il delicato fondale, frutto della storia inimitabile delle nostre campagne e della biodiversità ad essa connessa, conserva intatto il suo fascino e in certi casi sembra essersi eternizzato. Ancora sul finire degli anni Cinquanta, nel suo Viaggio in Italia, Guido Piovene, osservando alcune piantagioni nei pressi dell’Etna, poteva scrivere: «Qui ci si accorge come un giardino d’aranci sia una persona viva, esiga cure assidue e un amore quotidiano». Qui «gli aranci, i mandarini, i limoni, ed il profumo delle zagare, sembrano ormai far parte di un aspetto siciliano eterno, e si associano all’idea di classicità»111. Crescita della produzione e vecchi equilibri ambientali si tengono ancora per mano. Del resto, anche sul piano dei seminativi, i laboratori italiani sono all’avanguardia nel selezionare nuove sementi di grano più produttive e più resistenti alle avversità112. La scienza agronomica in rapido sviluppo assorbe i saperi millenari dei contadini e li rafforza con nuove conoscenze e acquisizioni, spesso spiegando sperimentalmente quel che gli agricoltori sapevano solo per lunga esperienza113. Ad esempio le rotazioni delle colture, pratica secolare    G. Piovene, Viaggio in Italia (1957), A. Mondadori, Milano 1966, pp. 469-470.    M. Cocucci, Dalla genetica di Mendel alle piante ed agli alimenti transgenici; G. Boggini e M. Corbellini, L’evoluzione varietale del frumento tenero in Lombardia, entrambi in O. Failla e G. Forni (a cura di), Le piante coltivate e la loro storia. Dalle origini al transgenico in Lombardia nel centenario della riscoperta genetica di Mendel, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 20 e ss. e pp. 85 e ss.; E. Bernardi, Il mais “miracoloso”. Storia di una innovazione, tra politica, economia e religione, Carocci, Roma 2014. 113    A. Saltini, Storia delle scienze agrarie. Venticinque secoli di pensiero agronomico, Prefazione di L. Geymonat, Edagricole, Bologna 1979. 111 112

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per evitare il calo delle produzioni, per il rinnovo della fertilità dei suoli già sfruttati e per neutralizzare le infestazioni dei parassiti, vengono raccomandate e perfezionate grazie agli studi di laboratorio. La fertilizzazione della terra mediante sostanza organica e soprattutto letame, pratica millenaria delle campagne, viene estesa e incrementata grazie allo sviluppo dell’allevamento in stalla, e perorata come fondamentale dalle scienze agronomiche114. Anche l’uso dei concimi chimici, che rappresenta uno spartiacque nella storia millenaria dell’agricoltura, durante la prima metà del Novecento non è quasi mai, in Italia, una pratica esclusiva e integrale. Diversamente che nel Nord Europa, insieme ai sali minerali i contadini continuano a far ricorso al letame, per antica esperienza e grazie alla presenza dei piccoli allevamenti diffusi nel territorio. Solo nella seconda metà del secolo la concimazione chimica diventa totalitaria115. Dunque, tale provvisorio matrimonio tra scienza e saperi tradizionali rappresenta un vertice per la storia della nostra alimentazione. L’agricoltura modernizzata del primo Novecento, benché avvenga ancora su basi sociali inique, cioè sullo sfruttamento malpagato del lavoro contadino, produce ora beni agricoli in maggiore abbondanza e ancora più vari, ma non contaminati, e freschi, soprattutto la frutta e la verdura. D’altra parte l’agronomia otto-novecentesca non solo conserva un proprio legame con la cultura agricola dei contadini. È stato a ragione ricordato che in età moderna e contemporanea un profondo elemento di continuità corre sotto la più grande innovazione tecnica che investe le campagne d’Europa: sono le «piante contadine» la base «per l’agricoltura capitalistica»116. Ma il legame è profondo anche tra agronomia e cucine rurali, conserve e altre elaborazioni alimentari. Nei loro opuscoli gli agronomi non tentavano solo di illustrare le caratteristiche delle piante e di insegnare il modo di coltivarle, ma suggerivano ricette, mostravano quali tipi di cibi, conserve e succhi si potevano trarne, rielaborando spesso pratiche popolari117. Dunque è un processo di modernizzazione temperato, 114   P. Tino, Le radici della vita. Storia della fertilità della terra nel Mezzogiorno (secoli XIX-XX), Prefazione di P. Bevilacqua, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015. 115   Id., La concimazione della terra nel Novecento tra crescita produttiva e degrado ambientale, in «I frutti di Demetra», 2004, n. 2; G. Federico, Breve storia economica dell’agricoltura, il Mulino, Bologna 2009, p. 70. 116    Ambrosoli, Scienziati, contadini e proprietari, cit., p. 423. 117    Si vedano, per esempio, S. Biuso, Il fico d’india in Sicilia, Fratelli Marsala,

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che migliora gli assetti produttivi e le condizioni del lavoro, ma non intacca né la biodiversità agricola, né altera le forme del paesaggio. E anche se in Italia, come nel resto d’Europa e soprattutto negli Stati Uniti, si fanno strada i nuovi prodotti alimentari industriali, in virtù dell’inscatolamento e di altre pratiche di conservazione, la ricchezza del nostro patrimonio alimentare non viene toccata. Com’è in parte noto, è alla metà del secolo scorso che tutto cambia. Dopo la seconda guerra mondiale si apre un solco abissale nella storia millenaria dell’agricoltura, in Italia come nel resto del mondo industrializzato. Nel corso dei decenni che seguono vengono sconvolte le pratiche secolari dei contadini, ma anche l’agronomia del primo Novecento. Le rotazioni, l’apporto di concimazione organica alla terra, la cura della rigenerazione della fertilità, la valorizzazione della biodiversità vengono abbandonati. Il suolo cessa di essere un organismo vivente da rigenerare continuamente e diventa il supporto neutro di un’attività di estrazione industriale di merci. E questa deve assumere gli stessi ritmi produttivi di una qualunque azienda, senza alcuna considerazione per gli equilibri complessi del mondo naturale di cui i beni agricoli son pur sempre frutto. Così il suolo, a furia di concimazioni chimiche, si mineralizza, diventa biologicamente inerte e le piante, nutrite ormai direttamente dai sali minerali, private dei loro equilibri biologici, si ammalano con grande facilità. Per questa via il ricorso sempre più spinto ai pesticidi diventa una necessità, e altra chimica entra dunque nel circuito produttivo, uccidendo anche gli insetti utili che un tempo svolgevano un ruolo rilevante nella difesa naturale delle colture. Nel frattempo – altra innovazione della seconda metà del Novecento – entrano in campo i diserbanti chimici. Le erbe spontanee un tempo contenute manualmente o con mezzi meccanici, ora vengono eliminate con potenti veleni di sintesi118. Tale trasformazione del suolo, un tempo oggetto di continua rigenerazione organica da parte dei coltivatori, ha effetti ovviamente Palermo 1879; S. Floridia, Il Carrubo (Ceratonia Siliqua). Studio storico-geograficoeconomico, V. Muglia, Catania 1930; G.B. Tirocco, Il melograno e il cotogno: cenni botanici e storici. Varietà, coltivazioni, usi, Battiato, Catania 1929. 118   Una documentata denuncia della situazione creatasi nelle agricolture industriali alla fine degli anni Ottanta in M. Del Re, C. Del Lungo e N. Sbrizzi, Agricoltura avvelenata. Guida ai pesticidi più usati in agricoltura, Centro di Documentazione di Pistoia, Pistoia 1990.

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sulle caratteristiche organolettiche dei prodotti. Tende a renderli di sapore uniforme, perché la composizione minerale originaria del suolo viene surrogata dai sali chimici dei concimi. In Francia, dopo decenni di pratiche agricole chimiche, di uso sistematico di diserbanti, i grandi vini rossi del Bordeaux sono progressivamente scaduti di qualità. La roccia originaria del terroir, cui attingono le radici delle viti, è stata alterata. I vignaioli di quelle terre – hanno ricordato due agronomi francesi – hanno dovuto ammettere «che le tecniche brutali sviluppate dagli agronomi a partire dal 1960, vale a dire l’uso eccessivo di concimi chimici e di pesticidi, ma soprattutto il diserbo totale e l’abbandono della lavorazione del suolo, hanno provocato un abbassamento della qualità dei vini»119. Ma l’alterazione dell’agricoltura non è un incidente settoriale, ha una portata sistemica, il suo paradigma millenario è stato rovesciato. Si crea nell’azienda agricola, dove si producono beni più abbondanti ma più scadenti, un habitat sempre più artificiale, che inquina la terra, l’acqua delle falde e l’aria e tende ad annientare intorno a sé ogni forma di vita per far vivere le sole piante utili. Al culmine di questo straordinario progresso dell’agricoltura capitalistica siamo giunti al supremo paradosso: gli alimenti destinati alla nostra vita provengono da uno degli habitat più contaminati delle società del nostro tempo120. Un non diverso destino conoscono gli allevamenti sia di grosso bestiame che di volatili. Diventati un ramo staccato dall’azienda agricola, gli allevamenti si specializzano, diventano delle industrie intensive di produzione di carne. Sul modello americano, dopo la seconda guerra mondiale, in Italia come nel resto d’Europa, l’allevamento dei polli si svolge in lager di nuovo tipo. Qui, imprigionati in strutture metalliche, grazie alla luce artificiale, gli animali sono ingozzati senza misericordia, giorno e notte, di cibo e antibiotici. Stessa sorte di detenzione tocca a gran parte degli animali bovini, dove alcune razze di mucche, come le Frisone, vere macchine pro119   C. e L. Bourguignon, Il suolo: un patrimonio da salvare, Prefazione di M. Smith, Slow Food Editore, Bra 2004, pp. 139-140. 120   A. Kimbrell (a cura di), Fatal Harvest. The Tragedy of Industrial Agriculture, Island Press, San Rafael (Cal.) 2002; P. Bevilacqua, La mucca è savia. Ragioni storiche della crisi alimentare europea, Donzelli, Roma 2002; G. Tamino, Gli impatti ambientali dell’agricoltura industriale, in P.P. Poggio (a cura di), Le tre agricolture. Contadina, industriale, ecologica, Prefazione di C. Petrini, Jaca Book, Milano 2015, pp. 237 e ss.

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duttive, danno latte sino allo sfinimento, per una vita breve che non supera in genere i 5-7 anni. I buoi, anch’essi privati del pascolo, sono chiusi in stalla per un allevamento intensivo assistito da cure veterinarie costanti. Sino alle poche innovazioni e ai miglioramenti successivi alla crisi della mucca pazza – che hanno reso meno feroce la loro detenzione – gli animali da macello sono stati allevati entro strutture che erano, e in parte sono ancora, ospedali della carne121. E sorte ancora più triste conoscono i maiali, allevati in campi di concentramento dove migliaia di capi pascolano quotidianamente nel loro sterco e le troie, immobilizzate in gabbie di ferro, allevano con pena i loro piccoli, impossibilitate persino ad alzarsi in piedi. A guardare gli allevamenti industriali del secondo Novecento viene da pensare che gli uomini abbiano voluto replicare sugli animali la stessa ferocia esercitata nel prima parte del secolo su inermi comunità umane. Solo che in questo caso c’è almeno un fine produttivo. Si produce carne per una platea sempre più larga di consumatori. Ma a nessuno può sfuggire che in tali efferate modalità di allevamento degli animali destinati alla nostra tavola, che trasformano la breve vita di altre creature in un inferno di sofferenza, si rivela, come in un sottomondo tenuto nascosto, tutta l’umana barbarie del capitalismo contemporaneo. L’aumento della produttività dell’agricoltura nelle campagne d’Italia, diversamente che in tante aree del mondo, avviene anche a spese di un paesaggio agrario che da noi è un manufatto storico. Lo sviluppo delle monoculture intensive, di meleti, pescheti, pereti e altri frutteti – resi tutti uguali attraverso pratiche di selezione sempre più spinte, e allineati in regolarissimi filari – cancellano la varietà multiforme del nostro paesaggio. E non è solo un danno estetico. Il paesaggio perde la multiforme eleganza delle colture promiscue e tende a uniformarsi alla monotona regolarità delle monoculture122. Ma si produce anche una riduzione della biodiversità. Scompaiono dalle campagne centinaia di varietà di alberi da frutto o di ortaggi a vantaggio di poche tipologie    Bevilacqua, La mucca è savia, cit., pp. 111 e ss.    Sui caratteri e sulle trasformazioni del nostro paesaggio cfr. P. Bevilacqua, Tra Europa e Mediterraneo. L’organizzazione degli spazi e i sistemi agrari, in Id. (a cura di), Storia dell’agricoltura in età contemporanea, I, cit., e più sistematicamente M. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, Laterza, Roma-Bari 2010. Per i processi di alterazione e distruzione, E. Turri, Semiologia del paesaggio italiano, Introduzione di F. Vallerani, Marsilio, Venezia 2014. 121 122

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di piante: quelle più produttive, più attraenti nell’aspetto, più adatte ai trasporti e alle manipolazioni commerciali. Il mercato – o per meglio dire gli interessi economici della grande distribuzione – impone le piante da privilegiare e, nell’accrescere la quantità dei beni, riduce la loro varietà, sia in termini botanici che di gusto, impoverendo dunque le basi materiali delle nostre cucine123. Non vogliamo certo istituire un processo all’agricoltura industriale di cui riconosciamo anche i meriti. Meriti di crescita senza precedenti della produzione alimentare e anche di liberazione degli uomini, dei contadini, da fatiche secolari grazie alle macchine e alle innovazioni tecnologiche. Così come vanno riconosciuti i meriti dell’industria alimentare italiana, in grado di produrre beni di qualità – dalla pasta all’olio, dal vino alle conserve – nonostante i processi di manipolazione della materia prima124. Ma occorre avere uno sguardo non superficialmente progressista, bisogna saper cogliere la fase storica in cui il momento positivo si rovescia nel suo contrario. Perché il tempo non porta i processi sempre in una direzione positiva. Ben presto, infatti, l’agricoltura industriale del dopoguerra è caduta nell’eccedenza produttiva. Com’è stato ricordato da uno storico dell’agricoltura contemporanea: «la produzione ha continuato a salire ed è cresciuta più rapidamente della domanda, cosicché per gran parte degli ultimi anni Sessanta e negli anni Settanta l’agricoltura dell’Europa occidentale e dell’America settentrionale è stata afflitta da eccedenze alimentari»125. Così, mentre grazie alla cosiddetta “rivoluzione verde” degli anni Sessanta-Ottanta, veniva cancellata l’economia contadina dei paesi poveri e milioni di persone venivano gettate nell’indigenza, in Europa si distruggeva il cibo in eccesso per mantenerne il prezzo nel mercato mondiale126. Negli anni Ottanta i cittadini italiani, che venivano da 123   P. Bevilacqua, Riduzione della biodiversità e omologazione del paesaggio agrario. Appunti di ricerca, in La biodiversità nei paesaggi agrari e forestali, Atti del seminario della International Association for Environmental Design (Iaed), T. Sarcuto, Palermo 2001, pp. 79 e ss. 124   Un quadro dell’evoluzione della nostra industria alimentare, soprattutto dei maggiori gruppi, in G. Gallo, R. Covino e R. Monicchia, Crescita, crisi, riorganizzazione. L’industria alimentare dal dopoguerra a oggi, in Capatti, De Bernardi e Varni (a cura di), Storia d’Italia, cit., pp. 271 e ss. 125   D. Grigg, Alimentazione e sviluppo economico. Fame e malnutrizione nel mondo, 1950-1980, Otium, Ancona 1989, p. 135. 126    Cfr. J.W. Moore, Ecologia-mondo. La fine della natura a buon mercato, Intro-

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decenni di penuria alimentare, hanno potuto osservare nei telegiornali le immagini di immense cataste di agrumi e altri prodotti agricoli schiacciate dalle ruspe per essere eliminate dal mercato. Di certo uno spettacolo senza precedenti nella storia degli uomini, che non si erano mai potuti permettere un tale lusso. Ma non è solo questo. A tale distruzione di ricchezza, la Politica agricola comunitaria (Pac) ha cercato di rimediare invitando i contadini marginali a non coltivare i loro campi o a limitare gli allevamenti con i cosiddetti programmi di set aside, cioè di messa fuori produzione dei terreni, avviati nel 1987127. Ma essa non è ancora riuscita a invertire completamente la rotta con una strategia che premi l’agricoltura biologica, amica dell’ambiente, e il lavoro contadino. Anche la nostra agricoltura partecipa al saccheggio delle risorse mondiali consumando insieme agli altri paesi il 25% di terra abitabile, il 70% dell’acqua e producendo il 30% dei gas serra. E prende parte allo spreco globale di beni agricoli al momento della raccolta, della lavorazione e nella fase del consumo domestico stimato nel 2013 intorno a 1,3 miliardi di tonnellate. Un quantitativo «sufficiente a soddisfare i bisogni alimentari di 3,5 miliardi di persone, corrispondenti alla metà della popolazione oggi presente sulla terra»128. E come dimenticare infine che tale eccesso di produzione avviene a prezzo della contaminazione dell’ambiente, dell’alterazione del paesaggio agrario, della riduzione della biodiversità, dello scadimento della qualità e della salubrità del cibo? Non sottovalutiamo certo i vantaggi dell’abbondanza. Ci piace anzi qui ricordare come grazie ad essa, almeno in tale ambito, ai primi anni Ottanta il divario Nord-Sud, topos in cui si voltola l’eduzione e cura di G. Avallone, Ombre corte, Verona 2015, pp. 40-41; Caparrós, La fame, cit., p. 411. Fondamentale sul tema resta V. Shiva, The Violence of the Green Revolution. Third World Agriculture, Ecology and Politics, Zed Books, London-New York 1991. 127   Per tale problema e il seguito della Pac, F. De Filippis e L. Salvatici, L’Italia e la politica agricola del Mercato Comune Europeo, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura in età contemporanea, III, Mercati e istituzioni, Marsilio, Venezia 1991, p. 587; F. Serra-Caracciolo, La politica agraria nella Comunità economica europea, in A. Esposto (a cura di), Democrazia e contadini in Italia nel XX secolo. Il ruolo dei contadini nella formazione dell’Italia contemporanea, Prefazione di P. Bevilacqua, vol. II, Robin Edizioni, Roma 2006, pp. 519 e ss.; P. De Castro, L’agricoltura europea e le nuove sfide globali, Presentazione di E. Espinosa, Introduzione di D. Cioloş, Donzelli, Roma 2010. 128   S. Scarpellino, Spreco alimentare e squilibri planetari, in «Vita e Pensiero», 2015, n. 4.

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terna retorica nazionale, sia stato finalmente e del tutto colmato129. Ma l’abbondanza ottenuta a prezzo dell’alterazione dell’ambiente e dello scadimento nutrizionale del cibo, spesso accompagnato dalla contaminazione, ha poi conseguenze che non vengono calcolate nel bilancio economico nazionale. Con il dominio dell’agricoltura e della trasformazione alimentare industriale, con l’alterazione e spesso adulterazione dei cibi130, non solo scade la nostra millenaria cucina, ma la salute umana subisce conseguenze pesanti in termini di sofferenze e perdite, e i bassi prezzi delle derrate alimentari si scontano poi duramente nella spesa crescente delle strutture sanitarie. L’abbandono dell’alimentazione tradizionale, la contaminazione dei beni agricoli, la crescente manipolazione industriale del cibo costituiscono, com’è noto, una delle cause epidemiologicamente più note dell’insorgenza del cancro. E il Sud, il Sud arretrato, il Sud povero delle esemplificazioni mediatiche, che a lungo era stato protetto dalla propria alimentazione legata ai cibi contadini, finisce anch’esso per capitolare. Come ricordava il rapporto Nuove evidenze nell’evoluzione della mortalità per tumori in Italia, pubblicato nel 2005 dall’Istat e dall’Istituto Superiore di Sanità, «L’uniformità alimentare ha prodotto un danno alle popolazioni del Sud che in questi 30 anni hanno perso un vantaggio di salute che avevano» sul resto della popolazione italiana131. Appare dunque evidente, da questo fin troppo lungo excursus storico, dal racconto di questa straordinaria e inimitabile storia, quale sia il cammino desiderabile e obbligato del nostro avvenire. Se vuole conservare e anche arricchire, mantenere viva la propria cucina, l’Italia deve conservare, in equilibri sempre nuovi, il proprio sontuoso patrimonio agricolo. Deve ostacolare e combattere la più grande minaccia di cui è portatrice l’agricoltura capitalistica dei nostri anni: la tendenza all’uniformità biologica e merceologica dei beni agricoli e animali, che alla lunga farebbe della varietà della cucina italiana una mera finzione. 129   V. Zamagni, L’evoluzione dei consumi alimentari fra tradizione e innovazione, in Capatti, De Bernardi e Varni (a cura di), Storia d’Italia, cit., p. 193. 130   A. Lonni, Dall’alterazione all’adulterazione: le sofisticazioni alimentari nella società industriale, in Capatti, De Bernardi e Varni (a cura di), Storia d’Italia, cit., p. 533. Si veda più specificamente l’inchiesta giornalistica di P.G. Conti, La leggenda del buon cibo italiano e altri miti alimentari contemporanei, Fazi, Roma 2006. 131    Per tale ambito di problemi rinviamo a P. Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 72-93.

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E trascinerebbe con sé, inevitabilmente, le culture locali, la varietà e la bellezza del paesaggio132. In Italia occorre guardare all’agricoltura in maniera non troppo dissimile da come si deve guardare al patrimonio artistico e culturale. Certo, l’agricoltura è anche un mondo vivente, non si può chiudere in una teca di vetro, vive entro il flusso di dinamiche economiche e mercantili mondiali. Sappiamo bene che non possiamo fare a meno del commercio mondiale quand’anche volessimo felicemente isolarci. Ma questo non impedisce di difendere e proteggere i nostri patrimoni di agricoltura, di paesaggio e di cucina locali. La storia dell’agricoltura italiana (e non solo di essa) sino alla prima metà del Novecento mostra esemplarmente la possibilità di una coesistenza tra processi di sviluppo e modernizzazione con la conservazione e addirittura l’arricchimento della biodiversità agricola e delle cucine. La nostra alimentazione, come abbiamo visto, era ben dentro il mercato internazionale – come del resto nei millenni e nei secoli precedenti –, non certo chiusa in una nicchia. Ma oggi quello che gli economisti funzionari e il loro seguito giornalistico, lo scadente ceto politico dei nostri anni, chiamano mercato, sono le multinazionali dell’agrindustria e della grande distribuzione commerciale. Gli agricoltori, soprattutto i piccoli imprenditori agricoli e i contadini, sono assoggettati alle multinazionali delle sementi, dei concimi, dei diserbanti e dei pesticidi e sono costretti a vendere i loro prodotti ai prezzi imposti dalle catene dei supermercati. Così, anno dopo anno, l’agricoltura e il piccolo allevamento muoiono, perché non riescono a resistere a un modello economico dominato dalla finanza il cui fine supremo è quello di creare “valore per gli azionisti”. Non importa cosa accade all’agricoltura, al paesaggio, alla salute umana, alla nostra storia. Non importa se nelle nostre campagne rinasce la schiavitù e la produzione agricola si regge sullo sfruttamento illimitato degli immigrati, della gioventù povera del mondo133. Com’è noto, un paese con la nostra storia agricola e alimentare non poteva non generare gli anticorpi e gli antagonismi necessari. La nascita di Slow Food, nel 1987, grazie a Carlo Petrini e ai suoi 132   Sulle trasformazioni anche recenti subite dal nostro paesaggio nelle varie regioni, cfr. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storici, cit. 133   P. Alò, Il caporalato nella tarda modernità. La trasformazione del lavoro da diritto a merce, Wip Edizioni, Bari 2010; M. Perrotta, I braccianti migranti nell’Italia di oggi e le filiere agroalimentari, in Poggio (a cura di), Le tre agricolture, cit., pp. 133 e ss.

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amici, l’insediamento dei Presidi della biodiversità nelle campagne italiane, la creazione della rete mondiale di Terra Madre, il Salone del Gusto a Torino e l’istituzione dell’Università di Scienze gastronomiche a Pollenzo costituiscono una controffensiva che ha prodotto importanti inversioni culturali134. E un fenomeno degno di nota è stato la scelta e l’impegno di una vecchia organizzazione corporativa dei contadini, la Coldiretti, a favore dell’agricoltura biologica. Ma la controffensiva, che ovviamente è un fenomeno mondiale, in Italia non si svolge solo a livello di pratiche agricole alternative135. Visto il legame profondo che l’agricoltura italiana ha con l’originalità degli habitat e con le forme storiche del paesaggio, si attivano in favore di essa vecchie istituzioni, come Italia nostra, o nuove come la rete dei Comitati per la difesa del territorio, che ha operato per anni in Toscana, per impulso di Alberto Asor Rosa, o molto recenti come la Società dei territorialisti, coordinata da Alberto Magnaghi. Una cultura nuova, capace di fondere insieme difesa dell’ambiente e democrazia partecipativa si va facendo strada, fondata sulla cura dei mondi locali e sulla rivendicazione del territorio quale bene comune136. La straordinaria diffusione delle agricolture biologiche e biodinamiche, la gemmazione di tanti Gruppi di acquisto solidali (Gas) in ogni angolo della Penisola, che saltano l’intermediazione commerciale, la rinascita degli orti urbani e dei mercati contadini sono anche il frutto di una maggiore e più consapevole partecipazione dei cittadini consumatori alla dimensione produttiva137. I consumatori, 134   C. Petrini, Buono, pulito e giusto, cit.; Id., Slow Food. Le ragioni del gusto, Laterza, Roma-Bari 2003; Id., Terra Madre. Come non farci mangiare dal cibo, con una lettera di E. Bianchi, Giunti-Slow Food, Firenze-Bra 2009. Sullo stato potenziale della nostra biodiversità, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), La conservazione ex situ della biodiversità delle specie vegetali spontanee e coltivate in Italia, Roma 2010. 135   A. Berton, L’agricoltura biologica: la situazione nel contesto italiano e globale, in Poggio (a cura di), Le tre agricolture, cit., pp. 175 e ss. 136   Vedi www.societadeiterritorialisti.it. A. Magnaghi (a cura di), Il territorio bene comune, Firenze University Press, Firenze 2012; Becattini, La coscienza dei luoghi, cit.; P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Introduzione di S. Settis, Donzelli, Roma 2014. 137   Si vedano, per le controtendenze in atto, in una ormai vasta letteratura, P. Donadieu, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio delle città, Prefazione di M. Mininni, Donzelli, Roma 2006; Barberis (a cura di), Ruritalia, cit.; D. Cersosimo, Tracce di futuro. Un’indagine esplorativa sui giovani Coldiretti, Donzelli, Roma 2012; I. Agostini, Il diritto alla campagna. Rinascita rurale e rifondazione urbana, Premessa di

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come dice Carlo Petrini, diventano “coproduttori”, influenzano direttamente il modo e il cosa produrre. Per via dell’agricoltura si rafforza così a livello dei territori una sfera importante della democrazia reale: i cittadini possono decidere della qualità, del gusto, della salubrità del cibo che mangiano, sfuggendo e sabotando gli interessi della finanza agroindustriale. Attraverso la partecipazione alla produzione del cibo i cittadini si possono sottrarre alla loro stessa mercificazione seriale di consumatori programmati secondo le logiche del marketing. Riguadagnando i sapori del cibo, approdando a un più genuino godimento fisico del mangiare, essi rompono l’assedio dell’omologazione capitalistica. Si comprende dunque bene che tale componente della ricchezza e della identità nazionale, questa speciale “felicità d’Italia”, si può difendere e preservare contrastando le logiche distruttive del capitalismo, potenziando democrazia e partecipazione. È la nostra storia, il nostro grande passato a indicarci, con capacità di visione e ampiezza di orizzonti, qual è la nostra prospettiva.

V. Shiva, Ediesse, Roma 2015; M. Corti, S. De La Pierre e S. Agostini, Cibo e identità locale. Sistemi agroalimentari e rigenerazione di comunità. Sei esperienze lombarde a confronto, Presentazione di A. Magnaghi, Centro Studi Valle Imagna, Bergamo 2015.

III LA CITTÀ, BENE PUBBLICO E COMUNE Un’incomparabile eredità Occorre ritornare a Cattaneo, la fonte originaria che ispira il progetto del nostro viaggio tra le istituzioni italiane. Nel celebre saggio La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, del 1858, lo scrittore lombardo individuava nella continuità e preminenza delle realtà urbane lungo il territorio della Penisola l’elemento originale che annodava la nostra storia in uno svolgimento unitario e coerente. «Senza questo filo ideale – egli scriveva – la memoria si smarrisce nel labirinto delle conquiste, delle fazioni, delle guerre civili e dell’assidua composizione e scomposizione degli stati». Le città che resistono a tante convulse e disordinate vicende sono in grado di offrirci un elemento intangibile di continuità. E genialmente scorgeva la matrice originale della nostra storia urbana: «Fin dai primordi la città è altra cosa in Italia da ciò ch’ella è nell’oriente o nel settentrione. L’impero romano comincia entro una città, è il governo d’una città dilatato a comprendere tutte le nazioni che circondano il Mediterraneo»1. Cattaneo, che aveva una visione vasta e lunga della nostra storia, individuava soprattutto nella istituzione del municipio l’elemento profondo di aggregazione che aveva resistito nel tempo e che aveva reso possibile la costruzione e la sopravvivenza delle città prima e dopo Roma. Il municipio, vale a dire un nucleo di aggregazione politica, di governo del territorio, principio ispiratore, 1   C. Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858), in Id., Opere scelte, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, IV, Scritti 1852-1864, Einaudi, Torino 1972, pp. 79-80. I corsivi sono nel testo. Su questi temi è ritornato con acute osservazioni G. Consonni, La bellezza civile. Splendore e crisi della città, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2013, pp. 27 e ss.

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aggiungiamo noi, della città come progetto di organizzazione sociale dello spazio. Tale istituzione, che si era legata indissolubilmente al territorio circostante, aveva fatto sì che nessun contadino, ancora nell’Ottocento, si definisse lombardo, ma appartenente alla città più vicina. Il pastore di Val Camonica si definiva bresciano, quello di Val Sassina si faceva chiamare bergamasco, «mentre nessun agricoltore si chiama parigino, nemmen quasi a vista di Parigi»2. Per la verità non crediamo che una tale regola potesse applicarsi interamente in tutto il territorio italiano, anche se a Cattaneo non sfuggiva certo la diversa storia che avevano percorso le città del Sud, organizzate all’interno di un regno a partire dalle invasioni normanne. Ma quel che qui interessa è riprendere il filo attualissimo della riflessione dello scrittore, che scorgeva nella Roma antica, repubblicana e imperiale, un centro generatore di città, un potere che si dilatava territorialmente attraverso presidi urbani. E in effetti oggi appare evidente che per comprendere le origini profonde di questa geniale invenzione della civiltà umana, questa forma di organizzazione della vita in comune, nel momento in cui essa viene aggredita e sconvolta da un ritorno di inaudita barbarie, occorre ritornare brevemente alle sue origini romane3. E non senza sorprese. Come ha mostrato – e in parte ricordato e confermato – una valente studiosa italiana, Annapaola Zaccaria Ruggiu, la fondazione delle città nella Roma antica assumeva la forma di un intervento fondativo nel territorio del sacro. Era in senso proprio una funzione religiosa. Si interveniva in un’area spopolata, dominio della natura e dunque, secondo i Romani, del caos e la si configurava secondo un ordine che la sacralizzava. Perché «Lo spazio è così intimamente legato con le attività essenziali della vita e con la realtà e la natura della comunità da essere visto come direttamente radicato nel sacro ed espressione di esso»4. Del resto, com’è stato sottolineato da un grande conoscitore del diritto romano, Yan Thomas, «Il diritto romano attesta di una vicinanza giuridica costante tra il pubblico e il sacro, termini che qualificano    Cattaneo, La città, cit., p. 82.    Per le differenze, ma anche per le forti somiglianze, con le concezioni che i Greci avevano della città, A. Zaccaria Ruggiu, Rapporto tra vie urbane e abitazioni nella città romana, in Mélanges Raymond Chevalier, II, Histoire & archéologie. Tome 1, a cura di R. Bedon e P.M. Martin, Université de Tours, Tours 1994, pp. 223 e ss. 4    A. Zaccaria Ruggiu, Spazio privato e spazio pubblico nella città romana, École française de Rome, Roma 1995, p. 10. 2 3

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comunemente i luoghi e le cose sottratte al dominio individuale». Una concezione che Roma condivideva con la vicina Grecia5. Com’è noto i Romani ordinavano il nascente spazio urbano secondo due assi che si intersecavano, il cardo, tracciato in direzione del polo, e il decumano, che seguiva la direzione del sole, da oriente a occidente. Ai lati di questi assi, che diventavano le strade principali della città, si disponevano i templi e gli edifici pubblici, il foro, le case private e scorrevano le vie minori, con i loro vari nomi (platea, via, angiportus, callis, actus, limes, strata, clivus ecc.)6. Una geometria che è essa stessa bellezza delle forme e che ancora oggi possiamo ammirare in contrasto con gli informi agglomerati delle città musulmane – che somigliano a tante nostre odierne periferie – in città come Jerash in Giordania, Volubilis in Marocco, Leptis Magna o Sabratha in Libia. Una geometria e un ordine che erano il frutto di un disegno, di un piano, di un progetto di organizzazione e di edificazione dello spazio coincidente con un progetto di società. Le città non nascevano come occupazione caotica di frammenti sparsi di territori da parte di singole famiglie o gruppi o, per dirla ancora con Cattaneo, da parte di tribù guerriere che vi ammassavano il proprio bottino di guerra. Esse costituivano un progetto di comunità. Al loro ordine organizzativo si dovevano subordinare gli interessi privati, considerati certo legittimi, ma incapaci da sé di produrre comunità, e visti anzi come antagonisti all’interesse collettivo. Lo «stesso diritto di proprietà privata – ha ricordato la Zaccaria Ruggiu – attinge la propria legittimazione a partire dal “pubblico”. Sul terreno più propriamente urbanistico, per il diritto romano la proprietà non può mai essere tale da contraddire la dimensione comunitaria e pubblica della città come intero. Gli stessi singoli edifici sono momenti e articolazioni del “pubblico”, e questo indipendentemente dal fatto che essi si trovino in aree pubbliche o private»7. Naturalmente va ricordato, come 5   Y. Thomas, Il valore delle cose, a cura di M. Spanò, con un saggio di G. Agamben, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 26-27. Sui diversi caratteri della città greca e romana, entro una più ampia riflessione etico-politica, cfr. M. Cacciari, La città, Pazzini, Villa Verrucchio 2004. 6   Zaccaria Ruggiu, Spazio privato e spazio pubblico, cit., p. 231. Sul legame tra assi stradali e centuriazione, E. Regoli, Centuriazione e strade, in S. Settis (a cura di), Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano, Panini, Modena 1984, pp. 106-107. Sugli sviluppi medievali della centuriatio in area padana, R. Raho, I paesaggi dell’Italia medievale, Carocci, Roma 2015, pp. 59-61. 7    Zaccaria Ruggiu, Spazio privato e spazio pubblico, cit., p. 39.

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fa opportunamente l’autrice, che il concetto di privato qui utilizzato è moderno, perché non esiste nelle società precapitalistiche una originarietà del suo presente significato. Ma quel che qui importa sottolineare è questo coincidere della dimensione pubblica con la città e del suo prevalere sugli interessi singoli per una precisa volontà progettuale della politica. Come ha ricordato ancora Yan Thomas a proposito delle strade, spazio per eccellenza dell’accesso di tutti: «Non era la natura stessa delle cose a parlare. Era un magistrato che definiva i limiti e i servizi di quei luoghi perpetuamente inalienabili. Nel caso delle strade, un passaggio del Digesto lo mostra chiaramente: “Il suolo della via pubblica è pubblico, lasciato all’uso pubblico da colui il quale ha diritto di rendere pubblico il suolo, secondo un tracciato compreso entro certi limiti in larghezza, perché vi si possa circolare e viaggiare pubblicamente”»8. Come vedremo, questi elementi fondativi della città saranno confermati e arricchiti dalla successiva storia urbana dell’Italia, al punto da farne un carattere eminente di originalità incomparabile con altri paesi d’Europa e del mondo. Cattaneo non li ha compresi esplicitamente tra le sue “istituzioni”, ma lo facciamo noi, convinti di non forzare più di tanto il suo pensiero. Certo, nel trattare brevemente dello sviluppo della dimensione urbana si affrontano temi ed esperienze che non sono esclusivi della storia d’Italia. Non solo perché da un certo momento in poi questa forma di organizzazione spaziale e sociale si è affermata soprattutto in Europa e poi in tutto il mondo. Ma anche e più specificamente per il fatto che, nel resto d’Europa, l’impronta romana sui territori dei rispettivi paesi è stata rilevantissima. Ancora oggi la geografia storica può mostrare come nuclei urbani e grandi assi viari tuttora vivi e in uso coincidono, più o meno perfettamente, con i tracciati e i presidi della colonizzazione romana. È «davvero sorprendente – ha osservato una geografa inglese – il grado di dipendenza delle città europee, sia medievali sia moderne, da località e fondazioni romane»9. 8   Thomas, Il valore delle cose, cit., p. 42. Si veda anche A. Di Porto, Res in usu publico e “Beni comuni”. Il nodo della tutela, Giappichelli, Torino 2013, pp. 35 e ss. 9   C.T. Smith, Geografia storica d’Europa. Dalla preistoria al XIX secolo (1967), Laterza, Roma-Bari 1982, p. 108. La ricerca archeologica recente ha anche scoperto linee di continuità fra ville romane e insediamenti medievali: cfr. Id., Western Mediterranean Europe. A Historical Geography of Italy, Spain and Southern France since the Neolithic, Academic Press, London-New York 1979, pp. 39-40.

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D’altra parte, anche in epoca più tarda, l’influenza della nostra cultura urbana sui grandi paesi del Vecchio Continente è stata tale da fare dell’evoluzione delle forme della città per tanti aspetti, e per un lungo tratto, una comune storia europea. Durante il nostro Rinascimento non solo la città italiana ha fatto da modello per gli architetti degli altri paesi, ma, come ha ricordato Leonardo Benevolo, i suoi ideatori e realizzatori sono andati a proporla direttamente nei vari Stati europei: «Gli artisti trasportano, durante le loro peregrinazioni, un carico culturale esplosivo, che dovunque è in grado di produrre rilevanti trasformazioni. Il loro campo di lavoro è ormai l’Europa intera, non solo l’Italia. Aristotele Fioravanti è chiamato in Inghilterra nel ’67 [del 1400] e in Russia nel ’75, Lorenzo de’ Medici nel ’92 presenta Andrea Sansovino al re del Portogallo; nel ’96 il cardinale della Rovere invia Giuliano da San Gallo presso il re di Francia a Lione»10. E tuttavia, pure in questa comune area europea, il percorso urbano dell’Italia conserva la sua singolarità e per tanti aspetti unicità, almeno per una lunga fase storica. Innanzi tutto per il numero, le dimensioni, il rilievo che le città e le strutture urbane hanno nel suo territorio. Alcuni storici dell’urbanistica romana hanno affermato, non senza buone ragioni, che l’“Italia delle cento città” nasce molto precocemente, intorno al II e al I secolo a.C., grazie all’espansione agricola che avviene nella tarda età repubblicana. Le maggiori facilitazioni concesse dal potere di Roma ai coloni che si insediano lungo la Penisola consentono in quella fase la nascita e il rapido sviluppo di centri destinati a durare nei secoli, anche se con diversa fortuna: Bologna, Piacenza, Vibo Valentia, Copia-Thuri [Sibari], Pozzuoli, Salerno, Policastro, Crotone, Aquileia, Luni ecc.11. Tale disseminazione innumerevole di centri urbani è stata poi confortata da uno straordinario successo economico, politico, culturale e artistico delle singole città che non trova raffronti in nessun angolo del mondo. Se ne accorse a modo suo Lord Byron: «Qua in Italia le città sono tutte capitali»12. È sufficiente stilarne un breve elenco per 10   L. Benevolo, Storia dell’architettura del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1973, pp. 246-247. 11   P. Gros e M. Torelli, Storia dell’urbanistica. Il mondo romano, Laterza, RomaBari 1994, pp. 147-152. 12   Cit. in A. Brilli, Il grande racconto delle città italiane, il Mulino, Bologna 2016, p. 23.

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avere intuitivamente l’idea di una assoluta peculiarità. Dov’è possibile trovare in un singolo territorio nazionale, senza considerare Roma, una sequela così fitta di città come Trento, Milano, Bergamo, Brescia, Pavia, Torino, Genova, Venezia, Padova, Vicenza, Verona, Trieste, Mantova, Bologna, Modena, Ferrara, Piacenza, Ravenna, Firenze, Pisa, Siena, Pistoia, Arezzo, Lucca, Napoli, Bari, Lecce, L’Aquila, Reggio Calabria, Palermo, Messina, Catania, Cagliari? Vale a dire centri protagonisti di una storia politica e civile spesso rilevante, titolari nel proprio spazio di patrimoni artistici e forme urbane di non comune originalità e bellezza? D’altra parte, la disseminazione urbana nella Penisola non si esaurisce qui. Se è vero, come ha sottolineato lo storico francese Marcel Poëte, che «Sono esistite alcune civiltà tipicamente urbanizzatrici come quelle della Grecia e di Roma antica»13, bisogna aggiungere che sul nostro territorio è fiorita una civiltà che prima di Roma è stata anch’essa generatrice di città: quella degli Etruschi, fondatori di centri come Orvieto, Perugia, Volterra, Cortona e tanti altri che sarebbe lungo enumerare14. Ma occorre anche rammentare che l’Italia ha continuato e sviluppato nell’era volgare tale percorso di civilizzazione. Tanto nel medioevo quanto nell’età del Rinascimento, per iniziativa dei poteri locali, sono nate nuove città15. È peraltro noto che la disseminazione urbana nella Penisola non si esaurisce nei centri grandi e “medi” che abbiamo parzialmente e sommariamente elencato, ma si esprime e si articola, da origini più o meno remote, tramite le migliaia dei cosiddetti “centri minori”: vale a dire città e borghi cittadini che non si sono ulteriormente sviluppati in età contemporanea, ma che posseggono un elevato patrimonio architettonico e artistico squisitamente cittadino. Non a caso, Federico Zeri, nella Prefazione a Inchieste su centri minori (significativamente in uno dei volumi d’una Storia dell’arte italiana) che riguardava 12 cittadine, rammentava trattarsi di «una scelta assai esigua, praticamente irrisoria rispetto alle migliaia di esempi presenti nel territorio 13   M. Poëte, Introduzione all’urbanistica. La città antica, Prefazione e traduzione di M. Zocca, Einaudi, Torino 1958, p. 26. 14   R. D’Ambrosio, Alle origini della città. Le prime esperienze urbane, F. Fiorentino Editore, Napoli 1956, p. 208. Sulle città etrusche, F. Baiotani, M. Cataldi e M. Pasquinacci (a cura di), Le città etrusche, Mondadori, Milano 1973. 15   Cfr. G.C. Argan e M. Fagiolo, Premessa all’arte italiana, in Storia d’Italia, vol. I, I caratteri originali, Einaudi, Torino 1972, pp. 764 e ss. Su L’Aquila, «civitas nova», A. Clementi e E. Piroddi, L’Aquila, Laterza, Roma-Bari 1986.

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italiano»16. Esempi tra tanti luoghi urbani percorsi da un dinamismo storico-artistico che nel corso dei secoli, per l’originalità tormentata della storia italiana, alla quantità hanno aggiunto la stratificazione di una qualità superba e incomparabile di forme e di stili. Un grande architetto, Costantino Dardi, ricordava come il cittadino italiano viva nell’Italia delle cento, mille città rinascimentali e barocche, medievali e neoclassiche, gotiche, normanne, arabe e bizantine17. Quale felicità? Ma per quale ragione collochiamo le città nell’ordine delle istituzioni da cui dipende la felicità, vale a dire il benessere dei cittadini? Che dalla città dipenda, come per altre istituzioni indicate da Cattaneo, la cultura dei popoli, non è certo affermazione che ha bisogno di essere illustrata. Basterebbe ricordare, per il mondo antico, l’incommensurabile tesoro di sapere che hanno prodotto le poleis greche per rispondere con pienezza alla domanda. E si può aggiungere a queste il sontuoso lascito di letteratura e poesia che ci ha tramandato Roma, e più tardi la fioritura delle università nelle città medievali in Italia come nel resto d’Europa. D’altra parte non bisognerebbe neppure dimenticare che la stessa costruzione materiale della città non solo genera cultura, ma è generata a sua volta dalla cultura. E qui non pensiamo solo a quella degli architetti, degli ingegneri, dei sommi artisti, ma anche ai saperi di quelle innumerevoli figure, che non hanno lasciato testimonianze scritte e che ci rimangono ignote. Quanta della bellezza e delle soluzioni urbanistiche e architettoniche delle nostre città sono dovute ai capimastri, ai muratori, ai tagliapietre, ai falegnami, agli stuccatori, che nel corso dei secoli hanno edificato i nostri centri con le loro mani? Ma come si configura ed esprime la felicità urbana, nel senso illuministico in cui l’abbiamo proposta all’inizio del nostro racconto, vale a dire l’umano benessere del lessico attuale18?

