Fare umanità : i drammi dell’antropo-poiesi 9788858107492, 8858107497

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Fare umanità : i drammi dell’antropo-poiesi
 9788858107492, 8858107497

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Percorsi 165

ANTROPOLOGIA

Serie diretta da Francesco Remotti

ultimi volumi pubblicati Maria Arioti

Introduzione all’antropologia della parentela Alice Bellagamba

L’Africa e la stregoneria. Saggio di antropologia storica Enrico Comba

Antropologia delle religioni. Un’introduzione Gianluca Ligi

Antropologia dei disastri Marina Sozzi

Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia Stefano Allovio

Pigmei, europei e altri selvaggi Luca Jourdan

Generazione Kalashnikov. Un antropologo dentro la guerra in Congo Adriano Favole

Oceania. Isole di creatività culturale Francesco Remotti

Cultura. Dalla complessità all’impoverimento Francesco Remotti

Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi

Francesco Remotti

Fare umanità I drammi dell’antropo-poiesi

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione maggio 2013 1

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0749-2

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Premessa

Quale significato attribuire all’espressione Fare umanità? Da un titolo di questo genere vorremmo fosse eliminata qualsiasi concezione grandiosa, sia per quanto riguarda il processo (“fare”), sia per quanto concerne il prodotto (“umanità”). Ora che il libro è finito ed è stato consegnato all’editore, vengono i brividi nell’immaginare quali significati magniloquenti l’espressione potrebbe assumere in senso morale, in senso politico o in un qualunque senso storico. Tutto il libro vorrebbe trasmettere, al contrario, un senso profondo di difficoltà, di pochezza, di sprovvedutezza e, nel contempo, una buona dose di diffidenza verso propositi, progetti, programmi che anche soltanto sfiorino la grandiosità. La tesi che qui vogliamo dimostrare si articola infatti in due semplici affermazioni: da un lato tutti “noi”, esseri umani, siamo tenuti, quasi “condannati”, a costruire, in un modo o nell’altro, umanità, ma dall’altro lato c’è una forte carenza di mezzi, di idee, di condizioni, di strumenti. Siamo chiamati a fare umanità; ma – come è assai facile dimostrare, se ci atteniamo ai risultati – non ne siamo granché capaci, soprattutto quando, per atroce paradosso, pretendiamo di avere in mano le chiavi di questa impresa. Anche per questo, si è voluto accennare nel sottotitolo ai “drammi” dell’antropo-poiesi. “Antropo-poiesi” è un’espressione non del tutto ovvia. Ma poiché comincia ad avere una certa risonanza, insieme ad altre espressioni similari (“antropo-genesi”, per esempio), si è ritenuto opportuno esporre qui presupposti, implicazioni e applicazioni di una prospettiva teorica a cui l’autore si è dedicato a partire dai primi anni Novanta e che poi ha ufficializzato soprattutto dal 1996. In greco poiesis, dal verbo poiein (fare), esprime l’idea del modellamento. La teoria dell’antropo-poiesi distingue perciò tipi, ­­­­­v

livelli, modalità della fabbricazione dell’essere umano: soprattutto, insiste nel sottolineare che – essendo l’essere umano molto plastico – c’è da un lato un “fare” antropo-poietico incessante e spesso anche inconsapevole, a cui si contrappongono, dall’altro lato, i momenti di un “fare” più consapevole e programmato. Per il “fare” incessante dell’antropo-poiesi anonima non è affatto fuori luogo evocare la presenza di una “mano invisibile”. Utilizzata nel Settecento da Adam Smith (1977: 442-444) per spiegare esiti insperati del comportamento economico degli individui, la mano invisibile è senza dubbio una metafora che, in campo antropo-poietico, si rivela ancora più pertinente: infatti, da metafora potrebbe tradursi addirittura in descrizione della realtà, non appena si pensi a forze, poteri, interessi più o meno occulti che spingono verso determinate forme di umanità. Ma nel caso del “fare” programmato, dove la mano per così dire è apertamente visibile, a quale figura si potrebbe fare ricorso? Nel descrivere a Tikopia, una minuscola isola della Polinesia, il rituale di iniziazione maschile – uno «dei più drammatici tipi di istituzione che regolano» questa società –, a Raymond Firth (1976: 392) era sembrato quasi inevitabile evocare il lavoro industriale: i giovani appaiono trattati «come una materia prima in una fabbrica; usciti dalla fornace [...] sono percossi, tagliati, fatti roteare, torti, riscaldati per farne un attrezzo adatto all’uso sociale». Ma subito dopo l’antropologo s’accorge che l’analogia non tiene, in quanto il modo in cui la società «si prende cura dei suoi membri» non può essere paragonato a «una catena di montaggio». Negli stessi anni Trenta del Novecento, quando Raymond Firth aveva rischiato di interpretare i rituali di iniziazione di «alcune comunità selvagge» alla stregua di una fabbrica fordista, Stalin pensava di affidare a “ingegneri di anime” la costruzione dell’uomo sovietico: una vera e propria pianificazione antropo-poietica (capitolo V). Di che c’è bisogno per l’antropo-poiesi programmata? Di ingegneri o di artigiani? Quale di queste figure è più appropriata? In questo libro si è voluto sostenere che per i compiti antropo-poietici non è il caso di affidarsi a ingegneri e tanto meno concepire l’attività antropo-poietica come un lavoro di fabbrica. L’antropopoiesi programmata va intesa infatti come un “prendersi cura”: si tratta della cura della nostra umanità, «la cura che dobbiamo ­­­­­vi

prenderci di noi» – come Socrate diceva al giovane Alcibiade –, e che inevitabilmente comporta la domanda più decisiva e importante: «cos’è dunque l’uomo?» (Platone 1966: 834-835). Pochi anni or sono, Richard Sennett (2008) ha nobilitato la figura dell’artigiano. In armonia con la visione di Sennett, si vorrebbe rendere esplicita un’idea rimasta un po’ sotto traccia in questo libro, ossia che l’antropo-poiesi programmata potrebbe essere intesa appunto come un lavoro squisitamente artigianale: un fare in cui la dimensione del pensiero, della cura e quindi anche del dubbio è fondamentale; tanto più che si tratta di un fare che riguarda non già la materia inerte, bensì corpi vivi, anime, intelligenze, emozioni, sentimenti, progetti di vita. Forse, però, come ci sembrano suggerire i baNande (capitolo VI), nemmeno di artigiani si tratta, bensì di semplici bricoleurs, cioè di persone che utilizzano «mezzi diversi rispetto a quelli usati dall’uomo del mestiere». Così Claude Lévi-Strauss (1964: 29) definisce la figura del bricoleur, considerato come rappresentativo di una «scienza primaria» o «scienza del concreto», di un sapere che si deve accontentare di ciò che si trova ad avere «tra le mani», a differenza dell’ingegnere che invece dispone di strumenti efficaci e potenti per «aprirsi un varco» nella realtà, per realizzare ciò che molti chiamerebbero progresso, per lo meno sul piano scientifico e tecnologico (1964: 29-30, 32). Bricoleur e ingegnere: la differenza per Lévi-Strauss, pur non assoluta, «è però reale», in quanto le creazioni del primo «si riducono ogni volta a un nuovo assetto di elementi che non mutano di natura», rimanendo quindi imprigionato in un universo «chiuso», mentre nel caso del secondo si ottiene un’«apertura» verso il futuro (1964: 30, 33). LéviStrauss non parla di progresso, ma quando la figura dell’ingegnere viene adottata per descrivere un certo tipo di umanità è proprio a questo che si pensa. Può essere significativo ricordare – come poi faremo anche nel capitolo V – il modello dell’ingegnere che René Descartes pone come emblema della modernità, di colui cioè che ha finalmente a disposizione uno spazio sgombro dalle vecchie case (i vecchi pregiudizi, le tradizioni del passato) e che costruisce senza più retaggi e condizionamenti culturali la nuova città, l’uomo nuovo. Allora la domanda è: in campo antropo-poietico si può parlare di progresso, di un progresso garantito da “uomini del mestiere”? ­­­­­vii

Esistono ingegneri, che dispongano di mezzi adatti e che davvero riescano a portare a termine i loro progetti radicalmente innovativi, oppure in fondo tutti noi non siamo altro che bricoleurs dell’antropo-poiesi? Riteniamo che nei confronti dell’antropopoiesi, anche dell’antropo-poiesi programmata, sia estremamente rischioso pensare di poter fare di più che procedere per tentativi, provando a utilizzare mezzi, idee, strumenti, segnati dall’incompletezza e persino dall’inadeguatezza rispetto al compito tremendo di “fare umanità”. Pensare di essere qualcosa di più che semplici bricoleurs può dare luogo alle tragedie a cui ci si è riferiti nel capitolo V. Del resto, la stessa evoluzione biologica, di cui siamo l’esito provvisorio e fortuito, può essere concepita non come l’opera di un ingegnere, ma come quella di un bricoleur, il quale – come afferma François Jacob (1978: 17) – «utilizza tutto ciò che ha sotto mano» e «si arrangia con gli scarti» che trova. Sarebbe però molto riduttivo terminare con l’idea di un bricolage antropo-poietico senza senso e puramente casuale. L’antropopoiesi – svolta da bricoleurs che hanno incorporato nel loro fare l’arte dell’arrangiarsi – contiene idee, progetti, obiettivi, valori. Se l’evoluzione è priva in quanto tale di una progettualità, non così è per l’antropo-poiesi. È bene che i bricoleurs antropo-poietici non pretendano di andare oltre questa loro condizione; essi però non potranno fare a meno di riflettere, da filosofi o da antropologi, sul “che cos’è l’uomo” e su come lo si debba costruire, perseguendo nel contempo, da artigiani o da artisti, quella grazia e quella bellezza (Parte seconda) che, a seguito delle loro scelte, ritengono più consone all’umanità che intendono modellare. Questa è però soltanto una premessa, che è doveroso concludere elencando le persone che maggiormente hanno partecipato a questa impresa e a cui vanno i ringraziamenti dell’autore: – gli studenti, che in tutti questi anni (a partire almeno dalla metà degli anni Novanta) hanno per primi dimostrato interesse per l’antropo-poiesi, soprattutto utilizzando questo concetto nei loro lavori di tesi; – i collaboratori, che hanno preso parte attiva all’elaborazione di questa problematica. In particolare, Stefano Allovio e Adriano Favole, a cui si deve l’allestimento di due testi collettivi all’inizio delle nostre esplorazioni antropo-poietiche: Le fucine rituali (Al­­­­­viii

lovio e Favole 1996) e Forme di umanità (Remotti 2002); Cecilia Pennacini, Silvia Forni e Chiara Pussetti, le quali hanno esteso il concetto di antropo-poiesi alla problematica della riproduzione e della costruzione culturale della femminilità (Forni, Pennacini, Pussetti 2006); – i colleghi Francis Affergan, Silvana Borutti, Claude Calame, Ugo Fabietti, Mondher Kilani, che nei ripetuti incontri annuali del nostro gruppo di ricerca hanno accolto, dibattuto e adottato la prospettiva antropo-poietica, fornendo così l’occasione di approfondimenti preziosi; – i colleghi e collaboratori con cui è stato organizzato il corso di Antropologia culturale, dal titolo “Fare umanità. La costruzione della persona in contesti interculturali”, presso il Centro Interculturale del Comune di Torino (settembre-dicembre 2004); – i colleghi e collaboratori delle Università di Torino, Bologna e Venezia, che negli anni 2008-2010 hanno fatto parte del gruppo di ricerca nazionale “Persone e società: confini, soglie, transizioni”; – i curatori e gli editori delle pubblicazioni che sono alle origini di questo libro. F.R. Avvertenza Quasi tutti i capitoli che seguono sono stati costruiti a partire da pubblicazioni precedenti, di cui si fornisce ora l’elenco con l’indicazione completa delle fonti. Cap. I: con alcune modifiche e integrazioni, riproduce “Incompletezza, plasticità, antropo-poiesi. Il ‘legno storto’ dell’umanità”, in Enrico Donaggio (a cura di), Filosofia, storia e società. Omaggio a Pietro Rossi, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 183-218. Cap. II: con alcune modifiche e integrazioni, riproduce nella prima parte “Tesi per una prospettiva antropo-poietica”, Introduzione a Stefano Allovio e Adriano Favole (a cura di), Le fucine rituali. Temi di antropo-poiesi, Torino, Il Segnalibro, 1996, pp. 9-25. La seconda parte è sostanzialmente inedita, con parziale utilizzazione dell’Introduzione a Francesco Remotti (a cura di), Forme di umanità, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 1-31. Cap. III: con modifiche, integrazioni e aggiornamenti, riproduce ­­­­­ix

