Fedro. Testo greco a fronte 8845290654, 9788845290657

Il "Fedro" appartiene, secondo gli ultimi studi, ai dialoghi della tarda maturità. Due sono i temi affrontati:

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Fedro. Testo greco a fronte
 8845290654, 9788845290657

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BOMPIANI TESTI A FRONTE Collana fondata da GIOVANNI REALE diretta da MARIA BETTETINI

PLATONE FEDRO Testo greco a fronte

Introduzione, traduzione, note e apparati di Giovanni Reale Appendice bibliografica di Enrico Peroli

BO M PIA NI TESTI A FRO NTE

Introduzione IL FEDRO COME MANIFESTO PROGRAMMATICO D I PLATONE SCRITTORE E FILOSOFO, INCENTRATO SULLA PROBLEMATICA DELL’EROS E DELLA BELLEZZA, PUNTI CARDINI DELLA FILOSOFIA

1. Impianto strutturale del Fedro

ISBN 978-88-452-9065-7 www.giunti.it www.bompiani.it © 2017 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia Piazza Virgilio 4 - 20123 Milano - Italia Prima edizione a marchio Bompiani: 2000 Prima edizione Giunti Editore S.p.A.: novembre 2017 Prima ristampa: luglio 2018 Bompiani è un marchio di proprietà di Giunti Editore S.p.A.

H Fedro è un grande capolavoro, non solo nell’ambito del­ le opere platoniche, ma della letteratura greca in generale. È tuttavia piuttosto difficile da leggere e da intendere, perché implica la previa recezione di una serie di elementi storico-culturali dell’epoca di Platone e una adeguata com­ prensione della temperie spirituale della grecità classica. E negli ultimi tempi è emersa la straordinaria importanza delΓautotestimonianza di Platone nelle pagine finali del dialo­ go, con la connessa complessa problematica dei rapporti tra scrittura e oralità, che sta alla base della nuova interpre­ tazione di Platone, la quale sta diffondendosi a vari livelli. Se non si guadagnano, almeno in parte, tali elementi, del Fedro si possono gustare certe parti, che si elevano al di sopra di tutti i tempi e di tutte le culture, ma non si può comprendere il messaggio del dialogo nel suo complesso e nelle sue articolazioni specifiche. Tradizionalmente si considerava come diviso in due par­ ti: una costituita dal prologo e dai tre discorsi che si succe­ dono (uno di Lisia e due di Socrate), e una seconda, a par­ tire da 259 E, in cui torna a prevalere il metodo dialogico seguito da Platone nella maggior parte dei suoi dialoghi. Ma tale distinzione regge solo dal punto di vista forma­ le estrinseco. In realtà il dialogo presenta una specie di cli­ max ascendente, in cui ogni momento guadagna un arric­ chimento di contenuto, che porta via via sempre più vicino ai fondamenti, concludendo con la celebre preghiera del fi­ losofo, che, in modo poetico, riassume l’intero messaggio del dialogo.

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In effetti, oltre a un prologo, una conclusione e alcuni intermezzi, il dialogo si divide in cinque parti: le tre che presentano i tre discorsi e due momenti della parte dialogi­ ca. Il tutto viene presentato secondo una particolare ottica, che, per anticipo, indichiamo in sintesi. Dopo un bellissimo prologo, viene presentato il discor­ so di Lisia su Eros, composto da Platone secondo i canoni della retorica seguiti da questo autore, considerato, al mo­ mento, uno dei più grandi scrittori, se non addirittura il massimo. Tale discorso viene presentato al fine di poterlo criticare in modo sistematico, sia nei contenuti, sia nel me­ todo. Il primo discorso di Socrate viene presentato da Plato­ ne al fine di dimostrare come i contenuti del discorso di Lisia, di per sé erronei, possono essere sostenuti (natural­ mente, dati e non concessi), in base al metodo filosofico, in modo migliore e con maggiore coerenza. Il secondo discorso di Socrate (la «palinodia», il nuovo canto in espiazione delle cose malvagie dette su Eros nei discorsi precedenti) è uno splendido discorso fatto con im­ magini e in forma di mito, ma condotto sulla base di conte­ nuti veritativi e sorretto da un adeguato metodo. Si passa quindi a discutere con procedimento dialogico sui problemi del metodo corretto del fare discorsi e sui punti-chiave di tale metodo. Da questa discussione emerge che il modo corretto di fare discorsi implica il metodo dia­ lettico della filosofia, la conoscenza adeguata della verità delle cose che si vogliono comunicare e dell’anima di coloro ai quali si vogliono comunicare. Di conseguenza, il vero scrittore può essere solamente il filosofo-dialettico. I tre discorsi vengono sottoposti in mo­ do sistematico a un esame critico, in base al quale si accer­ ta appunto questo. Platone è ben consapevole, dunque, di essere, al mo­ mento, colui che sa comporre scritti nel modo migliore, su­ perando gli stessi più famosi esponenti della retorica, come con il secondo discorso di Socrate egli dimostra molto bene. Ma le conclusioni che egli trae sono inaspettate. Se il re­ tore è tale solo se sa scrivere dei libri, il filosofo non è tale solo se sa scrivere dei libri; neppure se sa scrivere i suoi li­

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bri meglio di tutti gli altri; il filosofo è tale solo se non scri­ ve le «cose di maggior valore» nei rotoli di carta, ma nell’a­ nima degli uomini: nelle anime giuste, nel modo giusto e nei tempi giusti. Conclude il dialogo la preghiera del filosofo, di cui di­ remo più avanti. Se si tiene ben presente tale impianto strutturale del dia­ logo, si capisce meglio il nesso del problema di fondo che viene trattato, ossia quale sia il modo adeguato di scrivere, e l’altro problema che viene dibattuto per tre quarti del dia­ logo, ossia la natura dell’Eros e della Bellezza. Non si tratta affatto di giustapposizione di due temi, ma­ gari poco riuscita, come qualche filologo in passato ha er­ roneamente inteso, ma si tratta, al contrario, di temi per Pla­ tone strutturalmente connessi, in quanto, per lui, se il filo­ sofo è il solo che sa veramente scrivere come si deve scrive­ re, è altrettanto vero che il filosofo è colui che ama (nel Sim­ posio Eros è per sua stessa natura filo-sofo): Eros e filosofia sono inscindibilmente connessi (chi non sa amare, non può essere se non un falso filosofo). Il Fedro si impone quindi, oltre che per i contenuti, an­ che per la straordinaria maestria con cui è impostato, arti­ colato e strutturato dal punto di vista formale. Come avremo modo via via di mostrare, questo dialogo rappresenta davvero un manifesto programmatico di Plato­ ne, in cui egli dice tutto di sé come scrittore e come filosofo, con quelle pagine conclusive sui rapporti tra scrittura e ora­ lità che sono di portata ermeneutica straordinaria. Esponiamo punto per punto i vari momenti in cui il dia­ logo si articola. 2. Il prologo: incontro di Socrate con Fedro (227 A - 230 E) Nel prologo viene presentata in modo vivace la figura del personaggio Fedro, il deuteragonista che dà nome al dia­ logo, il quale è stato con Lisia, il grande retore del momen­ to, e ha a lungo ascoltato un discorso pronunciato da Lisia stesso, e ora sta recandosi fuori le mura per una passeggia­ ta distensiva.

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Fedro vorrebbe servirsi di Socrate, in cui si imbatte pro­ prio al momento giusto, per recitargli questo discorso che ha già imparato quasi a memoria. Ma Socrate scopre che Fedro porta con sé il discorso scritto, e lo convince a leg­ gerglielo e non a recitarglielo, dopo aver cercato e trovato un posto adeguato lungo l’Ilisso. Le pagine che descrivono questo posto lungo il fiume sono diventate celeberrime, per la loro bellezza straordina­ ria. La via percorsa era ricca di immagini e di cippi consa­ crati agli dèi del luogo (Acheloo, Pan, Orizia, le Ninfe, le Muse); sugli alberi cantavano le cicale, profetesse delle Mu­ se. Un frondoso platano e la sua ombra, con il vicino prato e il profumo di un agnocasto, offrivano loro un posto ideale. Da tempo alcuni studiosi hanno interpretato queste pa­ gine come una emblematica e idealizzata rappresentazione dei luoghi che si trovavano intorno all’Accademia, in cui Platone discorreva con i suoi discepoli, e teneva parte delle sue lezioni.

concedere i propri favori a un innamorato, di contro ai van­ taggi che presenta il concederli a chi non è innamorato. Gli innamorati si pentono dei benefici fatti all’amato, quando cessano di essere innamorati; fanno pesare i bene­ fici concessi, rinfacciano le conseguenze avute a causa delle cose che hanno dovuto trascurare per la relazione amorosa, l’affanno che hanno avuto, e pertanto pensano di non do­ vere altro compenso all’amato. La loro amicizia è infida, perché quelli di cui gli innamorati si innamorano successi­ vamente riceveranno sempre di più rispetto a quelli amati in precedenza. Gli innamorati sono sempre pochi; e fra po­ chi non si può fare adeguata scelta. Per di più, gli innamo­ rati non sanno tacere, e si vantano delle relazioni che han­ no intrapreso e che hanno avuto buoni esiti. Se si sta insie­ me con un innamorato, la gente ne parla sempre male. Gli innamorati sono gelosi, con tutte le conseguenze che ne de­ rivano. Desiderano il corpo dell’amato, e lo cercano prima di conoscere quale sia il carattere dell’amato medesimo. Elo­ giano l’amato anche per quelle cose che non meritano af­ fatto elogi. L’innamorato è come un malato che merita com­ passione. L’amicizia e l’affetto non dipendono dall’innamo­ ramento, altrimenti non potremmo avere amicizia e affetto per padre, madre e figli. Agli innamorati non bisogna con­ cedere favori, lasciandosi convincere dal fatto che ne han­ no bisogno, altrimenti, per tale motivo, andrebbero accon­ tentati tutti quelli che hanno bisogno di ogni cosa. I rap­ porti con gli innamorati, infine, incorrono in una serie di rimproveri da parte dei famigliari. Per contro, i non innamorati, nello stato di perfetto do­ minio e controllo di sé in cui si trovano, a differenza degli innamorati, presentano tutti i vantaggi contrari a questi svantaggi. E nel discorso di Lisia vengono descritti via via come un gioco di contrappunto rispetto a ognuno degli svantaggi che presenta l’innamorato, che sopra abbiamo elencato. La critica di Socrate a questo discorso è subito molto precisa: essa contiene parole ben tornite e raffinate, ma è molto deludente nel contenuto, in quanto continua a ripe­ tere sempre le medesime cose, variando solamente il modo di dire, sia pure con grande abilità.

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3. Il discorso di Lisia sull’amore (230 E - 236 B) Il discorso di Lisia, che ha tanto entusiasmato Fedro, tratta di un tema d ’amore in maniera del tutto inconsueta. Il problema è il seguente: un bel giovane deve concedere le sue grazie a chi è innamorato? La risposta provocatoria è: il giovane deve concedere le sue grazie non a chi è innamo­ rato ma a chi non lo è. Si è molto discusso se il discorso sia davvero di Lisia, oppure no. Ma è ovvio che non si può trattare di una sem­ plice riproduzione testuale. Platone ha certamente lavorato su idee di Lisia, riproducendo anche il procedimento me­ todico e lo stile linguistico del retore. Ma quello che ci ha presentato è ciò che, con linguaggio musicale, si può dire «divertimento su temi di...», o uno scrivere un pezzo «à la manière de...». Ricordiamo che Platone in queste imitazio­ ni era di una eccezionale abilità, come dimostra soprattutto il Simposio. Per dimostrare la tesi di cui sopra, vengono esposti da Lisia, con riprese continue, gli svantaggi che comporta il

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Inoltre, poeti e prosatori antichi, esperti in questa mate­ ria, sono di parere opposto a quello di Lisia. Infine, contro Fedro, il quale ritiene che su questo argo­ mento non si potrebbe dire meglio e di più, Socrate sostie­ ne che si potrebbero invece dire cose di maggior valore e in maggior quantità.

Inoltre, l’innamorato che cerca di raggiungere il piacere invece che il bene, desidera che l’amato non abbia un cor­ po forte e ben temperato da opportune fatiche, bensì un corpo delicato, effeminato, e variamente ornato. Ma chi ha un fisico di questo tipo è incapace di difendersi e di com­ portarsi nel dovuto modo in determinate circostanze. Anche per quanto concerne i rapporti con varie perso­ ne e con varie cose, dal concedere i favori all’innamorato derivano notevoli svantaggi, perché l’innamorato desidere­ rebbe che l’amato rimanesse privo proprio delle cose che per lui sono più importanti, ossia dei genitori e dei suoi averi, e che rimanesse il più a lungo possibile senza moglie e senza figli. Infine, ci sono anche i seguenti svantaggi che derivano ai giovani che si concedono agli innamorati: questi, essen­ do più vecchi, non sono in grado di offrire quelle soddisfa­ zioni che si hanno quando si frequentano dei coetanei. Im­ pongono relazioni pesanti e difficili, non lasciano l’amato né giorno né notte; lo sorvegliano, lo rimproverano varia­ mente, e, quando sono ubriachi, lo fanno anche in maniera sfrenata e in modo licenzioso. E allorché l’innamorato cessa di essere tale, riacquistata la temperanza e il senno, si comporta in modo contrario ri­ spetto a prima; non mantiene più le promesse e costringe l’amato a cercarlo e a rincorrerlo. Tutto questo non sarebbe successo al giovane se, invece di concedere i propri favori all’innamorato, che è senza sen­ no, li avesse concessi a chi non è innamorato, che rimane assennato. Socrate conclude il suo discorso a questo punto, con grande rammarico di Fedro, il quale si sarebbe aspettato una seconda metà, in cui, dopo che sono stati spiegati quali sono gli svantaggi derivanti dal concedere i propri favori agli innamorati, venissero illustrati i vantaggi che si hanno nel concedere i propri favori a chi non è innamorato. Ma Socrate obietta che i vantaggi che conseguono in questo caso sono altrettanti e contrari rispetto ai mali illu­ strati, derivanti dai rapporti con chi è innamorato. Fedro insiste perché Socrate continui a discutere sulle cose dette.

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4. Primo discorso di Socrate (236 B - 242 B) Con abilità Fedro convince Socrate a fare lui stesso un discorso in competizione con quello fatto da Lisia. Socrate potrà riprendere il tema già evidenziato da Lisia, secondo cui chi non è innamorato è più assennato di chi lo è, ma, per il resto, dovrà dire cose di maggior valore e in maggio­ re quantità. Ciò su cui Socrate subito punta è proprio una caratte­ rizzazione generale della natura dell’amore. In noi ci sono due tendenze basilari: il desiderio dei piaceri e l’opinione acquisita del bene. Quando prevale il piacere, si ha dissolu­ tezza; quando prevale l’opinione del bene, si ha, invece, la temperanza. Orbene, «il desiderio irrazionale che ha il pre­ dominio sull’opinione che conduce a ciò che è retto, porta­ to verso il piacere della bellezza dei corpi, una volta rag­ giunta vittoria per il comando, prendendo il nome da que­ sta sua vigoria, viene denominato eros» (238 C). I vantaggi e gli svantaggi che conseguono dal concedere i favori a chi è innamorato e a chi non lo è devono essere presentati in funzione di questa definizione, che costituisce il guadagno metodologico più significativo, in quanto co­ stituisce la base di tutto quanto il discorso. Ed ecco gli svantaggi che conseguono dal concedere i favori all’innamorato. In quanto è un malato, l’innamorato non sopporta chi opponga resistenze, e quindi cerca di costringere l’amato a essere a lui soggetto, rendendolo in vari modi inferiore; e poi, geloso com’è, cerca di tenerlo lontano da tutte le com­ pagnie, e proprio da quelle migliori, che lo aiuterebbero a crescere. In particolare, lo terrà lontano da chi coltiva filo­ sofìa, e da chi si cura di quelle cose che alimentano lo spirito.

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5. La necessità di una palinodia (242 B - 243 E) Socrate acconsente di continuare a parlare sull’Eros, di­ cendo che, proprio mentre si accingeva ad attraversare il fiume per tornare in città, il «segno divino» che in varie oc­ casioni si fa a lui sentire e gli impedisce di fare ciò che è sul punto di fare, lo ha trattenuto. Èra davvero necessario che, prima di andarsene, si purificasse di una colpa che aveva commesso. La colpa, in tutti e due i discorsi, quello di Lisia e il suo, consiste nell’aver presentato Eros come qualcosa di male, mentre, in realtà, Eros è un dio o «qualcosa di divino». Per purificarsi di tale colpa, c’è un rito espiatorio che consiste nell’offrire una «palinodia», ossia un nuovo canto, in cui si cancellano le cose dette prima. In questo caso, pertanto, la «palinodia» dovrà essere un discorso in cui si dovranno eli­ minare i rimproveri sollevati contro Eros, e si dovranno pre­ sentare gli elogi a lui dovuti. 6. Il grande discorso di Socrate sull’amore e sulla bellezza (244 A -238 E) Nel precedente discorso, Socrate aveva sostenuto la stes­ sa tesi di Lisia con fondamenti e con criteri ben superiori. Tale discorso, come abbiamo già in parte detto, intendeva provare semplicemente questo: era possibile sostenere la stessa tesi sostenuta da Lisia nel suo discorso, con criteri ispirati non alla retorica ma alla filosofia, ottenendo esiti nettamente superiori. Il nuovo discorso va ben oltre: capovolge la tesi di Lisia e fonda la nuova tesi su basi assai più solide. Bisogna corrispondere all’innamorato, ma per ragioni e per scopi ben più elevati di quelli di cui parla Lisia. Il primo puntò che Socrate vuole guadagnare è il se­ guente. Eros è una forma di mania. Le manie sono però di differente genere: ci sono quelle umane, ma ci sono anche quelle di provenienza divina. Queste ultime forme di ma­ nia sono ben lungi dall’essere un male. Sono, anzi, un gran­ de bene. Le profetesse, per esempio, proprio quando ven­

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gono invasate e colte da divina ispirazione, vengono colte appunto da una forma di mania, e offrono grandi benefici. Lo stesso dicasi dei sacerdoti e delle sacerdotesse che, at­ traverso possessioni e manie catartiche, hanno saputo puri­ ficare e liberare città e popoli da grandi mali che li avevano colpiti. Manie sono anche quelle delle Muse che ispirano i poeti, i quali, solo se e nella misura in cui sono invasati, ri­ sultano essere in grado di produrre opere belle. E così an­ che Eros è una forma di mania, anzi la migliore di tutte: una mania data dagli dèi a vantaggio degli uomini. Ma per comprendere le finalità e le ragioni di questa ma­ nia d ’amore è necessario guadagnare precisi contenuti dot­ trinali su un piano assai elevato. In primo luogo, bisogna guadagnare il concetto di ani­ ma, ossia dimostrare la sua immortalità e illustrare quale sia la sua natura o essenza. L’immortalità dell’anima viene qui illustrata da Platone non come nel Fedone e nella Repubblica, ma facendo leva sul concetto di movimento e di principio del movimento. L’anima è automoventesi, ossia principio che dà movimento non solo a se medesimo, ma anche a tutto ciò che si muove, Ora, ogni principio, in quanto tale, non è generato (perché altrimenti non sarebbe un principio), e quindi è incorrutti­ bile. Tale è, dunque, l’anima: principio automotore, ingene­ rato e incorruttibile. Per quanto riguarda la natura e l’essenza dell’anima, Pla­ tone dice chiaramente di fornire una rappresentazione mi­ tica, in quanto una trattazione approfondita richiederebbe ben più ampio spazio (Platone ha sviluppato questo pro­ blema solo in parte nei suoi scritti, e verosimilmente lo ha approfondito nelle sue lezioni orali). L’immagine di cui egli si è avvalso per rappresentare la natura dell’anima è diventata celeberrima. È la famosa im­ magine della biga (un carro a tiro di due cavalli) alata, gui­ data da un auriga. I due cavalli (uno bianco e uno nero) rap­ presentano le forze irrazionali dell’anima, una negativa e una positiva, mentre l’auriga rappresenta la parte propria­ mente razionale dell’anima stessa. Il particolare d d l’anima dotata di ali è molto importante, perché rappresenta la ca­ pacità dell’anima di portare in alto tutto ciò che in noi vi è

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di pesante, e in tal modo di farci partecipi del divino. Il di­ vino è ciò che è bello, buono e sapiente; e l’ala viene ap­ punto nutrita e accresciuta dalla realtà divina, mentre dalla malvagità e dalla bruttezza viene rovinata. Con l’immagine del carro alato trainato da due cavalli e guidato dall’auriga, Platone rappresenta sia le anime degli dèi sia quelle degli uomini. La differenza sta solo in questo: i cavalli degli dèi sono buoni e generati da buoni, mentre quelli degli uomini sono misti. Gli dèi e i dèmoni sono divisi in dodici schiere, ciascu­ na con un dio a capo, e al loro seguito vengono le anime umane. Queste schiere procedono in ordine, seguendo la rota­ zione del cielo, per giungere, ciclicamente, alla sommità della volta del cielo, al fine di poter vedere e contemplare ciò che sta al di là del cielo, il mondo dell’lperuranto (la sfera delle realtà intelligibili e del vero essere), e quindi guadagnare la vera scienza. I carri degli dèi, che sono ben equilibrati e ben bilancia­ ti, vedono e contemplano in modo perfetto il vero essere e la vera scienza. Le anime degli uomini, invece, hanno diffi­ coltà, a motivo dei cavalli che non sono perfetti come quel­ li degli dèi. Alcune riescono solo a stento a vedere gli esseri; certe anime, poi, ne vedono solo alcuni, altre, invece, non ne vedono; altre ancora, infine, per ignavia degli aurighi, si accalcano e si urtano, fanno tumulto e, spezzandosi le ali in questo trambusto, cadono. Di conseguenza, non riescono a vedere l’Essere, e si nutrono del cibo dell’opinione. Ma la visione dell’Iperuranio è essenziale, perché il nu­ trimento delle ali dell’anima proviene dalla Pianura della Verità, che si trova appunto là. Si diventa uomini e si acqui­ stano caratteri morali, ossia si guadagna la vera statura di uo­ mini, solo se si vede e si contempla la Verità, e lo si diventa in proporzione alla visione che si ha della Verità stessa. Cadute sulla terra, le anime si uniscono a un corpo e, via via, si reincarnano per diecimila anni (dieci volte vivo­ no sulla terra e dieci volte vivono vite corrispettive negli in­ feri o in luoghi elevati, a seconda dei castighi o dei premi che meritano: quindi un millennio per ogni tipo di vita, os­ sia un secolo di vita terrena con corrispondenti nove di vita

ultraterrena, con la scelta di un nuovo tipo di vita a ogni millesimo anno). Le ali che riportano presso gli dèi rispuntano, infatti, solo dopo diecimila anni, a eccezione di quelle delle anime dei filosofi, le quali, se per tre volte consecutive hanno sa­ puto vivere secondo la verità, rimettono le ali e tornano a essere-presso-gli-dèi (come abbiamo già sopra rilevato, la vita terrena è di un secolo, e la corrrispettiva vita ultrater­ rena è di nove secoli, sicché ogni ciclo di vita dura appun­ to un millennio, e i tre cicli durano di conseguenza tremila anni). Ecco, dunque, qual è il punto chiave del discorso di So­ crate che mette conto leggere in anticipo, perché è program­ matico ed emblematico: «Perciò, giustamente, solo l’anima del filosofo mette le ali. Infatti con il ricordo, nella misura in cui gli è possibile, egli è sempre in rapporto con quelle realtà, in relazione con le quali anche un dio è divino. Un uomo che si serva di tali reminiscenze in modo retto, in quanto risulta essere sempre iniziato ai misteri perfetti, di­ venta, lui solo, veramente perfetto. Però, in quanto si allon­ tana dalle occupazioni umane e si rivolge al divino, viene accusato dai più di essere uscito di senno. Ma sfugge ai più che egli è, invece, invasato da un dio». «È questa la conclusione cui perviene il discorso sulla quarta forma di mania, ossia quella mania per la quale, quando uno veda la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza, mette le ali e desidera di volare, ma, rima­ nendo incapace, guardando verso l’alto come un uccello e non prendendosi cura delle cose di quaggiù, riceve l’accusa di trovarsi in uno stato di mania. E il discorso giunge a dire che, fra tutte le divine ispirazioni, questa è la migliore e de­ riva dalle cose migliori, e per chi la possiede e per chi ha comunanza con essa» (249 C-E). Dunque, la mania d’amore deriva dalla visione della bel­ lezza in un corpo fisico, la quale richiama per «anamnesi», ossia per ricordo, la Bellezza intelligibile che l’anima ha vi­ sto nell’Iperuranio. E la Bellezza suscita amore per il moti­ vo che ha avuto essa sola il privilegio, rispetto a tutte le altre realtà intelligibili, di essere manifesta anche nella dimensio­ ne del fisico e del sensibile e, di conseguenza, la più amabile.

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Proprio per questa ragione, bellezza e amore fanno ri­ nascere le ali alle anime e il desiderio di volare e di ritorna­ re presso gli dèi. Allora, è evidente che i criteri con cui l’innamorato cer­ cherà l’amato e questi corrisponderà all’amante, saranno del tutto opposti a quelli cui pensava Lisia. Ciascuno cerca di imitare quel dio di cui era seguace, quando si trovava al seguito delle schiere degli dèi, e cerca nell’amato una corrispondenza di questi stessi caratteri, e appunto in tale ricerca si verifica l’invasamento dell’Eros, con le conseguenze che ne derivano. Il vero innamorato conquista l’amato bello, perseguen­ do finalità che stanno ben al di sopra dei fuggevole piaceri del momento, con temperanza e perfetto autodominio. E l’amato, di conseguenza, se ne accorge, e capisce di quale valore sia ciò che gli dà l’amico. Socrate adduce un’altra immagine stupenda per spiega­ re l’amore: «...scorrendo abbondante verso l’amante, dap­ prima penetra in lui e, dopo che lo ha completamente riem­ pito, trabocca. E come un colpo di vento o una eco, rim­ balzando da corpi levigati e solidi, ritornano proprio là da dove sono pervenuti, così procede il flusso della bellezza, ritornando per rimbalzo, attraverso gli occhi, al bello ama­ to. E attraverso gli occhi può per sua natura arrivare all’a­ nima, e, dopo esservi giunto e averla sollecitata, irriga i con­ dotti delle penne e le fa rinascere, e riempie d’amore anche l’anima dell’amato» (255 C-D). In pagine finissime e di grande perspicacia psicologica, Platone, in questo grande discorso di Socrate, descrive an­ che come il vero amore porti l’auriga a piegare il cavallo ne­ ro e protervo, che tira verso il piacere sessuale, trascinando in parte anche l’altro cavallo più docile e mettendo a dura prova l’auriga, e come, alla fine, vincano l’auriga e il caval­ lo buono, ossia il pudore e la ragione, vale a dire le parti più elevate dell’ànima. Ed è appunto questo l’amore secon­ do la filosofia, quello che, se vissuto per tre volte consecuti­ ve, ridà le ali per tornare a essere presso gli dèi dopo tremi­ la anni (e non dopo diecimila anni, come le altre anime). Vi è, poi, un amore inferiore, vissuto da quelli che, in momenti di ubriachezza o in altri momenti di sbandamen­

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to, siano trascinati a quella scelta, che secondo i più è la più felice, e che poi vi ritornino, sia pure limitatamente. Costoro possono essere in qualche modo amici, ma escono da questa vita senza le ali, sia pure con il desiderio di ri­ metterle. Socrate capovolge, in tal modo, la visione del retore Li­ sia e dei più, in modo radicale e totale. L’amicizia di chi non è innamorato, retta da temperanza morale, capace solo di amministrare cose povere e mortali, non innalza le anime e non le fa volare, ma le cala e le fa vagare solo sottoterra. 7. Quali sono i caratteri secondo i quali si devono fare i di­ scorsi (257 B - 274 B) Con il discorso di Socrate il dialogo ha raggiunto vette assai elevate, ma non è ancora giunto alle sue conclusioni. Le parti risolutive sono quelle contenute nelle pagine che seguono. Platone, solitamente, ci indica quando sta per venire il momento conclusivo, o comunque essenziale, con un inter­ mezzo. Nel nostro caso, ce lo indica addirittura con due: uno teoretico, in cui dice esplicitamente quale sia il proble­ ma che resta da risolvere, e uno poetico, il bellissimo mito delle cicale. Il problema da risolvere è il seguente: quale sia il modo bello e quale il modo brutto di scrivere, ossia, in generale, quale sia il modo corretto di fare un discorso. I tre discorsi che sono stati fatti costituiscono esempi specifici, che, come subito vedremo, vengono presi in esa­ me e giudicati come tali. II punto fondamentale da guadagnare per risolvere il problema è il seguente. La vera arte del fare discorsi deve restare ben lungi dal voler mirare solamente alle convinzioni della gente, come avviene nei tribunali e nelle assemblee, dove si cerca di far apparire le medesime cose ora giuste ora ingiuste, ora buo­ ne ora cattive, quando e come si vuole. Senza la verità non si possono fare discorsi con arte, neppure quei discorsi che giocano sulle somiglianze e sul verosimile in vario modo,

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per poter fare apparire le medesime cose ora giuste ora in­ giuste, ora buone ora cattive, perché, ignorando la verità, non è possibile fare neppure questo. In particolare, Socrate rileva che i tre discorsi che sono stati fatti mostrano puntualmente, sulla base di un adegua­ to esame, quali siano i modi scorretti e quali i modi corretti di fare discorsi. Il discorso di Lisia rappresenta un modo di fare discorsi del tutto scorretto, sia per quanto concerne il contenuto sia per quanto concerne il metodo. Per quanto concerne il contenuto, il discorso di Lisia presuppone una certa definizione di amore, che, però, non presenta in modo esplicito e non fonda in alcun modo. Dal punto di vista formale, poi, inizia proprio da quelle che do­ vrebbero essere conclusioni, e non premesse. Insomma, non fornisce la definizione di ciò di cui tratta, e non collega tra di loro e con l’insieme i vari argomenti che adduce, e li pre­ senta in maniera disordinata e scorretta. Ecco le significative conclusioni che Platone trae: per essere bello ogni discorso «deve essere composto come un essere vivente che abbia un suo corpo, in modo che non ri­ sulti senza testa e senza piedi, ma abbia le parti di mezzo e quelle estreme scritte in maniera conveniente l’una rispetto all’altra e rispetto al tutto» (264 C). I due discorsi di Socrate avevano tra di loro opposti ca­ ratteri, ma erano tutti e due formalmente corretti, e inoltre avevano anche un motivo formale ben fondato della loro opposizione. In ambedue i discorsi l’amore veniva conside­ rato come una mania. Ma ci sono due forme differenti di manie: una derivante da malattie umane e una, invece, de­ rivante da divine ispirazioni. Il primo discorso di Socrate ha presentato l’amore come malattia umana, e ne ha tratto le conseguenze. E questo è errato, ma Socrate ha procedu­ to in questo modo, per i motivi che sopra abbiamo spiegato. Il suo secondo discorso ha invece presentato l’amore come mania divina, precisando quali e quante sono queste forme di manie divine, e quale sia, specificamente, quella amorosa. Infine ne ha tratto tutte le conseguenze, in modo coerente. Dunque, Socrate ha seguito un metodo ben preciso, che è quello della dialettica. Da un lato, passando dalla molte­

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plicità all’unità, ha presentato la definizione dell’Eros in funzione di un’unica Idea (metodo sinottico). Dall’altro, ha proceduto alla suddivisione di questa Idea, indicando le ar­ ticolazioni che le Idee particolari hanno per natura con l’I ­ dea generale. Pertanto, ha mostrato come questa idea unica di mania o follia si divida in due: una parte sinistra, costi­ tuita dalla mania umana, la quale è negativa e biasimevole; una parte destra, che ha lo stesso nome di mania, ma è divi­ na, la quale è causa di tutti quanti i beni, e ha mostrato qua­ li siano le articolazioni di tale mania divina (e questo è il pro­ cedimento diairetico). I comuni retori, invece che su questi procedimenti si­ nottici e diairetici della dialettica, si basano su criteri del tutto differenti ed estrinseci. Infatti, i retori parlano delle parti di cui deve costituirsi il discorso, muovendosi su un piano puramente formale. Parlano di «proemio», cui devono far seguito «narrazio­ ne», «testimonianze», «verosimiglianze», «conferme» e «ri­ conferme», «confutazioni» e «controconfutazioni», «insi­ nuazioni» ed «elogi», e altre cose di questo genere. Alcuni retori sostengono addirittura la tesi che più an­ cora che il «vero» conta il «verosimile». E raccomandano anche altre cose tipo le «ripetizioni di parole», l’«uso di sen­ tenze e di immagini». Infine, raccomandano la «ripetizione finale riassuntiva». In realtà, tutte queste cose sono semplici «preliminari» di quella che è vera arte di fare discorsi corretti, la quale si fonda su ben altre basi. In primo luogo, per fare discorsi corretti, chi parla o scrive deve conoscere la verità intorno a ciascuna delle cose di cui parla; deve mirare all’Idea di ciascuna cosa, esami­ nando a fondo se è semplice oppure complessa, e, se com­ plessa, deve individuarne l’esatta articolazione, e vedere quali siano le sue caratteristiche. E dal momento che i discorsi si rivolgono alle anime degli uomini, chi fa discorsi dovrà conoscere la natura dell’anima, quali siano le sue caratteristiche e la sua struttura (se è sem­ plice o complessa), quali le sue capacità di agire e di patire. In particolare, poi, dal momento che la potenza del di­ scorso consiste nella guida delle anime, chi fa discorsi in

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modo retto dovrà conoscere quali siano le caratteristiche ti­ piche di ciascuna di esse. La corretta arte del fare discorsi do­ vrà sapere con quali tipi di uomini si ha a che fare e da quali tipi di discorsi quell’uomo viene persuaso, quale sia il mo­ mento giusto di parlare e quale il momento giusto di tacere. E poiché le cose stanno in questo modo, non ha senso ciò che alcuni oratori sostengono, ossia che quello che dav­ vero conta è il verosimile, più che non il vero. L’autentico oratore sarà quello che, oltre ad avere un adeguato dono di natura, conosce il vero, e si esercita nel modo dovuto nella comunicazione di esso, nei modi sopra indicati. Nel fare veri discorsi non ci si dovrà preoccupare di piacere soprattutto agli uomini, ma si dovrà cercare di pia­ cere agli dèi.

tura (insieme ad altre sue invenzioni), elogiandola come un farmaco della memoria e della sapienza. Ma il re Thamus criticò la scrittura, dicendo che essa non potrà essere un farmaco per la memoria, perché potrà aiutare a ricordare solo dal di fuori e non dal di dentro. Gli scritti, anche i mi­ gliori, non possono essere altro che mezzi per richiamare alla memoria di chi sa già le cose su cui verte lo scritto, avendole apprese per altra via. Inoltre, lo scritto non sarà in grado di fornire vera sapienza, ma solo apparenza di sapienza, in quanto molti crederanno, pur avendo appreso cose senza insegnamento, di conoscere quello che in realtà non sanno. Inoltre, gli scritti sono come figure dipinte, che non so­ no in grado di rispondere alle domande che si fanno loro. Per di più, gli scritti cadono nelle mani di tutti, anche degli incompetenti e di coloro che li oltraggiano. Da soli non san­ no difendersi, e hanno sempre bisogno dell’aiuto del padre. Invece, il discorso orale, che viene scritto con arte e con scienza nell’anima di chi impara in quanto è un discorso vi­ vente e animato, di cui quello scritto non è se non una pura immagine, sa difendersi, e sa con chi bisogna parlare e con chi bisogna, invece, tacere. Lo scritto è come un gioco, sia pure molto bello, in cui chi scrive non si impegna con la massima serietà, ma riser­ ba questa per altre cose. Lo scritto è come «il giardino di Adone», ossia quel gioco che si fa per festeggiare Adone, seminando in recipienti artificiali semi che in pochi giorni nascono, senza dare alcun frutto; mentre il discorso orale è, rispetto al gioco del «giardino di Adone», come il serio la­ voro che fa l’agricoltore, con i semi che più gli stanno a cuo­ re, nei luoghi giusti e nei tempi giusti, con grande impegno. Il vero impegno e la massima serietà si realizzano quan­ do si prenda l’anima di chi è capace di recepire in modo adeguato le cose che si dicono, e, mediante l’arte dialettica, si scrivano appunto in quell’anima, con la dovuta cono­ scenza, quelle cose che, come tali, sono capaci di difendersi e di dare i dovuti frutti. Nei discorsi scritti, in quanto appunto sono giochi, non c’è quella stabilità e quella chiarezza che sono raggiungibili solamente nella dimensione dell’oralità, e quindi nelle cose che vengono scritte nelle anime degli uomini.