16   F. Zeri, Prefazione, in Storia dell’arte italiana. Parte Terza. Situazioni momenti indagini, I, Inchieste su centri minori, a cura di A. Guidoni, Einaudi, Torino 1980, p. xliii. 17   C. Dardi, Elogio della piazza, in L. Barbiani (a cura di), La piazza storica italiana. Analisi di un sistema complesso, Marsilio, Venezia 1992, p. 35. 18   Una ricca riflessione sul tema del rapporto tra territorio e felicità pubblica è svolta da G. Paba, Felicità e territorio. Benessere e qualità della vita nella città e nell’am-

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Il legame tra la città e la felicità è in realtà già presente alla mente degli antichi. Come ha ricordato l’architetto austriaco Camillo Sitte – che alle città, soprattutto italiane, ha dedicato un celebre saggio – già Aristotele sottolineava che scopo della costruzione urbana fosse quello di «offrire agli abitanti sicurezza e, insieme, felicità»19. Se andiamo alle origini di questa creazione, ai suoi primi fondamenti, proiettando anche lo sguardo agli sviluppi dei secoli successivi, sino a buona parte dell’età contemporanea, troviamo costantemente la ricerca dell’umano benessere quale fonte e impulso permanente dell’edificazione urbana. Non soltanto nel senso generico di creazione di un passaggio fondamentale della civilizzazione umana: diceva Lewis Mumford a proposito della città che «Col linguaggio essa rimane forse la maggiore opera d’arte dell’uomo»20. Ma anche per ragioni molteplici che hanno a che fare innanzi tutto con le condizioni materiali delle comunità umane, che nella città approdano per la prima volta ad insediamenti stabili dopo millenni di nomadismo. Sempre Mumford – che allo studio della storia e delle vicende urbane contemporanee ha dedicato studi di non comune valore – ricordava che «I fattori concreti fondamentali della vita cittadina sono l’ubicazione stabile, il ricovero duraturo, le possibilità permanenti di riunione, scambio e immagazzinamento: i fattori sociali fondamentali sono la divisione sociale del lavoro, che giova non soltanto alla vita economica, ma anche agli sviluppi culturali»21. Viviamo da troppi secoli entro strutture urbane per comprendere intuitivamente quanta intelligenza strategica e conoscenza del territorio c’era all’origine del progetto di una città. Essa doveva rispondere a una straordinaria molteplicità di requisiti per poter assicurare ai suoi abitanti quella superiore agiatezza che li poteva sottrarre ai disagi del villaggio rurale. Già nel mondo antico appariva evidente la necessità di avere biente, in A. Magnaghi (a cura di), Il territorio bene comune, Firenze University Press, Firenze 2012, pp. 48 e ss. che individua, tra l’altro, nella partecipazione dei cittadini alle scelte e alle decisioni comuni una fonte di soddisfazione morale. 19   C. Sitte, L’arte di costruire le città (1889), a cura di D. Wieczoreck, Jaca Book, Milano 2015, p. 20 (il titolo della traduzione italiana, esemplata sull’edizione francese, tradisce gravemente il senso del titolo tedesco Der Städtebau nach seinen künstlerischen Grundsätzen). 20   L. Mumford, La cultura delle città (1937), a cura di M. Rosso e P. Scrivano, Einaudi, Torino 2007, p. lxxiii. 21   Ivi, p. 476.

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intorno a sé campi fertili per il grano e orti destinati all’accumulazione e al rifornimento costante e ravvicinato di derrate alimentari22. Così come la presenza di una grande strada, e soprattutto di un fiume che rendesse rapidi i collegamenti e gli eventuali rifornimenti da aree più lontane. Mumford definiva il fiume, quale forma di «idrovia», «la componente dinamica della città, quella senza la quale non avrebbe potuto continuare a crescere in dimensione, in importanza e in produttività»23. Tale necessità, questo vincolo della città al suo territorio, costituirà a lungo un suo carattere sistemico. «Fino a tempi molto recenti – ha ricordato Fernand Braudel – ogni città doveva avere il suo cibo alle sue stesse porte, a portata di mano (...) La campagna, infatti, deve sostenere la città, se questa non vuole temere ad ogni istante una carestia: il grande commercio può alimentarla solo eccezionalmente»24. Ma se tale vincolo oggi appare, nonostante tutto, abbastanza ovvio, non cessa di sorprendere la visione ecosistemica che sin dal mondo antico urbanisti e osservatori hanno avuto di questa forma organizzata del vivere. Se essa doveva garantire un superiore benessere materiale ai cittadini occorreva che fosse collocata in un sito appropriato, e dotato di alcuni vantaggi strutturali. Oltre che essere inserita – come Sitte poteva osservare e ammirare nelle città del Sud – nella «bella natura» nella convinzione della «forte influenza dell’ambiente sulla sensibilità degli abitanti»25. La città doveva essere provvista di mura, perché aveva il compito di proteggere i suoi abitanti con maggiore sicurezza di quanto non potessero fare i villaggi nelle campagne. Ma essa doveva assicurare anche della buona aria, fondamentale per i bisogni elementari della vita non meno dell’acqua potabile. Era quello che potremmo definire un principio d’igiene – non dissimile da quello che orienterà l’urbanistica europea di fine Ottocento – di cui tener conto fin dalla fondazione. Nella cura di tale ambito, Vitruvio riconosce la paternità scientifica 22   Tale sottolineatura si trova normalmente in Strabone, nei vari libri della sua Geografia, o è apertamente teorizzata come in Vitruvio, Architettura (dai libri I-VII), Introduzione di S. Maggi, testo critico, traduzione e commento di S. Ferri, Rizzoli, Milano 2002, p. 131. 23   L. Mumford, La città nella storia, Introduzione di M. Dau, Castelvecchi, Roma 2013, p. 111. Si veda anche Poëte, La città antica, cit., pp. 26-29. 24   F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), vol. I, La struttura del quotidiano, Einaudi, Torino 1982, p. 457. 25    Sitte, L’arte di costruire le città, cit., p. 19.

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ai Greci: «Ma bisogna anche conoscere la disciplina medica per gli aspetti del cielo – egli ricordava – che i Greci chiamano ĸλίματα e per la salubrità o meno dell’aria e dei luoghi, e per l’uso delle acque: senza questi calcoli non può darsi una abitazione salubre»26. Egli pertanto scorgeva – evidentemente in coerenza con la cultura urbanistica romana del suo tempo – nelle condizioni ambientali un prerequisito essenziale per la localizzazione del sito urbano: «Quando pertanto con questi criteri di salubrità si sarà definito il tracciato delle mura, e saranno state scelte regioni copiose di frutti per alimentare la città, e il lastricamento delle strade, e l’opportunità della navigazione fluviale o marittima rendano celeri i rifornimenti fino alle mura, allora bisognerà fare i fondamenti delle torri e dei muri»27. La qualità dell’aria e la sua salubrità saranno sempre, nei secoli successivi, un prerequisito per gli insediamenti cittadini e al tempo stesso un criterio di valutazione delle condizioni di benessere delle popolazioni e delle città. Naturalmente le valutazioni non erano esenti da pregiudizi o comunque da comprensibili parzialità. È il caso, ad esempio, di Paolo Diacono, lo storico longobardo, uomo del Nord, che reputava la «regione settentrionale» quanto più fredda tanto «più salubre per i corpi degli uomini e adatta alla propagazione delle stirpi»28. Pier de’ Crescenzi, il celebre agronomo bolognese del XIII e XIV secolo, raccomandava: «colui che elegge luoghi abitabili dee conoscere la terra della città (...) e dee conoscere la sua acqua e la sostantia di tale acqua (...) E ancora s’ell’è a’ venti disposta o in profonda terra; e dee conoscere i venti che quivi traggono, se sono sani, freddi», perché essi sono condizioni di «buona aere»29. Non stupisce dunque che Bonvesin de la Riva, l’entusiastico apologeta della Milano ducentesca, mettesse subito in evidenza, fra le condizioni che erano alla base del ben vivere in quella città, oltre alle «fonti limpide e fertili fiumi», la «salubre mitezza di clima»30. Un sapere ambientalistico, dunque, che dall’età classica si tra   Vitruvio, Architettura, cit., p. 97.    Ivi, p. 123. 28   P. Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di F. Bonalumi, San Paolo, Milano 2008, p. 37. 29   Pier de’ Crescenzi, Trattato dell’agricoltura. Traslato nella favella fiorentina (...), Tipografia Vicentini e Franchini, Verona 1851, pp. 99-100. 30    Bonvesin da la Riva, Le meraviglie di Milano (De magnalibus Mediolani), a cura di P. Chiesa, Mondadori, Milano 2011, pp. 18-19. 26 27

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smetteva all’era volgare e che costituirà un criterio fondativo non solo per l’edificazione di nuove città, ma anche per i loro sviluppi e per la valutazione della qualità della vita urbana. Sicché sono di grande significato, per lo meno per la storia della cultura urbanistica, le considerazioni che ne traeva Leon Battista Alberti, superbo tramite tra l’eredità classica e il Rinascimento italiano. In quello che è considerato il primo trattato dell’architettura moderna, scritto a metà del XV secolo, il De re aedificatoria, Alberti scriveva: Gli Antichi si adoperavano con ogni sforzo per avere una regione che fosse, per quanto possibile, priva di ogni fattore nocivo e abbondante di comodità. Anzi evitavano con ogni cura soprattutto quelle con un clima rigido e malsano: precauzione saggia e indiscutibilmente necessaria. Si sa, infatti, che per loro natura la terra e l’acqua, qualora abbiano qualche difetto, possono essere corrette con l’arte e l’ingegno. Ma si sa che nulla del genio e dell’opera umana può modificare il cielo. Siamo del tutto sicuri che se l’aria che respiriamo (che comprendiamo essere la fonte principale della vita e della sua conservazione) sarà perfettamente pura, gioverà meravigliosamente alla salute. Chi non conosce quanta influenza ha il clima nella nascita, nella crescita, nello sviluppo e nella buona conservazione delle cose?31

Quanta verità di fatto e infondatezza di previsione in queste parole! Alberti non ha immaginato che quel cielo, che a lui pareva intangibile, gli uomini l’avrebbero modificato con le proprie mani, ma per peggiorarne la qualità, per trasformarlo, con l’effetto serra, in minaccia di future catastrofi. La bella natura Il dominio e la degradazione della cultura contemporanea in senso unilateralmente antropocentrico, che hanno rimosso la natura dal novero dei valori fondativi della vita, hanno cancellato dall’ambito dell’utilità e della bellezza urbana i vantaggi e i pregi estetici del mondo naturale. Il clima, lo abbiamo già visto, aveva un rilievo notevole negli scrittori che osservavano e ammiravano le città. Nel corso 31   L.B. Alberti, L’arte di costruire (De re aedificatoria), a cura di V. Giontella, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 14.

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dell’età moderna è stato sempre considerato come un dato di valore nella qualità della vita urbana. Così Bergamo, nelle parole del poligrafo Francesco Sansovino, ha un «circuito assai spatioso, e posto in aria purgata e sottile», mentre Ferrara era «di grossa aria per esser posta in quei luoghi paludosi, abbondante delle cose per il vivere degli uomini»32. Per Francesco Scotto, nel suo Itinerario d’Italia, a Trento «vi è buon’aria d’estate, ma ne’ giorni canicolari assai calda, siccome assai fredda l’inverno per le nevi, ed i ghiacci»33. Pietro Bertelli, nel suo Teatro delle città d’Italia, rivolge continue attenzioni al clima e alla salubrità dell’aria, sottolineando il ruolo che vi ha la natura indipendentemente dall’intervento umano. In certi casi le osservazioni riguardano intere regioni, com’è il caso della Campania, dove tutto sembra «opera della natura. Ma quella temperie dell’aria è tutta vitale e una perpetua sanità». E dal Nord al Sud della Penisola la valutazione del clima e dell’aria è spesso associata all’ammirazione dei dintorni naturali o coltivati. Così Udine «è d’aria molto temperata, la quale produce in ogni tempo huomini di grande ingegno». Non diversamente Parma, che ha «terra fertilissima, l’aria temperata», essendo situata «in luogo tanto gratioso, che l’inverno non vi fa troppo freddo, né troppo caldo l’estate». Anche ad Orvieto, allora città importante, si trovava «molto piacevole aria, eccetto nel tempo d’Autunno quando si macera la canapa nel fiume Paglia». Problema che non si ritrovava a Gallipoli, dotata di un’«aria molto salutifera» essendo collocata sul mare34. E naturalmente è lunga la lista dei viaggiatori del Grand tour che hanno apprezzato il clima e la qualità dell’aria dei nostri centri, così come lo splendore dei giorni luminosi a Napoli o in tanti borghi e città del nostro Sud. Non costituisce, infatti, la luminosità, il numero abbondante dei giorni in cui splende il sole e illumina con speciale radiosità, un pregio che la natura regala ai territori e ai cieli delle città? Non produce gioia e conforto in chi ci vive? E certamente ciò che meglio fa comprendere il valore di questo impagabile dono della na32   F. Sansovino, Ritratto delle più nobili et famose città d’Italia (...), Venetia 1575, p. 15 e p. 35. 33   F. Scotto, Itinerario d’Italia (...), nella stamperia di Generoso Salomoni, Roma 1761, p. 8. 34   P. Bertelli, Teatro delle città d’Italia. Con le sue figure intagliate in Rame & descrittrici di esse (...), nella Stamparia di Domenico Amadio Libraro dell’Ancora, Vicenza 1616, pp. 3, 79, 104, 146, 217.

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tura, che non è misurabile e non rientra in alcun calcolo economico, è lo sguardo e la considerazione comparativa degli uomini del Nord Europa. Nel suo Viaggio in Italia Goethe notava sempre con vivacità ed entusiasmo le caratteristiche del clima dei luoghi che visitava. E nell’autunno 1786, mentre si aggirava per Roma, scriveva: «Questo bel tempo tiepido e tranquillo, non interrotto che talvolta da qualche giorno di pioggia, è per me, alla fine di novembre, una cosa affatto nuova. Approfittiamo del tempo bello per goderlo all’aria aperta». E che cosa di più significativo delle riflessioni del grande poeta tedesco su Verona, in una sera di settembre del 1786, in cui la vita notturna appariva una normale continuazione di quella diurna? Che «cosa sia veramente questa giornata noialtri delle regioni cimmerie non lo sappiamo. In una eterna e fosca nebbia, che sia di giorno o che sia notte, per noi è sempre lo stesso; quanto tempo possiamo noi veramente uscire all’aperto e goderci l’aria libera?»35. Ma la bellezza naturale, quella originaria non modificata dalla manipolazione umana, non ancora diventata paesaggio, ha avuto a lungo, prima della occupazione edilizia delle periferie, una funzione rilevante nella forma della bellezza urbana. Anche in questo caso il Viaggio di Goethe offre un ricco repertorio. Ma forse la lode più iperbolica è quella dedicata a Napoli: «Se i napoletani non vogliono saperne di lasciar la loro città, se i loro poeti decantano con iperboli esagerate la felicità della sua posizione, bisognerebbe scusarli, anche se nei dintorni sorgessero due o tre Vesuvi di più. In questo paese non è assolutamente possibile ripensare Roma: di fronte alla posizione tutta aperta di Napoli, la capitale del mondo, nella valle del Tevere, fa l’impressione di un vecchio monastero mal situato»36. Notazione ingiusta e parziale nei confronti di Roma, estesa anche sui colli circostanti, oltre che nella valle del Tevere. Ma l’iperbole è tutta in lode della veduta panoramica di Napoli e del suo golfo, su cui si è formata una letteratura secolare. 35   J.W. Goethe, Viaggio in Italia (1786-1788), introduzione e note di L. Rega, Rizzoli, Milano 1991, p. 147 e p. 43. 36   Ivi, p. 195. Ma le iperboli su Napoli sono numerose. Sempre in quel secolo lo scrittore francese Charles Duclos scrisse: «Questa città costruita ad anfiteatro attorno al golfo ostenta la più bella vista di cui si possa godere nell’intero universo» (Brilli, Il grande racconto delle città, cit., p. 229). Meno spettacolare ma certo pittoresco l’ingresso a Napoli, via terra, attraverso l’Appia, decantato da tanti viaggiatori (I. Agostini, Il paesaggio antico. Res rustica e classicità tra XVIII e XIX secolo, Aiòn Edizioni, s.l. 2009, pp. 80 e ss.).

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Sempre in relazione alla collocazione del sito e alla sua bellezza naturale, dove la mano dell’uomo non è intervenuta se non per completarla, si deve ricordare qui almeno Palermo. L’ex capitale del Regno ha sempre attratto l’ammirazione dei visitatori, come abbiamo già visto, sin dalla dominazione araba. Per un osservatore del XVII secolo come Pietro Bertelli i dintorni della città avevano «qualche sembianza di una campagna dipinta»37. Non stupisce dunque se a metà del XIX secolo Ferdinand Gregorovius, il grande storico di Roma medievale, in visita alla città siciliana, mentre l’ammirava dall’alto del castello normanno della Zisa, non poteva trattenere il suo entusiasmo: «Ho visto pochi panorami simili a quello che si gode dal tetto a forma di terrazzo di questo castello: di là si scorgono tutti i dintorni di Palermo, dalla spiaggia ai monti, dintorni di una bellezza che la parola non sa, né può descrivere. Basti dire che si abbraccia con lo sguardo tutta la Conca d’Oro, co’ suoi neri monti, maestosi e severi tali da sembrar tagliati dallo scalpello greco, co’ suoi giardini ricchi d’aranci, cosparsi di ville, con la sua città turrita e piena di cupole, con la mole gigantesca e imponente del monte Pellegrino, dall’altra del capo Zafferano, che si profonda in mare»38. Ma la bellezza naturale delle nostre città si è espressa in sommo grado esaltando gli elementi che in età preindustriale hanno contrassegnato tutte le città del mondo: vale a dire le colture e soprattutto gli orti e i giardini al loro interno e nei dintorni39. Una supremazia estetica che ovviamente ha a che fare con i caratteri, la varietà e la ricchezza della nostra agricoltura, la quale a sua volta, come sappiamo, ha risentito del dominio ravvicinato e delle influenze culturali delle mille città a cui era legata. Il bel paesaggio, universalmente celebrato, dei colli toscani e umbro-marchigiani è figlio di questa straordinaria fusione tra la cultura estetica dei signori cittadini e la policultura contadina, resa possibile dal clima, dalla varietà degli habitat e da una tradizione agronomica millenaria. Ha scritto Henri Desplanques, il più sistematico studioso di questo paesaggio dell’Italia centrale: «La campagna toscana è stata costruita come un’opera d’arte da un popolo raffinato,    Bertelli, Teatro delle città d’Italia, cit., p. 226.    F. Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, vol. I, U. Carboni Libraio Editore, Roma 1906, pp. 200-201. 39    Mumford, La città nella storia, cit., pp. 396 e ss. che si sofferma sullo stile di vita e sugli scopi igienici dei dintorni delle città, coltivati o selvatici. 37 38

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quello stesso che ordinava nel ’400 ai suoi pittori dipinti ed affreschi: è questa la caratteristica, il tratto principale calato nel corso dei secoli nel disegno dei campi, nell’architettura delle case toscane. È incredibile come questa gente si sia costruita i suoi paesaggi rurali come se non avesse altra preoccupazione che la bellezza»40. Umbria e Marche, sia pure con maggiore durezza di morfologia fisica e povertà sociale, facevano parte del bel paesaggio di questa parte d’Italia in cui il disegno della campagna era figlio diretto della cultura promiscua, dei bisogni quotidiani della famiglia contadina41. Ma può capitare anche il caso in cui la bellezza del paesaggio periurbano dipendesse non solo e non tanto dalla cultura promiscua dell’autoconsumo, ma da una precoce specializzazione agricola. È quanto avveniva attorno ad alcuni centri del Sud. È il caso, ad esempio, di Lecce, di cui uno scrittore del Cinquecento osservava: «ha fertilissimo territorio con vaghi giardini, e a torno ha un uliveto di quaranta miglia, che fa una veduta molto bella»42. La bellezza della natura costruita, trasformata in paesaggio agrario, è dunque rinvenibile in ogni angolo della Penisola, da Nord e Sud, e sarebbe esercizio pedante qui far sfoggio di citazioni. Basti dire che i viaggiatori stranieri hanno trovato ragioni di ammirazione delle periferie agricole perfino di centri urbani di modesta dotazione architettonica e monumentale. È il caso della città di Catanzaro, visitata a fine Settecento dall’abate di Saint-Non: «Quanto alla città – notava onestamente lo scrittore e incisore francese – essa è senza alcun interesse e senza curiosità», ma la salubrità dell’aria e la fertilità del territorio l’hanno fatta prosperare, sicché scendendo a valle lungo il torrente della Fiumarella, si entra in un luogo «contornato da cascine e giardini piantati ad aranci e gelsi, luoghi deliziosi che fanno abbandonare la città per una gran parte dell’anno»43.

40   H. Desplanques, I paesaggi collinari tosco-umbro-marchigiani, in I paesaggi umani, Touring Club Italiano, Milano 1977, p. 100. C. Pazzagli, Il paesaggio degli alberi in Toscana. La campagna tra collina e pianura, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, I, Spazi e paesaggi, Marsilio, Venezia 1989, pp. 549 e ss. 41   H. Desplanques, Campagnes ombriennes. Contributions à l’étude des paysages ruraux en Italie centrale, Colin, Paris 1969, p. 333. 42   Cit. in V. Fagiolo e M. Cazzato, Lecce, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 76. 43    J.R. de Saint-Non, Voyage pittoresque à Naples et en Sicilie. Nouvelle édition, Dufour et C., Paris 1829, pp. 107-108.

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La bellezza bene comune La superiore civiltà urbana dell’età classica e di buona parte dell’età moderna, rispetto al nostro tempo, emerge con straordinario rilievo da altri elementi. Essa non è solo effetto di una più profonda sapienza materiale della natura, che si esprimeva nello studio dell’ambiente in cui doveva sorgere e svilupparsi. Tale patrimonio di saperi, frutto di una secolare esperienza, si esprimeva anche nella vasta conoscenza dei materiali dell’edificazione: del tipo di legname che fornivano a fini edificatori i diversi alberi, del comportamento delle pietre, delle rocce, dei mattoni, dell’uso delle malte ecc. A leggere oggi Vitruvio o il trattato di Alberti, nelle ampie parti specificamente dedicate a questi aspetti, sembra di scorrere le pagine di un manuale di ecoedilizia del nostro tempo. Ma in più vi si coglie un sostrato di sensibilità che condensa la spiritualità di un’epoca, la ricerca costante della bellezza. I materiali della costruzione dovevano assicurare stabilità e salubrità a chi abitava gli edifici, ma anche la piacevolezza del loro colore, la luminosità, la forma. Così, ad esempio, Vitruvio annunciava i temi del VII libro del suo trattato: «tratterò dei pavimenti e intonachi, in qual modo possan conseguire bellezza e solidità»44. Che la ricerca della bellezza, nel mondo romano, sia associata intimamente all’arte dell’edificare, del fondare e costruire città, è aspetto così noto da far rischiare l’ovvietà. Non solo per i lasciti sontuosi che quella civiltà ha lasciato in tanti angoli del mondo mediterraneo e d’Europa. Basterebbe ricordare che il progetto della città, come abbiamo già visto, all’atto della sua fondazione, nasceva sulla base del disegno ortogonale del cardo e del decumano e proseguiva secondo la partizione regolare della centuriatio45. Quell’ordine fondativo si irraggiava dagli assi viari centrali e plasmava con le sue conseguenti geometrie la campagna intorno. Ordine ed eleganza, simmetria e corrispondenze, costituivano dunque le premesse spaziali della bellezza, oltre che della funzionalità della città nascente. E vi subordinavano anche il circostante territorio rurale. Ma nell’era volgare, in Italia, la bellezza della città si arricchisce di altri elementi, si complica di nuovi valori e di nuove funzioni 44   Vitruvio, Architettura, cit., p. 367. Si vedano anche le pagine di Alberti dedicate alla costruzione delle strade, L’arte di costruire, cit., pp. 146-156. 45   Settis (a cura di), Misurare la terra, cit.

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simboliche e comunicative. Già nel medioevo l’eleganza, il decoro, il pregio artistico dei manufatti si fanno più intimamente cittadini di quanto non accadesse nel mondo romano, dove lo splendore degli edifici era dono, certamente ai cittadini, ma soprattutto esibizione del potere dei senatori o dell’imperatore di turno. Salvatore Settis ha ricordato come nel Constituto del Comune di Siena – espressione di una tradizione giuridica ducentesca –, tradotto in volgare nel 130910, veniva solennemente affermato: Intra li studi et solicitudini e’ quali procurare si debiano per coloro ’e quali ànno ad intendere al governamento de la città, è quello massimamente che s’intenda a la felicità de la città, perché la città dev’essere onorevolmente dotata et guernita, tanto per cagione di diletto et allegreça ai forestieri quanto per onore, prosperità et acrescimento de la città et de’ cittadini di Siena46.

Quanta modernità racchiusa in poche parole, quale monumento di splendore civile in questo italiano delle origini che pare scolpito in una stele di marmo. La città deve procurare felicità, e deve offrire gioia («diletto et allegreça») anche ai forestieri, oltre che ai cittadini senesi, a coloro che giungono da fuori, perché la città è un luogo di accoglienza, trova la sua ragion d’essere nell’ospitalità oltre che nella prosperità generale e nel suo incremento. Sappiamo che il potere comunale, a Siena, in quella città che ancora oggi, per dirla con Lando Bortolotti, costituisce «il più grande monumento medievale superstite in Italia e forse in Europa», vincolava con prescrizioni minuziose il comportamento dei cittadini per il rispetto del decoro urbano, ad esempio imponendo la costruzione di finestre a bifore, considerate leggere ed eleganti, agli edifici che venivano ad affacciarsi sulla piazza del Campo47. Ma Siena non è un caso unico e isolato. Settis ha mostrato con ampiezza di documentazione come le prescrizioni statutarie delle nostre città – che fossero Bologna o Spoleto, Catania o Siracusa, Vicenza o Sassari – nel Due, Tre, Quat46   S. Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, Torino 2010, p. 104. Si veda anche più specificamente, per tale documento, N. Giordano e G. Piccinni (a cura di), Siena nello specchio del suo Costituto in volgare del 1309-1310, Pacini editore, Pisa 2013. 47   L. Bortolotti, Siena, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 13 e p. 36.

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trocento curassero il bene pubblico e il decoro dello spazio urbano con sorprendente severità48. Le prescrizioni di questi legislatori comunali condensano come meglio non si potrebbe un tratto profondo della spiritualità su cui nasceva o rinasceva quel mondo urbano. La bellezza non esauriva il suo compito nel virtuosismo solitario dell’artista e non terminava il suo scopo nel divenire oggetto d’uso privato. Ad essa era assegnato il compito di fornire identità all’essere cittadino, di offrire in godimento, a tutti gli abitanti di una comunità, l’espressione più alta dell’umana creatività, per rendere più felice la condizione del vivere cittadino. Già quasi mezzo secolo fa, Ranuccio Bianchi Bandinelli, che ricordava a tal proposito gli statuti di Siena, ma anche lo statuto di Verona del 1276, sottolineava con chiarezza che «La bellezza delle città italiane non è dovuta a un caso pittoresco, ma (quasi sempre) a una precisa volontà, a precise direttive che sono state seguite per generazioni da governi comunali, che erano diretta espressione del popolo»49. La grandezza perduta di questo livello di civiltà si può oggi misurare con facilità osservando la superstite forma di progettualità del nostro tempo. Oggi si affida alla singola opera del grande architetto il compito di dare bellezza puramente estetica, col proprio solitario manufatto, a un universo urbano socialmente e culturalmente degradato, spesso divenuto urbanisticamente informe. Ma in passato, e per lunghissimo tempo, la forza di governo e di controllo degli interessi privati da parte del potere pubblico costituiva la caratteristica normale della vita della città e dei territori. Sappiamo – e ne abbiamo in parte accennato – che già nel medioevo nei vari comuni italiani il potere cittadino interveniva con severità per impedire che i privati usurpassero gli spazi pubblici, restringendo il lume delle strade, o per far rispettare l’igiene dei luoghi, regolamentando gli spazi del mercato50. In che cosa si esprimeva la bellezza già in età medievale e poi nel Rinascimento e per gran parte dell’età moderna? Potremmo dire,    Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, cit., pp. 105-106.    R. Bianchi Bandinelli, L’Italia storica e artistica allo sbaraglio, De Donato, Bari 1974, p. 29. 50   R. Smurra, Prassi amministrativa e spazi urbani di circolazione come immagine della città: Bologna alla fine del Duecento, in F. Bocchi e R. Smurra (a cura di), Imago urbis. L’immagine della città nella storia d’Italia, Atti del convegno internazionale (Bologna, 5-7 settembre 2001), Viella, Roma 2003, p. 417, che tratta anche i casi di Pisa e di Genova oltre che di Bologna. 48 49

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com’era del resto negli intendimenti dei grandi architetti che si sono succeduti nelle diverse epoche e nella cultura delle élites, che essa si esprimeva nella perfetta sintesi di funzionalità ed eleganza. Gli stilemi di questa grammatica estetica della città sono molteplici e di diverso rilievo e ancora oggi ammirabili, più o meno integri, in tanti nostri centri storici. Essi si esprimevano nella cerchia delle mura, nelle porte d’ingresso (strumento di difesa, ma anche apertura sul contado, spazio di accoglienza per il forestiero), nella piazza o nelle piazze, nel lastricato (che sottraeva i cittadini dal gravoso problema del fango invernale), nel palazzo comunale, nella cattedrale e nelle chiese, nei monasteri, negli edifici signorili, nelle fontane, nelle strade, nei ponti, nelle torri, nelle statue, negli edifici monumentali, nei teatri, nei grandi resti del mondo greco-romano. Per l’Italia, o almeno per alcune città d’Italia, occorre aggiungere un altro stilema urbano introvabile altrove: i portici di tante città emiliane. Originale invenzione che combinava il possesso privato dell’abitazione col carattere pubblico dello spazio coperto, delle “gallerie” dove i cittadini potevano liberamente passeggiare, prendere il fresco, ripararsi dalla pioggia. Nel 1288 – ha ricordato Francesca Bocchi – il comune di Bologna «obbligò tutti coloro che avevano proprietà in città e cadevano sotto la giurisdizione del Comune, a costruire gli edifici nuovi con il portico e a ripristinare quelli che fossero stati abbattuti». Scelta politica da cui discende una caratteristica della città che «non ha eguali in occidente»51. Ma dalla tarda età medievale del linguaggio urbano fanno parte anche i giardini52. Questi ultimi rappresentano una grande pagina della storia delle nostre città, che qui può essere solo sfiorata. Almeno a partire dal XVI secolo, soprattutto centri come Roma e Firenze arricchiscono con gusto estetico sempre più raffinato le aree urbane di giardini ornamentali. A Roma, gli horti, che avevano conosciuto in età imperiale, grazie agli influssi dell’Oriente, fasti straordinari si trasformano sempre più decisamente in costruzioni artistiche, componenti dell’arredo urbano, anche se connessi di norma agli edifici 51   F. Bocchi, Normativa urbanistica, spazi pubblici, disposizioni antinquinamento nella legislazione comunale delle città emiliane, in Cultura e società nell’Italia medievale. Studi per Paolo Brezzi, Nella sede dell’Istituto, Selci Umbro 1988, p. 98. 52   Argan e Fagiolo, Premessa all’arte italiana, cit., pp. 776 e ss. Su cattedrali, spazi e palazzi comunali come componenti del paesaggio cittadino, Sitte, L’arte di costruire le città, cit., pp. 30 e ss.; Raho, I paesaggi dell’Italia medievale, cit., pp. 177 e ss.

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privati. Il «giardino – ha ricordato uno storico dei giardini di Firenze – era considerato come una parte dello stesso fabbricato e quindi lo stesso sentimento artistico col quale s’innalzava il palazzo o la villa doveva guidare lo spartito e la decorazione del giardino: in una parola il giardino era il completamento artistico del fabbricato e le piante stesse erano considerate non per loro stesse, ma come rifinitura della parte artistica che dominava nella parte interna del fabbricato»53. Ma questi stilemi non rappresentavano dei puri dati esornativi e, anche se non mancava in essi un elemento di esibizione del potere – che sarà più manifesto nell’età del Rinascimento e del Barocco –, si fondevano con il linguaggio e gli scopi del vivere associato della comunità cittadina. Essi non costituivano soltanto la struttura dell’urbs, vale a dire mura ed edifici, ma anche il linguaggio della civitas, cioè della vita associata, secondo una distinzione che si fa risalire ad Isidoro di Siviglia54. Tale associazione poteva valere per gli edifici privati, ad esempio per la funzione estetica delle loro facciate. Ha ricordato infatti Marco Romano: Poiché la cittadinanza delle persone è connessa al possesso della casa, la civitas è strettamente intrecciata all’urbs – come il palmo e il dorso della mano, non esisterebbe l’una senza l’altra [sic] – e poiché le facciate delle case sono il frutto di una deliberata volontà estetica, nella misura in cui una città è anche l’insieme delle sue case possiamo da un lato constatare 53   A. Pucci, I giardini di Firenze, I, I giardini dell’Occidente dall’Antichità a oggi, a cura di M. Bencivenni e M. de Vico Fallani, L. Olschki, Firenze 2015, p. 48. L’autore, che propende per una primogenitura di Firenze nella ripresa dell’arte dei giardini, ha lasciato un’opera monumentale inedita in sei volumi dedicata alla città toscana, pubblicata da Olschki. Sulla caratteristica dei giardini italiani – in una vasta letteratura – si veda la Premessa di M. Azzi Visentini (a cura di), L’arte dei giardini. Scritti teorici e pratici dal XIV al XIX secolo, Edizioni il Polifilo, Milano 1999, pp. xvi e ss. Sui giardini in Roma antica, fondamentale è l’opera di P. Grimal, Les Jardins romains, Presses Universitaires de France, Paris 1969. Sulla loro evoluzione, M. Fagiolo, Dagli Horti Sallustiani alle ville sui “Monti”, in Id. (a cura di), Roma barocca. I protagonisti, gli spazi urbani, i grandi temi, Saggio introduttivo di P. Portoghesi, De Luca Editore d’Arte, Roma 2013, pp. 313 e ss. Un’ampia rassegna delle ville private e pubbliche in età moderna, urbane e suburbane, nelle varie regioni d’Italia, in P.F. Bugatti Valsecchi e S. Langé, La villa, in M. Fagiolo dell’Arco, Le forme dell’effimero, in Storia dell’arte italiana. Parte Terza. Situazioni momenti indagini, IV, Forme e modelli, Einaudi, Torino 1982, pp. 363 e ss. 54   Scrive Isidoro: «urbs ipsa moenia sunt», «civitas autem non saxa, sed habitatores (...) hominum moltitudo societatis vinculo adunata», in Fagiolo e Cazzato, Lecce, cit., p. 1. Sul carattere per così dire olistico della civitas, sovrastante gli stessi singoli cittadini, M. Romano, Ascesa e declino della città europea, Cortina, Milano 2010, pp. 29 e ss.

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che può venire davvero considerata come un’opera d’arte e dall’altro rilevare come la sua sfera simbolica abbia un significato, quello di confermare materialmente l’appartenenza di ogni cittadino alla civitas espressa volontariamente nell’intenzione di condividerne la sfera estetica55.

Ma la forte impronta pubblica riguardava anche le vie, gli spazi della circolazione collettiva. Nella Toscana medievale «è chiaro come gli spazi che ricevono la veste più coerente, sotto il controllo della comunità intera, sono le strade, nelle quali il carattere pubblico è indiscusso»56. Tuttavia a quel tempo la civitas si esprimeva anche in edifici pubblici (talora di grande pregio estetico) che nascevano da una avanzatissima e moderna intenzionalità sociale. A ragione è stato ricordato che sin dall’età medievale un altro elemento fondamentale viene a caratterizzare e a distinguere la città: l’ospedale. L’edificio “pubblico” che dà rifugio a poveri e malati, ai reietti dell’epoca. Intorno «ad esso si è svolta la vita popolare e si sono insieme incrociati interessi ecclesiastici, religiosi, civili, etici, politici, economici, finanziari; insomma la vita stessa della città»57. Si tratta di un fenomeno a scala europea, che viene progressivamente a sostituire gli istituti religiosi, da secoli impegnati in tale compito. Ha ricordato Marino Berengo: «dal Trecento in avanti, le autorità cittadine si sono venute sempre più sostituendo a quelle ecclesiastiche nella cura pauperum e ne han fatto uno dei cardini della loro amministrazione»58. L’ospedale offriva ai cittadini, ai malati, ai poveri, ai diseredati, quell’ospitalità che arricchiva e completava il senso e la funzione comunitaria della città. Ed era al tempo stesso, comprensibilmente, uno strumento di controllo sociale. Ma certo il topos che per eccellenza ha incarnato lo spazio della civitas, e che è giunto quasi fino ai nostri giorni in tutta la sua potenza materiale e simbolica, è la piazza. Questo centro gravitazionale dell’urbs costituiva e ha costituito per secoli il luogo più altamente significativo del vivere in città inteso come vivere comunitario, area dello scambio, della comunicazione, del dialogo, della tessitura dei    Romano, Ascesa e declino della città europea, cit., p. 28.    E. Guidoni, Arte e urbanistica in Toscana, Bulzoni, Roma 1970, p. 92. 57   M. Fubini Leuzzi, La città e i suoi ospedali. Immagini dal medioevo all’età moderna, in Bocchi e Smurra (a cura di), Imago urbis, cit., p. 212. 58    Berengo, L’Europa delle città, cit., p. 588. 55 56

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rapporti umani, della costruzione stessa della socialità cittadina. Ha scritto Alberto Guidoni a proposito del Campo di Siena: «Piazza del Campo offre ancora oggi l’immagine sintetica della vita pubblica della città medievale, raccogliendo nell’ampio invaso chiuso contro la facciata del Palazzo Comunale, i motivi più profondamente legati alla complessa unità del “popolo” senese. È questa l’immagine forse più significativa di ciò che la città moderna ha lentamente perduto: il cuore, o più specificamente, il luogo centrale destinato alle manifestazioni pubbliche ed allo svolgimento di un dialogo diretto tra gli organi del potere e la totalità dei cittadini»59. Ma ben oltre l’età medievale la piazza, come in altre città d’Europa, ha costituito in Italia un costrutto del popolo, continuamente reinterpretata come luogo dei suoi bisogni elementari, dei suoi traffici e del suo “vivere” lo spazio come un bene collettivo, intessuto di interessi generali. Scriveva Costantino Dardi, in un denso e appassionato saggio dedicato al tema, che la piazza è «il luogo privilegiato ove la comunità, nel corso del tempo, praticando commerci o svolgendo funzioni o eseguendo sentenze o dando vita a manifestazioni, celebrando i suoi riti o inseguendo i suoi miti, ha perseguito il suo disegno e il suo destino»60. E significativamente, allo sguardo dello storico dell’età contemporanea, la piazza appare «in ugual misura luogo del privato – certo di un privato che esce fuori all’aperto e in qualche modo si relaziona e va in scena – e del pubblico. E il lato pubblico, anch’esso lungo il corso dei tempi o nella strategia multipla e differenziata degli spazi cittadini, è mercato e chiesa, è festa e fiera, oltre che palazzo del potere e cerimonia rituale, dimostrazione di massa e discorso dal balcone»61. Naturalmente nel perseguimento della bellezza da parte dei ceti cittadini si celava un fondo di spiritualità oggi perduto. Nelle forme artistiche delle costruzioni, nella ricchezza degli ornamenti e dei    A. Guidoni, Il Campo di Siena, Multigrafica Editrice, Roma 1971, p. 1.    Dardi, Elogio della piazza, cit., p. 35. Si vedano, nello stesso volume di Barbiani (a cura di), La piazza storica italiana, cit., anche A. Guidoni, Gli spazi, i monumenti materiali: storia e interpretazione, pp. 51 e ss., e A. Abruzzese, La Piazza come spazio sociale e simbolico, pp. 77 e ss. 61   M. Isnenghi, La piazza, in Id., I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 44. Per gli aspetti culturali, ideologici e politici in età contemporanea, si veda anche Id., L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Mondadori, Milano 1994. 59 60

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fregi, nell’armonia delle corrispondenze, nella finezza delle linee, nell’eleganza dei materiali non si perseguiva altro fine che di offrire un godimento di pura contemplazione, di disinteressata elevazione dei cittadini senza alcuno scopo di possesso. Era una offerta di civiltà antiutilitaristica, distillato del genio umanistico che voleva riscattare gli uomini dal loro egoismo primitivo e selvaggio, dall’istinto animalesco della predazione e del possesso. Un mondo culturale lontanissimo dal nostro, dominato dalla convulsa furia dell’appropriazione individuale, del puro consumo degli oggetti e del mondo esterno. Una bellezza che continuerà a emozionare gli uomini, almeno quelli dotati di capacità di leggere il mondo circostante con attitudine di contemplazione e volontà di comprensione. Come accadeva sino a un secolo fa. Scriveva nel 1901 Hermann Hesse, ultimo di varie generazioni di viaggiatori, davanti a piazza dei Miracoli a Pisa: «Invano è venuto in Italia chi non è sopraffatto da un senso di rispetto e da un brivido sacro in questo luogo; non ne troverà un altro in cui un frammento di Italia antica si sia conservato con altrettanta grandiosa purezza e nobiltà»62. Ma la bellezza non aveva solo una connotazione estetica, derivante e destinata alla contemplazione disinteressata. La città esprimeva anche una bellezza civile, per usare un’espressione di Giambattista Vico ripresa recentemente da Giancarlo Consonni63. Era intessuta di un altro elemento specifico per nulla o poco rinvenibile altrove. Ed era il culto e l’ammirazione per l’antico, per le forme e i risultati spesso superbi che l’arte del mondo classico e poi medievale e rinascimentale avevano lasciato sul territorio urbano e periurbano. Dipinti, affreschi, mosaici, statue, teatri, terme, pozzi, fontane, chiese, monasteri, biblioteche ecc. I ceti colti non mancavano di rammentarli con l’enfasi necessaria, allorquando passavano in rassegna le bellezze della città64. E del resto non sono rare, nel corso dell’età moderna, le “guide” alle bellezze del patrimonio artistico disseminato nelle città: a cominciare dal Viaggio pittoresco di Giacomo Barri, per    H. Hesse, Dall’Italia, Mondadori, Milano 2013, p. 3.    Consonni, La bellezza civile, cit., p. 80. 64   Sansovino, Ritratto, cit.; Scotto, Itinerario d’Italia, cit.; Bertelli, Teatro delle città, cit. Specificamente per Roma, Le Cose meravigliose dell’alma città di Roma, dove si tratta delle Chiese, Stationi & Reliquie de’ corpi Santi che vi sono. Con un trattato d’acquistar l’indulgentie, per Giovanni Osmarino Gigliotto, Roma 1582, pp. 24 e ss. 62 63

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seguire con i vari testi settecenteschi come l’Itinerario delle pitture di Adamo Chiusole che dedicò altri studi al nostro patrimonio artistico65. I reperti e i monumenti artistici erano considerati non nella loro singolarità, ma come elementi del costrutto urbano. In ragione di tale intelligenza storica Federico Zeri insisterà, nel corso del Novecento, in polemica con altre concezioni e visioni, sulla necessità di «considerare le opere d’arte, a fianco della cultura materiale, entro il contesto storico per cui sono nate, in rapporto cioè al tessuto urbano (a volte esteso al territorio) per il quale erano destinate, o dove sono rimaste anche quando per motivi di contingenza tra i più vari, la situazione originaria è profondamente mutata»66. I cittadini e soprattutto le classi dirigenti hanno per secoli vissuto e riplasmato lo spazio urbano guardando al passato come a un modello supremo, e innovando e costruendo spesso a imitazione o in competizione con esso. È accaduto con la letteratura e con l’arte, è accaduto con la città. Ma nella città gli esiti di continuità sono ovviamente diversi. Molto pertinentemente Lewis Mumford osservava: Le città sono un prodotto del tempo: esse sono gli stampi in cui si sono raffreddate e solidificate le vite degli uomini, imprimendo per virtù dell’arte, forma durevole a momenti che sarebbero svaniti, altrimenti, al pari degli uomini, senza lasciare dietro a sé possibilità di rinnovo e di più vasta partecipazione. Nelle città il tempo diventa visibile: edifici, monumenti, strade pubbliche, sono più evidenti che le memorie scritte, più soggetti agli sguardi di molti uomini che le opere umane sparse nelle campagne, lasciano un’impressione duratura anche nelle menti degli ignoranti o degli indifferenti67.

Tale elemento di continuità, di ammirazione e di imitazione degli esempi di bellezza ereditati dal passato, che forma l’intima spiritualità, in Italia e in parte in Europa, di un’intera epoca della storia umana in Occidente, è oggi ricco di insegnamenti. Perché a lungo, prima di diventare inerte retorica o – come penosamente accade ai 65   G. Barri, Viaggio pittoresco in cui si notano distintamente tutte le pitture famose de’ più celebri pittori, che si conservano in qualsivoglia città d’Italia, G. Hertz, Venetia 1671; A. Chiusole, Itinerario delle pitture, sculture ed architetture più rare di molte città d’Italia, Stamperia Turra, Vicenza 1792. 66   Zeri, Prefazione, cit., p. xliii. 67   Mumford, La cultura delle città, cit., p. lxxii.

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giorni nostri – oggetto dell’ossessione mercificatrice del capitalismo contemporaneo, esso ha orientato l’innovazione, ha dato senso alla progettazione urbana, ha fornito una direzione e un senso al futuro. Sottolineavano Giulio Carlo Argan e Maurizio Fagiolo: «È un fenomeno tipicamente italiano quello della rigerminazione delle antiche strutture (...) Però non è il semplice meccanismo della continuità: è ripresa storica. Il miglior rispetto per l’antico è reputato quello di sovrapporre a una storia morta la propria cronaca di moderni: come al circo, nell’urbanistica italiana, “lo spettacolo continua”. Questo discorso vale al più alto come al più basso livello»68. E nel Rinascimento italiano è capitato che l’urbanistica diventasse «un punto di riferimento per gli artisti, da Alberti a Leonardo: cambiare la città fa parte del concetto della conoscenza e del cambiare il mondo»69. Il nuovo assetto urbano, corrispondente ai mutati bisogni storici delle popolazioni, rinasceva o si sviluppava su un antico ritenuto una tappa gloriosa del lungo cammino compiuto dagli uomini nel processo dell’edificazione delle strutture materiali della civiltà. Le classi dirigenti cittadine, diversamente da quel che accade oggi, hanno pensato per secoli il futuro del loro spazio costruito come uno sviluppo ulteriore dei caratteri civili, di fusione tra utilità e bellezza, che erano nelle remote origini della città70. È una eredità, ha ricordato Anna Modigliani, «che segna in modo inconfondibile la fisionomia delle città italiane» e ne influenza «linguaggi e istituzioni»71. Sotto tale profilo Roma ha giocato uno ruolo incomparabile nella formazione di un immaginario collettivo dei suoi gruppi dirigenti, che si radicava nell’orgoglio di un’antica origine e di una privilegiata appartenenza, e intesseva, al tempo stesso, il progetto delle 68   Argan e Fagiolo, Premessa all’arte italiana, cit., p. 757. Cfr. inoltre M. Tafuri, Ricerca del Rinascimento. Principi, città, architetti, Einaudi, Torino 1992. 69   Ivi, p. 761. Ovviamente la città rinascimentale si è venuta costruendo sotto i differenti influssi delle diverse scuole architettoniche, da quella fiorentina, a quella veneta, a quella romana ecc. (Benevolo, Storia dell’architettura del Rinascimento, cit., pp. 506 e ss.). 70   Naturalmente occorre immaginare – al di là della nostra rapida sintesi – una varietà di posizioni. Si vedano ad esempio, per la Firenze del Quattrocento, i diversi atteggiamenti nei confronti dell’antico da parte di umanisti come Leonardo Bruni e Dino Villani (R. Fubini, La “Laudatio Florentinae urbis” di Leonardo Bruni: immagine ideale o programma politico?, in Bocchi e Smurra [a cura di], Imago urbis, cit., pp. 285 e ss.). 71    A. Modigliani, I segni sulla città: feste, cerimonie e uso degli spazi pubblici a Roma tra medioevo e rinascimento, ivi, p. 481.