“L’enigma dell’ornamento. Appunti su alcune pagine di The Descent of Man (1871)”, L’Ateo, 2011, 3, pp. 19-24. Cap. IV: per quanto riguarda i §§ 1-2, riproduce in versione più estesa “Interventions esthétiques sur le corps”, in Francis Affergan, Silvana Borutti, Claude Calame, Ugo Fabietti, Mondher Kilani, Francesco Remotti, Figures de l’humain. Les représentations de l’anthropologie, Paris, Editions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, 2003, pp. 279-306 (“Interventi estetici sul corpo”, in Idd., Figure dell’umano. Le rappresentazioni dell’antropologia, Roma, Meltemi, 2005, pp. 335-369). Nei §§ 3-4, in gran parte inediti, vi è una parziale utilizzazione di contenuti già espressi in “Tanato-metamòrfosi”, in Francesco Remotti (a cura di), Morte e trasformazione dei corpi. Interventi di tanatometamòrfosi, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp. 1-34. Cap. V: inedito. Cap. VI: con alcune modifiche e integrazioni, riproduce “L’uomo, che cos’è? Un rituale di circoncisione e l’antropologia critica dei baNande”, Molimo. Quaderni di Antropologia culturale ed Etnomusicologia, 1, 2006, pp. 163-179.

Fare umanità

Parte prima

Presupposti e struttura teorica

I

Dalla cultura all’antropo-poiesi

1. Natura, costumi, cultura Prima di parlare di antropo-poiesi, occorre soffermarsi sul concetto di cultura, ovviamente in senso antropologico. Ma se “antropo-poiesi” presuppone “cultura”, non è detto che il concetto di cultura implichi senz’altro quello di antropo-poiesi. Prendiamo, per esempio, Il concetto di cultura, un importante testo antologico che Pietro Rossi aveva curato negli anni Settanta (Rossi 1970), come anche l’imponente raccolta di definizioni a cura di Clyde Kluckhohn e di Alfred Kroeber, uscita all’inizio degli anni Cinquanta e pubblicata in italiano vent’anni dopo (Kluckhohn e Kroeber 1972). È facile vedere come nelle concezioni di cultura lì rappresentate (da Tylor a Boas, da Malinowski a Herskovits e così via) il concetto di antropo-poiesi sia praticamente del tutto assente. Antropo-poiesi viene dunque “dopo” rispetto a quelle definizioni di cultura. Come mai? Per rispondere a questa domanda è opportuno iniziare dal “prima”. Prima che gli antropologi (a partire da Tylor) usassero “cultura”, come venivano denominati i fenomeni che sarebbero poi stati classificati con questo termine? La risposta è semplice: “costumi”. Il “prima” del concetto antropologico di cultura è dato dai costumi, termine e concetto su cui molto ha riflettuto il pensiero moderno. Il passaggio da “costumi” a “cultura” non è stato però un semplice cambiamento di nome. Ciò che è mutato, con il nome, è stato il grado di incidenza dei costumi/cultura nel quadro generale della realtà umana. I costumi – così come sono stati concepiti da gran parte del pensiero moderno – hanno un grado di incidenza inferiore rispetto a quello che poi avrà la cultura in senso antropologico (prima metà del Novecento). Se poi consideriamo il ­­­­­4

“dopo”, ovvero gli sviluppi ulteriori del concetto antropologico di cultura, a partire dagli anni Settanta del Novecento, vediamo che il termine non muta (si continua a parlare di cultura), ma la concezione che ora viene proposta presenta a sua volta un’incidenza ancora più profonda. In modo un po’ grossolano, abbiamo dunque distinto tre fasi: quella dei costumi (pensiero moderno), quella della cultura in senso antropologico “prima maniera” (per comodità possiamo individuare in Alfred L. Kroeber l’esponente più rappresentativo), quella della cultura “seconda maniera” (il cui esponente più significativo potrebbe essere identificato in Clifford Geertz). Prima di passare a un’analisi più approfondita di questi tre concetti (costumi /cultura secondo Kroeber /cultura secondo Geertz), proponiamo uno schema da cui si evincono sia la successione storica delle tre fasi (A/B/C), sia la diversa incidenza dei costumi o della cultura nell’ambito della realtà umana. A

B

C

costumi

CULTURA

CULTURA

NATURA UMANA

NATURA UMANA

natura umana

Questo semplice schema rende evidenti alcune implicazioni, mentre altre verranno aggiunte a mano a mano che si sviluppa la nostra analisi. 1) Un tempo, quando non vi erano ancora gli antropologi culturali e non si usava quasi il concetto antropologico di cultura, la nozione di realtà umana era costituita fondamentalmente da due componenti: la natura umana e i costumi. 2) Si trattava di una concezione stratigrafica, tale per cui la natura umana rappresentava lo strato sottostante, fondamentale e sostanziale (la “roccia” di cui parla René Descartes), mentre i costumi erano uno strato superficiale (la “sabbia” nell’immagine cartesiana). 3) Questa disposizione stratigrafica si traduce in una diversa valutazione dell’importanza delle due componenti: mentre la natura umana è fatta di principi e di leggi universali, i costumi sono modi di comportarsi variabili da tempo a tempo e da luogo a luogo. Inoltre, mentre le strutture che compongono la natura umana sono dotate dei caratteri della necessità e quindi della sicurezza e dell’affidabilità, i costumi sono radicalmente arbitrari e inaffidabili. 4) La componente dei costumi è presente ovunque, ­­­­­5

nelle più diverse società e nei più diversi periodi storici; essa è però prodotta da tradizioni storiche particolari, da abitudini che si tramandano per inerzia, da opinioni socialmente e acriticamente accolte, da diffuse condizioni di ignoranza e di superstizione. 5) Concepita non soltanto come superficiale e inessenziale, ma anche come un elemento fastidioso e di intralcio, la componente dei costumi appare a molti pensatori della modernità come un elemento di cui occorre “liberarsi”: la liberazione dai costumi è un programma che ha caratterizzato in buona misura il pensiero della modernità. 6) Liberarsi dai costumi (estirpandoli chirurgicamente, come pensava Francis Bacon [1968: 42; cfr. cap. V, § 2], o, quanto meno, sospendendone l’efficacia) consente di accedere finalmente a un corretto funzionamento delle facoltà umane. Liberata dai costumi, la natura con i suoi principi, leggi, strutture, meccanismi universali è in grado infine di determinare in modo retto il comportamento umano. Tolti di mezzo i costumi, si può infine “costruire” razionalmente su un terreno solido e sgombro (come l’architetto moderno immaginato da Descartes nel suo Discours de la méthode [1954]), su quell’“isola della verità” a cui – secondo Immanuel Kant (1967: 264) – gli esseri umani dovranno infine approdare. Michel de Montaigne, Blaise Pascal, Giambattista Vico, Johann Gottfried Herder sono decisamente su un’altra linea rispetto a quella che abbiamo tracciato: per loro i costumi occupano una posizione ben più importante nel quadro della realtà umana. Significativamente, Herder è tra i primi pensatori che, nel Settecento (e dopo Voltaire), impiegano il termine Kultur in un’accezione che un secolo dopo sarà quella degli antropologi. Con Voltaire, e soprattutto con Herder, si inaugura la fase “B” del nostro schema. Ma, poiché avremo modo di ritornare ancora su Herder, proviamo a illustrare i tratti della concezione “B” ricorrendo a impostazioni esplicitamente antropologiche. 1) La cultura, quale appare nella concezione “B”, non è alternativa rispetto ai costumi di cui si parla nella fase “A”: essa li ingloba. Sotto il profilo dei contenuti, cultura (in senso antropologico) e costumi praticamente coincidono. 2) Dire cultura aggiunge però maggiore importanza ai costumi. Inglobati nella cultura, questi ultimi vengono ad assumere un peso determinante nell’organizzazione della vita umana. Soprattutto, con l’introduzione del concetto di cultu­­­­­6

ra i costumi non sono più “scarti”, di cui strani e oscuri studiosi nell’Ottocento (etnografi o etnologi) andavano alla ricerca. Nel suo Primitive Culture, del 1871, Edward B. Tylor aveva avvertito il lettore che i costumi (credenze e pratiche) delle religioni primitive non sono affatto «un mucchio di spazzatura di svariate follie» (Tylor 1958: I, 23). Concepiti come cultura, i costumi acquistano – secondo i diversi paradigmi dell’antropologia – “coerenza” e “logica” (Tylor), forma e funzione, struttura e significati. 3) Così interpretati, i costumi però recedono sempre più nell’uso linguistico degli antropologi, lasciando quasi del tutto il posto alla cultura. E come i costumi si trasformano in cultura, così gli etnografi o etnologi si trasformano in antropologi. In effetti, costoro non sono più studiosi che si occupano di aspetti pressoché irrilevanti nell’organizzazione degli esseri umani, ma sono diventati studiosi che si occupano professionalmente dell’altra “metà”, per così dire, della realtà umana (vedi fase “B” dello schema): se la “natura umana” è argomento tipico degli antropologi “fisici”, la “cultura” è il terreno peculiare degli antropologi culturali. Nella fase “B” la cultura viene ad occupare un posto del tutto paragonabile o equivalente a quello della natura umana. 4) Tra lo schema della fase “A” e quello della fase “B” vi è una somiglianza, e questa coincide con il fatto che si tratta in ogni caso di schemi stratigrafici. Alla base vi è pur sempre la natura umana, e i “costumi” o la “cultura” occupano lo strato più superficiale. Ma vi è una differenza fondamentale tra il ruolo dei costumi nella fase “A” e il ruolo della cultura nella fase “B”. I costumi in “A” sono un motivo di intralcio, oltre che di oscuramento, nei confronti della natura umana: secondo un ideale tipico di buona parte del pensiero della modernità, l’uomo potrebbe o dovrebbe vivere secondo i principi e le leggi della natura, senza i costumi. La cultura in “B”, invece, è un rivestimento, che l’uomo produce e indossa per vivere meglio nel mondo, in modo più funzionale e adattivo. Senza la cultura, disponendo soltanto dei mezzi che la natura gli fornisce, l’essere umano sarebbe probabilmente in grado di sopravvivere, ma entro un numero di ambienti assai più circoscritto e con disagi, ostacoli e difficoltà molto maggiori. 5) La concezione della fase “B” è stata formulata in modo piuttosto netto da Alfred L. Kroeber, secondo il quale la cultura sarebbe emersa come un «fattore nuovo» che si “aggiunge” all’evoluzione organica (Kroeber 1974: 88-89). Teori­­­­­7