8. La superiorità dell’oralità dialettica sulla scrittura in ge­ nerale (274 B - 278 E) Da ciò che Platone ha detto nella parte precedente è emerso che i migliori discorsi sono solo quelli che sa fare il filosofo, perché egli procede con il metodo della dialettica, che è l’unico che porta alla verità. Ci si aspetterebbe, di conseguenza, di vedere i discorsi scritti dei filosofi collocati in primo piano, ossia al primo posto in senso assoluto, senza possibilità di ulteriore e più elevata comunicazione. Invece non è così. Platone critica la scrittura in generale, senza eccezioni. Anche se dimostra che il filosofo sa scrivere meglio degli al­ tri, pone al di sopra di tutti quanti gli scritti, compresi quelli dei filosofi, quindi al di sopra della scrittura in generale, l’o­ ralità dialettica, e, in maniera veramente provocatoria, defi­ nisce il filosofo addirittura come colui che è tale solo se e nella misura in cui possiede cose di maggior valore rispetto a quelle che ha messo per iscritto. Il vero libro del filosofo non è quello che egli scrive sulla carta, bensì quello che egli scrive nell’anima degli uomini. Narrando una finta favola egiziana, Platone dice che il dio Theuth presentò al re d’Egitto Thamus l’arte della scrit­

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In conclusione, chi ha composto opere scritte su rotoli di carta, si può dire che abbia veramente l’arte di fare di­ scorsi se, avendo composto queste opere con conoscenza del vero, sia in grado di venire in soccorso a esse, dimo­ strando la debolezza degli scritti, e quindi sia in grado di mettere in rilievo e di esplicitare quelle cose che in essi man­ cano. E costui è appunto il filosofo, il quale, come Platone dice senza mezzi termini e in modo veramente provocatorio, è davvero filosofo solamente perché e nella misura in cui possiede cose di maggior valore rispetto a quelle che ha affidato agli scritti. Colui che non possiede cose di maggior valore rispetto a quelle che ha affidato agli scritti sarà un poeta, un retore, un legislatore, ma non un filosofo. È, questa, un’autotestimonianza di Platone di straordi­ naria portata ermeneutica, perché dice con tutta chiarezza che le opere scritte di Platone stesso non sono autarchiche e presuppongono come fondamento ultimativo appunto quelle cose che egli non ha affidato ai suoi scritti ma alla sola orali­ tà dialettica, ossia ai suoi discepoli nelle sue lezioni nell’Ac­ cademia.

bastandogli quella limitata filosofìa, saprà giungere a cose ancora più grandi, vale a dire a quelle cose di maggior va­ lore, a cui il dialogo più volte ha fatto cenno, e che nel fina­ le sono emerse e si sono imposte come ciò che caratterizza il filosofo in quanto tale. Dunque, il vero retore, ossia colui che sa fare i veri discorsi (quelli orali e anche quelli scritti), non potrà essere se non un vero filosofo. Ma prima di lasciare il luogo, una volta conclusa la di­ scussione sull’arte di fare discorsi, Socrate vuole innalzare una preghiera a Pan, dio del luogo, e, precisamente, la pre­ ghiera del filosofo, su cui, in ultima analisi, si impernia l’in­ tero dialogo. Le cose che il filosofo deve chiedere al dio sono le se­ guenti: 1) raggiungere una bellezza interiore; 2) fare in modo che le cose esteriori siano in accordo con le cose che ha dentro di sé; 3) considerare il sapiente come il vero ricco; 4) poter guadagnare tanto oro della sapienza quanto è possibile all’uomo assennato e temperante. Fedro chiede di essere anche lui partecipe di queste co­ se, in quanto le cose degli amici sono comuni. Socrate, dunque, ha conquistato pienamente Fedro alla filosofia, e insieme se ne vanno.

9. Messaggio conclusivo del Fedro e preghiera del filosofo (278 E - 279 C) Il dialogo è iniziato con il discorso di Lisia, che, a giudi­ zio di Fedro, era il maggior retore del momento (il maggior scrittore di discorsi); in tutto il suo svolgimento ha dimo­ strato, invece, l’inconsistenza e l’infondatezza del modo di scrivere di Lisia e dei retori in genere. Perciò Platone, nel messaggio finale, trae le conclusioni, dicendo tutto ciò che pensa sulla retorica in generale. Dal momento che su Lisia è stato già detto tutto quello che c’era da dire, Fedro domanda che cosa si dovrà dire su Isocrate, il retore che Socrate sembrerebbe preferire a tutti gli altri, ma che resta pur sempre un retore. La risposta di Socrate è questa: Isocrate è molto dotato per natura, e nel suo pensiero c’è anche una certa filosofia. Egli potrà fare cose molto belle, se, per impulso divino, non

10. Centralità della dottrina delle Idee Dal punto di vista del fondamento teoretico, la teoria delle Idee è senza dubbio il concetto-chiave del dialogo, con allusioni e rimandi anche alla teoria dei Principi supre­ mi, da cui derivano le Idee stesse. L’immagine dell’Iperuranio, con cui Platone rappresen­ ta nel nostro dialogo il mondo delle Idee (244 B - 248 A), si è addirittura imposta come una metafora emblematica nel pensiero occidentale, anche nella generale cultura al di fuori della filosofia. Si noti, però, che la corretta comprensione di essa non è facile; Iper-uranio significa sopra-celeste, ossia ciò che sta al di fuori e al di sopra del cielo. Pertanto, essa indica un

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luogo che è al di sopra e al di là di ogni luogo fisico, e dun­ que indica un luogo che non è un luogo nella dimensione del fisico, bensì un luogo metafisico. Con questa metafora, Pla­ tone indica la sfera dell’intelligibile, che trascende, in quan­ to tale, il mondo sensibile e tutto ciò che è a esso collegato, ossia il divenire, il movimento, il colore, la figura, e tutti gli altri attributi a questi connessi. Evidentemente, quando Platone dice che «l’essere che veramente è» è appunto «senza colore, privo di figura e non visibile», e coglibUe e contempiabile «solo dalla guida del­ l’anima, ossia dall’intelletto», proprio mentre afferma che tale essere «occupa questo luogo» (274 C-D), toglie, con la negazione di caratteri tipicamente fisici, i caratteri dell’es­ sere fisico all’Essere che veramente è. Pertanto, quel «luogo sopraceleste» è ciò che è al di là del luogo, ossia, come di­ cevamo, il luogo meta-fisico, la dimensione della trascen­ denza. In ogni caso, chi si fermasse all’immagine dell’Iperuranio, anche se correttamente intesa e interpretata nel modo che abbiamo indicato, rimarrebbe solo a metà strada nella comprensione delle Idee come viene presentata nel Fedro, con forti allusioni a concetti sviluppati nelle Dottrine non scritte. In effetti, l’immagine, presa di per sé, lascerebbe inten­ dere che per Platone le Idee siano una sorta di ipostatizza­ zione degli universali, o comunque realtà statiche, ciascuna semplice e indipendente dalle altre, perché non vengono in­ dicati i nessi che le collegano (tranne che nell’esempio del­ la bellezza che sta accanto alla temperanza su immacolato piedestallo, che comunque sembrerebbe confermare quan­ to sopra). E ciascuno può facilmente immaginare le conse­ guenze che da questo derivano, e i vari inconvenienti in cui molti interpreti sono caduti. Per contro, recenti studi hanno dimostrato come la dot­ trina delle Idee del Fedro sia presentata secondo la precisa ottica delle dottrine non scritte, con chiari ed espliciti ri­ chiami dell’Uno-Molti, nonché addirittura della struttura numerica delle Idee stesse e dei nessi che le caratterizzano. Ma capiremo meglio questo sulla base di quanto Plato­ ne dice a proposito del metodo dialettico, che viene messo

in rilievo in modo piuttosto accentuato, sia pure con i limi­ ti imposti dalla scrittura secondo la concezione platonica, come ora diremo.

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11. La dialettica e i suoi procedimenti «sinottici» e «diatretici» Le due direzioni secondo cui si muove il metodo dialet­ tico, come abbiamo già più volte rilevato, ma che ora dob­ biamo chiarire in maniera puntuale, sono: la sinossi, che procede dal basso all’alto, dal molteplice all’uno, e la diairesi, che procede dall’alto al basso, ossia scandisce ciascuna Idea in maniera diairetica nelle sue componenti, e le divide via via in due, fino a giungere all’Idea in sé e per sé sempli­ ce, secondo una trama di rapporti che implica precisi nessi matematici. Conviene richiamare qui tre passi essenziali, che vanno letti in successione e ben fissati nella mente, al fine di poter intendere il modo in cui Platone teoreticamente fonda l'ar­ te di fare discorsi, e quindi tutto quanto il dialogo. Il lettore deve tenerli molto ben presenti, perché sono rivelativi del­ lo sfondo dottrinale che il dialogo presuppone, con i preci­ si e irreversibili agganci dello scritto con le dottrine non scritte nel discorso che in questo nostro dialogo fa Platone. Il procedimento che deve seguire chi cerca la verità e la vuole comunicare è duplice: «La prima forma di procedi­ mento consiste nel ricondurre a un'unica Idea, cogliendo con uno sguardo d’insieme le cose disperse in molteplici modi, allo scopo di chiarire, definendo ciascuna cosa intorno alla qua­ le si voglia di volta in volta insegnare» (265 D). L’altra for­ ma di procedimento «consiste in senso opposto nel saper dividere le Idee, in base alle articolazioni che hanno per na­ tura, e cercare di non spezzare nessuna parte, come invece suole fare un cattivo scalco. Ma come i due discorsi che ab­ biamo fatto poco fa hanno preso la follia dell’anima come un’Idea unica in comune, e come da un corpo unico hanno origine membra doppie e dello stesso nome, chiamate sini­ stra e destra, così anche i nostri discorsi considerarono ciò che riguarda la follia come una Idea per natura unica in noi·.

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il primo discorso, tagliando la parte sinistra e poi taglian­ dola ancora di nuovo, non cessò prima di avere trovato in queste divisioni un certo amore chiamato sinistro, prima di averlo biasimato molto giustamente; l’altro discorso, inve­ ce, portandoci a quello che è nella parte destra della mania e trovandovi un amore che è dello stesso genere dell’altro, ma che è divino, ponendolo davanti, lo lodò come se fosse la causa dei maggiori beni per noi» (265 E - 266 B). E Platone fa dire a Socrate addirittura quanto segue: «E di queste forme di procedimento proprio io sono un amante, Fedro, ossia delle divisioni e delle unificazioni, al fine di es­ sere capace di parlare e di pensare. E se ritengo che qualcuno sia capace di guardare verso l'Uno e anche sui molti, io gli vado dietro “seguendo le sue orme come quelle di un dio"» (266 B). E a conclusione Platone ribadisce, senza mezzi termini, che finché uno «non saprà enumerare le nature di coloro che ascolteranno, e finché non sarà capace di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli in un’Idea, ciascu­ no secondo un’unità, non sarà mai in possesso dell’arte dei discorsi nella misura in cui è possibile a un uomo» (273 E). Dunque, il concetto di Uno e i concetti che riguardano i nessi dell’Uno con i Molti e dei Molti con l’Uno fondano la struttura stessa delle Idee secondo i rapporti numerici, e sono i concetti di base da guadagnare. I brani che abbiamo riportato, che a molti lettori sono sfuggiti in tutto o in larga misura, per il motivo che Platone qui si limita a fare allusioni, sono la chiave di volta del Fe­ dro, in quanto contengono i fondamenti teoretici attorno a cui ruota tutto quanto il dialogo.

rigorosa (245 C-E), e che abbiamo già sopra riassunto. Que­ sta si basa sul concetto di movimento, presentando l’anima stessa come principio automotore e, proprio in quanto tale, eteromotore (causa di movimento per le altre cose che si muovono). Platone si scosta dal tipo di prove sull’immorta­ lità fornite nel Fedone e nella Repubblica chiamando in cau­ sa il concetto di movimento, per il motivo che l’amore, di cui l’anima è il principale veicolo, è strutturalmente legato alla dinamicità, e quindi al movimento. L’amore tende a ele­ vare dal basso all’alto ciò che è pesante, a farlo diventare leggero e a farlo volare. Il Fedro riprende quindi, con im­ magini differenti ma aventi significato convergente, il con­ cetto di Eros del Simposio. E l’anima intesa appunto come principio di movimento è un eccellente fondamento di que­ sta concezione. Invece, per quanto concerne l’essenza e la struttura del­ l’anima, Platone dice chiaramente di limitarsi a una rappre­ sentazione immaginifica e a una narrazione mitica, perché il discorso adeguato su questo tema sarebbe assai comples­ so e lungo (246 A), ossia implicherebbe le discussioni orali, con tutte le conseguenze che questo comporta. Il mito di cui Platone si serve per illustrare la natura del­ l’anima, non meno di quello dell’Iperuranio, è diventato fa­ mosissimo (246 A - 247 A; 253 D - 255 B). L’anima viene rappresentata, come abbiamo già ricordato, quale biga ala­ ta, ossia come un carro alato tirato da due cavalli (bianco e nero), guidato da un auriga. Tuttavia, nonostante la sua bellezza e notorietà, questo mito è tutt’altro che facile da interpretare teoreticamente in modo esatto. La maggior parte degli studiosi pensa che i due cavalli rappresentino, quello nero, l’anima concupiscibile, quello bianco, invece, l’anima irascibile, mentre l’auriga rappre­ senta la ragione. Si tratterebbe, pertanto, di una metafora che raffigura la famosa tripartizione dell’anima di cui parla la Repub­ blica, ossia quelle tre forme di anima che sono diventate fa­ mose, e che spiegano tutto ciò che è legato alle passionalità sensibili, alle forze irascibili e volitive, alla razionalità del­ l’uomo.

12. La concezione dell’anima e il significato della metafo­ ra della biga alata Un’altra dottrina di base del Fedro è quella dell’anima, di cui viene presentata l’immortalità, e vengono illustrate l’essenza e la struttura, nonché le sue capacità di agire e di patire. Dell’immortalità dell’anima Platone fornisce qui una pro­ va che, nel contesto del suo pensiero, è piuttosto concisa e

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Ma se per quanto concerne il significato dell’auriga non ci sono dubbi, per quanto concerne invece il significato dei due cavalli sorgono molti dubbi. Infatti nel Timeo Platone ci dice con chiarezza che anima concupiscibile e anima ira­ scibile sono mortali, mentre i due cavalli del mito del Fedro rappresentano proprio la struttura della stessa anima im­ mortale. E perfino l’anima degli dèi ha la medesima strut­ tura. Probabilmente, con la metafora della biga alata Platone alludeva al paradigma stesso dell’anima, ossia alla sua strut­ tura ideale, di cui le stesse anime mortali, concupiscibile e irascibile, sono esplicazioni nella dimensione del corporeo. A nostro avviso, in ogni caso, per comprendere la struttura del modello dell’anima rappresentato dalla biga alata non si può se non far riferimento alle dottrine non scritte. I due cavalli richiamano la struttura diadica (ossia il principio del­ la diade), e la funzione dell’auriga richiama l’armonizzare gli opposti e il far ordine nel disordine. Il Timeo stesso pre­ senta ampi squarci su questa dottrina platonica, di cui ab­ biamo dato ampie spiegazioni nel nostro volume: Per una nuova interpretazione di Platone (20* ediz., pp, 657-675), cui rimandiamo il lettore che desiderasse avere le dovute spie­ gazioni.

lassù può richiamare, appunto per anamnesi, la memoria delle realtà di lassù. Ma questo ricordo, assai difficile per tut­ te le altre cose, è invece del tutto speciale per quanto con­ cerne la bellezza. Infatti l’Idea di bellezza ha avuto in sorte il privilegio di essere (almeno in parte) visibile anche quag­ giù con gli occhi del corpo; e in questo modo, per anamne­ si appunto, richiama agli occhi dell’anima l’Idea stessa del­ la bellezza e il mondo dell’Essere intelligibile cui tale Idea appartiene, nonché il forte desiderio di esso. Eros è proprio questo desiderio dell’Essere vero, che l’anima prova attraverso la fruizione della bellezza che, col­ ta attraverso i sensi, tende a riguadagnare e a raggiungere nella dimensione stessa dell’intelligibile. Questo desiderio di ritornare-a-essere-presso-gli-dèi, che l’anima prova nel vedere la bellezza, è dunque spiegato dal­ l’anamnesi e dalla capacità del movimento dinamico di asce­ sa, che sono connotati essenziali dell’anima, resi possibili dal­ la sua stessa natura.

13. Uanamnesi, l'amore e la bellezza Un ultimo concetto-chiave del Fedro che mette conto qui richiamare è quello dl ’anamnesi, in funzione della qua­ le vengono spiegate, in modo nuovo rispetto al Simposio, la nascita e la natura stessa dell’Eros (249 6 ss.). L’anamnesi è un ricordo, non nella dimensione empiri­ ca ma metafisica, delle realtà che l’anima ha veduto quan­ do si trovava al seguito delle schiere degli dèi nell’aldilà, prima di venire su questa terra. Della visione e della contemplazione degli esseri nella Pianura della Verità, l’anima mantiene dentro di sé una traccia indelebile, anche quando è rivestita da un corpo mortale (è, questa traccia, una sorta di a priori metafisico). La somiglianza che le cose di quaggiù hanno con quelle di

14. Unità strutturale e coerenza del Fedro come manife­ sto programmatico del pensiero platonico Platone ci ha detto che uno scritto ben composto è co­ me un organismo che ha le sue parti adeguate e strutturate in giusta proporzione e in perfetta armonia con l’insieme. Il Fedro realizza proprio questo in modo compiuto e mirabile. Molti interpreti, ma specialmente certi filologi e lettera­ ti, hanno molto faticato a capire bene quali siano i nessi che legano le varie parti del Fedro, ossia le membra di que­ sto organismo e i loro giusti rapporti (e alcuni hanno anche dubitato che ci siano). Ma ciò è dipeso dal fatto che, se si legge il dialogo con ottiche letterarie o in funzione di cano­ ni di estetiche moderne, non si entra nel giusto circolo er­ meneutico, che implica l’esatta comprensione del messag­ gio filosofico di Platone in senso globale. In questo dialogo, come abbiamo già sopra ricordato, Platone si confessa sia come scrittore, cioè come letterato, sia come pensatore, cioè come filosofo, presentando una tesi eversiva per i suoi tempi.

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Il nocciolo del suo discorso può riassumersi nel modo che segue, come in parte abbiamo già detto e qui richia­ miamo e completiamo, per concludere. Il problema diiondo del Fedro è il seguente: in che cosa consista un discorso corretto e quali siano i giusti modi per farlo, quali siano le sue implicanze e le sue conseguenze. La soluzione che Platone propone è questa: un discor­ so, scritto o orale che sia, non deve mirare all'opinione, ben­ sì alla verità, ossia deve essere un adeguato modo di comu­ nicare la verità conosciuta alle anime degli uomini. Ma per poter raggiungere e comunicare il vero, occorre un preciso metodo, quello della filosofia, ossia il metodo dialettico, con tutto ciò che questo implica. Pertanto, il vero competente nel fare i discorsi non è il retore, che punta solo sull’opi­ nione, sulle parole, sul linguaggio e su tutto ciò che a que­ sto è connesso, bensì il filosofo che mira alla verità. La tematica dell’Eros e della bellezza, lungi dall’essere estranea a questa, si connette con essa in maniera perfetta. Raggiungere il vero significa raggiungere il vero Essere. Ma l’amore è una via imprescindibile che porta l’anima at­ traverso il bello sensibile al vero Bello in sé, che non è se non la maggiore manifestazione del Bene, e quindi della sfe­ ra del vero Essere. La filosofia è l’autentico inveramento del­ l’Eros nel senso sopra precisato. Dunque, proprio in tale senso, il vero amante è il vero filosofo. Proprio per questo motivo, il dialogo si conclude con una preghiera del filosofo. A buona ragione Herder, nella sua Kalligone, scriveva: «Sempre, o amici, il dialogo di Platone con Fedro deve ri­ manere a noi caro; il platano lungo l’Ilisso, sotto il quale il dialogo si svolge, deve restare un albero sacro, e la preghie­ ra di Socrate a conclusione del dialogo deve restare la no­ stra preghiera» (Kalligone, 1800, in Sàmmtliche Werke, 18, Stuttgart-Tiibingen 1830, pp. 109 s.). Il lettore potrà vedere la bella interpretazione di questa preghiera nell’opuscolo, da noi introdotto e tradotto, di Konrad Gaiser, L’oro della sapienza. Sulla preghiera del filosofo a conclusione del «Fedro» di Platone (Vita e Pensiero, Mila­ no 1990; rist. 1992).

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Quello che Herder dice nel passo riportato, si poteva ben guadagnare già con i modi tradizionali di leggere Pla­ tone. Ma oggi si è guadagnato ancora di più. Infatti nel Fe­ dro Platone ci dice, senza mezzi termini, che nei suoi scritd egli non ha messo tutto. In particolare, non ha messo quelle cose che per lui erano di maggior valore, e per cui si era im­ pegnato con la massima serietà. Gli scritti del filosofo sono superiori agli scritti degli al­ tri scrittori, e quindi i suoi dialoghi sono migliori rispetto agli scritti degli altri retori. Tuttavia, essi pure sono mere «immagini» dei discorsi vivi, scritti nelle anime. Tali discor­ si vivi sono migliori degli altri, non solo per la viva presen­ za dell’autore che li fa, ma proprio per i loro contenuti, os­ sia perché raggiungono quei fondamenti che gli scritti non raggiungono, o che raggiungono solo parzialmente e, per le cose ultimative, solo per allusioni. Insomma, Platone nel Fedro ci dice di essere «filosofo», proprio per quel plus che non ha messo negli scritti, ma ha voluto mantenere nella sua interezza e completezza solo nel­ la dimensione dell’oralità dialettica. Pertanto, la conclusione della quinta parte del dialogo è emblematica: «...colui che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a quelle che egli ha composto o scrit­ to rivoltandole in su e in giù per molto tempo, incollando una parte con l’altra e togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta, compositore di discorsi, o scrittore di leg­ gi?» (278 D-E), e non «filosofo». In definitiva, Platone non ha considerato se stesso come un logografo, un poeta o un legislatore, per il motivo che, proprio sulla base di cose di maggior valore, ha ritenuto di essere in grado di dimostrare «la debolezza degli scritti» (278 C), e perché non ha passato la sua vita nello scrivere discorsi su rotoli di carta, ma perché, con la debita arte e con il giusto metodo, nella sua Accademia ha scritto nelle anime degli uomini le sue cose di maggior valore secondo i modi e i tempi convenienti, scegliendo le anime adatte, aventi le doti necessarie per recepire appunto le cose di maggior valore, e non mettendo queste nei suoi scritti se non in maniera allusiva, benché in alcuni casi in un modo veramente emblematico.

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15. Personaggi ed epoca di composizione del Fedro L’unico personaggio diretto del dialogo è Fedro, che dà nome al dialogo. Si tratta di un uomo ancor giovane, anche se non giova­ nissimo, dato che ha già fatto discorsi in prima persona e ne ha fatti fare moltissimi ad altre persone. Non è affatto un personaggio scialbo e incerto, come qualcuno ha erro­ neamente creduto. È, piuttosto, una bella figura di giovane irrequieto, amante dell’arte dei discorsi, un entusiasta in cerca sempre di ciò che è meglio. Questo personaggio, con la sua apertura di spirito e con la sua ricerca del meglio, riesce a capire il messaggio di So­ crate e il suo invito alla filosofia. Il retore Lisia è un personaggio che non agisce direttamente nel dialogo, ma opera mediatamente con il suo scrit­ to, che Fedro legge, e su cui si impernia la discussione di gran parte del dialogo. Lisia (vissuto tra la seconda metà del V secolo a.C. e la prima metà del IV) fu autore di molti discorsi. In età ales­ sandrina gli venivano attribuiti ben 425 discorsi, di cui 233 considerati autentici. Ce ne sono pervenuti 34 e vari fram­ menti, mentre quello contenuto qui nel Fedro, che non ci è pervenuto nell’originale per altra fonte, come abbiamo già detto sopra, è senza dubbio un «divertissement à la maniè­ re de...», anche se un originale sullo stesso tema dovette esistere, altrimenti non si spiegherebbe la precisa presa di posizione che Platone assume. Lisia fu considerato una sorta di principe dell’oratoria antica, per le sue capacità e per le vittorie da lui conseguite nei tribunali nelle difese degli imputati. La sua prosa impli­ ca precisione, chiarezza, opportuna presentazione degli ar­ gomenti e delle prove, equilibrio, parole ed espressioni ben scelte e frasi ben coniate. Tuttavia, sono proprio queste «abilità» tanto esaltate, che qui Platone contesta, perché sono ben lontane, a suo avvi­ so, dal pervenire alla essenza e alla verità delle cose trattate, per poter trarre da queste gli argomenti e la loro struttura­ zione. Per Platone il vero retore, ossia il vero facitore di di­ scorsi adeguati, non può essere se non il filosofo attraverso

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il metodo della dialettica. E appunto questa è la rivoluzio­ ne che Platone ritiene di aver messo in atto, e che nel Fedro intende spiegare in modo molto preciso. La data in cui il dialogo viene immaginato non è deter­ minabile. Alcuni congetturano tra il 420 e il 410 a.C. L’epoca di composizione è sicuramente tarda. Senza pos­ sibilità di dubbi, si può dire che esso è certamente poste­ riore alla Repubblica, perché a essa si fa cenno. Si tratta di uno scritto parallelo ai dialoghi dialettici, e quindi risale al­ l’ultimo periodo della vita di Platone. Proprio per quel carattere di manifesto programmatico di Platone come scrittore e filosofo, il dialogo si impone co­ me una delle più belle presentazioni dell’arte e del pensie­ ro di Platone nella loro globalità, con l’«autotestimonianza» finale di portata addirittura eccezionale.

N.B. Il lettore troverà una più dettagliata interpretazione con commento analitico del dialogo nella editto minor che ab­ biamo pubblicato nella collana della Lorenzo Valla, presso la Mondadori (1998), Poiché l’autotestimonianza delle pagine finali del nostro dialogo è una delle basi su cui si fonda la nuova interpretazio­ ne di Platone, ricordiamo alcuni testi in cui il lettore che lo desiderasse può trovare tutte le spiegazioni occorrenti: H. Kràmer, Platone e i fondamenti della filosofia. Introduzione e traduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1982; ter­ za ediz. 1989, pp. 36-50. K. Gaiser, Platone come scrittore filosofico. Saggi sull’ermeneuti­ ca dei dialoghi platonici, Bibliopolis, Napoli 1984, pp. 77-101. Th.A. Szlezàk, Platone e la scrittura della filosofia. Traduzione e introduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1988; seconda ediz, 1989, pp. 33-126, M. Erler, Il senso delle aporie nei dialoghi di Platone. Intro­ duzione di G. Reale, traduzione di C. Mazzarelli, Vita e Pen­ siero, Milano 1991, parte prima, passim. K. Gaiser, L'oro della sapienza. Sulla preghiera del filosofo a conclusione del «Fedro» di Platone. Introduzione e tradu­ zione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1990; rist. 1992. \

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INTRODUZIONE

G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone. Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle «dottrine non scritte», Vita e Pensiero, Milano, ventesima ediz. 1997, pp. 75-134. G. Reale, Eros dèmone mediatore, Rizzoli, Milano 1997. G. Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Rizzoli, Milano 1998. G. Reale, Platone. Fedro, Lorenzo Valla - Mondadori, Milano 1998.

Giovanni Reale

BIOGRAFIA E CRONOLOGIA DI PLATONE

Platone nasce ad Atene. Diogene Laerzio (III 2) ci ri­ ferisce che Apollodoro indicava come data di nascita la quarantottesima Olimpiade (428-425), nel mese di Targelione, corrispondente al nostro maggio-giugno, nel giorno in cui gli abitanti dell’isola di Deio diceva­ no essere nato Apollo. «Platone» non è il nome che gli era stato imposto dai genitori, ma un soprannome. Diogene Laerzio (III 4) ci riferisce tre differenti interpretazioni del nomigno­ lo: secondo alcuni, era stato il maestro di ginnastica a chiamarlo così per l’ampiezza della sua corporatura (in greco platos significa appunto estensione e am­ piezza); secondo altri aveva avuto questo nomignolo per l’estensione e l’ampiezza della sua fronte; secon­ do altri ancora, invece, per l’estensione del suo stile. La prima indicazione è la più probabile. Il suo vero nome era Aristocle, nome del nonno pa­ terno, Il padre di Platone, Aristone, discendeva da una fa­ miglia che vantava tra i suoi antenati il re Codro. An­ che la madre Perictione apparteneva a una nobile e potente famiglia, di cui Diogene Laerzio (III 1) ci ri­ ferisce quanto segue: «Platone era figlio di Aristone e Perictione (...), che faceva risalire la sua ascendenza a Solone. Dropide era fratello di Solone ed era padre di Crizia, del quale era figlio Callescro. Di Callescro furono figli Crizia, che fu uno dei Trenta [sai. Tiran­ ni] e Glaucone. Glaucone fu padre di Carmide e Pe­ rictione. Da Perictione e da Aristone nacque Platone». Da Perictione e da Aristone nacquero anche Adimanto e Glaucone (Platone stimò e onorò questi suoi fra­ telli, introducendoli come interlocutori nella Repub­ blica) e una figlia di nome Potone, da cui nacque Speusippo, che sarà successore di Platone nella direzione dell’Accademia.

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BIOGRAFIA E CRONOLOGIA DI PLATONE

409-407 Periodo della efebia. Stando ad Aristosseno (fr. 11 Wehrli) Platone avrebbe preso parte per tre volte a campagne militari: a Tanagra, a Corinto e a Delio, ap­ punto in questo periodo di tempo. A Delio avrebbe ottenuto anche un premio per il suo valore. 408-407 A vent’anni Platone divenne discepolo di Socrate. Prima di diventare discepolo di Socrate, Platone si dedicò ad attività poetiche e frequentò l’eracliteo Cra­ tilo. Diogene Laerzio ci riferisce alcune notizie, che, per quanto possano essere inquinate, contengono sen­ za dubbio elementi di verità: «Vi è pure chi dice co­ me Dicearco nel primo libro Delle vite che egli abbia partecipato alle gare di lotta all’Istmo, e che abbia studiato pittura e scritto poesie, prima ditirambi, poi anche canti lirici e tragedie. (...) Si narra che Socrate abbia sognato di avere sulle ginocchia un piccolo ci­ gno che subito mise ali e volò via e dolcemente cantò e che il giorno dopo, presentandosi a lui Platone co­ me alunno, abbia detto che il piccolo uccello era ap­ punto lui. Studiava filosofìa all’inizio (...), seguendo le teorie eraclitee. Poi mentre si accingeva a parteci­ pare con una tragedia all’agone, udita la voce di So­ crate, dinanzi al teatro di Dioniso, bruciò l’opera esclamando: “Efesto, avanza così: Platone ha bisogno di te”. Da allora, dicono, - e aveva vent’anni - fu di­ scepolo di Socrate fino alla sua morte». (Ili 4-5, tra­ duzione di M. Gigante). Sui rapporti di Platone con l’eracliteo Cratilo, si veda anche quanto dice Aristo­ tele in Metafisica, libro primo, capitolo sesto. Gli anni passati accanto a Socrate furono decisivi per Platone, a tutti gli effetti, non solo per il suo pensie­ ro, ma anche per le sue scelte esistenziali. 404 Si conclude la guerra del Peloponneso e si impone la supremazia di Sparta; ad Atene assumono il governo gli oligarchici con i cosiddetti «Trenta tiranni», fra cui elemento di spicco era proprio Crizia, zio di Pla­ tone, che lo invitò a partecipare al governo, da cui, peraltro, questi tosto si ritrasse deluso. 403 In seguito alla rivolta dei democratici, Crizia muore nella battaglia di Munichia, e cade il governo dei Trenta tiranni.