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future edificazioni con una superiore volontà di rinnovata bellezza e grandezza. Basti qui pensare alla tradizione delle cosiddette Mirabilia urbis e Mirabilia Romae, che si cominciano a pubblicare sin dal medioevo, quali guide per orientare i pellegrini che venivano a visitarla da ogni angolo d’Europa72. E tali pellegrinaggi devono aver costituito un fenomeno imponente se essi hanno finito col creare una vera e propria economia dell’accoglienza, un turismo ante litteram, che oscillava tra pietà religiosa e affari73. Per buona parte del basso medioevo Roma ha plasmato cultura e fantasia degli intellettuali europei. Esemplare al proposito la testimonianza di Montaigne. Il pensatore francese, che la visitò per un anno a fine Cinquecento trovandola sorprendentemente dinamica e “moderna”, poté ammirarne splendore, rovine e una ampiezza di territorio sconvolgente rispetto alla popolazione presente e alle dimensioni correnti della grande città moderna dell’Europa del tempo. Lo spazio, ricordava Montaigne, «compreso dentro le mura, e includente la vecchia e la nuova Roma, potrebbe uguagliare la cinta che si otterrebbe intorno a Parigi includendovi da un capo all’altro tutti i sobborghi»74. Quanta arte, cultura, urbanesimo hanno ispirato in Europa i resti di Roma antica? Sarebbe impresa ardua tentare di ricostruirne le tracce. È facile immaginare che gli splendori della città, italiana ed europea, dal Cinquecento al Settecento, e i suoi influssi universali sarebbero incomprensibili senza il sontuoso teatro delle rovine e i resti insigni e integri che gli artisti, ancora nel loro tempo, potevano mirare a cielo aperto75. Roma, del resto, ha continuato a parlare anche a 72   Si vedano le ampie notizie di G. Tallini a commento di una delle maggiori opere di questa letteratura, L’Antichità di Roma di m. Andrea Palladio. Raccolta brevemente da gli autori antichi & moderni nuovamente posta in luce, edizione critica, introduzione e commento a cura di G. Tallini, Università di Verona, Verona 2004, pp. 20 e ss. Ma vastissima è la produzione di Mirabilia Romae. Una imponente raccolta bibliografica, dai primi manoscritti medievali sino ai testi più tardi, anche tedeschi e olandesi, è ora in N. Robijntje Miedema, Die “Mirabilia Romae”. Untersuchungen zue iher Übelieferung mit Edition der deutschen und niederländischen Texte, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1996. 73   M. Romani, Pellegrini e viaggiatori nell’economia di Roma dal XIV al XVII secolo, Società Editrice Vita e Pensiero, Milano 1948. 74   Giornale del viaggio di Michel de Montaigne in Italia, Prefazione di G. Piovene, Introduzione critica di G. Natoli, Parenti, Firenze 1958, p. 171. Per la vivacità del traffico cittadino, p. 158. 75    Per il mutato atteggiamento in età del Rinascimento nei confronti dei resti di Roma antica, a lungo utilizzati come cave per reperirvi materiali, H. Broyse e J.C.

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noi, uomini del Novecento, a raccontarci il suo passato solidificato in manufatti, strade, mura, edifici, scorci grazie ai quali gli uomini sono in parte riusciti a salvare la memoria del proprio passato, a contenere le alluvioni del tempo. Ricordava Ranuccio Bianchi Bandinelli negli anni Settanta del secolo scorso, di fronte all’ennesima minaccia che incombeva sulla più artistica delle vie, l’Appia, la regina viarum dei Romani: Pochi luoghi, non solo in Italia, ma al mondo, avevano un potere evocativo e suggestivo come la via Appia a Roma, fuori porta San Sebastiano. Nei suoi monumenti si leggono pagine salienti della storia antica, dalla fine della repubblica romana alla fine dell’impero, all’inizio del cristianesimo e alle sue leggende (le catacombe, la cappella del “quo vadis” sono su questa via). La veduta delle mura della porta San Sebastiano era ancora quella stessa che per due millenni le genti provenienti dal Mezzogiorno avevano veduto come prima immagine della città di Roma, centro del mondo occidentale76.

Questa apologia della città in generale, e in special modo di quella italiana, non è animata da una esortazione di carattere utopico. Non si stanno qui vagheggiando i caratteri di una “città ideale”, come quella immaginata e progettata da tanti nostri artisti dal Rinascimento all’età barocca. Sappiamo bene che il mondo delle città non era certo un universo pacificato, uno spazio irenico di armonia tra i suoi abitanti. Abbiamo memoria storica dalla tormentata vicenda delle lotte che hanno contrapposto, per secoli, fazioni e famiglie, anche nei momenti di massimo splendore artistico della vita italiana. D’altra parte la città è immersa nel grande flusso della storia, che ne cambia la composizione sociale, le strutture di potere, le modalità di realizzazione e svolgimento della civitas oltre che le forme dell’urbs. Vigueur, Strutture familiari, spazio domestico e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, in Storia dell’arte italiana. Parte Terza. Situazioni momenti indagini, V, Momenti di architettura, Einaudi, Torino 1983, pp. 159 e ss. Per la “ripresa” di Roma, Argan e Fagiolo, Premessa all’arte italiana, cit., pp. 750 e ss. Per il ruolo dei papi nella utilizzazione urbanistica del mito di Roma antica, A. Guidoni, L’urbanistica di Roma tra miti e progetti, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 37 e ss. Più specificamente, sulla continuità del fascino dei luoghi antichi (i Fori, la Colonna Traiana, l’Arco di Costantino ecc.), D. Puliga e S. Panichi, Monumenti, miti e storie della città eterna, Postfazione di V. Farinella, Einaudi, Torino 2012. 76   Bianchi Bandinelli, L’Italia storica e artistica, cit., p. 26.

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È evidente che la Roma del Rinascimento non è la Siena del XIII o del XIV secolo. La partecipazione, il coinvolgimento dei cittadini alla vita comunale è ormai tramontato. Altri sono i rapporti tra il potere che governa la città, ormai parte di nuovi Stati territoriali, e la massa del popolo. E tuttavia anche un’amministrazione di tipo statale, quale quella che Roma si dà nel corso del XVI secolo, non cessa di guardare alla città come al luogo in cui edificare nuove forme di bellezza. Una bellezza che, certo, ha sempre lo scopo di esaltare il potere del committente artistico, ma che tuttavia è pur sempre un dono pubblico non effimero, un’offerta di godimento collettivo77. Chi governa la città e la sua espansione vede talora nei luoghi e negli edifici del passato, perfino nelle fonti, un che di sacro da rispettare, da far conoscere. Non è senza significato che, come ad esempio accade per la fornitura delle risorse idriche, i papi, a imitazione degli imperatori, costruiscono nuovi acquedotti sia per rifornire d’acqua i rioni della città, sia per costruire le sontuose fontane dell’età rinascimentale e barocca78. Dunque, la città conserva nel corso del tempo alcuni connotati pubblici che sono intimamente connaturati con la sua stessa esistenza, con le sue modalità di edificare lo spazio e di costituire comunità. Non è necessario immaginare una continuità irenica nel tempo per cogliere questa profonda linea rossa. D’altra parte, la città, qualunque città, costituisce lo stampo edificato della divisione della società in classi. Gli edifici, le strade, le piazze sono stati realizzati dai muratori, dai badilanti, dai mastri. E i capitali, per i salari e le masse ingenti di materiali edilizi, provenivano in gran parte dalla campagna, dalla rendita fondiaria, dal sudore e dalla pena quotidiana dei contadini, dai profitti del commercio e della finanza. Ma le classi dirigenti del passato condividevano anche con i sottoposti lo stesso spazio di civiltà guadagnato da una cooperazione così radicalmente asimmetrica. Tutti, anche se in diverso modo, godevano della bellez77   Va ricordato che lo Stato pontificio è il primo a inaugurare una legislazione di tutela del patrimonio culturale e artistico, a partire dal XV secolo: M. Carta, L’armatura culturale del territorio. Il patrimonio culturale come matrice di identità e strumento di sviluppo, Prefazione di V. Cabianca, Franco Angeli, Milano 1999, pp. 47 e ss. 78   Fagiolo, Dagli Horti Sallustiani, cit., pp. 373 e ss. Sulla politica delle acque, I. Bevilacqua, La piena del Tevere (1598): l’intervento papale e le trasformazioni urbanistiche a Roma, in M. Galtarossa e L. Genovese (a cura di), La città liquida – la città assetata. Storia di un rapporto di lunga durata, Palombi Editori, Roma 2014, pp. 189-204.

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za pubblica della città, dei suoi vantaggi e servizi, anche se i signori abitavano in sontuosi palazzi e i popolani, gli artigiani, gli ortolani si ammassavano in case modeste. Quando avevano case. Lewis Mumford, che scriveva nei terribili anni Trenta del Novecento, ci ha reso avvertiti della potenziale ingenuità di una visione storica idealizzata della vita urbana. E con una intelligenza dei caratteri della modernità che oggi appare smarrita, esaltava il conflitto quale elemento vitale della vita urbana al pari della cooperazione: «Quando cerchiamo un ordinamento cooperativo nel tracciato della città, noi siamo quindi in cerca di un ordinamento nel quale possano svolgersi conflitti più significativi, disarmonie più complesse ed intellettualmente più stimolanti: in breve, ricerchiamo un ordine contrappuntistico (...) Tali conflitti possono svolgersi ad ogni livello, e la lotta da essi provocata non è meno essenziale ad una buona vita che la cooperazione più cordiale»79. Ma non è senza un insieme plurimo di significati, se tale consapevolezza del carattere progressivo del conflitto sociale, motore dell’umana emancipazione, ha origine nella cultura politica italiana: vale a dire nella più alta cultura cittadina dell’età moderna. Si trova in una riflessione di clamorosa attualità, esemplata sulla città di Roma antica, origine prima, come abbiamo cercato di mostrare, di una storia millenaria. Scriveva infatti Niccolò Machiavelli nel cap. IV dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio a proposito della Roma repubblicana: Io dico che coloro che dannono [condannano] i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare biasimino quelle cose che furono la prima causa del tenere libera Roma, e che considerano più ’a rumori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ [essi] non considerino come e’ sono [vi sono] in ogni repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello dei grandi e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascono dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito a Roma: perché da’ Tarquini ai Gracchi, che furono più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio, radissime sangue.

I conflitti producevano continuamente sintesi e accordi tra le due parti in lotta, che si traducevano poi in leggi sempre più avanzate    Mumford, La cultura delle città, cit., p. 481.

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per la città, in nuovi equilibri di cooperazione, vantaggiosi alla fine per tutti. Una riflessione che può spiegare tanto dell’attuale erosione degli istituti della democrazia nei paesi avanzati. Il sovrastante dominio di una parte, il potere economico-finanziario su tutta la società, l’assenza di forze antagoniste potenti e organizzate rendono sempre meno efficaci i meccanismi di tutela del bene pubblico, affidati alla mera divisione dei poteri istituzionali. Lo Stato stesso perde sovranità, ma soprattutto non progredisce, anzi indietreggia l’interesse generale. La bellezza che salva Al pari delle città d’Europa, anche quelle d’Italia hanno dovuto fronteggiare in età contemporanea due poderosi nemici: la crescita della popolazione e lo sviluppo capitalistico industriale. Due agenti in diverso modo divoratori di spazi che hanno forzato progressivamente o con violenza la chiusa cinta degli antichi centri medievali e rinascimentali. E tuttavia, anche di fronte a queste sfide, l’evoluzione delle nostre città ha percorso un sentiero particolare. In parte perché il nostro Paese è giunto tardi all’industrializzazione, rispetto ai primi arrivati, cioè agli Stati del Nord Europa, tanto per usare l’espressione agonistica adottata dagli storici dell’economia. L’Italia, priva di carbone nel proprio sottosuolo, arrivata tardi alla siderurgia, non ha conosciuto né la nascita di nuove città industriali come la Gran Bretagna del XIX secolo, né gli sconvolgimenti territoriali della Germania o del Belgio80. Basti pensare, del resto, che sino alla prima guerra mondiale la più importante industria italiana era ancora la manifattura tessile, un settore, diremmo oggi, a contenuto impatto ambientale81. 80   Lucio Gambi ha opportunamente ricordato il ruolo dell’energia idroelettrica (non inquinante) nel processo della nostra prima industrializzazione, tra Otto e Novecento, L. Gambi, I valori storici dei quadri ambientali, in Storia d’Italia, vol. I, I caratteri originali, cit., p. 36. Sui problemi ambientali nei paesi citati, C. Ponting, Storia verde del mondo, Società Editrice Internazionale, Torino 1992, pp. 334 e ss., pp. 397 e ss.; J.R. MacNeil, Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Einaudi, Torino 2002, pp. 81 e ss. 81    Sul rilievo di tale settore industriale tra Otto e Novecento, L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989, pp. 338-339.

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Ma un altro elemento, un tratto specifico della nostra storia ha limitato il potenziale distruttivo insito nei caratteri rivoluzionari dell’età contemporanea: ed è la qualità artistica di grandissima parte del nostro patrimonio urbano. Per questo aspetto le considerazioni che nel Quattrocento Leon Battista Alberti veniva svolgendo, certo espressione di un secolo ancora fiducioso, suonano oggi come un sorprendente e, una volta tanto, fausto vaticinio: «Infine solo l’ornamento, oggetto di questo libro, fornisce un valido aiuto alla funzionalità e alla capacità dell’opera di resistere al tempo. (...) Quale cosa, poi, è mai stata creata dall’arte umana così resistente da essere al riparo dalle offese degli uomini? Ma grazie alla bellezza un’opera potrebbe riuscire a placare l’ira distruggitrice dei nemici e rimanere inviolata. Oso affermare che nessuna cosa renderà l’opera ugualmente protetta dagli attacchi degli uomini e illesa, se non la dignità della bellezza e della forma»82. La bellezza protegge dalla furia distruttrice degli uomini. E le città italiane, nella loro quasi totalità, sono state costruite quali opere collettive di bellezza. Come abbiamo già accennato, il loro nucleo era ed è rimasto in buona parte disseminato di opere d’arte ed esso ha plasmato per lungo tempo anche le forme della campagna che aveva intorno. A dispetto delle trasformazioni secolari che le hanno investite, le città si sono conservate a lungo come patrimonio artistico. Perfino nell’epoca in cui l’Italia perde il suo primato nell’economia-mondo mediterranea, nel XVII e XVIII secolo, continuerà a produrre bellezza urbana con i fasti del Barocco, da Torino a Roma, da Lecce a Noto, in Sicilia: quel «barocco siculo – come osservava Piovene – diverso da tutti, che si sposa al palmizio, assimila la pietra al pennacchio ed al ciuffo, pregno di elementi arabi e di elementi bizantini, tutto fantasia e sangue, senza un momento di freddezza»83. Salvatore Settis ha illustrato con dovizia documentaria e singolare vigore argomentativo questo tratto della storia italiana, il suo in   Alberti, L’arte di costruire, cit., p. 212.    G. Piovene, Vaggio in Italia (1957), Mondadori, Milano 1966, p. 480. Cfr. A. Cavallari Murat, Forma urbana ed architettura a Torino Barocca. Dalle premesse classiche alle conclusioni neoclassiche, Utet, Torino 1968; P. Portoghesi, Roma barocca, Laterza, Roma-Bari 1973. Sul Barocco in Sicilia, che vanta, sin dal 1984, la pubblicazione periodica degli «Annali» del Centro internazionale di studi sul Barocco, si veda, in un’ampia bibliografia, S. Boscarino, Sicilia barocca: architettura e città. 1610-1760, Officina, Roma 1986; A. Menichella, Sicilia Barocca, Jaca Book, Milano 2002. 82 83

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gresso nelle turbolenze della modernità condotto con straordinaria coerenza di conservazione e trasmissione della sua eredità artistica. L’Italia che inventa il concetto di patrimonio artistico e che inaugura il primo museo pubblico, che elabora in Europa le prime leggi moderne di tutela e conservazione, è, sorprendentemente, la stessa Italia priva di sovranità, frantumata in staterelli, politicamente ancora asservita dei secoli che precedono l’Unità. Eppure la bellezza e la sua difesa la unificano nella tessitura profonda della sua storia civile. Scrive Settis: Se ci chiediamo come mai gli antichi Stati italiani agirono tanto di conserva tra loro, specialmente tra il Settecento e l’Unità, elaborando norme assai simili per la conservazione del patrimonio culturale, questa è dunque la risposta. Tanta concordia non nasceva da accordi interstatali (che non vi furono mai), e nemmeno solo da una superficiale moda o emulazione, ma aveva radici assai più profonde: una comune, secolare cultura urbana, un identico senso della funzione civile della “bellezza” e dell’“ornato” delle città, una stessa tensione a trasmetterne i valori da una generazione all’altra84.

È significativo, a questo punto, rammentare che il processo di espansione demografica aveva interessato già in età moderna buona parte dei nostri centri urbani, ma senza significativi sconvolgimenti. Napoli, ad esempio, continuamente alle prese con una crescita di popolazione abnorme, dovuta all’immigrazione dalle campagne, aveva subìto importanti trasformazioni durante il Viceregno. Da quegli interventi sono nati l’attuale via Toledo e i quartieri spagnoli85. Ma anche città con più lenta crescita demografica, e destinate ad avere più tardi un ruolo di primo piano nel processo di trasformazione industriale, come ad esempio Torino, avevano dovuto progressivamente forzare le loro antiche delimitazioni spaziali. Anche in questo caso con processi urbanistici contenuti e spesso migliorativi sotto il profilo dei manufatti. La futura capitale del Regno d’Italia, che a metà Cinquecento compariva ancora chiusa «entro l’antico perimetro d’impianto romano, quasi di forma quadrata», conoscerà    Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, cit., p. 107.    C. De Seta, Napoli, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 95 e ss. Id., Napoli, in Storia d’Italia, vol. VI, Atlante, Einaudi, Torino 1976, pp. 265 e ss. 84 85

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alcuni processi di trasformazione al suo interno nel secondo Settecento, insieme all’occupazione con nuove residenze dei borghi al di là delle mura86. Ancora più contenuta appare l’espansione di Milano, che a fine Cinquecento contava circa 110 mila abitanti, crollati a 66 mila dopo la peste del 1630, e che alla fine del secolo successivo appariva ancora vincolata all’antico impianto romano, «come un grosso guscio che racchiude, entro la cerchia dei navigli, un nucleo relativamente piccolo e molto compatto»87. Anche Genova, che conosce una crescita demografica importante, soprattutto tra XVI e XVII secolo, al culmine del suo potere commerciale e finanziario allarga i suoi spazi con nuove mura e secondo processi di edificazione che rinnovano la struttura cittadina accrescendone il decoro e la mobilità88. Per la verità, le prime rilevanti manomissioni delle nostre città si verificano dopo l’Unità d’Italia, e soprattutto sul finire dell’Ottocento. E la spinta agli interventi, da parte del potere cittadino, certo sull’onda di un dinamismo economico crescente, viene dalle mire della proprietà fondiaria. Entro la parte antica della cerchia urbana si addensano ancora caseggiati popolari che appaiono ormai degradati di fronte agli standard sempre più elevati dei servizi visibili nelle zone più moderne della città, in Italia e in Europa. Una nuova concezione dell’igiene cittadina è lo sfondo culturale e ideologico per una politica urbanistica che fa del cosiddetto “risanamento” la propria bandiera. Ma, come ha ben visto Italo Insolera, il motore delle trasformazioni urbane è sempre di più la spinta dei ceti proprietari a valorizzare la loro rendita. Cacciare i ceti poveri per fornire abitazioni eleganti alla borghesia in ascesa. Nasce, o comunque avanza, «la città classista»89. A Torino, a partire dal 1885, il comune interviene nella maglia ortogonale antica della città creando nuovi quartieri e vie, destinati alla borghesia in ascesa e soprattutto alle nuove sedi dell’economia capitalistica: banche, istituti di credito, direzioni amministrative delle società finanziarie e immobiliari. I ceti proletari vengono allontanati dal centro, mentre nei borghi circo   V. Comoli Mandracci, Torino, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 80.    C. Carozzi, Milano, in Storia d’Italia, vol. VI, cit., p. 249. 88   E. Poleggi, Genova, ivi, p. 264. 89    I. Insolera, L’urbanistica, in Storia d’Italia, vol. V, I documenti, tomo I, Einaudi, Torino 1973, pp. 485-486. 86 87

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stanti si va formando la cintura dei nuovi quartieri operai90. Analoga operazione viene realizzata a Napoli, nei quartieri fatiscenti di Porto, Pendino, Mercato e Vicaria, con sventramenti di ampie dimensioni che hanno conseguenze sociali dolorosissime per gli antichi abitanti di quei luoghi, letteralmente deportati dalle loro case. Anche qui i nuovi spazi urbani vengono occupati da dimore signorili, conformati a un gusto più aperto al nuovo dinamismo della vita cittadina che si affaccia al Novecento91. A Roma, divenuta capitale del Regno dopo il 1870, non poche delle grandi ville principesche che nel Cinquecento avevano occupato l’area di antichi orti e vigne (Pincio, Quirinale, Viminale, Esquilino) vengono demolite, a esclusione di Villa Medici e Villa Borghese, dalle società immobiliari – dotate di capitali internazionali – per costruire nuovi quartieri. «Al posto di giardini tra i più famosi d’Europa – ha scritto Insolera – nel ventennio 1880-1900 sorsero melanconiche case d’affitto sul modello immobiliare-borghese che aveva caratterizzato nei decenni precedenti le trasformazioni delle città europee»92. E anche nella capitale la politica di sventramento, di deportazione dei ceti popolari nelle borgate periferiche, di espansione incontrollata della città, più che nel resto d’Italia, prende avvio alla fine dell’Ottocento, si intensifica negli anni Venti del Novecento e diventa sempre più sistematica e pianificata nel ventennio fascista e nell’immediato dopoguerra93. Neppure Milano, che pure a lungo conserva la coerenza interna del proprio impianto, si salva da singole, rilevanti manomissioni. Anche qui al posto di antichi «orti contenuti nella cerchia rinascimentale» e delle aree agricole adiacenti, con «vari robusti tagli nella vecchia maglia viabile medievale» si creano a partire dagli anni Ot90   Comoli Mandracci, Torino, cit., pp. 209 e ss.; L. Falco e G. Morbelli, Torino, in Storia d’Italia, vol. VI, cit., pp. 238-240. Sulle élites politiche e amministrative che trasformano il territorio urbano a partire dall’Unità, C. Accornero, Il governo del territorio. Istituzioni, comunità e pratiche sociali a Torino (1861-1926), Trauben, Torino 2009. 91   De Seta, Napoli, cit. Per gli esiti ambientali, M. Armiero, Partenope non abita più qui. La città e il mare in prospettiva storica, in I. Zilli (a cura di), La natura e la città. Per una storia ambientale di Napoli fra ’800 e ’900, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2004, pp. 223 e ss. 92   I. Insolera, Roma, in Storia d’Italia, vol. VI, cit., p. 324. 93   P. Sica, Storia dell’urbanistica, III, 2. Il Novecento, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 413 e ss. Per gli sventramenti avviati a partire dal piano regolatore del 1873, I. Insolera, Roma. Immagini e realtà dal X al XX secolo, Laterza, Roma-Bari 1980, pp. 374 e ss.

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tanta dell’Ottocento nuovi spazi di mera espansione94. È significativo tuttavia quanto verde si conservasse ancora attorno alla città alla fine del secolo. Allora un testimone d’eccezione, Giovanni Verga, poteva osservare con stupore la fitta trama geometrica delle alberature intorno alla città: «Basta salire sul duomo in un bel giorno di primavera per averne una impressione complessiva. È una impressione grandiosa ma calma. Al di là di quella vasta distesa di tetti e di campanili che vi circonda, tutta allo stesso livello, si spiega la pianura lombarda, di un verde tranquillo, spianata col cilindro, spartita colle seste, solcata da canali diritti, da strade più diritte ancora», e girando per quelle strade continuano «gli stessi orti chiusi tra filari di gelsi e divisi in compartimenti di cavoli e lattughe senza mutar di prospettiva. Sicché la cosa più difficile per un viandante pare che dovrebbe essere di riconoscere la sua strada»95. Ma le grandi trasformazioni, pur progettate già ai primi del Novecento, vengono realizzate di fatto negli anni del fascismo. La gentrification avanza anche a Milano. Nel cuore della città – ricordano Lucio Gambi e Maria Cristina Gozzoli –, «dopo inconsulte, enormi demolizioni», nei nuovi spazi creati nelle zone intorno a San Babila e a Cordusio sorgono le sedi degli istituti di credito, di assicurazione, degli uffici commerciali, delle direzioni delle industrie. Gli interventi di età fascista produrranno altre ferite. Viene investita «in modo oltraggioso la scenografica area del Verziere, il vecchissimo mercato al minuto di ortaglie, frutta, pesci e salumi che dopo l’ultima guerra resterà un mero ricordo e nella toponomastica solo un incomprensibile, vuoto nome». Una perdita che si accompagna alla cancellazione della «cerchia dei navigli»: la linea del canale medievale coperto fra il 1928 e il 1930 per far posto alla strada e al traffico automobilistico96. La china inarrestabile Questa rapida ricognizione, per pochi esempi, delle trasformazioni più rilevanti subite dalle città più importanti – o comunque    L. Gambi e M.C. Gozzoli, Milano, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 300.    G. Verga, I dintorni, in Milano 1881, G. Ottino Editore, Milano 1881, p. 432.    Gambi e Gozzoli, Milano, cit., p. 321.

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destinate a un ruolo rilevante nel processo di modernizzazione – ha un duplice scopo. Per un verso ha il compito di mostrare, molto sinteticamente, un tratto di storia urbana non del tutto irenico e privo di contraddizioni. Un po’ di ombre sulla nostra storia urbana che servono a togliere dal quadro i sospetti di una eccessiva idealizzazione nel racconto del nostro passato. Ma quelle trasformazioni di età contemporanea, che giungono fino alla metà del Novecento, svolgono anche un compito opposto. Intanto esse mostrano che, se pur motivate da interessi di classe, da appetiti fondiari ecc., conservavano pur sempre un’idea di città, muovevano secondo un progetto dotato di senso estetico e di rinnovamento della forma urbana. Italo Insolera ha significativamente ricordato che a Roma, da papa Giulio II in poi, per secoli, ha infuriato la mania di “abbellire” la città, anche se questo comportava «distruzione e cacciata di abitanti»97. E d’altro canto queste stesse trasformazioni testimoniano che, nonostante singole ferite e manomissioni nell’antico tessuto, le nostre città hanno mantenuto, nel loro nucleo storico, una sostanziale continuità. Esse hanno in gran parte conservato la loro urbs, le strutture fondamentali del loro paesaggio di pietra. E analoga considerazione occorre fare per i nostri centri di piccoli dimensioni, le migliaia di borghi, spesso di spettacolare bellezza, sparsi lungo la Penisola e nelle isole. Essi si presentano oggi come frammenti esclusivi, isole nello scorrere tumultuoso delle trasformazioni, che conservano non solo manufatti e spesso opere d’arte secolari, ma anche dimensioni del vivere, ritmi del tempo, silenzi e forme di socialità ormai perduti negli spazi urbani. Pur essendo connessi ormai col mondo intero conservano stili del vivere, sfere del passato storico che l’uomo del nostro tempo può sperimentare come in un viaggio a ritroso, spesso spostandosi di pochi chilometri98. La presenza superstite di tanta eredità è una constatazione che ricade nella esperienza dei contemporanei, italiani e stranieri, i quali visitano tante nostre città, definite città d’arte, come si visita un museo all’aria aperta. E d’altra parte, non a caso, il concetto di “centro storico”, un’area speciale da distinguere dai manufatti dell’età contemporanea e da regolare e tutelare con norme speciali, è nato in    Insolera, Roma, cit., p. 332.    Un cantore di questi luoghi è F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, Bruno Mondadori, Milano 2013. 97 98

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Italia99. Infine, grazie alla benemerita collana Laterza La città nella storia d’Italia curata da Cesare De Seta, abbiamo in numerosi volumi – oltre a una ricca letteratura sparsa – la testimonianza documentale di questa continuità, malgrado le singole manomissioni, nella vicenda di tante nostre città disseminate lungo lo stivale della Penisola e nelle isole intorno. Ma la storia dell’urbanesimo italiano d’età contemporanea, che arriva sino a metà del Novecento, contiene anche un altro rilevante insegnamento. Come già abbiamo visto per la vicenda dell’agricoltura italiana, anche per la storia della città appare chiaro che, sino a un certo punto, i processi di modernizzazione capitalistica, lo sviluppo delle economie industriali, l’affermarsi di nuovi bisogni e l’innalzamento degli standard di tanti servizi hanno potuto coesistere con il decoro urbano, con la conservazione della bellezza. D’altro canto costituirebbe prova di parzialità storiografica dimenticare che il processo di modernizzazione ha spesso comportato un rilevante miglioramento delle condizioni di vita all’interno e intorno alle abitazioni. Standard di servizi più elevati, di cui hanno potuto godere strati di popolazione prima esclusi, hanno introdotto nuovi livelli di benessere, dunque di felicità, dentro il vivere urbano. Raccontando le trasformazioni contraddittorie e talora laceranti subite da Roma negli anni dopo la seconda guerra mondiale, Leonardo Benevolo ricordava tuttavia un aspetto delle innovazioni nel frattempo realizzate, mutamenti che spesso vengono trascurati dagli storici: «Le case sono state migliorate introducendo gli impianti moderni (l’acqua corrente, i gabinetti a sifone collegati alla rete fognante; poi la luce elettrica, il gas, il telefono); a servizio delle case sono stati impiantati le scuole, i mercati, e le altre attrezzature proprie della città moderna»100. È di un certo significato ricordare, a tal proposito, che il critico più agguerrito e militante della manomissione delle nostre città e del nostro territorio, Antonio Cederna, non rifiutasse utopisticamente le logiche nuove della città contemporanea, dominate 99   Il punto di partenza di una politica di tutela dei centri storici è individuato nella “Carta di Gubbio” varata nel centro umbro nel 1960 (V. De Lucia, Nella città dolente. Mezzo secolo di scempi, condoni e signori del cemento dalla sconfitta di Fiorentino Sullo a Berlusconi, Castevecchi, Roma 2013, p. 70). 100   L. Benevolo, Roma dal 1870 al 1990, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 92.

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dal dinamismo del traffico motorizzato, ma si batteva per una sua specifica pianificazione, che tenesse distinto l’antico e il moderno101. Ma da un certo punto in avanti la coesistenza dinamica tra sviluppo capitalistico e civiltà urbana si spezza, va in frantumi. È una storia che certo comincia con l’immediato dopoguerra e che si svolge per vari capitoli, ma essa precipita negli ultimi trent’anni. Non è qui il caso di rifare la storia delle distruzioni che sono state operate dentro e intorno alle nostre città nella seconda metà del Novecento. Vezio De Lucia vi si è dedicato con particolare cura e passione. Nei testi che citiamo in nota la cronaca dolorosa delle devastazioni è ricca e circostanziata. E non possiamo qui se non rammentare di sfuggita il caso di Palermo – dove è stata sfigurata, in pochi anni, con i giardini della Conca d’Oro, una delle più affascinanti città del mondo. Neppure possiamo accennare alle devastazioni subite da Roma, dove la città moderna non riesce ad avere un rapporto equilibrato con quella antica, dove la più famelica e incolta classe dirigente della sua storia ha provocato cementificazioni irreparabili102. O a quelle patite da Napoli, dove il populismo di un sindaco monarchico, Achille Lauro, ha continuato un’opera di devastazione già avviata dal fascismo103. La letteratura urbanistica ha già messo agli atti e conservato alla storia quelle vicende. Eppure quel tratto di storia, quei primi decenni della seconda metà del secolo non sono intessuti solo di ombre. In tante città vengono adottati, realizzando un’opera preziosa di governo dell’espansione urbana, i piani regolatori, nati con l’Unità d’Italia. La legge del 1942 ispira non poca urbanistica e normativa cittadina, ma soprattutto nasce nel 1948 quel grande monumento civile che è la nostra Costituzione repubblicana104. Essa, com’è noto, condensa in alcuni suoi fondamentali articoli e fa diventare elemento costituzionale la 101   A. Cederna, I vandali in casa. Cinquant’anni dopo, a cura di F. Erbani, Laterza, Roma-Bari 2007. 102   V. De Lucia, Se questa è una città, Introduzione di P. Bevilacqua, Postfazione di A. Cederna, Donzelli, Roma 2006 (3a ed.), pp. 15 e ss. Sull’infelice innesto della nuova Roma nell’antica e sul concetto di “città coloniale”, W. Tocci, La città del tram, in W. Tocci, I. Insolera e D. Morandi, Avanti c’è posto. Storie e progetti del trasporto pubblico a Roma, Donzelli, Roma 2008, pp. 71 e ss. 103   De Lucia, Se questa è una città, cit., pp. 10 e ss. 104   Sull’art. 9 della nostra Costituzione, ricordato da tanti studiosi, si veda A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, Einaudi, Torino 1975, che avanza riserve sui mancati cenni alla natura in quanto tale, al di là dei suoi valori estetici (p. 9). Sulla

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tutela del nostro patrimonio. Lo splendore civile del nostro passato artistico si fa carta fondamentale della nazione. Ma le controtendenze non si esauriscono in questi pur fondamentali presidi. Dovremmo qui ricordare almeno alcuni rilevanti episodi di buona urbanistica che segnano i primi decenni della seconda metà del secolo. E certamente un posto di rilievo merita il progetto di edilizia pubblica residenziale, destinato a creare case popolari in ogni città della Penisola, avviato nel dopoguerra con il piano Ina-Casa105. Una forma di welfare straordinariamente lungimirante e avanzato, che è progressivamente scomparso dall’orizzonte della cultura politica italiana e il cui deperimento ha favorito non poco, in seguito, il fenomeno dell’abusivismo edilizio e il potere sovrastante della rendita sui destini del nostro territorio106. In questa medesima logica di valorizzazione della tradizione civile italiana si iscrive, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, il lavoro di ristrutturazione del centro storico di Bologna da parte di un urbanista assessore, Pier Luigi Cervellati. Grazie ai suoi progetti e al suo impegno politico, a quel tempo non poco contrastato, i ceti popolari momentaneamente trasferiti dalle loro case, oggetto di risanamento e restauro, vi ritorneranno per continuare la loro vita, per ripristinare l’intimo nesso tra popolo e città, tra vita civile e struttura urbana, tra urbs e civitas107. Un episodio purtroppo rimasto isolato, che contrasta splendidamente con le forme di gentrification, di cacciata e sostituzione dei ceti popolari dai centri urbani, come abbiamo visto per Torino, Milano e Napoli di fine Ottocento e in seguito per Roma. Non minore rilievo merita, in questa sommaria rassegna di controtendenze, la salvezza della via Appia, sottratta al rischio della devastazione, anche se non alla crescente speculazione e al peso del cemento degli anni legge urbanistica del 1942, De Lucia, Se questa è una città, cit., pp. 3 e ss. Per i lavori preparatori in Costituente, Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, cit., pp. 179 e ss. 105   P. Di Biagi (a cura di), Il piano INA-Casa e l’Italia degli anni cinquanta, Donzelli, Roma 2010. 106   P. Berdini, Breve storia dell’abuso edilizio in Italia. Dal ventennio fascista al prossimo futuro, Donzelli, Roma 2010. Insolera già nei primi anni Settanta aveva definito Roma «una enorme città abusiva», in L’urbanistica, cit., p. 484. 107   P.L. Cervellati, R. Scannavini e C. De Angelis, La nuova cultura delle città: la salvaguardia dei centri storici, la riappropriazione degli organismi urbani e l’analisi dello sviluppo territoriale nell’esperienza di Bologna, Mondadori, Milano 1977. De Lucia, Se questa è una città, cit., pp. 103 e ss.

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successivi108. Una vittoria della nostra civiltà urbana, comunque, che deve molto alle battaglie instancabili di un giornalista d’eccezione, Antonio Cederna, il quale non per nulla era archeologo di formazione e conosceva perciò bene le radici profonde della nostra storia109. Ma non bisogna dimenticare che l’Italia degli anni Sessanta e Settanta è un paese attraversato da conflitti radicali, che sorgono da grandi contrapposizioni ideali, dove la rozzezza culturale e l’illimitata miopia di settori estesi delle nostre classi dirigenti trova contrasti e contrappesi, in altri limitati settori di borghesia illuminata, in un grande partito di massa come il Pci, in vari gruppi intellettuali, in settori dell’urbanistica accademica, nella stampa democratica110. Tale paesaggio culturale e politico davvero moderno, dove il conflitto, come voleva Machiavelli, è lievito di libertà e di progressiva emancipazione, ha consentito la conservazione del nostro patrimonio contro non poche minacce. Anche se poco ha potuto contro il potere della rendita in tante città. Un potere che ha condizionato in maniera potente, a partire dalla sconfitta di Fiorentino Sullo – ministro democristiano dei Lavori pubblici che nel 1963 aveva presentato una coraggiosa legge –, la possibilità che il nostro Paese si dotasse di una moderna normativa urbanistica, all’altezza della sua storia111. Occorre dire che la peculiare arretratezza delle nostre classi dirigenti è stata a suo modo facilitata nelle sue realizzazioni “urbanistiche” anche dal generale spirito dell’epoca, dal modo in cui le città sono venute crescendo nel corso del Novecento nei grandi paesi in108   Ci riferiamo al piano regolatore di Roma del 1962, redatto da Fiorentino Sullo, e al decreto attuativo del ministro Giacomo Mancini, nel 1965, che pose l’Appia sotto un vincolo integrale (De Lucia, Nella città dolente, cit., pp. 84-85). Il piano bloccò un progetto di lottizzazione in grande stile. Oggi, tuttavia, la regina viarum continua a essere insidiata dal cemento. Cfr. F. Erbani, Antonio Cederna. Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza, Biblioteca del Cigno, Morciana di Romagna 2012, pp. 57-73; Id., Roma. Il tramonto della città pubblica, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 134 e ss.; V. De Lucia e F. Erbani, Roma disfatta. Perché la Capitale non è più una città e cosa fare per ridarle una dimensione pubblica, Castelvecchi, Roma 2016. Un contributo ben documentato dell’urbanistica a Roma a partire dal 1962, in P. Samperi, Mezzo secolo di urbanistica romana dalle illusioni degli anni ’60 alle disillusioni degli anni 2000, Marsilio, Venezia 2008. 109   Cederna, I vandali in casa, cit.; Erbani, Antonio Cederna, cit. 110   Si veda una ricostruzione di quella fase da parte di un protagonista: E. Salzano, Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Corte del Fondego, Venezia 2010, pp. 85 e ss. 111   De Lucia, Nella città dolente, cit., pp. 20 e ss.

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dustrializzati. Una angusta ideologia della modernizzazione, piegata a soddisfare la remunerabilità della tecnica, più che la qualità del vivere, ha infatti ispirato l’uso del territorio, generando un corso di cose che avrebbe deciso il destino odierno delle città. Lo aveva ben visto Mumford riguardo ai fenomeni anticipatori osservabili negli Stati Uniti del suo tempo: Permettendo la decadenza dei trasporti di massa e costruendo autostrade fuori città, nonché parcheggi e garage all’interno per favorire il più possibile l’uso dell’auto privata, ingegneri e urbanisti hanno contribuito a distruggere un organismo urbano più ampio su scala regionale. I trasporti a brevi distanze al di sotto del chilometro e mezzo, dovrebbero fondarsi soprattutto sui pedoni. Scoraggiando e cercando di eleminare il pedone, ed evitando di perfezionare e potenziare i trasporti di massa, si è finito col creare una situazione che impone una densità residenziale estremamente ridotta. Anche qui il monopolio privato dello spazio non soltanto riduce le attrezzature sociali della città, ma sacrifica a uso privato gli spazi pubblici112.

Egli coglieva tuttavia le ragioni culturali profonde di questo «crescere inorganicamente, e anzi cancerosamente» della città contemporanea, «con la continua decomposizione dei vecchi tessuti e lo sviluppo eccessivo dei nuovi». La «metropoli moderna», aggiungeva, è un clamoroso esempio di una particolare lacuna culturale nel campo stesso della tecnica e precisamente la continuazione con mezzi tecnici assai progrediti delle forme e dei fini antiquati di una civiltà socialmente arretrata. Le macchine e i servizi, che favorirebbero il decentramento in un ordine accentrato sulla vita, diventano un mezzo per aumentare la congestione. (...) Chi opera entro i limiti ideologici di questo regime ha una concezione del progresso puramente quantitativa: cerca di fare più alti i suoi edifici, più larghe le sue strade, più ampi i suoi parcheggi; moltiplica i ponti, le autostrade e i tunnel, rendendo sempre più facile l’entrare e l’uscire dalla città ma limitando lo spazio urbano disponibile per funzioni che non siano quella del trasporto113.

Chi non coglie in queste parole un ritratto della presente realtà urbana, che non ha altro fine se non quello canceroso della crescita?    Mumford, La città nella storia, cit., pp. 690-691.    Ivi, pp. 724-725.

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Chi non scorge nella presente miseria italiana la lontananza stellare dalla cultura che ha fatto sorgere le nostre città, che aveva al centro dei suoi fini i bisogni pratici e spirituali degli uomini riuniti in società? Tale modo di crescere delle strutture urbane, che Mumford scorgeva nelle metropoli, ha investito anche le nostre città, frutto di ben altra storia. Anche se il poligrafo americano lascia un po’ troppo implicito il ruolo svolto dalla rendita, dai proprietari di suoli nella direzione dello sviluppo urbano. Ma, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, il paesaggio politico e culturale del nostro Paese, in consonanza con quanto avviene nel resto d’Europa e del mondo, subisce un nuovo cambiamento. Muta dapprima lentamente, poi in maniera sempre più rapida e accelerata. Lo spazio del pensiero dominante sembra curvarsi all’ingiù e diventare unidirezionale, l’orizzonte culturale generale si abbassa e si restringe. Un furore ideologico di nuovo tipo, che si traveste da fine dell’ideologia, intende plasmare ogni angolo degli spazi offerti dal pianeta nella modalità organizzativa dell’impresa114. La razionalità imperiosa della trasformazione in merce di ogni lembo di territorio non può non avere conseguenze di rilevante vistosità. Lo spazio della città diventa materia prima che deve produrre valore per gli azionisti, incrementare il capitale finanziario. Il suolo, che custodisce la rendita di chi lo possiede, diventa sempre più la componente di un nuovo processo di accumulazione in cui «economia di carta e di mattone» vanno a braccetto115. Da questa vecchia e nuova via del processo di valorizzazione del capitale nasce quella forma d’impresa che prende il nome ampolloso di grandi opere. Costose mirabilia ingegneristiche di dubbia utilità collettiva, spesso opere incompiute che consumano il bene sempre più scarso del nostro territorio116. Termine neutro, quest’ultimo, che 114   Una rassegna delle riflessioni sul destino delle città contemporanee è in E. Granata e C. Pacchi, La macchina del tempo. Leggere la città europea contemporanea, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, pp. 52 e ss. 115   Sulle forme recenti del legame tra capitale finanziario e rendita fondiaria, W. Tocci, L’insostenibile ascesa della rendita urbana, in «Democrazia e diritto», 2009, n. 1. 116   A. Fraschilla, Grandi e inutili. Le grandi opere in Italia, Einaudi, Torino 2015. M. Baioni, Città e territorio: gli effetti di un ventennio senza regole, in M. Baioni, I. Boniburini e E. Salzano, La città non è solo un affare, Aemilia University Press, Reggio Emilia 2012, pp. 91 e ss.

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oggi implica una molteplicità di significati. Ad essere colpito, infatti, non è solo l’incolto, la terra fertile, ma anche i relitti superstiti del paesaggio agrario. Sotto il diluvio di nuovi tracciati stradali, vie complanari, autostrade – costruiti talora più per il profitto delle imprese che per reale necessità – viene talora sommersa la campagna, minacciata anche l’antica geometria viaria, con la sua geniale funzionalità: gli antichi reticoli della centuriazione romana117. Senza dire – sia consentito ricordarlo di sfuggita – che asfalto e cemento, anche quando si abbattono su aree incolte e di poco pregio paesaggistico, sconvolgono invisibili equilibri ambientali, corridoi vitali per tanti animali, frammenti di ecosistemi brulicanti di vita che erano sfuggiti a precedenti distruzioni. Infine, aspetto non trascurabile, ma solitamente assai negletto, la cementificazione si concentra lungo la linea costiera della Penisola. Qui si addensano abitazioni, imprese, strade e infrastrutture, servizi, attività turistiche che risucchiano popolazione ed economie dalle aree interne desertificando così i nostri borghi e paesi118. Gli ultimi decenni disegnano uno squilibrio di distribuzione demografica e di caos territoriale certamente mai sperimentato nella storia del nostro Paese. E ritorniamo sul sentiero centrale del nostro racconto. Dallo stesso rattrappimento del pensiero dominante nasce infine l’opera di aperta devastazione che si abbatte sulla vita delle nostre città. Viene colpita al cuore la loro civitas e dunque anche l’urbs ne è coinvolta. La nuova razionalità del pensiero unico accelera e completa, nell’Italia della fine del secolo scorso e del nuovo millennio, i processi già avviati in precedenza. Prosegue l’opera di annientamento delle periferie verdi e degli spazi liberi dentro la città, mentre l’edificazione urbana – affidata alle nuove regole della contrattazione programma117   F. Sansa (a cura di), La colata. Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia e il suo futuro, Chiarelettere, Milano 2010, pp. 260 e ss. Il testo, di più autori, presenta una rassegna impressionante di devastazione territoriale nei vari angoli d’Italia. Ma si veda anche L. Martinelli, Le conseguenze del cemento. Perché l’onda grigia cancella l’Italia? Protagonisti, trama e colpi di scena di un copione insostenibile, Altreconomia, Milano 2011. 118   Tra il 1951 e il 1971 la metà delle costruzioni si è concentrata lungo la fascia costiera: E. Turri, Semiologia del paesaggio italiano, Introduzione di F. Vallerani, Marsilio, Venezia 2014, p. 274. Ma il fenomeno si è accresciuto in seguito: P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 187 e ss.