co del cosiddetto “punto critico”, Kroeber paragona l’emergere della cultura all’«ebollizione dell’acqua»: allorché si raggiunge «il punto di ebollizione», sopravviene «qualcosa di nuovo». Indubbiamente e imprevedibilmente preparata dai processi dell’evoluzione organica, la cultura determina l’aggiunta di un mondo irriducibile al livello organico: capacità, strumenti, idee, simboli che non modificano la natura umana («la natura non viene spinta da parte»; le sue leggi «non vengono violate»), ma aggiungono ai loro primi e «sconosciuti portatori» possibilità di vita e di organizzazione inconcepibili da parte dei loro predecessori. 6) Per Kroeber la cultura è una faccenda esclusivamente umana: “emerge” in un punto critico dell’evoluzione organica dell’uomo e più precisamente quando tutta una serie di condizioni biologiche si sono ormai prodotte. Affinché emerga la cultura, occorre che l’uomo disponga di una stazione eretta, dell’uso libero delle mani, di una capacità cranica e di una complessità cerebrale adeguate. Il cosiddetto Homo sapiens sarebbe il vero e autentico “portatore” della cultura. La fase “C” del nostro schema provoca un ribaltamento di questo paradigma. 1) Gli ominidi che hanno preceduto di alcuni milioni di anni la comparsa di Homo sapiens già disponevano di una cultura, e dunque non è vero che la cultura sia emersa “dopo” che l’evoluzione organica abbia prodotto l’essere umano quale noi oggi siamo; al contrario, la cultura fin dalle origini del processo di ominazione si è intrecciata con l’evoluzione organica e ha costituito un fattore costante e imprescindibile nella formazione dell’uomo anche sotto il profilo biologico. 2) Secondo Clifford Geertz, l’essere umano non è quindi tanto un produttore di cultura, quanto piuttosto un suo prodotto. Acquisizione della stazione eretta, uso delle mani, sviluppo della capacità cranica sono processi che non precedono affatto l’emergere della cultura: al contrario sono processi che si verificano in un ambiente già culturale. 3) Rispetto alla concezione “B”, la teoria “C” attribuisce alla cultura un ruolo ancora più incisivo e indispensabile nell’organizzazione degli esseri umani. Dalla cultura come adattamento e come sviluppo di capacità migliorative dell’esistenza umana si passa a un’idea di cultura come fattore che produce umanità: non vi è l’uomo e poi la cultura; al contrario, vi è la cultura e poi gli esseri umani. 4) Che ne è allora della natura umana? Se nella con­­­­­8

cezione “A” l’uomo è soprattutto natura umana, a cui si sarebbero aggiunti fastidiosamente e inopinatamente i costumi, e se nella concezione “B” natura umana e cultura si spartiscono equamente lo spazio costituito dalla realtà dell’uomo, nella concezione “C” la cultura estende enormemente la sua sfera e – come appare nello schema proposto – comprime la natura, considerata ormai come un elemento del tutto insufficiente non soltanto a sostenere l’uomo nella lotta per l’esistenza, ma anche e prima di tutto nella sua costituzione organica. 2. Teorie dell’incompletezza Clifford Geertz è sostenitore della teoria dell’incompletezza organica dell’uomo. La ripresa di vitalità che il concetto di cultura viene ad avere nell’antropologia di Geertz è in gran parte dovuta alla teoria dell’uomo come essere biologicamente incompleto. Geertz non nomina i suoi più illustri predecessori, ma le sue considerazioni sono in linea, per quanto riguarda questo tema, con l’antropologia filosofica di Arnold Gehlen (2010) nel Novecento e nel Settecento con la filosofia di Johann Gottfried Herder (1992). Per tutti questi autori – e per molti altri – vale il concetto herderiano dell’uomo come «essere carente» (Mängelwesen): si registrano dei “vuoti” nell’organizzazione biologica di questo essere, per quanto riguarda la sua conformazione anatomica, il suo sistema nervoso, il suo apparato istintuale. La cultura (Kultur per Herder) interviene a colmare le lacune, a porre rimedio alle carenze e alle indeterminazioni. Nella concezione di Geertz, la cultura è fonte di “informazioni” per un essere che non trova in sé (nel suo organismo) sufficienti meccanismi di controllo o programmi di azione e di comportamento affidabili. Lungi dall’essere «un ornamento dell’esistenza umana», la cultura appare invece come una sua «condizione essenziale»: privo di cultura, il comportamento dell’uomo finirebbe con l’essere un «puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto» (Geertz 1987: 87). Senza cultura, l’uomo – inteso sia come specie, sia come individuo – sarebbe votato al fallimento; non sarebbe in grado di sopravvivere: per questo l’uomo è – secondo Geertz – non solo «un animale incompleto, non finito», ma anche «l’animale più disperatamente ­­­­­9

dipendente» dalla cultura che si dia sulla faccia della terra (1987: 88, 86). La teoria di Geertz può allora essere ulteriormente precisata con queste parole: Noi siamo animali incompleti o non finiti che si completano e che si rifiniscono attraverso la cultura – e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente particolari [...] Tra quello che dice il nostro corpo e quello che dobbiamo sapere per funzionare c’è un vuoto che dobbiamo riempire noi stessi, e lo riempiamo con le informazioni (o disinformazioni) fornite dalla nostra cultura [...] La natura umana “basilare”, “pura” e “incondizionata” nel senso della costituzione innata dell’uomo è tanto incompleta funzionalmente da risultare inefficiente. Gli attrezzi, la caccia, l’organizzazione famigliare e poi l’arte, la religione e la “scienza” modellarono l’uomo somaticamente, e sono quindi necessari non solo alla sua sopravvivenza ma alla sua realizzazione esistenziale (1987: 92, 132).

Un breve commento a queste tesi di Geertz ci consente di procedere nelle nostre riflessioni. 1) La teoria di Geertz (in linea, come si è già detto, con Herder e con Gehlen) usa esplicitamente l’immagine del “vuoto”: l’incompletezza è un’assenza, una mancanza. 2) Il “vuoto” richiede di essere “riempito”: il rimedio all’incompletezza è un’azione di riempimento. 3) Se il vuoto è da addebitare alla natura umana, il riempimento è invece funzione della cultura: all’incompletezza biologica si rimedia con un riempimento culturale. 4) Nelle parole di Geertz affiora un altro aspetto dell’intervento della cultura, quello del “modellamento”: la cultura interviene a modellare non soltanto le idee e le emozioni dell’uomo (come pure afferma in altri passi), ma persino il suo organismo, il suo cervello, il suo corpo. 5) Riempiendo o modellando, la cultura in ogni caso “completa”: vi è un “completamento” culturale mediante cui l’uomo si “rifinisce”. 6) Ma la cultura che interviene, completa e rifinisce non è la cultura umana in generale e neppure una cultura storicamente determinata e che tuttavia si ritiene che abbia acquisito valori di universalità: è invece qualsiasi cultura particolare, storicamente ed etnograficamente determinata, a prescindere del tutto dalle sue pretese di universalità o, al contrario, dalle sue ammissioni di particolarità. Per Geertz le culture umane sono sempre particolari, ed esse svolgono le loro funzioni di “completamento” nonostante, o forse proprio ­­­­­10

in forza della loro peculiarità. 7) Nelle tesi di Geertz prevale il significato positivo dell’intervento culturale in combinazione con la dimensione della particolarità: le culture particolari non danno luogo (non possono dare luogo) a esseri umani universali; esse riempiono dei “loro” contenuti e delle loro “informazioni” esseri che potrebbero essere riempiti di informazioni e di contenuti diversi e altrettanto particolari. Gli esseri umani vengono culturalmente completati secondo forme specifiche, positivamente determinate, di umanità: vengono “completati” e “rifiniti” come Giavanesi, Balinesi, Tikopia, Nuer ecc. 8) Vi è però un accenno, nelle tesi sopra riportate, che vale la pena sottolineare: il vuoto viene riempito «con le informazioni (o disinformazioni) fornite dalla nostra cultura» (corsivo nostro). Le culture – secondo Geertz – forniscono sempre informazioni particolari. Ma quali sono le disinformazioni: informazioni particolari che, anziché completare e rifinire in maniera positiva, conducono verso vicoli ciechi ed esiti fallimentari? L’accenno di Geertz a contenuti culturali “disinformanti”, mediante cui rischiamo di “riempire” i nostri “vuoti” informativi, è purtroppo contenuto in una semplice parentesi. È però una spia utile per progredire verso un esame più critico degli interventi di riempimento culturale. A quanto è dato intuire, per Geertz le culture (particolari) riempiono sempre con contenuti (particolari): questi ultimi possono essere però “informazioni” che, per quanto particolari, consentono di trovare soluzioni durevoli e ripetibili oppure “informazioni svianti” (disinformazioni) che, pur riempiendo i vuoti, offrono soluzioni illusoriamente positive, ma alla lunga fallimentari (la storia del Novecento europeo, così come diversi casi etnografici, potrebbero fornire esempi significativi, come vedremo meglio nel capitolo V). Le culture, essendo umane, possono dunque sbagliare: possono anche completare e rifinire, ma in maniera tale da portare esseri umani così modellati a soluzioni distruttive e autodistruttive. Proseguendo nell’indagine critica relativa agli interventi culturali di riempimento, occorrerebbe riflettere tuttavia su un altro segmento dell’argomentazione di Geertz: informanti o disinformanti che siano, gli interventi culturali sono sempre e comunque tali da “riempire”, “completare”, “rifinire”? Non converrebbe forse distinguere un livello operativo e un livello rappresentativo: un livello (operativo) di maggiore o minore ­­­­­11

riempimento e un livello (ideologico) di illusione di riempimento? Tenendo conto di questa distinzione, non sarebbe forse più opportuno riservare il tema del riempimento al livello ideologico? Una teoria alternativa a quella di Geertz suggerisce che l’incompletezza non riguarda soltanto la base biologica dell’essere umano, ma anche (e più ancora) la sua componente culturale (Remotti 2011: cap. V). Geertz adotta una visione un po’ tradizionale (alla Herder e Gehlen, come si è detto), secondo cui, essendoci dei “vuoti” nella natura umana, occorre intervenire per riempirli con la cultura. Una concezione un po’ più elaborata addebita invece alla stessa cultura un’azione di svuotamento: sotto il profilo filogenetico ed evolutivo, l’affidarsi alla cultura (a soluzioni di tipo culturale) ha comportato una consistente disattivazione di meccanismi regolati biologicamente (dalla deambulazione alla ricerca del cibo e così via). Non solo, ma le soluzioni offerte dalle culture, proprio perché sono sempre particolari, sono esse stesse, a loro volta, fattori di incompletezza. Le culture, secondo Geertz, riempiono, anche se con contenuti particolari; al contrario, secondo la teoria dell’incompletezza che qui proponiamo, le culture non riempiono ma tolgono, non completano ma aumentano l’incompletezza o, se vogliamo, la riproducono su un altro piano (2011: cap. II). Per convincerci di questa funzione “incompletante” della cultura, è sufficiente tenere conto dell’operazione fondamentale di “selezione”, che è alla base di ogni intervento culturale e soprattutto di quegli interventi che hanno un’esplicita funzione antropo-poietica. Lo stesso Geertz non è estraneo a questo tipo di considerazioni, allorché insiste sulla dimensione di particolarità che contraddistingue ogni processo di “umanizzazione”: Diventare umani è diventare individui, e noi lo diventiamo sotto la guida di modelli culturali, sistemi di significato creati storicamente, nei cui termini noi diamo forma, ordine, scopo e direzione alla nostra vita. E i modelli culturali coinvolti non sono generali ma specifici (Geertz 1987: 94).