BIOGRAFIA E CRONOLOGIA DI PLATONE

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Socrate viene condannato a morte. Della condanna furono in larga misura responsabili i democratici, che dal 401 avevano saldamente ripreso il potere. E que­ sto convinse Platone che per il momento era bene te­ nersi lontano dalla vita politica militante. Probabilmente, subito dopo la condanna di Socrate, Platone si reca a Megara, con alcuni Socratici (forse per evitare possibili persecuzioni, che potevano venir­ gli inflitte per aver fatto parte del circolo dei Socrati­ ci). Ma a Megara, probabilmente, si ferma solo per poco tempo. Platone si reca in Italia meridionale, spinto dal desi­ derio di conoscere le comunità dei Pitagorici. Dalla Lettera VII (388 C) sappiamo che conobbe Archita. Durante questo viaggio si reca a Siracusa presso il ti­ ranno Dionigi I, che probabilmente egli sperava di convertire al suo ideale di re-filosofo e agli ideali espressi nel Gorgia (scritto subito prima o subito do­ po questo viaggio). A Siracusa stringe un forte lega­ me di amicizia con Dione, parente del tiranno, in cui Platone ritiene di trovare un discepolo capace di di­ ventare re-filosofo. Dionigi si irrita fortemente con Pla­ tone, al punto da farlo vendere come schiavo a Egina. Fortunatamente, a Egina si trova il socratico Anniceride di Cirene che lo riscatta, come ci narra Dio­ gene Laerzio, III 20. (La narrazione, forse, è un po’ forzata; Platone potrebbe essere stato costretto a sbar­ care a Egina, che, essendo in guerra con Atene, po­ trebbe averlo preso come schiavo; questa è, comun­ que, una ipotesi). Oltre a questo sicuro viaggio in Italia, perché di esso si parla nella sua Lettera VII, è possibile che Platone ne abbia fatti anche altri in Africa. Ci dice Diogene Laerzio: «...andò à Cirene da Teodoro il matematico, indi in Italia dai Pitagorici Filolao ed Eurito. E di qui in Egitto dai profeti, dove dicono gli sia stato compa­ gno Euripide, il quale ammalatosi fu guarito dai sa­ cerdoti con la cura del mare, onde in un luogo cantò: “Lava il mare tutti i mali degli uomini”. Inoltre, Ci­ merò diceva che tutti gli uomini d’Egitto sono medi­ ci. Platone aveva anche deciso di incontrarsi con i Ma­ gi, ma le guerre in Asia lo costrinsero a rinunziarvi»

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BIOGRAFIA E CRONOLOGIA DI PLATONE

(ΙΠ 6; traduzione di M. Gigante). Si tratta di viaggi possibili, ma non confermati in modo preciso. A partire da questa data, Platone, tornato ad Atene, si impegna a fondare una scuola. Acquistato un gin­ nasio e un parco dedicato all’eroe Accademo, apre qui una scuola che viene chiamata, dal nome dell’e­ roe, Accademia. Il Menone è probabilmente il primo manifesto programmatico della scuola. L’Accademia si afferma subito e richiama molti gio­ vani e uomini illustri. Platone si reca una seconda volta in Sicilia a Siracu­ sa. Morto Dionigi I, gli era succeduto Dionigi II, che, a dire di Dione, avrebbe potuto realizzare i disegni di Platone ben più del padre. Ma Dionigi II si rivela subito essere come il padre. Esilia Dione con l’accusa di tramare contro di lui. Trattiene Platone quasi co­ me un prigioniero. In seguito allo scoppio di una guerra, che impegna personalmente Dionigi, Platone può lasciare Siracusa e tornare ad Atene. Platone si reca per la terza volta in Sicilia a Siracusa. Dione, che si era rifugiato ad Atene, lo convince ad accogliere il pressante invito di Dionigi II a ritornare, sperando di placare il tiranno. Ma i rapporti con Dio­ nigi si aggravano subito e di molto. Solo per l’inter­ vento di Archita e dei Tarantini Platone si salva. Platone ritorna ad Atene. Dione riesce a prendere il potere in Siracusa. Dione viene ucciso da una congiura capeggiata da Callippo. Platone muore in Atene all’età di circa ottant’anni.

N.B. Sulla cronologia del Fedro si veda quanto viene detto nell7«/roduzione, p. 33. Il testo greco riprodotto a fronte della traduzione è quello dell’edizione critica di John Burnet, Plafoni* Opera, voi. II, Oxonii 1901 (Stephanus, III, pp. 227-279).

ΠΛΑΤΟΝΟΣ

ΦΑΙΔΡΟΣ PLATONE

FEDRO Περί δέ κάλλους, ώσπερ εϊπομεν, μετ’ έκείνων τε ίλαμπεν δν, δεΰρό τ’ έλθόντες κατειλήφαμεν αυτό διά της έναργεστάτη ς οάσθήσεως των ήμετέρων στίλβον έναργέστατα. [ ...] & κάλλος μόνον τούτην Ισ χ ε μοίραν, ώστ’ έκφανεστατον είναι κ α ι έρασμιώτατον. La Bellezza splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l ’ab­ biamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo [...]: solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile. 250 C-E

P rologo1

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FEDRO 227 A D

PROLOGO

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Incontro di Socrate con Fedro A

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ιο c

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ιο D

ΣΩ. Ώ φίλε Φαιδρέ, ποι δή και πόθεν-, ΦΑΙ. Παρά Λυσίου, & Σώκρατες, τοΰ Κεφάλου, πορεύ­ ομαι δέ πρός περίπατον έξω τείχους· συχνόν γάρ έκεΐ διέτριψα χρόνον καθήμενος έξ έωθινοΰ. τφ δέ σφ καί έμφ έταίρφ πειθόμενος Άκουμενφ κατά τάς όδούς ποιούμαι τούς περιπάτους· φησί γάρ άκοπωτέρους είναι τών έν χοΐς δρόμοις. ΣΩ. Καλώς γάρ, ώ έτάϊρε, λέγει, άτάρ Λυσίας ήν, ώς έοικεν, έν άστει. ΦΑΙ. Ναί, παρ' Έπικράτει, έν τήδε τή πλησίον τοΰ 'Ολυμπίου οίκίςι τη Μορυχίςι. ΣΩ. Τίς ούν δή ήν ή διατριβή; ή δήλον δτι τών λόγων ύμ&ς Λυσίας είστία; ΦΑΙ. Πεύση, εΐ σοι σχολή προ'ίόντι άκούειν. ΣΩ. Τί δέ; ούκ άν οϊει με κατά Πίνδαρον “ κ α ί ά σ χ ο λ ί α ς ύ π έ ρ τ ε ρ ο ν ” π ρ ά γ μ α ποιήσασθαι τό τεήν τε καί Λυσίου διατριβήν άκοΰσαί; ΦΑΙ. Πρόαγε δή. ΣΩ. Λέγοις άν. ΦΑΙ. Καί μήν, & Σώκρατες προσήκουσα γέ σοι ή άκοή· ό γάρ τοι λόγος ήν, περί δν διετρίβομεν, ούκ οίδ' δντινα τρόπον έρωτικός. γέγραφε γάρ δή ό Λυσίας πειρώμενόν τινα τών καλών, ούχ ύπ’ έραστοΰ δέ, άλλ’ αύτό δή τοΰτο καί κεκόμψευται· λέγει γάρ ώς χαριστέον μή έρώντι μάλλον ή έρώντι. ΣΩ. "Ω γενναίος, είθε γράψειεν ώς χρή πένητι μάλλον ή πλουσίφ, καί πρεσβυτέρψ ή νεωτέρφ, καί δσα άλλα έμοί τε πρόσεστι καί τοίς πολλόϊς ήμών· ή γάρ άν άστεΐοι καί δημωφελείς είεν οι λόγοι, έγωγ' ούν ούτως έπιτεθύμηκα άκοΰσαι, ώστ’ έάν βαδίζων ποιή τόν περίπατον Μέ-

Socrate - Caro Fedro, dove vai e da dove vieni? 227 A F edro - Vengo da Lisia2, figlio di Cefalo3, Socrate, e me

ne vado a passeggiare fuori le mura. Infatti, ho passato mol­ to tempo là seduto, fin dal mattino. E ora, seguendo il con­ siglio di Acumeno4, amico tuo e mio, faccio passeggiate per le strade all’aperto: dice, infatti, che queste tolgono la stan­ chezza più che le passeggiate sotto i portici. B S ocrate - E dice bene, amico. Ma allora, a quanto sem­ bra, Lisia era in città! F edro - Sì, da Epicrate5, in quella casa presso il tempio di Zeus Olimpio6, la casa di Morico7. Socrate - Come avete trascorso il tempo? È evidente che Lisia vi ha imbandito un banchetto dei suoi discorsi! F edro - Lo saprai, se hai tempo di camminare con me e di ascoltarmi. Socrate - Ma come? Non credi, per dirla con Pindaro, che io ponga superiore a ogni occupazione8 il sentire come tu e Lisia avete trascorso il vostro tempo? F edro - Muoviti, dunque ! c Socrate - Purché tu parli. F edro - Certamente, Socrate, ciò che ascolterai s’addi­ ce proprio a te, perché il discorso su cui ci siamo intratte­ nuti, non so in quale modo, era sull’amore. Lisia ha scritto di un bel giovane, il quale viene tentato, ma non da un amante. E anche questo argomento lo ha trattato ingegnosa­ mente. Egli dice, infatti, che si deve essere compiacenti con chi non è innamorato, piuttosto che con chi è innamorato. Socrate - Che generoso! Avesse scritto che bisogna es­ sere compiacenti più con un povero che con un ricco, e più con un vecchio che con un giovane e tutte le altre cose che vanno bene a me e alla maggior parte di noi! Allora sì che d sarebbero veramente garbati e di pubblica utilità questi suoi discorsi! E ora ho un così grande desiderio di udire, che, se anche tu, camminando, prolungassi la tua passeg-

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FEDRO 227 D - 228 C

γαράδε καί κατά Ήρόδικον προσβάς τφ τείχει πάλιν άπίης

ί ού μή σου άπολειφθώ. ΦΑΙ. Πώς λέγεις, & βέλτιστε Σώκρατες; οΐει με, ά 228 A Λυσίας έν πολλφ χρόνψ κατά σχολήν συνέθηκε, δεινότατος

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ών τών νΰν γράφειν, ταϋτα Ιδιώτην δντα άπομνημονεύσειν άξίως έκείνου; πολλοΰ γε δέω· καίτοι έβουλόμην γ’ άν μάλλον ή μοι πολύ χρυσίον γενέσθαι. ΣΩ. ΤΩ Φαιδρέ, εΐ έγώ Φαιδρόν άγνοώ, κάι έμαυτοΰ έπιλέλησμαι. άλλά γάρ ούδέτερά έστι τούτων· εΰ οΐδα δτι ΛυσΙου λόγον άκούων έκεΐνος ού μόνον άπαξ ήκουσεν, άλλά πολλάκις έπαναλαμβάνων έκέλευέν οΐ λέγειν, ό δέ έπείθετο προθύμως. τφ δέ ούδέ ταΰτα ήν Ικανά, άλλά τελευτών παραλαβών τό βιβλίον ά μάλιστα έπεθύμει έπεσκόπει, και τούτο δρών έξ έωθινοΰ καθήμενος άπειπών εις περίπατον ήει, ώς μέν έγώ όΐμαι, νή τόν κύνα, έξεπιστάμενος τόν λόγον, εΐ μή πάνυ τι ήν μακρός. έπορεύετο δ’ έκτός τεί­ χους 'ίνα μελετφη. άπαντήσας δέ τφ νοσοΰντι περί λόγων άκοήν, ϊδών μέν, ίδών, ήσθη δτι 'έξοι τόν συγκορυβαντιώντα, καί προάγειν έκέλευε. δεομένου δέ λέγειν τού τών λόγων έραστοΰ, έθρύπτετο ώς δή ούκ έπιθυμών λέγειν· τελευτών δέ έμελλε καί. εί μή τις έκών άκούοι βίςι έρεΐν. σύ ούν, ώ Φάίδρε, αύτοΰ δεήθητι δπερ τάχα πάντως ποιήσει νΰν ήδη ποιέίν. ΦΑΙ. Έμο'ι ώς άληθώς πολύ κράτιστόν έστιν ούτως δπως δύναμαι λέγειν, ώς μοι δοκείς σύ ούδαμώς με άφήσειν πριν άν είπω άμώς γέ πως. ΣΩ. Πάνυ γάρ σοι άληθή δοκώ.

PROLOGO

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giata fino a Megera e, seguendo i precetti di Erodico9, arri­ vato alle mura, volessi ritornare di nuovo, io non ti resterei indietro. F edro - Che cosa dici, mio ottimo Socrate? Credi che quello che Lisia ha composto in molto tempo e a suo agio, 228 lui che è il più bravo scrittore dei nostri giorni10, io lo possa riferire a memoria in maniera degna di lui, dal momento che sono un profano? Ci vuol altro! Eppure io desidero questo più che ricevere molto oro. Fedro ha ascoltato un discorso di Lisia sull’amore e por· ta con sé il testo Socrate - Fedro, se io non conosco Fedro, ho dimenti­ cato anche me stesso! Ma non è vera né l’una né l’altra di queste cose. Io so bene che, ascoltando un discorso di Li­ sia, Fedro non l’ascoltò una sola volta, ma, tornando molte volte alla carica, ha pregato Lisia di rileggerlo; e Lisia ub­ bidì ben volentieri. Ma a Fedro non è bastato neppure que- b sto, e da ultimo, preso il libro, riesaminò quei pezzi che più gli stavano a cuore; e dal momento che faceva questo fin dal mattino stando seduto, essendo stanco, se ne è andato a fare una passeggiata, e credo, corpo di un cane, ormai sa­ pendo a memoria l’intero discorso, se non era troppo lun­ go! E si stava avviando fuori le mura per recitarlo. Ed ecco che si è imbattuto in uno che è malato della passione di ascoltare discorsi11. Lo ha visto, e, nel vederlo, si è rallegra­ to di aver trovato uno con il quale avrebbe coribanteggiato12, e lo ha invitato a camminare con lui. Però, quando que- c sto amatore dei discorsi lo ha pregato di recitargli il discor­ so, egli dapprima si è schermito, come se non desiderasse parlare. Ma alla fine si sarebbe messo a parlare a viva forza, se uno non fosse stato consenziente di ascoltarlo. Tu dun­ que, Fedro, pregalo di fare subito quello che, in ogni mo­ do, farà tra poco. F edro - Per me, veramente, la cosa migliore è parlare subito, perché mi dai l’impressione di non volermi lasciare andare in nessun modo, prima che io abbia parlato, in un modo o nell’altro. Socrate - L’impressione che tu hai su di me è giustissima.

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FEDRO 228 D - 229 B

ΦΑΙ. Ούτωσί τοίνυν ποιήσω, τφ δντι γάρ, & Σώ­ κρατες, παντός μάλλον τά γε ^>'ήμεχτεχ ούκ έξέμαθον· τήν μέντοι διάνοιαν σχεδόν άπάντων, όίς έφη διαφέρειν τά τοΰ έρώντος ή τά τοΰ μή, èv κεφαλαίοις 'έκαστον έφεξής δίειμι, 5 άρξάμενος από τοΰ πρώτου. ΣΩ. Δείξας γε πρώτον, ώ φιλότης, τί άρα έν τή άριστερά έχεις ύπό τφ ιματίφ· τοπάζω γάρ σε Ιχειν τόν λόγον αυτόν, εί δέ τοΰτό έστιν, ούτωσί διανοοΰ περί έμοΰ, ώς Ε έγώ σε πάνυ μέν φιλώ, παρόντος δέ καί Λυσίου, έμαυτόν σοι έμμελετάν παρέχειν ού πάνυ δέδοκται. άλλ’ ϊθι, δείκνυε. ΦΑΙ. Παΰε. έκκέκρουκάς με έλπίδος, ώ Σώκρατες, ήν έίχον έν σοί ώς έγγυμνασόμενος. άλλά ποΰ δή βούλει J καθιζόμενοι άναγνώμεν; 229 A ΣΩ. Δεΰρ' έκτραπόμενοι κατά τόν Ιλισόν ίωμεν, έΐτα δπου άν δόξη έν ήσυχίςι καθιζησόμεθα. ΦΑΙ. Εις καιρόν, ώς έοικεν, άνυπόδητος ών έτυχον· σύ μέν γάρ δή άεί. βφστον οΰν ήμίν κατά τό ύδάτιον βρέχουσι 5 τούς πόδας ϊέναι, καί ούκ άηδές, άλλως τε καί τήνδε τήν ώραν τοΰ έτους τε καί τής ήμέρας. ΣΩ. Πρόαγε δή, καί σκόπει άμα δπου καθιζησόμεθα. ΦΑΙ. Όρφς οΰν έκείνην τήν ύψηλοτάτην πλάτανον; ΣΩ. Τί μήν; Β ΦΑΙ. Εκεί σκιά τ' έστίν καί πνεΰμα μέτριον, καί πόα καθίζεσθαι ή άν βουλώμεθα κατακλινήναι. ΣΩ. Προάγοις άν. ΦΑΙ. Είπέ μοι, ώ Σώκρατες, ούκ ένθένδε μέντοι ποθέν 5 άπό τοΰ Ίλισοΰ λέγεται ό Βορέας τήν Ώρείθυιαν άρπάσαί; D

PROLOGO

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F edro - Allora farò così! In realtà, Socrate, non ho im- D parato a memoria il discorso parola per parola. Però, il si­ gnificato di quasi tutti gli argomenti con i quali Lisia so­ stenne che c’è differenza fra la condizione di uno che è in­ namorato e quella di uno che non è innamorato, te lo pre­ senterò per sommi capi, per ordine, incominciando dal pri­ mo argomento. Socrate - Però, prima, carissimo, fammi vedere quello che hai nella mano sinistra sotto il mantello. Suppongo che tu abbia proprio quel discorso. Però, se è così, tieni pre­ sente che io ti voglio molto bene, ma che, se c’è qui anche E Lisia, non son proprio del parere di offrire me stesso per il tuo addestramento oratorio. Su, dunque, fammi vedere! F edro - Basta! Mi hai tolto la speranza che avevo di ad­ destrarmi con te, Socrate. Ma dove vuoi che ci mettiamo a sedere per leggere?

Socrate e Fedro si recano sulle rive dell’Ilisso per la let­ tura del discorso di Lisia Socrate - Giriamo di qui e andiamo lungo l’Ilisso13, poi, 229 dove ci sembrerà un posto tranquillo, ci metteremo a sedere. F edro - Sembra proprio che io mi trovi scalzo al mo­ mento giusto; tu, infatti, lo sei sempre14. In questo modo ci sarà facilissimo camminare con i piedi nell’acqua, bagnan­ doci, e non sarà spiacevole, specialmente in questa stagione dell’anno e in questo momento del giorno15. Socrate - Allora, fa’ da guida e, a un tempo, guarda dove dovremo metterci a sedere. F edro - Vedi, allora, quel platano altissimo? Socrate - Ebbene? F edro - Là c’è om bra e un venticello giusto, e anche er- B ba p er m etterci a sedere, o, se vogliamo, p er distenderci. Socrate - Allora fa’ pure da guida.

Il mito di Borea e Orizia e certe interpretazioni razio­ nalistiche dei miti F edro - Dimmi, Socrate, non è proprio di qui, da uno di questi punti dell’Ilisso, come si narra, che Borea16 rapì Orizia17?

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FEDRO 229 Β· 230 A

ΣΩ. Λέγεται γάρ. ΦΑΙ. τΑρ’ οΰν ένθένδε; χαρίεντα γοΰν και καθαρά καί διαφανή τά ύδάτια φαίνεται, καί έπιτήδεια κόραις παίζειν παρ’ αύτά. ΣΩ. Οΰκ, άλλά κάτωθεν δσον δύ’ ή τρία στάδια, ή πρός τό έν “Αγρας διαβαίνομεν· κα\ πού τίς έστι βωμός αύτόθι Βορέου. ΦΑΙ. Ού πάνυ νενόηκα· άλλ’ είπέ πρός Διός, ώ Σώκρατες, σύ τούτο τό μυθολόγημα πείθη άληθές είναι; ΣΩ. ’Αλλ’ εί άπιστοίην, ώσπερ οί σοφοί, ούκ άν άτοπος εΐην, είτα σοφιζόμενος φαίην αύτήν πνεύμα Βορέου κατά τών πλησίον πετρών συν Φαρμακείςι παίζουσαν ώσαι, καί οΰτω δή τελευτήσασαν λεχθήναι ύπό τού Βορέου άνάρπαστον γεγονέναι - ή έξ Άρείου πάγου- λέγεται γάρ αύ καί ούτος ό λόγος, ώς έκείθεν άλλ’ ούκ ένθένδε ήρπάσθη. έγώ δέ, ώ Φαιδρέ, άλλως μέν τά τοιαΰτα χαρίεντα ήγοΰμαι, λίαν δέ δεινού καί έπιπόνου καί οΰ πάνυ εύτυχούς άνδρός, κατ’ άλλο μέν ούδέν, δτι δ’ αύτφ άνάγκη μετά τούτο τό τών Ίπποκενταύρων είδος έπανορθούσθαι, καί αύθις τό τής Χιμαίρας, καί έπιρρέί δέ δχλος τοιούτων Γοργόνων καί Πηγάσων καί άλλων άμηχάνων πλήθη τε καί άτοπίαι τερατολόγων τινών φύσεων- α\ς εί τις άπιστών προσβιβφ κατά τό είκός έκαστον, άτε άγροίκφ τινί σοφίςι χρώμενος, πολλής αύτφ σχολής δεήσει. έμοί δέ πρός αύτά ούδαμώς έστι σχολή- τό δέ αίτιον, ώ φίλε, τούτου τόδε. ού δύναμαί πω κατά τό Δελ­ φικόν γράμμα γνώναι έμαυτόν- γελόίον δή μοι φαίνεται τούτο έτι άγνοοΰντα τά άλλότρια σκοπείν. δθεν δή χαίρειν έάσας ταΰτα, πειθόμενος δέ τφ νομιζομένψ περί αύτών, δ νυνδή έλεγον, σκοπώ ού ταΰτα άλλ’ έμαυτόν, είτε τι θηρίον δν τυγχάνω Τυφώνος πολυπλοκώτερον καί μάλλον έπιτεθυμμένον, είτε ήμερώτερόν τε καί άπλούστερον ζφον, θείας τινός

PROLOGO

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Socrate - Si narra, infatti. F edro - Dunque, proprio qui? Le acque sembrano dav­

vero piacevoli e adatte per le fanciulle per giocare vicino a esse. Socrate - Non di qui, ma circa due o tre stadi più avanti nel punto in cui attraversiamo il fiume per recarci al santuario di Agra18, e proprio là c’è un altare di Borea. F edro - Non ho fatto mai attenzione. Ma dimmi, per Zeus, tu, Socrate, credi ancora che questo mito sia vero? Socrate - Ma se io non ci credessi, così come non ci credono i sapienti19, non sarei lo strano uomo che sono. E in questo modo, facendo il sapiente, potrei sostenere che un colpo di vento di Borea gettò Orizia giù dalle rupi lì vi­ cino, mentre stava giocando con Farinacea20, e che, dal momento che era morta in tal modo, si sparse la voce del suo rapimento da parte di Borea. Oppure dall’Areopago, dato che si narra anche questo racconto, ossia che Orizia fu rapita di là e non di qua. Per quanto mi riguarda, Fedro, considero queste inter­ pretazioni ingegnose, però proprie di un uomo molto esperto e impegnato, ma non troppo fortunato: se non altro, per il motivo che, dopo questo, diventa per lui necessario raddrizzare la forma degli Ippocentauri21, poi quella della Chimera22, e gli piove addosso tutta una folla di tali Gor­ goni23 e Pegasi24 e di altri esseri straordinari e le stranezze di certe nature portentose. E se uno, non credendoci, vuo­ le portare ciascuno di questi esseri in accordo col verosimi­ le, servendosi di una sapienza rozza come questa, dovrà avere a sua disposizione molto tempo libero. Ma per queste cose non ho tempo libero a mia disposi­ zione. E la ragione di questo, mio caro, è la seguente. Io non sono ancora in grado di conoscere me stesso, come prescrive l’iscrizione di Delfi25; e perciò mi sembra ridico­ lo, non conoscendo ancora questo, indagare cose che mi sono estranee. Perciò, salutando e dando addio a tali cose e mantenendo fede alle credenze che si hanno di esse, come dicevo prima, vado esaminando non tali cose, ma me stes­ so, per vedere se non si dia il caso che io sia una qualche bestia assai intricata e pervasa di brame più di Tifone26, o se, invece, sia un essere vivente più mansueto e più sempli-

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PROLOGO

καν άτύφου μοίρας φύσει μετέχον. άτάρ, ώ εταίρε, μεταξύ τών λόγων, άρ’ ού τόδε ήν τό δένδρον έφ’ δπερ ήγες ήμάς·, ΦΑΙ. Τούτο μεν σδν αύτό. ΣΩ. Νή τήν "Ηραν, καλή γε ή καταγωγή, ή τε γάρ πλάτανος αύτη μάλ' άμφιλαφής τε καί ύψηλή, τού τε αγνού τό ϋψος καί τό σΰσκιον πάγκαλον, καί ώς άκμήν έχει της άνθης, ώς άν εύωδέστατον παρέχοι τόν τόπον· ή τε αύ πηγή χαριεστάτη ύπό τής πλατάνου βει μάλα ψυχρού ΰδατος, ώστε γε τφ ποδί τεκμήρασθαι. Νυμφών τέ τινων καί Άχελφου ιερόν άπό τών κορών τε καί άγαλμάτων Ιοικεν είναι, εΐ δ* αύ βοΰλει, τό εΰπνουν τού τόπου ώς άγαπητόν καί σφόδρα ήδύ· θερινόν τε καί λιγυρόν ύπηχεί τφ τών τεττίγων χορφ. πάντων δέ κομψότατον τό τής πόας, δτι έν ήρέμα προσάντει ικανή πέφυκε κατακλινέντι τήν κεφαλήν παγκάλως έχειν. ώστε άριστά σοι έξενάγηται, ώ φίλε Φάίδρε. ΦΑΙ. Σύ δέ γε, ώ θαυμάσιε, άτοπώτατός τις φαίνη. άτεχνώς γάρ, δ λέγεις, ξεναγουμένφ τινί καί οϋκ έπιχωρίφ εοικας- ούτως έκ τού άστεος οΰτ’ εις τήν υπερορίαν άποδημεΐς, ούτ’ έξω τείχους έμοιγε δοκεΐς τό παράπαν έξιέναι. ΣΩ. Συγγίγνωσκέ μοι, ώ άριστε. φιλομαθής γάρ είμι· τά μέν ούν χωρία καί τά δένδρα ούδέν μ’ έθέλει διδάσκειν, οί δ’ έν τφ άστει άνθρωποι, σύ μέντοι δοκεΐς μοι τής έμής έξόδου τό φάρμακον ηύρηκέναι. ώσπερ γάρ οί τά πεινώντα θρέμματα θαλλόν ή τινα καρπόν προσείοντες άγουσιν, σύ έμοί λόγους οΰτω προτείνων έν βιβλίοις τήν τε Αττικήν φαίνη περιάξειν άπασαν καί δποι άν άλλοσε βούλη. νύν δ’ ούν έν τφ παρόντι δεΰρ’ άφικόμενος έγώ μέν μοι δοκώ κατακείσεσθαι, σύ δ’ έν όποίφ σχήματι οίει βφστα άναγνώσεσθαι, τοΰθ’ έλόμενος άναγίγνωσκε. ΦΑΙ. "Ακούε δή.

ce, partecipe per natura di una sorte divina e senza fumosa arroganza27, Ma, amico, per interrompere i nostri discorsi, non è que­ sto l’albero al quale ci guidavi? F edro - È p ro p rio questo.

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Descrizione del paesaggio che fa da cornice al dialogo Socrate - Per Era! Bel luogo per fermarci! Questo pla­ tano è molto frondoso e alto; l’agnocasto28 è alto e la sua ombra bellissima, e, nel pieno della fioritura com’è, rende il luogo profumatissimo. E poi scorre sotto il platano una fonte graziosissima, con acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini e dalle statue, poi, sem­ bra che sia un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo29. E se vuoi altro ancora, senti come è gradevole e molto dol- c ce il venticello del luogo. Un dolce mormorio estivo ri­ sponde al coro delle cicale30. Ma la cosa più piacevole di tutte è quest’erba che, disposta in dolce declivio, sembra cresciuta per uno che si distenda sopra, in modo da appog­ giare perfettamente la testa. Dunque, hai fatto da guida a un forestiero in modo eccellente, caro Fedro31. F edro - Tu, mirabile Socrate, mi sembri un uomo dav­ vero stranissimo. Infatti, assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e non a uno del luogo. Mi D sembra che tu non esca affatto dalla città, per recarti oltre i confini, e neppure per andare fuori le mura32. Socrate - Perdonami, carissimo! Io sono uno che ama imparare. La campagna e gli alberi non mi vogliono inse­ gnare niente; gli uomini della città, invece, sì. Tu, però, mi sembra che abbia trovato la medicina per farmi uscire. In­ fatti, come fanno quelli che si tirano dietro gli animali affa­ mati, agitando davanti a loro un ramoscello verde o un frut­ to, tu, tendendomi davanti discorsi scritti nei libri, mi sem­ bra proprio che mi porterai in giro per tutta l’Attica e da E qualsiasi parte vorrai. Ma ora che siamo giunti qui, intendo sdraiarmi; e tu vedi quale sia la posizione che ritieni più co­ moda per poter leggere; sceglila e poi leggi!33 F edro - Allora ascolta!

P ar te p r im a

Discorso di Lisia sull’amore

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Περί μέν τών έμών πραγμάτων έπίστασαι, καί ώς νομίζω συμφέρειν ήμΐν γενομένων τούτων άκήκοας· άξιώ & μή διά τούτο άτυχήσαι ών δέομαι, δτι ούκ έραστής ών σου τυγ­ χάνω. ώς έκείνοις μέν τότε μεταμέλει ών άν εύ ποιήσωσιν, έπειδάν τής έπιθυμίας παύσωνται· τοΐς δέ ούκ έστι χρόνος έν ώ μεταγνώναι προσήκει. ού γάρ ύπ’ άνάγκης άλλ’ έκόντες, ώς άν άριστα περί τών οικείων βουλεύσαιντο, πρός τήν δύναμιν τήν αύτών εύ ποιοΰσιν. έτι δέ οί μέν έρώντες σκοποΰσιν ά τε κακώς διέθεντο τών αύτών διά τόν έρωτα καί ά πεποιήκασιν εύ, καί δν εΐχον πόνον προστιθέντες ήγοΰνται πάλαι τήν άξίαν άποδεδωκέναι χάριν τοΐς έρωμένοις· τοΐς δέ μή έρώσιν ούτε τήν τών οικείων άμέλειαν διά τούτο έστιν προφασίζεσθαι, ούτε τούς παρεληλυθότας πόνους ύπολογίζεσθαι, ούτε τάς πρός τούς προσήκοντος διαφοράς αίτιάσασθαΐ' ώστε περιηρημένων τοσούτων κακών ούδέν ύπολείπεται άλλ’ ή ποιεΐν προθύμως δτι άν αύτοΐς οΐωνται πράξαντες χαριεΐσθαι. έτι δέ εί διά τούτο άξιον τούς έρώντας περί πολλοΰ ποιεΐσθαι, δτι τούτους μάλιστά φασιν ψιλήν ών άν έρώσιν, καί 'έτοιμοί είσι καί έκ τών λόγων καί έκ τών έργων τοΐς άλλοις άπεχθανόμενοι τοΐς έρωμένοις χαρίζεσθαι, fxjtòiov γνώναι, εί άληθή λέγουσιν, δτι δσων άν ύστερον έρασθώσιν, έκείνους αύτών περί πλείονος ποιήσονται,

I. DISCORSO DI USIA SULL’AMORE

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Lettura del discorso di Lisia34 «Dello stato delle cose che mi riguardano tu sei a cono­ scenza; e come io ritenga di giovamento, per noi, che que­ ste cose abbiano luogo, lo hai udito. Ma io non ritengo giu­ sto che per questo io non possa ottenere le cose che ti chie- 231 do, ossia per il motivo che io non mi trovo a essere un tuo innamorato. «Infatti, gli innamorati provano dispiacere per quei be­ nefici che hanno fatto, non appena si siano liberati della lo­ ro passione; invece, per i non innamorati non verrà mai un tempo in cui bisogna cambiare parere. Infatti, questi non per necessità, ma spontaneamente, e in modo da provvede­ re alle proprie cose nella migliore maniera possibile, fanno benefici secondo la loro capacità. «Inoltre, coloro che sono innamorati prendono in con­ siderazione, a un tempo, quelle delle loro faccende che a causa dell’amore sono andate male e i benefici che hanno concesso, e, aggiungendo a queste cose anche l’affanno che ne hanno avuto, si convincono di aver resa già in passato B degna ricompensa agli amati. Invece, quelli che non sono innamorati non possono presentare come scusa di non es­ sersi presa cura delle proprie faccende a causa dell’amore, né possono mettere in conto gli affanni passati, né mettere a carico dell’amato le discordie sorte con i propri familiari. Sicché, tolti via tutti questi mali, non resta a loro nient’altro se non fare con premura quello che ritengono che, do­ po che l’avranno fatto, riuscirà gradito a loro. «Ancora, se vale la pena tenere gli innamorati in gran c pregio, per la ragione che essi dicono di essere amici in som­ mo grado di coloro di cui sono innamorati, e di essere pronti e in parole e in opere a fare ciò che piace agli amici, anche nel caso che dovessero diventare odiosi agli altri; ebbene, è facile comprendere che, se dicono il vero, è evidente che di quelli di cui si innamoreranno in seguito, avranno conside­ razione maggiore che non dei primi, ed è anche evidente

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I. DISCORSO DI LISIA SULL’AMORE

και δήλον δτι, έάν έκείνοις δοκή, καί τούτους κακώς ποιήσουσιν. καίτοι πώς εΐκός έστι τοιοΰτον πράγμα προέσθαι τοιαύτην έχοντι συμφοράν, ήν ούδ’ άν έπιχειρήσειεν ούδεις έμπειρος ών άποτρέπειν; καί γάρ αυτοί όμολογοΰσι νοσεΐν μάλλον ή σωφρονείν, καί είδέναι δτι κακώς φρονοΰσιν, άλλ’ οΰ δύνασθαι αύτών κρατείν· ώστε πώς άν εύ φρονήσαντες ταΰτα καλώς έχειν ήγήσαιντο περί ών οϋτω διακείμενοι βουλεύονταί; καί μέν δή εί μέν έκ τών έρώντων τόν βέλτιστον αίροΐο, έξ όλίγων άν σοι ή έκλεξις εΐη· εί δ’ έκ τών άλλων τόν σαυτφ έπιτηδειότατον, έκ πολλών· ώστε πολύ πλείων έλπίς έν τοΐς πολλοΐς δντα τυχείν τόν άξιον τής σής φιλίας. Εί τοίνυν τόν νόμον τόν καθεστηκότα δέδοικας, μή πυθομένων τών ανθρώπων δνειδός σοι γένηται, είκός έστι τούς μέν έρώντας, ούτως άν οίομένους καί ύπό τών άλλων ζηλούσθαι ώσπερ αύτούς ύφ’ αύτών, έπαρθήναι τφ λέγειν καί φιλοτιμουμένους έπιδείκνυσθαι πρός άπαντας δτι ούκ άλλως αύτοΐς πεπόνηται· τούς δέ μή έρώντας, κρείττους αύτών δντας, τό βέλτιστον άντί τής δόξης τής παρά τών άνθρώπων αίρεΐσθαι. έτι δέ τούς μέν έρώντας πολλούς άνάγκη πυθέσθαι καί ίδεΐν άκολουθοΰντας τοίς έροιμένοις καί έργον τούτο ποιουμένους, ώστε δταν όφθώσι διαλεγόμενοι άλλήλοις, τότε αύτούς οΐονται ή γεγενημένης ή μελλούσης έσεσθαι τής έπιθυμίας συνείναν τούς δέ μή έρώντας ούδ’ αίτιάσθαι διά τήν συνουσίαν έπιχειροΰσιν, είδότες δτι άναγκαίόν έστιν ή διά φιλίαν τφ διαλέγεσθαι ή δι’ άλλην τινά ήδονήν. καί μέν δή εΐ σοι δέος παρέστηκεν ήγουμένφ χαλεπόν είναι φιλίαν συμμένειν, καί άλλφ μέν τρόπψ δια-

che, se così piacerà a essi, ai primi potranno fare perfino del male. «E di quale convenienza è mai il concedere una cosa di questo genere a chi ha una disgrazia come questa, che nessuno, per quanto sia esperto, potrebbe tentare di allonta­ nare? E infatti, gli innamorati stessi ammettono di essere malati ben più che in senno e di sapere di essere fuori sen­ no, ma di non essere capaci di dominarsi. Di conseguenza, dopo che fossero tornati in senno, come potrebbero giudi­ car buone le cose che hanno deciso quando si trovavano in quelle condizioni? «E ancora, se tu dovessi scegliere il migliore di coloro che fossero innamorati, avresti la possibilità di scegliere so­ lo fra pochi; se, invece, volessi scegliere fra coloro che non sono innamorati quello che è più adatto a te, avresti la pos­ sibilità di scegliere fra molti. Perciò, scegliendo fra molti, ci sarebbe una speranza assai maggiore di poter trovare colui che sia meritevole della tua amicizia. «Se poi, stando alle regole comuni, tu temi che, venen­ done la gente a conoscenza, ne riceveresti riprovazione, tie­ ni presente quanto segue. È possibile che coloro che sono innamorati, i quali credono di essere invidiati anche dagli altri così come si invidiano fra loro stessi, si inorgogliscano col parlare della cosa, e che si vantino con il far vedere a tutti che non hanno fatto fatica inutilmente. Invece, quelli che non sono innamorati, dal momento che hanno perfetto dominio di se medesimi, scelgono ciò che è meglio, invece che la notorietà presso gli uomini. «Ancora, è giocoforza che molti vengano a conoscenza di coloro che sono innamorati e che li vedano mentre ac­ compagnano i loro amati e mentre si danno da fare per que­ sti. Di conseguenza, quando li vedono conversare fra di loro, allora pensano che stiano insieme o perché hanno già soddisfatto o perché si accingono a soddisfare il loro desi­ derio morboso. Invece, non si cerca affatto di accusare quelli che non sono innamorati, per il fatto che stanno in­ sieme, perché si sa che è necessario parlare con qualcuno, o per amicizia, o per qualche altra cosa che dà piacere. «E se poi hai paura, in quanto credi difficile che un’a­ micizia perduri, e inoltre se hai paura che, mentre quando