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ta, cioè ai liberi interessi del mercato – diventa un processo informe di occupazione del territorio119. Siamo in realtà in presenza di uno stacco netto pur nella apparente continuità dei processi. Fino alla fine degli anni Settanta le città – che espandono talora tumultuosamente i propri manufatti, inglobano le municipalità minori delle proprie cinture – conservano tuttavia un minimo di divisioni e partizioni funzionali, pur nell’addensamento, talora disordinato, di attività economiche e residenze. Ma l’informe dilatazione degli anni successivi ha un’altra logica. Come ha ricordato Paola Bonora, «In parallelo alla delocalizzazione produttiva che disintegra le filiere e allontana la produzione dal territorio, il principio della deregulation neoliberista enfatizzato in economia si riflette in una disseminazione insediativa disordinata, priva di razionalità e piano e in un consumo di suolo insensato»120. Ovviamente, il fenomeno non è solo il riflesso di un mutamento delle strutture produttive, della fine o della riduzione dell’organizzazione fordista del lavoro. È qualcosa di più. L’occupazione di nuovi spazi al di fuori della città non nasce solo da esigenze produttive sregolate, dalla diffusione delle seconde case che dà luogo al fenomeno definito villettopoli, dallo sprawl ininterrotto e incessante ecc. Essa è fomentata da un fenomeno culturale più profondo e più grave, che ha a che fare con il disvalore caduto in poco tempo sul nostro territorio. Un territorio, quello italiano, come abbiamo cercato sin qui di mostrare, che è insieme un ecosistema e un corpo storico unitario, quando non anche un tessuto storico-artistico. A ragione, Edoardo Salzano, già nel 1998, poteva scrivere a proposito della slabbratura continua della città verso l’esterno: Non è stato solo uno spostamento di residenza e una trasformazione della produzione. Non è stato neppure solo un fenomeno quantitativo. Il possente salto di qualità è stato in ciò, che una parte molto ampia del territorio è uscita dall’economia e dalla società. L’extraurbano è diventato res nullius, terra di nessuno: luogo d’attesa per l’ingresso, tramite la spe119   De Lucia, Nella città dolente, cit., pp. 172 e ss.; Id., Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia, Prefazione di A. Asor Rosa, Diabasis, Reggio Emilia 2010, pp. 183 e ss. 120   P. Bonora, Fermiamo il consumo di suolo. Il territorio tra speculazione, incuria e degrado, il Mulino, Bologna 2015, pp. 18-19. Ma si vedano gli importanti contributi in M.C. Gibelli e E. Salzano (a cura di), No Sprawl, Alinea, Firenze 2006.

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culazione fondiaria, nel regno infetto dell’urbano, luogo delle discariche, dell’esportazione “fuori” degli scarti urbani, residuo esso stesso. Territorio senza cittadinanza e senza diritti perché senza utilità: ridotto a luogo delle scorrerie dei vacanzieri del fine settimana, luogo di passaggio degli automobilisti serrati nelle loro scatole di latta121.

Dunque nel corso degli ultimi trent’anni, la linea di apparente continuità, di progressivo degrado del nostro tessuto urbano e territoriale, ereditata dal dopoguerra, si spezza ulteriormente. Il piano di discesa prende una inclinazione più ripida. Sembra una continuazione, ma è una nuova fase. Potremmo dire una nuova epoca storica. Essa manifesta il suo carattere abnorme già in termini quantitativi, con la massa imponente dei manufatti calati sul territorio da un processo gigantesco di mercificazione. «Del patrimonio edilizio dell’Italia al 2001 – ha ricordato Consonni –, 7 vani su dieci risultano costruiti nei 55 anni precedenti. Mai si è costruito così tanto nella storia sia in termini relativi (stanze per abitante) che in termini assoluti»122. Ma mentre nei primi decenni di questo cinquantennio l’espansione ubbidiva a una reale crescita demografica e a un bisogno crescente di abitazioni, nel seguito degli anni l’edificazione non ha seguito più l’andamento di bisogni reali, ma ha risposto agli appetiti dei costruttori, alle esigenze di un settore che doveva creare nuove merci, per un consumo indotto e crescente. L’offerta di case è andata oltre i nuovi bisogni abitativi di famiglie sempre più rimpicciolite, «unipersonali», esiti esistenziali della disgregazione sociale e di nuovi stili di vita. «Negli ultimi dieci anni – ha ricordato Mauro Baioni – sono state realizzate 2.500.000 nuove abitazioni. È come se avessimo costruito dal nulla due città grandi come Roma»123. La superficie di suolo consumato, misurata in mq per abitante, che era stata 178 nel 1950 e che diventa 286 nel 1989, crescerà di anno in anno fino ad arrivare a 369 nel 2012. Secondo recenti dati Ispra, dagli anni Cinquanta al 2015 sarebbero stati coperti 21 mila km2 del nostro territorio124. 121   E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 8. Corsivi nel testo. 122   Consonni, La bellezza civile, cit., p. 157. 123   Baioni, Città e territorio, cit., p. 69, che utilizza dati dell’Agenzia del territorio. 124   Bonora, Fermiamo il consumo di suolo, cit., p. 24, e E. Granata, Ridurre il consumo di suolo, idea civile che riguarda tutti, in «Vita e pensiero», 2015, n. 4. Altri dati anche in Martinelli, Le conseguenze del cemento, cit. Un rapido panorama delle tra-

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Tale consumo di suolo, su cui sorgono abitazioni che non creano più città, come era accaduto in tutta la nostra precedente storia, ma manufatti per singoli utenti, merci per consumatori individuali, ha anche altri esiti. Esso non solo altera profondamente l’ecosistema urbano, e vedremo più avanti in che modo. Ma innesca anche altri importanti processi economici e sociali. Lo spazio intorno alla città, territorio di elevata qualità ambientale, agricola e dunque fondiaria, viene occupato da una corona crescente di centri commerciali, secondo un modello di nuovo urbanismo dell’iperconsumo nato negli Stati Uniti e dilagato in tutte le città della Penisola125. Tali nuovi snodi gravitazionali della vita cittadina svuotano di attività commerciali e artigianali gli antichi centri, richiamano crescenti flussi di traffico, accrescono il caos quotidiano reso ormai condizione normale del vivere, sfigurano le antiche forme urbane. Il caso di Roma raccontato di recente da Francesco Erbani è singolarmente esemplare126. Dunque una urbs di nuovo tipo, un aggregato di manufatti senza qualità e senza bellezza, mera e sconnessa occupazione di spazi, socialmente iniqua perché lascia senza casa tanti cittadini, avanza e va svuotando dal di fuori il senso e la vita stessa dei nostri centri storici. Questi, infatti, non possono vivere come sopravvivenze museali, vuote quinte teatrali senza la loro mobile sostanza antropica. I «centri storici – tutti i centri storici, ricordava Leonardo Benevolo – si salvaguardano come degli organismi viventi, non come dei siti archeologici che vanno visitati: gli unici cambiamenti ammissibili sono quelli che consentano di essere vissuti e abitati, di possedere quel congegno di relazioni umane ed economiche che li hanno alimentati per secoli»127. sformazioni recenti subite dalle città in I. Agostini e P. Bevilacqua (a cura di), Viaggio in Italia. Le città nel trentennio neoliberista, Postfazione di P. Berdini, Manifestolibri, Roma 2016. 125   Sui centri commerciali degli Stati Uniti, E. Ruppel Shell, The High Cost of Discount Culture, The Penguin Press, New York 2009; J. De Graaf, D. Wann e T.H. Naylor, Affluenza. The All-Consuming Epidemic, Berret Koehler, San Francisco 2005. 126   F. Erbani, Roma. Il tramonto della città pubblica, Laterza, Roma-Bari 2013. Si vedano, per le trasformazioni profonde subite da Roma negli ultimi decenni, P. Berdini, La città in vendita. Centri storici e mercato senza regole, Prefazione di V. Emiliani, Donzelli, Roma 2008, pp. 73 e ss.; De Lucia, Le mie città cit., pp. 135 e ss. E ora Erbani e De Lucia, Roma disfatta, cit. Per le devastazioni subite dalla sua civitas, E. Scandurra, Vite periferiche. Solitudine e marginalità in dieci quartieri di Roma, Presentazione di B. Amoroso, Ediesse, Roma 2012. 127   L. Benevolo, La fine della città, Intervista a cura di F. Erbani, Laterza, RomaBari 2011, p. 112, corsivo nel testo.

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Ma l’aggressione muove anche dall’interno, dalla penetrazione delle logiche di sfiguramento e di oltraggio del passato che anima il capitalismo dei nostri giorni. Non è solo la progressiva vendita ai privati del nostro patrimonio pubblico, che sgretola progressivamente quanto rimane del tessuto di una storia comune solidificata negli edifici e nella forma degli spazi. Le nostre città hanno visto cancellati, nel breve volgere di qualche decennio, antiche librerie e teatri, cinema storici e farmacie secolari, botteghe artigiane e forni popolari, mercati contadini e vecchie osterie. Sono scomparsi luoghi nei quali i singoli cittadini si sentivano comunità, civitas. Sostituiti per lo più da nuovi esercizi commerciali, da agenzie immobiliari e da banche. Banche, banche, banche dappertutto, filiali di istituti di credito grandi e piccoli, che invadono anche i quartieri residenziali, si disseminano in ogni angolo del territorio quasi a voler ostentare, anche nelle strutture dell’edificato, nella cancellazione di una antica economia locale, il nuovo dominio transnazionale del danaro. Così scompaiono non solo luoghi e apparati simbolici della dimensione pubblica, ma si svuotano anche i centri storici dei loro cittadini: «Le undici più grandi città italiane – ha ricordato Paolo Berdini – hanno perduto circa 700.000 abitanti nel decennio compreso tra i censimenti del 1991 e del 2001»128. Nel frattempo assistiamo al dilagare di un turismo che letteralmente consuma le nostre città, tende a trasformarle in Disneyland seriali, offerte a turisti frettolosi e famelici, anch’essi fabbricati nella catena di montaggio del turismo internazionale di massa129. Ancora una volta l’Italia delle città costituisce l’avanguardia delle trasformazioni, ma in un senso rovesciato rispetto al suo secolare passato. Il Paese dove è nata la bellezza urbana mostra nel modo più drammaticamente esemplare come il capitalismo del nostro tempo 128   Berdini, La città in vendita, cit., p. 3. Un fenomeno di svuotamento già avviato a partire dagli anni Cinquanta: P.L. Cervellati, La città bella. Il recupero dell’ambiente urbano, il Mulino, Bologna 1991, p. 55. 129   Consonni, La bellezza civile, cit., p. 147; T. Montanari, Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane, minimum fax, Roma 2013. Si vedano i casi di Milano, Roma, Genova ecc., all’interno di un quadro globale dei fenomeni di gentrification, in G. Seni, Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, il Mulino, Bologna 2015, pp. 158 e ss. Per tali processi all’interno del quadro politico nazionale, S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, Torino 2012. Per le linee di controtendenza, conflitti, sviluppo degli orti urbani ecc., in una vasta letteratura, E. Scandurra e G. Attili (a cura di), Pratiche di trasformazione dell’urbano, Franco Angeli, Milano 2013.

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ha la capacità di distruggerla. Esiste caso più esemplare di Venezia? Questa città, che non è propriamente una città, ma un’opera d’arte di edifici sull’acqua, sta morendo. Essa, che è stata per secoli una delle più popolose città d’Italia, si è ridotta oggi a poco più di 56 mila abitanti130. I cittadini che un tempo vivevano nell’isola ora abitano nell’entroterra di Mestre o a Marghera e si recano a Venezia per svolgervi attività e professioni giornaliere e rientrare a sera. Il paradosso – come ha ricordato Franco Mancuso – è che la città, mentre si va spopolando, attrae stabilmente ogni giorno almeno 50 mila persone per lavoro e per studio (oltre all’enorme massa di turisti che porta talora a oltre 150 mila i suoi visitatori giornalieri). Sono cittadini pendolari che, contrariamente a quanto di solito si pensi, trovano lavoro più a Venezia che nell’area industriale di Porto Marghera. Ma essi – soprattutto tanti giovani che lo desidererebbero – non possono abitarvi per il distorto mercato delle abitazioni prodotto dal turismo. I valori fondiari sono elevatissimi, mentre una parte cospicua delle abitazioni della città è di proprietà di turisti stranieri che vi vivono pochi mesi l’anno e lasciano perciò, soprattutto d’inverno, interi quartieri spopolati e deserti131. Non meno crescente è il costo della vita per i beni di prima necessità, alterato da una domanda esterna che falsifica i valori reali di mercato. Sempre meno residenti significa sempre meno possibilità di lavoro per bottegai e artigiani (sarti, idraulici, falegnami, elettricisti, muratori), che abbandonano la città e la rendono perciò sempre più priva di servizi e dunque sempre meno abitabile. Un circolo vizioso che solo il governo di cui è capace la politica, in grado di opporsi alla spontaneità del “mercato”, potrebbe spezzare. A Venezia dominano al contrario le botteghe di cianfrusaglie per forestieri, di maschere per il carnevale, di gondole di latta: la merce posticcia del turismo consumistico dei giorni nostri, formata da una folla frettolosa di individui che guardano senza comprenderlo il paesaggio urbano e portano a casa un ammasso di foto e gli ultimi cascami commerciali di una civiltà inarrivabile. Ma Venezia, ha ricordato Settis, non è solo la sua architettura, è anche una città invisibile. Questa «città invisibile 130   Cfr. S. Settis, Se Venezia muore, Einaudi, Torino 2014, p. 10; F. Mancuso, Venezia è una città. Come è stata costruita e come vive, Prefazione di F. Erbani, Corte del Fondego, Venezia 2016 (2a ed.), p. 142. 131   Mancuso, Venezia è una città, cit., p. 143.

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che intride ogni pietra dei suoi ponti e ogni goccia d’acqua dei suoi canali è una fitta maglia di relazioni, una potente trama di fatti e di gesti, di memorie e di parole, di bellezza e di storia»132. Come sappiamo, la città è fusione di urbs e civitas ed è la scomparsa di quest’ultima, dissolta nell’acido di un’economia in cui il mercato è la legge, che fa morire Venezia e minaccia l’avvenire di tutte le nostre città. Oggi e per l’avvenire Nella vicenda antica e recente delle nostre città è racchiuso un insegnamento che è di portata universale. Come abbiamo visto, essa coinvolge gran parte dell’Europa e ha una sua origine fondativa e una fonte millenaria di alimentazione: il potere politico e la sua capacità di governo e di progetto. La perdita di sovranità, l’asservimento della politica ai meccanismi del mercato, vale a dire ai poteri e agli interessi dell’accumulazione privata, trascina con sé, inevitabilmente, la dissoluzione della città. È evidente. Nelle parole è inscritta la storia delle cose. La politica nasce da politiké, che proviene da polis, la città greca, l’origine più insigne di questo splendido edificio culturale e spirituale della storia umana. E se muore la politica la città non può sopravviverle. Per questo il dominio senza governo del mercato, il capitalismo dei nostri giorni, è un devastatore della nostra civiltà, perché distrugge per l’appunto la civitas, la comunità cooperante dei cittadini da cui quel primo termine prende origine. Il capitalismo avanza sotto forma di dissoluzione delle relazioni sociali e umane, dissolve il tessuto della comunità e dunque la nostra forma di civiltà. È un processo che svuota anche la sostanza della democrazia. Perché se la società si dissolve nei singoli individui viene a mancare ogni aggregazione capace di controllo sui centri di potere, viene meno la partecipazione alla vita pubblica, muore l’agorà che fonda le premesse della politica. Per tale ragione, possiamo dire che oggi tale modo di produzione è un agente di dispiegata barbarie. Barbarie nel senso nuovo che dobbiamo dare oggi a tale termine: vale a dire all’annientamento di tutto ciò che ancora conserva senso, alla trasformazione di tutto il vivente in merce, di ogni umana rela   Settis, Se Venezia muore, cit., p. 50.

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zione in scambio mercantile. Barbarie perché non conosciamo altro termine così esattamente contrapposto alla parola civiltà. Dunque, per riprendere il nostro racconto, iniziato con Cattaneo, possiamo dire che il capitalismo dei nostri anni distrugge un istituto della felicità umana. Il luogo dove gli uomini hanno costruito l’intimo tessuto della società, fatto fiorire il loro ingegno, creato le arti, squadernato i misteri dell’universo, narrato la loro storia, custodito memorie, amato e trasmesso vita e sapere di generazione in generazione. Tale distruzione aggiunge un altro tassello a un quadro teorico appena abbozzato, che mostra l’intima dissoluzione dell’egemonia capitalistica durata per gran parte del Novecento133. Incapace di produrre immaginari dotati di senso per il futuro dell’umanità, il capitalismo è generatore crescente d’infelicità, crisalide di potere sempre più vuota di consenso, che regge il proprio edificio su puri rapporti di forza. Ma le città, e soprattutto le città italiane, oggi mostrano anche per un altro aspetto la loro intima incompatibilità con il processo di accumulazione in atto, la loro difficoltà a coesistere con i caratteri dissolutori del capitalismo dei nostri anni. Le scienze ecologiche – nel nostro caso l’ecologia urbana134 – disvelano ciò che a lungo la cultura dominante aveva tenuto nascosto. Vale a dire i vincoli di risorse e le condizioni di habitat entro cui sono sorte e vivono le città, la loro natura di ecosistema. La città, in virtù dello sviluppo industriale, dell’ampiezza mondiale del commercio, si è da tempo svincolata dai suoi antichi condizionamenti sistemici locali. Per il suo riscaldamento domestico può utilizzare gas o petrolio o energia elettrica, che arrivano da luoghi lontani, né ha certo bisogno di avere terre fertili intorno per alimentare i propri cittadini, mentre i suoi mezzi di trasporto e di comunicazione la tengono costantemente in una connessione spaziale a scala mondiale. Ma tale dominio tecno133   Dobbiamo, per tale aspetto, rinviare alle riflessioni contenute in P. Bevilacqua, Elogio della radicalità, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 144 e ss. 134   Per la nozione di ecologia urbana quale la intendiamo oggi, concettualmente e teoricamente altra dalle elaborazioni della scuola di Chicago, degli anni Venti del Novecento, che così si definiva (cfr. M. Roncayolo, Città, in Enciclopedia Einaudi, vol. III, Einaudi, Torino 1978, pp. 5 e ss.), si vedano: M. Nicoletti (a cura di), L’ecosistema urbano, Dedalo, Bari 1978; V. Bettini, Che cosa non è l’ecologia urbana, in Id., Elementi di ecologia urbana, Einaudi, Torino 1996, pp. 3 e ss.; G. Nebbia, Storia naturale delle merci nell’ecosistema urbano, ivi, p. 138; P. Bevilacqua, La città. Un ecosistema di beni comuni, in «Scienze del territorio», 2015, n. 3.

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logico, la liberazione dai suoi antichi vincoli ambientali, la rende indipendente dal mondo naturale? O ha solo spostato più in là i confini della propria dipendenza dalle risorse che la fanno vivere, le ha dilatate a una scala globale? A guardar bene il territorio, o per meglio dire l’habitat urbano, dopo tanto accumulo di dominio tecnologico sulla realtà circostante, appare oggi in tutta la sua fragilità sistemica. È ormai di dominio popolare che la crescente copertura del suolo con le strutture dell’edificato impedisce in maniera allarmante l’assorbimento dell’acqua piovana. In caso di pioggia intensa – fenomeno che appare ormai sempre più regolare a tutte le latitudini135 – le strade cittadine diventano fiumi, rovinosi corsi d’acqua, mentre gli abitati vengono allagati come comuni golene di espansione. Spesso nascosta o cacciata dalla città, l’acqua si riprende il suo posto allorché gli eventi climatici glielo impongono. Il caso di Genova sotto questo riguardo è per più versi esemplare. Nei momenti drammatici delle calamità, noi comprendiamo una realtà solitamente celata: il territorio urbano non si esaurisce nello spazio edificato. Esso è parte di un’area più vasta, fatta di campagne, boschi, terreni abbandonati, strade, corsi d’acqua di cui finisce col diventare l’impluvio sempre più esteso e reso impermeabile. Lo spazio periferico che un tempo, come abbiamo visto, era componente sistemica della città, perché la riforniva di cibo – era la terra degli orti, che accoglieva il concime dei rifiuti organici – e rispecchiava la sua bellezza nelle forme del paesaggio agrario, ora mostra in modo rovesciato la sua connessione insormontabile col nucleo urbano. Rispetto a quest’area, a questa periferia progressivamente mangiata dall’edificazione, la città appare sempre più come un fattore di squilibrio sistemico. Essa ha sottratto troppi spazi al naturale processo di assorbimento e scorrimento delle acque e perciò il suo territorio cementificato e asfaltato finisce per diventare, sempre più spesso, il loro improvvisato e disordinato letto. È dunque evidente che l’edificazione diffusa, l’occupazione degli spazi incolti e coltivati, la restrizione dei territori agricoli periurbani, hanno riflessi crescenti su un diritto fondamentale dei cittadini: quello della sicurezza, dell’incolumità della persona. L’occupazione del bene comune suolo per mano dei singoli privati, che edificano 135   T. Perna, Eventi estremi. Come salvare il pianeta e noi stessi dalle tempeste climatiche e finanziarie, Altreconomia, Milano 2012.

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per loro specifico interesse, si configura sempre più nitidamente in conflitto insostenibile con il bene comune della sicurezza di tutti. In caso di piogge intense le città diventano pericolose per tutti i loro abitanti136. Non meno noto è diventato il legame sistemico tra il cielo della città, vale a dire la qualità dell’aria che in essa si respira, e la sua manipolazione, insieme privata e collettiva, a scopi produttivi, di trasporto e di varia altra natura. L’aria di un tempo è oggi diventata smog, uno speciale impasto “fotochimico” di anidride carbonica, di ozono, di biossido di zolfo e di azoto, di particolato e di vari altri inquinanti, fonte di danno per la salute dei cittadini137. Senza qui considerare che l’aria è anche il cielo. Il «cielo un tempo stellato» – come scrive Anna Marson – che è una dimensione ormai dimenticata del paesaggio. Nelle nostre città siamo sempre più ammorbati dai gas, ma anche privati, in moltissimi luoghi, per via dello smog, delle costruzioni e dell’inquinamento luminoso, della possibilità di vedere il cielo, «di vivere un rapporto quotidiano con la volta celeste»138. Ora, è vero che gli inquinanti chimici più importanti sono negli anni recenti diminuiti, grazie ai miglioramenti tecnologici apportati ai motori delle auto. Ma ozono e particolato, come ha ricordato un rapporto dell’Agenzia ambientale europea (Air pollution in Europe, 1990-2004, Eea, Copenaghen 2007), permangono nell’atmosfera. Un mistero la cui chiave sta nella riduzione dei suoli verdi intorno alle nostre città, alla crescita dell’edificato che favorisce la concentrazione degli inquinanti nell’atmosfera139. È dunque il manifestarsi di un rischio collettivo, la minaccia alla salute di tutti, che fa riscoprire l’indivisibilità sistemica della città da questo common, dal bene comune aria da cui dipende la nostra vita. Al tempo stesso anche lo svincolamento dei centri urbani dai loro antichi limiti territoriali, la loro collocazione nello spazio-mondo, si rovescia nel suo contrario. La città del nostro tempo, coi suoi fumi e i suoi scarichi, ma anche con la massa dei suoi edifici contribuisce 136   Quando il suolo è integro può incamerare fino a 3750 tonnellate d’acqua per ettaro (Bonora, Fermiamo il consumo di suolo, cit., p. 33). 137   Sullo “smog fotochimico”, B. Commoner, Il cerchio da chiudere (1971), Presentazione di G. Nebbia, Appendice di V. Bettini, Garzanti, Milano 1986. Sull’inquinamento urbano più in generale, MacNeil, Qualcosa di nuovo sotto il sole, cit., p. 65. 138   A. Marson, Archetipi di territorio, Alinea, Firenze 2008, p. 136. 139    A. Ballarin Denti, L’aria che respiriamo: una questione politica, in «Vita e pensiero», 2008, n. 1.

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al riscaldamento locale e globale e ne subisce le conseguenze, in termini di caos climatico e di innalzamento delle temperature medie140. Con l’incolto che viene cementificato, non solo si impedisce l’alimentazione della falda idrica, ma il suolo cessa di essere serbatoio che conserva carbonio e disperde così nell’aria masse ingenti di anidride carbonica141. Il legame sistemico delle sue economie con il mondo circostante si fa dunque più ampio, ma non per questo meno stringente. Nuovi vincoli ecosistemici legano la città al territorio. Essa è stretta, con una serrata maglia, all’intera Terra. Per questo riscoprire i legami non resecabili della città con la natura, difendere con rinnovata lena ciò che sta intorno ad essa, il suolo incolto, le campagne, gli orti, ripristinare – per quanto le devastazioni compiute lo consentano – il verde e gli alberi dentro e fuori i suoi abitati, difendere quel che rimane della loro bellezza è il nuovo moto della modernità. È il progetto che ha memoria del passato e quindi visione del futuro. L’unica modalità di concepire l’urbanesimo oggi vantaggiosa per tutti, che può donarci o conservarci felicità. 140   Bettini, Elementi di ecologia urbana, cit., p. 45; Bonora, Fermiamo il consumo di suolo, cit., p. 33. La qualità dell’aria a sua volta influisce sul clima, cfr. S. Caserini, Aria pulita, Bruno Mondadori, Milano 2013, pp. 70 e ss. 141   P. Pileri, Che cosa c’è sotto. Il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo, con un testo inedito di G. Biondillo, Altreconomia, Milano 2016, pp. 56 e ss.

IV NAPOLI, LA CITTÀ CHE SI CANTA Un sapere che dà colori al mondo Chissà se Carlo Cattaneo avrebbe accettato la nostra proposta di porre la canzone napoletana fra le “istituzioni” italiane, di inserirla nel novero delle tradizioni e consuetudini che, al di là dei «mutamenti spettacolosi della politica», hanno procurato al popolo di quella città cultura e felicità. Forse, dopo qualche perplessità iniziale, essendo uomo aperto e non dogmatico, avrebbe accettato questa crea­ zione dello spirito umano negli spazi di una città. L’avrebbe accolta quale fonte “perenne”, capace di agire inosservata secondo fini di incivilimento e di emancipazione. Ma, non avendo noi la possibilità di provare tale eventualità, perché Cattaneo è impossibilitato a dire la sua, dobbiamo cercare di persuadere il lettore di oggi della solidità della nostra interpretazione. Dunque, la domanda è: come e in quale misura la canzone assurge alla dimensione di istituzione che ha agito nel profondo della vita dei cittadini napoletani e nel loro immaginario? Ovviamente, l’influsso spirituale e culturale di questa forma artistica ha travalicato ampiamente i limiti spaziali di Napoli, ma, per ovvi motivi, qui ci limitiamo ai suoi confini. Prima di avventurarci in questa impervia sfida – per la vastità della letteratura da affrontare e per la brevità obbligata della nostra trattazione – dobbiamo precisare che nella nostra percezione di contemporanei per canzone napoletana intendiamo normalmente la cosiddetta “canzone napoletana classica”. Vale a dire quella forma canora e melodica, detta anche “canzone d’autore” o “canzone dotta”, che si afferma tra Otto e Novecento e dura per diversi decenni, con un crescendo di creazioni di notevole originalità e

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un’ampiezza di diffusione che raggiunge la scala nazionale e internazionale. Un fenomeno che per intensità, durata, originalità e fascino delle singole creazioni non ha termini di paragone con nessun’altra città d’Italia e probabilmente del mondo. Senonché, anche sulla delimitazione temporale, anzi sull’atto di nascita della canzone napoletana classica c’è discussione tra gli studiosi. Mentre per alcuni, come per Salvatore Di Giacomo, essa nasce e si afferma nel 1839 (o 1835 secondo altri) con la composizione e diffusione di Te voglio bene assaje, per altri occorre attendere gli ultimi due decenni del XIX secolo per poter veder sorgere con pienezza quella stagione di gloria musicale. Essa sarebbe nata intorno al 1880 con la celebre Funiculì, funiculà1. Naturalmente è per noi poco importante stabilire qui date di nascita e di morte, che lasciamo alla gioia argomentativa degli esperti. Piuttosto, a favore di chi estende e retrodata il fenomeno a partire dal primo Ottocento occorre dire che, se in quegli anni ancora non è nata una vera e propria industria culturale della canzone, come avverrà più tardi, il canto, qualunque sia la sua qualità letteraria e musicale, circola negli spazi privati e pubblici della città con una intensità che ne fa un carattere antropologico di lunga durata. Gli stessi autori che non accettano l’interpretazione storica di Di Giacomo a proposito del successo di Te voglio bene assaje – canzone di Raffaele Sacco musicata da Filippo Campanella, nata in un salotto ma destinata a toccare corde profonde del popolo napoletano – ricordano l’enorme successo di quella composizione. Al punto che nel 1841 un personaggio noto della nobiltà cittadina, il barone Zezza, per reazione all’insistenza ormai ossessiva che il motivo dominante della canzone aveva assunto in ogni angolo di Napoli, si sentì in obbligo di scrivere, sulle stesse note: Da cinque mise, canchero matina, juorno e ssera fanno sta tiritera tutte li marame. 1   E. Careri e P. Scialò, Introduzione a Idd. (a cura di), Studi sulla canzone napoletana classica, Libreria musicale italiana, Lucca 2008, p. xii. La data di Te voglio bene assaje è controversa e non chiarisce bene il mistero Giovanni Amedeo, che pure voleva dipanarlo con una testimonianza di Luigi Settembrini (Canzoni e popolo a Napoli dal ’400 al ’900, Grimaldi & C. Editori, Napoli 2005, p. 191).

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Che siente addò te vote? Che siente addò tu vaje? Te voglio bene assaje e tu nun piense a me2.

Certo, l’Ottocento porta a maturità, come vedremo, fenomeni letterari e musicali di varia natura, che troveranno poi nuove fonti d’ispirazione nella sensibilità e nella cultura romantica e nelle forme organizzate e tendenzialmente industriali della produzione culturale e musicale. E si capisce il seguito se si pensa che ai primi del secolo Napoli, dopo un Settecento di splendori, era ancora considerata la capitale musicale del continente, «il maggior centro europeo della musica vocale e, un po’ enfaticamente, anche per la propensione canora dei suoi abitanti, come la musica stessa. Perfino le tristi botteghe di barbiere in cui, nel Settecento, si castravano bambini per avviarli alla carriera di “cantori evirati” avevano contribuito alla fortuna di Napoli»3. Ma, pur nell’indubbia continuità della tradizione – forse unica al mondo per durata e originalità –, la canzone napoletana classica è quella che noi ascoltiamo ancora oggi nelle insuperate incisioni di Enrico Caruso o in quelle più intime di Roberto Murolo e costantemente riproposte e riaggiornate, con nuove sensibilità musicali, dai talenti canori che Napoli produce a ogni generazione: da Giacomo Rondinella ad Aurelio Fierro, da Peppino di Capri alla Nuova compagnia di canto popolare – che ha dato un contributo storico e filologico di prim’ordine alla tradizione etnomusicale napoletana e campana – a Massimo Ranieri. Per non dire della sua presenza nei repertori dei concerti della grande musica lirica italiana e internazionale. Luciano Pavarotti, José Carreras e Placido Domingo, 2   Careri e Scialò, Introduzione a Idd. (a cura di), Studi sulla canzone napoletana, cit., p. xvi. 3   V. Paliotti, Storia della canzone napoletana, Newton Compton, Roma 1992, p. 42. L’espressione «capitale della musica» appare per la prima volta nelle parole dello scrittore francese Charles de Brosses nel 1739, prima di una lunga serie (M.F. Robinson, L’opera napoletana. Storia e geografia di una idea musicale settecentesca, a cura di G. Morelli, Marsilio, Venezia 1984, pp. 19 e ss.). Sull’influenza della musica napoletana in Europa nel primo Ottocento e sugli innesti europei a Napoli, sulla presenza di Cottrau, musicista ed editore di testi musicali stabilitosi a Napoli, e di altri melomani stranieri, Careri e Scialò, Introduzione a Idd. (a cura di), Studi sulla canzone napoletana, cit., p. x.

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alternando canzoni come ’O sole mio alle arie più celebri dell’opera lirica, hanno per così dire posto un suggello di nuova consacrazione mondiale anche presso la vasta platea delle ultime generazioni. Antonio Grano, studioso del fenomeno, attribuisce alla canzone napoletana classica la stessa dimensione storica della nascita del jazz, del melodramma, della musica sinfonica. Egli ricorda che tra il 1880 e il 1945 un pugno di poeti, parolieri e compositori «produsse un numero di brani la cui consistenza è ancora ignota». Almeno alcune decine di migliaia di brani regolarmente pubblicati da case editrici, escluse le canzoni dei dilettanti, dei gruppi ecc.4. Si tratta di creazioni d’autore, nate dalla inesausta creatività di poeti come Libero Bovio, Francesco Feola, Salvatore Di Giacomo, E.A. Mario, Ferdinando Russo, Raffaele Viviani ecc., e felicemente musicate da nuovi maestri della musica leggera, eredi di una grande tradizione, come Evemero Nardella, Salvatore Gambardella, Eduardo Di Capua, Nicola Valente, Cesare Andrea Bixio, Ernesto De Curtis e tanti altri, attivi sulla scena artistica partenopea e nazionale per vari decenni. Nascono allora canzoni di vastissima popolarità e in qualche misura eternizzate da una loro capacità sorprendente di resistere al tempo, come Reginella, Era de maggio, A Marechiare, Santa Lucia Luntana, Lo cardillo nnammurato, Tu ca nun chiagne, ’O sole mio, Munasterio ’e Santa Chiara ecc. Senza dire che entrano in questo repertorio, e vi si mescolano con nuova suggestività, canzoni di antica origine e di fascino universale come Fenesta ca lucive – testo cinquecentesco pubblicato a Napoli nel 1854 – o Michelammà (Michela mia, o forse Michela è mia o Michela a mare)5, risalente al XVII secolo – la «canzone più famosa e più divertente di quel tempo» – e mai del tutto scomparsa dal ricordo e dal canto dei napoletani6. Il miracolo culturale di quegli anni, coincidente in gran parte con la felice stagione della Belle Époque che attraversa ed elettrizza l’intera Europa, è frutto di una lunga storia ma anche esito di un 4   A. Grano, Trattato di sociologia della canzone classica napoletana, Fondazione Roberto Murolo, Palladino, Campobasso 2004, p. 20. 5   G. Borgna, Storia della canzone italiana, Prefazione di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 4. Il testo è stato attribuito, senza prove, a Salvator Rosa. Cfr. E. Carro, L’eredità di Partenope. Il cammino del canto napoletano dagli antichi rapsodi ai moderni neomelodici, Simeoli, Napoli 2001, p. 89. 6    R. Cossentino, La canzone napoletana dalle origini ai giorni nostri. Storia e protagonisti, Prefazione di M. D’Orta, Rogiosi, Napoli 2013, p. 36.

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insieme di circostanze irripetibili, proprie di quegli anni. Si sviluppa allora una vera e propria industria editoriale – in cui hanno un ruolo importante editori musicisti come l’italo-francese Guglielmo Cottrau – alimentata da autori che producono correntemente nuovi testi e che trovano un pubblico di acquirenti, anche di piccola e media borghesia, sempre più ampio e avido di prodotti musicali. Ricordiamo che già decenni prima, a metà Ottocento, si vendettero a Napoli 180 mila esemplari di “fogli volanti” contenenti la canzone, prima ricordata, Te voglio bene assaje7. Ma questa esplosiva stagione è anche alimentata dalla diffusione in città di café chantant, circoli letterari, attività teatrali, l’emersione di un giornalismo moderno, «espressioni culturali di elevato livello e delle prime, originali forme della cultura di massa»8. Un «fenomeno emergente – l’ha definito una studiosa – di un sistema di industria culturale» con caratteristiche profondamente legate ai caratteri unici e alla storia di Napoli9. D’altra parte, a partire dagli anni Ottanta, la canzone trova un luogo altamente simbolico di autocelebrazione e di replica annuale nella festa che si svolgeva, a Piedigrotta, il 7 e l’8 settembre, almeno dal XV secolo. Un luogo extra moenia, conosciuto come Crypta napoletana e poi come Grotta di Pozzuoli o di Posillipo, e con vari altri nomi, probabilmente scavata dai Romani, per collegare Napoli a Pozzuoli. Il luogo viene menzionato da Petronio nel Satyricon e alcuni secoli dopo da Boccaccio. Quel tunnel, da area di culti pagani si era trasformata, per la presenza della chiesa di Santa Maria – e grazie anche all’impulso dei vari sovrani di Napoli –, in luogo di devozione e di solenni parate in onore della Madonna10. Alla fine dell’Ottocento, ai primi di settembre, il luogo cominciava a riempirsi di banchi di frutta, ortaggi e cibo di varia natura e ad affollarsi poi di carri di devoti e di musicanti,    F. Barbagallo, Napoli, Belle Époque. 1885-1915, Laterza, Roma-Bari 2015, p.

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   Ivi, p. 103.    M.L. Stazio, Il futuro alle spalle. Canzone napoletana fin de siècle e industria culturale, in Careri e Scialò (a cura di), Studi sulla canzone napoletana, cit., p. 395. Si veda anche F. Seller, La canzone nell’editoria partenopea, ivi, pp. 147 e ss. 10   I. Valente, Sogno di una notte di fine estate. Pittori e scultori napoletani a servizio della canzone, in Careri e Scialò (a cura di), Studi sulla canzone napoletana, cit., pp. 147 e ss.; H. Hendrix, City Branding and the Antique: Naples in Early Modern City Guides, in J. Hughes e C. Buongiovanni (a cura di), Remembering Parthenope. The Reception of Classical Naples from Antiquity to the Present, Oxford University Press, Oxford 2015, pp. 219 e ss. 8 9

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divenendo l’appuntamento annuale della canzone napoletana. Una sorta di festival che durerà per alcuni decenni e, con alterne fortune, verrà ripreso per molto tempo dopo la seconda guerra mondiale11. Il successo di questa straordinaria stagione è legato a un fenomeno che si iscrive profondamente nella storia e nei caratteri peculiari di Napoli. La canzone napoletana è infatti il frutto di un incontro originalissimo tra i fenomeni di cultura alta, sia per quanto attiene alla musica che alla letteratura, e il sentire popolare, i suoi miti, sentimenti, immaginari. E questo costituisce un tratto che precede anche l’epoca d’oro di fine Ottocento. La sua caratteristica dominante, fin dall’inizio – un’origine difficile da stabilire con esattezza –, è il frutto dello scambio tra la tradizione popolaresca e la romanza: «Questo dialogo tra diverse matrici costituisce la caratteristica principale della canzone che le consentirà nel corso del tempo di potersi di volta in volta aggiornare»12. A Napoli il popolo, che talora ispira i ceti colti nella loro creazione artistica, protagonista spesso dei loro motivi, è al tempo stesso il fruitore dei testi e delle musiche, il cantore collettivo dei motivi in voga che vengono cantati per le strade, nelle bettole, nei mercati, al porto, nei luoghi di lavoro. E l’intreccio culturale è molto complesso, frutto di innesti molteplici, perché la città resterà a lungo abitata da contadini e al tempo stesso sarà per secoli uno dei grandi porti sul Mediterraneo, oltre che soggetta a diverse dominazioni straniere. Ha scritto un maestro di questa tradizione, Roberto De Simone, a proposito della difficoltà di definire il termine “musica napoletana”: «ciò non avviene solo per la musica, ma più in generale per molti aspetti della cultura napoletana, segnata costantemente da un plurilinguismo che trova le sue radici in una storia di incontri, scontri e scambi tra realtà socio-culturali anche estremamente lontane, ma capaci di generare, per sincretismo, fenomeni di ricchissima 11   Sul passaggio di Piedigrotta da luogo di canti etnici a centro della musica napoletana, e sul ruolo di Salvatore Di Giacomo, R. De Simone, Appunti per una disordinata storia della canzone napoletana, Tipo-Lato Aurelia, Roma 1990, pp. 33 e ss. 12   Careri e Scialò, Introduzione a Idd. (a cura di), Studi sulla canzone napoletana, cit., p. xvii. La romanza-canzone aveva come destinazione il salotto aristocratico o alto-borghese. Ma a Napoli «era, come dire, un salotto con le finestre aperte» (G. Plenizio, Lo core sperduto. La tradizione musicale napoletana e la canzone, Guida, Napoli 2009, p. 49). Sulla mediazione della romanza, fiorita nella Francia del XVIII secolo, nella nascita della canzone italiana, cfr. anche L. Colombati (a cura di), La canzone italiana 1861-2011. Storie e testi, Mondadori-Ricordi, Milano 2011, vol. I, pp. xi-xii.

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creatività espressiva, caratterizzati da fisionomie diverse, ma insieme da una identità precisa»13. Potremmo accogliere per la canzone napoletana quel che Gramsci scrisse per i canti popolari in genere: «scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati, perché conformi alla sua maniera di pensare e sentire»14. Certo è che, nella canzone napoletana, si esprimeva una polifonia di sentimenti nei quali si manifestavano le vibrazioni dell’anima popolare, che non possedeva le parole per esprimerle. In essa, come in genere in tutti i canti, trovavano forma canora, «ravvivati dall’armonia», «alcuni stati d’animo (nostalgia, malinconia, affetto, rabbia ecc.)» quando non «una dimensione dello spirito incline all’autoriconoscimento collettivo e di gruppo»15. La canzone trovava le parole e le musiche più profonde per dire l’indicibile degli umani sentimenti e al tempo stesso accomunava il popolo di una città nella sfera identitaria di un sentire collettivo. La canzone faceva cittadinanza, forniva la materia invisibile di uno speciale tessuto sociale. Ma non si può certo dimenticare che questa felicissima contaminazione, questo rapporto cooperativo tra popolo e artisti, è reso possibile da un prodotto storico di straordinaria ricchezza semantica e comunicativa: il dialetto napoletano. Lingua di singolare plasticità, che non creava barriere comunicative, come invece accadrà per secoli all’italiano, lingua delle corti e dei libri. A fine Settecento, l’abate Ferdinando Galiani – una delle grandi menti di quel secolo – compose un Vocabolario di quel dialetto, scusandosi in questi termini della sua voluta incompletezza: «Noiosa, inutile ed insensata cosa sarebbe adunque stato il fare il vocabolario di tutte le parole del dialetto Napoletano niente minori in numero, se non maggiori della Lingua generale Italiana, e che per la più gran parte non si discostano dalla medesima»16. Esso non solo forma una felice koinè, ma alimenta costantemente anche l’elaborazione colta con le invenzioni linguistiche popolari che    De Simone, Appunti, cit., p. 7.    A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950, p. 220.    E. Franzina, Inni e canzoni, in M. Isnenghi, I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 117. 16   F. Galiani, Vocabolario delle parole del dialetto napoletano, che più si scostano dal dialetto toscano, con alcune ricerche etimologiche sulle medesime, G.M. Porcelli, Napoli 1789, p. ix. 13 14 15

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nascono nella animata vita quotidiana di una grande e affollata città. Una città che vive all’aperto, in perenne contatto con la natura, fervida di vita sociale e di relazioni col mondo esterno tramite il suo porto affacciato sul Mediterraneo. Non stupisce dunque se negli anni di maggior splendore la canzone napoletana si autocelebra, diventando essa stessa protagonista delle canzoni d’autore. È il caso ad esempio di un testo del 1911 di E.A. Mario – celebre autore anche di tante canzoni in lingua italiana –, Comme se canta a Napule: Pe’ chi se canta a Napule Tu ’o vo sapè? p’e’ rose e p’e’ viole p’e’ ’o cielo e ’o mare e maje pè fa tesoro p’ammore e p’e’ figliole. Perciò chi nasce dint’ ’a ’sta città passa, cantannu, tutta ’a giuventù nuttate ’e luna e matenate ’e sole.

E Libero Bovio, tanto per restare nella cerchia dei maggiori, scriveva A canzone d’e canzone: Tutto canta... tutto chiagne e tutto canta da ’a matina da ’a matina ’nfino a sera che paese, che paese cantatore17.

Il teatro dei sentimenti Come sarà apparso evidente – anche da questo rapido excursus che taglia una bibliografia sterminata – il fenomeno appena esaminato, la canzone napoletana classica, è solo l’emersione artistica più alta, la punta dell’iceberg di un continente culturale sommerso, elaborato nel corso di diversi secoli. L’istituzione, nel senso che Cattaneo e noi diamo a questa parola, è la parte più nascosta e profonda di una tradizione. Più che la canzone, dovremmo dire che è il can   Grano, Trattato di sociologia, cit., p. 17 e p. 20.