Ma ciò che genera la particolarità sia di questi processi sia dei loro prodotti è più nettamente individuabile nella selezione che ne è alla base: a ben vedere, non è la storicità a produrre la parti­­­­­12

colarità; è invece la selezione a generare la particolarità e quindi la storicità. Le operazioni di selezione, messe in atto dalle culture, conducono da una situazione di indeterminatezza (l’incompletezza biologica di cui prima) a una situazione di fissazione o realizzazione di possibilità, con conseguente e inevitabile “scarto” di altre possibilità (incompletezza culturale). Claude Lévi-Strauss ha scritto a questo proposito pagine di grande efficacia e lucidità, che hanno trovato conferma sia nella linguistica del Novecento, sia più tardi negli sviluppi delle neuroscienze. Proprio seguendo le pagine che Lévi-Strauss ha dedicato all’analisi del linguaggio e del pensiero infantile e del loro sviluppo verso ciò che noi denominiamo maturità linguistica e psicologica, è possibile cogliere il passaggio da una situazione di “possibilità” caotiche e meramente abbozzate a una situazione di strutture relativamente consolidate. Se nel primo caso l’incompletezza coincide con la natura intrinseca delle possibilità (a cui manca per definizione la realtà o realizzazione), nel secondo caso l’incompletezza spunta accanto a ciò che si è realizzato, sotto forma di “scarti”, di ciò che è stato «respinto» o rifiutato, di possibilità che nel processo di selezione sono andate «irrimediabilmente perdute» (Lévi-Strauss 1984: 150-151). Questo passaggio tra i due tipi di incompletezza è rinvenibile anche nelle analisi delle neuroscienze. Il concetto di stabilizzazione selettiva di Jean-Pierre Changeux pone in luce infatti da un lato un’iniziale ridondanza di connessioni possibili tra le cellule nervose e dall’altro un progressivo sfoltimento di possibilità (Changeux 1983: 281). Commentando le tesi di Changeux e di altri neuroscienziati, Adriano Favole e Stefano Allovio pongono in luce la duplice incompletezza (di partenza e di arrivo) e nel contempo l’azione di sfrondamento o di eliminazione (invece che di riempimento di un vuoto) operata dalla cultura: Se i geni sono responsabili della costruzione della “materia” cerebrale, fenomeni epigenetici provvedono a conferirle una forma, “scegliendo” e “selezionando” alcune connessioni a scapito di altre [...] il modellamento che la cultura svolge sulla natura biologica si configura come un’opera di “sfrondamento”, di “selezione”, di “irrigidimento”, di “scelta” di alcune possibilità e di abbandono di altre (Favole e Allovio 2002: 199). ­­­­­13

3. Plasticità L’immagine del “vuoto” – come si è visto – evoca l’idea del “riempimento”. Si dirà che è questione di metafore, ed è vero; ma anche gli scienziati più duri sanno che le metafore hanno un forte potere di guida e di incanalamento delle ricerche. L’immagine del vuoto da riempire – ovvero da un lato la natura umana carente e dall’altro la cultura che, per così dire, versa i propri contenuti nelle lacune naturali – si fonda tutto sommato su una distinzione molto rigida e qualitativa tra le due dimensioni (quella naturale e quella culturale): l’interazione è scarsa, e per giunta al ruolo attivo della cultura (che oltre tutto rischia di essere entificata) corrisponde un ruolo muto e passivo della natura. L’idea dello sfrondamento è invece strettamente connessa a quella del dare forma, del modellare e dunque della plasticità. Come Favole e Allovio hanno suggerito, la plasticità è il punto di incontro tra scienze della cultura e scienze della natura, in quanto è il luogo di interazione tra la dimensione biologica e la dimensione culturale. Anche la plasticità è un’immagine, ma ponendosi a fondamento dell’interazione tra le due dimensioni suggerisce alle scienze della natura di indagare come e perché la cultura intervenga nel “modellare” la materia biologica (sistema nervoso e cervello, in primo luogo), così come invita le scienze della cultura a tenere conto degli aspetti biologici dei processi di modellamento e delle potenzialità inerenti alle strutture neuronali. Alberto e Anna Oliverio sottolineano infatti che «la plasticità è una caratteristica saliente di tutte le cellule nervose, dotate del potenziale di reagire agli stimoli» e che inoltre essa «non riguarda soltanto i neuroni ma anche i diversi nuclei e le diverse aree del cervello» (Oliverio e Oliverio 1998: 7-8). La memoria – ovvero il fatto che le esperienze vissute si inscrivono nella mente e possono essere a lungo trattenute e rievocate – è una delle prove più evidenti della plasticità del cervello. Il neurofisiologo inglese Ian H. Robertson sostiene a questo proposito che ciò che si verifica è un vero e proprio «processo di scultura cerebrale»: l’esperienza viene «scolpita nella complessa struttura di connessioni tra neuroni» (Robertson 1999: 14, 19). Lo studio dei gemelli omozigoti è illuminante: pur essendo dotati dello stesso patrimonio genetico, i loro cervelli risultano modellati in modi diversi secondo le esperienze e gli ambienti in cui sono cresciuti. ­­­­­14

Gerald Edelman ha perciò rifiutato l’analogia tra il cervello e i sistemi informatici: i cervelli umani non sono riproducibili; essi differiscono anche a livello di microanatomia, in dipendenza dagli ambienti con cui sono venuti a interagire (Edelman 1993). Occorre però precisare a questo punto che il modellamento subito dal cervello non è un inconveniente a cui non avrebbe modo di sottrarsi: è invece un processo assolutamente vitale per il suo stesso funzionamento. Selezione, sfrondamento, riduzione e perdita di possibilità – aspetti intrinseci a ogni azione di modellamento – non rappresentano, per quanto riguarda il cervello, un danno o un ostacolo, ma costituiscono le condizioni indispensabili affinché possa esprimere in maniera adeguata le sue potenzialità: Così come un cespuglio di rose deve essere potato per crescere sano e con la forma desiderata, allo stesso modo, nel cervello dei bambini, le sinapsi vengono gradualmente sfoltite fino a raggiungere i livelli stazionari caratteristici dell’età adulta (Robertson 1999: 183).

Adriano Favole e Stefano Allovio si sono assunti il compito di verificare se il principio dell’“antropo-poiesi”, secondo cui gli esseri umani vanno “foggiati” e in certo qual modo “costruiti”, sia un’ideologia di tipo umanistico – pur presente in molte società e fatta propria di recente da alcune correnti dell’antropologia culturale per incrementare la propria importanza – o se invece corrisponda a un’idea condivisa anche dalle scienze naturali. L’esplorazione fin qui condotta ha dato una risposta positiva a questa seconda opzione e – come si è visto – la condivisione riguarda in primo luogo l’idea di “plasticità” e di conseguenza quella di “modellamento”. Una conferma di questo modo di vedere può essere rintracciata in due recenti pubblicazioni, entrambe le quali insistono sull’importanza del concetto di plasticità del cervello umano (Azzone 2010: 88-94; Maffei 2011: 73-74). Considerando queste convergenze (assai significative e persino sorprendenti) tra idee etnograficamente rilevate in numerose società, teorie antropologiche recenti sulla costruzione degli esseri umani e approcci delle neuroscienze, si può ben dire che l’antropo-poiesi, di cui ora vorremmo illustrare alcune ulteriori implicazioni, è soprattutto un’antropo-plastica. Il poiein è in primo luogo un plassein. ­­­­­15

Parlare di plasticità dell’essere umano può avere due significati fondamentalmente diversi. A) Un primo significato coincide con l’idea che l’essere umano è “plastico”, nel senso che subisce l’azione di fattori di modellamento esterni: dall’ambiente naturale a quello sociale, sono molti gli elementi che contribuiscono a “foggiare” in qualche modo gli esseri umani. Quando nell’ambito delle neuroscienze si evoca – come abbiamo visto sopra – l’idea della plasticità, si intende sottolineare per un verso il ruolo passivo dell’individuo e dei suoi organi e per l’altro verso la molteplicità di elementi (naturali, sociali, culturali, storici) che, in una sorta di interazione sinergica, vengono a comporre un’“esperienza” per così dire “plastica” (o di modellazione). L’esperienza plastica è fatta di situazioni, contesti, processi, eventi che, insieme, incidono sugli aspetti “plastici” degli individui, lasciandovi dei “segni” (ancorché inintenzionali). I gemelli omozigoti che, cresciuti in ambienti diversi e segnati da esperienze difformi, presentano differenze di modellazione nella microanatomia cerebrale costituiscono l’esemplificazione più chiara del potere “poietico” o di modellazione che in generale possiamo attribuire all’“esperienza”. È lecito impiegare in questo caso il termine antropo-poiesi per sottolineare gli effetti di modellamento che gli individui vengono a subire in dipendenza dalle loro esperienze, di qualunque tipo esse siano (esperienza di ambienti, di eventi ecc.): si tratta dunque di un’antropo-poiesi “passiva”. B) Vi è però un altro significato, più pregnante, di antropo-poiesi, quello per il quale si assiste a un disegno, a un progetto, a un programma antropo-poietico. Questa differenza affiora nella citazione di Ian Robertson riportata sopra, là dove lo studioso inglese evoca la «forma desiderata» che, con una potatura intenzionale, si intende dare al cespuglio di rose. Qui il modellamento non coincide soltanto con la somma di effetti subiti, ma comprende – prima ancora degli effetti – un’intenzionalità di modellamento da parte di qualcuno. Nella prima categoria il modellamento è piuttosto casuale, mentre nella seconda categoria è intenzionale. Questa differenza comporta, a sua volta, alcune implicazioni di non poco conto. Nella prima categoria risulta importante studiare il grado di sinergia dei fattori di modellamento inintenzionali, mentre nella seconda categoria si apre tutta una serie di problemi ulteriori. ­­­­­16