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φορ&ς γενομένης κοινήν άμφοτέροις καταστηναι τήν c συμφορών, προεμένου δέ σου ά περί πλείστου ποιή μεγάλην άν σοι βλάβην άν γενέσθαι, εΙκότως άν τούς έρώντας μάλ­ λον άν φοβοίο· πολλά γάρ αύτούς έστι τά λυποΰντα, καί πάντ’ fati τή αύτών βλάβη νομίζουσι γίγνεσθαι, διόπερ 5 καί τάς πρός τούς άλλους τών έρωμένων συνουσίας άποτρέπουσιν, φοβούμενοι τούς μέν ούσίαν κεκτημένους μή χρήμασιν αυτούς ύπερβάλωνται, τούς δέ πεπαιδευμένους μή συνέσει κρείττους γένωνται· τών δέ άλλο τι κεκτημένων D άγαθόν τήν δύναμιν έκάστου φυλάττονται. πείσαντες μέν ούν άπεχθέσθαι σε τούτοις είς έρημίαν φίλων καθιστάσιν, έάν δέ τό σεαυτοΰ σκοπών άμεινον έκείνων φρονής, ήξεις αύτοίς είς διαφοράν· δσοι δέ μή έρώντες Ιτυχον, άλλά δι’ J άρετήν έπραξαν ών έδέοντο, οΰκ άν τοίς συνοΰσι φθονοίεν, άλλά τούς μή έθέλοντας μισοίεν, ήγούμενοι ύπ’ έκείνων μέν ύπεροράσθαι, ύπό τών συνόντων δέ ώφελείσθαι, ώστε πολύ Ε πλείων έλπίς φιλίαν αύτοίς έκ τού πράγματος ή έχθραν γενέσθαι. Καί μέν δή τών μέν έρώντων πολλοί πρότερον τού σώ­ ματος έπεθύμησαν ή τόν τρόπον έγνωσαν καί τών άλλων j οικείων έμπειροι έγένοντο, ώστε άδηλον αύτοίς εί έτι τότε βουλήσονται φίλοι είναι, έπειδάν τής έπιθυμίας παύσωνται· 233 A τοίς δέ μή έρώσιν, οί καί πρότερον άλλήλοις φίλοι δντες ταύτα έπραξαν, ούκ έξ ών άν εύ πώθωσι ταύτα είκός έλάττω τήν φιλίαν αύτοίς ποιήσαι, άλλά ταύτα μνημεία καταλει φθήναι τών μελλόντων έσεσθαι. καί μέν δή βελτίονί σοι 5 προσήκει γενέσθαι έμοί πειθομένψ ή έραστή. έκείνοι μέν γάρ καί παρά τό βέλτιστον τά τε λεγόμενο καί τά πραττόμενα έπαινοΰσιν, τά μέν δεδιότες μή άπέχθωνται, τά δέ Β καί αύτοί χείρον διά τήν έπιθυμίαν γιγνώσκοντες. τοιαΰτα

I. DISCORSO DI LISIA SULL'AMORE

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nasce discordia per altro motivo ne consegue sfortuna per tutti e due, in questo caso, invece, il maggior danno venga c a te, perché hai gettato via le cose che hai più care; ebbene, allora, a maggior ragione, dovresti aver paura di quelli che sono innamorati! Infatti, le cose che li affliggono sono mol­ te e ritengono che tutte le cose avvengano a danno loro. Perciò distolgono gli amati dalla compagnia con altri, nel timore che coloro che posseggono ricchezze li superino in denari e che quelli che hanno invece una formazione cultu­ rale li superino in intelligenza. E in generale si mettono in posizione di difesa nei confronti del potere di tutti quelli che sono in possesso di qualsiasi altro bene. E, dopo averti D persuaso a venire in lite con questi, ti riducono in solitudi­ ne, senza amici. E se tu, badando al tuo interesse, la pensi meglio di loro, verrai in discordia con loro. Invece, quelli che si trovano nella condizione di non essere innamorati, ma hanno ottenuto per abilità loro ciò di cui avevano biso­ gno, non sarebbero gelosi di quelli che stanno in tua com­ pagnia, ma, anzi, odierebbero quelli che non volessero sta­ re insieme a te, nella convinzione che da questi tu sei di­ sprezzato, mentre da quelli che stanno in tua compagnia ri­ cevi vantaggi. Perciò c’è molta più speranza che, da questo, E fra tutti loro nasca amicizia, invece che inimicizia. «E, per giunta, molti di coloro che sono innamorati han­ no avuto desiderio del corpo prima di aver conosciuto l’in­ dole e di aver avuto esperienza delle altre caratteristiche fi­ siche proprie dell’amato. Di conseguenza, resta per loro in­ certo se vorranno continuare a rimanere amici, una volta che si siano liberati della loro passione. Invece, coloro che 233 non sono innamorati e che erano amici fra loro anche pri­ ma di fare questo, non è verosimile che, dopo che abbiano ricevuto soddisfazione in queste cose, la loro amicizia risul­ ti diminuita; queste cose resteranno, piuttosto, precisi ri­ cordi per le cose che dovranno verificarsi in futuro. «Inoltre, ti sarà possibile diventare migliore, se ti lascerai convincere da me, invece che da un innamorato. Infatti, gli innamorati elogiano, anche al di là del conveniente, le cose che dici e che fai, da un lato, perché temono di diven­ tare odiosi, e, dall’altro, perché danno cattivi giudizi a cau- B sa della loro passione. Questi, infatti, sono gli effetti che

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γάρ ό έρως έπιδείκνυται- δυστυχοΰντας μέν, ά μή λύπην τοϊς άλλοις παρέχει, άνιαρά πονά νομίζειν· εύτυχούντας δέ και τά μή ήδονής άξια παρ’ έκείνων έπαίνου αναγκάζει τυγχάνειν· ώστε πολύ μάλλον έλεεΐν τοϊς έρωμένοις ή ζηλοΰν αύτούς προσήκει. έάν δέ μοι πείθη, πρώτον μέν ού τήν παρούσαν ήδονήν θεραπεύων συνέσομαί σοι, άλλά καί τήν μέλλουσαν ώφελίαν έσεσθαι, ούχ ύπ’ έρωτος ήττώμενος άλλ’ έμαυτοΰ κρατών, ούδέ διά σμικρά ίσχυράν έχθραν άναιρούμενος άλλά διά μεγάλα βραδέως όλίγην όργήν ποιού­ μενος, τών μέν άκουσίων συγγνώμην έχων, τά δέ έκούσια πειρώμενος άποτρέπειν· ταΰτα γάρ έστι φιλίας πολύν χρό­ νον έσομένης τεκμήρια, εί δ’ άρα σοι τούτο παρέστηκεν, ώς ούχ όίόν τε ίσχυράν φιλίαν γενέσθαι έάν μή τις έρών τογχάνη, ένθυμεισθαι χρή δτι οΰτ’ άν τούς ύείς περί πολλοΰ έποιούμεθα ούτ’ άν τούς πατέρας καί τάς μητέρας, οΰτ’ άν πιστούς φίλους έκεκτήμεθα, όί ούκ έξ έπιθυμίας τοιαύτης γεγόνασιν άλλ’ έξ έτέρων έπιτηδευμάτων. ”Ετι δέ εί χρή τοϊς δεομένοις μάλιστα χαρίζεσθαι, προσήκει καί τοϊς άλλοις μή τούς βελτίστους άλλά τούς άπορωτάτους εύ ποιεΐν· μεγίστων γάρ άπαλλαγέντες κακών πλείστην χάριν αύτοίς εΐσονται. καί μέν δή καί έν ταΐς ίδίαις δαπάναις ού τούς φίλους άξιον παρακαλεϊν, άλλά τούς προσαιτούντας καί τούς δεομένους πλησμονής- έκεΐνοι γάρ καί άγαπήσουσιν και άκολουθήσουσιν καί έτή τάς θύρας ήξουσι καί μάλιστα ήσθήσονται καί ούκ έλαχίστην χάριν εΐσονται καί πολλά άγαθά αύτοίς εΰξονται. άλλ’ ίσως προσήκει ού τοϊς σφόδρα δεομένοις χαρίζεσθαι, άλλά τοϊς μάλιστα άποδούναι χάριν δυναμένοις- ούδέ τοϊς προσαιτούσι μόνον, άλλά τοϊς τού πράγματος άξίοις- ούδέ όσοι τής σής ώρας άπολαύσονται, άλλ’ ο'ίτινες πρεσβυτέρφ γενομένφ τών

I. DISCORSO DI LISIA SULL'AMORE

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l’amore produce: per coloro che non hanno fortuna, l’amo­ re fa apparire insopportabili quelle cose che per gli altri non comportano afflizione; invece, esso spinge coloro che han­ no fortuna a trovar modo di tessere elogi anche per quelle cose che non sono per nulla degne di compiacimento. «Perciò, per gli innamorati, conviene avere compassio­ ne molto più che ammirazione. «Invece, se tu dai ascolto a me, prima di tutto, starò in­ sieme a te non solo prendendomi cura del piacere del mo­ mento presente, ma anche del vantaggio che ne verrà in se­ guito, e non vinto d’amore, ma con dominio di me stesso” , c né suscitando per piccole cose una forte inimicizia, ma an­ che irritandomi poco e non repentinamente per cose gravi, avendo tolleranza per le mancanze involontarie e cercando di allontanare quelle volontarie. Sono proprio questi i se­ gni di una amicizia che potrà durare per molto tempo. «Se invece tu ti sei messo in mente che non possa na­ scere una forte amicizia, se uno non si trovi a essere inna­ morato, allora dovresti anche pensare che noi non potrem- D mo apprezzare molto i figli, né i padri, né le madri, e non potremmo nemmeno più avere amici fidati. Infatti, tali vin­ coli sono sorti non certo da una passione di questo tipo, ma da ben altri rapporti. «Inoltre, se si deve concedere i propri favori soprattutto a coloro che ne hanno bisogno, allora conviene concedere benefici anche nelle altre cose, non ai migliori, ma ai più bisognosi. Infatti, costoro, venendo liberati da mali molto gravi, avranno la più grande gratitudine per quelli che li hanno aiutati. Così, per esempio, si dovrebbero invitare al- E le feste in casa non gli amici, bensì coloro che ci pregano con insistenza e che hanno bisogno di venire sfamati, per­ ché costoro ci ameranno, ci seguiranno e staranno alle por­ te, proveranno gran gioia, saranno molto riconoscenti e au­ gureranno molti beni ai loro benefattori. «Ma, probabilmente, conviene concedere i favori non già a coloro che ne hanno molto bisogno, bensì a coloro che sono maggiormente in grado di ricambiare favori: non solo a coloro che chiedono, ma a coloro che sono degni della co- 234 A sa; non a coloro che vorranno solamente cogliere il fiore del­ la tua giovinezza, ma a coloro che ti faranno parte dei loro

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σφετέρων αγαθών μεταδώσουσιν· ουδέ dì διαπραξάμενοι πρός τούς άλλους φιλοτιμήσονται, άλλ’ ο'ίτινες αίσχυνό5 μενοι πρός άπαντας σιωπήσονται· ούδέ τοΐς όλίγον χρόνον σπουδάζουσιν, άλλά τοΐς όμοίως διά παντός τοΰ βίου φίλοις έσομένοις· ούδέ ο'ίτινες παυόμενοι τής έπιθυμίας έχθρας πρόφασιν ζητήσουσιν, άλλ’ οΐ παυσαμένου τής ώρας τότε Β τήν αύτών άρετήν έπιδείξονται. σύ ούν τών τε είρημένων μέμνησο και έκεΐνο ένθυμοΰ, ότι τούς μέν έρώντας οι φίλοι νουθετοΰσιν ώς δντος κακού τοΰ έπιτηδεΰματος, τοΐς δέ μή έρώσιν ούδεις πώποτε τών οικείων έμέμψατο ώς διά τούτο 5 κακώς βουλευομένοις περί έαυτών. "Ισως άν ούν έροιό με ri άπασίν σοι παραινώ τοΐς μή έρώσι χαρίζεσθαι. έγώ μέν όίμαι ούδ’ άν τόν έρώντα πρός άπαντάς σε κελεύειν τούς έρώντας ταύτην έχειν τήν c διάνοιαν, ούτε γάρ τφ λαμβάνοντι χάριτος ίσης άξιον, ούτε σοί βουλομένφ τούς άλλους λανθάνειν όμοίως δυνατόν· δει δέ βλάβην μέν άπ’ αύτοΰ μηδεμίαν, ώφελίαν δέ άμφοΐν γίγνεσθαι, έγώ μέν ούν ικανά μοι νομίζω τά είρημένα· 5 εί δ’ έτι σύ ποθείς, ήγούμενος παραλελεΐφθαι, έρώτα. ΦΑΙ. Τί σοι φαίνεται, ώ Σώκρατες, ό λόγος; ούχ ύπερφυώς τά τε άλλα καί τοΐς όνόμασιν είρήσθαι-, D ΣΩ. Δαιμονίως μέν ούν, ώ έταΐρε, ώστε με έκπλαγήναι. καί τούτο έγώ έπαθον διά σέ, ώ Φοίίδρε, πρός σέ άποβλέπων, δτι έμοί έδόκεις γάνυσθαι ύπό τοΰ λόγου μεταξύ άναγιγνώσκων· ήγούμενος γάρ σέ μάλλον ή έμέ έπΟίειν

I. DISCORSO DI LISIA SULL'AMORE

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beni anche quando tu sarai diventato vecchio; non a coloro che, otten u ti i risultati, se ne vanteranno con gli altri, m a a coloro che, sentendo pudore, m anterranno il silenzio con tutti; non a coloro che si prenderanno cura di te p er poco tem po, m a a coloro che ti saranno ugualm ente amici per tu tta la vita; non a coloro che, una volta che hanno placato il loro desiderio, subito cercheranno pretesti d i discordia, ma a coloro che, quando il fiore della tu a giovinezza sarà appassito, proprio allora ti daranno prova della loro virtù. B

«Dunque, ti devi ricordare delle cose che ho detto e de­ vi fare bene attenzione al fatto che gli amici muovono rim­ proveri a quelli che sono innamorati, convinti che questo modo di comportarsi sia cattivo; invece, a quelli che non sono innamorati, nessuno dei familiari ha mai mosso il rim­ provero di aver mal provveduto, per questo motivo, alle proprie cose. «Forse ora tu mi domanderai se io ti esorti a concedere i tuoi favori a tutti coloro che non sono innamorati. Ma io penso che nemmeno chi è innamorato ti esorterebbe ad avere questo atteggiamento nei confronti di tutti quelli che sono innamorati di te. Infatti, né, in generale, chi riceve i c tuoi favori riterrà la cosa degna di uguale gratitudine, né, anche se lo volessi, ti sarebbe possibile tenere nascosta in uguale maniera la cosa agli altri. E, invece, bisogna che da questo non provenga alcun danno, ma che provenga un vantaggio per tutti e due. «Mi pare che ormai le cose che ho detto siano sufficien­ ti. Ma se tu desideri sapere ancora qualche cosa, ritenendo che io l’abbia tralasciata, interroga!». Osservazioni critiche di Socrate sul discorso di Lisia F edro - Come ti pare, Socrate, il discorso? Non è stato composto in modo davvero meraviglioso, specialmente per i vocaboli? S ocrate - In modo veramente divino, amico, al punto che ne sono rimasto colpito! E questa impressione l’ho avuta a causa tua, nel guardare te, perché mi parevi esultare durante la lettura. E, dal momento che sono convinto che in queste cose tu te ne intenda più di me, ti seguivo, e, nel

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FEDRO 234 D - 235 B

περί τών τοιούτων σοί είπόμην, καί έπόμενος συνεβάκχευσα μετά σοΰ τής θείας κεφαλής. ΦΑΙ. Εΐεν· οϋτω δή δοκεΐ παίζειν; ΣΩ. Δοκώ γάρ σον παίζειν καί ούχί έσπουδακέναι; ΦΑΙ. Μηδαμώς, ώ Σώκρατες, άλλ’ ώς άληθώς είπέ πρός Διός φιλίου, οΐει άν τινα έχειν είπεΐν άλλον τών 'Ελλήνων 'έτερα τούτων μείζω καί πλείω περί τού αύτοΰ πράγματος; ΣΩ. Τί δέ; καί ταύτη δει ύπ’ έμοΰ τε καί σοΰ τόν λόγον έπαινεθήναι, ώς τά δέοντα είρηκότος τοΰ ποιητοΰ, άλλ’ ούκ έκείνη μόνον, δτι σαφή καί στρογγύλα, καί άκριβώς 'έκαστα τών όνομάτων άποτετόρνευταί; εί γάρ δει, συγχωρητέον χάριν σήν, έπεί έμέ γε έλαθεν ύπό τής έμής ούδενίας· τφ γάρ βητορικφ αύτοΰ μόνψ τόν νοΰν προςεΐχον, τοΰτο δέ ούδ’ αύτόν φμην Λυσίαν οΐεσθαι ίκανόν είναι, καί ούν μοι έδοξεν, ώ Φαιδρέ, εί μή τι σύ άλλο λέγεις, δίς καί τρις τά αύτά είρηκέναι, ώς ού πάνυ εύπορών τοΰ πολλά λέγειν περί τοΰ αύτοΰ, ή ίσως ούδέν αύτφ μέλον τοΰ τοιούτου· καί έφαίνετο δή μοι νεανιεύεσθαι έπιδεικνύμενος ώς όίός τε ών ταύτά έτέρως τε καί έτέρως λέγων άμφοτέρως είπεΐν άριστα. ΦΑΙ. Ούδέν λέγεις, ώ Σώκρατες' αύτό γάρ τοΰτο καί μάλιστα ό λόγος έχει, τών γάρ ένόντων άξίως βηθήναι εν τφ πράγματι ούδέν παραλέλοιπεν, ώστε παρά τά έκείνψ είρημένα μηδέν’ ποτέ δύνασθαι είπεΐν άλλα πλείω καί πλείονος άξια. ΣΩ. Τοΰτο έγώ σοι ούκέτι όίός τ’ έσομαι πιθέσθαι· παλαιοί γάρ καί σοφοί άνδρες τε καί γυναίκες περί αύτών είρηκότες καί γεγραφότες έξελέγξουσί με, έάν σοι χαριζόμενος συγχωρώ.

I. DISCORSO DI USIA SULL'AMORE

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seguirti, partecipavo con te all’entusiasmo bacchico36, o te­ sta divina” ! F edro - Via! Ti pare di scherzare proprio così? Socrate - E ti pare che io stia scherzando e che non ab­ bia fatto sul serio? F edro - Proprio no, Socrate! Ma dimmi sul serio, per E Zeus custode dell’amicizia: credi che ci sia qualcun altro degli Elleni che sia in grado di dire altre cose, in modo mi­ gliore e più am pio38 sul medesimo argomento? Socrate - Ma come? Bisogna che il discorso venga lo­ dato da te e da me anche per questo motivo, ossia perché l’autore ha detto le cose che bisognava dire? E non solo per l’altro motivo, ossia perché ciascuno dei vocaboli è chia­ ro, forbito e ben tornito? Se bisogna davvero, dovrò am­ mettere questo per amor tuo, perché a me è sfuggito, a causa della mia nullità. Infatti, io ho posto attenzione solo 235 A alla forma retorica del discorso; mentre pensavo che nep­ pure Lisia ritenesse sufficiente l’altro punto. Infatti, mi è sembrato, Fedro - a meno che tu non dica cosa diversa -, che egli abbia ripetuto due o tre volte le medesime cose, co­ me se non avesse a sua disposizione molte risorse nel dire molte cose sullo stesso argomento o, forse, come se non avesse nessun interesse per tale argomento. E mi sembrava che si muovesse con giovanile baldanza, mostrando di essere capace di dire le medesime cose ora in una maniera ora in un’altra, e di dirle in un caso e nell’altro nel modo migliore39. F edro - Quello che dici non è vero per niente, Socrate. B Infatti, l’essenziale del discorso è soprattutto questo: non ha tralasciato nessuna delle cose che sull’argomento meri­ tavano di essere dette. Perciò, oltre le cose dette da Lisia, nessuno sarebbe mai capace di dirne altre più ampie e di maggior valore. Alcuni sapienti del passato contraddicono le concezioni di Lisia sull’amore Socrate - In questo non ti potrò più seguire. Infatti, uomini e donne dei tempi antichi e sapienti che hanno par­ lato e scritto su queste medesime cose, mi confuteranno se io, per accontentarti, ti darò ragione su questo punto.

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FEDRO 235 C - 236 A

ΦΑΙ. Τίνες οΰτοί; και ποΰ σύ βελτίω τούτων άκήκοας; ΣΩ. Νΰν μέν ούτως ούκ έχω είπεΐν· δήλον δέ δτι τινών άκήκοα, ή που Σαπφοΰς τής καλής ή Άνακρέοντος τού σοφού ή καί συγγραφέων τινών. πόθεν δή τεκμαιρόμενος J λέγω; πλήρές πως, ώ δαιμόνιε, τό στήθος Ιχων αισθάνομαι παρά ταΰτα άν έχειν είπεΐν 'έτερα μή χείρω. δτι μέν σύν παρά γε έμαυτοΰ ούδέν αύτών έννενόηκα, εΰ οίδα, συνειδώς έμαυτφ άμαθίαν· λείπεται δή οίμαι έξ άλλοτρίων ποθέν D ναμάτων διά τής άκοής πεπληρώσθαί με δίκην άγγείου. ύπό δέ νωθείας αΰ καί αύτό τούτο έπιλέλησμαι, δπως τε καί ώντινων ήκουσα. ΦΑΙ. Ά λλ’, ώ γενναιότατε, κάλλιστα εΐρηκας. σύ γάρ J έμοί ώντινων μέν καί δπως ήκουσας μηδ’ άν κελεύω εΐπης, τούτο δέ αύτό δ λέγεις ποίησον· τών έν τφ βιβλίφ βελτίω τε καί μή έλάττω 'έτερα ύπέσχησαι είπεΐν τούτων άπεχόμενος, καί σοι έγώ, ώσπερ οί έννέα άρχοντες, ΰπισχνοΰμαι χρυσήν εικόνα Ισομέτρητον είς Δελφούς άναθήσειν, οΰ Ε μόνον έμαυτοΰ άλλά καί σήν. ΣΩ. Φίλτατος έί καί ώς άληθώς χρυσούς, ώ Φαιδρέ, εΐ με οίει λέγειν ώς Λυσίας τού παντός ήμάρτηκεν, καί όίόν τε δή παρά πάντα ταΰτα άλλα είπεΐν· τούτο δέ οίμαι ούδ’ J άν τόν φαυλότατον παθεΐν συγγραφέα, αύτίκα περί οΰ ό λόγος, τίνα οΐει λέγοντα ώς χρή μή έρώντι μάλλον ή έρώντι χαρίζεσθαι, παρέντα τού μέν τό φρόνιμον έγκω236 A μιάζειν, τού δέ τό άφρον ψέγειν, άναγκαΐα γοΰν δντα, είτ’ άλλ’ άττα 'έξειν λέγειν; άλλ’ οίμαι τά μέν τοιαύτα έατέα καί συγγνωστέα λέγοντν καί τών μέν τοιούτων ού τήν εΰρεσιν άλλά τήν διάθεσιν έπαινετέον, τών δέ μή άνα5 γκαίων τε καί χαλεπών εύρέίν πρός τή διαθέσει καί τήν εΰρεσιν. ΦΑΙ. Συγχωρώ δ λέγεις· μετρίως γάρ μοι δοκεΐς είρη-

I. DISCORSO DI LISIA SULL'AMORE

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F edro - Chi sono costoro? E dove mai hai ascoltato cose migliori di queste? Socrate - Ora, così sull’istante, io non sono in grado di dirtelo. Ma è evidente che da qualcuno le ho sentite dire: o da Saffo la bella40, o da Anacreonte il sapiente41, o anche da qualche scrittore di prosa42. E su che cosa mi baso per dire questo? In qualche modo, o uomo divino, sento di avere in un certo senso pieno il petto, e di essere in grado di dire, oltre queste, altre cose non peggiori. E so bene che io, per conto mio, non ho pensato nessuna di queste cose, per­ ché conosco bene la mia ignoranza. Resta dunque, io cre­ do, che da altre fonti ne sia stato riempito, mediante l’udito, al modo di un vaso. Ma, per indolenza, mi sono dimen­ ticato anche di questo, ossia in che modo e da chi le ho ascoltate. F edro - Ma, nobilissimo amico, hai detto cose bellissi­ me! Da chi e come le hai ascoltate non me lo devi dire, neanche se te lo ordino; devi fare, invece, proprio quello che sostieni. Tu mi hai promesso di dire altre cose migliori e non più brevi di quelle contenute nel libro, tenendoti lontano da queste 4\ E io ti prometto, come i nove arconti, di offrire in voto una statua d’oro di grandezza naturale in Delfi44, non solo la mia, ma anche la tua. Socrate - Sei carissimo e veramente d’oro, Fedro, se credi che io affermi che Lisia ha sbagliato in tutto, e che sia possibile dire altre cose oltre queste sue. Ciò, io credo, non capiterebbe neppure a uno scrittore di scarsissimo valore. Tanto per incominciare, per quanto riguarda l’argomento del discorso, chi ritieni che, dicendo che si deve concedere i favori a quelli che non sono innamorati, se tralascia di lo­ dare l’assennatezza dei primi e di biasimare la dissennatezza dei secondi - che sono argomenti necessari - , potrà ave­ re ancora qualcos’altro da dire? Ma io ritengo che a chi parla di questo bisogna permettere tali argomenti e perdo­ narglieli. E di tali argomenti non si deve elogiare l’inven­ zione, bensì la loro disposizione; invece, degli argomenti che sono non necessari e che sono difficili da trovare, oltre la disposizione si deve elogiare anche l’invenzione. F edro - Sono d’accordo su quello che dici, perché mi sembra che tu abbia parlato nel modo giusto. Perciò, farò

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FEDRO 236 A-E

κέναι. ποιήσω οΰν καί έγώ ούτως* τό μέν τόν έρώντα Β τού μή έρώντος μάλλον νοσεΐν δώσω σοι ύπ'οτίθεσθαι, τών δέ λοιπών έτερα πλείω καί πλείονος άξια είπών τώνδε [Λυσίουί παρά τό Κυψελιδών άνάθημα σφυρήλατος έν Όλυμπίςι στάθητι. 5 ΣΩ. ’Εσπούδακας, ώ Φοίίδρε, δτι σου τών παιδικών έπελαβόμην έρεσχηλών σε, και οϊει δή με ώς άληθώς έπιχειρήσειν εΐπών παρά τήν έκείνου σοφίαν 'έτερόν τι ποικιλώτερον; ΦΑΙ. Περί μέν τούτου, ώ φίλε, εις τάς όμοιας λαβάς c έλήλυθας. βητέον μέν γάρ σοι παντός μάλλον ούτως δπως όίός τε ει, 'ίνα μή τό τών κωμφδών φορτικόν πράγμα άναγκαζώμεθα ποιών άνταποδιδόντες άλλήλοις [εύλαβήθητι], καί μή βούλου με άναγκάσαι λέγειν έκεΐνο τό “ε ί έ γ ώ , ώ 5 Σώκρατες, Σ ω κ ρ ά τη ν άγνοώ, κ α ί έμ αυτοΰ έπιλέλησ μ α ι , ” κοί δτι “έ π ε θ ύ μ ε μ έ ν λ έ γ ε ι ν , έ θ ρ ύ π τ ε τ ο δέ·" αλλά διανοήθητι δτι έντεΰθεν ούκ άπιμεν πριν άν σύ εϊπης & έφησθα έν τφ στήθει έχειν. έσμέν δέ μόνω έν έρημίςι, D ισχυρότερος δ’ έγώ καί νεώτερος, έκ δέ άπάντων τούτων “σ ύ ν ε ς δ τ ο ι λέγω," καί μηδαμώς πρός βίαν βουληθής μάλλον ή έκών λέγειν. ΣΩ. Ά λλ’, ώ μακάριε Φοίίδρε, γελοίος έσομαι παρ’ 5 άγαθόν ποιητήν ιδιώτης αύτοσχεδιάζων περί τών αύτών. ΦΑΙ. ό ΐσ θ ’ ώς έχει; παΰσαι πρός με καλλωπιζόμενος· σχεδόν γάρ έχω δ είπών άναγκάσω σε λέγειν.

ΣΩ. Μηδαμώς τοίνυν εϊπης. ΦΑΙ. Ούκ, άλλά καί δή λέγω· ό δέ μοι λόγος δρκος ίο έσται. δμνυμι γάρ σοι - τίνα μέντοι, τίνα θεών; ή βούΕ λει τήν πλάτανον ταυτηνί; - ή μήν, έάν μοι μή εϊπης τόν λόγον έναντίον αύτής ταύτης, μηδέποτέ σοι έτερον λόγον μηδένα μηδενός μήτε έπιδείξειν μήτε έξαγγελεϊν.

I. DISCORSO DI LISIA SULL'AMORE

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anch’io così. Ti concederò di porre alla base, come princi­ pio, che chi è innamorato è più ammalato di chi non è in- B namorato; ma per il resto, nel caso che tu dica altre cose in maggior quantità e di maggior valore rispetto a queste di Lisia, allora ti si dovrà erigere una statua di metallo lavora­ to in Olimpia, presso il dono votivo dei Cipselidi45. Socrate - Hai preso sul serio la faccenda, Fedro, per­ ché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo diletto. E tu credi proprio per davvero che io intenda cercare di dire, a confronto con la sapienza di Lisia, qualcosa di diverso e di più vario? Fedro convince Socrate a fare un discorso sull’amore F e d r o - In questo, mio caro, mi dai la presa a mio tur­ no46. Ora devi parlare a tutti i costi, nella maniera in cui sei C in grado di farlo, in modo che non ci troviamo costretti a fare quel gioco volgare dei commedianti, recriminandoci l’un l’altro, a vicenda, e non voler costringermi a ripetere quelle tue parole: «Socrate, se io non conosco Socrate, ho dimenticato anche me stesso»47, e quelle altre: «desiderava parlare, ma si schermiva»48. Ma mettiti bene in mente che noi non ce ne andremo da qui, prima che tu abbia detto quello che hai affermato di avere in petto. Siamo noi due soli, in un luogo isolato, e io sono più forte e più giovane. D Da tutto questo, allora, comprendi ciò che ti dico49, e vedi di non parlare per costrizione, piuttosto che volontariamente. Socrate - Ma, beato Fedro, sarò ridicolo nel mettermi a parlare, improvvisando contro un valido scrittore sui me­ desimi argomenti, profano come sono io! F e d r o - Sai che ti dico? Devi smettere di fare il ritroso con me, perché io ho una certa cosa che, se te la rivelo, ti costringerà a parlare. Socrate - Allora, non me la devi dire! F e d r o - No, invece, te la dico proprio! E, questo che ti dico, sarà un giuramento. Ή giuro... Ma in nome di chi, di quale degli dèi vuoi che giuri? Per questo Platano? Ebbe­ ne, se tu non pronunci il tuo discorso davanti a questo Pia- E tano, io non ti mostrerò e non ti farò mai più ascoltare nes­ sun altro discorso di nessuno!

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FEDRO 236 E -237 A

ΣΩ. Βαβοίί, ώ μιαρέ, ώς εΰ άνηΰρες τήν ανάγκην άνδρϊ 5 φιλολόγφ ποιεΐν δ άν κελεύης. ΦΑΙ. Τί δήτα Ιχων στρέψη; ΣΩ. Ούδέν Ιτι, έπειδή σύ γε ταΰτα όμώμοκας. πώς γάρ άν όιός τ* εΐην τοιαύτης θοίνης άπέχεσθαι; 237 A ΦΑΙ. Λέγε δή. ΣΩ. ό ΐσ θ ’ ούν ώς ποιήσω; ΦΑΙ. Τοΰ πέρι; ΣΩ. Έγκαλυψάμενος έρώ, 'ίν' δτι τάχιστα διαδράμω 5 τόν λόγον καί μή βλέπων πρός σέ ύπ’ αίσχύνης διαπορώμαι. ΦΑΙ. Λέγε μόνον, τά δ’ άλλα όπως βούλει ποίει.

I. DISCORSO DI LISIA SULL'AMORE

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Socrate - Ohi, ohi, furfante! Hai trovato proprio bene il modo di costringere un uomo che è amante dei discorsi a fare quello che tu gli imponi! F edro —Ma che cos’hai ancora da tergiversare? Socrate - Ormai non ho più niente da dire, dopo che tu hai pronunciato questo giuramento. E come potrei aste­ nermi da un tale banchetto? F edro - Dunque, parla! Socrate - Sai, allora, come farò? F edro - Riguardo a che cosa? Socrate - Parlerò dopo essermi coperto il capo50, in mo­ do da finire il più presto possibile il discorso, e non trovar­ mi in imbarazzo, per la vergogna, guardando te. F edro - Basta che tu parli! Per il resto fa’ come vuoi.