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tare, cioè la vocazione a rappresentare la realtà in parole musicali, a estrarre dalla sua durezza quotidiana, dagli urti della vita, immagini ed emozioni, l’istituzione che produce cultura e felicità. Cultura e felicità, il binomio fondativo della nostra trattazione. Certamente, il termine cultura impegna ad una riflessione non superficiale. In che senso le canzoni e i canti hanno culturalmente plasmato il popolo di Napoli? Si comincia a comprenderlo se si pensa alla durata secolare di questa pratica e di questa attitudine. Gli storici fanno risalire la manifestazione canora più antica e originale alle villanelle della fine del XV secolo, manifestazioni canore accompagnate da danze che dal mondo popolare, probabilmente dalle vicine campagne, sono arrivate ai ceti colti e si sono poi diffuse in Italia e in vari paesi d’Europa18. La corte aragonese, che farà di Napoli un centro culturale di prima grandezza, richiamando poeti e maestri di cappella, vale a dire musicisti, da ogni parte d’Italia e d’Europa, non farà che proseguire a incrementare questo mutuo scambio fra elaborazione colta e motivi popolari. Sul finire del XVI secolo, un testimone non superficiale, Giovanni Battista del Tufo, descriveva in versi un’atmosfera che a Napoli era ormai consueta: La sera al tardi, accompagnati o soli paion tanti cardilli o lusignuoli ché in questa parte o quelle s’odon cantar nuove arie e villanelle19.

Ma dall’oblio secolare che ha sommerso tanti canti popolari, quella che è stata una ricca tradizione puramente orale, qualche reperto sopravvissuto al naufragio ci attesta di una più antica tradizione che non ha lasciato altri segni di scrittura né documenti20. Una vasta tradizione orale. Ad esempio, il canto delle lavandaie dell’antico borgo d’Antignano, al Vomero, risalente al XIII secolo, ci mostra con pochi tocchi di poesia una condizione di lavoro durissima – il lavaggio del bucato 18   E. De Mura, Enciclopedia, Della canzone napoletana, vol. I, Il Torchio, Napoli 1968, I, pp. xiv e ss.; E. Grano, La canzone napoletana. Storia di un popolo, Bellini Editrice, Napoli 1992, pp. 393 ss.; De Simone, Appunti, cit., p. 7 insiste sulla presenza dei contadini a Napoli sino a tempi recenti. 19   Paliotti, Storia della canzone, cit., p. 20. 20    A tale tradizione, che precede i testi scritti delle villanelle, accenna De Simone, Appunti, cit., p. 8.

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per conto dei signori avanti l’alba – e al tempo stesso una finissima sfumatura d’ironia rivolta al sole: jesce sole, jesce sole nun te fa chiù suspirà Siente mai ca li figliole hanno tanto da prià?21

Il canto risale all’epoca di Federico II, quando Napoli vive una felice stagione culturale, allorché viene istituita la prima università statale della storia22. Ma si può andare anche più indietro nel tempo. Non sono pochi gli storici che fanno risalire l’attitudine popolare al canto e la tradizione musicale al lontano mondo greco-romano23. Benedetto Croce, nella sua storia dei teatri di Napoli, riferisce come l’imperatore Nerone scelse di esibirsi nelle sue prove canore nella città partenopea «quasi graecam urbem», che a quel tempo possedeva «un ampio teatro scoperto, ricco di marmi e di statue, del quale ancora restano i ruderi»24. Napoli, in effetti, come Roma, ma forse con minori fratture e lacerazioni di quelle subite dall’antica Caput mundi, ha conservato legami storici e mitologici profondissimi con il suo passato classico. Una giovane studiosa, Bianca De Divitiis, ha di recente ricordato come i cittadini di Napoli abbiano vissuto gli spazi cavi del sottosuolo – tranquilli “inferi” civili fatti di gallerie, cisterne, acquedotti, cripte, tombe, catacombe ricavate da millenni di scavi nella roccia di tufo – in «un permanente contatto tra sopra e sotto, tra l’antico passato e il presente (...) e creato una vita sotterranea e parallela in continuo contatto con il piano superiore»25. Nel sottosuolo, per secoli, i lasciti dell’arte an21   Grano, La canzone napoletana, cit., p. 10; De Mura, Enciclopedia, I, cit., p. xii. Il breve testo è riprodotto in un codice di verseggiatori del Quattrocento conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi (Paliotti, Storia della canzone, cit., p. 12). Il ritornello di questo canto, ripreso e rimaneggiato dalla Nuova compagnia di canto popolare, è in Cossentino, La canzone napoletana dalle origini, cit., pp. 17-18. 22   F. Delle Donne, Virgiliana Neapolis Urbs. Receptions of Classical Antiquity in Swabian and Early Angevin Ages, in Hughes e Buongiovanni (a cura di), Remembering Parthenope, cit., p. 154. 23   Carro, L’eredità di Partenope, cit., pp. 20-21. 24   B. Croce, I teatri di Napoli. Dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo (1891), Adelphi, Milano 1992, p. 15. 25    B. De Divitiis, Memories from the Subsoil. Discovering Antiquities in Fifteenth

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tica sono stati costantemente riscoperti, fatti talora oggetto di culto, molto spesso trasferiti nei palazzi della nobiltà napoletana creando un legame nuovo con le architetture e gli spazi della città moderna. Una continuità degli oggetti e delle opere d’arte che corrispondeva a quella dei culti e delle leggende. Non era solo Piedigrotta, luogo simbolico così legato, come abbiamo già visto, alla musica e al canto. A Napoli, dove si conserva la tomba di Virgilio, trasformato nel medioevo in una figura di mago sovrapposta a quella del poeta, l’influenza del grande mantovano fu secolare e con vasta penetrazione popolare26. Questi pochi cenni, che dovrebbero far percepire un fenomeno di lunga durata, lasciano agevolmente comprendere la funzione di acculturazione svolta dai canti e dalla musica presso i ceti popolari. Nelle società preindustriali, ancora prive di un sistema scolastico moderno, il popolo era privo di scrittura. L’apprendimento di contadini e artigiani, pescatori e venditori era affidato all’oralità, alla trasmissione di parole, motivi, gesti. I canti e le canzoni, i poemi popolari dei cantastorie, svolgevano lo stesso ruolo che in tutte le società hanno svolto i culti religiosi e le fiabe27. Nel caso di Napoli l’intreccio tra queste diverse espressioni della cultura orale è spesso indistinguibile. Alcune manifestazioni canore tradizionali, come la Tammurriata, cioè il canto accompagnato dal tamburo, nasce come canto religioso per perdere progressivamente il suo carattere sacro28. Ma a lungo, fittamente intrecciate alla musica e al canto, sono state Century Naples and Campania, in Hughes e Buongiovanni (a cura di), Remembering Parthenope, cit., p. 195. Si veda anche A. Palmieri, Marmora Romana in Medieval Naples: Architectural Spolia from the Fourth to the Fifteenth Centuries AD, ivi, pp. 152 e ss. Sul legame di Napoli col mondo classico torna ora Brilli, Il grande racconto delle città, cit., pp. 243 sgg. 26   G. Abbamonte, Naples-A Poets’ City. Attitudes towards Statius and Virgil in Fifteenth Century, ivi, p. 171. È a Domenico Comparetti che si deve la prima grande ricerca sull’influenza di Virgilio nella cultura dell’Italia medievale: Virgilio nel Medioevo (1872), La Nuova Italia, Firenze 1941. Sulle virtù magiche di Virgilio immaginate dal popolo napoletano si veda anche V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Guida, Napoli 1969, p. 61. 27   Benedetto Croce notò che «Per quattro secoli» in alcuni punti fissi della città si erano esibiti ogni giorno dei cantastorie recitando le gesta dei paladini e talora leggendo brani dell’Orlando furioso, ma «nessuna persona letterata li aveva fatto oggetto di considerazione prima di Giambattista Vico» (B. Croce, I “Rinaldi” o i cantastorie in Napoli, in Id., Scritti di storia letteraria e politica. Aneddoti di varia letteratura, Laterza, Bari 1954, vol. III, pp. 190 e ss.). 28   Carro, L’eredità di Partenope, cit., p. 27.

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le rappresentazioni teatrali, i drammi sacri, che avevano finalità di carattere religioso. Si trattava di creazioni artistiche per onorare un culto, che spesso nascevano all’interno delle dimore nobiliari o negli antichi collegi religiosi, soprattutto dei gesuiti29. Ma la rappresentazione laica, dominata da modalità espressive quali le farse, le ecloghe, le cavaiole, le frottole, i trastulli ecc., e tutte le invenzioni della commedia dell’arte introducono nella scena cittadina narrazioni, tipi e innovazioni linguistiche e sceniche che qui non si possono neppure accennare. «Le “commedie pubbliche” – ha scritto Benedetto Croce – dovevano essere così usuali in Napoli alla fine del Cinquecento che vennero persino proibite, minacciandosi con bando della Gran Vicaria del 20 gennaio 1581, pene a coloro che “da oggi in avanti” ardissero “recitar commedie in luoghi pubblici ed ordinari, o fare altri giochi e bagatelle”, col permettere solo di farle in “casa sua”»30. La canzone era dunque parte di un fenomeno culturale e artistico, e insieme ludico, assai più vasto e articolato. Specie se si considera la frequenza delle grandi feste che segnavano la vita di Napoli – come di tutte le città di antico regime – dominate da apparati scenici appositi, prima che il disciplinamento capitalistico le rendesse sempre più rare e svuotate di senso31. Ma il legame tra trame di narrazione teatrale, musica e canto, databile a Napoli almeno dal XVI secolo, trova una nuova stagione di splendore nel Settecento. È questo il secolo del teatro e della musica. Non solo si riempiono di vita vecchi teatri o conventi e altri edifici cittadini, ma ne nascono di nuovi, destinati a secolare fortuna, come il San Carlino e il San Carlo, inaugurato dal futuro Carlo III di Spagna. Un sovrano che contribuirà a fare di Napoli una capitale europea di prima grandezza. È il secolo in cui nasce Pulcinella, maschera destinata a grande fortuna, a entrare nell’immaginario di popolo e 29   Croce, I teatri di Napoli, cit., p. 129; F.C. Greco, Teatro napoletano del ’700. Intellettuali e città fra scrittura e pratica della scena. Studio e testi, Prefazione di A. De Maio, Tullio Pironti Editore, Napoli 1981, p. xxiv e p. lxxiv. 30   Croce, I teatri di Napoli, cit., p. 49. Per le origini più antiche e i legami del teatro satirico con le fabulae atellane, Viviani, Storia del teatro napoletano, cit., pp. 7 e ss. 31   F. Mancini (a cura di), Il concreto evanescente. Gli apparati festivi tra potere e popolo, Guida, Napoli 1982, pp. 8 e ss. Il testo è una introduzione alla mostra “Itinerari del Teatro napoletano dal Cinquecento a oggi”.

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classi alte, a Napoli e fuori di Napoli32. Ma la città è soprattutto il centro internazionale dell’opera: vide infatti fiorire musicisti insigni come Alessandro e Domenico Scarlatti, Domenico Cimarosa, Giovanni Battista Pergolesi, Giovanni Paisiello, Leonardo Vinci ecc., che la innalzarono, insieme a Venezia, a centro musicale europeo. In quel secolo la città lagunare primeggiava soprattutto con la musica strumentale (Vivaldi, Tartini ecc.), mentre a Napoli prevaleva quella teatrale e vocale. Ed entrambe erano alimentate da quella «officina dei talenti» che erano gli Orfanotrofi a Venezia e i Conservatori nel centro partenopeo. Queste antiche istituzioni costituivano allora una sorgente di vita musicale e teatrale, oltre che di istruzione, che dominava la Penisola e inviava in Europa i suoi numerosi talenti33. Emerse allora, tra tradizione teatrale e musicale, l’Opera buffa, una sorta di commedia in musica che divenne uno spazio teatrale fertilissimo per nuove creazioni canore. Dapprima recitata in dialetto, poi italianizzata, «la canzone napoletana dell’opera buffa trasse nuova e fertile vita: duettini, marinaresche, arie amorose, cavatine, minuetti scritti per quelle scene diventano le canzoni del popolo e dei salotti aristocratici. Spesso avviene che una canzone antica, elaborata e trasformata, dagli autori delle opere per essere inserita nei loro spartiti, ritornava in voga»34. Nel corso dell’età contemporanea si assisterà all’operazione inversa. La vicenda cantata in una canzone diventa la trama di una sceneggiatura teatrale, una narrazione drammatica che coinvolge diversi attori, e il pubblico vi si rispecchia. Nascerà in questo modo, a metà Novecento, la sceneggiata, ulteriore creazione teatrale di un popolo che vuole continuamente rappresentarsi, fare spettacolo delle sue vi32   Su Pulcinella, che gode di una sterminata bibliografia, si sono cimentati i grandi autori napoletani, da Salvatore Di Giacomo a Domenico Scarfoglio, a Peppino De Filippo. In sede storica si vedano: C. Coppola, Pulcinella: la maschera nella tradizione teatrale, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1987; R. De Maio, Il filosofo che fu chiamato pazzo, Sansoni, Firenze 1989. Una recente impegnata riflessione sulla figura esistenziale di Pulcinella – che prende spunto da un ciclo di affreschi di Giandomenico Tiepolo – in G. Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Nottetempo, Roma 2015. 33   Plenizio, Lo core sperduto, cit., p. 13. Robinson, L’opera napoletana, cit., p. 20 riferisce dell’«officina dei talenti». Sui Conservatori, evoluti da orfanotrofi a «collegi musicali», R. Bouvier e A. Laffargue, La vie napolitaine au XVIIIe siècle, Hachette, Paris 1956, pp. 91 e ss. S. Di Giacomo ha lasciato una ricerca archivistica in 2 voll: I quattro antichi conservatori musicali di Napoli, MDXLIII-MDCCC, Sandron, Firenze 1924-1928. Si vedano i densi profili biografici dei grandi musicisti del Settecento in Viviani, Storia del teatro napoletano, cit. 34   De Mura, Introduzione a Enciclopedia, cit., p. xviii.

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cende quotidiane, mettersi in pubblico e osservarsi, ridere e piangere di sé35. Ma da questo bisogno e da tale attitudine a teatralizzare anche i più intimi sentimenti nasceranno, a partire dal XIX secolo, altre forme artistiche che mescolano canto e recitazione. Come la macchietta, rappresentazione in chiave burlesca, creatrice di tipi e di situazioni comiche che nel Novecento saranno interpretate da grandissimi attori come Totò e Nino Taranto. E la cosiddetta canzone di giacca, cantata in genere da una figura di guappo, il prepotente del quartiere, lo smargiasso col fazzoletto al collo, che spesso diventa opera di valore artistico grazie ai versi di Di Giacomo, Libero Bovio ed E.A. Mario36. Una egemonia popolare? Il legame della canzone con le funzioni e la ritualità religiosa e al tempo stesso con le rappresentazioni teatrali non è solo di contenuto. Attraverso la canzone i popolani adattavano alla propria oralità, al proprio linguaggio, significati che servivano a chiarire il loro posto nel mondo e insieme la loro collocazione nella gerarchia sociale. Non avevano altri mezzi culturali per riflettere su se stessi e sulla loro condizione, per riscattare il destino della propria subalternità, per dare un senso al transito breve della propria vita che non si riducesse alla pura animalità della riproduzione. Collocare se stessi in una rappresentazione, accompagnarla col canto della propria voce era pur sempre un modo di innalzarsi dalla miseria della vita e di trasfigurarla in una forma fantastica più elevata e felice. In questo essi mettevano in moto un movimento, ormai ben noto e studiato, di appropriazione dei materiali della cultura egemone per scopi di autoidentificazione, e per potenziamento esistenziale. Quel meccanismo «secondo il quale il mondo popolare esercita un continuo sforzo di adeguamento e rifunzionalizzazione, attraverso i suoi oggetti comunicativi, dei fondamenti autonomi della sua cultura, per garantire, sotto la pressione alienante delle egemonie, la sua individualità culturale»37. 35   Sulla sceneggiata si vedano ora le ampie e belle pagine che vi dedica J. Pine, Napoli sotto traccia. Musica neomelodica e marginalità sociale, Donzelli, Roma 2015, pp. 144 e ss. 36   De Mura, Introduzione a Enciclopedia, cit., p. xxxv. 37   R. Leydi, La canzone popolare, in Storia d’Italia, vol. V, I documenti, tomo II, Einaudi, Torino 1973, p. 1194.

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Ma la canzone in altri momenti e contesti si legava direttamente al popolo, non necessariamente nelle cappelle e nelle chiese, o sui palchi dei teatri, ma nelle piazze e per le strade, realizzando due finalità fisiche ed espressive: il racconto e il movimento. Perciò per secoli i popolani di Napoli hanno fatto ricorso alla forma di espressione collettiva nota a tutti i popoli della Terra: la danza. Già prima e insieme alle villanelle, – alcune delle quali cantate e ballate per oltre tre secoli38 – erano diffuse varie forme di danze, che il del Tufo, nel suo diario del XVI secolo, cita con vari nomi (Cingara, Barriera, del Canario, Gagliarda) mostrando, con il suo tono agiografico e scherzoso, l’abilità dei ballerini e la quotidianità delle loro esibizioni pubbliche: E saltando e ballando così di quando in quando dall’alba a sera, a mezzogiorno a nona sempre miracol fan con la persona39.

Appartenevano al genere anche componimenti per musica e danza come la frottola o lo strambotto di origine toscana, da cui De Simone fa derivare la villanella40. D’altro canto, anche nel corso dell’età moderna e fino a buona parte del XX secolo, Napoli ha dato vita a forme svariatissime di danze, talora importandole da altre culture. È il caso della Gavotta, di origine inglese, ma soprattutto della Tarantella, proveniente dalla Puglia e destinata a straordinaria fortuna, in particolare quando legata a canzoni di successo come Cicerenella, o la canzone del Guarracino di fine Settecento41. Ma balli meno noti, anch’essi fioriti a Napoli, sono stati la ’mperticata, una esibizione molto movimentata che si danzava al suono del calascione, la ’ntrezzata (intrecciata), una sua variante, e la moresca, che vedeva in campo due squadre contrapposte di ballerini che in forma mimica mostravano la liberazione dei cristiani dal dominio moresco42. 38   De Mura, Introduzione a Enciclopedia, cit., p. xviii. Si vedano alcuni esempi di villanelle in Amedeo, Canzoni e popolo a Napoli, cit., pp. 30 e ss. 39   G.B. del Tufo, Ritratto o modello delle grandezze, delitie e meraviglie della nobilissima Città di Napoli, testo inedito del Cinquecento a cura di C. Tagliareni, Agar, Napoli 1959, p. 145. 40   De Simone, Appunti, cit., p. 11. 41    Carro, L’eredità di Partenope, cit., p. 34. 42    Ivi, p. 68.

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Il ballo e il canto, il movimento e la voce costituivano in fin dei conti la ritualizzazione di alcuni modi in cui la canzone, o comunque il canto, nascevano e si diffondevano. Solo tenendo conto di come si svolgeva la vita quotidiana a Napoli si può comprendere il contesto in cui il canto poteva nascere ed essere ascoltato. In una città in cui per millenni si è vissuto e lavorato all’aperto, sotto un cielo generalmente benigno, con un clima mite, con la vista familiare del mare, con i dintorni lussureggianti di vita agreste, era normale che anche il richiamo dei venditori si trasformasse in canto. È questo il caso delle cosiddette stese, i richiami dei venditori di frutta e verdura, o di pesce, che spesso in primavera giravano per le strade vendendo ciliegie o more, o attiravano l’attenzione dei compratori dai loro banchi con richiami ritmati, litanie, veri e propri canti. Famoso quello dei pescatori del quartiere di Santa Lucia: Marina, marinella, chi vò pesce? Santa Lucia cò le vele vasce. Chi vò nu piccerellu se lo cresce m’haggiu cresciuto a ninno mio ’nfasce

dove le «vele vasce» erano quelle delle barche che le ammainavano tornando a riva e portando il pesce appena pescato43. Occorre ricordare a questo proposito che per diversi secoli hanno girovagato per Napoli e dintorni i cosiddetti posteggiatori, gruppi di uomini che si muovevano sui carri o a piedi, forniti di vari strumenti musicali, e che portavano in giro i loro canti intrattenendo e coinvolgendo i passanti per le strade e nelle piazze. «Senza di loro – è stato ricordato – la canzone napoletana non avrebbe avuto un adeguato sviluppo e non sarebbe arrivata sino a noi. Questi musici, insieme ai pianini meccanici, ai barbieri e ai sarti, ai calzolai e agli artigiani in genere, rappresentano i grandi mediatori di un vasto repertorio musicale, vocale, strumentale, destinato sia a un pubblico popolare che medio borghese»44. Gli storici fanno risalire la loro origine ai menestrelli medievali, quan   Amedeo, Canzoni e popolo a Napoli, cit., pp. 96-97.    Careri e Scialò, Introduzione a Idd. (a cura di), Studi sulla canzone napoletana, cit., p. xi; De Mura, Enciclopedia, II, cit., pp. 411 e ss.; De Simone, Appunti, cit., pp. 23 e ss. 43 44

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do non a tempi più remoti. A Napoli tutto ha una origine lontana nel tempo e continua a vivere trasformandosi lentamente dentro i mutamenti che cambiano volto alla società. E naturalmente i posteggiatori frequentavano anche i vari ritrovi popolari, come le taverne, che a sera si riempivano di popolo e di canti. Salvatore Di Giacomo ha ricordato, in un saggio del 1914, la presenza storica, a Napoli, di 112 taverne dove la sera mangiare, suonare e cantare costituiva una consuetudine durata per secoli45. Una di queste, l’osteria del Cerriglio, su cui si sofferma Di Giacomo, è menzionata da Giordano Bruno nella commedia Il Candelaio e quindi era attiva e ben frequentata a Napoli già nel 1582. E l’altra famosa taverna del Crispano, su cui si intrattiene Di Giacomo, è ricordata anche da del Tufo46. I posteggiatori si trascineranno stancamente sino alla seconda metà del Novecento, ormai privi della loro aura popolare, guadagnandosi da vivere cantando nelle feste private delle famiglie o girando ancora per osterie e ristoranti. Un sopramondo sentimentale Una delle caratteristiche più irriducibilmente distintive della canzone napoletana è che essa vive dentro uno spazio naturalisticamente e storicamente definito. È canzone napoletana non solo perché i testi sono scritti in dialetto napoletano, la musica è composta, in gran parte, da napoletani o da artisti trasferiti a Napoli, viene pubblicata e poi eseguita e cantata nei locali e per le strade della città. È napoletana perché essa canta Napoli. Lo fa talora in maniera esplicita e diretta, come accade nel periodo d’oro, tra Otto e Novecento, quando una tradizione secolare raggiunge l’apice della sua grandezza e si autocelebra, consapevole dell’esemplarità storica del luogo in cui è fiorita. È il caso di Napule canta, di Libero Bovio ed Ernesto Tagliaferri, del 1915, o Napule ca se ne va, scritta da Ernesto Murolo e musicata sempre da Tagliaferri, del 1920. O addirittura Napule è ’na canzona di E.A. Mario e Alberto De Cristofaro, del 1922, dove    S. Di Giacomo, Luci ed ombre napoletane, F. Perrella, Napoli 1914, pp. 4-7.    G. Bruno, Il candelaio (Atto III, scena 8), Introduzione e note di I. Guerrini Angrisani, Rizzoli, Milano 2000, p. 214; del Tufo, Ritratto o modello, cit., p. 150. 45 46

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la fusione tra la città e la canzone diventa totale47. Ma anche quando la città non è al centro del componimento, essa è sempre presente come contesto, sfondo, sfumatura dei colori e dei suoni. Dentro si trova la multiforme antropologia di una città millenaria, ma anche la sua geografia, i suoi luoghi, le sue strade, oltre, naturalmente, al suo mare e al suo cielo. Uno storico della canzone, Giovanni Amedeo, ha ricordato che Domenico Jaccarino – il traduttore della Divina Commedia in napoletano – compose nel 1875 una Galleria dei costumi napoletani nella quale, in ben 150 canzoni, venivano illustrate le figure degli innumerevoli mestieri che si svolgevano in città48. Egli raccoglieva in una silloge e faceva diventare protagonisti di un canto pescivendoli, cocchieri, acquaioli, tiramole (“dentisti”), venditori ambulanti, muratori, spazzini, rigattieri, friggitori, carrettieri, fioraie ecc., già diffusamente presenti nella tradizione canora cittadina49. I mestieri e spesso personaggi reali della città venivano fissati nel canto: la vita quotidiana, il lavoro, le situazioni comiche o tragiche cadenzate nella musica, trasformate in rappresentazione. Ma insieme agli uomini e alle donne, al popolo minuto, alle figure della piccola e media borghesia, alla moltitudine formicolante di Napoli, erano anche i luoghi a richiamare la città con evocazioni circostanziate. Si pensi al sito di Santa Lucia, l’antico borgo marinaro, quando la strada del quartiere era ancora prospiciente al mare, tante volte evocata dagli autori. Teodoro Cottrau – figlio del Guglielmo già menzionato, arrangiatore ed editore prolifico di canzoni napoletane – compose, probabilmente ispirandosi a un’aria di Donizetti, quella Santa Lucia più tardi italianizzata: Sul mare luccica L’astro d’argento Placida è l’onda Prospero il vento Venite all’agile Barchetta mia Santa Lucia Santa Lucia.    Amedeo, Canzoni e popolo a Napoli, cit., p. 320.    Ivi, p. 106.    Ivi, p. 99.

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Ma non meno celebre è la presenza di questo luogo della città nella canzone di E.A. Mario – scritta dal poeta dopo l’immenso successo nazionale della Canzone del Piave – Santa Lucia luntana, diventata la canzone degli emigranti per eccellenza. La descrizione notturna del golfo di Napoli, resa con pochi tratti, e le emozioni di una partenza struggente, sono ancora oggi così vividi che non si può non citarne almeno l’avvio: Partono e bastimente Pe’ terre assaje luntane... Cantano a bordo: so napulitane! Cantano pe’ tramente ’O golfo già scumpare E ’a luna ’a ’miezzo ’o mare Nu poche ’e Napule lle fa vede’... Santa Lucia! Luntano ’a te Quanta malincunia50.

Naturalmente sarebbe lungo qui enumerare i tanti luoghi della città, quartieri, strade, chiese, edifici, scalinate che danno alle varie canzoni una connotazione urbana e insieme sentimentale. Da Mergellina: Quando fa notte, ’nterra Margellina Se sceta ’o mare, e canta chiano chiano

a Marechiaro, il borgo marinaro della celebre canzone di Di Giacomo: Quanno sponta ’a luna ’a Marechiare pure li pisce ’nci fannu ll’ammure.

Nell’innumerevole repertorio ci sono anche una Canzone d’o Vommero, un Suspiro, una Piererotta ecc. Ma con la sua geografia 50   Paliotti, Storia della canzone, cit., p. 262. Sulle canzoni dell’emigrazione cfr. A. Grano, Partono i bastimenti. Studi sociologici su 95 brani della Canzone Classica Napoletana, dedicati al tema dell’emigrazione, Autori Riuniti, Napoli 2011, p. 262.

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Napoli è sempre presente anche quando la canzone non fa menzione specifica di luoghi, allorché si limita a dar voce alla passione, agli slanci, alle pene del singolo individuo. Perfino il frequente petrarchismo della canzone – modalità della poesia lirica che appartiene in genere alle canzoni di tutti i paesi del mondo –, vale a dire l’invocazione amorosa rivolta alla donna amata, non appare mai come il solitario struggimento dell’uomo solo. L’innamorato deluso o speranzoso, felice o disperato, canta dentro il teatro invisibile della sua città, si rivolge alla folla fragorosa dei suoi cittadini, condivide con tutti gli altri i sentimenti messi in musica. Si esprime, cioè, nella canzone una coralità comunicativa, che trasforma la vita reale in un sopramondo sentimentale, in una architettura di emozioni destinata a formare una sorta di seconda città. Napoli ha dunque sperimentato per i tantissimi secoli della sua lunga storia una forma del vivere nella quale i ceti subalterni hanno per così dire riscattato la loro condizione materiale, la loro miseria quotidiana, innalzandola in una sfera sentimentale, avvolgendola nella stoffa della poesia, addolcendola con i ritmi e la melodia della musica. Una condizione di sublimazione che ha reso possibile un modo particolare, umanamente più sopportabile di affrontare la fatica del lavoro, l’asservimento sociale, l’asprezza dei conflitti, le pene dell’amore e della vita, l’incombere della morte. Vivere cantando è stato un modo di abitare la città che certamente non è stato esclusivo di Napoli, ma che qui ha trovato il luogo più alto e pieno di realizzazione. Esso appare oggi ai nostri occhi, per la sua durata nel tempo, come una sorta di resistenza opposta dai napoletani alla violenza disciplinante della società capitalistica. È sufficiente dare uno sguardo alla realtà del presente, dove gli individui percorrono la città correndo muti e frettolosi per andare al lavoro, dove nessuno più canta mentre cammina per le strade, per capire quel che è avvenuto, e come Napoli, non meno delle altre città, sia diventata silenziosa. Ma bisogna osservarle con un po’ di distacco le nostre Vite di corsa, per dirla con Zygmunt Bauman51. Oggi è proprio l’abisso di immiserimento spirituale in cui l’etica del profitto capitalistico, dopo alcuni secoli di trionfi e di successi, sta trascinando il mondo, a gettare una luce di sfidante attualità alla 51   Z. Bauman, Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, il Mulino, Bologna 2009.

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storia culturale di questa città. Essa ci aiuta a comprendere ciò che abbiamo perduto, la desertificazione dei sentimenti che ha attraversato la nostra vita. Ci segnala la scomparsa dal pentagramma del nostro sentire alcuni moti dell’animo che ne hanno fatto parte per secoli, dimensioni spirituali dell’intimo tessuto della nostra civilizzazione: la nostalgia, il rammemorare il passato facendolo continuamente rivivere, la noia e la prolungata meditazione, il fantasticare, la malinconia, la durata dei sentimenti. Certo, la resistenza alla modernità della città di Napoli, che negli anni Settanta del Novecento aveva colpito Pier Paolo Pasolini («l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio»52), è fenomeno ambivalente. In un recente saggio Maria Luisa Stazio è ritornata con acutezza ed equilibrio su questo vecchio tema. Ha ricordato la nota funzione di dominio che lo spettacolo, quindi anche la musica, l’alimento quotidiano dei napoletani, ha sempre svolto in passato. Festa, farina e forca erano gli strumenti di dominio corrente delle società di antico regime. E ha anche opportunamente sottolineato l’uso populista che l’amministrazione di Achille Lauro ha fatto, ad esempio, di Piedigrotta nella seconda metà del Novecento53. È questa una ambivalenza, ricorda ancora la Stazio, sia della canzone sia della città di Napoli. È pur vero, tuttavia, che tale doppiezza è propria di tutte le grandi creazioni dello spirito. Il fenomeno religioso, che, certamente, è per tanti aspetti asservimento dell’individuo, accettazione passiva del dominio (soprattutto nella sua senescenza dogmatica), per intenderci il marxiano “oppio dei popoli”, è anche riscatto dell’umano dalla sua finitezza e insignificanza. Ha fornito ai ceti poveri forza e consolazione, gli strumenti psicologici e culturali per affrontare e sublimare condizioni di esistenza che essi non avevano la forza di rovesciare. In alcuni momenti ed esperienze – tanto per non riandare alle origini del Cristianesimo – è stato veicolo di ideologie egalitarie di grande potenza eversiva. Come ci ha raccontato, per esempio, Christopher Hill dei livellatori inglesi del XVII secolo nel suo Il mondo alla rovescia54. O 52   P.P. Pasolini, Lettere luterane, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. de Laude, con un saggio introduttivo di P. Bellocchio, cronologia a cura di N. Naldini, Mondadori, Milano 1999, p. 553. 53   Stazio, Il futuro alle spalle, cit., pp. 382-383. 54   C. Hill, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento, Einaudi, Torino 1981.

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ha costituito la cultura fondativa della democrazia americana. Dal momento che – come ha mostrato Alexis de Tocqueville – gli inglesi che hanno fondato il New England dopo essere fuggiti dall’autoritarismo ecclesiastico del loro paese erano «ardenti settari e novatori esaltati» e hanno edificato la nuova società sullo «spirito di religione e lo spirito di libertà»55. Anche la fiaba, per secoli, ha proposto una architettura del mondo in cui sovrastano, con la loro inaudita potenza, re, maghi, orchi e giganti. Eppure in essa sono presenti elementi di spinta all’emancipazione, senza considerare la creazione di un immaginario che solleva in un universo fantastico una condizione materiale altrimenti insopportabilmente desolata. La fiaba, segnalava Italo Calvino – lo ha ricordato Laura Marchetti in un suo bellissimo libro –, racconta, tra le altre cose, «la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè di essere determinati da forze complesse e sconosciute e lo sforzo comune per liberarsi ed autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberare liberando»56. Anche le fiabe conservano e nascondono «la “collettività” del canto popolare», per dirla ancora con Gramsci57. Esprimono il bisogno incoercibile, se non di realizzare, certamente di sognare un altro mondo possibile. Forse l’ambivalenza del mito di Napoli ci aiuta oggi a capire non solo le luci e le ombre della storia della città, senza rimanere abbagliati dalla sua vicenda esemplare. Se esso appariva a qualche poeta straniero negli anni Settanta del XVI secolo il Paradisus Italiae58, più o meno negli stessi anni si diffonde tra gli osservatori esterni il mito diffamatorio del Paradiso abitato da diavoli. Benedetto Croce, che vi ha dedicato un saggio, ne ha rintracciato le origini nel TreQuattrocento, nei giudizi e nelle maldicenze dei mercanti dell’Italia comunale che si recavano a Napoli per i loro commerci59. Era un mo-

55   A. de Tocqueville, La democrazia in America, traduzione e prefazione di G. Candeloro, Cappelli, Bologna 1932, vol. I, p. 54. I corsivi sono nel testo. 56   L. Marchetti, La Fiaba, la Natura, la Matria. Pensare la decrescita con i Grimm, Prefazione di P. Bevilacqua, Il Melangolo, Genova 2015, p. 339. 57   Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., p. 221. 58   Hendrix, City Branding and the Antique, cit., p. 217. 59   B. Croce, “Il paradiso abitato da diavoli”, in Id., Un paradiso abitato da diavoli, Adelphi, Milano 2006, p. 22. Sui pregiudizi e sul mito del Paradiso abitato da diavoli che mette radici in Europa in età moderna, A. Mozzillo, Aspetti della società popolare

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do per segnalare lo splendore incomparabile dei luoghi e il contrasto che vi faceva la presenza di tanti poveri e mendichi. Realtà sociale diffusa nelle grandi città di antico regime, com’è noto, e certo non esclusiva di Napoli, segnata peraltro dalla presenza di uno specifico gruppo di emarginati, definiti lazzari, che a Napoli si rendevano particolarmente visibili60. In Europa, ha ricordato Marino Berengo, sin dal tardo medioevo i vagabondi venivano perseguiti e comunque le autorità tendevano a farli sparire dai luoghi pubblici, perché privi di occupazione, considerati pericolosi, portatori potenziali di malattie ecc. «Allo schiudersi del Seicento, in molte città europee quello dei poveri è diventato per gli amministratori municipali il problema più assillante: per risolverlo si viene diffondendo il convincimento che occorre raccogliere tutti gli abitanti privi di fissa dimora e di adeguate risorse, in grandi stabilimenti» come il grande Ospedale generale di Parigi. Istituzione preceduta dagli ospizi e dalle case dei poveri «che si stavano moltiplicando in tutta Europa»61. A Napoli poveri e vagabondi non dovettero subire un pari rigore reclusorio. Vagavano per le strade ed erano visibili a tutti. E non tutti i poveri, come vedremo, erano vagabondi. È non poco significativo per noi che l’espressione e lo stereotipo del Paradiso abitato da diavoli sia stato poi esteso, dai viaggiatori stranieri che venivano al Sud, a tutto il Mezzogiorno, a segnalare il contrasto tra lo splendore dei resti del passato e le miserie del presente. Occorre infatti dire che si trattava di uno sguardo a suo modo nostalgico, ma soprattutto “nordico”, che certamente conteneva, soprattutto tra Sette e Ottocento, il senso di superiorità di intellettuali provenienti da società già toccate dall’etica del lavoro, dalla modernizzazione capitalistica, da un forte disciplinamento civile dei ceti subalterni. Ma spesso esso esprimeva l’osservazione “esortativa” dei ceti colti europei. Quella critica e denuncia mossa allo scopo di “promuovere il progresso”: perché i luoghi dell’arretratezza si uniformassero a quelli che in Europa avevano già raggiunto mete più avanzate di benessere. Anche se in altri casi, soprattutto nel corso a Napoli tra il XVIII e il XIX secolo, in Id. (a cura di), La dorata menzogna. Società popolare a Napoli tra Settecento e Ottocento, Introduzione di G. Galasso, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1975, pp. 8 e ss. 60    B. Croce, I “lazzari”, in Id., Un paradiso abitato da diavoli, cit., p. 83. 61    Berengo, L’Europa delle città, cit., pp. 602-604.

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dell’Ottocento, la formazione di stereotipi antimeridionali – come ha mostrato lo storico americano Nelson Moe – rispondeva ad esigenze di lotta politica dei gruppi dirigenti italiani62. Ma nella incomprensione e nella critica degli osservatori stranieri noi cogliamo anche l’aspetto oggi più positivo e attuale di resistenza che Napoli ha opposto ad alcuni portati coercitivi della modernità. Il poeta Johann Wolfgang Goethe è stato forse il primo e più acuto demistificatore dello sguardo da etica protestante, severamente calvinista, gettato sul popolo di Napoli dagli osservatori stranieri. In una lettera da Napoli del 28 maggio 1787 egli riferiva, polemizzando con un suo connazionale, Jacob Volkmann: Egli scrive per esempio, che vi sono in Napoli un trenta o quaranta mila oziosi; e chi mai non lo ripete? Ma dacché conobbi abbastanza lo stato di civiltà del Mezzogiorno, dubitai che l’affermazione potesse confarsi a quanto si pensa nel Settentrione, dove si ritiene per poltrone chi non lavori penosamente per l’intera giornata. Ho consacrato al popolo un’attenzione speciale – fosse esso in movimento o in riposo –, e ho visto in verità molta gente mal vestita, ma punto disoccupata. Interrogai quindi alcuni amici su questo gran numero di oziosi, che avevo desiderio di conoscere; ma poiché non seppero mostrarmeli, ne andai io stesso in cerca, tanto più che la ricerca coincideva con lo studio della città63.

La personale e accurata indagine del poeta lo portò a scoprire che non si trovavano in città mendicanti «che non fossero vecchi od infermi o storpi». Ma lo mise anche in contatto con un mondo popolare e di piccola borghesia – dai facchini ai pescatori, dai fruttivendoli ai legnaiuoli, dai cocchieri agli artigiani e agli impiegati – intento a operare, con il proprio ritmo e la propria fantasia, a una infinità di lavori e di attività che lo spinsero a una conclusione paradossale: È vero che s’incontrano, da per tutto, gente malvestita e finanche cenciosa: ma non per questo si tratta di poltroni o di perditempo. Anzi

62   N. Moe, Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, Prefazione di P. Bevilacqua, l’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2004. 63   Goethe, Lettere da Napoli, cit., p. 79. A metà ’800 uno speciale osservatore come Mark Twain poteva osservare per le strade di Napoli: «Mare di folla, moltitudini di umanità frettolosa, affacendata, irrequieta. Non si è visto niente di simile, nemmeno a New York» (Brilli, Il racconto delle città, cit., p. 240).

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affermerei quasi il paradosso, che, tenuto conto della proporzione, c’è forse più industria a Napoli che altrove in tutta la classe popolare.

Ma l’osservazione per noi più moderna ed esemplare è quella che Goethe svolge più avanti. Egli riconosce la necessità di un lungo studio per comprendere il mondo complesso e unico di quella città e della sua originale antropologia. Ma tale indagine farebbe comprendere «che il lazzarone non è niente più inoperoso delle altre classi, e si riconoscerebbe che qui tutti lavorano, nel loro genere, non solamente per vivere, ma per godere, e che nel lavoro tutti qui voglion darsi lieta vita»64. Ecco il nodo, la chiave interpretativa che tutto chiarisce. L’etica capitalistica, che oggi appare sempre di più una sorta di teologia, come intravide Walter Benjamin, ha sempre cercato di spostare il conseguimento della felicità oltre la vita terrena, perché la vita fosse interamente dedicata al lavoro e all’accumulazione. Una vita vissuta come colpa e debito65. Con una tensione di civiltà che la barbarie spirituale del capitalismo dei nostri anni ci fa afferrare alla radice, i napoletani hanno per secoli cercato di far coesistere il lavoro per vivere con la vita stessa, concepita come fonte possibile di gioia, con la piena disponibilità quotidiana del proprio corpo e della propria mente, non consegnata ai meccanismi produttivi estranianti che lo sviluppo capitalistico rendeva altrove sempre più necessari e cogenti. Certo, non possiamo nasconderci che in questo rifiuto della modernità si ritrova anche la radice di alcune realtà che oggi impediscono a Napoli una serenità di vita e una condizione di benessere collettivo all’altezza delle sue possibilità. La città è ancora lacerata da contraddizioni che appaiono insanabili: da una parte cultura, arte e musica fra le più raffinate d’Europa, una popolazione cordiale che ha pochi termini di confronto al mondo, e al tempo stesso servizi urbani degradati, latitanza diffusa di spirito civico, permanenza di una criminalità violenta, classi dirigenti incapaci di reale egemonia. E tuttavia non appare concettualmente sostenibile che queste ombre, proprie della 64   Ivi, pp. 83-84. Secondo Mozzillo, i poveri erano allora circa seimila, ma la plebe napoletana era composta da migliaia di persone che esercitavano umili mestieri (Mozzillo, Aspetti della società popolare, cit., pp. 16-17). 65   Si veda l’importante contributo di E. Stamilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2011, pp. 176 e ss., nonché M. Löwy, Il capitalismo come religione, in A. Simoncini (a cura di), Dal pensiero critico. Filosofie e concetti per il tempo presente, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 63 e ss.

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storia e del presente di Napoli, siano il frutto della sua resistenza alla modernità capitalistica, al suo conservarsi “paese”, come notava Pier Paolo Pasolini. In tale ambito interpretativo i tagli netti non sono possibili. L’antropologia del popolo di Napoli non porta necessariamente all’arretratezza economica, alla passività sociale e politica, alla persistenza nel suo seno della criminalità organizzata. Sarebbe difficile spiegare come sia stato possibile che da questa città sia partita la prima rivoluzione dell’età moderna: la rivolta di Masaniello del 1647. Una insurrezione antifiscale, come quelle che più tardi esploderanno in Inghilterra e nel Nord America, ma con una connotazione popolare, almeno ai suoi avvii, ancora più marcata. Senza dire che Napoli non ha certo fatto eccezione nel prender parte, con varia intensità e partecipazione, ai moti risorgimentali che hanno segnato l’Italia nel 1821, nel 1848 e nel 1860. E non si può certo dimenticare che la città ha ospitato una moderna classe operaia, capace di un conflitto sindacalmente organizzato, animatrice di vita e iniziativa dei partiti popolari di massa66. E Napoli, come altre città italiane, è stata capace, com’è noto, di un’insurrezione popolare contro l’esercito tedesco nel settembre del 1943: le Quattro giornate, entrate di diritto nei patrii annali. Sarebbe d’altra parte difficile far discendere direttamente dall’attitudine al canto dei napoletani, dal loro culto per la musica, dall’amore per la bellezza, parte rilevante dell’antropologia partenopea, tutti i caratteri negativi dell’“imperfetta” modernità di Napoli. Ma esiste un modello ideale, un “paradigma” della modernità? Queste stesse attitudini, certo meno marcate ed esclusive, si ritrovano in altri popoli che hanno subìto un moderno disciplinamento capitalistico. A questa indivisibilità del magma antropologico di un popolo bisogna rassegnarsi, le luci e le ombre sono inseparabili. Mettendo in gioco la forza concettuale della dialettica, Benedetto Croce così rintuzzava le critiche di insufficiente modernità mosse da tante parti a Napoli e alla società meridionale: 66   Cfr. R. Colapietra, Napoli tra dopoguerra e fascismo, Feltrinelli, Milano 1962. Si veda ora, anche per i conflitti operai antecedenti la prima guerra mondiale, Barbagallo, Napoli, Belle Époque, cit., p. 151. Sulla classe operaia a Napoli, essenzialmente, S. De Majo, Dalla casa alla fabbrica. La lavorazione delle fibre tessili nell’Ottocento e P. Cotugno, E. Pugliese e E. Rebeggiani, Mercato del lavoro e occupazione nel secondo dopoguerra, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Campania, a cura di P. Macry e P. Villani, Einaudi, Torino 1990, pp. 319 e ss. e pp. 1143 e ss.

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Accade d’altra parte, che, pur nella poco alacre vita civile e politica, l’umana virtù si affermi nei particolari, contrastando al generale, e talora negli episodi e perfino essa sorga dal mezzo stesso dei vizi, come loro correlativo. Onde un popolo che non ha bastevole affetto per la cosa pubblica potrà avere assai vivo quello per la famiglia, per la quale sarà disposto a ogni sacrificio; un popolo indifferente avere la chiaroveggenza dell’indifferenza; un popolo poco operoso nei commerci e negli affari valer molto nella contemplazione dell’arte e nelle indagini dell’intelletto; un popolo privo di spirito di gloria saper ben cogliere il gonfio e il falso delle umane ambizioni e operare nel riso un lavacro di verità67.