1) Se ipotizziamo un’intenzionalità di plasmazione, diventa fondamentale cogliere gli agenti o i tipi di agenti che intervengono sugli esseri umani con la loro azione plastica e nello stesso tempo identificare coloro su cui si esercita o intende esercitarsi. Chi plasma chi? La domanda riguarda i plasmatori e i plasmati, coloro che detengono un potere di plasmazione e coloro che lo subiscono. 2) Immediatamente qui abbiamo a che fare con una questione di potere: modellare gli altri significa disporre di un grande potere. Colui che modella si arroga un diritto di modellamento o gli viene riconosciuta – da chi e come – l’autorità di modellare? 3) La domanda relativa al potere di plasmazione riguarda anche grado, livelli, tipi, modi e tempi di incidenza: che cosa si plasma e fino a che punto si intende spingere la plasmazione? 4) Inoltre, se si parte dall’idea di un’intenzionalità di plasmazione, è inevitabile porsi il problema della differenza tra il piano dell’ideazione e quello della realtà, tra l’obiettivo che si intende perseguire e i risultati effettivamente raggiunti. 5) È bene non dimenticare inoltre le possibilità di contestazione da parte di coloro che – entro un determinato “ordine” sociale – dovrebbero essere plasmati, i loro effettivi margini di fuga e di libertà, di opposizione e di rovesciamento (altre forme, altri modelli, altra plasmazione). A quanto pare, non ci si può sottrarre alla plasmazione in quanto tale, ma modificare e finanche sovvertire agenti e modelli di plasmazione particolari sono possibilità a cui gli esseri umani ricorrono per fortuna con una certa frequenza nei loro diversi contesti culturali. 6) Infine, progetti di plasmazione intenzionali (antropo-poiesi “attiva”) non cancellano i fattori di plasmazione di cui abbiamo parlato al punto A (antropo-poiesi passiva): semplicemente vi si aggiungono, li contrastano e in parte vi si mescolano. In effetti, negli ambienti e nei processi anonimi si infiltrano e si depositano modelli di plasmazione che non perdono la loro efficacia per il solo fatto di non essere più riconducibili a un disegno deliberato. Molti ambienti e processi della nostra vita sociale (dagli edifici alle festività, dall’alimentazione all’igiene) conservano una forza modellante, la cui efficacia è forse direttamente proporzionale al loro carattere anonimo, silenzioso, continuo e spesso inconscio. Negli studi umanistici va riconosciuto al filologo Werner Jaeger il merito di avere introdotto il tema della plasticità umana in una maniera molto simile a quella dell’antropo-poiesi. Egli riconosce ­­­­­17

nell’educazione (Erziehung) una «volontà di vita, plastica [plastische] e generatrice», del tutto identica a quella che opera nella natura: mentre però nella natura questa volontà di vita tende a conservare e propagare le specie viventi, nell’educazione l’obiettivo è trasmettere un particolare «tipo umano [menschlichen Artform]» (Jaeger 1936: 2). Questo modello di umanità è ciò che caratterizza e contraddistingue in modo peculiare una determinata «comunità»: esso «si imprime» nei suoi membri (nel loro stile di vita, nel loro comportamento, nelle loro idee, nei loro valori). Soprattutto quando si tratta di plasmare i nuovi individui secondo la propria idea di umanità, la comunità fa valere la propria forza determinante. Secondo Jaeger, vi sono però due rischi di fallimento a cui la plasmazione degli esseri umani può andare incontro: da un lato, le oscillazioni e le incertezze nei modelli di umanità e, dall’altro, una loro sclerotizzazione, un loro eccessivo irrigidimento. Solo con la Grecia classica vengono evitati questi due rischi, in quanto si impone «un ideale di cultura quale consapevole principio formativo» (Jaeger 1936: 8): non una forma esterna e avvizzita, ma una creatività continua che si rivolge all’uomo come individuo. Nella concezione di Jaeger, i Greci dell’antichità classica hanno rivolto le loro capacità formative e plasmatrici agli «uomini reali», nello stesso modo in cui «il vasaio dà forma alla creta e lo scultore alla pietra» (1936: 14). «L’uomo vivente» fu per essi «l’opera d’arte suprema». Nel loro sforzo di plasmazione è infatti riconoscibile sia la dimensione dell’arte sia quella del pensiero, come del resto per Jaeger è attestato anche dalla parola tedesca Bildung, dove troviamo sia il «modellamento artistico [künstlerisch Formende]» e «plastico», sia la presenza dell’«idea», del tipo o modello di umanità (1936: 15). Per Jaeger, anche lo stato greco si assume questo compito di “modellatore” o «plasmatore dell’uomo [Former des Menschen]», per cui i Greci appaiono ai suoi occhi come «il popolo antropoplasta [Anthropoplast] per eccellenza». Questa qualificazione è dovuta però non soltanto al fatto che i Greci si siano dedicati più consapevolmente di altri alla modellazione dell’uomo, ma anche e in primo luogo al fatto che essi lo modellarono secondo la «sua vera forma», la sua «vera umanità»: la comunità imprime nel singolo la sua “idea di uomo”, la sua “forma di umanità”, ma nel caso dei Greci questa idea corrisponde per intero alle «leggi universali della natura umana», alla «vera natura dell’uomo» (1936: 16, 18). I Greci ­­­­­18

furono «foggiatori dei propri ideali», “formatori” di uomini viventi, soprattutto essi si dedicarono alla «autoformazione dell’uomo greco [Selbstformung des griechischen Menschen]». Nel fare questo essi «foggiarono» però non una particolare forma di umanità, ma la stessa «forma ideale dell’uomo» (1936: 19, 21-22). 4. Inventare o scoprire? Questa esaltazione dell’antropo-poiesi greca corrisponde in Jaeger alla consapevolezza che il problema della “formazione” o del “modellamento” dell’uomo «è oggi più vivo che mai» (come egli scrive nella Prefazione dell’ottobre 1933), in quanto «nell’ora presente [...] l’intera nostra cultura, sconvolta da un’immane esperienza storica, ha iniziato una revisione dei propri fondamenti» (Jaeger 1936: vii, 23). Nella crisi di valori della società contemporanea (alle spalle l’esperienza traumatica della prima guerra mondiale, il fallimento della Repubblica di Weimar e, il 30 gennaio 1933, la presa del potere da parte del nazismo) Jaeger intravede un profondo disorientamento nei compiti antropo-poietici. Il ricorrere alla paideia greca ha lo scopo non soltanto di reperire un principio formativo ispiratore, un caso emblematico e supremo di Bildung, ma anche e soprattutto di ricostituire un legame intimo e profondo di identificazione. Jaeger riconosce che con l’indagine storica ed etnografica l’orizzonte entro il quale ci muoviamo si è enormemente allargato: «mondi spirituali sino allora inesplorati si sono dischiusi alla nostra vista» (1936: 4). Come già aveva fatto a suo tempo Erodoto, anche noi abbiamo dato luogo a un’indagine relativa a «mondi estranei, meravigliosi e misteriosi», a una «morfologia della vita umana» che esplora le varie forme di umanità, accostandoci «anche ai popoli più remoti» al fine di «penetrarne lo spirito peculiare»: si tratta di una «storia» intesa in un senso che «quasi diremmo antropologico» (1936: 5). Ma proprio questo allargamento conoscitivo in senso antropologico ha l’effetto, per Jaeger, di produrre un più approfondito senso di appartenenza di “noi” a una «cerchia» di popoli esclusiva, quella che trova al proprio centro i Greci. Conoscere gli altri mondi, «a noi spiccatamente estranei per razza e spirito», non fa che accrescere da un lato il senso di «un immenso divario» tra noi e loro, mentre dall’altro au­­­­­19

menta la consapevolezza «in noi» di una «affinità spirituale fissata dal destino», di una «comunanza» condivisa dall’Occidente con l’antichità classica: si tratta di un «intimo legame», di una storia esclusiva che «non può abbracciare quale scena l’intero pianeta». Questa storia esclusiva, iniziata dai Greci, è segnata da un compito eminentemente antropo-poietico: quello della «formazione di un’umanità superiore [die Formung eines höheren Menschen]» (1936: 6). In nome di questa antropo-poiesi superiore Jaeger riserva al mondo greco e ai popoli che si connettono per intima affinità al loro destino il concetto vero e proprio di Kultur. Jaeger registra l’uso antropologico di “cultura”, per il quale questo termine è applicato in maniera indistinta, logora e banale «a tutti i popoli della terra, compresi i primitivi» (1936: 7). Ma nel suo significato più pregnante e autentico, esso dovrebbe essere riservato a quei mondi spirituali o a quella “cerchia di popoli”, in cui non solo vi è un plasmare, ma vi è un modellare secondo la vera forma di umanità. In definitiva, secondo Jeager, vi sono tre diversi livelli di umanità: a) i popoli primitivi, che non conoscono alcun principio educativo e che non coltivano alcuna forma di umanità; b) i popoli che, avendo raggiunto «un certo grado di sviluppo», avvertono l’esigenza di riprodurre, mediante l’educazione, la loro specifica forma di umanità; c) i popoli che non si accontentano di plasmare la loro particolare forma di umanità, ma dirigono i loro sforzi antropo-poietici verso la vera e autentica forma di umanità, dotata di valore universale1. “Noi” occidentali apparteniamo, secondo Jaeger, a questa terza (più fortunata e aristocratica) categoria di umanità, se non   È impressionante, e nello stesso tempo significativa, questa gerarchia di società umane, stilata in base a una pagella relativa alle loro capacità antropopoietiche, da parte di un intellettuale raffinato come Werner Jaeger, il quale – va detto – lasciò la Germania nazista per gli Stati Uniti nel 1936 (oltre ad avere sposato una donna ebrea, ebbe dissensi sul piano ideologico con il regime, a causa dei quali fu privato dell’insegnamento universitario). È sufficiente confrontare queste posizioni di Jaeger (su cui torneremo nel capitolo V, § 3) con la prospettiva antropo-poietica formulata da Herder nel Settecento per constatare una preoccupante contrazione di orizzonte, e di sapere, antropologico nella cultura tedesca della prima metà del Novecento. Vi è da chiedersi perché questa contrazione e se tale impoverimento culturale non debba essere riconosciuto come uno dei fattori fondamentali della tragedia antropo-poietica, quale senza dubbio fu il nazismo (cfr. capitolo V, § 5). 1

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fosse per il fatto che – a quanto pare – ogni tanto il disorientamento antropo-poietico ci assale e ci fa ripiombare in momenti bui e tragici. Per un autore come Jaeger, il quale attribuisce una così grande importanza al modellamento degli esseri umani, la tragedia consiste nella perdita dei modelli che dovrebbero ispirare i percorsi antropo-poietici. Gli stessi Greci non ottennero per rivelazione divina i loro modelli di umanità, ma con uno sforzo eroico i loro uomini più significativi si trasformarono in «autonomi maestri del popolo e foggiatori dei propri ideali» (1936: 19). Questi ideali di umanità non sono stati trovati per caso, non sono stati concessi da altri (da entità superiori), sono stati invece “foggiati”, e dunque inventati, facendo leva sulla creatività degli uomini: sono frutto perciò dell’inventiva umana, eppure – secondo Jaeger – sono universali. Il miracolo greco, a cui pure “noi” europei moderni partecipiamo, consisterebbe proprio in questa strana, inedita ed eccezionale mistura di modellamento e di universalità, in questa capacità esclusiva di modellare “storicamente” una forma “universale” di umanità. Il fatto che si tratti di un modellare “storico”, radicato nella «realtà concreta di vicende vissute», di una «storia vissuta» (1936: 6), spiega per un verso la sua eccezionalità e per l’altro il rischio della perdita dei suoi modelli. Ma il valore universale dei modelli non dovrebbe essere una garanzia sufficiente contro il loro eventuale smarrimento? Come si fa a perdere modelli di umanità di valore universale? Quali fattori sono in grado di offuscarne la vista, di ridurne la presa? E perché mai soltanto nella Grecia classica gli uomini sarebbero stati capaci di foggiare forme di umanità tanto superiori? La risposta di Jaeger è che i Greci seppero pervenire alla «comprensione cosciente delle leggi della realtà», seppero «cogliere la struttura naturale, insita, originaria, organica dell’essere»: seppero giungere alla «scoperta di norme e leggi oggettive», e quindi si sforzarono di «regolare in conformità la vita e il pensiero dell’uomo» (1936: 10-13, corsivo nostro). Più in particolare, essi seppero afferrare le «leggi profonde della natura umana» e avere «chiara coscienza dei principi naturali della vita umana» (1936: 14). Si tratta allora davvero di un miracolo, in quanto i Greci non soltanto per primi ebbero l’idea che gli esseri umani hanno da essere “plasmati” (inventati), ma ritenevano che questa plasmazione avviene secondo le direttive (nascoste, da ­­­­­21