P a r t e se c o n d a

Primo discorso di Socrate sull’amore 11

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ίο Β

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FEDRO 237 A D

ΙΩ . "Αγετε δή, ώ Μοΰσαι, είτε δι* φδής είδος λίγεναι, είτε διά γένος μουσικόν τό Λιγύων ταύτην έσχετ’ έπωνυμίαν, " ξ ύ μ μοι λ ά β ε σ θ ε ” του μύθου, δν με άναγκάζει ό βέλτιστος ούτοσι λέγειν, ’ίν ’ 6 έταίρος αύτοΰ, καί πρότερον δοκών τούτφ σοφός είναι, νύν έτι μάλλον δόξη. ΤΗν ούτω δή παίς, μάλλον δέ μειρακίσκος, μάλα καλός· τούτφ δέ ήσαν έρασταί πάνυ πολλοί, εις δέ τις αύτών αίμύλος ήν, δς ούδενός ήττον έρών έπεπείκει τόν πάίδα ώς ούκ έρφη. καί ποτέ αύτόν αϊτών έπειθεν τοΰτ’ αύτό, ώς μή έρώντι πρό τού έρώντος δέοι χαρίζεσθαι, έλεγέν τε ώδε Περί παντός, ώ παΐ, μία άρχή τοίς μέλλουσι καλώς βουλεύσεσθαι- είδέναι δει περί οΰ άν ή ή βουλή, ή παντός άμαρτάνειν άνάγκη. τούς δέ πολλούς λέληθεν δτι ούκ ΐσασι τήν ούσίαν έκάστου. ώς ούν εΐδότες ού διομολογοΰνται έν άρχή τής σκέψεως, προελθόντες δέ τό είκός άποδιδόασιν· ούτε γάρ έαυτοΐς ούτε άλλήλοις όμολογοΰσιν. έγώ ούν καί σύ μή πάθωμεν δ άλλοις έπιτιμώμεν, άλλ' έπειδή σοί καί έμοί ό λόγος πρόκειται πότερα έρώντι ή μή μάλλον εις φιλίαν ίτέον, περί έρωτος όίόν τ' έστι καί ήν έχει δύναμιν, όμολογίςι θέμενοι δρον, είς τούτο άποβλέποντες καί άναφέροντες τήν σκέψιν ποιώμεθα είτε ώφελίαν είτε

II. PRIMO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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Socrate ripresenta la tesi di Lisia secondo una differen­ te prospettiva Socrate - Venite52, o Muse dalla dolce voce, sia che ab­ biate questa denominazione per la specie del vostro canto, sia che l’abbiate per la musicale stirpe dei Liguri55, datemi una mano nella narrazione54 che questo carissimo uomo mi obbliga a fare in modo che il suo amico, che già prima gli sembrava essere sapiente, gli sembri esserlo ancora di più. B Una volta, dunque, c’era un ragazzo, anzi un giovanetto assai bello. Attorno a lui c’erano innamorati in gran nume­ ro. Uno di essi era astuto. Costui, pur essendo innamorato non meno degli altri, aveva fatto credere al giovinetto che non ne era innamorato55. E un giorno, mettendolo alla pro­ va, cercava di persuaderlo appunto in questo, ossia che si deve concedere i favori a chi non è innamorato a preferen­ za di chi è innamorato. E gli parlò nel modo che segue. «Su ogni cosa, ragazzo mio, uno solo è il principio per quelli che devono prendere decisioni in modo buono: biso- C gna conoscere la cosa su cui si devono prendere decisioni, altrimenti è giocoforza che si sbagli tutto. Ma i più non si accorgono di non sapere che cosa sia l’essenza di ciascuna cosa; e, come se lo sapessero, non si mettono d’accordo al­ l’inizio della ricerca, e, proseguendo, ne subiscono le natu­ rali conseguenze, perché non si accordano né con se stessi né fra di loro. «Io e te, dunque, cerchiamo che non ci capiti quello che rimproveriamo agli altri. Invece, dal momento che a te e a me sta dinanzi la questione se si debba entrare in amici­ zia con chi è innamorato piuttosto che con chi non è inna­ morato, allora, per quanto concerne l’amore, stabiliamo in accordo una definizione che precisi che cosa sia e quale D potere abbia, e guardando e riferendoci a questa definizio­ ne, facciamo la ricerca se l’amore rechi giovamento, oppu­ re danno56.

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FEDRO 237 D - 238 C

Π. PRIMO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

βλάβην παρέχει, δτι μέν οΰν δή έπιθυμία τις ό έρως, άπαντι δήλον· δτι δ’ αΰ καί μή έρώντες έπιθυμοΰσι τών καλών, ΐσμεν. τφ δή τόν έρώντά τε καί μή κρινοΰμεν; δει αύ νοήσαι δτι ήμών έν έκάστφ δύο τινέ έστον Ιδέα άρχοντε καί άγοντε, οιν έπόμεθα ή άν άγητον, ή μέν έμ­ φυτος ούσα έπιθυμία ήδονών, άλλη δέ έπίκτητος δόξα, έφιεμένη τοΰ άρίστου. τούτω δέ έν ήμΐν τοτέ μέν όμονοεΐτον, έστι δέ δτε στασιάζετον· καί τοτέ μέν ή έτέρα, άλλοτε δέ ή έτέρα κρατεί, δόξης μέν οΰν έπί τό άριστον λόγφ άγούσης καί κρατούσης τφ κράτει σωφροσύνη όνομα· έπιθυμίας δέ άλόγως έλκούσης έπί ήδονάς καί άρξάσης έν ήμΐν τή αρχή ΰβρις έπωνομάσθη. ϋβρις δέ δή πολυώνυμον - πολυμελές γάρ καί πολυμερές - καί τούτων τών ιδεών έκπρεπής ή άν τύχη γενομένη, τήν αύτής έπωνυμίαν όνομαζόμενον τόν έχοντα παρέχεται, οΰτε τινά καλήν ούτ’ έπαξίαν κεκτήσθαι. περί μέν γάρ έδωδήν κρατούσα τοΰ λόγου τε τοΰ άρίστου καί τών άλλων έπιθυμιών έπιθυμία γαστριμαργία τε καί τόν έχοντα ταύτόν τούτο κεκλημένον παρέξεται· περί δ’ αύ μέθας τυραννεύσασα, τόν κεκτημένον ταύτη άγουσα, δήλον ού τεύξεται προσρήματος· καί τάλλα δή τά τούτων άδελφά καί άδελφών έπιθυμιών όνόματα τής άεί δυναστευούσης ή προσήκει καλεΐσθαι πρόδηλον, ής δ* ένεκα πάντα τά πρόσθεν εΐρηται, σχεδόν μέν ήδη φανερόν, λεχθέν δέ ή μή λεχθέν πάντως σοίφέστερον· ή γάρ άνευ λόγου δόξης έπί τό όρθόν όρμώσης κρατήσασα έπιθυμία πρός ήδονήν άχθεΐσα κάλλους, καί ύπό αύ τών έαυτής συγ­ γενών έπιθυμιών έπί σωμάτων κάλλος έρρωμένως βωσθεΐσα νικήσασα άγωγή, άπ’ αύτής τής βώμης έπωνυμίαν λαβοΰσα, έριος έκλήθη.

«Ora, che l’amore sia un certo desiderio è chiaro a ognuno” . Inoltre, che anche coloro che non siano innamo­ rati desiderino le cose belle, lo sappiamo. In che cosa, dun­ que, noi potremmo distinguere chi è innamorato da chi non lo è? Occorre tener presente, inoltre, che in ciascuno di noi sono presenti due forme di tendenze che ci domina­ no e ci guidano, e noi le seguiamo là dove ci portano: l’una, innata, è desiderio dei piaceri; l’altra, invece, è opinione ac­ quisita che tende al bene più grande. Queste due tendenze in noi talora sono in accordo, tal altra sono invece in contrasto, e qualche volta predomina l’una e qualche volta predomina l’altra. «Ora, quando l’opinione porta col ragionamento al be­ ne maggiore e predomina, tale predominio prende il nome di temperanza; quando invece il desiderio trascina in modo irrazionale ai piaceri e predomina in noi, gli viene dato il nome di dissolutezza. «La dissolutezza, poi, ha molti nomi, perché ha molte membra e molte parti. Di tali forme, quella che viene a di­ stinguersi fra tutte, fornisce a chi la possiede la denomina­ zione da essa derivata. E questa denominazione non è cer­ to né bella né meritevole di acquistarsi. «Per esempio, il desiderio per il cibo, che predomina sul­ la ragione del bene maggiore e sugli altri desideri, si chia­ ma ingordigia, e porterà colui che lo abbia a venir chiamato col medesimo nome. Il desiderio, poi, che tiranneggia per il bere e che conduce da questa parte chi lo possiede, è evidente quale epiteto riceverà. E gli altri nomi che sono fratelli di questi e designano desideri fratelli di questo, in base al desiderio che sempre predomina, è ben evidente come conviene che vengano formulati. «In funzione di quale desiderio siano state dette le cose precedenti è ormai pressoché evidente. Però, ciò che viene detto risulta, in ogni caso, più chiaro che non se non viene detto. Ebbene, il desiderio irrazionale che ha il predominio sull’opinione che conduce a ciò che è retto, portato verso il piacere della bellezza, corroborato vigorosamente dai desi­ deri a esso congeneri della bellezza dei corpi, una volta raggiunta vittoria per il comando, prendendo il nome da questa sua vigoria, viene chiamato eros o amore»58.

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FEDRO 238 C · 239 A

Άτάρ, ώ φίλε Φαιδρέ, δοκώ τι σοί, ώσπερ έμαυτφ, θειον πάθος πεπονθέναι; ΦΑΙ. Πάνυ μέν ούν, & Σώκρατες, παρά τό είωθός εύροιά τίς σε είληφεν. ΣΩ. Σιγή τοίνυν μου άκουε. τφ δντι γάρ θείος έοικεν ό τόπος είναι, ώστε εάν άρα πολλάκις νυμφόληπτος προϊόντος τοΰ λόγου γένωμαι, μή θαυμάσης· τά νΰν γάρ ούκέτι πόρρω διθυράμβων φθέγγομαι. ΦΑΙ. Αληθέστατα λέγεις. ΣΩ. Τούτων μέντοι σύ αίτιος, άλλά τά λοιπά άκουείσως γάρ κάν άποτράποιτο τό έπιόν. ταΰτα μέν σδν θεφ μελήσει, ήμΐν δέ πρός τόν παϊδα πάλιν τφ λόγφ ίτέον. Εΐίεν, ώ φέριστε- δ μέν δή τυγχάνει δν περί ού βουλευτέον, είρηταί τε καί ώρισται, βλέποντες δέ δή πρός αύτό τά λοιπά λέγωμεν τίς ώφελία ή βλάβη άπό τε έρώντος καί μή τφ χαριζομένφ έξ είκότος συμβήσεται. τφ δή ύπό έπιθυμίας άρχομένφ δουλεύοντί τε ήδονή άνάγκη που τόν έρώμενον ώς ήδιστον έαυτφ παρασκευάζειν- νοσοΰντι δέ π&ν ήδύ τό μή άντιτεΐνον, κρεΐττον δέ καί ίσον έχθρόν. ούτε δή κρείττω ούτε ίσούμενον έκών έραστής παιδικά άνέξεται, ήττω δέ καί υποδεέστερον άεί άπεργάζεται- ήττων δέ άμαθής σοφού, δειλός άνδρείου, άδύνατος είπείν Ρητο­ ρικού, βραδύς άγχίνου. τοσούτων κακών καί έτι πλειόνων κατά τήν διάνοιαν έραστήν έρωμένιρ άνάγκη γιγνομένων τε καί φύσει ένόντων [τών] μέν ήδεσθαι, τά δέ παρασκευάζειν, ή στέρεσθαι τοΰ παραυτίκα ήδέος. φθονερόν δή άνάγκη

II. PRIMO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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Breve interruzione: Socrate si sente in stato di ispira­ zione Ma, caro Fedro, non ti pare, come sembra a me, che mi trovi in uno stato divino? F edro - Certamente, Socrate I Contro il solito, ti ha preso una certa eloquenza. Socrate - Dunque, ascoltami in silenzio. Infatti, il luo­ go mi sembra proprio divino, e quindi se, procedendo nel d discorso, io sarò spesso invasato dalle Ninfe, non ti meravi­ gliare: non sono lontane dai ditirambi le parole che io ora profferisco59. F edro - Dici cose verissime. Socrate - E di questo sei tu la causa. Ma ascolta il re­ sto, perché, forse, l’ispirazione potrebbe andarsene via. A questo provvedere il dio. Noi, invece, con il discorso dob­ biamo tornare di nuovo al ragazzo. Prosecuzione del discorso di Socrate «E allora, carissimo, che cosa sia ciò su cui bisogna pren­ dere decisioni è stato detto e definito. E ora, invece, guar­ dando a questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantag- e gio o quale danno, con verosimiglianza, verrà da uno che è innamorato e da uno che non è innamorato a chi conceda i propri favori. «Chi è dominato dal desiderio ed è schiavo dei piaceri, è necessario che renda l’amato in sommo grado a lui piace­ vole. Ma per chi è malato risulta piacevole tutto ciò che non gli oppone resistenza, mentre gli è ostile tutto ciò che è a lui superiore oppure a lui uguale. Così, dunque, un in- 239 A namorato non sopporterà volentieri un amato che sia supe­ riore o uguale a lui, ma cercherà sempre di renderlo infe­ riore e più bisognoso di aiuto. E inferiore è l’ignorante ri­ spetto al sapiente, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi è esperto nel parlale, il tardo rispetto a chi è pronto di mente. «Di tanti mali t anche di altri più numerosi che si gene­ rano nell’animo dell’amato o che si trovano per natura, è necessario che chi è innamorato provi piacere e che ne pro­ curi altri, per non essere privato del piacere del momento.

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FEDRO 239 B-E

B εΐναι, καί πολλών μέν άλλων συνουσιών άπείργοντα και ώφελίμων δθεν άν μάλιστ’ άνήρ γίγνοιτο, μεγάλης αίτιον είναι βλάβης μεγίστης δέ τής δθεν άν φρονιμότατος εΐη. τούτο δέ ή θεία φιλοσοφία τυγχάνει δν, ής έραστήν παιδικά 5 άνάγκη πόρρωθεν εΐργειν, περίφοβον όντα τού καταφρονηθήναι· τά τε άλλα μηχανάσθαι δπως άν ή πάντα άγνοών καί πάντα άποβλέπων είς τόν έραστήν, οίος ών τφ μέν ήδιστος έαυτφ δέ βλαβερότατος άν εΐη. τά μέν ούν κατά C διάνοιαν έπίτροπός τε καί κοινωνός ούδαμή λυσιτελής άνήρ έχων έρωτα. Τήν δέ τοΰ σώματος έξιν τε καί θεραπείαν ο'ίαν τε καί ώς θεραπεύσει οΰ άν γένηται κύριος δς ήδύ πρό άγαθοΰ 5 ήνάγκασται διώκειν, δει μετά ταΰτα ίδεΐν. όφθήσεται δή μαλθακόν τινα καί ού στερεόν διώκων, ούδ’ έν ήλίψ καθαρφ τεθραμμένον άλλά ύπό συμμιγεΐ σκι$, πόνων μέν άνδρείων καί Ιδρώτων ξηρών άπειρον, έμπειρον δέ ώπαλής καί άνάνD δρου διαίτης άλλοτρίοις χρώμασι καί κόσμοις χήτει οικείων κοσμούμενον, δσα τε άλλα τούτοις έπεται πάντα έπιτηδεύοντα, ά δήλα καί ούκ άξιον περαιτέρω προβαίνειν, άλλά έν κεφάλαιον όρισαμένους έπ' ά>λο ίέναι· τό γάρ τοιοΰτον 5 σώμα έν πολέμφ τε καί άλλαις χρείαις δσαι μεγάλαι οί μέν έχθροί θαρρούσιν, οί δέ φίλοι καί αύτοί οί έρασταί φοβούνται. Τούτο μέν ούν ώς δήλον έατέον, τό δ* έφεξής βητέον, Ε τίνα ήμΐν ώφελίαν ή τίνα βλάβην περί τήν κτήσιν ή τοΰ έρώντος όμιλία τε καί έπιτροπεία παρέξεται. σαφές δή τοΰτό γε παντί μέν, μάλιστα δέ τφ έραστή, δτι τών φιλτάτων τε καί εύνουστάτων καί θειοτάτων κτημάτων όρφανόν

Π. PRIMO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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Perciò è necessario che sia geloso; e col tenerlo lontano da B molte altre compagnie, anche da quelle giovevoli, dalle qua­ li soprattutto potrebbe essere aiutato a diventare veramen­ te un uomo, è necessario che egli sia causa di un grande danno, e anzi, del più grande danno, quando lo tenga lon­ tano da quella compagnia dalla quale potrebbe essere aiu­ tato a diventare saggissimo. E questa è la divina filosofìa, dalla quale è inevitabile che chi è innamorato tenga lonta­ no l’amato, per la paura che ha di venire da lui disprezzato. E ricorrerà ad altri stratagemmi per far sì che l’amato igno­ ri tutto in tutte le cose e tenga U suo sguardo rivolto all’a­ mante; e, ridotto in tale modo, l’amato sarebbe fonte di gran­ dissimo piacere per l’innamorato, per se stesso sarebbe in­ vece di grandissimo danno. Per quanto riguarda l’intelligen­ za, dunque, l’uomo che è innamorato, come guida e come c compagno, non è di nessun giovamento. «Consideriamo ora la condizione e la cura del corpo e quale cura ne avrà colui che ne fosse diventato signore, lui che è costretto a perseguire il piacere, invece che il bene. Lo si vedrà tener dietro a qualcuno fiacco e senza forze, cresciuto non alla pura luce del sole, ma nella fitta ombra, senza aver fatto esperienza di fatiche virili e di secchi sudo­ ri60, ma dedito a una maniera di vivere delicata ed effemi- D nata, ornato di colori e di ornamenti presi dagli altri in mancanza di ornamenti propri, intento a praticare tutte le altre occupazioni che seguono a queste, che sono ben note e sulle quali non vale la pena di dilungarci più oltre. «Ma, dopo aver stabilito un punto essenziale, dobbia­ mo passare ad altro. Per un corpo di questo tipo, in guerra e in altre circostanze particolarmente gravi, i nemici si im­ baldanziscono, mentre gli amici e gli stessi innamorati han­ no timori. «Questo punto, dunque, in quanto è ormai chiaro, dob­ biamo lasciarlo, e dobbiamo parlare invece di quello suc­ cessivo, ossia quale vantaggio o quale danno ai beni che E possediamo procurerà la compagnia e la protezione di chi è innamorato. «Questo è certamente chiaro a tutti, ma specialmente all’innamorato, ossia che si augurerebbe soprattutto che il suo amato restasse privo delle sue cose più care, più pre-

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FEDRO 239 E - 240 D

5 πρό παντός εύξαιτ’ άν είναι τόν έρώμενον· πατρός γάρ καί

μητρός και συγγενών και φίλων στέρεσθαι άν αυτόν δέξαιτο, 240 A διακωλυτάς καί έπιτιμητάς ήγούμενος τής ήδίστης πρός αύτόν όμιλίας. άλλά μήν ουσίαν γ ’ Ιχοντα χρυσού ή τίνος άλλης κτήσεοος οΰτε εύάλωτον όμοίως οΰτε άλόντα εύμεταχείριστον ήγήσεται· έξ ών πάσα άνάγκη έραστήν παιδικοΐς j φθονεΐν μέν ουσίαν κεκτημένοις, άπολλυμένης δέ χαίρειν. ετι τοίνυν άγαμον, άπαιδα, άοικον δτι πλείστον χρόνον παιδικά έραστής εύξαιτ’ άν γενέσθαι, τό αύτοΰ γλυκύ ώς πλείστον χρόνον καρποΰσθαι έπιθυμών. "Εστι μέν δή κάι άλλα κακά, άλλά τις δαίμων έμειξε τοίς Β πλείστοις έν τφ παραυτίκα ήδονήν, όΐον κόλακι, δεινφ θηρίφ καί βλάβη μεγάλη, όμως έπέμειξεν ή φύσις ήδονήν τινα ούκ άμουσον, καί τις έταίραν ώς βλαβερόν ψέξειεν άν, καί άλλα πολλά τών τοιουτοτρόπων θρεμμάτων τε καί έπιτηδευμάτων, j όΐς τό γε καθ’ ήμέραν ήδίστοισιν είναι ύπάρχει· παιδικοίς & έραστής πρός τφ βλαβερφ καί εις τό συνημερεύειν πάντων C άηδέστατον. ήλικα γάρ δή καί ό παλαιός λόγος τέρπειν τόν ήλικα - ή γάρ οίμαι χρόνου ίσότης έπ’ ΐσας ήδονάς άγουσα δι’ όμοιότητα φιλίαν παρέχεται - άλλ’ δμως κόρον γε καί ή τούτων συνουσία έχει, καί μήν τό γε άναγκαίον αύ βαρύ j παντί περί πάν λέγεται· δ δή πρός τη άνομοιότητι μάλιστα έραστής πρός παιδικά έχει, νεωτέρφ γάρ πρεσβύτερος συνών οΰθ' ήμέρας οΰτε νυκτός έκών άπολείπεται, άλλ’ ύπ’ D άνάγκης τε καί οίστρου έλαύνεται, δς έκείνιρ μέν ήδονάς άεί διδούς άγει, όρωντι, άκούοντι, άπτομένίρ, καί πάσαν αΐσθησιν αίσθανομένφ τού έρωμένου, ώστε μεθ’ ήδονής άραρότως αύτφ ύπηρετείν· τφ δέ δή έρωμένφ ποιον παραμύθιον ή τίνας 5 ήδονάς διδούς ποιήσει τόν ίσον χρόνον συνόντα μή οΰχί έπ’ έσχατον έλθεΐν άηδίας - όρώντι μέν δψιν πρεσβυτέραν καί

II. PRIMO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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ziose e più divine. Infatti, accetterebbe che restasse privo di padre, di madre, di parenti e di amici, pensando che co- 240 A storo siano impedimenti e giudici della piacevolissima com­ pagnia che ha con lui. E se l’amato possiede ricchezze in oro o in altri beni, egli penserà che non sia di facile conqui­ sta, né, una volta conquistato, facile da mantenere. Ne con­ segue, necessariamente, che chi è innamorato debba prova­ re invidia degli amati che posseggono ricchezza, e gioisca se questa va perduta. Inoltre, l’innamorato si augurerebbe che l’amato rimanesse il più a lungo possibile senza moglie, senza figli, senza casa, perché desidera cogliere il frutto della sua dolcezza il più a lungo possibile. «Vi sono poi anche altri mali; ma un dèmone ha mesco­ lato alla maggior parte di essi un momento di piacere. Per B esempio all’adulatore, che è una terribile bestia e un gran­ de male, la natura ha mescolato, ciononostante, un certo piacere non privo di gusto. E qualcuno potrebbe biasimare un’etera come rovinosa, e così anche altre creature e atti­ vità di questo tipo; a esse, tuttavia, è concesso di essere as­ sai piacevoli almeno per un giorno. Per l’amato, invece, un innamorato, oltre a essere rovinoso, è anche la cosa più spia­ cevole di tutte, dovendo stare insieme con lui tutti i giorni. Infatti ogni età, come dice il vecchio proverbio, si rallegra C con la sua età61. Infatti, io credo che l’avere gli stessi anni, in quanto porta agli stessi piaceri, per questa somiglianza produce l’amicizia. E, ciononostante, anche lo stare insie­ me di costoro comporta sazietà. «Inoltre, l’imposizione è pesante per tutti in ogni cosa. Ed è appunto questo rapporto, oltre al non essere della stes­ sa età, che un innamorato ha nei rapporti con l’amato. In­ fatti, quando uno più vecchio ha una relazione con uno più giovane, per quanto dipende dalla sua volontà, non lo la­ scia né giorno né notte, ma è tormentato da una necessità e D da un insano desiderio, che, procurandogli sempre piaceri, lo trascinano a guardare, ad ascoltare, a toccare e a provare ogni altra sensazione dell’amato, al punto da mettersi stret­ tamente al suo servizio con piacere. «Ma quale sollievo e quali piaceri sarà in grado di dare all’amato, per evitare, stando con lui per tutto il tempo, che non giunga all’estremo della nausea? Vedrà, infatti, un

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FEDRO 240 D - 241 B

ούκ èv ώρςί, έπομένων δέ τών άλλων ταύτη, & καί λόγψ Ε έστίν άκούειν ούκ έπιτερπές, μή δτι δή έργφ άνάγκης άεί προσκειμένης μεταχειρίζεσθαι, φυλακάς τε δή καχυποτόπους φυλαττομένψ διά παντός και πρός άπαντας άκαΐρους τε έπαίνους και ύπερβάλλοντας άκούοντι, ώς δ’ αΰτως ψόγους 5 νήφοντος μέν ούκ άνεκτούς είς & μέθην 'ιόντος πρός τφ μή άνεκτφ έπαισχεις, παρρησίψ κατακορά καί άναπεπταμένη χρωμένου; Καί έρών μέν βλαβερός τε και άηδής λήξας δέ τού έρωτος είς τόν έπειτα χρόνον άπιστος, εις δν πολλά καί ίο μετά πολλών δρκων τε και δεήσεων ύπισχνούμενος μόγις 2 4 1 A κατείχε τήν γ’ έν τφ τότε συνουσίαν έπίπονον ούσαν φέρειν δι’ έλπίδα αγαθών, τότε δή δέον έκτίνειν, μεταβολών άλλον άρχοντα έν αύτφ καί προστάτην, νοΰν καί σωφροσύνην άντ’ έρωτος καί μανίας άλλος γεγονώς λέληθεν τά παιδικά, καί s ό μέν αύτόν χάριν άπαιτεΐ τών τότε, ύπομιμνήσκων τά πραχθέντα καί λεχθέντα, ώς τφ αύτφ διαλεγόμενος· ό δέ ύπ’ αισχύνης ούτε είπείν τολμά δτι άλλος γέγονεν, οΰθ’ δπως τά της προτέρας άνοήτου άρχής όρκωμόσιά τε καί ύποσχέσεις Β έμπεδώση έχει, νοΰν ήδη έσχηκώς καί σεσωφρονηκώς, 'ίνα μή πράττων ταύτά τφ πρόσθεν δμοιός τε έκείνψ καί ό αύτός πάλιν γένηται. φυγάς δή γίγνεται έκ τούτων, καί άπεστερηκώς ύπ’ άνάγκης ό πρίν έραστής όστράκου μεταj πεσόντος ΐεται φυγή μεταβολών- ό δέ άναγκάζεται διώκειν άγανακτών καί έπιθεάζων, ήγνοηκώς τό άπαν έξ άρχής, δτι ούκ άρα έδει ποτέ έρώντι καί ύπ' άνάγκης άνοήτφ χαρίζεσθαι,

Η. PRIMO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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viso più vecchio e sfiorito, con tutte le altre cose che a que­ sto conseguono, che, anche solo a sentirle a parole, non so­ no affatto piacevoli. E tanto meno lo sono, poi, se ci si tro- E va a essere costretti ad avere sempre rapporti di fatto con esse. L’amato viene sorvegliato per tutto il tempo e davanti a tutti da sospettosi custodi, deve sopportare dogi non op­ portuni e senza misura, e anche biasimi di tale genere che, se già non sono sopportabili fatti da uno che è sobrio, di­ ventano, oltre che insopportabili, anche vergognosi, se so­ no fatti da uno che è in stato di ubriachezza, che fa uso di una licenza di linguaggio sfrenata e impudente! «E se, mentre è innamorato, è dannoso e spiacevole, quando abbia invece cessato di essere innamorato diventa infido proprio per quanto riguarda il futuro, in riferimento al quale, facendo molte promesse insieme a molti giura­ menti e preghiere, a mala pena aveva mantenuto il rappor- 241A to già allora faticoso da reggere, appunto in base alla spe­ ranza di futuri beni. «E quando è venuto il momento di pagare il debito, es­ sendo cambiato dentro di lui padrone e signore, predomi­ nando intelligenza e temperanza invece di amore e follia, l’innamorato è diventato un altro uomo, e il suo amato non se ne è accorto. E questi gli chiede che gli vengano resi fa­ vori per le cose di allora, ricordandogli le cose che gli sono state fatte e dette, credendo di discorrere con il medesimo uomo. E quegli, per vergogna, né ha il coraggio di dirgli che è ormai diventato un altro, né è in grado di mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto il precedente regime dissennato, dal momento che ha ormai riacquistato l’intel- B ligenza e la temperanza, per non diventare, facendo ancora le medesime cose, simile a quello che era prima, e addirit­ tura ancora una volta lo stesso uomo di prima. «Per questo egli diventa un fuggiasco, e dal momento che l’innamorato di prima per necessità è ora reo di frode, invertite le parti, cambiata direzione, si dà alla fuga62. L’al­ tro, invece, si trova costretto a rincorrerlo, molto irritato e imprecando, in quanto non ha capito tutto fin da princi­ pio, ossia che non avrebbe dovuto mai concedere i suoi fa­ vori a chi è innamorato, perché costui è per forza senza senno, ma avrebbe dovuto concederli ben di più a chi non C

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FEDRO 241 C - 242 A

C αλλά πολύ μάλλον μή έρώντι καί νοΰν έχοντι- εί δέ μή, άναγκαίον εΐη ένδοΰναι αύτόν άπίστφ, δυσκόλφ, φθονερφ, άηδεί, βλαβερφ μέν πρός ούσίαν, βλαβερφ δέ πρός τήν τού σώματος έξιν, πολύ δέ βλαβερωτάτφ πρός τήν τής 5 ψυχής παίδευσιν, ής ούτε άνθρώποις ούτε θεοΐς τή άληθείςι τιμιώτερον ούτε έστιν ούτε ποτέ έσται. ταΰτά τε οΰν χρή, ώ παν, συννοενν, καί είδέναι τήν έραστοΰ φιλίαν δτι ού μετ’ εύνοιας γίγνεται, άλλά σιτίου τρόπον, χάριν πλησμονής, D ώς λύκοι άρνας άγαπώσιν, ώς παΐδα φιλοΰσιν έρασταί.

Τοΰτ’ έκέίνο, ώ Φαιδρέ, ούκέτ’ άν τό πέρα άκούσαις έμοΰ λέγοντος, άλλ’ ήδη σοι τέλος έχέτω ό λόγος. ΦΑΙ. Καίτοι φμην γε μεσοΰν αύτόν, και έρέίν τά ίσα J περί τοΰ μή έρώντος, ώς δει έκείνφ χαρίζεσθαι μάλλον, λέγων δσα αύ έχει άγαθά- νΰν δέ δή, ώ Σώκρατες, τί άποπαύη; Ε ΣΩ. Ούκ ήσθου, ώ μακάριε, δτι ήδη έπη φθέγγομαι άλλ’ ούκέτι διθυράμβους, καί ταΰτα ψέγων; έάν δ’ έπαινείν τόν έτερον άρξωμαι, τί με οϊει ποιήσειν; άρ’ οίσθ’ δτι ύπό τών Νυμφών, άίς με σύ προύβαλες έκ προνοίας, σαφώς ϊ ένθουσιάσω; λέγω ούν ένί λόγφ δτι δσα τόν έτερον λελοιδορήκαμεν, τφ έτέρφ τάναντία τούτων άγαθά πρόσεστιν. κα'ι τί δει μακροΰ λόγου; περί γάρ άμφοΐν ίκανώς εϊρηται. καί οΰτω δή ό μύθος δτι πάσχειν προσήκει αύτφ, τούτο 242 A πείσεται· κάγώ τόν ποταμόν τούτον διαβάς άπέρχομαι πρίν ύπό σοΰ τι μεΐζον άναγκασθήναι. ΦΑΙ. Μήπω γε, ώ Σώκρατες, πρίν άν τό καύμα παρέλθη. ή ούχ όρφς ώς σχεδόν ήδη μεσημβρία 'ίσταται ή δή καλουμένη 5 σταθερά-, άλλά περιμείναντες καί άμα περί τών είρημένων διαλεχθέντες τάχα έπειδάν άποψυχή ϊμεν.

ΣΩ. ©είός γ’ έί περί τούς λόγους, ώ Φαιδρέ, καί άτεχνώς θαυμάσιος, οίμαι γάρ έγώ τών επί τοΰ σοΰ βίου γεγονότων

II. PRIMO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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è innamorato e ha senno. Se no, necessariamente, si sareb­ be affidato a un uomo infido, difficile da contentare, gelo­ so, spiacevole, dannoso; dannoso per le proprie ricchezze, dannoso per il suo stato fìsico, ma dannosissimo per l’edu­ cazione dell’anima, della quale non c’è e non ci sarà mai nulla di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. «Dunque, ragazzo, bisogna capire bene e sapere questo, ossia che l’amicizia di chi è innamorato non nasce mai in­ sieme alla benevolenza, ma nasce allo stesso modo del desi­ derio del cibo, ossia al fine di saziarsi. Come i lupi amano D gli agnelli63, così gli innamorati hanno caro un ragazzo». Questo è quello che volevo dire, Fedro. Né mi sentirai parlare ulteriormente. Ormai considera finito il mio discorso. Fedro convince Socrate a fare un ulteriore discorso F edro - Invece, io ero convinto che tu fossi a metà del discorso e dovessi dire cose simili a queste su chi non è in­ namorato, ossia come si debba piuttosto concedere i pro­ pri favori a lui, dicendo quanti beni egli abbia. Ma ora, Socrate, perché ti arresti? Socrate - Non ti sei accorto che, ormai, pronuncio ver- E si epici e non più ditirambi64, e questo proprio mentre sto facendo tali rimproveri? Se cominciassi a elogiare l’altro, che cosa pensi che farei? Non sai che sarei certamente in­ vasato dalle Ninfe, alle quali, a ragion veduta, tu mi hai gettato in balìa? Dunque, ti dico in poche parole che quan­ ti siano i mali per cui abbiamo biasimato l’uno, altrettanti sono i beni contrari a essi che si trovano nell’altro. E per­ ché mai c’è bisogno di un lungo discorso? Sull’uno e sul­ l’altro si è detto abbastanza. E, così, al mio racconto toc­ cherà la sorte che gli spetta. E io, attraversando questo fìu- 242 A me, me ne vado, prima che venga costretto da te a fare qualcosa di troppo grande. F edro - Proprio no, Socrate, non prima che questo caldo sia passato. Non vedi che è il momento del mezzogiorno, che chiamiamo «ora immota»? Ma rimaniamo qui a discutere delle cose dette; e, quando sarà più fresco, ce ne andremo. Socrate - Sei proprio divino per i discorsi, Fedro, e ad­ dirittura meraviglioso. Io immagino che dei discorsi che so-

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FEDRO 242 B

B λόγων μηδένα πλείους ή afe πεποιηκέναι γεγενήσθαι ήτοι αύτόν λέγοντα ή άλλους évi γέ τφ τρόπφ προδαναγκάζοντα - Σιμμίαν ΘηβοΛον έξαιρώ λόγου· τών Sk άλλων πάμπολυ κρατείς - καί νϋν αύ δοκέίς αίτιός μοι γεγενήσθαι λόγφ τινί 5 βηθήναι.

ΦΑΙ. Ού πόλεμόν γε άγγέλλεις. άλλά πώς δή καί τίνι τούτφ;

II. PRIMO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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no stati fatti durante il periodo della tua vita, nessuno ne B abbia mai fatti nascere più di te, o per averli fatti tu stesso, o per aver obbligato in qualche modo altri a farli63. A ecce­ zione di Simmia di Tebe66, tu vinci gli altri di gran lunga. E anche ora mi sembra che tu sia per me la causa che mi fa pronunciare ancora un altro discorso. F edro - Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e quale discorso?