Un provvisorio epilogo Certo, più dell’alimentazione e delle città, la canzone napoletana in quanto “istituzione” appare con evidenza in tutta la sua usura storica. Essa mostra un decadimento lento, già avviato nel primo Novecento, che conosce una accelerazione nella seconda parte del secolo. Già Gramsci, recensendo dal carcere un articolo di Adriano Tilgher del 1929, sulla crisi della poesia dialettale napoletana e del fenomeno di Piedigrotta, osservava: «La crisi di Piedigrotta è veramente un segno dei tempi (...) E poi l’epoca moderna non è espansiva, è repressiva. Non si ride più di cuore: si sogghigna e si fa dell’arguzia meccanica... La fonte di Piedigrotta non si è essiccata, è stata essiccata perché era diventata “ufficiale” e i canzonieri erano diventati funzionari»68. Da allora la canzone napoletana è morta e risorta tante volte, nei decenni dopo la seconda guerra mondiale. Ma è risorta ogni volta cambiando sempre più la propria natura di fenomeno popolare diffuso, cittadino, di strada e di piazza per essere incorporato nell’industria culturale. E tuttavia senza mai perdere i legami profondi con la città. Fenomeni economici e culturali di ampia scala hanno investito anche questo fenomeno secolare, alterando anzitutto la lingua della canzone, il dialetto napoletano, che, come tutti gli altri dialetti storici, ha subìto un processo di crescente italianizzazione69.    Croce, Un paradiso, cit., pp. 24-25.    Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., pp. 97-98.    T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Bari 1963, pp. 119 e ss.;

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La rapida diffusione e supremazia della canzone italiana, potenziata enormemente dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, il diffondersi del nuovo veicolo comunicativo della Tv, la nascita nel 1951 e il successo di pubblico del Festival di Sanremo creano nuovi modelli musicali, cui la tradizione napoletana tende a modellarsi. Non a caso nel 1952 nasce un Festival della canzone napoletana che durerà, con vari esiti, per circa un cinquantennio. Musica e parole della canzone tendono a italianizzarsi, a vivere Napoli come chiusa provincia che deve aprirsi ai nuovi gusti e alle nuove tendenze. Tanto più che si avvia ormai una nuova temporalità della produzione e del consumo di fenomeni musicali. Le mode non hanno più le durate decennali di un tempo, ma si consumano rapidamente, sommerse da nuove tendenze, che a ondate ormai arrivano non solo da ogni angolo d’Italia, ma dal mondo intero. La scoperta della musica jazz, del rhythm and blues, dello swing, portati a Napoli dai soldati americani a metà degli anni Quaranta, la diffusione, più avanti, del rock and roll, dei complessi musicali, poi l’egemonia mondiale dei Beatles nel decennio Sessanta diffondono nuovi gusti soprattutto nel pubblico dei giovani, che tendono a emarginare come un mondo arcaico le melodie tradizionali della canzone napoletana. E tuttavia quella tradizione, ormai del tutto interna all’industria culturale e alla società dello spettacolo, riesce a esprimere a lungo una sua incoercibile e sorprendente vitalità. E non c’è da sorprendersi. Napoli è sempre stata una città cosmopolita, aperta agli influssi del mondo, ma è riuscita a prendere dal mondo quel che le serviva per arricchire la sua identità e il suo patrimonio. La canzone napoletana si rinnova e lo fa in una molteplicità di modi, perché il pubblico che ascolta le canzoni, a Napoli come nel resto d’Italia, è vasto e composito, formato da più strati generazionali, e da gusti sempre più vari e diversificati. Si rinnova, per esempio, ridando nuova veste espressiva alla canzone napoletana classica, attraverso la voce originalissima di Roberto Murolo, un monumento vivente della musica leggera italiana, che proporrà tra il 1963 e il 1965 Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea: ben 12 album, con L. Serianni, Storia della lingua. Il secondo Ottocento, il Mulino, Bologna 1990, pp. 94 e ss. Gli autori ricordano anche il fenomeno inverso, vale a dire l’arricchimento della lingua italiana da parte dei dialetti.

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i quali ha offerto una rilettura dei brani più importanti della intera storia della canzone napoletana70. Ma la tradizione musicale e canora di Napoli appare in grado di accettare, anche assumendo nuovi linguaggi, le sfide emergenti della scena musicale internazionale. E a volte è sufficiente il genio individuale di un cantante e musicista per compiere il miracolo. È il caso del complesso di musica leggera messo in piedi da Renato Carosone a partire dagli anni Cinquanta, dopo le prime prove da solista. Pianista virtuosissimo, Carosone realizza un fenomeno musicale originale in cui i nuovi ritmi dello swing, del jazz, del boogie-woogie vengono messi al servizio di testi brillanti d’ironia, di cronaca, di costume, recuperando, in una sorprendente commistione, canzone e macchietta napoletana, teatro e canto, e dando vita a uno spettacolo che durerà decenni con un successo mondiale. Non meno originale è stata l’esperienza della Nuova compagnia di canto popolare, nata nel 1967 per iniziativa di Roberto De Simone e che compirà una operazione complessa di riscoperta della tradizione canora e musicale partenopea e campana. Per un verso attraverso la ricerca d’archivio e la raccolta di testimonianze dal vivo. Per un altro verso manipolando e adattando i testi della tradizione, con «una sovrapposizione inestricabile – come ha ricordato Colombati – tra fonti originali e apporti personali»71. Certo la tradizione melodica continua ad avere un suo vasto pubblico, grazie anche alla popolarità e al talento di cantanti in grado di mescolare nel loro repertorio la canzone napoletana classica con nuovi testi, spesso letterariamente ancora dignitosi. Oppure proponendo canzoni in lingua italiana di successo. È stato il caso di Giacomo Rondinella, di Sergio Bruni, più tardi di Peppino di Capri, che negli anni Sessanta, dapprima con il complesso dei Rockers e poi da singolo, spesso accompagnandosi al pianoforte, ha utilizzato i materiali di vecchie e nuove canzoni contaminandole con ritmi musicali internazionali, dal mambo al jazz. Sempre nella tradizione si è mosso negli ultimi decenni un altro notevole talento, quello di Massimo Ranieri, che alterna repertorio napoletano e italiano e appare in grado    Colombati (a cura di), La canzone italiana, cit., vol. I, p. 610.    Ivi, vol. II, p. 2021. Cossentino, La canzone napoletana, cit., p. 438.

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di unificare, con le sue singole, non comuni capacità, i due ambiti dell’anima artistica napoletana: la canzone e il teatro. Ma al tempo stesso, in perfetta coesistenza con la tradizione più o meno rinnovata, a Napoli è venuto fiorendo nella seconda metà del Novecento ed è continuato nel nuovo millennio un fenomeno creativo singolare. È il caso del cosiddetto Neapolitan power, che esplode negli anni Settanta. «Si tratta – ha ricordato Leonardo Colombati – della commistione – esplosiva – tra rhythm & blues, melodia napoletana e jazz elettrico, con un tocco pure di tarantella e rock’n’roll. In termini tecnici: fusion»72. Sono protagonisti di tale fenomeno Gaetano (James) Senese, figlio naturale di un soldato americano, Mario Musella e Pino Daniele, da cui nascerà il gruppo Napoli Centrale e che animeranno la scena musicale cittadina insieme a tanti batteristi, sassofonisti, chitarristi o altri cantanti come il giovane Edoardo Bennato. Da questo affollato gruppo emergerà Pino Daniele, capace di inventare una lingua originalissima, risultato della mescolanza del dialetto napoletano con un «inglese da bancarellaro» e cantando canzoni che diventeranno sino alla sua morte «oggetto di un amore illimitato»73 presso il pubblico napoletano e nazionale. Con Pino Daniele, un cantante e un autore che interpreta senza retorica la modernità stravolta del suo tempo, Napoli ritorna ancora una volta a cantarsi, come nell’epoca del massimo splendore. Con la canzone Napule è74, la città sembra tornare a legittimare il suo ruolo secolare di generatrice di canto e di musica. E tuttavia, contraddizione nella contraddizione di quella multiforme galassia di fenomeni che è Napoli, dal suo ventre è uscito negli ultimi anni un ultimo fenomeno. È la canzone neomelodica75. Attribuita in origine a Nino D’Angelo, essa ha percorso un sotterraneo processo degenerativo, finendo col diventare anche strumento di autorappresentazione della criminalità diffusa nella città. Come ha ricordato il sociologo americano Pine – che vi ha dedicato una lunga inchiesta sul terreno – oggi i neomelodici «mettono in campo le narrazioni usando l’allegoria, il romanticismo, l’ironia e soprattutto il melodramma. Intessono zone di contatto in cui le rappresentazioni divengono figure animate, le figure attivano situazioni in divenire e    Colombati (a cura di), La canzone italiana, cit., vol. II, p. 1863.    Ivi, p. 1895. 74   Paliotti, Storia della canzone, cit., p. 316. 75   Cossentino, La canzone napoletana, cit., p. 445. 72 73

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i confini tra arte, arte di arrangiarsi e criminalità organizzata si fanno indistinti»76. Un approdo “deviato” abbastanza comprensibile. Visto il profondo e persistente legame della canzone con il popolo della città, essa non poteva non rappresentare e farsi contaminare da quegli strati che vivono ai margini o fuori i confini della legalità.    Pine, Napoli sotto traccia, cit., p. 309.

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V LA POLITICA IN COMUNE. ASSOCIAZIONISMO E COOPERAZIONE IN EMILIA ROMAGNA La bella politica È difficile negare il carattere di istituzione – nel senso che Cattaneo dava a tale termine e che noi abbiamo utilizzato fin qui – al fenomeno così storicamente caratterizzante dell’associazionismo e dello sviluppo delle organizzazioni cooperative in Emilia Romagna. Si tratta di un caso storico che possiede tutti i tratti dell’esemplarità – ben studiato peraltro da più generazioni di studiosi – e che può concludere con piena coerenza il nostro racconto su alcune istituzioni italiane. E infatti, non riguarda, tale vicenda, un processo culturale, politico, antropologico che parte spontaneo dal basso e trova le proprie radici e i propri confini entro un territorio delimitato? Come la nostra agricoltura e la nostra tradizione alimentare, lo sviluppo e i caratteri delle nostre città, la canzone a Napoli, la tendenza dei gruppi sociali, delle popolazioni emiliane e romagnole a creare associazioni solidali per conseguire scopi di miglioramento economico e di avanzamento sociale si viene svolgendo dentro le geografie varie e accidentate di un territorio. È un ulteriore omaggio a Cattaneo, le cui analisi e l’intera elaborazione culturale sono inscindibili dall’esplorazione dei territori: una modalità di interpretazione del mondo che è tuttavia rimasta imbalsamata nelle patrie biblioteche, senza alcun effetto, si può dire, sulle successive evoluzioni della cultura italiana. Ma è anche un richiamo al presente, all’incapacità radicale e insormontabile dei ceti colti italiani, delle élites dirigenti, dei gruppi politici, di cogliere i fenomeni tanto economici che culturali dentro il loro contesto, nel loro radicamento materiale in un territorio. Ter-

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ritorio che non è un contenitore vuoto, il fondale di cartapesta che fa da sfondo alle vicende della grande storia, ma il luogo dove nascono e si intrecciano i saperi, si elaborano le culture, si svolgono e si annodano i rapporti umani e sociali, si elaborano le identità, esplodono i conflitti, si costruisce il tessuto della società con i toni e i colori di una storia che ha sedimenti profondi nei luoghi, nel loro secolare vernacolo. La storia mondiale di oggi, dopo tutto, nasce e trova svolgimento all’interno di luoghi specifici, non nell’alto dei cieli. Nel caso dell’Emilia Romagna siamo di fronte, per dirlo con le parole di Maurizio Ridolfi, uno dei maggiori studiosi di questa storia singolare, a «uno dei fenomeni più significativi della società italiana postunitaria, senza uguali nello stesso contesto europeo: il carattere di massa delle istituzioni associative»1. In questa regione una corrente profonda, emersa probabilmente da oscuri sedimenti antropologici, il concorso di un insieme di vicende economiche e sociali, la speciale intraprendenza di uomini e donne in alcuni tornanti della storia italiana, hanno generato strutture capaci di plasmare i caratteri civili di una intera regione. Si tratta di un modello di interpretazione della contemporaneità e insieme un progetto collettivo per affrontare le sfide del capitalismo, che oggi parla al nostro presente con un linguaggio di straordinaria suggestione. Come vedremo brevemente – grazie ai materiali che ci fornisce una imponente tradizione storiografica – l’associazionismo di massa, attraverso la costituzione di leghe, sindacati, affittanze collettive, cooperative, case del popolo, costituisce la risposta che le masse popolari riescono a imporre quale forma di lotta e insieme modello di società alla “grande trasformazione” del capitalismo che tra Otto e Novecento scardina l’antico ordine sociale. L’ingresso sempre più spinto della regione, all’indomani dell’Unità, negli spazi dell’economia-mondo di allora, che tende a rompere gli antichi vincoli dei rapporti sociali, la subalternità e l’assoggettamento secolare degli individui a vecchie istituzioni (parrocchie, confraternite), e a disgregare gli stessi vincoli familiari (il lavoro delle donne fuori di casa), genera una risposta di notevole originalità. Le popolazioni reagiscono tentando di collocare le più ampie libertà in1   M. Ridolfi, La terra delle associazioni. Identità sociali, organizzazione degli interessi e tradizioni civiche, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’EmiliaRomagna, a cura di R. Finzi, Einaudi, Torino 1997, p. 278.

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dividuali acquisite in nuove aggregazioni, in un più avanzato spazio collettivo. Tra Otto e Novecento, in Emilia Romagna si realizza un processo inverso rispetto a quello che oggi domina nel nostro tempo. In quel caso l’emergere di nuove, pur economicamente limitate, libertà dell’individuo, anziché condurre all’impotente solitudine di ciascuno, spingeva a perseguire nuovi raccordi interpersonali e familiari per la potenza politica di tutti. Oggi precipitiamo in una società che segue la direzione contraria. L’ha descritta Zygmunt Bauman inaugurando la sua monumentale saga sulla società liquida: la situazione odierna nasce dalla radicale opera di abbattimento di tutti gli impedimenti e ostacoli a torto o a ragione sospettati di limitare la libertà individuale di scegliere e di agire. La rigidità dell’ordine è il prodotto e il sedimento della libertà degli agenti umani. Tale rigidità è il risultato finale della politica della “briglia sciolta”: deregolamentazione, liberalizzazione, “flessibilità”, accresciuta fluidità, totale apertura dei mercati finanziario, immobiliare e del lavoro, minore pressione fiscale ecc.2.

Per la verità, in questo quadro suggestivo e veritiero, nel quale l’esplodere di una nuova libertà di ciascuno si trasforma in impotenza dell’agire collettivo e dunque in una gabbia invalicabile per tutti, c’è qualche zona d’ombra che andrebbe meglio esplorata. È di certo una smagliatura nell’ordito teorico con cui Bauman ha disegnato i caratteri della società liquida. Perché le libertà individuali di cui parla il grande analista riguardano prevalentemente quelle dei poteri dominanti, delle élites e dei singoli cittadini in quanto meri consumatori. Assai meno visibili appaiono le libertà individuali dei lavoratori, che al contrario vedono accresciuto, in maniera incalzante, il potere delle libertà padronali sulle loro vite. Le conquiste di libertà che li riguardano sono la varietà precaria del lavoro, l’incertezza della sua durata nel tempo, la sua molteplice fungibilità in mani altrui. Ma il quadro di Bauman fa comunque al nostro caso, perché illumina per contrasto l’esempio storico inverso che vogliamo raccontare: quello di una ricomposizione a base territoriale delle singole libertà, capaci di fare fronte comune contro la frammentazione individuale e abbattere le sbarre di ogni possibile gabbia. 2   Z. Bauman, Modernità liquidità, Laterza, Roma-Bari 2009, p. x. Il corsivo è nel testo.

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L’esemplarità di questa istituzione emiliana, diventata per tanti aspetti mito nell’immaginario politico italiano, si ritrova anche nella capacità dei molteplici protagonisti di fondere insieme i mezzi e i fini in un unico ed esaltante processo. Le istituzioni associative di questa regione hanno svolto il compito di strumenti per sostenere e vincere i conflitti politici con le diverse parti padronali o statali, e al tempo stesso di realizzare, da subito, modelli di società nei quali l’obiettivo finale della politica, quello di una condizione più avanzata e felice di vita, venisse già sperimentato nel corso della lotta, grazie alle forme stesse della lotta. Perché il conflitto da sostenere comportava, di necessità, il raccordo e il superamento dei punti di vista individuali, i contrasti interni alle masse popolari, alle parti, ai gruppi, alle famiglie. Esso richiedeva la costruzione di una maglia di rapporti collettivi in cui ci si riconosceva tutti uguali, si condivideva la lotta e la vita, tutti parte di uno stesso destino di comunità. Il conflitto politico era il mezzo per costruire la futura felicità, ma già essa, per la sua capacità di produrre sentimenti e legami solidali, era un modo felice di rispondere alle sfide del tempo: lo scardinamento dei vecchi assetti economici, il processo di proletarizzazione sempre più dispiegato, lo smarrimento di fronte ai processi di modernizzazione imposti dall’alto da forze sovrastanti. Le élites al lavoro Giova ricordare che, a differenza delle istituzioni italiane che abbiamo finora analizzato, il fenomeno che stiamo affrontando non ha origini remote nel tempo. Esso nasce e si conclude nell’arco dell’età contemporanea, anche se è lecito immaginare l’azione oscura e non indagabile di stratificazioni antropologiche locali che hanno ispirato gli attori contemporanei. Fatto sta che, come è stato scritto e documentato, «Ancora a ridosso dell’Unità, non esistevano ragioni particolari che facessero ritenere l’Emilia una regione particolarmente predisposta ad accogliere e diffondere le posizioni democratiche: la vivacità della stampa radicale toscana era senz’altro superiore e, quanto a militanza, le provincie lombarde e liguri si segnalavano per una più larga adesione al programma nazionale e mazziniano»3. 3   A. Varni, I caratteri originali della tradizione democratica, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Emilia-Romagna, cit., p. 560.

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D’altro canto, occorre anche rammentare che, prima dell’Unità, le due subregioni, l’Emilia e la Romagna, non componevano ancora un’unica configurazione istituzionale. I loro territori erano stati a lungo divisi, con Bologna che apparteneva al papa dal XVI secolo, le varie province frantumate in ducati, come quelli di Parma e Piacenza, di Ferrara, di Modena e Reggio, in Emilia, mentre la Romagna, dopo la parentesi napoleonica, era ritornata sotto il dominio della Chiesa di Roma. Ma con l’Unità la regione, pur con le sue diverse articolazioni territoriali e istituzionali, dà avvio a una storia convergente che tende a mettere insieme le molteplici caratteristiche dei luoghi. E da allora ha inizio l’avvio di quella trama costruttiva di organismi associativi destinata a ingigantirsi nel tempo. All’indomani dell’Unità, per la verità, sono soprattutto le borghesie locali a prendere l’iniziativa. E sono, per lo meno agli inizi, prevalentemente borghesie agricole. Esse, a onor del vero, non appaiono in generale, nell’Italia postunitaria, particolarmente attive e intraprendenti, e soprattutto si mostrano scarsamente capaci, come ha documentato Alberto Banti, di creare strutture nazionali coordinate. Si affidano prevalentemente a vecchie istituzioni, come le Accademie, risalenti al XVIII secolo, e alle Associazioni agrarie, in gran parte nate ai primi dell’Ottocento, come la Società agraria della provincia di Bologna, fondata nel 18074. Ma nei rispettivi territori, almeno per quanto riguarda la nostra regione, esse appaiono particolarmente attive e ricevono anche qualche impulso da singole iniziative dello Stato, come l’istituzione dei Comizi agrari ufficiali voluti da Bettino Ricasoli, nel 1866, cui si aderiva su base volontaria, ma che non erano autonomi e dipendevano dal Ministero di Agricoltura Industria e Commercio e dai prefetti5. In Emilia Romagna, tuttavia, il processo politico dell’unificazione nazionale aveva comprensibilmente aspetti molto pronunciati di lotta alle istituzioni ecclesiastiche, alla loro egemonia culturale e alle forme varie di controllo sociale dispiegate localmente per alcuni secoli. Val la pena affidare la descrizione dello stato di questa potente e capillare struttura istituzionale che la Chiesa aveva edificato alle parole di Ridolfi: 4   A.M. Banti, Storia della borghesia italiana. L’età liberale, Donzelli, Roma 1996, p. 81. 5   Ivi, p, 83.

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Nel compartimento dell’Emilia al momento dell’unificazione risultavano 780 opere pie (ospedali, ospizi, manicomi, orfanotrofi, ricoveri, asili, convitti, monti di pietà, confraternite) localizzate in 163 dei complessivi 340 comuni del territorio regionale e capaci di garantire forme di beneficenza a vantaggio di due su tre abitanti. Era una larga rete di istituzioni, tipologicamente ascrivibile a due grandi classi – le opere con ricovero e quelle per i soccorsi a domicilio –, createsi nel corso di almeno 5 secoli, ma con una capillare proliferazione nel corso del primo Ottocento.

Dunque, una struttura assistenziale imponente che in Romagna, soprattutto nelle province di Ravenna e Forlì, costituiva «una ragnatela di opere pie capace di assicurare una qualche tutela alla quasi totalità degli abitanti»6. L’antico regime, per come poteva, cioè con mezzi limitati, tendeva a proteggere e ad assicurare i propri sudditi dalle congiunture del mercato e da quelle della vita, pur limitando e controllando le loro libertà individuali. L’esatto movimento in senso inverso che i ceti dominanti vanno imprimendo alle società del nostro tempo. Come è stato illustrato da tanta storiografia, i ceti borghesi liberali sottrassero alla Chiesa abbastanza rapidamente, nei decenni dopo l’Unità, il controllo sociale delle istituzioni religiose, colpite peraltro dalle leggi nazionali di esproprio dei beni ecclesiastici a partire dagli anni Sessanta. Intanto erano i gruppi della borghesia, soprattutto urbana, che nella seconda metà dell’Ottocento, in sintonia con quanto avveniva nel resto d’Italia e d’Europa, andavano costruendo forme di socialità laica, che non si esaurivano solo nelle istituzioni professionali in difesa degli interessi economici di classe. Il benessere economico e lo sviluppo culturale dell’epoca spinsero le nuove élites a promuovere forme più raffinate di reti di relazioni, volte soprattutto a valorizzare il tempo libero, a promuovere cultura, relazioni personali, affari e ben vivere. Così accanto alle società agrarie, animate dai proprietari terrieri, si svilupparono quelle scientifiche, letterarie, si ripristinarono con nuovo spirito le vecchie accademie, si aprirono circoli e “casini” ricreativi, si moltiplicarono i salotti e si inaugurarono nuovi teatri7. Ma tale nuovo fervore associativo costituiva solo una parte di un processo    Ridolfi, La terra delle associazioni, cit., p. 283.    Ivi, p. 296 e M. Ridolfi, Il circolo virtuoso. Sociabilità democratica, associazionismo e rappresentanza politica nell’Ottocento, Centro Editoriale Toscano, Firenze 1990. 6 7

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più vasto. Esso aveva come fine generale, più o meno consapevole nei suoi protagonisti, di creare l’identità e il prestigio di una classe sociale in ascesa, che doveva sostituire con forme culturali più avanzate la vecchia aristocrazia tanto rurale che urbana, oltre al vecchio clero. I nuovi poteri assunti nella società e nelle istituzioni, comuni e province, richiedevano un più elevato prestigio per una piena legittimazione. È un processo da segnalare, perché mostra una classe sociale, quella che esce vittoriosa dal processo di disgregazione dell’antico regime, impegnata a costruire un tessuto di società, a fare di se stessa il centro promotore di uno sviluppo economico e sociale, in grado di integrare tutti i ceti del territorio regionale. Se si vuol capire sino in fondo il peculiare successo storico dell’associazionismo emiliano-romagnolo, che, come vedremo, nasce per iniziativa e su base popolare, occorre anche saper guardare alla stoffa culturale delle classi dirigenti, alla qualità delle loro aspirazioni egemoniche. E in tali aspirazioni rientra, com’è naturale, un più ravvicinato stimolo mobilitativo e insieme uno sforzo di controllo dei ceti popolari, simile a quello esercitato per secoli dal potere clericale, ma più vitale e dinamico, tanto più che lo sviluppo economico andava producendo sempre più numerose figure di proletariato tanto in città che in campagna. Le Società di mutuo soccorso, che si sviluppano all’indomani dell’Unità, sono promosse per lo più dallo schieramento democratico della borghesia urbana, e risentono dell’impostazione interclassista mazziniana, ma stimolano un nuovo protagonismo soprattutto tra i ceti artigianali, creando inedite reti associative tra sarti, barbieri, fabbri, fornai, tipografi, muratori ecc. Un tale movimento in fondo riprendeva e collocava in un nuovo dinamismo remote tradizioni corporative, risalenti ai secoli del medioevo, e tuttavia aveva il merito, rispetto ai vecchi organismi cattolici, di promuovere l’istruzione elementare, la cultura tecnica e professionale tra gli associati, l’organizzazione del tempo libero, l’inserimento in gruppi musicali, ginnici ecc. E al tempo stesso promuoveva un particolare esercizio di emancipazione morale e intellettuale, quello di partecipare alle assemblee, alle elezioni, al rinnovo delle cariche, di prendere posizione sui problemi della società di cui si era soci e del territorio comunale8.    Ivi, p. 290; F. Fabbri, L’Italia cooperativa. Centocinquant’anni di storia e di me-

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Si muovono le campagne Ma tali importanti processi, che portano vecchie e nuove figure sociali a organizzarsi e a infittire la società regionale, soprattutto sul finire del secolo, di reti associative sempre più estese, costituiscono a lungo il versante prevalentemente urbano del fenomeno. Si trattava di un movimento politicamente moderato, spesso ispirato dalle vecchie associazioni risorgimentali, dalle ex società segrete, dalla massoneria. È invece nelle campagne che si fa avanti, dopo l’Unità, il dinamismo dell’elemento popolare che non si presenta immediatamente come sforzo aggregativo, impulso alla costruzione di associazioni, ma come conflitto. Conflitto, agli inizi, spontaneo e violento. Ed è subito sopo l’unificazione, a partire dai primi del 1869, che in tutta l’Emilia esplode una vasta campagna di mobilitazione popolare. Sono i moti, ben noti e ormai entrati nella leggenda, contro la tassa sul macinato, ripristinata dopo la sua momentanea soppressione al momento dell’Unità e che in quella regione aveva costituito per secoli uno strumento della finanza pontificia9. Sia per i modi dell’esazione – il pagamento della tassa direttamente ai mugnai al momento della macinazione del grano – sia probabilmente per le aspettative di miglioramento sociale, create dal movimento risorgimentale e dall’avvenuta unificazione, i contadini emiliani risposero alle nuove disposizioni fiscali con sorprendente determinazione e violenza. Ora, non interessa qui ripercorrere tale storia ormai ampiamente documentata e che non rientra nelle finalità specifiche di queste pagine. Quel che appare importante è cogliere nelle lotte, nell’organizzazione e nella gestione del conflitto, il processo di formazione organizzativa che i contadini e i braccianti si conquistano sul campo. È in tale ambito che si viene formando una più radicale cultura dell’associazione, che si saggiano i risultati materiali conseguibili con l’organizzazione, con la tessitura di relazioni solidali mirate a reggere un urto di aperta violenza. Ha scritto Renato Zangheri a moria. 1861-2011, Ediesse, Roma 2001, pp. 25 e ss. M. Degli Innocenti, Storia della cooperazione in Italia. La Lega nazionale delle cooperative. 1886-1925, Editori Riuniti, Roma 1977. 9   R. Zangheri, I moti del macinato nel Bolognese, in Id., Agricoltura e contadini nella storia d’Italia. Discussioni e ricerche, Einaudi, Torino 1977, pp. 190 e ss.

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proposito dei contadini che sostennero le lotte contro quella tassa nel Bolognese: Da una protesta contro il macinato, passano rapidamente e nel corso stesso del movimento, alla violenza di una generale e vigorosa ribellione. Presentano all’inizio pacifici ricorsi, e ben presto giungono ad assalire i municipi e a scambiare fucilate. Da luoghi distanti convergono su un punto, in massa e simultaneamente. Senza pensare ad una vasta e oscura cospirazione, si deve riconoscere l’esistenza di concerti e accordi locali. L’esperienza che i contadini accumulano in questi pochi giorni arroventati, non l’avrebbero compiuta nel corso tranquillo di anni: imparano a radunarsi, stringendo fra i paesi e i villaggi una solidarietà sconosciuta: misurano le capacità proprie e la reazione del nemico10.

La grande trasformazione A generare e ad alimentare non solo il conflitto, ma vere e proprie rivolte di massa, non saranno negli anni seguenti le improvvide iniziative fiscali dei governi della Destra storica, ma ben altri agenti. L’avanzare dei processi di trasformazione capitalistica nelle campagne va progressivamente disarticolando in quegli anni vecchi e consolidati rapporti sociali11. Il contratto di mezzadria, così dominante nelle agricolture dell’Italia centrale, da secoli fattore di stabilità economica e di controllo sociale, in molte aree dell’Emilia Romagna subisce scosse irreversibili. Gli imprenditori sono spinti a trasformare i vecchi rapporti di ripartizione delle derrate e del lavoro ricorrendo allo sfruttamento diretto del lavoro salariato. Ma sono anche gli effetti tardivi della crisi agraria che investono duramente, a partire dagli anni Ottanta, tutto il mondo agricolo. Il calo repentino e prolungato dei prezzi delle derrate, grano, canapa e riso soprattutto, non colpisce soltanto proprietari e fittavoli, ma anche i mezzadri12. La quota di prodotti che i mezzadri erano riusciti sino    Ivi, p. 238.    Si veda essenzialmente, in una vasta bibliografia, di cui si dà conto, F. Cazzola, Storia delle campagne padane dall’Ottocento a oggi, Bruno Mondadori, Milano 1996, pp. 100 e ss. 12   F. Cazzola, Le campagne emiliane dall’unità alla prima guerra mondiale. Note storiografiche, in «Annali dell’Istituto A. Cervi», 1985, n. 7; G. Crainz, Padania. Il 10 11

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ad allora a collocare sul mercato perdeva valore, impoverendo così le famiglie, spingendone una parte nel lavoro salariato e nell’esercito crescente dei disoccupati. Spesso è la riduzione del prezzo del riso a indurre alcuni imprenditori ad accelerare il prosciugamento di terre umide e a trasformare le risaie in prato per l’allevamento bovino o in nuove colture. E i braccianti, soprattutto le donne, perdono di conseguenza il lavoro. Oppure i proprietari istituiscono nuovi contratti, come la boaria, che si diffonde soprattutto nel Ferrarese, spingendo gli ex mezzadri a diventare salariati avventizi o a emigrare. Anche la crisi della canapicoltura ha effetti severi sull’occupazione agricola, perché questa pianta richiedeva molta manodopera sia per il lungo ciclo della sua coltivazione sia per la trasformazione in fibra. Ma nel frattempo entravano in crisi altre attività artigianali, di lavorazione di materia prima agricola, come la fabbricazione del “truciolo” e della “treccia”, nel basso Modenese e a Carpi, che occupavano migliaia di artigiani13. Così, per mille vie, le tradizionali fonti di reddito si vanno restringendo e si gonfia di anno in anno una disoccupazione di massa che non aveva precedenti in quelle terre. Per migliaia di nuclei familiari è il crollo di un mondo. Ma la dissoluzione dei vecchi rapporti contrattuali non era l’unica forza che spingeva molecolarmente alla formazione di un sempre più esteso proletariato agricolo. Occorre ricordare che alcune agricolture diventate tipiche di quelle terre, come la coltivazione della risaia, economicamente sempre più rilevanti, avevano sino ad allora richiamato masse bracciantili stagionali sempre più numerose14. La gran parte di questi braccianti erano lavoratori migranti che si staccavano periodicamente dal podere mezzadrile, o vivevano di lavori stagionali, spostandosi su vaste aree e alimentando una migrazione interna di ampie proporzioni. Protagoniste di tali spostamenti nei diversi territori agricoli erano spesso le donne, molto ricercate per la dura fatica di monda e di roncatura in risaia. Figure che evidentemente – con la loro autonomia e la loro libertà mondo dei braccianti dall’Ottocento alla fuga dalle campagne, Donzelli, Roma 1994, pp. 61 e ss. 13   F. Cazzola, Strutture agricole e crisi sociale nella Valle Padana del secondo Ottocento, in «Annali dell’Istituto A. Cervi», 1983, n. 5. 14    Cazzola, Le campagne emiliane, cit., pp. 62 e ss.

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di movimento – infliggevano un duro colpo alle vecchie gerarchie familiari, perché esse si legavano sempre più strettamente alle loro compagne e alle squadre di lavoro, allentando, se non il vincolo, certamente le antiche subordinazioni parentali. Le donne in genere partivano in squadre dai loro paesi e affrontavano condizioni durissime di lavoro, restando nei campi spesso un’ora in più dei lavoratori locali, e dormendo in baracche e alloggi di fortuna. Ma tale «comunanza di vita con altre donne e la sperimentazione di un lungo periodo lontano da casa contribuiva tuttavia a formare una coscienza diversa della propria individualità, a trasformare i modi di pensare, i desideri, i progetti»15. Le donne divennero perciò una componente rilevante del movimento bracciantile emiliano e padano, pagando talora con la vita il proprio impegno in prima fila, come a Conselice, dove nel 1890 due mondine furono uccise dalla polizia. Non è certo un caso se proprio una donna, Argentina Altobelli, nativa di Imola, diventerà segretaria della Federterra nel 1906, guidando con riconosciuta autorevolezza la potente organizzazione bracciantile fino all’avvento del fascismo16. Tuttavia, la formazione di un nuovo esercito proletario, affamato di fonti di reddito, era sì il risultato di processi disgregativi, ma anche effetto avanzato di sviluppo capitalistico. Come ha ricordato Emilio Sereni in un’opera pionieristica, che ancora regge al tempo, «anche se non sempre il processo di formazione di un proletariato agricolo di massa comporta così notevoli spostamenti di popolazione, la nuova massa di braccianti risulta dalla fusione degli elementi più disparati, mezzadri espropriati, pescatori e cacciatori delle bassure vallive, artigiani rovinati ecc., che le nuove condizioni di vita vengono rapidamente fondendo in una massa solidale e compatta, con le sue caratteristiche particolari»17.

15   M. Palazzi, Donne delle campagne e delle città, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Emilia-Romagna, cit., p. 389. 16   Ivi, pp. 389-390; M. Degli Innocenti, Argentina Altobelli e la Federterra, in F. Beato (a cura di), Il riformismo nelle campagne. Da Argentina Altobelli all’agronica, Quaderni della Fondazione Brodolini, Venezia 1980; S. Bianciardi (a cura di), Argentina Altobelli, Lacaita, Manduria 2002; E. Palumbo, Se otto ore vi sembran poche... Donne nel sindacato agricolo in Italia (1904-1977), Presentazione di S. Crogi, Prefazione di P. Bevilacqua, Ediesse, Roma 2012. 17    E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900) (1947), Einaudi, Torino 1968, p. 342.

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Il lavoro, comunque, migrante o meno, che fosse maschile o femminile, svolgeva una funzione aggregante in quelle campagne, perché esso non si svolgeva solo nelle aziende agricole, ma trovava occasioni di impiego anche in altri ambiti, come il lavoro di arginatura dei fiumi, la pulizia dei fossi e dei canali d’irrigazione e di scolo. Soprattutto dopo la nuova legge Baccarini sulle bonifiche italiane, del 1882, il lavoro di miglioramento del territorio, di prosciugamento e incanalamento delle acque, diventò occasione di lavori pubblici per i vari consorzi, che le autorità locali utilizzavano anche per attutire la disoccupazione dilagante. Ma l’esercizio di tale lavoro era reso possibile grazie a una trama collettiva di informazioni interindividuali, di organizzazione in squadre dei lavoratori che pianificavano spostamenti, contrattavano il salario e la durata dell’impiego giornaliero con gli imprenditori. Malgrado il processo di disgregazione dei vecchi assetti produttivi e l’avanzare dei rapporti capitalistici – per cui i contadini diventavano singoli lavoratori che dovevano vendere a titolo personale le loro braccia – essi non diventavano soggetti sociali senza più contesto, individui solitari di fronte a una controparte da cui dipendeva la loro vita. Il lavoro migrante non sconvolgeva gli ancoraggi sociali dei proletari. Come ha osservato Franco Cazzola: Questa forte disponibilità del lavoratore a trasferirsi in cerca di lavoro da un villaggio all’altro non cancella e non mette in secondo piano i forti legami di solidarietà che si stabiliscono tra i lavoratori in rapporto alla natura sociale del lavoro a cui sono adibiti. Il bracciante giornaliero, per quanto sradicato dai tradizionali rapporti di soggezione a uno stesso padrone e dai vincoli sociali di appartenenza a uno stesso villaggio, mantiene pur tuttavia nei secoli l’abitudine al lavoro in squadra, rigidamente organizzata sotto la guida di un “caporale”. La forma di retribuzione a misura o a cottimo sollecita una forte coesione del gruppo, tanto in termini ergonomici quanto sotto il profilo psicologico. La coesione sarà tanto più forte quanto più il lavoro da eseguire è di per sé un lavoro di tipo collettivo che comporta l’impiego di più squadre tra di loro in competizione, come accade di regola nei lavori di arginatura e di canalizzazione. L’abitudine a un lavoro collettivo e organizzato per la difesa idraulica e per la manutenzione del sistema di scolo rappresenta in effetti una caratteristica peculiare di tutta la bassa padana e ha antiche tradizioni che risalgono all’epoca comunale18.

   Cazzola, Storia delle campagne padane, cit., p. 105.

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Come si può constatare dalle considerazioni finali di questo brano, di tanto in tanto emergono, nelle esperienze otto-novecentesche, le remote radici storiche di attitudini che sembrano caratteristiche morali inspiegabili delle popolazioni e che sono in realtà il frutto di processi maturati nel tempo, di culture elaborate nei rapporti secolari che si son venuti svolgendo tra le genti e i loro territori. Le istituzioni collettive che operavano sui terreni paludosi, i consorzi, erano infatti antiche nella bassa Pianura padana19. Resta tuttavia da rammentare, per completare il quadro dei vasti processi di proletarizzazione che investono quelle campagne a fine Ottocento, un capitolo decisivo e grandioso di trasformazione del territorio e dei vecchi rapporti sociali. A imprimere infatti un accelerato processo di mutamento generale è una grande iniziativa capitalistico-finanziaria che prende avvio nel 1870. Quella che può essere considerata la più grande bonifica italiana del secolo si concentra, infatti, in Emilia Romagna e impegnerà un vero e proprio esercito di proletari. Le grandi bonifiche La crisi degli anni Ottanta non è certamente una fase di stagnazione economica. Essa, se colpisce duramente i ceti popolari, prosciugando occasioni di lavoro stabile, riducendo le fonti di reddito, spinge tuttavia alcuni settori del mondo economico e finanziario a grandi iniziative di investimento. È il caso di una vasta e ambiziosa opera di bonifica che ha il suo centro esattamente nel cuore dell’Emilia Romagna e costituisce, come s’è accennato, la più grande opera di trasformazione fondiaria del secolo. Qui, nelle province di Reggio Emilia, Modena e Ferrara nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, per iniziativa di alcune società come la Società delle bonifiche ferraresi, la Société vaudoise d’exploitations agricoles e altre minori, vengono prosciugate e trasformate sotto il profilo agricolo immense superfici un tempo paludose e utilizzate estensivamente. Le antiche paludi nel giro di pochi decenni diventano vaste aziende agrarie coltivate a grano, sicché quelle province assumeranno il primato della pro   Bevilacqua, Le rivoluzioni dell’acqua, cit., pp. 255 e ss.

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duttività granaria in Italia superando l’antica primazia del Milanese20. Ora, occorre ricordare, come abbiamo brevemente accennato, che da secoli quelle terre erano sottoposte a bonifica per opera di consorzi di proprietari che strappavano nuove terre alle paludi, ma gestivano anche le acque e le canalizzazioni che ne derivavano, sia per promuovere le irrigazioni, sia per difendersi dagli allagamenti. La bassa Pianura padana era infatti un vasto reticolo di terre e acque continuamente monitorato e conquistato dal lavoro umano. La grande novità di quelle bonifiche è che vengono utilizzate per la prima volta grandi macchine di prosciugamento, le idrovore meccaniche, capaci di sostituire l’opera di migliaia di badilanti e di carriolanti, concentrando il grosso del lavoro di bonifica in pochi decenni. Le macchine non eliminarono del tutto il carattere di massa dell’impiego di manodopera in quelle province. Migliaia di braccianti, con le più diverse competenze di lavoro, vengono comunque richiamate in quelle terre sino ai primi del Novecento. Ma, finiti i lavori di prosciugamento, terminata l’opera di bonificazione, sistemate, talora con troppo anticipo sotto il profilo agronomico e ambientale, le aziende agricole, l’antica fame di lavoro riesplodeva ancora più violenta. Ora erano le macchine che svolgevano tanti lavori di manutenzione del territorio e nelle nuove aziende cerealicole: e in queste ultime, che certo occupavano manodopera salariata stagionale, non c’era posto per tutti. Dunque, ai processi di trasformazione molecolare delle strutture produttive, allo sfaldamento di tante economie mezzadrili, agli effetti della crisi agraria, all’iniziativa imprenditoriale in senso apertamente capitalistico si aggiungeva sul finire del secolo questo straordinario rivolgimento ambientale e sociale di una vastissima area della regione. Nuovo proletariato, nuovo lavoro stagionale e instabile, più estesa e cronica sottoccupazione e disoccupazione. 20   Sereni, Il capitalismo nelle campagne, cit., pp. 306 e ss.; T. Isenburg, Investimenti di capitale e organizzazione di classe nelle bonifiche ferraresi (1872-1901), La Nuova Italia, Firenze 1971. L’opera più sistematica e completa su tutta la vicenda resta tuttavia quella di G. Porisini, Bonifiche e agricoltura nella Bassa Valle Padana (18601915), Banca Commerciale Italiana, Milano 1978, a p. 176 sul sorpasso produttivo della granicoltura milanese. Nel corso di un secolo, fra il 1850 e il 1950, sono stati bonificati nella regione oltre 200 mila ettari (B. Bianchi, La nuova pianura. Il paesaggio delle terre bonificate in area padana, in Bevilacqua [a cura di], Storia dell’agricoltura, cit., I, p. 452).

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Ma la specificità di questa storia non si esaurisce qui. In queste terre accade qualcosa di assolutamente inedito rispetto al resto delle regioni italiane, anche di quelle limitrofe come la Lombardia. In quegli anni, infatti, ai problemi creati dalla crisi agraria, alla disoccupazione di massa, soprattutto nelle regioni del Nord Italia, braccianti e contadini rispondono con l’emigrazione in massa nelle Americhe. Esemplare a tal proposito è il caso del Mantovano. Nelle campagne di questa provincia, tra il 1884 e il 1885, era esploso il vasto movimento anti-padronale de La boje, forse il moto popolare più ampio e violento della seconda metà del secolo21. Ebbene, dopo la sconfitta subita dai contadini, dopo il processo di Venezia che commina decine di condanne ai capi degli insorti, la parte meno rassegnata della popolazione fa le valigie e parte per l’Argentina e per il Brasile. La stessa cosa non accade in Emilia Romagna. Qui non si verifica nessuna fuga, nessuna diserzione, nonostante la massa davvero sovrabbondante di braccia crei il rischio di una competizione interna al bracciantato, di un conflitto fratricida22. I lavoratori della terra, braccianti agricoli, carriolanti, badilanti, coloni, artigiani impoveriti, decidono di non partire, di non scegliere la via della fuga23. Scelgono di restare e di organizzarsi per imporre il lavoro ai proprietari terrieri o di crearselo grazie alla forza dell’organizzazione. Evidentemente solo la profonda fiducia nella capacità associativa come virtù storica e per così dire ancestrale di quelle popolazioni poteva portare a quella scelta, a quella sfida di classe così aperta e frontale. 21   Si veda «La boje!». Moti contadini e società rurale padana del secondo Ottocento, in «Annali dell’Istituto A. Cervi», 1983, n. 5 e 1984, n. 6; G. Crainz e G. Nenci, Il movimento contadino, in P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, III, Mercati e istituzioni, Marsilio, Venezia 1991, pp. 627 e ss. 22   F. Cazzola e M. Martini, Il movimento bracciantile nell’area padana, in Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura, cit., III, p. 748. Si vedano le esperienze di lotta in due importanti realtà provinciali in I. Masulli, Crisi e trasformazione: strutture economiche, rapporti sociali e lotte politiche nel Bolognese (1880-1914), Istituto per la storia di Bologna, Bologna 1980; e A. Roveri, Dal sindacalismo rivoluzionario al fascismo. Capitalismo agrario e socialismo nel Ferrarese (1870-1920), La Nuova Italia, Firenze 1972. 23   È significativo che nel periodo della prima grande emigrazione transoceanica, tra il 1876 e il 1915, la regione (con soli 690 mila migranti) risulti agli ultimi posti tra i grandi comparti del Nord. Dietro il Veneto, che espelle oltre 1 milione e 800 mila persone, il Piemonte, la Lombardia, la Venezia Giulia, perfino la Toscana, con un flusso di circa 763 mila emigranti (Centro Studi Emigrazione, Un secolo di emigrazione italiana: 1876-1976, Roma 1978, p. 19).

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Quella scelta, che passò anche tra tante sconfitte, ebbe successo. Un successo che si articolò in vario modo e su più fronti. Intanto, i braccianti agricoli escogitarono uno strumento importante per estendere l’occupazione nelle aziende: l’imponibile di manodopera. Si trattava di costringere i proprietari terrieri a occupare nei lavori stagionali un preciso numero di braccianti per unità di superficie. Un dispositivo che si rivelò un’arma formidabile di lotta, che tenne uniti i braccianti e diede un impulso straordinario allo sviluppo del sindacato bracciantile in quelle terre. Non era certamente un’arma facile da usare, perché comportava uno scontro durissimo e diretto tra lavoratori e proprietari. Ma le squadre dei braccianti erano in grado di presentarsi unite agli ingressi delle aziende e di chiedere l’assunzione di “tutti o nessuno”. E avevano il coraggio e la forza di rinunciare al lavoro se il proprietario rifiutava quella condizione24. Ai primi del Novecento, per merito soprattutto dei sindacalisti rivoluzionari ferraresi, nacquero i primi uffici di collocamento gestiti dai sindacati, che furono al centro di alterni conflitti e che nel 1920 strapparono un importante successo con il cosiddetto “concordato Zirardini”, che stabiliva l’obbligo degli agrari di occupare 5 lavoratori ogni 30 ettari25. Al tempo stesso tra i lavoratori non agricoli, sull’esempio dell’Associazione generale degli operai braccianti fondata nel 1883 a Ravenna da Nullo Baldini, si diffuse il metodo del cottimo di squadra per l’assegnazione del lavoro ai soci. Si diffondevano così le cooperative di lavoro, che insieme alle affittanze agrarie e ad altre iniziative consimili trasformavano i lavoratori in imprenditori collettivi26. Da una costola del vasto movimento rivendicativo cominciava, se non a staccarsi, quanto meno a profilarsi il percorso delle cooperative di lavoro che si congiungeranno a quelle di consumo e che spesso nascevano da altre storie e contesti, come quello del vecchio mutualismo. Una storia che a lungo sarà parte integrante del grande moto proletario e sindacale, ma che nella seconda metà del Novecento, come vedremo, assumerà sempre più nettamente caratteri imprenditoriali autonomi.