scoprire) della “natura umana”. Nella visione di Jaeger, i Greci svettano su tutti gli altri popoli perché coniugano l’“invenzione” dell’essere umano vivente (che deve essere creato come «opera d’arte suprema») con la “scoperta” della natura umana: la foggiatura dell’essere umano non avviene secondo valori, predilezioni e scelte particolari (storiche, locali), ma in base a leggi di ordine universale (strutturali, naturali). Il modellamento è storico, in quanto si verifica in uno specifico contesto culturale, ma trascende la storia, in quanto avviene “in conformità” alla natura umana. Nella visione di Jaeger: a) i popoli da lui definiti primitivi non si pongono nemmeno il problema della plasmazione dell’essere umano; b) i popoli che hanno raggiunto «un certo grado di sviluppo» si pongono invece il problema dell’educazione e dunque della plasmazione dell’essere umano, ma lo risolvono secondo canoni e criteri ristretti, peculiari alla loro cultura; c) soltanto i Greci e “noi” europei moderni abbiamo saputo combinare “invenzione” e “scoperta” dell’uomo, plasmazione e affioramento della natura umana. Secondo Jaeger, mentre tra “noi” europei moderni e antichi Greci c’è «comunanza» e «intimo legame», esiste dunque «un immenso divario», «un’alta muraglia» tra “noi” (Greci ed europei moderni) da un lato e i popoli dell’Oriente (Ebrei, Cinesi, Hindu) dall’altro: essi sono «tutt’altra cosa» (1936: 4-5, 7) – per non parlare ovviamente dei “primitivi”, che sarebbero una cosa ancora più altra e infima. 5. Come ridurre la responsabilità antropo-poietica Occorre riconoscere che è difficile mantenere il tema della plasmazione senza fare ricorso a modelli che ispirino, guidino o addirittura determinino la plasmazione stessa. In Jaeger interviene l’idea della natura umana, a cui la plasmazione, inventata dai Greci e poi continuata o reinventata dagli europei, cercherebbe di “conformarsi”. In Jaeger c’è una sorta di strano e insostenibile equilibrio tra l’esigenza della plasmazione e l’affermazione della natura umana, la quale si configura, oltre che come un punto di riferimento, un limite invalicabile della plasmazione stessa. In altri autori, in altre correnti, in altri momenti storici (come, per esempio, in diverse concezioni della modernità) vi può essere invece ­­­­­22

il rifiuto della plasmazione a tutto favore dell’affioramento della natura umana: non c’è bisogno di plasmare l’uomo; è più giusto e corretto lasciare che la natura umana affiori nella sua autenticità e integralità. In questo caso, la plasmazione non solo viene ridotta, ma è addirittura eliminata. In altri contesti ancora (come, per esempio, nella Bibbia ebraica) la plasmazione è ritenuta essere prerogativa di entità sovra-umane (la divinità): la responsabilità di “foggiare” in qualche modo l’uomo viene conferita a esseri “superiori”, da cui l’uomo dipende. Diritto e potere di plasmazione possono essere anche attribuiti o rivendicati da certe categorie di persone all’interno della società (genitori, sacerdoti, intellettuali, capi politici dotati di particolare carisma), che affermano di sapere come si devono plasmare gli esseri umani e a cui gli individui delegano in tutto o in parte, volenti o nolenti, un’attività antropopoietica. Come si vede, la prima domanda è: l’uomo ha da essere plasmato oppure la plasmazione è un’attività superflua e magari illusoria? E la prima alternativa (il primo bivio) si configura dunque nel modo seguente: A) plasmare // B) non plasmare. Se si ritiene che l’uomo abbia da essere plasmato (A), si pone inevitabilmente la domanda (come già abbiamo anticipato nel § 3) “da parte di chi (da Dio, dagli eventi e dai contesti, da se stesso)?” Ovvero, quali sono gli agenti della plasmazione, specialmente se si tratta di una plasmazione intenzionale? Siamo nella direttrice A, e dunque il breve elenco che ora proponiamo può essere così formulato: A1) entità sovra-umane (divinità, spiriti); A2) entità extra-umane (situazioni, ambienti, fattori non dipendenti dall’umanità o estranei); A3) soggetti umani. E ancora: se è l’essere umano che plasma se stesso (A3), è l’individuo che interviene su di sé (A3.1) o sono altri individui (capi, istituzioni sociali ecc.) che esercitano questo potere su di lui (A3.2)? È abbastanza evidente che le alternative qui indicate comprendono situazioni che si possono presumere reali, così come credenze e ipotesi non verificate. È ragionevole pensare che vi siano fattori di plasmazione estranei (A2) e nel contempo agenti di plasmazione di ordine sociale e dunque umano (A3.2: la famiglia e l’istituzione scolastica, per esempio). Appartiene all’ordine delle credenze, invece, ritenere che sia la divinità (e comunque un’entità sovraumana o sovrannaturale) a plasmarci. Ma anche le credenze hanno un grado di efficacia di cui occorre ­­­­­23

tenere conto. E in ogni caso, mettere insieme queste alternative ha il significato di concedere a ognuno (individui o gruppi) un margine di scelta appropriato, invitandolo nel contempo a riconoscere le altre alternative possibili. Inoltre, con ciò si vuole anche suggerire una visione pluralistica e multifattoriale della plasmazione umana. Nessuno dei fattori indicati agisce probabilmente da solo; più probabile invece è l’idea che la plasmazione sia il frutto di una complessa interazione di elementi o di fattori, i quali – secondo i casi, i contesti, i periodi storici, le culture – agiscono in maniera difforme, in base non a uno schema gerarchico fisso, ma a diverse modalità di interazione. Per esempio, è indubbio che in alcuni periodi della sua vita l’individuo è quasi del tutto alla mercé di altri individui (prevale il fattore di plasmazione A3.2): e questo si verifica anche in certe situazioni storiche e sociali (come, per esempio, i regimi totalitari). È altrettanto indubbio che il self-made man (inteso nel senso pregnante di colui che costruisce in proprio se stesso e il suo destino) non ha davanti a sé un terreno del tutto libero, ma deve fare conti e compromessi con altre istanze di plasmazione. Tutto ciò significa allora che, una volta ammessa la plasmazione sull’essere umano (direttrice A), è inevitabile considerare e analizzare sinergie, interferenze, compromessi, interazioni, contrasti tra diversi fattori (intenzionali o no) di plasmazione. Abbiamo finora posto il problema del “chi plasma chi?”. Rimane ora da esplorare il problema del “plasmare come?”. C’è comunque connessione tra i due tipi di problema. È evidente infatti che se è Dio che plasma, il problema del “come” ha forse soltanto un significato contemplativo: ciò che al massimo “noi plasmati” possiamo fare è capire quali siano i modelli che il plasmatore divino ha in mente. Per il resto – come afferma il profeta Isaia – non dobbiamo fare altro che accettare le sue modalità e i suoi modelli di plasmazione. Lo stesso atteggiamento di accettazione supina dei modelli da parte di coloro che devono essere plasmati si verifica allorché i plasmatori sono esseri umani, e si ritenga che il loro operato sia indiscutibile (A3.2). Concepito l’essere umano come argilla che deve essere modellata da Dio («noi siamo l’argilla, tu colui che ci ha plasmato; noi tutti siamo opera della tua mano» – Isaia 64, 7 [La Bibbia 1987: 1216]), Isaia esclude che si possa sindacare l’operato di Dio, così come i figli non possono chiedere ­­­­­24

conto ai loro genitori. In Isaia (45, 9-11) troviamo descritte entrambe le situazioni: Guai a chi contende con chi l’ha formato, al vaso, che discute con i plasmatori di ceramica! Forse che l’argilla dice al vasaio: «Che fai?». Oppure: «La tua opera non ha manichi»? Guai a chi dice al padre: «Che hai generato?» Ed alla madre: «Che hai dato alla luce?». Così parla il Signore, il Santo d’Israele che lo ha formato: «Siete forse voi che mi interrogate sui miei figli e mi date ordini circa l’opera delle mie mani?» (La Bibbia 1987: 1190).

In una situazione di questo genere, i modelli di umanità sono del tutto sottratti alla discussione e alla scelta, così come ai dubbi e alle perplessità. Non c’è un problema di reperimento e tanto meno di invenzione di modelli. Se chi plasma è un’autorità indiscutibile e incontestabile, non c’è bisogno di scervellarsi sul come modellare umanità: un atteggiamento interrogativo e critico risulta anzi blasfemo. Ma se l’antropo-poiesi si configura come una faccenda umana, e solo umana, nel senso che sono gli uomini stessi che pongono mano al loro essere, allora il “come” modellare diviene oggetto di dubbi e di perplessità, fonte di incertezza e di angoscia. L’autorità di chi si prende la briga di modellare può attenuare l’angoscia, trasferendo il senso di responsabilità del modellamento a entità più o meno indiscutibili. Ma se l’autorità si incrina e viene meno, allora il problema del “che fare”, del “come plasmare” emerge in tutta la sua drammaticità. Si è visto che sottrarre l’operato di chi ha il potere di plasmare esseri umani alla critica e alla contestazione comporta un allontanamento di responsabilità per chi ha da essere plasmato: questa è la strategia dell’autorità. Ma se l’autorità cede, vi è un altro modo per attenuare il senso di angoscia, e questo consiste nel fissare da qualche parte modelli di umanità, nel sottrarre i modelli al modellamento, nel pensare che esistano modelli prima della plasmazione, nel conferire a tali modelli uno statuto prioritario rispetto all’attività antropo-poietica, la quale viene dunque concepita come un’applicazione o riproduzione di modelli preesistenti: chiunque sia colui ­­­­­25

che mette mano alla foggiatura dell’umanità, egli “si conforma” a modelli che esistono da qualche parte e che non hanno da essere inventati, ma soltanto rivelati o “scoperti” (per esempio, nella natura dell’uomo, secondo Jaeger), al fine di guidare e determinare la plasmazione corretta degli esseri umani. Una strategia di questo genere può essere rintracciata nella Repubblica di Platone e in particolare nel mito di Er. Platone mette fuori causa la divinità per quanto riguarda la responsabilità del tipo di essere umano che si intende essere o a cui si è legati per “destino”. «Ciascuno è responsabile della propria scelta: la divinità non ne ha colpa» – sostiene Platone (617e – 1953: 583). La responsabilità degli uomini consiste però soltanto nella selezione, avveduta o meno, dei modelli di umanità che le anime fanno non nella loro vita terrena, ma dopo la morte e prima di reincarnarsi in una nuova vita. Si tratta di «modelli [paradeígmata] delle diverse condizioni umane» che vengono mostrati alle anime in attesa (617d – 1953: 582). Queste, secondo un ordine stabilito con sorteggio, sceglieranno il modello che determinerà irrevocabilmente il destino della loro prossima vita. La maggior parte delle anime – afferma Platone – compie la propria scelta tenendo conto della sua vita precedente, spesso allo scopo di fare proprio uno stile di vita divergente e magari opposto. In questa scelta, secondo Platone, c’è anche la possibilità per gli umani di adottare modelli di animalità, anziché di umanità (Orfeo sceglie la vita di un cigno, Tamiri quella di un usignolo, Aiace Telamonio quella di un leone, Agamennone quella di un’aquila): allo stesso modo, e inversamente, anime di animali possono scegliere di vivere vite umane. La scelta dunque è ampia, e – come si vede – è consentito persino transitare dall’umanità all’animalità e viceversa. In ogni caso, il numero dei modelli è sempre maggiore rispetto al numero delle anime, così anche gli ultimi hanno un margine adeguato di scelta. E tuttavia il numero dei modelli (di umanità o di animalità) è pur sempre limitato ed essi preesistono alla scelta. La responsabilità coincide dunque esclusivamente nelle possibilità di scelta, non nell’invenzione dei modelli. Come la divinità non è coinvolta nelle scelte che gli esseri umani compiono, così gli uomini non hanno potere alcuno nella fabbricazione dei modelli di umanità. ­­­­­26