I n t e r l u d io

Necessità di una palinodia 67

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FEDRO 242 B-E

INTERLUDIO. NECESSITA DI UNA PALINODIA

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La voce divina sentita da Socrate

c

s

D

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ίο Ε

ΣΩ. Ή νίκ’ έμελλον, ώγαθέ, τόν ποταμόν διαβαίνειν, τό δαιμόνιόν τε καί τό είωθός σημεΐόν μοι γίγνεσθαι έγένετο - άεΐ δέ με έπίσχει δ άν μέλλω πράττειν - καί τινα φωνήν έδοξα αύτόθεν άκοΰσαι, ή με ούκ έφ άπιέναι πριν άν άφοσιώσωμαι, ώς δή τι ήμαρτηκότα είς τό θειον, είμί δή ο ίν μάντις μέν, ού πάνυ δέ σπουδάίος άλλ* ώσπερ οί τά γράμματα φαύλοι, όσον μέν έμαυτφ μόνον Ικανός* σαφώς σδν ήδη μανθάνω τό άμάρτημα. ώς δή τοι, ώ έταΐρε, μαντικόν γέ τι καί ή ψυχή* έμέ γάρ Ιθραξε μέν τι καί πάλαι λέγοντα τόν λόγον, καί πως έδυσωπούμην κατ’ “Ιβυκον, μή τι παρά θεοΐς άμβλακών τιμάν πρός ανθρώπων άμείψωνΰν δ’ ήσθημαι τό άμάρτημα. ΦΑΙ. Λέγεις δέ δή τί; ΣΩ. Δεινόν, & Φαιδρέ, δεινόν λόγον αύτός τε έκόμισας έμέ τε ήνάγκασας είπεΐν. ΦΑΙ. Πώς δή; ΣΩ. Εύήθη καί ύπό τι άσεβή* ού τίς άν εΐη δεινότερος; ΦΑΙ. Ούδείς, εΐ γε σύ άληθή λέγεις. ΣΩ. Τί οίν; τόν Έρωτα ούκ Αφροδίτης καί θεόν τινα ήγή; ΦΑΙ. Λέγεταί γε δή. ΣΩ. Οΰ τι ύπό γε Λυσίου, ούδέ ύπό τού σοΰ λόγου, δς διά τού έμοϋ στόματος καταφαρμακευθέντος ύπό σοΰ έλέχθη. εί δ’ Ιστιν, ώσπερ ο ίν έστι, θεός ή τι θειον ό Έρως, ούδέν

Socrate - Proprio quando ero sul punto di voler attra­ versare il fiume, caro amico, si è manifestato il segno divi­ no68, quel segno che è solito manifestarsi a me, e che sem- c pre mi trattiene dal fare ciò che sono sul punto di fare. E mi è sembrato di sentire una voce che veniva da quello e che non mi permetteva di andarmene prima di essermi pu­ rificato, come se mi fossi macchiato di una colpa nei con­ fronti della divinità. Veramente, io sono un indovino, però non molto valido; ma come quelli che sono poco bravi nel leggere, valgo quanto basta per me stesso; perciò capisco bene quale sia la colpa. In verità, amico, ha una capacità divinatoria anche l’anima. Infatti, anche prima c’era qual­ cosa che mi inquietava, mentre facevo il discorso, e in qual­ che modo mi sentivo preoccupato che non mi succedesse che, stando a ciò che dice Ibico, commessa m a colpa nei confronti degli dèi, in cambio dovessi ricevere onori presso D gli uomini®. Ma ora ho ben capito qual è la colpa. F edro - Che cosa dici? Socrate - Terribile, Fedro, veramente terribile è il di­ scorso che tu hai portato, così pure quello che mi hai co­ stretto a fare! F edro - E perché?

Socrate vuole purificarsi con una palinodia Socrate - Perché è sciocco e, in un certo senso, empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di questo? F edro - Nessuno, se tu dici il vero! Socrate - E come no? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e che sia un dio70? F edro - Almeno si dice. Socrate - Ma non viene detto né nel discorso di Lisia né nel tuo, che è stato pronunciato mediante la mia bocca, da te incantata. E se Eros è, come in realtà lo è, un dio o al-

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J A

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FEDRO 242 E - 243 C

άν κακόν εϊη, τώ δέ λόγω τώ νυνδή περί αύτοΰ είπέτην ώς τοιούτου δντος- ταύτη τε ούν ήμαρτανέτην 7cept tòv Έρωτα, Ιτι τε ή εύήθεια αΰτονν πάνυ άστεία, τό μηδέν ύγιές λέγοντε μηδέ άληθές σεμνύνεσθαι ώς τι δντε, εί άρα άνθρωπίσκους τινάς έξαπατήσαντε εύδοκιμήσετον έν αύτόίς. έμοί μέν ούν, ώ φίλε, καθήρασθαι άνάγκη· Ιστιν δέ τονς άμαρτάνουσι περί μυθολογίαν καθαρμός άρχάίος, δν "Ομηρος μέν ούκ ήσθετο, Στησίχορος δέ. τών γάρ όμμάτων στερηθείς διά τήν 'Ελένης κακηγορίαν ούκ ήγνόησεν ώσπερ "Ομηρος, άλλ’ άτε μουσικός ών &γνω τήν αιτίαν, καί ποιεί εύθύς Ούκ έστ' ετυμος λόγος σδτος, ούδ’ Ιβας έν νηυσίν εύσέλμοις, ούδ’ 'ίκεο Πέργαμα Τροίαςκαί ποιήσας δή πάσαν τήν καλουμένην Παλινφδίαν παραχρήμα άνέβλεψεν. έγώ ούν σοφώτερος έκείνων γενήσομαι κατ’ αύτό γε τούτο- πριν γάρ τι παθεΐν διά τήν τού Έρωτος κακηγορίαν πειράσομαι αύτφ άποδούναι τήν παλινφδίαν, γυμνή τή κεφαλή καί ούχ ώσπερ τότε ύπ’ αίσχύνης έγκεκαλυμμένος. ΦΑΙ. Τουτωνί, & Σώκρατες, ούκ έστιν άττ’ άν έμοί είπες ήδίω. ΣΩ. Καί γάρ, ώγαθέ Φαιδρέ, έννοείς ώς άναιδώς εΐρησθον τώ λόγω, ούτός τε καί δ έκ τού βιβλίου βηθείς. εί γάρ άκούων τις τύχοι ήμών γεννάδας καί πράος τό ήθος έτέρου δέ τοιούτου έρών ή καί πρότερόν ποτέ έρασθείς, λεγόντων ώς διά σμικρά μεγάλος Ιχθρας οί έρασταί άναιρούνται καί έχουσι πρός τά παιδικά φθονερώς τε καί βλαβερώς, πώς ούκ άν οίει αύτόν ήγείσθαι άκούειν έν ναύταις που τεθραμμένων

INTERLUDIO. NECESSITA DI UNA PALINODIA

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cunché di divino71, non è possibile che sia un male. E, inve­ ce, i due discorsi che ora sono stati pronunciati su di lui ne parlavano come se fosse appunto un male. E in questo, dunque, essi hanno commesso una colpa nei confronti di Eros. Inoltre, la loro sciocchezza è assai notevole, perché, senza esprimere nulla di sano né di vero, si danno l’aria di 243 A essere chissà che cosa, nel caso che, con l’aver ingannato al­ cuni omiciattoli, riescano a diventare famosi presso di loro. Dunque, caro amico, bisogna proprio che io mi purifi­ chi. Per quelli che commettono colpe nei confronti dei miti c’è un antico rito espiatorio, che Omero non conosceva, ma Stesicoro sì. Infatti, quando Stesicoro venne privato della vista per aver parlato male di Elena, non rimase ignaro del­ la causa come Omero, ma, devoto alle Muse come era, capì qual era e compose subito questi versi: Questo discorso non è veritiero·, / tu non salisti sulle ben costruite navi, / né giun- B gesti alla rocca di Troia11. E come ebbe terminato di comporre per intero quel carme che si chiama «palinodia»73, gli tornò immediatamen­ te la vista. Io, pertanto, sarò più sapiente dell’uno e dell’al­ tro, almeno in questo. Infatti, prima che mi capiti qualcosa per la ragione che ho diffamato Eros, cercherò di offrirgli la mia palinodia con il capo scoperto74, e non, come ho fat­ to prima, con il capo coperto per la vergogna. Entusiasmo di Fedro per la palinodia annunciata da So­ crate F edro - Non potevi davvero dirmi nulla di più grade­ vole, Socrate! Socrate - Veramente, caro Fedro, tu capisci con quale c sfrontatezza sono stati pronunciati i due discorsi, questo mio e quello da te letto dal libro. Infatti, se un uomo di ca­ rattere nobile e gentile che fosse innamorato di uno che ha lo stesso suo carattere o ne fosse stato innamorato in passa­ to, avesse avuto occasione di udirci affermare che gli inna­ morati fanno nascere grandi inimicizie per piccole cose e che si comportano in modo malevolo e dannoso nei con­ fronti dei loro amati, non pensi forse che egli avrebbe rite­ nuto di udire persone allevate da qualche parte in mezzo ai

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FEDRO 243 D E

καί ούδένα έλεύθερον Ιρωτα έωρακότων, πολλοΰ δ’ άν δενν D ήμνν όμολογέίν ά ψέγομεν τόν Έρωτα-, ΦΑΙ. "Ισως νή Δ ί\ ώ Σωκρατες. £Ω. Τοΰτόν γε τοίνυν Ιγωγε αίσχυνόμενος, καί αύτόν τόν Έ ρωτα δεδιώς, έπιθυμώ ποτίμφ λόγφ οίιον άλμυράν 3 άκοήν άποκλύσασθαι- συμβουλεύω δέ καί Λυσίςι δτι τάχιστα γράψαι ώς χρή έραστή μάλλον ή μή έρώντι έκ τών όμοιων χαρίζεσθαι. ΦΑΙ. Ά λλ' εύ ίσ θι δτι 'έξει τοΰθ' οΰτω- σοΰ γάρ είπόντος τόν τοΰ έραστοΰ έπαινον, πάσα ανάγκη Λυσίαν ύπ’ έμοΰ Ε άναγκασθήναι γράψαι α ί περί τοΰ αύτοΰ λόγον, ΣΩ Τοΰτο μέν πιστεύω, έωσπερ άν ής δς εΐ. ΦΑΙ. Λέγε τοίνυν θαρρών. ΣΩ. Ποΰ δή μοι ό παίς πρός δν έλεγον; 'ίνα καί τοΰτο 5 άκούση, καί μή άνήκοος ών φθάση χαρισάμενος τφ μή έρώντι. ΦΑΙ. Ουτος παρά σοι μάλα πλησίον άεί πάρεστιν, δταν σύ βούλη.

INTERLUDIO. NECESSITA DI UNA PALINODIA

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marinai e che non hanno mai conosciuto un amore libero, e che sarebbe ben lungi dall’essere d’accordo con noi sui D rimproveri che abbiamo sollevato contro Eros? F edro - È probabile, per Zeus, Socrate. Socrate - E io, per vergogna nei confronti di costui e anche per paura di Eros, con dei discorsi di acqua dolce desidero sciacquarmi l’udito che si è impregnato di salsedi­ ne. E suggerisco pure a Lisia di scrivere al più presto che, a pari condizioni, si devono concedere i favori a un amante, piuttosto che a chi non è innamorato. F edro - Ma sappi bene che sarà proprio così. Infatti, non appena tu avrai pronunciato l’elogio dell’amante, sarà proprio necessario che Lisia sia da me costretto a scrivere E un discorso sul medesimo argomento. Socrate - Ci credo proprio, finché tu rimarrai quello che sei ora. F edro - Dunque, parla e fatti coraggio. Socrate - Dov’è il ragazzo a cui rivolgevo il discorso? Bisogna che ascolti anche questo discorso, e che, per non avermi ascoltato, non si affretti a concedere i suoi favori a chi non è innamorato. F edro - Questo ragazzo è qui accanto a te, vicinissimo, quanto tu voglia” .

P a r te t e r z a

Grande discorso di Socrate sull’amore in forma di mito su fondamenti filosofici76

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FEDRO 2 4 3 E - 244C

ΣΩ. Ούτωσί τοίνυν, ώ πάί καλέ, έννόησον, ώς ό μέν πρότερος ήν λόγος Φαίδρου τοΰ Πυθοκλέους, Μυρρννουσίου άνδρός· δν δέ μέλλω λέγειν, Στησιχόρου τοΰ Ευφήμου, Ίμεραίου. λεκτέος δέ ώδε, ότι Ούκ Ισ τ’ ϊτυμος λόγος δς άν παρόντος έραστοΰ τφ μή έρώντι μάλλον φή δεΐν χαρίζεσθαι, διότι δή ό μέν μαίνεται, ό δέ σωφρονέϊ. εί μέν γάρ ήν άπλοΰν τό μανίαν κακόν είναι, καλώς άν έλέγετο· νΰν δέ τά μέγιστα τών άγαθών ήμΐν γίγνεται διά μανίας, θείςι μέντοι δόσει διδομένης. ή τε γάρ δή έν Δελφοΐς προφήτις οίί τ’ έν Δωδώνη ίέρειαι μανείσαι μέν πολλά δή καί καλά ϊδίςι τε κοίι δημοσίςι τήν Ελλάδα ήργάσαντο, σωφρονοΰσαι δέ βραχέα ή ούδέν· καί έάν δή λέγωμεν Σίβυλλάν τε καί άλλους, δσοι μαντική χρώμενοι ένθέφ πολλά δή πολλοΐς προλέγοντες εις τό μέλλον ώρθωσαν, μηκύνοιμεν άν δήλα παν-ή λέγοντες. τόδε μήν άξιον έπιμαρτύρασθαι, δτι καί τών παλαιών οί τά όνόματα τιθέμενοι ούκ αισχρόν ήγοΰντο ούδέ δνειδος μανίαν· οΰ γάρ άν τή καλλίστη τέχνη, ή τό μέλλον κρίνεται, αύτδ τοΰτο τοΰνομα έμπλέκοντες μ α ν ι κ ή ν έκάλεσαν. άλλ’ ώς καλού δντος, δταν θείςι μοίρςι γίγνηται, οΰτω νομίσαντες Ιθεντο, οί δέ νΰν άπειροκάλως τό τ α ΰ έπεμβάλλοντες μ α ν τ ι κ ή ν έκάλεσαν. έπεί καί τήν γε τών έμφρόνων, ζήτησιν τοΰ μέλλοντος διά τε όρνίθων ποιουμένων καί τών άλλων σημείων, άτ’ έκ διανοίας ποριζομένων ανθρώπινη

ΙΠ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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I quattro tipi di «mania» e l’amore Socrate - Pensa allora, mio bel ragazzo, che quello pre­ cedente era il discorso di Fedro, figlio di Pitocle, del demo 244 A di Mirrinunte, e che quello che ora mi accingo a pronun­ ciare è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Ed ecco quello che bisogna dire. «Non è discorso veritiero quello che dice che, anche quando ci sia un amante, si deve concedere i propri favori a chi non è innamorato, perché l’uno si trova in uno stato di mania, mentre l’altro è in imo stato di assennatezza. «Se, infatti, la mania fosse senz’altro un male, sarebbe sta­ to detto bene. Invece, i beni più grandi ci provengono me­ diante una mania che ci viene data per concessione divina77. «Infatti, la profetessa di Delfi78 e le sacerdotesse di Do- b dona79, quando si trovavano in stato di mania, procurarono all’Ellade molti e bei benefici e in privato e in pubblico, mentre, quando si trovavano in stato di senno, ne procura­ rono pochi o nessuno. E se dicessimo, poi, della Sibilla80 e degli altri che, avvalendosi della mantica di ispirazione di­ vina, predicendo molte cose a molti, li indirizzarono sulla giusta via per il futuro, ci dilungheremmo nel dire cose che sono note a tutti. «Ma merita di venire addotto come testimonianza il fat­ to che, anche fra gli antichi, coloro che hanno coniato i no­ mi81 non hanno considerato la mania come cosa né brutta né vergognosa. In caso diverso, non avrebbero chiamato C “manica” la più bella fra le arti con la quale si prevede il futuro, connettendo a essa proprio questo nome. Invece, considerandola cosa bella, allorché essa sorga per sorte di­ vina, le hanno imposto quel nome, mentre gli uomini di oggi, ignari del bello, hanno introdotto un “t ” e l’hanno chiamata “mantica”. In effetti, anche la ricerca del futuro che fanno coloro che sono in stato di senno mediante uc­ celli e altri segni, in quanto muovendo dalla ragione procu­ rano intelligenza e fondata conoscenza alla “oiesi”, o opi-

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FEDRO 244 C · 245 C

οίήσει νοΰν τε καν 'ιστορίαν, ο ΐ ο ν ο ί σ τ ι κ ή ν έπωνόμασαν, D ήν νΰν ο ί ω ν ι σ τ ι κ ή ν τφ σεμνύνοντες οί véov καλοΰσιν· δσψ δή σδν τελεώτερον καί εντιμότερου μαντική οίωνιστικής, τό τε δνομα τοΰ όνόματος έργον τ’ έργου, τόσφ κάλλιον μαρτυροΰσιν οί παλαιοί μανίαν σωφροσύνης τήν έκ θεού τής 5 παρ’ άνθρώπων γιγνομένης. άλλά μήν νόσων γε καί πόνων τών μεγίστων, ά δή παλαιών έκ μηνιμάτων ποθέν έν τισι τών γενών ή μανία έγγενομένη καί προφητεύσασα, όίς έδει Ε άπαλλαγήν ηΰρετο, καταφυγοΰσα πρός θεών εύχάς τε καί λατρείας, δθεν δή καθαρμών τε καί τελετών τυχοΰσα έξάντη έποίησε τόν [έαυτήςΐ έχοντα πρός τε τόν παρόντα καί τόν έπειτα χρόνον, λύσιν τφ όρθώς μανέντι τε καί κατασχομένφ 245 A τών παρόντων κακών εύρομίνη. τρίτη δέ άπό Μουσών κατοκωχή τε καί μανία, λαβοΰσα άπαλήν καί άβατον ψυχήν, έγείρουσα καί έκβακχεύουσα κατά τε φδάς καί κατά τήν άλλην ποίησιν, μυρία τών παλαιών έργα κοσμούσα τούς 5 έπιγιγνομένους παιδεύει· δς δ’ άν άνευ μανίας Μουσών έπί ποιητικάς θύρας άφίκηται, πεισθείς ώς άρα έκ τέχνης ίκανός ποιητής έσόμενος, άτελής αύτός τε καί ή ποίησις ύπό τής τών μαινομένων ή τοΰ σωφρονοΰντος ήφανίσθη. Β Τοσαύτα μέν σοι καί έτι πλείω έχω μανίας γιγνομένης άπό θεών λέγειν καλά έργα, ώστε τοΰτό γε αύτό μή φοβώμεθα, μηδέ τις ήμάς λόγος θορυβείτω δεδιττόμενος ώς πρό τοΰ κεκινημένου τόν σώφρονα δει προαιρεΐσθαι φίλον· άλλά 5 τόδε πρός έκείνφ δείξας φερέσθω τά νικητήρια, ώς ούκ έπ’ ώφελίψ ό έρως τφ έρώντι καί τφ έρωμένψ έκ θεών έπιπέμπεται. ήμίν δέ αποδεικτέου αΰ τούναντίον, ώς έπ’ ευτυχία τή μεγίστη C παρά θεών ή τοιαύτη μανία δίδοται· ή δέ δή άπόδειξις έσται δεινοίς μέν άπιστος, σοφοΐς δέ πιστή, δει σδν πρώτον ψυχής

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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nione umana, gli antichi la chiamarono “oionoistica”, e ora i moderni, rendendola solenne, mediante l’allungamento del secondo “o”82, la chiamano “oionistica”. E dunque, quanto più è perfetta e degna d’onore la mantica rispetto all’oionistica, per il nome e per l’azione dell’una rispetto al nome e all’azione dell’altra, tanto più, come attestavano gli antichi, la mania che proviene da un dio è migliore dell’as­ sennatezza che proviene dagli uomini. «Ma anche dalle malattie e dalle pene più grandi, che, provenendo per antiche colpe da qualche parte, si abbatto­ no su alcune famiglie, la mania, sorgendo e profetando in quelli in cui doveva operare, trovò una via di scampo, rifugiandosi nella preghiera e nella venerazione degli dèi. E quindi, procurando purificazioni e iniziazioni, rese libero chi ne fosse in possesso, per il presente e per il futuro, avendo trovato una liberazione da tutti i mali presenti per chi era in stato di mania e invasato nel modo dovuto. «In terzo luogo vengono l’invasamento e la mania che provengono dalle Muse, che, impossessatesi di un’anima tenera e pura, la destano e la traggono fuori di sé nella ispi­ razione bacchica in canti e in altre poesie, e, rendendo onore a innumerevoli opere degli antichi, istruiscono i po­ steri83. Ma colui che giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse, pensando che potrà essere valido poeta in conseguenza dell’arte, rimane incompleto, e la poesia di chi rimane in senno viene oscurata da quella di coloro che sono posseduti da mania. «Queste e altre ancora sono le opere belle di una mania che proviene dagli dèi, che ti posso indicare. Pertanto, non dobbiamo aver paura della cosa, e non deve produrci tur­ bamento un discorso che vuole intimorirci, dicendo che si deve preferire come amico l’uomo assennato invece di co­ lui che è preso da passione. «Ma questo discorso potrà riportare vittoria solo se avrà provato che l’amore non viene inviato dagli dèi a chi ama e a chi è amato al fine di giovare agli dèi medesimi. Noi dobbiamo, invece, dimostrare proprio il contrario, os­ sia che per nostra grandissima fortuna una mania di questo tipo ci viene data dagli dèi. La nostra dimostrazione non sarà persuasiva per uomini terribili, ma lo sarà per i sapienti.

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φύσεως τεέρι θείας τε καί άνθρωπίνης ίδόντα πάθη τε καί έργα τάληθές νοήσαι· άρχή δέ άποδείξεως ή δε. Ψυχή πάσα άθάνατος. τό γάρ άεικίνητον άθάνατον· τό δ’ άλλο κινούν καί ύπ’ άλλου κινούμενου, παύλαν έχον κινήσεως, παύλαν έχει ζωής, μόνον δή τό αύτό κινούν, άτε ούκ άπολείπον έαυτό, οΰποτε λήγει κινούμενου, άλλά καί τοΐς άλλοις δσα κινείται τούτο πηγή καί άρχή κινήσεως. άρχή δέ άγένητον. έξ άρχής γάρ άνάγκη πάν τό γιγνόμενον γίγνεσθαι, αύτήν δέ μηδ’ έξ ένός· εί γάρ έκ του άρχή γίγνοιτο, ούκ άν έτι άρχή γίγνοιτο. έπειδή δέ άγένητόν έστιν, καί άδιάφθορον αύτό άνάγκη είναι, άρχής γάρ δή άπολομένης ούτε αύτή ποτέ Ικ του ούτε άλλο έξ έκείνης γενήσεται, εΐπερ έξ άρχής δει τά πάντα γίγνεσθαι, οΰτω δή κινήσεως μέν άρχή τό αύτό αύτό κινούν, τούτο δέ οΰτ’ άπόλλυσθαι ούτε γίγνεσθαι δυνατόν, ή πάντα τε ούρανόν πάσάν τε γήν εις έν συμπεσοΰσαν στήναι καί μήποτε αύθις έχειν δθεν κινηθέντα γενήσεται. άθανάτου δέ πεφασμένου τού ύφ’ έαυτού κινουμένου, ψυχής ούσίαν τε καί λόγον τούτον αύτόν τις λέγων ούκ αίσχυνείται. πάν γάρ σώμα, φ μέν έξωθεν τό κινείσθαι, άψυχον, φ δέ ένδοθεν αύτφ έξ αύτοΰ, έμψυχον, ώς ταύτης οΰσης φύσεως ψυχής· ει δ’ έστιν τούτο ούτως έχον, μή άλλο τι είναι τό αύτό έαυτό κινούν ή ψυχήν, έξ άνάγκης άγένητόν τε καί άθάνατον ψυχή άν εΐη.

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL'AMORE

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Dimostrazione dell’immortalità deU’anima «Prima di tutto, dunque, bisogna conoscere la verità in­ torno alla natura dell’anima divina e umana M, consideran­ do le sue condizioni e le sue azioni. «Questo è il principio della dimostrazione85. «Ogni anima86 è immortale. Infatti, ciò che sempre si muove87 è immortale, mentre ciò che muove altro ed è mos­ so da altro, quando ha cessazione di movimento ha cessa­ zione anche di vita. Dunque, solamente ciò che muove se stesso non cessa mai di muoversi, in quanto non lascia mai se stesso, anzi è fonte e principio di movimento anche per le altre cose che si muovono. «Ma il principio non è generato. d «Infatti, è necessario che tutto ciò che è generato si ge­ neri da un principio; invece il principio è necessario che non sia generato da nulla, perché se il principio si generas­ se da qualcosa, non sarebbe più un principio. «E poiché non è generato, è necessario che sia anche in­ corruttibile. «Infatti, se perisse il principio, né questo potrebbe ge­ nerarsi da qualcosa, né altra cosa potrebbe generarsi da es­ so, dal momento che tutte le cose devono generarsi da un principio. Dunque, è principio di movimento ciò che muo­ ve se stesso. E questo non è possibile né che perisca, né che si generi. Se no, tutto quanto il cielo e tutta quanta la E terra, insieme in una sola cosa, resterebbero immobili, e non potrebbero più avere di nuovo ciò da cui potrebbero venir rimessi in moto e rigenerarsi. «Ma, poiché si è dimostrato che è immortale ciò che si muove da sé, nessuno proverà vergogna nell’affermare che appunto questa è l’essenza e la definizione dell’anima. In­ fatti, ogni corpo a cui l’essere in movimento proviene dal­ l’esterno è inanimato; invece, quello a cui proviene dal suo interno e da se stesso è animato, perché la natura dell’ani­ ma è appunto questa. Ma se è così, ossia se ciò che muove se stesso non può essere altro se non l’anima, allora, di ne­ cessità, l’anima dovrà essere ingenerata e altresì immor- 246 A tale88.

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Περί μέν οδν άθανασίας αύτής ίκανώς· περί δέ τής ιδέας αύτής ώδε λεκτέον. όίον μέν έστι, πάντη πάντως θείας είναι καί μακρ&ς διηγήσεως, φ δέ έοικεν, άνθρωπίνης τε καί έλάττονος· ταύτη ούν λέγωμεν. έοικέτω δή συμφύτφ δυνάμει ύποπτέρου ζεύγους τε καί ήνιόχου. θεών μέν ούν 'ίπποι τε καί ήνίοχοι πάντες αύτοί τε άγαθοί καί έξ άγαθών, τό δέ τών άλλων μέμεικται. καί πρώτον μέν ήμών ό άρχων συνωρίδος ήνιοχεί, είτα τών 'ίππων ό μέν αύτφ καλός τε και άγαθός καί έκ τοιούτων, ό δ’ έξ έναντίων τε καί έναντίος· χαλεπή δή καί δύσκολος έξ άνάγκης ή περί ήμάς ήνιόχησις. πή δή οδν θνητόν τε καί άθάνατον ζφον έκλήθη πειρατέον εϊπείν. ψυχή πάσα παντός έπιμελεΐται τού άψύχου, πάντα δέ ούρανόν περιπολεί, άλλοτ’ έν άλλοις εΐδεσι γιγνομένη. τελέα μέν ούν ούσα καί έπτερωμένη μετεωροπορεί τε καί πάντα τόν κόσμον διοικεί, ή δέ πτερορρυήσασα φέρεται 'έως άν στερεού τίνος άντιλάβηται, σδ κατοικισθεΐσα, σώμα γή'ίνον λαβούσα, αύτό αυτό δοκοΰν κινάν διά τήν έκείνης δύναμιν, ζφον τό σύμπαν έκλήθη, ψυχή καί σώμα παγέν, θνητόν τ’ έσχεν έπωνυμίαν· άθάνατον δέ ούδ’ έξ ένός λόγου λελογι­ σμένου, όλλά πλάττομεν ούτε ίδόντες ούτε ίκανώς νοήσαντες θεόν, άθάνατόν τι ζφον, έχον μέν ψυχήν, εχον δέ σώμα, τόν άεί δέ χρόνον ταΰτα συμπεφυκότα. άλλά ταΰτα μέν δή, δπη τφ θεφ φίλον, ταύτη έχέτω τε καί λεγέσθω· τήν δέ αιτίαν τής τών πτερών άποβολής, δι’ ήν ψυχής άπορρέί, λάβωμεν. Ισ τι δέ τις τοιάδε.

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL'AMORE

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0 carro alato come metafora dell’essenza dell’anima «Sulla immortalità dell’anima abbiamo detto a suffi­ cienza. «Sull’idea di anima dobbiamo dire quanto segue. «Spiegare quale sia, sarebbe compito di una esposizione divina in tutti i sensi e lunga; ma dire a che cosa assomigli, è una esposizione umana e piuttosto breve89. Parliamone, dunque, in questo modo. «Si pensi, dunque, l’anima come simile a una forza per sua natura composta di un carro a due cavalli e di un auriga90. «I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e deri­ vati da buoni, invece quelli degli altri sono misti91. b «In primo luogo, in noi l’auriga guida un carro a due cavalli; inoltre, dei due cavalli, uno è bello e buono e deri­ vante da belli e buoni; l’altro, invece, deriva da opposti ed è opposto n . Difficile e disagevole, di necessità, per quel che ci riguarda, è la guida del carro. «Ora, bisogna cercare di dire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. «Ogni anima 93 si prende cura di tutto ciò che è inani­ mato. Essa gira per tutto il cielo, ora in una forma, ora in un’altra. Quando essa è perfetta e alata, vola in alto e go- C verna tutto quanto il mondo. Ma una volta che abbia per­ duto le ali, viene trascinata giù fino a quando non si ag­ grappi a qualcosa di solido, e, trasportata la sua dimora in esso, e preso un corpo terroso, per la potenza di essa que­ sto sembra muoversi da sé. L’insieme, ossia l’anima e il cor­ po a essa congiunto, fu chiamato “vivente” ed ebbe il so­ prannome di “mortale”. «Il termine “immortale” non può essere spiegato sulla base di un solo discorso razionale; ma, senza conoscerlo e intenderlo in modo adeguato, noi ci figuriamo un dio, un D essere vivente e immortale, che ha un’anima e un corpo eternamente connaturati. «Ma di queste cose si pensi e si dica come piace al dio. «Cerchiamo invece di comprendere la causa della cadu­ ta delle ali, per cui esse si staccano dall’anima. «Una causa è la seguente.

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Πέφυκεν ή πτερού δύναμις τό έμβριθές άγειν άνω μετεωρίζουσα ή τό τών θεών γένος οϊκέΐ, κεκοινώνηκε δέ πη μάλιστα τών περί τό σώμα τού θείου [ψυχή], τό δέ θέίον καλόν, σοφόν, άγαθόν, καί πάν δτι τοιοΰτον· τούτοις δή τρέφεταί τε και αύξεται μάλιστά γε τό τής ψυχής πτέρωμα, αίσχρφ δέ καί κακφ καί τοις έναντίοις φθίνει τε καί διόλλυται. ό μέν δή μέγας ήγεμών έν ούρανφ Ζεύς, έλαΰνων πτηνόν άρμα, πρώτος πορεύεται, διακοσμών πάντα καί έπιμελούμενος- τφ δ' έπεται στρατιά θεών τε και δαιμόνων, κατά ένδεκα μέρη κεκοσμημένη. μένα γάρ Ε στία έν θεών οΐκφ μόνη- τών δέ άλλων δσοι έν τφ τών δώδεκα άριθμφ τεταγμένοι θεοί άρχοντες ήγοΰνται κατά τάξιν ήν έκαστος έτάχθη. πολλοί μέν ούν καί μακάριαι θέαι τε καί διέξοδοι έντός ούρανοΰ, άς θεών γένος εύδαιμόνων έπιστρέφεται πράττων έκαστος αύτών τό αυτού, έπεται δέ ό άεί έθέλων τε καί δυνάμενος* φθόνος γάρ έξω θείου χορού Ίσταται. δταν δέ δή πρός δαίτα καί έπί θοίνην ϊωσιν, άκραν έπί τήν ύπουράνιον άψίδα πορεύονται πρός άναντες, ή δή τά μέν θεών όχήματα ίσορρόπως εύήνια δντα ήψδίως πορεύεται, τά δέ άλλα μόγις- βρίθει γάρ ό τής κάκης 'ίππος μετέχων, έπί τήν γήν βέπων τε καί βαρύνων φ μή καλώς ήν τεθραμμένος τών ήνιόχων. ένθα δή πόνος τε καί άγών έσχατος ψυχή πρόκειται, αί μέν γάρ αθάνατοι καλούμεναι, ήνίκ’ άν πρός άκρφ γένωνται, έξω πορευθέίσαι έστησαν έπί τφ τοΰ ούρανοΰ

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL'AMORE

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Le schiere degli dèi, dei dèmoni e delle anime umane al loro seguito «La potenza dell’ala per sua natura tende a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo là dove abita la stirpe degli dèi, e in certo senso partecipa del divino più di tutte le cose che riguardano il corpo. «E il divino è ciò che è bello, sapiente e buono e tutto e ciò che è di questo tipo94. Appunto da queste cose le ali dell’anima vengono nutri­ te e accresciute in grado supremo; invece, dalla bruttezza, dalla malvagità e da tutti i contrari negativi esse vengono guastate e mandate in rovina. «Zeus, il grande sovrano che sta in cielo, conducendo il carro alato, è il primo a procedere, ordina tutte quante le co­ se e si prende cura di esse. A lui tien dietro un esercito di dèi e di dèmoni, ordinato in undici schiere. Infatti, nella casa de- 247 A gli dèi rimane Estia95 da sola. Quanto agli altri dèi, quelli che sono stati posti come capi in questo numero di dodici96, guidano, ciascuno, la loro schiera, nell’ordine secondo cui sono stati scelti. Molti e beati sono, dunque, le visioni e i percorsi dentro il cielo, che compie la stirpe degli dèi beati, mentre ciascuno di questi adempie il proprio compito. «Tien dietro agli dèi chi sempre lo vuole e ne ha la ca­ pacità: infatti, l’invidia rimane fuori del coro divino97. «Quando essi vanno a banchetto per prendere cibo, pro­ cedono per l’ascesa fino a raggiungere la sommità della voi- B ta del cielo. «Là i veicoli degli dèi, che sono ben equilibrati e agili da guidare, procedono bene; gli altri, invece, procedono con fatica. Il cavallo che è partecipe del male, infatti, cala, piegando verso terra e opprimendo quell’auriga che non abbia saputo allevarlo bene. L’Iperuranio, le realtà che stanno al di sopra del cielo, e la vita degli dèi «Qui all’anima si presenta la fatica e la prova suprema. «Infatti, allorché le anime che sono dette immortali per­ vengono alla sommità del cielo, procedendo al di fuori, si posano sulla volta del cielo, e la rotazione del cielo le tra-

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FEDRO 247 C - 248 A

c νώτφ, στάσας δέ αύτάς περιάγει ή περιφορά, άι δέ θεωροΰσι τά έξω τοΰ ούρανοΰ. Τόν δέ ύπερουράνιον τόπον ούτε τις ΰμνησέ πω τών τηδε ποιητής ούτε ποτέ ύμνήσει κατ’ άξίαν. έχει δέ ώδε - τολμη5 τέον γάρ ούν τό γε άληθές είπειν, άλλως τε κάι περί άληθείας λέγοντα - ή γάρ άχρώματός τε κάι άσχημάτιστος καί άναφής ούσία δντως ούσα, ψυχής κυβερνήτη μόνφ θεατή νφ, περ\ ήν τό τής άληθοΰς έπιστήμης γένος, τούτον έχει D τόν τόπον. άτ* ούν θεού διάνοια νφ τε καί έπιστήμη άκηράτφ τρεφομένη, και άπάσης ψυχής δση άν μέλη τό προσήκον δέξασθαι, Ιδούσα διά χρόνου τό δν άγαπφ τε καί θεωρούσα τάληθή τρέφεται κάι εύπαθεί, έως άν κύκλφ ή 5 περιφορά εις ταύτόν περιενέγκη. έν δέ τή περιόδφ καθορφ μέν αύτήν δικαιοσύνην, καθορφ δέ σωφροσύνην, καθορφ δέ έπιστήμην, ούχ ή γένεσις πρόσεστιν, ούδ’ ή έστίν που έτέρα Ε έν έτέρφ ούσα ών ήμεΐς νύν δντων καλοΰμεν, άλλά τήν έν τφ δ έστιν δν δντως έπιστήμην οΰσαν· καί τάλλα ωσαύτως τά δντα δντως θεασαμένη καί έστιαθεΐσα, δΰσα πάλιν ε’ις τό εϊσω τοΰ ούρανού, οίκαδε ήλθεν. έλθούσης δέ αύτής ό 5 ήνίοχος πρδς τήν φάτνην τούς 'ίππους στήσας παρέβαλεν αμβροσίαν τε καί έπ’ αύτή νέκταρ έπότισεν. A Καί ούτος μέν θεών βίος· αί δέ άλλαι ψυχαί, ή μέν άριστα θεφ έπομένη καί εικασμένη ύπερήρεν εις τόν έξω τόπον τήν τοΰ ήνιόχου κεφαλήν, καί συμπεριηνέχθη τήν περιφοράν, θορυβουμένη ύπδ τών ίππων καί μόγις καθορώσα 5 τά δντα· ή δέ τοτέ μέν ήρεν, τοτέ δ’ έδυ, βιαζομένων δέ τών ίππων τά μέν έΐδεν, τά δ’ ού. αί δέ δή άλλαι γλιχόμεναι

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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sporta così posate, ed esse contemplano le cose che stanno c al di fuori del cielo. «L’Iperuranio, il luogo sopraceleste98, nessuno dei poeti di quaggiù lo cantò mai, né mai lo canterà in modo degno. «La cosa sta in questo modo, perché bisogna avere real­ mente il coraggio di dire il vero, specialmente se si parla della verità. «L’essere che realmente è, senza colore, privo di figura e non visibile, e che può essere contemplato solo dalla gui­ da dell’anima, ossia dall’intelletto, e intorno a cui verte la conoscenza vera, occupa tale luogo. d «Ora, poiché la ragione di un dio è nutrita da una intel­ ligenza e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui prema di conoscere ciò che le conviene, quando vede dopo un certo tempo l’essere, si allieta, e, contemplando la verità, se ne nutre e ne gode, finché la rotazione del cielo non l’abbia riportata allo stesso punto99. «Nel giro che essa compie vede la Giustizia stessa, vede la Temperanza, vede la Scienza, non quella connessa col dive­ nire, né quella che è differente in quanto si fonda su quelle cose alle quali noi ora diamo il nome di esseri, ma quella E che è veramente scienza in ciò che è veramente essere. «E dopo che ha contemplato tutti gli esseri che vera­ mente sono e se ne è saziata, di nuovo penetra all’interno del cielo e se ne tom a alla sua dimora. «E, giunta alla dimora, l’auriga, dopo aver condotto i cavalli alla mangiatoia, getta a loro ambrosia, e oltre a essa dà a loro da bere del nettare100. «Questa è la vita degli dèi. 248 Come le anime umane cercano di raggiungere la «Pia­ nura della Verità» e la loro caduta «Quanto alle altre anime, invece, una, seguendo il dio nel modo migliore possibile e rendendosi simile a lui101, sol­ leva il capo dell’auriga verso il luogo che sta al di fuori del cielo e viene trasportata nel moto di rotazione, ma a stento contempla gli esseri, perché turbata dai cavalli. «Un’altra anima, invece, ora solleva il capo, ora lo ab­ bassa; ma poiché i cavalli le fanno violenza, vede alcuni es­ seri, mentre altri no.