   Cazzola e Martini, Il movimento bracciantile, cit., p. 749.    Ivi, p. 750. 26   Per questi aspetti nel Bolognese e per il ruolo di Andrea Costa, F. Fabbri, Cent’anni di storia del movimento cooperativo bolognese, in Id., L’Italia cooperativa, cit., p. 366. 24 25

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La forza del sindacato È rimasto finora assente da tale quadro un agente decisivo per costruire il grande collante della solidarietà di classe delle masse proletarie: il movimento socialista. La regione Emilia Romagna aveva una rispettabile tradizione democratica e rivoluzionaria. La Romagna aveva dato un importante contributo di lotta ai moti risorgimentali nel 1831, nel 1843 e nel 1845. Nel secondo Ottocento l’eredità di Mazzini era ancora forte tra la borghesia più illuminata e fra i ceti colti. Ma era stato il poeta Giosuè Carducci, in quel momento il maggior poeta d’Italia, portatore di idee democratiche e anticlericali, a influenzare le migliori élites della regione27. D’altro canto, l’esperienza della Comune di Parigi, nel 1871, aveva colpito e allarmato i ceti dominanti d’Europa, ma anche spinto i settori più illuminati della borghesia del tempo a cercare antidoti sociali all’avanzare dell’internazionalismo socialista. In Emilia Romagna, come in altre regioni d’Italia, l’iniziativa mutualistica si fa più incalzante, soprattutto nel settore del credito cooperativo, che a Bologna aveva rappresentato la prima forma di associazionismo sin dagli anni Sessanta28. Ma sul finire del secolo, con il radicalizzarsi dei conflitti sociali, con il progredire delle idee socialiste in Europa, anche l’Emilia Romagna è percorsa dalle nuove idee. A Rimini viene fondata nel 1872 la prima organizzazione politica che si richiama esplicitamente al socialismo: la Federazione italiana dell’Associazione internazionale dei lavoratori, di ispirazione anarchica. Ne era segretario Andrea Costa, nativo di Imola e destinato a diventare una delle grandi figure del socialismo italiano. Viene perciò comunemente segnata come una data simbolicamente di svolta il 1882, allorché Costa, spostatosi su posizioni apertamente socialiste, viene eletto al Parlamento29. Nella regione il nuovo partito dei lavoratori, diffuso sotto forma 27   L. Avellini, Cultura e società in Emilia-Romagna, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Emilia-Romagna, cit., pp. 653 e ss. 28   Fabbri, Cent’anni di storia del movimento cooperativo bolognese, cit., p. 364. Sul predominio, in origine, delle cooperative del credito nella regione, A. Varni, Una società regionale da ricostruire, in Id. (a cura di), Emilia Romagna terra di cooperazione, Eta, Bologna 1990, p. 15. 29   R. Zangheri, Il socialismo e l’identità regionale, in M. Montanari, M. Ridolfi e R. Zangheri (a cura di), Storia dell’Emilia-Romagna. 2. Dal Seicento a oggi, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 92.

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di organizzazioni locali, comincia ad avere un crescente influsso di formazione culturale, di indirizzo politico, di capacità organizzativa e di mobilitazione nelle varie realtà locali. Il Partito socialista italiano, fondato a Genova nel 1892, è destinato ad avere una funzione rilevantissima nel ruolo politico che per decenni la regione giocherà nella storia generale della nazione e nella plasmazione culturale e politica dell’intera società emiliana. Per brevità ci limitiamo a segnalare pochi, ma importanti contributi che la dirigenza socialista locale e nazionale fornisce alla diffusione e al radicamento delle organizzazioni solidali di massa del proletariato regionale. Il vasto movimento popolare di fine Ottocento, grazie soprattutto alla diffusione delle culture socialiste, ha due grandi esiti agli inizi del nuovo secolo: la nascita della Federazione nazionale fra i lavoratori della terra (Federterra), il sindacato dei braccianti, fondato non a caso a Bologna nel 190130, e lo straordinario sviluppo del municipalismo, vale a dire il nuovo protagonismo politico dei partiti politici popolari all’interno delle amministrazioni comunali. La Federterra, nata sull’onda dei grandi scioperi che esplodono in quell’anno – e nei quali è protagonista un capopopolo leggendario, Giuseppe Massarenti –, conterà nel 1902 230 mila iscritti, che nel 1920 supereranno la cifra di 800 mila. Un culmine politico e organizzativo, prima dell’avvento del fascismo, che in quell’anno porta a scioperare un milione di braccianti. Protagonista di lotte memorabili, che qui non possono essere neppure accennate, questo sindacato diventa, nella prima metà del Novecento, il più grande collettivo organizzato nelle campagne d’Europa31. Naturalmente al di sotto della Federterra agiscono e creano tessuti viventi di cooperazione solidale le strutture con radicamento locale. Fra queste primeggiano le Leghe, soprattutto rurali, ma talora anche di operai urbani, che prima della Grande Guerra rappresentavano nella regione il 74% del totale nazionale. Ma l’altra grande 30   Bologna, con le sue campagne, dà un grande contributo allo sviluppo di questo sindacato. Cfr. P.P. D’Attorre, La politica, in R. Zangheri (a cura di), Bologna, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 103. 31   Cfr. Crainz, Padania, cit., pp. 5-7 e ss. Nel 1901 gli iscritti emiliani rappresentavano il 45,1% del totale, mentre nel 1910 toccarono il 79% (R. Finzi, Piste sull’Emilia rossa, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Emilia-Romagna, cit., p. xxvi).

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invenzione del solidarismo proletario è la Camera del lavoro, probabilmente di origine francese, dove confluiscono le diverse categorie di salariati, dove la diversità di ruolo, di competenze e di funzioni svolte nel lavoro quotidiano si fonde nella comune socialità di classe, nel godimento del tempo libero, nella convivialità, nella piccola felicità dello stare insieme, sentirsi parte solidale di un comune destino. Anche nelle statistiche delle Camere del lavoro, la preminenza emiliana è impressionante: 2813 sezioni su 5231, il 53,77% del totale nazionale32. Non c’è tuttavia da stupirsi: queste cifre erano il risultato di una tradizione che si autoriproduceva e cresceva su se stessa, ma al tempo stesso il frutto dell’intelligenza innovativa dei dirigenti che a quella tradizione si ispiravano. In quella regione in passato erano radicate localmente forme antiche di associazionismo e di convivialità popolare come gli “orti forlivesi”, le “cameracce” ravennati: luoghi di ritrovo del popolo, di vicinanza e di comunanza serale dopo le fatiche lunghissime delle giornate nei campi o in bottega33. E non si creda che tali esperienze di associazionismo spontaneo si esaurissero nel mangiare, nel bere vino e nello stare insieme. Esse svolgevano spesso una importante funzione di acculturazione in aree sociali di diffusa miseria e di analfabetismo secolare. Poiché non mancava quasi mai qualcuno che tra tanti analfabeti sapesse leggere, spesso le serate insieme erano dominate dall’ascolto e dall’apprendimento. Ricordava un contemporaneo nel 1909: La lettura ad alta voce! Bisogna aver vissuto a lungo fra la umile gente illetterata della campagna per sapere con quale avida appassionata attenzione, ascolti una voce che legge. D’inverno sui grandi focolari, presso il lume appeso alla trave fumosa; o nelle stalle tiepide dei fiati animali con in giro le donne che filano e gli uomini che attendon agli ingegnosi intrecci di vimini, una voce che legge è un oracolo che parla. Nelle anime incolte v’è un rispetto quasi superstizioso del libro e di ciò ch’esso dice e insegna34.

È in queste remote tradizioni che trovano le proprie radici istituzioni destinate ad avere un ruolo decisivo nel processo di accultura   Ridolfi, La terra delle associazioni, cit., pp. 323-325.    Id., Il circolo virtuoso, cit., pp. 130 e ss. 34    Cit. in L. Casali, Sovversivi e costruttori. Sul movimento operaio in Emilia-Romagna, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Emilia-Romagna, cit., p. 498. 32 33

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zione delle masse popolari, di formazione di una coscienza politica moderna. È il caso delle Case del popolo: geniale creazione dell’anima proletaria consapevole della propria subordinazione classista, ma desiderosa di autonomia ed emancipazione. Anche questa istituzione – nata in origine nel 1893 a Villa Massenzatico, in provincia di Reggio Emilia35, e che ha conosciuto diffusione in tanti altri paesi d’Europa – riuniva le varie figure del mondo del lavoro, oltre le segmentazioni politiche e di mestiere delle Leghe, delle Camere del lavoro, del sindacato, delle cooperative, della sezione di partito. Essa costituiva un momento di aggregazione che andava oltre la fatica quotidiana e la lotta sindacale e diventava spazio di comunicazione, dialogo e di libera socialità tra persone, esseri umani prima che venditori delle proprie braccia. Va ricordato peraltro che la regione è stata in grado di organizzare forme avanzate di “tempo libero”, mutuandole dalle società industriali avanzate, di diffondere le prime forme di turismo popolare, di creare spazi per il gioco, per lo sport, per la fruizione di massa di musica e arte36. Dentro e intorno alle Case del popolo si organizzavano feste popolari, balli, concerti, cicli di lezioni e, nel corso del Novecento, proiezioni di film ecc. Qui i proletari sperimentavano in un felice microcosmo una piccola società socialista, vissuta come prefigurazione di un futuro assetto generale dell’umanità, ma anche come riscatto, momentanea liberazione, godimento. Era una esperienza di vita, nelle Case del popolo come in tutte le altre organizzazioni cooperative, che consentiva agli uomini e alle donne di quei territori di riappropriarsi del proprio corpo, della propria vita, consegnata in mano altrui per tutto il corso del giornata, una giornata di fatica. E la leva di tale riscatto, lo strumento di elevazione e insieme il sussidio indispensabile per sopportare il peso del lavoro, anche nel momento in cui lo si eseguiva, era al tempo stesso l’arma tante volte vincente della lotta: lo stare insieme, il cooperare, il vincolo solidale che legava i singoli in comunità. 35   L. Arbizzani, Alcune considerazioni storiche sulla cooperazione in Emilia-Romagna, in F. Solmi (a cura di), La società attraente. Cooperativa e cultura nell’Emilia Romagna, Grafis, Bologna 1976, p. xxii. Più in generale, M. Degli Innocenti, Per una storia delle case del popolo, dalle origini alla prima guerra mondiale, in Id. (a cura di), Le case del popolo in Europa. Dalle origini alla prima guerra mondiale, Sansoni, Firenze 1984. 36    S. Pivato, Il tempo libero, in Montanari, Ridolfi e Zangheri (a cura di), Storia dell’Emilia-Romagna, cit., pp. 115 e ss.

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Non diversamente dai lavoratori inglesi agli esordi della rivoluzione industriale descritti da Edward P. Thompson, la speciale moralità comunitaria dei proletari rendeva possibili margini di autonomia che non sempre il capitalismo riusciva a soggiogare37. Dentro o fuori il luogo di lavoro, nel campo o nella Società operaia, l’aggregazione comunitaria aiutava a sopportare la fatica, ma dava senso e finalità alla vita stessa. «È sufficiente consultare vecchi cartoni d’archivio di una Società operaia o aggirarsi fra gli scaffali polverosi dimenticati nella cantina di una cooperativa perché si riveli nelle testimonianze del tempo un senso quasi “gioioso” del ritrovarsi insieme ed anche – e questo è il dato quasi sconcertante per gente oppressa dalle fatiche – del lavorare insieme. Manifesti di feste sociali, testimonianze del senso di esultanza che prende tutti quando si raggiunge lo scopo faticosamente ricercato». Un apparente paradosso che si chiariva facilmente, tenendo conto che allora «il lavoro stesso può essere “festa” anche nei suoi momenti di fatica e di disillusione, se viene affrontato con la certezza che non si è soli, che i problemi e le difficoltà si vivono e superano insieme»38. Il fronte sindacale ha dunque in Emilia un tale successo di massa, e mostra una così elevata capacità aggregativa che va sottolineata in special modo. Perché non è solo legata agli originali caratteri dei luoghi (un territorio ricco di acque che andava governato con organizzazioni collettive), ma è frutto anche di un formidabile lavoro culturale di connessione. Il mondo sociale che il sindacalismo emiliano e in genere bassopadano riesce a mettere insieme non è infatti così omogeneo come si potrebbe immaginare. Alle parole bracciante e lavoratore non corrisponde sempre una figura omogenea in tutti i territori, con caratteristiche di mestiere interamente assimilabili a un unico ruolo e funzione. Come spesso ha insistito nei suoi lavori Franco Cazzola, e come si è cercato fin qui di mostrare, la figura del bracciante di queste terre non è assimilabile a quella del salariato di fabbrica, dell’operaio industriale generico. Varie erano infatti le fonti di reddito delle singole figure, così come le competenze di mestiere. E perciò anche la loro capacità conflittuale ne era condizionata. In certi casi, ad esempio, il lavoratore era cointeressato 37   E.P. Thompson, Società patrizia e cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, a cura di E. Grendi, Einaudi, Torino 1981. 38   M. Pasquali, ...e si fece festa per tre giorni, in Solmi (a cura di), La società attraen­ te, cit., p. xiii.

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alla vita dell’azienda capitalistica con antichi contratti di compartecipazione che limitavano la sua disponibilità al conflitto39. Oppure perché membro di affittanze agrarie o di cooperative di lavoro. Per non dire, se non per accenni, che il mondo popolare non era omogeneamente socialista, ma segnato dalla presenza, sia pur minoritaria, di “isole” cattoliche e soprattutto di formazioni repubblicane, come le cosiddette “fratellanze”, attive in particolare fra i mezzadri in Romagna dove i repubblicani costituivano un partito di massa. E tuttavia la rete delle associazioni svolgeva una funzione di supporto straordinario, nonostante la diversità di fini delle varie istituzioni, che consentivano alla conflittualità di classe di dispiegarsi e di resistere anche in condizioni di lotta svantaggiose e asimmetriche. Come ha opportunamente ricordato Luigi Arbizzani: Le cooperative di consumo, specie nelle campagne, divennero di fatto strumento di “reddito” per le masse più diseredate nei momenti – più volte ricorrenti – delle loro dure e lunghe lotte e nelle epoche – piuttosto lunghe – di disoccupazione. Il piccolo credito concesso dalle cooperative attraverso il “libretto della spesa”, acconsenti [sic] agli scioperanti (braccianti, mondine, edili) ed ai disoccupati, di potersi garantire almeno gli alimenti per resistere fisicamente nei giorni e nei mesi nei quali essi non realizzavano alcun guadagno40.

Ma accanto a questo fronte che assume una carica sociale, politica e culturale dirompente per tutti gli anni sino al fascismo, si viene ad aggiungere il successo crescente del movimento socialista nelle città. Dopo la riforma amministrativa realizzata nel 1887 da Francesco Crispi, nelle elezioni comunali del 1889 i candidati socialisti cominciano ad affermarsi nelle amministrazioni periferiche. Ma è soprattutto dopo la nascita del partito che il movimento diventa significativo, anche perché il suo gruppo dirigente esprime una sempre più decisa vocazione amministrativa. Dieci anni più tardi, rispetto alle prime prove, nel 1899, il Psi riesce a candidare propri esponenti in piccoli comuni dove talora riesce a vincere e conquista le prime città capoluogo, quelle di Alessandria e di Reggio Emilia. Col nuovo secolo il municipalismo, cioè il protagonismo politico ed    Cazzola e Martini, Il movimento bracciantile, cit., pp. 752 e ss.    Arbizzani, Alcune considerazioni storiche, cit., p. xx.

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economico dei comuni, che sperimenta un’espansione straordinaria in tutta Italia – in sintonia con quanto avviene in altri paesi d’Europa –, conosce anche qui uno spettacolare successo. Sindaci e amministratori socialisti vanno estendendo dappertutto la loro presenza41. Ma nel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, in Emilia il processo di conquista dei consigli comunali aveva raggiunto successi clamorosi, con ben quattro amministrazioni provinciali, quelle di Bologna, Reggio Emilia, Ferrara e Mantova, che si aggiungevano alla conquista del comune in due grandi città, Milano e Bologna42. La conquista delle amministrazioni comunali favorisce in maniera straordinaria e crescente lo sviluppo dell’associazionismo proletario e della cooperazione. I comuni a direzione socialista sostengono attivamente le associazioni attraverso sgravi fiscali, accesso al credito, assegnazione di lavori pubblici. Ma essi ricorrono a una fiscalità progressiva, ad esempio nell’applicazione della tassa del focatico ecc., promuovendo così una sintesi davvero inedita tra l’amministrazione pubblica e la vita comunitaria e solidale promossa dal basso da Leghe, Camere del lavoro, Case del popolo, cooperative. Singolare fu, ai primi del Novecento l’esperienza del comune socialista di Reggio Emilia, che produsse un particolare impegno nelle scuole, soprattutto elementari, avviando una tradizione di continuo miglioramento organizzativo, didattico, sociale, che sarebbe giunta fino a noi. Il comune aprì scuole serali per adulti, creò luoghi di ricreazione per bambini, inaugurò nuove scuole in città e nei dintorni rurali, acquistò i libri scolastici per gli scolari distribuendoli alle famiglie a prezzo di costo43. Una fusione sociale di tipo socialista che ai nostri occhi oggi si accresce di significato se si pensa che i comuni presero a intraprendere iniziative economiche di notevole rilievo. Si trattava allora di espandere le strutture dei servizi civili, la rete idrica, il gas, la linea dell’energia elettrica, ma anche di gestire la manutenzione corrente delle città. Si trattava di nuove imprese pubbliche, per servizi pubblici che generavano nuova occupazione urbana. E tuttavia in 41   M. Degli Innocenti, Le sinistre e il governo locale in Europa dalla fine dell’800 alla seconda guerra mondiale, Nistri Lischi, Pisa 1984; P. Dogliani e O. Gaspari (a cura di), L’Europa dei comuni. Dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra, Donzelli, Roma 2003. 42   M. Ridolfi, Il PSI e la nascita del partito di massa. 1892-1992, Laterza, RomaBari 1992, p. 71. 43    Zangheri, Il socialismo e l’identità regionale, cit., pp. 94 e ss.

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Emilia i comuni entrarono anche nel mondo del commercio privato, con un proprio profilo popolare, come nella gestione delle farmacie, delle macellerie, delle ghiacciaie ecc., praticando prezzi favorevoli alle loro popolazioni in competizione con i privati. Nel 1913 l’Emilia dominava in Italia tale processo con 38 servizi gestiti dai comuni, superando l’avanzatissima Lombardia, che ne vantava 24. I casi “simbolo” di questa avanzata straordinaria del mondo popolare nel controllo del proprio territorio – è stato ricordato –, di questa sorta di via emiliana all’imprenditoria comunale, furono soprattutto Reggio Emilia, Imola e Forlì: tre città nelle quali l’assunzione diretta dei pubblici servizi aveva costituito, anche sotto l’aspetto politico, un notevole banco di prova per le amministrazioni “rosse”44. Dunque iniziative dall’alto e dal basso. Dalla mobilitazione proletaria, che nel territorio creava strutture di resistenza e organismi cooperativi d’impresa, e dalla dirigenza socialista, anche di profilo nazionale e talora internazionale, si convergeva verso la costruzione di un modello di società locale assolutamente inedito nella storia d’Italia. Alle pratiche inventive dei lavoratori, al loro coraggio ed energia di lotta si associavano con coerenza i gruppi politici e intellettuali, gli elaboratori di una prospettiva generale e soprattutto di una ideologia. Una nuova idealità «che aveva rivitalizzato il tronco di una cultura comunale talvolta attardata nella ricerca di primati puramente amministrativi, e nel contempo aveva contribuito a stabilire una sorta di continuità, fra la difesa dell’autonomia locale che pure era appartenuta anche agli uomini del Risorgimento e i meccanismi di solidarietà e di garanzia per il popolo lavoratore che il socialismo, attraverso l’azione moderatrice o sollecitatrice del municipio, intendeva aggiungere all’arsenale, già ben fornito, delle “tradizioni” urbane»45. Reincarnazioni del Novecento Com’è noto, il fascismo si abbatté con particolare ferocia repressiva su questo mondo proletario. È significativo ricordare che il nucleo 44   R. Balzani, Le tradizioni amministrative locali, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Emilia-Romagna, cit., pp. 620-621. 45   Balzani, Le tradizioni amministrative locali, cit., p. 614.

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regionale più numeroso di dissidenti che finirono davanti al Tribunale speciale del regime fu quello emiliano-romagnolo con 2293 processati, pari al 14,5% del totale nazionale46. E naturalmente le istituzioni socialiste che si erano distinte nella resistenza alla violenza squadrista, soprattutto nel Bolognese e nel Ferrarese, furono quelle più colpite in quella fase storica in cui a lungo la storiografia italiana ha stentato a vedere una vera e propria guerra civile47. Le strutture cooperative, anche se non demolite, diventarono oggetto di controllo padronale, vennero sottoposte alle gerarchie del regime, burocratizzate e comunque alquanto svuotate della loro carica libertaria e autonomistica. D’altra parte, il fascismo creò proprie strutture organizzative, come l’Opera nazionale del dopolavoro, istituita nel 1925, che aveva lo scopo di un controllo strategico del tempo libero dei lavoratori: un ambito rilevantissimo, come abbiamo brevemente visto, della politicizzazione delle masse ad opera del movimento e del Partito socialista48. Naturalmente non seguiremo il corso di queste vicende, del resto ben documentate da tanta ricerca storica. Ai fini del nostro racconto interessano le evoluzioni che le strutture sindacali e politiche, le istituzioni della solidarietà di classe subiscono nel tempo e soprattutto nella seconda metà del Novecento. Giova ricordare qui, brevemente, che all’indomani della seconda guerra mondiale le campagne della bassa padana, come del resto quelle del Mezzogiorno e di gran parte d’Italia, ribollono di conflitti. Basti considerare che la risorta organizzazione bracciantile, che porta il nome di Confederterra, arriverà a contare, nel 1949, 1 milione e 700 mila iscritti49. Ma quelle terre, che dovranno ben presto abbandonare vecchi obiettivi di lotta, come l’imponibile di manodopera o il controllo sindacale degli uffici di collocamento, conoscono tuttavia un’espansione dell’anima imprenditoriale dell’associazionismo emiliano. Le cooperative, che si erano riunite a Milano    Casali, Sovversivi e costruttori, cit., p. 506.    F. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo (1918-1921), Utet, Torino 2009. 48   Cfr. Ridolfi, La terra delle associazioni, cit., pp. 343 e ss. Più diffusamente P.P. D’Attorre, Le organizzazioni padronali, in Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana, cit., III, pp. 682 e ss.; M. Degli Innocenti, La società unificata: associazione, sindacato, partito sotto il fascismo, Lacaita, Manduria 1965; V. De Grazia, Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del dopolavoro, Laterza, RomaBari 1981. 49   Crainz, Padania, cit., p. 5. 46 47

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in Federazione nel 1886 e poi in Lega delle cooperative a partire dal 1893, raccoglievano anche filoni cattolici e interclassisti di quella tradizione e crebbero insieme al movimento sindacale e all’espansione del municipalismo di primo Novecento. Ma dopo la seconda guerra quella istituzione doveva conoscere ben altra fortuna e sviluppi. Non più di un mese dopo la Liberazione, il 26 maggio del 1945, i partiti antifascisti si riuniscono a Roma per ricostituire la Lega nazionale delle cooperative. E già a partire dal 1947, anno del XXI congresso della Lega, che si tiene a Reggio Emilia, con caratteri di rifondazione del movimento, si verifica una svolta politica di grande rilevanza50. Il Partito comunista, fino ad allora minoritario, diventa la forza preponderante nel movimento cooperativo e avrebbe da allora portato al suo interno la forza e l’immenso prestigio che in quella fase gli venivano dal ruolo svolto nella Resistenza, dai legami con l’Unione Sovietica (una delle potenze vincitrici della guerra), e dal più radicale profilo intellettuale e politico dei suoi dirigenti. Agli inizi degli anni Cinquanta comincia a prendere corpo il modello comunista di autogoverno a Bologna, destinato a diffondersi su scala regionale e a essere imitato a livello nazionale51. Si realizza in quegli anni una convergenza felicissima fra i diversi attori della vita regionale. Da una parte le cooperative operano su vari piani rispondendo ai bisogni anche gravi delle popolazioni. Ad esempio costruendo alloggi popolari, in sintonia con i comuni, e cedendoli a prezzi contenuti e senza clientelismi ai cittadini. Qui il piano Ina-Casa, varato dal governo, trova una vasta applicazione e offre abitazioni alla vasta platea dei cittadini meno abbienti. Oppure, mentre entrano in crisi le affittanze collettive, nel corso degli anni Sessanta, e si va riducendo il peso sindacale dei braccianti, l’attenzione dei dirigenti si sposta progressivamente sui piccoli produttori (mezzadri, piccoli proprietari, fittuari), favorendo la nascita di associazioni cooperative per la commercializzazione dei prodotti: strutture che consentono ai contadini di affrontare uniti le sfide dei mercati. Qui la “transizione agricola” viene resa socialmente meno drammatica che altrove52.    Fabbri, L’Italia cooperativa, cit., pp. 193-235.    M. Ridolfi, Introduzione, in Id. (a cura di), I sindaci della Repubblica. Le trasformazioni della vita municipale emiliano-romagnola nel secondo dopoguerra, Il Ponte Vecchio, Cesena 2012, pp. 10 e ss. 52    T. Menzani, Sogni e bisogni. Il movimento cooperativo emiliano-romagnolo nel 50 51

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Al tempo stesso, nel centro della regione, a Bologna, la politica cittadina assume un rilievo nazionale come forse mai era accaduto nella storia dell’Italia unita. Qui si succedono figure di sindaci di grande rilievo, da Giuseppe Dozza, primo cittadino per oltre un ventennio, dal 1945 al 1966 – che realizzò la strategia togliattiana di alleanza fra braccianti e ceti medi cittadini –, a Guido Fanti, a Renato Zangheri, autorevole storico alla guida della città per 13 anni, dal 1970 al 1983. Tutti comunisti, che promuovono politiche sociali avanzatissime per l’epoca, come l’assistenza sanitaria dei bambini nelle scuole, la distribuzione di medicinali, la creazione di poliambulatori per i cittadini poveri, oltre alla miriade di iniziative a favore dello sviluppo cooperativo, che fanno di Bologna il punto più alto di applicazione di un welfare moderno di servizi avanzati53. Un simbolo di sintesi fra virtù civili dei cittadini – che arrivano a esprimere un grado di partecipazione alla vita pubblica certamente fra i più alti d’Europa – e un’amministrazione efficiente e illuminata, che si pone a modello e ad avanguardia, per molti anni, in Italia e fuori d’Italia, della politica come pratica mirata alla felicità pubblica54. Felici circostanze storiche. Quella capillare spinta dei poteri locali allo sviluppo economico e alla più equa redistribuzione di redditi e servizi aveva alle spalle la lungimiranza strategica del Pci guidato da Palmiro Togliatti e da un gruppo dirigente nazionale di non comune valore. Ma essa era resa anche possibile da una congiuntura economica mondiale – siamo negli anni dei Trenta gloriosi dello sviluppo capitalistico – che si fondava esattamente sul ruolo del potere pubblico quale attore di primo piano nell’impulso e nel governo della vita economica. Alla politica, ai partiti, era concessa una possibilità – senza confronti con il passato e con il futuro – di distribuire i vantaggi del welfare presso una massa crescente di cittadini. Nel primo contesto delle politiche municipali per lo sviluppo (1945-1970), in Ridolfi (a cura di), I sindaci della Repubblica, cit., pp. 70 e ss. 53   S. Cruciani, Gli spazi della politica. La Romagna e l’Emilia rossa, dai comuni democratici alla dimensione europea, in Montanari, Ridolfi e Zangheri (a cura di), Storia dell’Emilia-Romagna, cit., pp. 43 e ss.; L. Baldissara, Mutamenti istituzionali e politiche sociali nella regione “rossa”, ivi, p. 149. Si veda più ampiamente Id., Per una città più bella e più grande. Il governo municipale di Bologna negli anni della ricostruzione (19451956), il Mulino, Bologna 1994. 54   Per avere un’idea sul grado di partecipazione politica a livello cittadino si veda il caso esemplare di Bologna in F. Anderlini, Fra rappresentanza e partecipazione (un’indagine sui consigli di quartiere), Clueb, Bologna 1985.

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ventennio dopo la guerra, ha ricordato Ridolfi: «Sindaci e giunte municipali si contendevano il consenso dei cittadini sul terreno delle maggiori opportunità di benessere offerte ad un largo ventaglio di ceti sociali, non più elitari e non esclusivamente di natura classista»55. Non è possibile dar conto in poche pagine dei processi storici davvero originali che si sono realizzati in questa regione nella seconda metà del Novecento e che hanno avuto quale esito quell’organizzazione complessiva della società che va sotto il nome di modello emiliano. È fuor di dubbio, tuttavia, che le strutture della lotta e della solidarietà di classe, anche per l’abile regia del Pci, si trasformarono in strumento di imprenditorialità diffusa, si intrecciarono con le forme spontanee dello sviluppo economico che, nei decenni dopo la guerra, si diffusero per iniziativa privata. In molte aree rurali, le vecchie e localmente radicate forme di artigianato di piccola industria evolvettero in maniera naturale verso la scala industriale, sia pure di piccole dimensioni. Come ha sottolineato Vera Zamagni: l’industria che si afferma in Emilia Romagna ha radici autoctone e si sviluppa armoniosamente dalla sua base nella “terra” locale, compresa la ceramica, la seta, la canapa, lo zucchero, la paglia, il truciolo. Per questo motivo e per l’esistenza delle sue numerose città che si erano formate nel corso dei millenni, l’industrializzazione dell’Emilia Romagna è diffusa e non accentrata e tende a preferire la dimensione piccola e media, più capace di adattarsi alla domanda diversificata che proviene dall’ambiente e alla disponibilità anch’essa diversificata di materie prime e prodotti agricoli56.

Soprattutto a partire degli anni Settanta, la geografia industriale della regione si va articolando per distretti, con alcune specializzazioni di pregio, come quelle dell’industria alimentare, che ha nelle province di Parma e di Modena dei luoghi simbolo di successo e di prosperità57. L’industria diffusa, espressione originale della cosiddetta Terza Italia – che in quella fase sembra incarnare una terza via    Ridolfi, Introduzione, in Id. (a cura di), I sindaci della Repubblica, cit., p. 11.    V. Zamagni, Una vocazione industriale diffusa, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Emilia-Romagna, cit., p. 129. Si veda più in generale P.P. D’Attorre e V. Zamagni (a cura di), Distretti, imprese, classe operaia. L’industrializzazione in Emilia Romagna, Franco Angeli, Milano 1992. 57   Zamagni, Una vocazione industriale diffusa, cit., p. 151. 55 56

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del capitalismo italiano nelle regioni dell’Italia centrale –, trova in Emilia forse l’espressione più avanzata e più esemplare58. Anche il lavoro operaio di fabbrica o quello nei servizi trova nelle strutture della cooperazione vantaggi che è difficile rinvenire in altre regioni. Si pensi, ad esempio, al ruolo svolto dalle cooperative della ristorazione collettiva, dislocate in posti strategici, che consentivano una fruizione quotidiana ai «lavoratori appartenenti ai più vari settori produttivi e diversamente costretti o a consumare i pasti nelle loro sedi di lavoro o a uno stressante pendolarsimo da e verso le proprie abitazioni»59. Tale evoluzione economica della regione costituisce per un verso una sorta di via politica moderata al socialismo da parte del Pci. Sotto le insegne e le tradizioni del comunismo si afferma di fatto una politica socialdemocratica che istituisce strutture di welfare nei territori e accresce il potere democratico dei cittadini in una società di capitalismo localmente temperato60. Gli elementi che concorrono a fondare un modello sociale per tanti aspetti irripetibile, che arriva al suo culmine negli anni Settanta, sono stati sapientemente descritti da Fausto Anderlini: «il culmine del processo di trasformazione urbano-industriale, è il risultato della combinazione di quattro elementi strutturali: l’economia diffusa di piccola impresa, il sistema cooperativo, la partecipazione associativa, il welfare locale. Altrimenti detto, di un dosaggio originale, nella formazione economicosociale, di mercato, capitale sociale, regolazione politica»61. Com’è noto, tale architettura a un certo punto si incrina e tracolla. Soprattutto a partire dagli anni Ottanta, le reti cooperative tendono ad evolvere nella gestione pura e semplice di interessi eco58   Per una analisi sociologica generale, A. Bagnasco, La costruzione sociale del mercato. Studi sullo sviluppo di piccola impresa in Italia, il Mulino, Bologna 1988. Sulla formazione storica nel contesto dell’economia nazionale, V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1990), il Mulino, Bologna 2005. Sulla cesura storica segnata dal fenomeno e sulle possibilità di sviluppo, M. Priore e C. Sabel, The Second Industrial Divide: Possibilities for Prosperity, Basic Books, New York 1984. Ma la letteratura è ovviamente sterminata. 59   R. Bernardi e A. Orienti, Il cooperativismo in Emilia-Romagna, Patron, Bologna 1987, p. 17. 60   F. Anderlini, Terra rossa. Comunismo ideale socialdemocrazia reale: il PCI in Emilia Romagna, Istituto Gramsci, Bologna 1990. 61    Id., Il voto, la terra, i detriti. Fratture sociali ed elettorali. Dall’alba del 2 giugno 1946 al tramonto del 25 febbraio 2013, Editrice Socialmente, Bologna 2013, p. 274.

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nomici diffusi, che hanno senza dubbio radici popolari e soddisfano interessi di massa, ma che sempre meno si saldano alla conflittualità anticapitalistica del Pci. Esse comunque non sembrano destinate ad espandere oltre i confini regionali il modello di società da cui provengono. Nei decenni successivi si assisterà all’esaurimento progressivo del modello emiliano, soprattutto di quell’originale mescolanza di conflittualità solidale dal basso e di capacità di impresa, che teneva insieme politica e gestione, solidarietà e attività economica, progetto di una società più avanzata e amministrazione degli interessi immediati. Le cooperative, e soprattutto, dopo le scissioni del dopoguerra, la maggiore di esse, la Legacoop, puntano sempre più decisamente ad assumere una logica di gestione manageriale, facendo dell’efficienza economica nell’amministrazione delle imprese il criterio guida dominante. La scomparsa del grande orizzonte politico tenuto aperto per decenni dal Partito comunista e dal suo gruppo dirigente costituisce una perdita fondamentale. Sicché non stupisce se agli inizi del nuovo millennio le cooperative continuino ad essere apprezzate dai cittadini, per il ruolo economico-sociale che svolgono, mentre i loro capi – ricorda ancora Anderlini – «per ideologia e retribuzione» fanno di tutto per assomigliare a dei manager privati62. Naturalmente, a tale linea, sotto il profilo strettamente economico, si deve riconoscere un successo strategico indubbio. Com’è stato ricordato in un saggio di valutazione complessiva dei risultati economici recenti: «Nell’insieme, dal 1977 al 2004, il fatturato delle imprese aderenti a Legacoop risulta aumentato di oltre tre volte (a prezzi costanti) con un tasso annuo del 4,45%; i soci si sono moltiplicati di oltre quattro volte, gli occupati di circa due volte e mezza; la dimensione media delle cooperative, sia in termini di fatturato che di addetti, è anch’essa cresciuta di circa l’80%»63. Un successo fuori dal comune, ma un successo puramente economico, di mero incremento del ritmo di accumulazione di un capitalismo cooperativo che non trae più ispirazione dal basso e che non genera gli effetti di egalitarismo sociale che erano nella sua vocazione originaria e nella

62   Ivi, p. 353. Il Partito democratico nel 2010 si è ridotto, in Emilia Romagna, a 100 mila iscritti, a fronte dei 400 mila del già declinante Pci della fine degli anni Ottanta (ivi, p. 352). 63   V. Zamagni e E. Felice, Oltre il secolo. Le trasformazioni del sistema cooperativo. Legacoop alla fine del secondo millennio, il Mulino, Bologna 2006, p. 18.

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sua tradizione. Legacoop è ormai un gigante economico che fattura il 7% del Pil italiano64. Di certo, si tratta di un capitalismo particolare, che continua a svolgere funzioni sociali importanti, soprattutto nella regione d’origine. E d’altra parte non può essere questa la sede di una valutazione storica circostanziata, ma le linee di tendenza sono evidenti e anche storicamente accertate. Ad esempio, all’interno di tale nuova ratio imprenditoriale, non sembrano mutare molto le logiche dello sviluppo squilibrato del capitalismo italiano, sia per quanto riguarda il Sud Italia, dove Legacoop genera poca occupazione, sia in relazione alla presenza delle donne nelle strutture dirigenziali, ancora largamente insufficiente, salvo che nei servizi culturali e del turismo65. In realtà, sempre di più, a mano a mano che le ideologie e le tradizioni politiche che ne hanno ispirato la nascita e la condotta per quasi un secolo si vanno sfaldando, il mondo della cooperazione tende ad agire come un comparto dell’economia capitalistica nazionale e globale. Scolora l’antagonismo sociale del partito di massa che l’aveva sin lì guidato e l’istituzione viene progressivamente assorbita nella “normalità” classista del mercato. Valga per tutti il caso della Cooperativa muratori & cementisti (Cmc). Nata a Ravenna nel 1901, tale società è diventata una impresa edilizia di dimensioni internazionali, e oggi partecipa al progetto della costruzione del tunnel in Val di Susa per la linea dell’alta velocità Torino-Lione. Un progetto inutile, salvo che per le ditte costruttrici, destinato a sconvolgere la vita della popolazione locale, a sovvertire l’habitat di un territorio che già possiede una linea ferroviaria internazionale, attraverso il traforo del Frejus e un tunnel percorso dall’autostrada66. La Cmc è coinvolta in varie vicende giudiziarie di cui ci informa la cronaca recente e su cui non siamo in grado di    F. Fabbri, Introduzione, L’Italia cooperativa, cit., p. 12.    Zamagni e Felice, Oltre il secolo, cit., pp. 206-208, p. 213 e pp. 218-219. Sul passaggio dalla cooperazione all’impresa, G. Sapelli, La cooperazione come impresa: mercati economici e mercati politici, in Id. (a cura di), Il movimento cooperativo in Italia. Storia e problemi, Einaudi, Torino 1981, pp. 253 sgg. 66   I.L. Mercalli e C. Sasso, Le mucche non mangiano cemento. Viaggio tra gli ultimi pastori di Valsusa e l’avanzata del calcestruzzo, Società Meteorologica Subalpina, Torino 2004; I. Cicconi, Il libro nero sull’alta velocità ovvero il futuro di Tangentopoli diventato storia, Koinè Nuove edizioni, Roma 2011. Si veda ora l’ampia ricostruzione di questa vicenda in Wu Ming, Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte No-Tav, Einaudi, Torino 2016. 64 65

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esprimere giudizi. Ma, per noi, il far parte di un progetto di sconvolgimento di un territorio contro la volontà di un intero popolo è sufficiente per esprimere valutazioni. Perché lo storico, come ricordava Marc Bloch, può e deve formulare giudizi, che non sono quelli dei tribunali, ma hanno un fondamento etico-politico. E dunque possiamo valutare come immorale e politicamente sbagliata tale scelta. Ma da storici possiamo anche aggiungere che in tale episodio, sotto il profilo simbolico, rinveniamo il punto più alto del pervertimento di una storia gloriosa, lo snaturamento alla radice di una istituzione che un tempo aveva altri orizzonti ed era nata per altri fini.

CONCLUSIONI PROGRAMMATICHE Al lettore attento, che ha seguito fin qui la vicenda di queste quattro istituzioni della nostra storia, non sarà certo sfuggito un dato negativo che le accomuna tutte: la loro presente usura e degradazione. Le trasformazioni degli ultimi decenni dell’economia capitalistica internazionale, le ideologie che le hanno accompagnate e favorite, sembrano aver inferto un colpo decisivo ai nostri patrimoni secolari, prodotto danni forse irreparabili. Eppure tale quadro sommario e sconsolato è anche insufficiente e, per certi versi, non del tutto corrispondente al reale stato dei fatti. Intanto qualche rapida riflessione sull’agente storico delle trasformazioni compiute e di quelle in atto consente di osservare più da vicino le questioni. Davvero possiamo spiegare tutto quanto è accaduto ai nostri territori evocando le grandi e generiche correnti della storia globale, che tutto travolge e piega ai suoi ciechi voleri? Certamente, oggi arrivano a compimento logiche di assoggettamento della natura e della vita umana alle dinamiche del capitale che erano implicite sin dalle origini, e che ne costituivano, per così dire, una sua intima necessità. Le espressioni quasi profetiche scolpite da Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista del 1848, che prevedevano quali esiti dello sviluppo capitalistico «Il continuo sconvolgimento della produzione» per cui «Si volatilizzano le immobili gerarchie sociali, viene profanato tutto ciò che vi è di sacro», e addirittura «La borghesia ha strappato il tenero velo sentimentale ai rapporti familiari, riducendoli a un puro rapporto di danaro» (auf ein reines Geldverhältnis zurückgeführt), parlano un linguaggio ormai consueto alla nostra esperienza di contemporanei1. Ma perché queste espressioni radicali sul capitalismo ai suoi 1   K. Marx e F. Engels, Il Manifesto del partito comunista (1848), trad. it. di D. Losurdo, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 9-10.

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esordi oggi suonano tanto più veritiere di trenta e quaranta anni fa? Perché Marx ritorna così attuale, e i suoi affondi analitici sulle intime strutture di questo modo di produzione lampeggiano oggi di verità visionaria? Noi che coltiviamo la fede nella capacità di trovare un punto fermo nel caos, un bandolo di interpretazione nel groviglio confuso delle vicende, grazie all’orizzonte che il mestiere di storico ci aiuta a dischiudere, crediamo che ci sia una spiegazione comprensibile. È la stessa ragione che sembrava aver messo Marx in soffitta e che costituisce un paradossale deficit previsionale dello stesso Marx: la capacità delle masse operaie e popolari di modificare a proprio vantaggio le strutture del capitalismo e la composizione e finalità dello Stato, anche senza e prima di rovesciare radicalmente l’ordine capitalistico. Lo strumento storico che ha permesso di frenare la modernità nichilistica del capitale e ne ha limitato la distruttività sociale è stato il conflitto sociale organizzato e di massa. La capacità oppositiva di un antagonista sociale, formatosi nella corrente dello sviluppo, che ha frenato e filtrato le forze dissolventi insite nella logica accumulativa del capitalismo. Il movimento operaio organizzato, la formazione dei grandi partiti di massa, la diffusione del socialismo e del comunismo. Da qui, dall’azione decennale di tali soggetti, sono nati in Occidente la politica moderna, lo Stato di diritto, il welfare, la società del benessere. Perfino una certa capacità di contenere i danni ambientali che altrove sono stati e continuano ad essere devastanti2. Ed è esattamente il crollo di questa secolare capacità di opposizione e di conflitto – partiti di massa, lotte organizzate con finalità collettive e in grado di conseguire sintesi politiche generali –, in Italia come altrove, che ha consentito il dilagare del modello di società informe e senza prospettive del nostro tempo. Benché non sia questa la sede per bilanci così generali, crediamo sia incompleta l’analisi che assegna solo al dilagare del neoliberismo, trasformatosi nel cielo uniformemente grigio del pensiero unico, la responsabilità di tutto. E non è solo, almeno guardando le cose dall’Italia, quella “nuova ragione del mondo” che è diventata l’ide2   Ma questo in ragione anche di una grande tradizione di diritto pubblico e grazie al potere coloniale dell’Europa, J. Radkau, Natur und Macht. Eine Weltgeschichte der Umwelt, C.G. Beck, München 2000, pp. 216 e ss.

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ologia sociale dominante del capitalismo attuale3. Dentro questo fronte, certamente fondamentale per comprendere i processi in atto, bisogna anche saper riconoscere una logica di capitolazione che ha ispirato tante scelte e comportamenti da parte delle classi dirigenti più illuminate e dello stesso antagonista storico: i partiti storici della sinistra. Col loro declino si sono disseccate le fonti che alimentavano il progetto anticapitalistico generale. Il senso del procedere storico è andato perduto. E così anche la creatività sociale, che ispirava il pensiero politico, si è spenta nella routine, nella gestione delle cose esistenti, nella conservazione dei risultati raggiunti. Ce lo raccontano nitidamente anche le vicende recenti che riguardano le nostre quattro istituzioni. Oggi, i nostri patrimoni storici, radicati nei loro territori, costituiscono il laboratorio in cui saggiare la validità delle nostre congetture. Noi abbiamo infatti già potuto osservare come la ricchezza unica della nostra agricoltura e quindi la varietà delle nostre cucine, non si sia impoverita con l’avvento dell’agricoltura industriale e come, almeno fino a un certo punto, abbiano a lungo convissuto insieme, rafforzando i reciproci dinamismi. È invece cedendo alla progressione radicale della penetrazione capitalistica, che la varietà, la biodiversità, la ricchezza multiforme della nostra agricoltura si piegano all’uniformità monoculturale della produzione industriale. È il venir meno della capacità di contrasto da parte della politica, che capitola di fronte alle forze spontanee del cosiddetto mercato (vale a dire alle potenze finanziarie ed economiche dominanti), che impedisce la resistenza, la salvaguardia, la valorizzazione dei beni ereditati dalla nostra storia. E quindi anche il senso di direzione verso il futuro. È infatti l’imperfezione del capitalismo, sono gli spazi sottratti alla completa mercificazione che garantiscono la tenuta di aree vaste di civiltà. Peraltro, sappiamo bene che le agricolture legate ai territori non sono dei fortilizi chiusi, delle isole felici e autosufficienti. Esse devono navigare nelle correnti del mondo. E qualche abile imprenditore, meno culturalmente sguarnito di altri, ne ha fatto le proprie fortune. Ma questa necessità oggi è diventata solo più cogente e temporalmente accelerata, non è certo una novità. Per secoli essa ha costituito una sfida che le nostre agricolture hanno già affrontato e 3   Ci riferiamo al testo di P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013.