6. Le difficoltà dell’invenzione Se il mito di Er, con cui si conclude la Repubblica platonica, esprime assai bene la strategia della sottrazione dei modelli di umanità alla capacità e responsabilità inventiva degli uomini, all’inizio di ciò che per convenzione viene chiamata epoca moderna, viene formulato un altro mito, in cui invece assistiamo all’attribuzione agli esseri umani della capacità e responsabilità totale di invenzione dei modelli di umanità. Giovanni Pico della Mirandola scrive nel 1486 il De hominis dignitate, dove viene ripreso il racconto biblico della creazione, e nel quale tuttavia vi è un vistoso discostamento dallo schema della Genesi. Nella Genesi tutto è nelle mani di Dio, nel senso che Dio modella direttamente l’essere umano («modellò l’uomo con la polvere del terreno») e, per giunta, il modello dell’umanità coincide con la stessa immagine di Dio («Finalmente Dio disse: “Facciamo l’uomo a norma della nostra immagine”») (Genesi 2,7 e 1,26 – La Bibbia 1987: 10-11). Anche nel De hominis dignitate l’uomo è concepito come la creatura a cui Dio pone mano dopo avere creato le altre parti dell’universo. Ma, a differenza che nel testo biblico, la creazione dell’uomo da parte di Dio avviene quando, essendo stato creato l’intero universo, per la nuova creatura non c’è più un posto specifico in cui risiedere. «Tutto era ormai pieno; tutto era stato distribuito tra gli ordini, sommi, medi, infimi»: i vari ordini del mondo erano tutti occupati dagli esseri, inferiori o superiori, precedentemente creati (Pico 2000: 103). Non solo vi è mancanza di un luogo per l’uomo; ma vi è anche – e soprattutto – mancanza di modelli: «tra gli archetipi non ce n’era alcuno per dar forma alla nuova progenie» (corsivo nostro)2. Con l’uomo, che il creatore ha voluto perché, «compiuta l’opera, [...] vi fosse qualcuno che sapesse apprezzare il significato di tanto lavoro», è come se Dio stesso si trovasse in una certa difficoltà: «sarebbe stato indegno della potestà paterna venir meno in quest’ultimo parto, quasi fosse incapace di genera  Questa idea dell’essere umano fatto venire al mondo senza capacità specifiche e in assenza di un modello – il massimo della privazione e tutto l’opposto di ciò che invece assicura la Genesi, ossia che il modello con cui l’uomo è stato creato è la stessa divinità – era già stata esposta da Protagora nel dialogo che Platone gli aveva dedicato (Protagora 320c-322d [Platone 1970: 320-322]). 2

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re...». C’è un difetto radicale, c’è un’incompiutezza di fondo nella creazione dell’uomo da parte di Dio: un essere senza luogo e senza modello, indefinito e informe, il quale dovrebbe però ammirare l’ordine del creato. L’uomo, così manchevole, vuoto e derelitto, rischia di essere una smentita della capacità generativa di Dio, della sua «sapienza» e del suo «amore». Alla fine – evidentemente dopo un periodo di riflessione – Dio trova una soluzione. Vale la pena riportare per intero il § 5 del Discorso di Pico: Stabilì infine l’ottimo artefice che a colui cui non si poteva dare nulla di proprio fosse comune quanto apparteneva ai singoli esseri. Prese perciò l’uomo, opera dall’immagine non definita [indiscretae opus imaginis], e postolo nel mezzo del mondo così gli parlò: «Non ti abbiamo dato, o Adamo, una dimora certa, né una prerogativa peculiare, affinché tu avessi e possedessi, come desideri e come senti, la dimora, il sembiante, le prerogative che tu da te stesso avrai scelto. La natura degli altri esseri, una volta definita, è costretta entro le leggi da noi dettate. Nel tuo caso sarai tu, non costretto da alcuna limitazione, secondo il tuo arbitrio, nelle cui mani ti ho posto, a decidere su di essa. Ti ho posto in mezzo al mondo, perché di qui potessi più facilmente, guardandoti attorno, osservare quanto è nel mondo. Non ti abbiamo fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché come libero, straordinario plasmatore e scultore [plastes et fictor] di te stesso, tu ti possa foggiare da te stesso nella forma che avrai preferito. Potrai degenerare negli esseri inferiori, che sono i bruti; potrai rigenerarti, secondo la tua decisione, negli esseri superiori, che sono divini (Pico 2000: 103-105, corsivi nostri).

In questa stupenda pagina di Pico, vero e proprio manifesto della teoria antropo-poietica, troviamo riassunte una serie di considerazioni che, a cominciare dal tema iniziale dell’incompletezza, ci conducono attraverso l’antropo-poiesi alle conclusioni di questo scritto. A) L’incompletezza è originaria: essa attiene fin dalle origini all’essere dell’uomo, ma – per Pico – essa ha radici e motivazioni teologiche e cosmologiche. L’ordine del mondo, precedentemente creato da Dio, è di per sé completo, mentre l’essere umano, creato in seguito per ammirare l’opera divina del mondo, è “senza posto” e “senza modello”. B) L’incompletezza dell’uomo non consiste nella mancanza di una parte o di un elemento; è un’incompletezza radicale e, per ­­­­­28

così dire, sistemica, strutturale: egli, «opera dall’immagine non definita», non ha «nulla di proprio»: la sua “indigenza” è totale. C) Dio però inculca nell’essere umano un potere inventivo che trasforma una condizione fallimentare e quasi abortiva in un successo creativo del tutto inedito: tutti gli altri esseri dispongono di una «natura definita», caratterizzata da «leggi» specifiche, le quali determinano modo d’essere, sembiante, comportamento, posto nel mondo; l’essere umano invece, privo di leggi e di coercizioni, viene affidato da Dio al suo stesso «arbitrio», mediante il quale l’uomo è posto in grado di «decidere» sulla sua stessa natura. D) La capacità inventiva dell’uomo non riguarda dunque questo o quell’aspetto della realtà, del mondo o di sé; essa investe il suo stesso essere nella sua globalità. A differenza degli altri esseri, l’uomo – originariamente così indefinito – è in grado di inventare se stesso, di fare di sé un essere terreno oppure celeste, mortale oppure immortale. L’attività di “foggiatura” (in cui consiste anche la creazione divina, secondo la Genesi) è rivolta dall’uomo a se stesso; egli è in grado di “foggiarsi da se stesso”, essere di se stesso uno straordinario e libero «plasmatore e scultore». E) Se poi proseguiamo oltre il § 5, vediamo che le considerazioni di Pico riguardano ancora il potere auto-inventivo dell’uomo. La sua non è una creazione “dal nulla”: l’uomo, dalla natura indefinita, trova dentro di sé «semi di ogni tipo e germi d’ogni specie di vita» (2000: 105). Nell’uomo sono contenute “tutte” le potenzialità concesse da Dio, coltivando le quali egli può diventare pianta, animale, essere celeste. Ciò che emerge in questa successiva analisi dell’auto-poiesi umana è dunque una mirabile capacità “trasformativa”. Ovvero, l’uomo non si limita a foggiare se stesso, ma lo fa in una pluralità strabiliante di modi. «Chi non ammirerà questo nostro camaleonte», il quale «per la sua natura cangiante e metamorfica, nei misteri era simboleggiato da Proteo»? «Di qui» – aggiunge Pico – «quelle metamorfosi celebrate presso gli Ebrei e i Pitagorici». F) Nel § 9 ritorna il tema della capacità trasformativa dell’uomo, il quale «foggia, plasma e trasforma il proprio aspetto in quello di ogni carne, il proprio ingegno in quello di ogni creatura» (2000: 107). A questo punto, come non pensare, in effetti, alle trasformazioni degli esseri umani in diverse specie animali, quali vengono rappresentate in molte raffigurazioni (statue, maschere), per non ­­­­­29

dire di racconti mitologici, provenienti da molte parti del mondo? Ma il § 9 propone un approfondimento molto significativo e importante per le nostre considerazioni conclusive. Questa strabiliante capacità di metamorfosi si combina con il fatto che – come scrive il «persiano Evante», là dove spiega la teologia caldaica – «non è dell’uomo alcuna sua immagine innata [ullam et nativam imaginem], ma molte esteriori e avventizie [extrarias multas et adventitias]». Ulteriore commento di Pico: «Di qui quel detto dei Caldei, ossia “l’uomo è animale di natura varia multiforme e incostante”». G) Una volta riconosciuta all’essere umano una grande capacità auto-poietica, Pico giunge dunque alla conclusione che tale capacità non crea un’immagine “appropriata”. L’uomo è sì capace di “auto-foggiarsi”, ma non vi è un modo diretto, adeguato, superiore agli altri. L’essere umano non dispone di modelli privilegiati a cui “conformarsi” nella propria plasmazione. Inventa invece molti modelli, e questi sono “vari”, “diversi”, e nessuno di questi è più vicino e intrinseco alla natura umana: tutte queste “immagini” o “forme di umanità” risultano invece «esteriori e avventizie». Alla radice di tutte le forme di umanità riscontrabili vi è la capacità “auto-poietica” dell’uomo, ma nessuna di queste alla fin fine risulta più “umana” delle altre. H) Se sfruttiamo ancora un po’ l’idea della “trasformazione”, ovvero della capacità dell’uomo di trasformarsi in una pluralità di esseri, potremmo giungere alla conclusione (assai rilevante sul piano antropologico) che vi è possibilità di passaggio e di comunicazione tra le diverse forme di umanità, così come tra l’umanità e altre forme di vita (soluzione ben diversa rispetto all’«alta muraglia» tra noi e gli altri, eretta da Jaeger). Proprio in quanto l’uomo è dotato di una grande capacità auto-trasformativa, la trasformazione non avviene soltanto dall’uomo (U) verso “ciò che desidera essere”, verso la forma di umanità (FU) che decide di “foggiare” e di adottare (U → FU); la trasformazione coincide anche con il passaggio (contemplativo o pratico) tra le diverse forme di umanità (FU ↔ FU). E questa transizione è garantita non solo dalla forte capacità auto-trasformativa dell’uomo, ma anche dal fatto che le forme di umanità sono sempre e inesorabilmente «esteriori e avventizie». I) Non sono la stessa cosa la trasformazione U → FU (dall’uomo verso una qualche forma di umanità) e la trasformazione FU ↔ FU (da una forma di umanità all’altra). Seguendo le tesi di Pico, non vi ­­­­­30