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FEDRO 248 A D

μέν άπασαι τοΰ άνω 'έπονται, άδυνατοΰσαι δέ, ύποβρύχιαι συμπεριφέρονται, πατοΰσαι άλλήλας καί έπιβάλλουσαι, έτέρα Β πρό τής έτέρας πηρωμένη γενέσθαι. θόρυβος οδν καί άμιλλα καί ίδρώς έσχατος γίγνεται, σδ δή κακίςι ήνιόχων πολλοί μέν χωλεύονται, πολλαί δέ πολλά πτερά θραύονταν πάσαν δέ πολΰν έχουσαι πόνον άτελέϊς τής τοΰ δντος θέας 5 άπέρχονταν, καί άπελθοΰσαι τροφή δοξαστή χρώνταν. οδ δ’ ’έ νεχ’ ή πολλή σπουδή τό άληθείας ϊδείν πεδίον οδ έστιν, ή τε δή προσήκουσα ψυχής τφ άρίστψ νομή έκ τοΰ έκέί c λ!ειμώνος τυγχάνει οδσα, ή τε τοΰ πτεροΰ φΰσις, φ ψυχή κουφίζεται, τούτψ τρέφεται, θεσμός τε Άδραστείας δδε. ήτις άν ψυχή θεφ συνοπαδός γενομένη κατίδη τι τών άληθών, μέχρι τε τής έτέρας περιόδου είναι άπήμονα, κάν άεί 5 τοΰτο δύνηται ποιείν, άεί άβλαβή είναι· δταν δέ άδυνατήσασα έπισπέσθαι μή Ιδη, καί τινι συντυχίςι χρησαμένη λήθης τε καί κακίας πλησθείσα βαρυνθή, βαρυνθέΐσα δέ πτερορρυήση τε καί έτή τήν γήν πέση, τότε νόμος ταύτην D μή φυτεΰσαι είς μηδεμίαν θήρειον φύσιν έν τή πρώτη γενέσει, άλλά τήν μέν πλέίστα ίδοΰσαν είς γονήν άνδρός γενησομένου φιλοσόφου ή φιλοκάλου ή μουσικοΰ τίνος καί έρωτικοΰ, τήν δέ δευτέραν είς βασιλέως έννόμου ή πολεμικοΰ 5 καί άρχικοΰ, τρίτην είς πολιτικοΰ ή τίνος οίκονομικοΰ ή

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL'AMORE

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«Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a sa­ lire in alto, ma, non essendo capaci di farlo, vengono som­ merse e trascinate nel moto di rotazione, urtandosi l’una con l’altra, accalcandosi e tentando di passare l’una davanti b all’altra. Nasce, dunque, un tumulto e una lotta con un estremo sudore, e, per l’ignavia degli aurighi, molte anime rimangono storpiate, e numerose riportano molte delle lo­ ro penne spezzate. «Tutte, poi, oppresse da grande fatica, se ne allontanano senza aver fruito della contemplazione dell’essere; e, una vol­ ta che si siano allontanate, si nutrono del cibo dell’opinione. «Il motivo per cui esse mettono tanto impegno per ve­ dere la Pianura della Verità102 è questo: il nutrimento adat­ to alla parte migliore dell’anima proviene dal prato che è c là, e la natura dell’ala con cui l’anima può volare si nutre proprio di questo. I destini escatologici delle anime dopo la caduta e la metempsicosi «Ed ecco quale è la legge di Adrastea103. «Ogni anima che, diventata seguace di un dio, abbia po­ tuto contemplare qualcuna delle verità, rimane illesa fino al giro successivo; e, se è capace di fare questo, rimane immu­ ne per sempre. «Qualora, invece, non essendo in grado di seguire il dio, non abbia visto, e, per qualche avventura subita, riem­ pitasi di dimenticanza e di malvagità, si sia appesantita, e, appesantitasi, abbia perso le ali e sia caduta per terra, allo­ ra è legge che quest’anima non si trapianti in alcuna natura D animale nella prima generazione. «Invece, quella che ha visto il maggior numero di esseri è legge che si trapianti in Un seme di un uomo che dovrà diventare amico del sapere e amico del bello, o amico delle Muse, o desideroso d’amore. «Quella che viene seconda, è legge che si trapianti in un re che rispetti la legge o in un uomo abile in guerra e adat­ to al comando. «La terza in un uomo politico o in un economista o in un finanziere.

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Ε

j 249 A

5

Β

5

FEDRO 248 D - 249 B

χρηματιστικοΰ, τετάρτην εις φιλοπόνου γυμναστικού ή περί σώματος ΐασίν τίνος έσομένου, πέμπτην μαντικόν βίον ή τινα τελεστικόν 'έξουσαν· 'έκτη ποιητικός ή τών περί μίμησίν τις άλλος άρμόσει, έβδόμη δημιουργικός ή γεωργικός όγδόη σοφιστικός ή δημοκοπικός ένάτη τυραννικός, έν δή τούτοις άπασιν δς μέν άν δικαίως διαγάγη άμείνονος μοίρας μεταλαμβάνει, δς δ’ άν αδίκως, χείρονος· εις μέν γάρ τό αύτό δθεν ήκει ή ψυχή έκάστη ούκ άφικνέίται έτών μυρίων ού γάρ πτεροΰται πρό τοσούτου χρόνου - πλήν ή τού φιλοσοφήσαντος άδόλως ή παιδεραστήσαντος μετά φιλοσοφίας, αύται δέ τρίτη περιόδφ τή χιλιετεΐ, έάν έλωνται τρις έφεξής τόν βίον τούτον, οΰτω πτερωθεΐσαι τρισχιλιοστφ Ιτει άπέρχονται. αί δέ άλλαι, δταν τόν πρώτον βίον τελευτήσωσιν, κρίσεως έτυχον, κριθεΐσαι δέ αί μέν είς τά ύπό γής δικαιωτήρια έλθοΰσαι δίκην έκτίνουσιν, α ί δ’ είς τούρανοΰ τινα τόπον ύπό της Δίκης κουφισθέίσαι διάγουσιν άξίως ού έν άνθρώπου εϊδει έβίωσαν βίου, τφ δέ χιλιοστφ άμφότεραι άφικνούμεναι έπί κλήρωσίν τε καί α'ίρεσιν τού δευτέρου βίου αίροΰνται δν άν θέλη έκάστη· ένθα καί είς θηρίου βίον άνθρωπίνη ψυχή άφικνέίται, καί έκ θηρίου δς ποτέ άνθρωπος ήν πάλιν είς άνθρωπον, ού γάρ ή γε μήποτε ίδοΰσα τήν άλήθειαν είς τόδε ήξει τό σχήμα, δει γάρ άν­

ω , SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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«La quarta in un uomo che ama le fatiche, o in uno che pratichi la ginnastica o che si dedichi alla guarigione dei corpi. «La quinta è destinata ad avere una vita di un indovino e o di un iniziatore ai misteri. «Alla sesta converrà la vita di un poeta o di qualcun al­ tro di coloro che si occupano dell’imitazione. «Alla settima la vita di un ardgiano o di un agricoltore. «All’ottava la vita di un sofista o di un corteggiatore di popolo. «Alla nona la vita di un tiranno104. «Fra tutti costoro, poi, chi ha condotto la vita in modo giusto, riceve una sorte migliore, mentre chi ha condotto una vita in modo ingiusto riceve una sorte peggiore. Infatti, ogni anima non ritorna là donde è venuta per un periodo di diecimila a n n i105, perché le ali prima di questo periodo 249 A di tempo non rispuntano, tranne che nell’anima di colui che ha esercitato la filosofia in modo sincero, o ha amato i ragazzi in modo conforme a filosofia. «Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scel­ to per tre volte consecutive tale tipo di vita, rimesse in questo modo le ali, al termine del terzo millennio se ne vanno via. «Le altre, invece, quando giungeranno al termine della loro prima vita, subiranno un giudizio, e dopo che saranno state giudicate, alcune, andando in luoghi di espiazione che si trovano sotto terra, scontano la loro pena; altre, invece, essendo elevate dalla Giustizia in un qualche luogo del cie­ lo, conducono una vita in modo corrispondente al tipo di B vita che hanno condotto in forma di uomo. «Al millesimo anno, poi, sia le une che le altre, giunte al momento del sorteggio e della scelta della seconda vita ter­ rena, operano tale scelta, ciascuna scegliendo secondo ciò che vuole106. «A questo punto, un’anima umana può passare anche in una vita di bestia, e chi era stato una volta uomo può tor­ nare ancora una volta da animale a essere uomo107. «In effetti, l’anima che non ha mai contemplato la verità non potrà mai giungere alla forma di uomo.

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FEDRO 249 B - 250 A

θρωπον συνιέναι κατ’ είδος λεγόμενον, έκ πολλών tòv αίc σθήσεων είς 'èv λογισμφ συναιρούμενον· τούτο δ’ έστίν άνάμνησις έκείνων ά ποτ’ έΐδεν ήμών ή ψυχή συμπορευθώσα θεφ καί ύπεριδούσα & νΰν έΐναί φαμεν, καί άνακύψασα εις τό δν δντως. διό δή δικαίως μόνη πτερούται ή τού φιλοσόj φου διάνοια· πρός γάρ έκείνοις άεί έστιν μνήμη κατά δόναμιν, πρός όίσπερ θεός ών θεΐός έστιν. τοΐς δέ δή τοιούτοις άνήρ ύπομνήμασιν όρθώς χρώμενος, τελέους άεί τελετάς τελού­ μενος, τέλεος όντως μόνος γίγνεται· έξιστάμενος δέ τών D άνθρωπίνων σπουδασμάτων καί πρός τφ θείφ γιγνόμενος, νουθετείται μέν ύπό τών πολλών ώς παρακινών, ένθουσιάζων δέ λέληθεν τούς πολλούς. Έ σ τι δή σύν δεύρο ό πδς ήκων λόγος περί τής τετάρτης 3 μανίας - ήν δταν τό τήδέ τις όρών κάλλος, τού άληθοΰς άναμιμνησκόμενος, πτερώταί τε καί άναπτερούμενος προθυμούμενος άναπτέσθαι, άδυνατών δέ, δρνιθος δίκην βλέπων άνω, τών κάτω δέ άμελών, αίτίαν έχει ώς μανικώς διακείΕ μένος - ώς άρα αύτη πασών τών ένθουσιάσεων άρίστη τε καί έξ άρίστων τφ τε Ιχοντι καί τφ κοινωνοΰντι αύτής γίγνεται, καί δτι ταύτης μετέχων τής μανίας ό έρών τών καλών έραστής καλείται, καθάπερ γάρ εϊρηται, πάσα μέν 5 άνθρώπου ψυχή φύσει τεθέαται τά δντα, ή ούκ άν ήλίθεν 250 Λ είς τάδε τό ζφον· άναμιμνήσκεσθαι δέ έκ τώνδε έκέίνα ού βάδιον άπάση, ούτε δσαι βραχέως έίδον τότε τάκέί, ούθ’ α'ί δεύρο πεσοΰσαι έδυστύχησαν, ώστε ύπό τινων όμιλιών έπί τό άδικον τραπόμεναι λήθην ών τότε έίδον ιερών έχειν. 5 όλίγαι δή λείπονται άίς τό τής μνήμης ίκανώς πάρεστιν·

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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La reminiscenza e i suoi nessi con la «mania» dell’amore «Bisogna, infatti, che l’uomo comprenda in funzione di quella che viene chiamata Idea, procedendo da una molte­ plicità di sensazioni a una unità colta con il pensiero108. E c questa è una reminiscenza105 di quelle cose che un tempo la nostra anima ha visto, quando procedeva al seguito di un dio e guardava dall’alto le cose che diciamo che sono esse­ re, alzando la testa verso quello che è veramente essere. «Perciò, giustamente, solo l’anima del filosofo mette le ali110. Infatti con il ricordo, nella misura in cui gli è possibi­ le, egli è sempre in rapporto con quelle realtà, in relazione con le quali anche un dio è divino. Un uomo che si serva di tali reminiscenze in modo retto, in quanto è sempre inizia­ to a misteri perfetti, diventa, lui solo, veramente perfetto. Però, in quanto si allontana dalle occupazioni umane e si ri- D volge al divino, viene accusato dai più di essere uscito di sen­ no. Ma sfugge ai più che egli, invece, è invasato da un dio111. «È questa la conclusione cui perviene tutto il discorso sulla quarta forma di mania, ossia quella mania per la qua­ le, quando uno veda la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera Bellezza, mette le ali, e desideroso di volare, ma rimanendo incapace, guardando verso l’alto come un uc­ cello e non prendendosi cura delle cose di quaggiù, riceve l’accusa di trovarsi in uno stato di mania. «E il discorso giunge a dire che, fra tutte le divine ispi- E razioni, questa è la migliore e deriva dalle cose migliori, e per chi la possiede e per chi ha comunanza con essa. Ed è per questo che, partecipando di tale mania, chi ama i belli viene detto innamorato. Infatti, come è stato detto112, ciascun’anima di uomo, per sua natura, ha contemplato gli es­ seri, altrimenti non sarebbe venuta in questo vivente. 230 «Ma, il ricordarsi di questi esseri, procedendo dalle co­ se di quaggiù, non è cosa facile per tutte le anime: non per quelle che videro con un breve sguardo le realtà di lassù, non per quelle che, cadute quaggiù, ebbero una cattiva sor­ te, e trascinate all’ingiustizia da cattive compagnie, caddero nell’oblio di quelle realtà sacre che videro allora. «Restano poche anime nelle quali è presente il ricordo in maniera sufficiente.

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Β

5

C

j

D

5

FEDRO 250 A-D

αΰται δέ, δταν τι τών έκέί όμοίωμα ΐδοχην, έκπλήττονται καί ούκέτ’ αύτών γίγνονται, δ δ1 έστι τό πάθος άγνοοΰσι διά τό μή Ικανώς διαισθάνεσθαι. δικαιοσύνης μέν ούν και σωφροσύνης κα\ δσα άλλα τίμια ψυχαΐς ούκ ένεστι φέγγος ούδέν έν τοϊς τη δε όμοιώμασιν, άλλά δι’ άμυδρών όργάνων μόγις αύτών καί. όλίγοι έπι τάς εικόνας Ιόντες θεώνται τό τού είκασθέντος γένος· κάλλος δέ τότ’ ήν ΐδεί,ν λαμπρόν, δτε σύν εύδαίμονι χορφ μακαρίαν δψιν τε και θέαν, έπόμενοι μετά μέν Διός ήμείς, άλλοι δέ μετ’ άλλου θεών, έΐδόν τε κα\ έτελοΰντο τών τελετών ήν θέμις λέγειν μακαριωτάτην, ήν ώργιάζομεν όλόκληροι μέν αύτοι δντες κοίι άπαθεΐς κακών δσα ήμδς έν ύστέρφ χρόνψ ϋπέμενεν, όλόκληρα δέ καί άπλά και άτρεμή καί εύδαίμονα φάσματα μυούμενοί τε και έποπτεύοντες έν αύγή καθαρά, καθαροί δντες καί άσήμαντοι τούτου δ νΰν δή σώμα περιφέροντες όνομάζομεν, όστρέου τρόπον δεδεσμευμένοι. Ταΰτα μέν ουν μνήμη κεχαρίσθω, δι’ ήν πόθφ τών τότε νΰν μακρότερα εϊρηται· περί δέ κάλλους ώσπερ εΐπομεν, μετ’ έκείνων τε έλαμπεν όν, δεΰρό τ’ έλθόντες κατειλήφαμεν αυτό διά τής έναργεστάτης αΐσθήσεως τών ήμετέρων στίλβον έναργέστατα. δψις γάρ ήμΐν όξυτάτη τών διά τού σώματος έρχεται αισθήσεων, ή φρόνησις ούχ όράται - δεινούς γάρ άν παρεΐχεν έρωτας, εΐ τι τοιούτον έαυτής έναργές εϊδωλον παρείχετο είς δψιν ιόν - καί τάλλα δσα έραστά· νΰν δέ κάλλος μόνον ταύτην έσχε μοίραν, ώστ' έκφανέστατον είναι

ΠΧ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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«Queste, quando vedono qualcosa che sia un’immagine delle realtà di lassù, restano colpite e non rimangono più in sé. Però non sanno che cosa sia quello che provano, perché B non lo percepiscono perfettamente. L’amore deriva dalla bellezza che è un tralucere dell’in­ telligibile nel sensibile «Ora, della giustizia, della temperanza e di tutte quante le altre cose che hanno valore per le anime, nessun fulgore è presente nelle immagini di quaggiù. Ma solo pochi, me­ diante gli organi oscuri, avvicinandosi alle copie, a mala pena vedono roriginario modello che è riprodotto in quel­ le copie. «Invece, allora, la Bellezza si vedeva nel suo splendore, in un coro felice avevamo una beata visione e contempla­ zione, mentre noi eravamo al seguito di Zeus e altri erano al seguito di un altro degli dèi e ci iniziavamo a quella ini­ ziazione che è giusto dire la più beata, che celebravamo, es- c sendo integri e non toccati dai mali che ci avrebbero aspet­ tato nel tempo che doveva venire, contemplando nella ini­ ziazione misterica visioni integre, semplici, immutabili e beate, in una pura luce, essendo anche noi puri e non tu­ mulati in questo sepolcro che ora ci portiamo appresso e che chiamiamo corpo, imprigionati in esso come l’ostrica113. «Tutto questo sia detto, dunque, in omaggio al ricordo in virtù del quale, per il desiderio che abbiamo delle cose di allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. «Per quanto riguarda la Bellezza, poi, come abbiamo detto, splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, D venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle no­ stre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo. «Infatti, la vista, per noi, è la più acuta delle sensazioni, che riceviamo mediante il corpo114. Ma con essa non si ve­ de la Saggezza, perché, giungendo alla vista susciterebbe terribili amori115, se offrisse una qualche chiara immagine di sé, né si vedono tutte le altre realtà che sono degne d ’a­ more. «Ora, invece, solamente la Bellezza ricevette questa sor­ te di essere ciò che è più manifesto e più amabile.

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FEDRO 230 E - 231D

E καί έρασμιώτατον. 6 μέν ούν μή νεοτελής ή διεφθαρμένος ούκ όξέως ένθένδε έκέΐσε φέρεται πρός αύτό τό κάλλος, θεώμενος αύτοΰ τήν τήδε έπωνυμίαν, ώστ' ού σέβεται προςορών, άλλ’ ήδονή παραδούς τετράποδος νόμον βαίνειν 5 έπιχειρεΐ καί παιδοσπορέίν, καί ύβρει προσομιλών ού δέΑ δοικεν ούδ’ αίσχύνεται παρά φύσιν ήδονήν διώκων· ό δέ άρτιτελής, ό τών τότε πολυθεάμων, όταν θεοειδές πρόσωπον ίδη κάλλος εύ μεμιμημένον ή τινα σώματος Ιδέαν, πρώτον μέν έφριξε καί τι τών τότε ύπήλθεν αύτόν δειμάτων, έίτα 5 προσορών ώς θεόν σέβεται, καί εί μή έδεδίει τήν τής σφόδρα μανίας δόξαν, θύοι άν ώς άγάλματι καί θεφ τοίς παιδικοΐς. ίδόντα δ' αύτόν όίον έκ τής φρίκης μεταβολή τε Β καί ίδρώς καί θερμότης άήθης λαμβάνει- δεξάμενος γάρ τού κάλλους τήν άπορροήν διά τών όμμάτων έθερμάνθη ή ή τού πτερού φύσις άρδεται, θερμανθέντος % έτάκη τά περί τήν έκφυσιν, & πάλαι ύπό σκληρότητος συμμεμυκότα έΐργε 3 μή βλαστάνειν, έπιρρυείσης δέ τής τροφής φδησέ τε καί ώρμησε φύεσθαι άπό τής βίζης ό τού πτερού κουλός ύπό πάν τό τής ψυχής είδος· πάσα γάρ ήν τό πάλαι πτερωτή. C ζεΐ ούν έν τούτφ όλη καί άνακηκίει, καί δπερ τό τών όδοντοφυούντων πάθος περί τούς όδόντας γίγνεται όταν άρτι φύωσιν, κνήσίς τε καί άγανάκτησις περί τά ούλα, ταύτόν δή πέπονθεν ή τού πτεροφυέίν άρχομένου ψυχή· ζέί τε καί 5 αγανακτεί καί γαργαλίζεται φύουσα τά πτερά, όταν μέν ούν βλέπουσα πρός τό τού παιδός κάλλος έκέίθεν μέρη έπιόντα καί ύέοντ’ - & δή διά ταΰτα ίμερος καλείται - δεχομένη [τόν 'ίμερον] άρδηταί τε καί θερμαίνηται, λωφφ τε τής όδύνης D καί γέγηθεν· όταν δέ χωρίς γένητοα καί αύχμήση, τά τών

m . SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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Il modo in cui la bellezza mediante l’amore fa rinascere le ali dell’anima «Dunque, chi non è di recente iniziato, o è già corrotto, E non si innalza prontamente di qui a lassù, verso la Bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta lo stesso no­ me. Di conseguenza, guardandola, non la onora, ma, dan­ dosi al piacere come un quadrupede che cerca solo di mon­ tare e generare figli, e, abbandonandosi agli eccessi, non prova timore e non si vergogna nel correre dietro a un pia- 2J1A cere contro natura116. «Invece, colui che è di recente iniziato e che ha molto contemplato le realtà di allora, quando vede un volto di forma divina che imita bene la bellezza, o una qualche for­ ma di corpo, dapprima sente i brividi117, e qualcuna delle paure di allora penetra *in lui. Poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non avesse timore di essere ritenuto in stato di eccessiva mania, offrirebbe sacrifici al suo amato come a una immagine sacra e a un dio. «Al vederlo, lo coglie come una reazione che proviene dal brivido, e un sudore e un calore insolito. Infatti, rice­ vendo attraverso gli occhi l’effluvio della bellezza, si scalda b nel punto in cui la natura dell’ala si alimenta. E, una volta riscaldatasi, si sciolgono le parti che stanno attorno ai ger­ mi, le quali, essendo da tempo chiuse, per inaridimento, non lasciavano germogliare le ali. In seguito all’affluire del nutrimento, lo stato dell’ala si gonfia e comincia a crescere dalla radice, per tutta quanta la forma dell’anima. Infatti, un tempo, l’anima era tutta alata. «Dunque, a questo punto, essa ribolle tutta quanta e c palpita. E quello che provano i bambini, allorché mettono i denti al momento in cui questi cominciano a spuntare, os­ sia quel senso di prurito e di irritazione intorno alle gengi­ ve, lo stesso prova l’anima che inizia a mettere le ali: ribolle e sente irritazione mentre sta mettendo le ali. «Quando, dunque, guarda la bellezza di un ragazzo, e riceve le parti che ne procedono e fluiscono e che appunto per questo sono dette “flusso d’amore"118, l’anima viene ir­ rigata e si riscalda, si riprende dal dolore e si allieta. Inve- D ce, quando ne è separata e si inaridisce, le bocche dei con-

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διεξόδων στόματα fi τό πτερόν όρμφ, συναυαινόμενα μύσαντα άποκλήει τήν βλάστην του πτερού, ή δ’ έντός μετά τού Ιμέρου άποκεκλημένη, πηδώσα οιον τά σφύζοντα, τή διεξόδφ έγχρίει έκάστη τή καθ’ αύτήν, ώστε πάσα κεντουμένη κύκλφ ή ψυχή οίστρφ καί όδυνάται, μνήμην δ’ αύ έχουσα τού καλού γέγηθεν. έκ δέ άμφοτέρων μεμειγμένων άδημονέί τε τή άτοπίψ τού πάθους καί άποροΰσα λυττφ, και έμμανής ούσα ούτε νυκτός δύναται καθεύδειν ούτε μεθ’ ήμέραν οΰ άν ή μένειν, θεΐ δέ ποθούσα όπου άν οΐηται δψεσθαι τόν έχοντα τό κάλλος· Ιδοΰσα δέ καί έποχετευσαμένη 'ίμερον έλυσε μέν τά τότε συμπεφραγμένα, άναπνοήν δέ λαβοΰσα κέντρων τε και ώδίνων εληξεν, ήδονήν δ’ αύ ταύτην γλυκυτάτην έν τφ παρόντι καρποΰται. δθεν δή έκοΰσα είναι ούκ απολείπεται, ουδέ τινα τού καλού περί πλείονος ποιείται, άλλά μητέρων τε και άδελφών καί εταίρων πάντων λέλησται, κα'ι ούσίας δι’ άμέλειαν άπολλυμένης παρ’ ούδέν τίθεται, νομίμων δέ καί εύσχημόνων, όΐς πρό τού έκαλλωπίζετο, πάντων καταφρονήσασα δουλεύειν έτοιμη καί κοιμάσθαι δπου άν èqt τις έγγυτάτω τού πόθου· πρός γάρ τφ σέβεσθαι τόν τό κάλλος έχοντα Ιατρόν ηΰρηκε μόνον τών μεγίστων πόνων, τούτο δέ τό πάθος, ώ πάί καλέ, πρός δν δή μοι ό λόγος άνθρωποι μέν έρωτα όνομάζουσιν, θεοί δέ δ καλοΰσιν άκούσας εικότως διά νεότητα γελάση. λέγουσι δέ οίμαί τινες Όμηριδών έκ τών άποθέτων έπών δύο έπη εις τόν "Ερωτα, ών τό έτερον υβριστικόν πάνυ καί ού σφόδρα τι έμμετρον· ύμνοΰσι δέ ώδε τόν δ’ ήτοι θνητοί μέν "Ερωτα καλοΰσι ποτηνόν, άθάνατοι δέ Πτέρωτα, διά πτεροφύτορ’ άνάγκην. τούτοις δή έξεστι μέν πείθεσθαι, έξεστιν δέ μή· δμως δέ ή γε αιτία καί τό πάθος τών έρώντων τούτο έκείνο τυγχάνει δν.

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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dotti da cui escono le penne, disseccandosi e chiudendosi, impediscono il germoglio dell’ala. Ma questo, rinchiuso dentro insieme al flusso d’amore, come i polsi che battono, pizzica sui condotti, ciascun germoglio nel condotto che gli è proprio, cosicché Γanima rimane pungolata tutt’intomo e presa dall’assillo e dal dolore. Però, di nuovo avendo il ri­ cordo della bellezza, prova gioia. «In conseguenza della mescolanza di queste cose, essa si trova in uno stato di grande turbamento per la stranezza di ciò che sente e, trovandosi senza una via d’uscita, delira, e, essendo presa dalla mania, non riesce a dormire di notte, né E di giorno riesce a riposare da qualche parte, ma, spinta dalla brama, corre là dove pensa di poter vedere colui che pos­ siede la bellezza. E dopo che ha visto ed è stata irrorata dal flusso d’amore, si sciolgono i condotti che prima si erano ostruiti e, ripreso respiro, cessa di avere punture e travagli e al­ lora gode, nel momento presente, di un piacere dolcissimo. 252 A «Di sua volontà non si allontana e non tiene conto di al­ cunché più che del suo bello. Addirittura si dimentica di madri, di fratelli e di tutti gli amici; e se le sue ricchezze vanno in rovina, perché non se ne cura più, non gliene im­ porta nulla. «In dispregio di tutte le buone regole e delle convenien­ ze di cui si ornava prima di quel momento, essa è disposta a servire e a giacere con l’amato dovunque le sia concesso, purché si trovi il più vicino possibile a lui. Infatti, oltre che onorare colui che ha la bellezza, ha trovato in lui l’unico B medico dei suoi grandissimi mali. «Questa passione, bel ragazzo al quale si rivolge il mio discorso, gli uomini chiamano Eros, mentre gli dèi la chia­ mano in un modo che, non appena lo avrai udito, verosi­ milmente, a causa della tua giovinezza, ti metterai a ridere. Alcuni Omeridi, forse traendoli da poemi segreti119, citano due versi rivolti a Eros, il secondo dei quali è irriverente120 e non del tutto regolare nel metro. Questi versi suonano co­ sì: I mortali lo chiamano Eros alato, / gli immortali lo chia­ mano invece Pteros, perché fa / crescere le ali. «A questi versi si può credere oppure non credere; tut- c tavia, la causa e ciò che accade agli innamorati sono pro­ prio questi.