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vinto. E del resto, non è la nostra agricoltura, come abbiamo cercato di mostrare, il risultato di tali sfide? Non è l’agricoltura italiana, con le sue trasformazioni in beni alimentari, da un paio di millenni, il risultato di un continuo dialogo e interscambio col mondo? Ma tale scambio è sempre stato governato, accolto dalla consapevolezza di possedere un patrimonio da non disperdere. Un presidio già conquistato da cui affrontare il conflitto e le sfide. E non dovrebbe esser questo il grande compito della politica di oggi? Noi dobbiamo difendere la tradizione della nostra biodiversità, tutelando non solo le colture, ma anche i contadini, che continuano a capitolare, stretti nella morsa dell’agrindustria e delle grandi catene distributive. Occorre tutelare e promuovere l’agricoltura biologica, senza pesticidi, di qualità, organizzandone la distribuzione, sia per migliorare l’alimentazione popolare e la cucina, sia per diminuire la pressione delle attività produttive sugli habitat. Perciò appare stolta la posizione di coloro i quali vedono un fronte avanzato, scientifico e produttivo, negli ogm. Al contrario, è avanzata e progressista la posizione della tradizione italiana, che nutre ben più alta ambizione: garantire abbondanza, biodiversità e qualità di beni, senza inquinare i nostri habitat. Essa va ben oltre i limiti dell’agricoltura industriale, di cui gli ogm sono l’ultimo frutto. Legate al territorio e alle forme del paesaggio, le nostre agricolture costituiscono un patrimonio storico, vale a dire un bene industrialmente non riproducibile. Come per l’opera d’arte, che conserva l’“aura” della sua unicità, nell’epoca – ricordava Walter Benjamin – della sua riproducibilità tecnica, anche i nostri beni agricoli e le cucine che ne derivano andrebbero considerati come opere a loro modo uniche, frutto di un passato storico che nessuno può più ricreare. Non è certo senza un profondo significato se il nostro paesaggio è stato per secoli fonte di ispirazione artistica e se la nostra tradizione pittorica ha costituito a sua volta una fonte ricca e preziosa per la sua storia4. Se lasciassimo libertà al cosiddetto mercato, la nostra agricoltura, con i suoi caratteri storici, in pochi decenni verrebbe distrutta, e così il suo paesaggio, sostituiti da una 4   A. Saltini e M. Strameli, L’agricoltura e il paesaggio agrario nella pittura dal Trecento all’Ottocento, Prefazioni di A. Paolucci e F. Scaramucci, Octavo Franco Cantini Editore, Firenze 1995, che ricordano l’opera pionieristica di E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961, fondata prevalentemente su fonti iconografiche.

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produzione di beni seriali e uniformi e dalle piatte geometrie delle monoculture. Ma sia chiaro: non si rivendica qui, semplicemente, la difesa delle cittadelle locali dei prodotti tipici. La tutela del nostro patrimonio agricolo e alimentare va concepita come parte strategica di un conflitto anticapitalistico in grande stile, deve assumere tale orizzonte generale, non solo perché così coinvolge in un fronte vasto produttori e consumatori, popolazioni rurali e cittadini. Chi vuole difendere la nostra cucina, la sua varietà e ricchezza, non solo deve sapere che essa muore senza la nostra agricoltura “contadina”, se perde la sua biodiversità millenaria a favore della standardizzazione seriale dei prodotti, se recide i legami con gli habitat originari in cui si è formata. Chi vuole godere la felicità di un cibo sano e buono deve essere anche consapevole di trovarsi in un fronte di conflitto anticapitalistico, di star difendendo per sé e per gli altri un bene che si può perdere per sempre. Certo, non saranno l’espansione dell’agricoltura biologica, la difesa dei redditi contadini, l’abbondanza del cibo non contaminato a sovvertire le strutture del capitalismo. Occorre ben altro, lo sappiamo. Ma intanto l’azione individuale che si inscrive in tale prospettiva vede coincidere il fine del proprio personale benessere con il mezzo nobile di una lotta politica di lunga durata a favore dell’interesse generale. Impegno politico e felicità individuale si toccano. Il solitario e disperso edonismo individualistico della società liquida trova una sua superiore realizzazione nel perseguimento di un godimento che può essere solo comune. Al tempo stesso, difendere nei territori spazi alternativi di produzione e consumo non dominati dall’ossessione del profitto, costruire aree di gratuità, di dono, di cooperazione solidale vuol dire far fiorire nuove logiche sociali dall’interno stesso dell’economia di mercato. Il capitalismo non si sovverte con un moto insurrezionale, con la presa di un qualche Palazzo d’inverno. Non che, naturalmente, «li spettacolosi mutamenti della politica», per dirla con Cattaneo, non siano possibili e augurabili. Sarebbe anzi auspicabile che i venti dei grandi movimenti collettivi tornassero a soffiare per le strade del mondo a scala finalmente globale. Ma la storia non si lascia incasellare in facili schemi di previsione. D’altra parte, i conflitti a scala locale non sono recinti chiusi, ma avamposti che possono preparare più vasti scenari. Essi possono avviare processi di erosione molecolare, infiltrarsi nel corpo del capitalismo con

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le loro correnti vitali – nel nostro caso spesso ereditate dal passato – che confliggono con la sua crescente miseria unidimensionale. È già accaduto in passato, per il sovvertimento di altri modi di produzione. Occorre forse ricordare che, per millenni, l’economia di mercato ha convissuto con la schiavitù e la servitù della gleba, con le corporazioni, con la società feudale? È necessario rammentare che per secoli i modi di produzione capitalistici son venuti crescendo entro le strutture dell’autoconsumo e dentro i ceppi istituzionali dell’antico regime? Solo risalendo alle cause storiche, secondo un modulo di pensiero che è fonte perenne della razionalità umana, si afferra il presente, l’immaginazione sociale si riaccende e diventa creativa, intravede altri mondi possibili oltre a quello unidimensionale e piatto che il potere impone e il conformismo organizzato di massa tenta di trasformare in metafisica mediatica. La visione anticapitalistica consente di trovare spazi locali e formule sociali capaci di coesistere con l’economia di mercato, ma in grado di prefigurare altre logiche, traiettorie e relazioni diverse da quelle del puro scambio di merci e danaro. Il capitalismo è un modo di produzione penetrato storicamente nel corpo della società, occorre aprire dov’è possibile varchi, vie d’uscita, nuovi percorsi che ne prefigurino la dissoluzione. Come è accaduto per le vecchie formazioni sociali che lo hanno preceduto. Anche la città, che ha dovuto allargare i propri confini, ospitare una popolazione crescente, rispondere nel corso del tempo a standard mutevoli di bisogni, non è del tutto capitolata di fronte agli urti, anche violenti, della modernità. Ha creato nuove forme urbane, non sempre apprezzabili, ma ha risposto a bisogni sociali non elitari, e spesso ha conservato la bellezza. In Italia, ovviamente, l’estrema varietà delle vicende urbane delle sue mille città in età contemporanea è strettamente legata alla diversa qualità culturale delle loro élites dirigenti. E che cosa, in tal caso, ha salvato i nostri centri storici dalla distruzione, dal processo di valorizzazione del capitale fondiario (che avrebbe volentieri trasformato tante piazze ed edifici secolari in anonimi condomini) se non la resistenza dei cittadini? La resistenza culturale e politica, il senso del valore non mercificabile del patrimonio ereditato, l’orgoglio di un primato di civiltà che non si piega alla logica del profitto a tutti i costi. Solo negli ultimi decenni abbiamo assistito a devastazioni senza precedenti. Il territorio diventato una cava di dissennato saccheggio. E anche in questo caso

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la domanda che s’impone è: che cosa ha reso possibile tutto questo se non una ratio di capitolazione? Non solo l’avanzare del pensiero unico, questa malattia mentale dell’estrema modernità, ma anche il tracollo culturale delle classi dirigenti ha reso possibili i massacri territoriali recenti. E l’assenza di un grande antagonista politico, la diserzione della resistenza. Ma non è possibile reagire? Noi, abitanti di una Penisola dove la città è, per così dire, nata, dove ha assunto nei secoli forme di varietà, di splendore urbanistico e civile senza comparazioni, noi non abbiamo niente da dire sul futuro di queste forme storiche dell’organizzazione sociale? Dobbiamo cianciare di sviluppo, di città metropolitane, di grattacieli, di opere da archistar, di smart cities, vale a dire – come scrive Franco Farinelli – di «“città furbescamente alla moda” da gestire secondo programmi elettronici volti alla trasformazione in senso aziendale della città stessa»?5 E taciamo del tesoro che abbiamo ereditato, nascondiamo la potenza culturale intatta che ancora conservano le forme di organizzazione degli spazi da noi inventate e abitate per secoli? Non abbiamo niente da dire sulle aree urbane invase dalle automobili, sulla necessaria liberazione delle piazze, i nostri salotti pubblici en plein air che un tempo costituivano il luogo per eccellenza della civitas? Dobbiamo ancora accettare che sia l’economia a dettare le nuove regole del diritto negli spazi del nostro abitare?6 E anche in questo caso è evidente che possiamo organizzare il nostro antagonismo, far montare l’onda del conflitto non solo difendendo sui luoghi, nei centri storici e nelle periferie, nei borghi e nei centri nuovi, le ragioni locali della città. Ma possiamo farlo alzando lo sguardo su un orizzonte più vasto. È evidente infatti che se vogliamo difendere la città non possiamo limitarci alle sue pietre. Sebbene, anche in tale ambito, si vanno segnalando fenomeni antagonistici di nuovo tipo, come la Public Art, di cui è parte la Street Art, che opera sul volto degradato della città e che sfugge alla logica mercificatrice dell’econo5   F. Farinelli, Bologna, in I. Agostini e P. Bevilacqua (a cura di), Viaggio in Italia. Le città nel trentennio neoliberista, Postfazione di P. Berdini, Manifestolibri, Roma 2016, p. 26. 6   P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Introduzione di S. Settis, Donzelli, Roma 2014.

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mia dominante7. E senza dimenticare la vasta opera di restauro che si presenta davanti a noi. Un ripristino delle forme e degli spazi degradati – ricordava Pier Luigi Cervellati, riecheggiando le geniali intuizioni di Antonio Cederna – che si applica alla città «come all’opera d’arte». Non solo perché occorre considerare il centro storico come «un unico monumento», ma perché viviamo in un’epoca in cui «c’è bisogno di passato in quanto passato. Dell’ambiente antico interessa proprio il fatto che è antico e possiede una dimensione spirituale che l’architettura moderna non è ancora in grado di darci». Conservare non è un ritorno al passato. «È un ipotesi di assetto urbano dell’avvenire»8. Ma oggi dobbiamo far rivivere innanzi tutto l’anima della città e la sua anima è la società. E qual è la più grande vittima del capitalismo dei nostri anni se non la società, dissolta nell’acido del mercato e nei veleni delle sue patologie individualistiche? Appare perciò evidente che a simile ambiziosissimo scopo neppure ci si accosta, senza assumere un radicale orizzonte anticapitalistico, se si rimane a osservare il deserto che avanza come un processo naturale, simile al vento e alla pioggia. E invece, in ogni momento della nostra vita, occorre ricordare che l’intima necessità del capitale nella nostra epoca è trasformare ogni lembo del mondo vivente in merce, ogni umana relazione tra persone in rapporto di scambio, ogni senso della vita nell’univoca bulimia di un processo accumulativo. Dunque, anche per la difesa della città, della sua storia come della sua intima bellezza umana, occorre allestire un ampio fronte anticapitalistico. Occorre organizzare un nuovo senso comune, che faccia coincidere il recupero della socialità urbana, la felicità dello stare insieme, con il conflitto anticapitalistico più generale. Che cosa, di fatto, impedisce oggi la rivitalizzazione delle piazze, che cosa trasforma le nostre strade, gli spazi urbani nel regno della fretta e delle solitudini che si sfiorano, se non l’assoggettamento totalitario dei cittadini al lavoro? Che cosa fa della città un immenso ingorgo di traffico, dove non c’è più posto per l’ozio, per la passeggiata senza meta, per i crocicchi improvvisati, per l’ascolto della musica 7   Sulla Public Art di origine anglo-americana e sulle possibilità di recupero degli spazi pubblici in Italia, A. Mazzette (a cura di), Pratiche sociali di città pubblica, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. ix e ss. 8    P.L. Cervellati, La città bella. Il recupero dell’ambiente urbano, il Mulino, Bologna 1991, pp. 71 e 74. Corsivo nel testo.

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ambulante, per la chiacchiera svagata col passante sconosciuto, per la contemplazione della bellezza degli edifici, del colore del cielo? Il lavoro e il suo tempo che ruba la giornata, l’ansia della prestazione lavorativa che tutti ci schiaccia. E al tempo stesso la corrispondente compulsione consumistica. E siamo così al cuore del più lacerante paradosso della nostra epoca: una società ipertecnologica, opulenta, sommersa da beni di consumo, ma ancora incatenata a una organizzazione del lavoro quotidiano di stampo ottocentesco. È così che muore l’anima della città, mentre si tenta vanamente di rianimarla surrogando l’innovazione sociale con quella tecnologica. Ma oggi potremmo realizzare la previsione di Keynes (e prima ancora di Marx) di dimezzare l’orario di lavoro. Sarebbe risolto il problema crescente e senza sbocchi della disoccupazione di massa, conquisteremmo tutti una condizione di più avanzato benessere e la vita in città rifiorirebbe e insieme ad essa una nuova possibile bellezza civile9. Non si potrebbero svolgere considerazioni analoghe per la canzone napoletana? In questo caso, abbiamo addirittura visto che proprio con la nascita di una industria editoriale della canzone, a Napoli, fiorisce la tradizione melodica classica. Una pagina culturale impareggiabile nella storia della musica. E abbiamo assistito, dopo la seconda guerra mondiale, all’esplosione di nuovi protagonisti, singoli o in gruppo, in grado di dialogare e contaminarsi con altre tradizioni e tendenze, trovando nuove forme di espressione e di ispirazione. E perché è stata possibile una simile rinascita se non per la capacità degli eredi di una grande tradizione di sentirsi protagonisti, alla pari con gli altri attori della scena mondiale, figli di una storia per nulla minore, in grado di fronteggiare uno scenario sempre più vasto? Ma oggi neppure a Napoli si canta più per le strade. I luoghi della città sono diventati spazi per transitare, per andare da qualche parte, non certo per cantare passeggiando o suonare la chitarra, per puro diletto, in un canto di strada. Il disciplinamento capitalistico, introiettato anche dai napoletani come una sorta di pudore civile, fa percepire come stravagante un simile comportamento. E non è dunque evidente che anche in questo 9   Sul tema si veda ora M. Craviolatti, E la borsa e la vita. Distribuire e ridurre il tempo di lavoro: orizzonte di giustizia e benessere, Prefazione di S. Fassina, Ediesse, Roma 2014.

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caso un nuovo spazio cittadino per la musica e per la canzone si conquista con un ethos anticapitalistico, capace di anteporre le ragioni della vita e dello stare insieme a quelle ossessive del produrre e del consumare? D’altro canto – sia detto qui di sfuggita – non è la camorra, che inquina la vita cittadina e ha infiltrato perfino la sua tradizione musicale, un surrogato degenerato e criminale dell’etica e dell’arraffare capitalistico? Ma anche in questo caso appare esemplare la possibilità che ha la musica, con la sua logica antiutilitaristica, di puro godimento estetico, di contrapporsi all’irreggimentazione capitalistica della vita cittadina. La musica e il canto sono linguaggi universali, trascendono nazioni, classi e razze, e possono esplodere nelle strade e nelle piazze, per iniziativa gratuita di singoli e di gruppi, senza alcun altro scopo che di godere e di trasmettere il godimento dell’ascolto. Diffondere, organizzare presidi di musica negli ambiti più diversi della città, può suonare come uno sberleffo eversore nei confronti della vita amministrata che tutti subiscono. Smaglia in qualche punto la rete che tiene le persone intrappolate nei propri ruoli di lavoro. Può contribuire a far diventare visibile l’imbestiamento quotidiano di uomini e donne che corrono dietro ordini invisibili, ormai incapaci di scorgere le fattezze della città in cui consumano la propria vita. Musica e canto fanno scorrere un tempo parallelo a quello del produrre e consumare, interrompono il flusso replicativo dell’andare e venire tra casa e lavoro, possono tornare a mostrare che gli spazi cittadini non sono solo mezzi di produzione per nuove merci e servizi, ma posseggono, potenzialmente incontaminato, il loro valore d’uso civile, luogo di godimento della felicità pubblica10. La tradizione associativa dell’Emilia Romagna, come le altre istituzioni, conferma, con la sua recente parabola, le ragioni del nostro argomentare. Con il venir meno dell’antagonismo anticapitalistico essa ha, certo, conseguito un rilevante successo economico, ma a prezzo della perdita delle sue virtù originarie. Essa ha cessato di espandere la sua potenza di coesione civile, di egalitarismo solidale. 10   Per secoli, del resto, la città è stata il «luogo deputato della festa» (M. Fagiolo dell’Arco, La festa e la città. I luoghi, i simboli, le macchine, in Id., Le forme dell’effimero, in Storia dell’arte italiana. Parte Terza. Situazioni momenti indagini, IV, Forme e modelli, Einaudi, Torino 1982, p. 215).

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Le cooperative fanno buoni affari dentro lo spazio delle grandi catene di distribuzione, oppure procurando buoni appalti per realizzare opere pubbliche. E tuttavia, non appare in piena luce che esse potrebbero pur sempre riprendere il proprio originario cammino, dare un impulso straordinario alla modernizzazione solidale della nostra economia, se riscoprissero la storia da cui sono nate? Potremmo anzi con sicurezza affermare che tra le quattro istituzioni storiche del nostro Paese, quest’ultima è senza dubbio quella che più facilmente potrebbe ritornare alle sue origini, farsi vettore di un nuovo corso della vita italiana, diventare l’asse strategico di un progetto sociale decisivo per l’avvenire del nostro Paese. È davvero singolare che nessuno, in Italia, ne abbia mai fatto pubblico cenno. Eppure, perché non ci siamo finora domandati, con sdegnato stupore, come sia possibile che nelle nostre campagne si sia ripristinata una nuova forma di schiavitù, migliaia di giovani disperati e senza tutele siano finiti e finiscono correntemente in mano a un pugno di caporali? È normale che ciò accada in Italia e soprattutto che accada nel Paese dove è fiorita una delle forme di organizzazione cooperativa del lavoro, come abbiamo visto, fra le più avanzate e potenti del mondo occidentale? I dirigenti repubblicani, socialisti e comunisti dell’Emilia Romagna hanno organizzato per almeno un secolo, con pochissimi mezzi, in condizioni territoriali, sociali e politiche quanto mai avverse, migliaia e migliaia di proletari senza lavoro. Che cosa impedisce oggi agli attuali dirigenti, dotati di mezzi imponenti rispetto al passato, ricchi di una straordinaria esperienza organizzativa, di sottrarre i giovani africani resi schiavi nelle nostre campagne, di affrancarli con forme avanzate di cooperative di lavoro? Quale ostacolo incontrano nel replicare in forme nuove, con questa giovane umanità disperata, in cerca di un reddito e di un rifugio da guerre e miseria, una esperienza che ha fatto il tessuto civile, il tratto di civiltà di una intera regione? Non si tratterebbe solo di una scelta di umana solidarietà, ma di una impresa decisiva per le sorti stesse dell’Italia. Sì, per l’avvenire del nostro Paese. È a tutti noto che la nostra popolazione invecchia con rapida progressione, e che da noi nascono sempre meno bambini. Ormai, anno 2016 dell’era volgare, in Italia sono più numerose le morti che le nascite. Così come dovrebbe essere noto che vastissimi territori della Penisola si vanno desertificando. L’abbiamo già accennato. Numerosi borghi, aree interne, vaste campagne vengono

Conclusioni programmatiche

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abbandonati dalla popolazione e sono progressivamente erosi dalla mancanza di cure, invasi dalla macchia selvatica. Perfino i nostri boschi si vanno degradando per assenza di uomini, di manutenzione e controllo. Senza una programmata inversione demografica l’Italia rischia di ritrovarsi tutta concentrata, coi suoi abitati e le sue strutture produttive e dei servizi, lungo le due fasce costiere della Penisola. Interamente esposta alle alluvioni e ai vasti processi erosivi che dall’Appennino precipitano a valle. Eppure queste aree abbandonate sono state per secoli luoghi di fiorenti economie. E possono ancora ridiventarlo. Già piccole avanguardie di giovani italiani hanno da tempo cominciato a “ritornare” alla terra. Che cosa rende oggi impossibile progettare un vasto disegno di riequilibrio demografico e ambientale fra coste e colline, fra pianura e montagna? Che cosa impedisce di rendere tanti giovani – che rischiano quotidianamente la morte per approdare sulle nostre terre – protagonisti di un vasto programma di riconversione ecologica della nostra Penisola? Che cosa si oppone a trasformare un problema demografico imponente, quello dell’immigrazione mediterranea, che non si esaurirà presto, destinato anzi a durare decenni, a sconvolgere gli assetti della nostra democrazia, in una straordinaria possibilità di redenzione economica e civile del nostro Paese tutto intero? È sufficiente che una istituzione, sorta per fini di difesa contro il mercato e lo sfruttamento capitalistico di uomini e donne, ritrovi i suoi fini originari, il suo orizzonte ideale di un tempo, per avere a disposizione il grande soggetto che serve. Un centro organizzativo in grado di guidare un ambizioso e necessario progetto, che dia alla parte migliore del Paese un nuovo scopo generale, un orizzonte dotato di senso, una capacità di intravedere linee possibili per l’avvenire.

INDICI

INDICE DEI NOMI Abbamonte, G., 131n. Abruzzese, A., 89n. Accornero, C., 101n. Agamben, G., 70n, 133n. Agnoletti, M., 61n, 65n. Agostini, I., 67n, 80n, 113n, 190n. Agostini, S., 67n. Alberti, L., 45 e n. Alberti, L.B., 78 e n, 83 e n, 92, 98 e n. Alessandro Magno, 30. Al-Idrisi, M., 34, 37, 46. Alò, P., 65n. Altobelli, A., 162. Amato, F.M., 28n. Ambrosoli, M., 26 e n, 44 e n, 58n. Amedeo, G., 122n, 135n, 136n, 138 e n. Amoroso, B., 113n. Anderlini, F., 178n, 180 e n, 191. Andreoli, B., 45n. Andrews, J., 49n. Angeles Pérez Samper, M. de los, 51n. Anselmi, S., 55n. Apicio, M.G., 27, 28 e n. Arbizzani, L., 171n, 173 e n. Argan, C.G., 73n, 86n, 92 e n, 94n. Aristotele, 75. Armiero, M., 101n. Arminio, F., 103n. Asor Rosa, A., 22n, 66, 111n. Attili, G., 114n. Avallone, G., 63n. Avellini, L., 168n. Aymard, M., 34n. Azzi Visentini, M., 87n. Babeuf, F.-N., 8. Bagnasco, A., 180n. Baioni, M., 109n, 112 e n. Baiotani, F., 73n.

Baldini, N., 167. Baldissara, L., 178n. Ballarin Denti, A., 119n. Balzani, R., 175n. Banti, A.M., 156 e n. Barbagallo, F., 125n, 146n. Barbera, G., 28n, 34n, 35n, 47n, 51n, 56n. Barberis, C., 24n, 38n, 45n, 51n. Barbiani, L., 74n, 89n. Barri, G., 90, 91n. Baruzzi, M., 31n. Bauman, Z., 15 e n, 140 e n, 154 e n. Bealer, B.K., 53n. Beatles, 148. Beato, F., 162n. Becattini, G., 16n, 66n. Beccaria, G.L., 6n. Bedon, R., 69n. Bellocchio, P., 141n. Bencivenni, M., 87n. Benevolo, L., 72 e n, 92n, 104 e n, 113 e n. Benjamin, W., 145, 187. Bennato, E., 150. Benporat, C., 41n. Berdini, P., 106n, 113n, 114 e n, 190n. Berengo, M., 38n, 88 e n, 143 e n. Bernardi, E., 57n. Bernardi, R., 180n. Bernardoni, G., 13n. Bertelli, P., 79 e n, 81 e n, 90n. Bertolino, A., 4n. Berton, A., 66n. Bettini, V., 117n, 119n, 120n. Bevilacqua, I., 95n. Bevilacqua, P., 12n, 14n, 15n, 17n, 21n, 24n, 26n, 33n, 38n, 46n, 54n, 55n, 56n, 58n, 60n, 61n, 62n, 63n, 64n,

200 105n, 110n, 113n, 117n, 142n, 144n, 162n, 164n, 165n, 166n, 176n, 190n. Biadene, G., 50n. Bianchi, B., 165n. Bianchi, E., 66n. Bianchi Bandinelli, R., 85 e n, 94 e n. Bianciardi, S., 162n. Biondillo, G., 120n. Biraschi, A.M., 23n. Biuso, S., 58n. Bixio, C.A., 124. Bloch, M., 183. Boccaccio, G., 125. Bocchi, F., 85n, 86 e n, 88n, 92n. Boggini, G., 57n. Bonalumi, F., 77n. Boniburini, I., 109n. Bonora, P., 111 e n, 112n, 119n, 120n. Bonvesin de la Riva, 77 e n. Borgna, G., 124n. Bortolotti, L., 84 e n. Boscarino, S., 98n. Bosi, L., 6n. Bottéro, J., 29 e n, 30n. Boudan, C., 29n, 48n. Bourguignon, C., 60n. Bourguignon, L., 60n. Bouvier, R., 133n. Bovio, L., 124, 128, 134, 137. Braudel, F., 23 e n, 24n, 43n, 76 e n. Bresc, H., 34 e n. Brilli, A., 72n, 80n, 131n, 144n. Broodbank, C., 25n. Brosses, C. de, 123n. Brothwell, D., 32n. Brothwell, P., 32n. Broyse, H., 93n. Bruni, L., 92n. Bruni, S., 149. Bruno, G., 137 e n. Bugatti Valsecchi, P.F., 87n. Buongiovanni, C., 125n, 130n, 131n. Byron, G.G., 72. Cabianca, V., 95n. Cacciari, M., 70n. Cafagna, L., 97n. Calvino, I., 142. Calzecchi Onesti, R., 27n. Campanella, F., 122. Campbell, R., 3. Cancila, O., 43n.

Indice dei nomi Candeloro, G., 142n. Cantalupo, P., 31n. Caparrós, M., 3n, 53n, 63n. Capatti, A., 21n, 35n, 36n, 37 e n, 39n, 42n, 53n, 62n, 64n. Caracciolo, A., 7n. Carducci, G., 168. Carena, C., 27n. Careri, E., 122n, 123n, 125n, 126n, 136n. Carlo III, re di Spagna, 132. Carosone, R., 149. Carozzi, C., 100n. Carreras, J., 123. Carro, E., 124n, 130n, 131n, 135n. Carta, M., 95n. Caruso, E., 123. Casali, L., 170n, 176n. Caserini, S., 120n. Castelnuovo Frigessi, D., 5n, 38n, 68n. Cataldi, M., 73n. Cattaneo, C., 3, 4 e n, 5 e n, 6, 11, 12 e n, 13 e n, 14 e n, 16-17, 20, 38 e n, 39, 68 e n, 69 e n, 70-71, 74, 117, 121, 128, 152, 188. Cavallari Murat, A., 98n. Cazzato, M., 82n, 87n. Cazzola, F., 38n, 55n, 160n, 161n, 163 e n, 166n, 167n, 172, 173n. Cederna, A., 104, 105n, 107 e n, 191. Cersosimo, D., 66n. Cervellati, P.L., 106 e n, 114n, 191 e n. Chiappa Mauri, L., 46n. Chiesa, P., 77n. Chiusole, A., 91 e n. Cicconi, I., 182n. Cimarosa, D., 133. Cinotto, S., 31n. Ciocca, P., 54n. Cioloş, D., 63n. Cipolloni Sampò, M., 24n. Ciriacono, S., 38n. Clementi, A., 73n. Cocucci, M., 57n. Colapietra, R., 146n. Colombati, L., 126n, 149 e n, 150 e n. Colombo, C., 49n. Columella, L.G.M., 27 e n. Commoner, B., 119n. Comoli Mandracci, V., 100n, 101n. Comparetti, D., 131n. Consolo, V., 44n.

Indice dei nomi Consonni, G., 38n, 68n, 90 e n, 112 e n, 114n. Conti, P.G., 64n. Coppola, C., 133n. Corbellini, M., 57n. Corbier, M., 28n. Corti, M., 67n. Cossentino, R., 124n, 130n, 149n, 150n. Costa, A., 167n, 168. Cottrau, G., 123n, 125, 138. Cottrau, T., 138. Cotugno, P., 146n. Covino, R., 62n. Crainz, G., 160n, 166n, 169n, 176n. Crary, J., 15n. Craviolatti, M., 192n. Crisci, G.B., 42. Crispi, F., 173. Cristoforo di Messisbugo, 41. Croce, B., 130 e n, 131n, 132 e n, 142 e n, 143n, 146, 147n. Crogi, S., 162n. Crosby, A.W., 48n. Cruciani, S., 178n. Cupani, F., 47. Currò, G., 46n. D’Ambrosio, R., 73n. D’Angelo, N., 150. Daniele, P., 150. Dardi, C., 74 e n, 89 e n. Dardot, P., 186n. D’Attorre, P.P., 169n, 176n, 179n. Dau, M., 76n. Davidson, A., 24n. De Angelis, C., 106n. De Bernardi, A., 39n, 53n, 62n, 64n. De Castro, P., 63n. De Cristofaro, A., 137. De Curtis, E., 124. De Divitiis, B., 130 e n. De Felice, R., 7n. De Filippis, F., 63n. De Filippo, P., 133n. Degli Innocenti, M., 159n, 162n, 171n, 174n, 176n. De Graaf, J., 113n. De Grazia, V., 176n. De La Pierre, S., 67n. della Rovere, G., vedi Giulio II. Della Valentina, G.L., 14n. Delle Donne, F., 130n.

201 Del Lungo, C., 59n. Del Re, M., 59n. del Tufo, G.B., 129, 135 e n, 137 e n. De Lucia, V., 104n, 105 e n, 106n, 107n, 111n, 113n. De Maio, A., 132n, 133n. De Majo, S., 146n. De Mauro, T., 124n, 147n. De Mura, E., 129n, 130n, 133n, 134n, 136n. De Seta, C., 43n, 45n, 99n, 101n, 104. De Simone, R., 126 e n, 127n, 129n, 135 e n, 136n, 149. Desplanques, H., 38 e n, 81, 82n. Diacono, P., 77 e n. Di Biagi, P., 106n. Di Capua, E., 124. Dickie, J., 21n, 35n, 36n, 37n, 38n, 39 e n. Di Giacomo, S., 122, 124, 126n, 133n, 134, 137 e n, 139. Di Mauro, L., 43n. Di Porto, A., 71n. Dogliani, P., 174n. Dolena, P., 46n. Domingo, P., 123. Donadieu, P., 66n. Donizetti, G., 138. D’Orta, M., 124n. Dosi, A., 26n, 28n, 30n, 44n. Dozza, G., 178. Duclos, C., 80n. Emiliani, V., 113n. Engels, F., 3, 184 e n. Erbani, F., 105n, 107n, 113 e n, 115n. Espinosa, E., 63n. Esposto, A., 63n. Fabbri, F., 158n, 167n, 168n, 176n, 177n, 182n. Fabbri Dall’Oglio, M.A., 41n. Faccioli, E., 33n, 38n, 40n, 41n. Fagiolo, M., 73n, 86n, 87n, 92 e n, 94n, 95n. Fagiolo, V., 82n. Fagiolo dell’Arco, M., 87n, 193n. Failla, O., 57n. Falco, L., 101n. Fanti, G., 178. Farinella, V., 94n. Farinelli, F., 190 e n.

202 Fassina, S., 192n. Federico II di Svevia, imperatore, 130. Federico, G., 58n. Felice, E., 181n, 182n. Feola, F., 124. Ferniot, J., 29n. Ferri, S., 76n. Fierro, A., 123. Filangieri, G., 7, 8 e n. Finzi, R., 153n, 169n. Fioravanti, A., 72. Flandrin, J.-L., 25n, 28n, 35n, 53n. Floridia, S., 59n. Forni, G., 23n, 24n, 27n, 57n. Franco, E., 18n. Franzina, E., 127n. Fraschilla, A., 109n. Fubini, R., 92n. Fubini Leuzzi, M., 88n. Galasso, G., 143n. Galiani, F., 6, 7n, 127 e n. Gallo, G., 62n. Galtarossa, M., 95n. Gambardella, S., 124. Gambi, L., 23 e n, 48n, 97n, 102 e n. Garcia Sánchez, E., 34n. Gaspari, O., 174n. Genovese, L., 95n. Genovesi, A., 5, 7 e n, 8. Gentilcore, D., 50n, 51n. Geymonat, L., 57n. Gibelli, M.C., 111n. Ginsborg, P., 17n. Giontella, V., 78n. Giordano, N., 84n. Giuliano da San Gallo, 72. Giulio II (G. della Rovere), papa, 72, 103. Glick, T.G., 32n. Goethe, J.W., 46n, 80 e n, 144 e n, 145. Gozzoli, M.C., 102 e n. Gramsci, A., 127 e n, 142 e n, 147 e n. Granata, E., 109n, 112n. Grano, A., 124 e n, 128n, 139n. Grano, E., 129n, 130n. Greco, F.C., 132n. Gregorovius, F., 81 e n. Grendi, E., 172n. Grigg, D., 62n. Grimal, P., 87n. Gros, P., 72n. Guarnaschelli Gotti, M., 49n.

Indice dei nomi Guermandi, M.P., 23n. Guerrini Angrisani, I., 137n. Guidoni, E., 42 e n, 43n, 74n, 88n, 89 e n, 94n. Hawkes, J.G., 3n. Hendrix, H., 125n, 142n. Hesse, H., 90 e n. Hill, C., 141 e n. Huetz Lemps, A., 35n. Hughes, J., 125n, 130n, 131n. Illy, E., 53n. Inglese, P., 51n. Insolera, I., 100n, 101 e n, 102n, 105n, 106n. Ioli Gigante, A., 43n. Isenburg, T., 165n. Isidoro di Siviglia, 87 e n. Isnenghi, M., 17 e n, 89n, 127n. Jaccarino, D., 138. Jacini, S., 54. Keynes, J.M., 192. Khadra Jayyusi, S., 32n, 34n, 35n. Kimbrell, A., 60n. Kiple, K.F., 33n. La Cecla, F., 20n. Laffargue, A., 133n. Langé, S., 87n. Laude, S. de, 141n. Lauro, A., 105, 141. Laval, C., 186n. Lecaldano, E., 8n. Le Goff, J., 29n. Lentini, R., 44n. Leonardo da Vinci, 92. Leydi, R., 134n. Ligresti, D., 43n. Long, J., 51n. Lonni, A., 64n. Lorenzo de’ Medici, 72. Losurdo, D., 8, 9 e n, 184n. Löwy, M., 145n. Lupo, S., 34n, 56n. Lutero, M., 11. Machiavelli, C., 9, 96, 107. MacNeil, J.R., 97n, 119n.

203

Indice dei nomi Macry, P., 146n. Maddalena, P., 66n, 190n. Maggi, S., 76n. Magnaghi, A., 16n, 66 e n, 67n, 75n. Mancini, F., 132n. Mancini, G., 107n. Mancuso, F., 115 e n. Mangoni, L., 18n. Mantelli, R., 48 e n, 49n, 50n. Marchetti, L., 142 e n. Marcone, A., 23n, 24n, 27n. Marino, A., 43n. Mario, E.A., 124, 128, 134, 137, 139. Marson, A., 119 e n. Martin, P.M., 69n. Martinelli, L., 110n, 112n. Martini, M., 166n, 167n, 173n. Marx, K., 10, 184 e n, 185, 192. Masaniello (T. Aniello), 146. Masella, L., 18n. Maspero, F., 29n. Massarenti, G., 169. Masulli, I., 166n. Mazzette, A., 191n. Mazzini, G., 168. Menichella, A., 98n. Menzani, T., 177n. Mercalli, I.L., 182n. Merola, A., 7n. Messadaglia, L., 33n, 49n, 50n. Messer, E., 50n. Milano, L., 29n. Mininni, M., 66n. Mintz, S.W., 35n. Modigliani, A., 92 e n. Moe, N., 144 e n. Monicchia, R., 62n. Montaigne, M. de, 93. Montanari, M., 21n, 22 e n, 25n, 28n, 29n, 30n, 31 e n, 35n, 36n, 37 e n, 38n, 39n, 40 e n, 42n, 44 e n, 53n, 168n, 171n, 178n. Montanari, T., 114n. Moore, J.W., 62n. Morandi, D., 105n. Morbelli, G., 101n. Morelli, G., 123n. Morosetti, A., 39n, 45n. Mozzillo, A., 142n, 145n. Mumford, L., 75 e n, 76 e n, 81n, 96 e n, 108 e n, 109. Munari, T., 18n.

Muratori, L.A., 6 e n. Murolo, E., 137. Murolo, R., 123, 148. Musella, M., 150. Naldini, N., 141n. Napoli Centrale, 150. Nardella, E., 124. Natoli, G., 93n. Naylor, T.H., 113n. Nebbia, G., 117n, 119n. Nenci, G., 166n. Nerone, imperatore, 130. Niccoli, V., 25n. Nicoletti, M., 117n. Novelli, G., 33n. Nuova compagnia di canto popolare, 123, 130n, 149. Orienti, A., 180n. Ornelas, K.C., 33n. Paba, G., 74n. Pacchi, C., 109n. Paisiello, G., 133. Palazzi, M., 162n. Paliotti, V., 123n, 129n, 130n, 139n, 150n. Pallotta, A., 44n. Palmieri, A., 131n. Palumbo, E., 162n. Panetta, M., 24n. Panichi, S., 94n. Paolucci, A., 187n. Parasecoli, F., 25n, 35n. Pasolini, P.P., 141 e n, 146. Pasquali, M., 172n. Pasquinacci, M., 73n. Pavarotti, L., 123. Pedrocco, G., 53n. Péhaut, Y., 53n. Peppino di Capri, 123, 149. Pergolesi, G.B., 133. Perna, T., 118n. Perrotta, M., 65n. Petrignani, M., 46n. Petrini, C., 21n, 26n, 28n, 30n, 60n, 65, 66n, 67. Petronio, 125. Picchi, G., 45n. Piccinni, G., 84n.

204 Pier de’ Crescenzi, 77 e n. Pileri, P., 120n. Pine, J., 134n, 150, 151n. Pinto, G., 44n, 46n. Piovene, G., 57 e n, 93n, 98 e n. Piroddi, E., 73n. Pisani Sartorio, G., 26n, 28n, 30n, 44n. Pivato, S., 171n. Plenizio, G., 126n, 133n. Plinio il Vecchio, 26, 29n. Poëte, M., 73 e n, 76n. Poggio, P.P., 60n, 65n, 66n. Poleggi, E., 100n. Pollard, S., 10n. Poni, C., 44n, 46n. Ponting, C., 97n. Porisini, G., 165n. Porsia, F., 46n. Portoghesi, P., 87n, 98n. Priore, M., 180n. Pucci, A., 87n. Pugliese, P., 146n. Puliga, D., 94n. Pullia, F., 28n, 29n. Radkau, J., 185n. Raho, R., 31n, 42n, 70n, 86n. Ranieri, M., 123, 149. Rebeggiani, E., 146n. Rega, L., 80n. Regoli, E., 70n. Restifo, G., 46n. Ricasoli, B., 156. Ridolfi, M., 153 e n, 156, 157n, 168n, 170n, 171n, 174n, 176n, 177n, 178n, 179 e n. Risari, E., 30n. Robespierre, M. de, 8. Robijntje Miedema, N., 93n. Robinson, M.F., 123n, 133n. Rockers, 149. Romagnosi, G.D., 12. Romani, M., 93n. Romano, M., 87 e n, 88n. Romano, R., 21, 22n. Rombai, L., 23n. Roncayolo, M., 117n. Rondinella, G., 123, 149. Rosa, S., 124n. Rossi, L., 31n. Rossi Doria, M., 46n. Rosso, M., 75n.

Indice dei nomi Roveri, A., 166n. Rubino, G.E., 45n. Ruggero II, re di Sicilia, 34, 37. Ruppel Shell, E., 113n. Russo, F., 124. Russo, S., 46n. Ruzante, 41n. Sabban, F., 28n, 29n. Sabel, C., 180n. Sacco, R., 122. Saint-Just, L., 8. Saint-Non, J.R. de, 82 e n. Salaman, R.N., 3n. Saltini, A., 27n, 57n, 187n. Salvatici, L., 63n. Salzano, E., 107n, 109n, 111 e n, 112n. Salza Prina Ricotti, E., 28n, 36n. Samperi, P., 107n. Sampietro, G., 33n. Sansa, F., 110n. Sansovino, A., 72. Sansovino, F., 79 e n, 90n. Sapelli, G., 182n. Sassatelli, G., 25n. Sasso, C., 182n. Savarese, G., 7n. Sbrizzi, N., 59n. Scalisi, L., 43n. Scandurra, E., 113n, 114n. Scannavini, R., 106n. Scaramucci, F., 187n. Scarfoglio, D., 133n. Scarlatti, A., 133. Scarlatti, D., 133. Scarpellino, S., 63n. Scialò, P., 122n, 123n, 125n, 126n, 136n. Scotto, F., 79 e n, 90n. Scrivano, P., 75n. Seller, F., 125n. Senese, J., 150. Seni, G., 114n. Sentieri, M., 49n, 50n. Sereni, E., 34 e n, 36 e n, 45 e n, 162 e n, 165n, 187n. Serianni, L., 148n. Serra-Caracciolo, F., 63n. Settembrini, L., 122n. Settis, S., 66n, 70n, 83n, 84 e n, 85n, 98, 99 e n, 106n, 114n, 115 e n, 116n, 190n. Shiva, V., 63n, 67n. Sica, P., 101n.

205

Indice dei nomi Silvestrini, M.T., 8n. Simoncini, A., 145n. Siti, W., 141n. Sitte, C., 75 e n, 76 e n, 86n. Slicher Van Bath, B.H., 44n. Smith, A., 5, 8 e n. Smith, C.T., 71n. Smith, M., 60n. Smurra, R., 85n, 88n, 92n. Solmi, F., 171n, 172n. Spanò, M., 70n. Stamilli, E., 145n. Stazio, M.L., 125n, 141 e n. Strabone, 22, 23n, 76n. Strameli, M., 187n. Sullo, F., 107 e n. Tacito, 30 e n. Tafuri, M., 92n. Tagliaferri, E., 137. Tagliareni, C., 135n. Tallini, G., 93n. Tamino, G., 60n. Taranto, N., 134. Tartini, G., 133. Tateo, F., 46n. Teti, V., 19 e n, 39n, 49n, 51n. Te-Tzu Chang, 33n. Thomas, Y., 69, 70n, 71 e n. Thompson, E.P., 172 e n. Tiepolo, G., 133n. Tilgher, A., 147. Tino, P., 23n, 24n, 46n, 58n. Tirocco, G.B., 59n. Tocci, W., 105n, 109n. Tocqueville, A. de, 142 e n. Togliatti, P., 178. Tonet, G., 23n. Toniolo, G., 54n. Torelli, M., 72n. Totò (A. De Curtis), 134. Trimani, C., 29n. Tucci, U., 44n, 46n. Turri, E., 61n, 110n.

Twain, M., 144n. Valente, I., 125n. Valente, N., 124. Vallerani, F., 61n, 110n. Varni, A., 39n, 53n, 62n, 64n, 155n, 168n. Venditti, P., 9n. Venturi, F., 8 e n. Verga, G., 102 e n. Verri, P., 7 e n. Vesco, C., 28n. Vico, G., 90, 131n. Vico Fallani, M. de, 87n. Vigueur, J.C., 93n, 94n. Villani, D., 92n. Villani, P., 146n. Vinci, L., 133. Virgilio, 49n, 131 e n. Vitruvio, 76 e n, 77n, 83 e n. Vivaldi, A., 133. Viviani, R., 124. Viviani, V., 131n, 132n, 133n. Volkmann, J., 144. Volli, U., 26n, 30n. Wann, D., 113n. Watson, A.M., 32 e n, 33n, 34n, 35n, 36 e n. Weinberg, B.A., 53n. Wieczoreck, D., 75n. Wu Ming, 182n. Zaccaria Rugiu, A., 69 e n, 70 e n. Zamagni, V., 64n, 179 e n, 180n, 181n, 182n. Zangheri, R., 36n, 159 e n, 168n, 169n, 171n, 174n, 178 e n. Zazzu, G., 49n, 50n. Zeri, F., 73, 74n, 91 e n. Zezza, M., 122. Zilli, I., 101n. Zocca, M., 73n.

INDICE DEL VOLUME

I.

A passeggio con Carlo Cattaneo

3

Cultura e felicità, p. 3 - Un modesto messaggio eversivo, p. 11 Istituzioni italiane, p. 14

II.

Agricoltura e cucina

19

Una identità paradossale, p. 19 - Le basi di una supremazia, p. 22 - La grande eredità romana, p. 26 - Gli orti arabi, p. 30 - Nuove agricolture per nuovi cibi, p. 37 - Il trionfo degli orti, p. 42 - L’ultima globalizzazione agricola, p. 47 - Scenari contemporanei, p. 52 - La grande frattura del Novecento, p. 56

III. La città, bene pubblico e comune

68

Un’incomparabile eredità, p. 68 - Quale felicità?, p. 74 - La bella natura, p. 78 - La bellezza bene comune, p. 83 - La bellezza che salva, p. 97 - La china inarrestabile, p. 102 - Oggi e per l’avvenire, p. 116

IV. Napoli, la città che si canta

121

Un sapere che dà colori al mondo, p. 121 - Il teatro dei sentimenti, p. 128 - Una egemonia popolare?, p. 134 - Un sopramondo sentimentale, p. 137 - Un provvisorio epilogo, p. 147

V.

La politica in comune. Associazionismo e cooperazione in Emilia Romagna

152

La bella politica, p. 152 - Le élites al lavoro, p. 155 - Si muovono le campagne, p. 159 - La grande trasformazione, p. 160 - Le grandi bonifiche, p. 164 - La forza del sindacato, p. 168 - Reincarnazioni del Novecento, p. 175

Conclusioni programmatiche

184

Indice dei nomi 199