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FEDRO 232 C - 233 B

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Τών μέν ούν Διός όπαδών ό ληφθάς έμβριθέστερον δύναται φέρειν τό τοΰ πτερωνύμου άχθος· δσοι δέ "Αρεώς τε θεραπευταί καί μετ' έκείνου περιεπόλουν, δταν ύπ’ 'Έρωτος άλώσι καί τι οίηθώσιν άδικήσθαι ύπό τοΰ έρωμένου, φονικοί καί έτοιμοι καθιερεύειν αύτούς τε καί τά παιδικά. καί οΰτω καθ' έκαστον θεόν, οΰ έκαστος ήν χορευτής, έκέινον τιμών τε καί μιμούμενος είς τό δυνατόν ζή, έως άν ή άδιάφθορος καί τήν τη δε πρώτην γένεσιν βιοτεύη, καί τούτφ τφ τρόπφ πρός τε τούς έρωμένους καί τούς άλλους όμιλεΐ τε καί προσφέρεται. τόν τε ούν "Ερωτα τών καλών πρός τρόπου έκλέγεται έκαστος καί ώς θεόν αύτόν έκείνον δντα έαυτφ όΐον άγαλμα τεκταίνεταί τε καί κατακοσμεί, ώς τιμήσων τε καί όργιάσων. οί μέν δή ούν Διός δίόν τινα είναι ζητοΰσι τήν ψυχήν τόν ύφ’ αύτών έρώμενον· σκοποΰσιν ούν εί φιλόσοφός τε καί ήγεμονικός τήν φύσιν, καί δταν αύτόν εύρόντες έρασθώσι, πάν ποιοΰσιν δπως τοιοΰτος έσται. έάν ούν μή πρότερον έμβεβώσι τφ έπιτηδεύματι, τότε έπιχειρήσαντες μανθάνουσί τε δθεν άν τι δύνωνται καί αύτοί μετέρχονται, ίχνεύοντες δέ παρ’ έαυτών άνευρίσκειν τήν τοΰ αφετέρου θεοΰ φύσιν εύποροΰσι διά τό συντόνους ήναγκάσθαι πρός τόν θεόν βλέπειν, καί έφαπτόμενοι αύτοΰ τη μνήμη ένθουσιώντες έξ έκείνου λαμβάνουσι τά έθη καί τά έπιτηδεύματα, καθ’ δσον δυνατόν θεοΰ άνθρώπφ μετασχεΐν· καί τούτων δή τόν έρώμενον αίτιώμενοι έτι τε μάλλον άγαπώσι, κάν έκ Διός άρύτωσιν ώσπερ αί βάκχαι, έπί τήν τοΰ έρωμένου ψυχήν έπαντλοΰντες ποιοΰσιν ώς δυνατόν όμοιότατον τφ σφετέρψ θεφ. δσοι δ’ αύ μεθ’ ’Ήρας ε'ίποντο, βασιλικόν ζητοΰσι, καί εύρόντες περί τοΰτον πάντα δρώσιν

Ognuno si sfor2 a di imitare il dio di cui era seguace nell’aldilà e nell’amore cerca l’anima corrispondente «Ora, se chi è stato preso da Eros faceva parte dei se­ guaci di Zeus, può reggere più facilmente rafflizione che pro­ duce il dio che prende il suo nome dalle ali. Invece, quelli che erano al servizio di Ares e con lui procedevano nel giro per il cielo, quando siano stati presi da Eros e si siano con­ vinti di aver ricevuto offese dall’amato, sono pronti a ucci­ dere e disposti a sacrificare se medesimi e il loro amato. «E così, ciascuno vive secondo il dio del cui coro era se- D guace, cercando di onorarlo e di imitarlo nel modo miglio­ re che sia possibile, finché rimanga incorrotto e viva quag­ giù la prima esistenza, e in tale maniera si comporta e ha rapporti con gli amati e con gli altri. «Dunque, ognuno sceglie il suo Eros fra i belli secondo la sua maniera e, come se fosse lui stesso un dio, gli edifica una specie di statua e la adorna per farle onore e tributarle e riti. «Pertanto, coloro che erano al seguito di Zeus cercano, come loro amato, colui che abbia Γanima con i caratteri di Zeus121. Guarderanno, dunque, se per natura sia filosofo e idoneo al comando; e, allorché l’abbiano trovato e se ne in­ namorino, fanno ogni cosa affinché possa essere effettiva­ mente tale. E se, in precedenza, non si erano impegnati in attività di questo tipo, da quel momento vi si dedicano e imparano da dove è loro possibile, e proseguono anche per loro conto. E, seguendo le tracce nello scoprire per conto loro la natura del loro dio, giungono sulla buona strada, 233 perché sono stati fortemente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e dal momento che hanno contatto con lui, me­ diante il ricordo, essendo da lui invasati, assumono i suoi caratteri e le sue attività, nella misura in cui all’uomo è pos­ sibile essere partecipe del divino. E poiché considerano l’a­ mato causa di queste cose, lo amano ancora di più. E anche se attingono da Zeus, come le Baccanti122, riversando ciò che attingono nell’anima dell’amato, lo rendono nella mi­ sura del possibile somigliantissimo al loro dio123. B «Invece, coloro che seguivano Era cercano un’anima re­ gale e, quando l’hanno trovata, fanno nei suoi confronti tutte queste medesime cose.

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τά αύτά. ον δέ Απόλλωνός τε καί έκάστου τών θεών οϋτω κατά τόν θεόν ϊόντες ζητοΰσι tòv σφέτερον παΐδα πεφυκέναι, και δταν κτήσωνται, μιμούμενοι αύτοί τε καί τά παιδικά πείθοντες καί βυθμίζοντες εις τό έκείνου έπιτήδευμα και Ιδέαν άγουσιν, δση έκάστψ δύναμις, ού φθόνφ ούδ’ άνελευθέρφ δυσμενείς χρώμενοι πρός τά παιδικά, άλλ’ εις όμοιότητα αύτοίς καί τφ θεφ δν άν τιμώσι πάσαν πάντως δτι μάλιστα πειρώμενοι άγειν οϋτω ποιοΰσι. προθυμία μέν οΰν τών ώς άληθώς έρώντων καί τελετή, έάν γε διαπράξωνται δ προθυμοΰνται ή λέγω, οϋτω καλή τε καί εύδαιμονική ύπό τοΰ δι’ έρωτα μανέντος φίλου τφ φιληθέντι γίγνεται, έάν αίρεθή· άλίσκεται δέ δή ό αίρεθείς τοιφδε τρόπφ. Καθάπερ έν άρχή τοΰδε τοΰ μύθου τριχή διείλομεν ψυχήν έκάστην, ίππομόρφω μέν δύο τινέ είδη, ήνιοχικόν δέ είδος τρίτον, καί νΰν έτι ήμΐν ταΰτα μενέτω. τών δέ δή ίππων ό μέν, φαμέν, άγαθός, ό δ’ οΰ· άρετή δέ τίς τοΰ άγαθοΰ ή κακοΰ κακία, ού διείπομεν, νΰν δέ λεκτέον. ό μέν τοίνυν αύτόίν έν τή καλλίονι στάσει ών τό τε είδος όρθός καί διηρθρωμένος, ύψαύχην, έπίγρυπος, λευκός ίδενν, μελανόμ ματος, τιμής έραστής μετά σωφροσύνης τε καί αίδοΰς, καί άληθινής δόξης έταΐρος, άπληκτος, κελεύσματι μόνον καί λόγφ ήνιοχέίται· ό δ’ αύ σκολιός, πολύς, είκή συμπεφορημένος, κρατεραύχην, βραχυτράχηλος σιμοπρόσωπος, μελάγχρως γλαυκόμματος ϋφαιμος, ύβρεως καί αλαζονείας εταίρος περί ώτα λάσιος, κωφός μάστιγι μετά κέντρων μόγις ύπεί-

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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«Coloro, poi, che seguivano Apollo e ciascuno degli al­ tri dèi, procedendo secondo il loro dio, cercano che anche il loro amato abbia una natura dello stesso tipo. E allorché se lo siano procurato, imitando essi stessi il loro dio, e per­ suadendo e preparando l’amato, lo portano ad assumere l’attività e la forma di quello, in base alla loro possibilità. E agiscono in questo modo: nei confronti dell’amato non si comportano con invidia e con rozza malevolenza, ma cer­ cano di renderlo simile, nel modo più completo possibile, a c se stessi e al dio che onorano. «Dunque, il fermo proposito e l’iniziazione di coloro che veramente amano, nel caso che riescano a ottenere quello che desiderano nel modo che io dico, diventano cosa bella e felice per chi è amato, quando venga conquistato dall’a­ mico che si trovi in uno stato di mania per amore. Ripresa del mito dell’anima come «carro alato» per spie­ gare le passioni connesse all’amore «E chi è preso d’amore viene conquistato nel modo che segue. «All’inizio di questa narrazione mitica abbiamo distinto ogni anima in tre parti, due con forma di cavalli, e la terza con forma di auriga. E anche ora manteniamo ferme queste D distinzioni. «Dei due cavalli diciamo che uno è buono, mentre l’al­ tro no. Non abbiamo detto, però, quale sia la virtù del buono e quale sia il vizio del cattivo, ma ora dobbiamo dirlo. «Quello dei due cavalli che si trova nella posizione mi­ gliore di forma lineare e ben strutturato, dal collo retto con narici adunche, bianco a vedersi e con gli occhi neri, aman­ te di onore con temperanza e con rispetto e amico di retta opinione, non richiede la frusta e lo si guida soltanto con il segnale di comando e con la parola. E «L’altro cavallo è invece storto, grosso, mal formato, di dura cervice, di collo massiccio, di naso schiacciato, di pelo nero, di occhi grigi, iniettati di sangue, amico della proter­ via e dell’impostura, villoso intorno alle orecchie, sordo, a stento ubbidisce a una frusta fornita di pungoli.

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FEDRO 2J3 E ■234 D

5 κων. δταν δ’ ούν ό ήνίοχος Ιδών τό έρωτικόν δμμα, πάσαν αίσθήσει διαθερμήνας τήν ψυχήν, γαργαλισμοΰ τε καί πόθου A κέντρων ύποπλησθή, ό μέν εύπειθής τφ ήνιόχφ τών 'ίππων, άεί τε καί τότε αίδοί βιαζόμενος, έαυτόν κατέχει μή έπιπηδάν τφ έρωμένφ* ό δέ οΰτε κέντρων ήνιοχικών οΰτε μάστιγος έτι έντρέπεται, σκιρτών δέ βί$ φέρεται, καί πάντα j πράγματα παρέχων τφ σύζυγί τε κάι ήνιόχφ άναγκάζει ίέναι τε πρός τά παιδικά και μνείαν ποιείσθαι τής τών άφροδισίων χάριτος. τώ δέ κατ’ άρχάς μέν άντιτείνετον Β άγανακτοΰντε, ώς δεινά καί παράνομα άναγκαζομένω· τελευτώντε δέ, δταν μηδέν ή πέρας κακοΰ, πορεύεσθον άγομένω, εΐξαντε καί όμολογήσαντε ποιήσειν τό κελευόμενον. καί πρός αύτφ τ’ έγένοντο καί έΐδον τήν δψιν τήν τών παιδικών 5 άστράπτουσαν. ίδόντος δέ τοΰ ήνιόχου ή μνήμη πρός τήν τοΰ κάλλους φύσιν ήνέχθη, καί πάλιν εΐδεν αυτήν μετά σωφροσύνης έν άγνφ βάθρφ βεβώσαν- ίδοΰσα δέ έδεισέ τε καί σεφθεΐσα άνέπεσεν ύπτία, καί άμα ήναγκάσθη είς c τούπίσω έλκύσαι τάς ήνίας οϋτω σφόδρα, ώστ’ έπί τά Ισχία άμφω καθίσαι τώ Ίππω, τόν μέν έκόντα διά τό μή άντιτείνειν, τόν δέ ύβριστήν μάλ’ άκοντα. άπελθόντε δέ άπωτέρω, ό μέν ύπ’ αισχύνης τε καί θάμβους ίδρώτι πάσαν j έβρεξε τήν ψυχήν, ό δέ λήξας τής όδύνης, ήν ύπό τοΰ χαλινοΰ τε Ισχεν καί τοΰ πτώματος, μόγις έξαναπνεύσας έλοιδόρησεν όργή, πολλά κακίζων τόν τε ήνίοχον καί τόν όμόζυγα ώς δειλίψ τε καί άνανδρίψ λιπόντε τήν τάξιν καί D όμολογίαν καί πάλιν ούκ έθέλοντας προσιέναι άναγκάζων μόγις συνεχώρησεν δεομένων είς αυθις ύπερβαλέσθαι. έλθόντος δέ τοΰ συντεθέντος χρόνου Ιού) άμνημονεΐν προςποιουμένω άναμιμνήσκων, βιαζόμενος, χρεμετίζων, έλκων 5 ήνάγκασεν αύ προσελθείν τοΐς παιδικόΐς έπί τούς αύτούς λόγους, καί έπειδή έγγύς ήσαν, έγκύψας καί έκτείνας τήν κέρκον, ένδακών τόν χαλινόν, μετ’ άναιδείας έλκει· ό δ’

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL'AMORE

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«Ora, quando l’auriga, vedendo la visione amorosa, e riscaldandosi interamente in tutta l’anima a causa di tale sensazione, è riempito dal solletico e dal pungolo del desi­ derio, quello dei due cavalli che è ubbidiente all’auriga, te- 2J4A nuto a freno allora come sempre dal pudore, si trattiene dal balzare addosso all’amato. «Invece, l’altro cavallo, che non è sensibile né ai pungo­ li dell’auriga né alla frusta, si lancia con balzi violenti, e, procurando molti inconvenienti al compagno e all’auriga, li costringe a procedere verso l’amato e a fargli memoria dei piaceri di Afrodite. Da principio essi si oppongono e si sde­ gnano, in quanto si sentono costretti a cose vergognose e b inique; ma alla fine, quando non vi è più possibilità di por­ re limite al male, vanno avanti trascinati, cedono e conce­ dono di fare quello che viene loro imposto. «Si avvicinano a quello, e vedono il viso folgorante del­ l’amato. «Quando l’auriga lo vede, la sua memoria viene riporta­ ta alla natura del Bello124, e di nuovo la vede collocata in­ sieme alla Temperanza123 su un piedistallo immacolato. E come la vede, colto da timore e da rispetto, cade all’indietro e, a un tempo, è costretto a tirare indietro le redini in C modo così forte che tutti e due i cavalli si piegano sulle co­ sce, l’uno spontaneamente, in quanto non oppone resisten­ za; quello ribelle, invece, contro volontà. «Nel ritrarsi più lontano, l’uno per vergogna e per sbi­ gottimento bagna di sudore tutta l’anima; l’altro, invece, con la cessazione del dolore che gli veniva dal freno alla bocca e dalla caduta, non appena ha ripreso respiro, inveisce pie­ no di ira, lancia molti insulti contro l’auriga e contro il com­ pagno con cui è appaiato, in quanto per viltà e per debo­ lezza hanno abbandonato il posto e l’accordo preso. E di nuo- D vo, costringendoli a procedere contro la loro voglia, a sten­ to cede alla preghiera di differire la cosa a un’altra volta. «Ma, allorché sia giunto il tempo che era stato stabilito e l’auriga e l’altro cavallo fingono di non ricordarsene, con forza lo ricorda a loro, e, nitrendo, tirandoseli dietro, li co­ stringe ad avvicinarsi ancora una volta all’amato per fargli dire le medesime cose. E dopo che si sono a lui avvicinati, tende avanti la testa, rizza la coda e, mordendo il freno, tra-

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FEDRO 25 4 E - 255C

E ήνίοχος έτι μάλλον ταύτόν πάθος παθών, ώσπερ άπό ΰςπληγος άναπεσών, έτι μάλλον τοΰ ύβριστοΰ 'ίππου έκ τάδν όδόντων pÌQt όπίσω σπάσας τόν χαλινόν, τήν τε κακηγόρον γλώτταν καί τάς γνάθους καθήμαξεν καί τά σκέλη τε κάι 5 τά ισ χία πρός τήν γήν έρείσας όδύναις έδωκεν. όταν δέ ταύτόν πολλάκις πάσχων ό πονηρός τής ύβρεως λήξη, ταπεινωθείς έπεται ήδη τη τοΰ ήνιόχου προνοίςς καί δταν ΐδη τόν καλόν, φόβφ διόλλυται· ώστε συμβαίνει τότ’ ήδη τήν τοΰ έραστοΰ ψυχήν τοίς παιδικοίς αίδουμένην τε καί δεδιυίαν A έπεσθαι. άτε ούν πάσαν θεραπείαν ώς Ισόθεος θεραπευό­ μενος ούχ ύπό σχηματιζομένου τοΰ έρώντος άλλ’ άληθώς τοΰτο πεπονθότος, καί αύτός ών φύσει φίλος τώ θεραπεύοντι, έάν άρα καί έν τφ πρόσθεν ύπό συμφοιτητών ή 5 τινων άλλων διαβεβλημένος ή, λεγόντων ώς αισχρόν έρώντι πλησιάζειν, καί διά τοΰτο άπωθή τόν έρώντα, προϊόντος δέ ήδη τοΰ χρόνου ή τε ήλικία καί τό χρεών ήγαγεν είς Β τό προσέσθαι αύτόν είς όμιλίαν· ού γάρ δήποτε έίμαρτα; κακόν κακφ φίλον ούδ' άγαθόν μή φίλον άγαθφ είναι, προσεμένου δέ καί λόγον καί όμιλίαν δεξαμένου, έγγύθεν ή εΰνοια γιγνομένη τοΰ έρώντος έκπλήττει τόν έρώμενον 5 διαισθανόμενον δτι ούδ’ οί σύμπαντες άλλοι φίλοι τε καί οικείοι μοίραν φιλίας ούδεμίαν παρέχονται πρός τόν ένθεον φίλον, όταν δέ χρονίζη τοΰτο δρών καί πλησιάζη μετά τοΰ άπτεσθαι έν τε γυμνασίοις καί έν ταΐς άλλαις όμιλίαις, c τότ’ ήδη ή τοΰ γεύματος έκείνου πηγή, δν 'ίμερον Ζεύς Γανυμήδους έρών ώνόμασε, πολλή φερομένη πρός τόν έραστήν, ή μέν είς αύτόν έδυ, ή δ’ άπομεστουμένου έξω άπορρεί· καί όΐον πνεΰμα ή τις ήχώ άπό λείων τε καί

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL'AMORE

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scine con impudenza. Ma l’auriga, sentendo ancor più la me- E desima impressione che sentiva prima, rimbalzando come spinto da una corda tesa, tira indietro in modo ancora più forte il freno dai denti del cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e, piegando a terra le gam­ be e le cosce, lo getta in preda ai dolori126. E quando il ca­ vallo malvagio, subendo la medesima cosa più volte, fa ces­ sare la sua protervia, umiliato si lascia ormai guidare dalla previdenza dell’auriga, e, quando vede il bello, si sente ve­ nir meno per la paura. «Di conseguenza, accade che, a questo punto, l’ani­ ma dell’amante tenga ormai dietro all’amato con pudi­ cizia e timidezza. «Dunque, poiché l’amato diventa oggetto d’onore, qua- 255 A si fosse un dio, da parte di uno che non simula di essere in­ namorato, ma che nutre veramente questo sentimento, ed essendo per forza di natura pure amico di chi si prende cu­ ra di lui, se anche in precedenza è stato tratto in inganno da compagni e da altri i quali sostenevano che è cosa vergogno­ sa stare in compagnia di un innamorato, e di conseguenza ha respinto l’innamorato, con il passare del tempo, l’età e l’opportunità lo inducono a entrare in rapporti con lui. In- B fatti, non si verifica mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono127. «E quando lo ha accolto presso di sé, ha accettato di parlare con lui e di stare in sua compagnia, la benevolenza dell’amato, manifestandosi vicina, colpisce l’amato, il quale si rende conto come tutti quanti gli altri, amici e parenti, non gli offrono neanche una parte di amicizia a confronto con quella che gli offre l’amico posseduto da un dio. Il flusso dell’amore e i suoi effetti «E quando l’innamorato continua a fare questo nel tem­ po e si accompagna all’amato, incontrandolo nelle palestre e in altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di quel flusso di c cui ho parlato, che Zeus quando si innamorò di Ganimede chiamò flusso d’amore128, scorrendo abbondante verso l’a­ mante, dapprima penetra in lui, e, dopo che lo ha comple­ tamente riempito, trabocca. E come un colpo di vento o

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FEDRO 255 C · 256 B

5 στερεών άλλομένη πάλιν δθεν ώρμήθη φέρεται, οϋτω τό

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Β

τοΰ κάλλους ιίεΰμα πάλιν εις τόν καλόν διά τών όμμάτων Ιόν, ή πέφυκεν έπί τήν ψυχήν ίέναι άφικόμενον καί άναπτερώσαν, τάς διόδους τών πτερών άρδει τε καί ώρμησε πτεροφυεΐν τε καί τήν τοΰ έρωμένου αΰ ψυχήν έρωτος ένέπλησεν. έρφ μέν οΰν, δτου δέ άπορή- καί ούθ' δτι πέπονθεν οΐδεν ούδ’ έχει φράσαι, άλλ’ όίον άπ’ άλλου όφθαλμίας άπολελαυκώς πρόφασιν είπειν ούκ έχει, ώσπερ δέ έν κατόπτρφ έν τφ έρώντι έαυτόν όρών λέληθεν. και δταν μέν έκείνος παρή, λήγει κατά ταύτά έκείνφ τής όδύνης δταν δέ άπή, κατά ταύτά αΰ ποθή κάι ποθείται, εΐδωλον έρωτος άντέρωτα έχων- καλή δέ αύτόν κάι οΐεται ούκ έρωτα άλλά φιλίαν είναι, έπιθυμεί δέ έκείνφ παραπλησίως μέν, άσθενεστέρως δέ, όράν, άπτεσθαι, φιλειν, συγκατακεΐσθαικαί δή, όίον είκός, ποιεί τό μετά τοΰτο ταχύ ταΰτα. έν οΰν τή συγκοιμήσει τοΰ μέν έραστοΰ ό άκόλαστος ίππος έχει δτι λέγη πρός τόν ήνίοχον, καί άξιοι άντί πολλών πόνων σμικρά άπολαΰσαι- ό δέ τών παιδικών έχει μέν ούδέν είπειν, σπαργών δέ καί άπορών περιβάλλει τόν έραστήν καί φιλεΐ, ώς σφόδρ’ εΰνουν άσπαζόμενος, δταν τε συγκατακέωνται, οίός έστι μή άν άπαρνηθήναι τό αύτοΰ μέρος χαρίσασθαι τφ έρώντι, εί δεηθείη τυχεΐν- ό δέ όμόζυξ αΰ μετά τοΰ ήνιόχου πρός ταΰτα μετ’ αίδοΰς καί λόγου άντιτείνει. έάν μέν δή οΰν είς τεταγμένην τε δίαιταν καί φιλοσοφίαν νικήση τά βελτίω τής διανοίας άγαγόντα, μακάριον μέν καί όμονοητικόν τόν ένθάδε βίον διάγουσιν, έγκρατής αύτών καί κόσμιοι δντες, δουλωσάμενοι μέν φ κακία ψυχής ένεγίγνετο, έλευθερώσαντες δέ φ άρετή- τελευτήσαντες δέ δή

ΙΠ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL'AMORE

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una eco, rimbalzando da corpi levigati e solidi, ritornano proprio là da dove sono pervenuti, così procede il flusso della bellezza, ritornando per rimbalzo, attraverso gli oc­ chi, al bello amato. E attraverso gli occhi può per sua natu­ ra arrivare all’anima; e, dopo esservi giunto e averla solleci­ tata, irriga i condotti delle penne e le fa rinascere, e riem- D pie d’amore anche l’anima dell’amato. «Pertanto, l’amato ama, ma non sa dire che cosa. E nep­ pure sa che cosa prova, né è in grado di spiegarlo, ma co­ me chi ha preso da un altro una malattia agli occhi non è in grado di spiegarne la causa, così egli vede se medesimo nel­ l’innamorato come in uno specchio, ma non lo sa. E quan­ do l’amante è presente, proprio come lui cessa di avere sof­ ferenze; e quando è lontano, proprio come lui desidera ed è desiderato, perché ha in sé un’immagine d’amore, che è un riflesso dell’amore. Però non lo chiama e non lo consi- E dera amore, ma amicizia. «Ha un desiderio che è simile a quello che ha l’altro, ma più debole. Desidera vederlo, accarezzarlo e baciarlo e gia­ cere con lui. E non tarda, come è verosimile, a raggiungere presto questo. E quando giacciono insieme, il cavallo sfre­ nato dell’amante ha di che dire all’auriga, ed esige, in com­ penso di molti travagli, di ottenere piccoli godimenti. Inve- 256 A ce, il cavallo corrispettivo dell’amato non ha niente da dire, ma, pieno di desiderio e di sbalordimento, abbraccia e bacia l’innamorato, e gli manifesta gratitudine per la sua grande benevolenza. E quando giacciono insieme non è ormai più in grado di opporre difficoltà, da parte sua, per concedere all’innamorato i propri favori, se viene pregato di farlo. «Ma il cavallo compagno di giogo, insieme all’auriga, si oppone unitamente al pudore e alla ragione129. Quando l’amore rìda le ali all’anima e quando no «Dunque, se vincono le parti più elevate dell’anima e conducono a una vita ordinata e alla filosofia, costoro tra­ scorrono la vita di quaggiù in modo felice e in armonia, B perché hanno il dominio di sé e sono moderati190, avendo sottomesso ciò da cui deriva nell’anima il male e liberato ciò da cui deriva la virtù.

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FEDRO 256 B-E

ύπόπτεροι καν έλαφροί γεγονότες τών τριών καλαϊσμάτων 5 τών ώς αληθώς 'Ολυμπιακών 'έν νενικήκασιν, ού μεΐζον Αγαθόν ούτε σωφροσύνη άνθρωπίνη ούτε θεία μανία δυνατή πορίσαι άνθρώπφ. έάν δέ δή διαίτη φορτικωτέρςι τε καί C άφιλοσόφψ, φιλοτίμφ δέ χρήσωνται, τάχ’ άν που έν μέθαις ή τινι άλλη αμελείςν τώ άκολάστω αύτοΐν ύποζυγίω λαβόντε τάς ψυχάς άφρούρους, συναγαγόντε είς ταύτόν, τήν ύπό τών πολλών μακαριστήν άίρεσιν είλέσθην τε καί διεπρα5 ξάσθην· καί διαπραξαμένω τό λοιπόν ήδη χρώνται μέν αύτή, σπανίςι δέ, άτε ού πάση δεδογμένα τή διανοίςν πράττοντες. φίλω μέν ούν καί τούτω, ήττον δέ έκείνων, άλλήD λοιν διά τε τοΰ έρωτος καί έξω γενομένω διάγουσι, πίστεις τάς μεγίστας ήγουμένω Αλλήλοιν δεδωκέναι τε καί δεδέχθαι, άς ού θεμιτόν είναι λύσαντας είς έχθραν ποτέ έλθείν. έν δέ τή τελευτή άπτεροι μέν, ώρμηκότες δέ πτερούσθαι έκβαί5 νουσι τοΰ σώματος, ώστε ού σμικρόν άθλον τής έρωτικής μανίας φέρονται· είς γάρ σκότον καί τήν ύπό γής πορείαν ού νόμος έστίν έτι έλθείν τοΐς κατηργμένοις ήδη τής ύπου ρανίου πορείας, άλλά φανόν βίον διάγοντας εύδαιμονεΐν Ε μετ’ άλλήλχον πορευομένους, καί όμοπτέρους έρωτος χάριν, δταν γένωνται, γενέσθαι.

Ταΰτα τοσαΰτα, ώ παΐ, κοά θεία ούτω σοι δωρήσεται ή παρ’ έραστοΰ φιλία· ή δέ άπό τοΰ μή έρώντος οίκειότης, j σωφροσύνη θνητή κεκραμένη, θνητά τε καί φειδωλά οικονο­ μούσα, Ανελευθερίαν ύπό πλήθους έπαινουμένην ώς Αρετήν

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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«E giunti al termine della vita, ridivenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle tre gare che sono veramente olimpi­ che131, che costituisce un bene rispetto al quale né l’umana temperanza né la divina mania ne possono offrire uno mag­ giore132. «Invece, se essi hanno seguito un tipo di vita piuttosto grossolana, e di chi non è filosofo, ma è in cerca dell’onore, c quando in stato di ubriachezza o in qualche altro momento di sbandamento i loro cavalli sfrenati colgono le loro anime alla sprovvista e le portano nella medesima direzione, può accadere che essi operino quella scelta che secondo i più è quella più felice e che la mandino a effetto. E quando l’han­ no mandata a effetto, anche successivamente ritornano a fare la medesima cosa, ma limitatamente, perché compiono cose che non hanno l’assenso di tutta quanta l’anima133. «Certamente, anche questi sono amici, però lo sono in grado minore rispetto agli altri. «Vìvono in amicizia l’uno per l’altro, sia durante il loro D amore, sia anche dopo che ne sono fuori, convinti di aver dato e di aver ricevuto pegni di fiducia assai grandi, che non sarebbe lecito sciogliere, con la conseguenza di diven­ tare poi nemici, «Al termine della vita, escono dal corpo senza ali, ma con il desiderio di rimetterle. Di conseguenza, riportano un pre­ mio non piccolo dalla loro mania d’amore. Infatti, non è legge che scendano nelle tenebre per il cammino sottoterra quelli che hanno già una volta incominciato il viaggio sotto la volta del cielo, bensì che, trascorrendo una vita lumino­ sa, siano felici mentre compiono insieme il viaggio, e che, quando rimettono le ali, in grazia dell’amore le rimettano insieme. Conclusione della palinodia di Socrate «Queste cose così grandi e così divine, ragazzo mio, ti E porterà in dono l’amicizia di chi è innamorato. «Invece, la compagnia di uno che non sia innamorato, mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e povere 134, dopo aver infuso nell’anima ama­ ta una grettezza, che dalla moltitudine viene elogiata come

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FEDRO 237 Α·Β

A τή φίλη ψυχή έντεκοΰσα, έννέα χιλιάδας έτών περί γήν κυλινδουμένην αύτήν καί ύπό γής άνουν παρέξει. Αΰτη σοι, ώ φίλε Έρως, είς ήμετέραν δύναμιν δτι καλλίστη καί άρίστη δέδοταί τε καί έκτέτεισται παλινψδία, τά 5 τε άλλα καί τοίς όνόμασιν ήναγκασμένη ποιητικοίς τισιν διά Φαιδρόν είρήσθαι. άλλά τών προτέρων τε συγγνώμην καί τώνδε χάριν Ιχων, εύμενής καί ΐλεως τήν έρωτικήν μοι τέχνην ήν Ιδωκας μήτε άφέλη μήτε πηρώσης δι’ όργήν, δίδου τ’ έτι μάλλον ή νΰν παρά τοίς καλοίς τίμιον είναι. Β έν τφ πρόσθεν δ’ εΐ τι λόγψ σοι άπηχές εΐπομεν Φαιδρός τε καί έγώ, Λυσίαν τόν τοΰ λόγου πατέρα αίτιιδμενος παύε τών τοιούτων λόγων, έπί φιλοσοφίαν δέ, ώσπερ άδελφός αύτοΰ Πολέμαρχος τέτραπται, τρέψον, Ίνα καί ό έραστής 3 δδε αύτοΰ μηκέτι έπαμφοτερίζη καθάπερ νΰν, άλλ’ άπλώς πρός "Ερωτα μετά φιλοσόφων λόγων τόν βίον ποιήται.

ΠΙ. SECONDO DISCORSO DI SOCRATE SULL’AMORE

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virtù, la farà girare priva di intendim ento intorno alla terra 257 A e sotto la terra p er novem ila anni.

«Questa, caro Eros, per quanto ci era possibile, è la più bella e la migliore palinodia che ti doniamo e ti offriamo in espiazione. «E oltre alle altre cose, anche nelle parole è stata da Fedro costretta a pronunciarne alcune poetiche. Ma tu ac­ corda perdono alle cose di prima e gradisci queste, e, bene­ volo e propizio, non togliermi per collera e non impoverir­ mi l’arte di amare che mi hai dato in dono, ma concedi che io sia in onore presso i belli ancor più di quanto lo sia ora. «E se Fedro e io nel discorso di prima abbiamo detto b cose per te sconvenienti, da’ la colpa a Lisia, che è stato il padre del discorso, e fallo smettere di fare discorsi di que­ sto tipo, rivolgilo verso la filosofia come si è rivolto suo fra­ tello Polemarco133, affinché anche questo suo innamora­ to136 non si trovi più nell’incertezza come ora, ma dedichi senz’altro la sua vita a Eros, seguendo discorsi filosofici».

I n t e r l u d io t e o r e t ic o e INTERMEZZO POETICO137

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FEDRO 257 B - 258 A

ΦΑΙ. Συνεύχομαί oot, ώ Σώκρατες, εΐπερ άμεινον ταΰθ’ C ήμιν είναι, ταΰτα γίγνεσθαι. τόν λόγον δέ σου πάλαι θαυμάσας έχω, δσφ καλλίω τοΰ προτέρου άπηργάσω· ώστε όκνώ μή μοι ό Λυσίας ταπεινός φανή, έάν άρα καί έθελήση πρός αύτόν άλλον άντιπαρατεΐναι. καί γάρ τις αύτόν, ώ 5 θαυμάσιε, έναγχος τών πολιτικών τοΰτ’ αύτό λοιδορών ώνείδιζε, καί διά πάσης τής λοιδορίας έκάλει λογογράφον* τάχ' ουν άν ύπό φιλοτιμίας έπίσχοι ήμιν άν τοΰ γράφειν. ΣΩ. Γελοίόν γ’, ώ νεανία, τό δόγμα λέγεις, καί τοΰ D εταίρου συχνόν διαμαρτάνεις, εί αύτόν οΰτως ήγή τινα ψοφοδεά. Ισως δέ καί τόν λοιδοροΰμενον αύτφ οιει όνειδίζοντα λέγειν ά Ιλεγεν. ΦΑΙ. Έφαίνετο γάρ, ώ Σώκρατες* καί σύνοισθά που j καί αύτός ότι οί μέγιστον δυνάμενοί τε καί σεμνότατοι έν τάίς πόλεσιν αίσχύνονται λόγους τε γράφειν καί καταλείπειν συγγράμματα έαυτών, δόξαν φοβούμενοι τοΰ έπειτα χρόνου, μή σοφισταί καλώνται. ΣΩ. Γλυκύς άγκών, ώ Φάίδρε, λέληθέν σε δτι άπό τοΰ Ε μακροΰ άγκώνος τοΰ κατά Νήλον έκλήθη· καί πρός τφ άγκώνι λανθάνει σε δτι οί μέγιστον φρονοΰντες τών πολι­ τικών μάλιστα έρώσι λογογραφίας τε καί καταλείψεως συγγραμμάτων, ο'ί γε καί έπειδάν τινα γράφωσι λόγον, 5 οΰτως άγαπώσι τούς έπαινέτας, ώστε προσπαραγράφουσι πρώτους οί άν έκασταχοΰ έπαινώσιν αύτούς. ΦΑΙ. Πώς λέγεις τοΰτο; ού γάρ μανθάνω. 258 A ΣΩ. Ού μανθάνεις δτι έν άρχή άνδρός πολιτικού [συγγράμματι] πρώτος ό έπαινέτης γέγραπται. ΦΑΙ. Πώς; ΣΩ. “"Εδοξέ" πού φησιν “τή βουλή” ή “τφ δήμφ”

INTERLUDIO TEORETICO

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Eeplicitazione del tema cardine del dialogo: come deve essere fatto un discorso F edro - Mi unisco alla tua preghiera, Socrate; se questo è meglio per noi, questo avvenga. c È da un pezzo che io ammiro il tuo discorso, quanto tu lo abbia fatto migliore del precedente. Di conseguenza, io temo che Lisia possa sembrarmi dappoco, se vorrà con­ trapporre al tuo discorso un altro discorso. Infatti, di recente, carissimo, uno dei politici gli rimpro­ verava proprio questo biasimandolo, e nel corso del suo biasimo lo chiamava «logografo»138. E forse per ambizione si tratterrà dal risponderci. Socrate - Questa è una cosa ridicola, ragazzo mio. E per quanto riguarda il tuo amico ti sbagli di molto, se ritie- d ni che si spaventi in questo modo per ogni rumore. Ma for­ se tu credi che chi lo biasimava dicesse veramente quello che diceva per biasimarlo. F edro - Infatti sembrava, Socrate. E anche tu sai certa­ mente che coloro che nella città hanno potere e massima considerazione, hanno vergogna di scrivere discorsi e di la­ sciare dei loro scritti, per timore dell’opinione dei posteri, e di venir chiamati sofisti. Socrate - Ti dimentichi, Fedro, che «la dolce ansa» ha preso il nome dalla «lunga ansa» del Nilo139. E dimentichi E che i più ambiziosi dei politici amano moltissimo scrivere discorsi e lasciare dei loro scritti. Almeno quelli che, non appena hanno scritto un qualche discorso, amano così tan­ to i lodatori, che aggiungono per primi all’inizio del discor­ so appunto quelli che dappertutto li devono lodare. F edro - In che senso dici questo? Non capisco. Socrate - Non capisci che, all’inizio di uno scritto di J5*A un uomo politico, quello che viene scritto per primo è il nome dell’elogiatore? F edro - Come? Socrate - «È sembrato», dicono all’incirca, «al Consi­ glio», oppure «al popolo», oppure a entrambi; e ancora, «il

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FEDRO 258 A-D

5 ή άμφοτέροις, καί. “δς