è un U (un essere umano) già dato, il quale poi si trasforma in una FU, in una specifica forma di umanità: non vi è l’uomo e poi le sue forme; l’uomo è invece e subito le sue forme di umanità, nessuna delle quali può pretendere all’universalità, proprio perché non vi è una natura umana che preceda o ispiri il lavoro di antropo-poiesi. L) Se la foggiatura coinvolge anche i modelli di umanità, prima ancora che gli esseri umani, i modelli che ne risultano sono sempre specifici e particolari. La particolarità delle forme di umanità è una conseguenza del fatto che anch’esse sono il prodotto di foggiatura, di una foggiatura senza modelli preventivi, senza un modello principale, che indichi quale forma di umanità sia antropologicamente più importante, e rispetto alla quale le altre sarebbero null’altro che “deviazioni” o “deformazioni”. Se non c’è un U che preceda la plasmazione, è impossibile indicare una FU che maggiormente gli corrisponda, una forma di umanità più autenticamente umana, più adeguata alla natura dell’uomo. M) In mancanza di un modello principale, tutte le forme di umanità sono “de-formazioni”, allo stesso modo in cui, in mancanza di una via maestra, tutte le vie sono vie laterali, null’altro che deviazioni (Wittgenstein 1980: 167): ogni modello è una de-formazione non già rispetto a un inesistente modello principale, bensì rispetto a ogni altro singolo modello particolare. Come sosteneva Herder (1992: 161, corsivo nostro), «il cammino degli uomini» è perciò divenuto simile a «un labirinto, dove si aprono deviazioni da tutte le parti». Se vi fosse un modello universale, lì si concentrerebbe il senso dell’umanità, mentre gli altri modelli sarebbero gerarchicamente inferiori. La mancanza di un modello universale elimina uno schema gerarchico dei modelli e distribuisce più equamente il senso di umanità a tutti i modelli proponibili, ma non toglie il carattere reciprocamente deviante o deformante dei modelli. N) «Da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto» (Kant 1965: 130). Come si vede, anche in Kant l’idea di qualcosa di “storto”, di non completamente diritto, è ben presente nel caratterizzare l’essere umano. Secondo Isaiah Berlin (1994: 41), si è trattato di un apprezzabile «momento di folgorazione» per un moralista così rigoroso come Kant. Ma, mentre per Kant lo “storto” coincide con un “male radicale” che si annida nella stessa natura umana (Pranteda 2002), ovvero un U che precede tutte le sue “forme”, un’essenza che ­­­­­31

precede tutte le sue manifestazioni, nella prospettiva qui adottata le “storture” rivestono un carattere molto più relativo e plurale, in quanto coincidono con i modelli tra loro sempre “devianti” che gli esseri umani inventano e con cui foggiano se stessi. Sul carattere inevitabilmente “deformante” dei modelli, Johann Gottfried Herder avrebbe molto da suggerire, come quando afferma che «se l’uomo rimane tra gli uomini non può sottrarsi a questa cultura che forma e deforma» (Herder 1992: 159, corsivo nostro). O) Unitamente a questa idea della cultura che “deforma” nel momento stesso in cui dà “forma” agli individui, Herder sottolinea il carattere inevitabilmente estetico dell’antropo-poiesi (su cui torneremo nella Parte seconda). Già Pico – come si ricorderà – definiva l’uomo (e non soltanto i Greci, secondo l’interpretazione di Jaeger) come «plastes et fictor» di se stesso: l’antropo-poiesi è un’attività artistica, nel senso che l’essere umano, modellandosi, fa di se stesso un’opera d’arte. Adottando un punto di visto paleoantropologico, Herder a sua volta aggiunge: Con l’andatura eretta l’uomo divenne una creatura che è un’arte, perché mediante l’andatura eretta, che è l’arte prima e più difficile imparata dall’uomo, egli viene iniziato ad imparare tutte le altre arti e diventa quasi un’arte vivente (1992: 49).

Che c’entrano storture e deformazioni con l’arte? L’arte non è forse mirata soprattutto a eliminare storture e deformazioni? Nella loro ricerca della bellezza e della funzionalità, gli esseri umani fanno spesso ricorso al criterio della simmetria e dell’armonia (Boas 1981: 54). Ma se significativi sono gli sforzi di armonizzare e di eliminare le storture, altrettanto significative sono le deformazioni, le asimmetrie, le storture artisticamente prodotte: si pensi alle pitture facciali dei Caduveo del Mato Grosso, ai tatuaggi dei Tlingit della costa americana di Nord-Ovest, alle maschere dei Pende e dei Songye del Congo e, da noi, alla pittura di Picasso (Lévi-Strauss 1966; Bargna 1998). Perché rappresentare deformati gli esseri umani, perché introdurre così vistosamente il tema della deformazione nella rappresentazione artistica dell’umanità, se non per riflettere sulle sue deviazioni, se non per raffigurare anche visivamente le “storture” e le deformazioni che, modellandosi, gli esseri umani inevitabilmente si danno? ­­­­­32

II

Temi, nodi, ipotesi: la struttura a rete dell’antropo-poiesi

Il capitolo I è stato concepito come un’introduzione generale alla problematica dell’antropo-poiesi, la quale scaturisce quasi inevitabilmente da un certo modo di intendere il concetto antropologico di cultura. Questo secondo capitolo è stato progettato invece come una mappa, nella quale troveremo esplicitate tesi, presentate tematiche, individuati nodi, formulate ipotesi. Anche la nozione di antropo-poiesi va trattata come la maggior parte dei concetti antropologici: essa è fondata su alcuni presupposti ed è costituita da diversi elementi; soprattutto, ha una struttura reticolare. Fin dalla prima edizione di Noi, primitivi (1990), si è cercato infatti di proporre i concetti antropologici come facenti parte di «reti di connessioni», in linea con il principio secondo cui l’antropologia è un sapere trasversale (Remotti 2009: 203-212). Sono necessari però a questo punto due avvertimenti. Il primo è che le connessioni si diramano in una molteplicità di direzioni, mentre ciò che possiamo fare con la scrittura è soltanto una successione lineare di argomenti. Il secondo è che le connessioni sono non soltanto di tipo teorico, ma anche di ordine etnografico. Qui – come in altri scritti antropologici – le idee trovate dagli etnografi nei loro campi di ricerca sono considerate alla stregua delle teorie che le scienze umane e sociali svolgono o illustrano nei loro libri e nei loro trattati. Si scoprirà che, a proposito di antropo-poiesi, le società via via considerate hanno molto da suggerirci: persino, in certi casi, ci aprono letteralmente gli occhi. 1) Terminologia. “Antropo-poiesi” fa parte di una famiglia di termini e di espressioni ruotanti attorno all’idea di formazione e quindi di genesi dell’essere umano. Il termine più vicino è quello di “antropo-genesi”, al quale si possono attribuire diversi significati. ­­­­­33

In un testo recente, a cura di Antonio Pavan ed Emanuela Magno (2010), ad antropo-genesi viene conferito un significato amplissimo, mentre di solito “antropo-genesi” viene fatta coincidere con il processo di ominazione (per esempio in Swaab 2011: 14, 425): in questo senso Edgar Morin utilizza l’espressione “antroposocio-genesi” (1994). Antropo-poiesi e antropo-genesi richiamano dunque un processo formativo coincidente con l’accidentato “cammino verso l’umanità” di cui ci parlano i paleo-antropologi (Klein 1995). È significativo che anche ricorrendo al concetto di evoluzione si intraveda un “operare” di fattori che mettono capo alla formazione dell’umanità, a partire – come di solito fanno i paleo-antropologi – dagli Australopitechi africani. Così, per esempio, l’antropologo americano William W. Howells aveva scritto un manuale dal titolo suggestivo Mankind in the Making (Howells 1959) e, in anni più recenti, il paleo-antropologo kenyano Richard E. Leakey, figlio di Louis e Mary Leakey, aveva pubblicato The Making of Mankind (Leakey 1981). Ma se si tratta in qualche modo di un “fare”, è però opportuno precisare che l’evoluzione, di cui saremmo il frutto, non è «una solitaria marcia di progresso culminante nella perfezione» di Homo sapiens, quasi fossimo il punto terminale di una storia lineare, rappresentabile come «una freccia puntata dritta verso di noi» (Pievani 2011: 49, 23), bensì il risultato di un’interazione di fattori contingenti, di un’evoluzione che simile a un cespuglio si ramifica in una pluralità di direzioni. Un’altra precisazione è però indispensabile, ed è – come già si è appreso dal capitolo I – l’incidenza insopprimibile della cultura nella stessa evoluzione biologica dell’uomo. Ciò premesso, antropo-poiesi e antropo-genesi vengono qui applicate sul piano dell’ontogenesi (quindi della formazione dell’essere umano come individuo o come persona), piuttosto che sul piano della filogenesi (formazione della specie). La struttura della teoria antropo-poietica parte dunque dal presupposto che, anche sotto il profilo ontogenetico, gli esseri umani abbiano da essere costruiti e plasmati e che, in un certo senso, nella loro vita non conoscano una sola nascita, quella biologica. Questo, almeno, è ciò che pensano molte società. Tra filogenesi e ontogenesi, tra specie e individuo, è bene inserire infatti un ulteriore livello, che è quello della società: potremmo parlare perciò di socio-genesi (Morin) o – come è stato proposto da Stefano Allovio (2002: 136) – di “koino-poiesi”. ­­­­­34

2) Fonti. Da dove è spuntato il concetto di antropo-poiesi? L’ho esposto ufficialmente per la prima volta nel 1996, e precisamente nell’Introduzione a Le fucine rituali (Allovio e Favole 1996; Remotti 1996a). È stato poi presentato in sede internazionale in occasione del convegno La fabrication de l’homme dans les cultures et l’anthropologie del 15-16 dicembre 1997 (Università di Losanna) e adottato dal gruppo di ricerca di cui facevano parte Francis Affergan, Silvana Borutti, Claude Calame, Ugo Fabietti, Mondher Kilani, Francesco Remotti (Calame e Kilani 1999). Antropo-poiesi – parola composta dalla combinazione dei sostantivi greci anthropos (l’essere umano) e poiesis (produzione, fabbricazione, dal verbo poiein, fare, fabbricare, modellare) – nasce dalla convergenza di tre fattori: a) il paradigma “costruttivistico”, così diffuso nelle scienze umane e sociali, il quale utilizza idee come costruzione, invenzione, immaginazione, finzione; b) l’ideologia mediante la quale molte società indagate dagli etnografi interpretano i loro rituali di iniziazione, ruotante anch’essa attorno all’idea di costruire o generare esseri umani («che il nostro viaggio generi degli uomini» – così i baNande del Nord Kivu concepiscono il loro olusumba [vedi capitolo VI]); c) la teoria dell’incompletezza originaria dell’essere umano, esposta nel capitolo I, approfondita in uno scritto precedente (Remotti 2011: cap. V) e su cui avremo modo di tornare più volte. Partiamo dall’idea del generare, come tra gli altri ci suggeriscono i baNande. 3) Quante nascite? La nascita di un essere umano è ovviamente collegata al parto. Per “noi”, almeno, “nascere” coincide con il momento in cui un individuo esce dal grembo materno e si affaccia al mondo; per noi occidentali è a partire da quel momento che si cominciano a contare, per esempio, i mesi e gli anni di vita del nuovo essere e ad attribuirgli un nome. Si può facilmente presumere che nessuna società sia in grado di prescindere del tutto da questo evento. Ma l’idea di nascita, e più precisamente di nascita di un essere umano, può subire alcune trasformazioni significative. Si può ritenere infatti che gli esseri umani nascano più volte, in questa vita, distinguendo così da un lato la nascita biologica e dall’altro un diverso tipo di nascita. Per esempio, nell’India antica, la cerimonia upanayana consiste nell’introdurre il ragazzo presso il precettore; quest’ultimo lo trasforma in un embrione, ­­­­­35

conservandolo – si dice – per tre notti nel suo ventre (una sorta di gestazione); al terzo giorno il giovane viene fatto rinascere nella condizione di brahmano (1974: 81-82). Per questo egli viene chiamato dvi-ja (o dviyati), “due volte nato”. 4) Antropo-genesi. Il problema che subito si pone è: “a che cosa si nasce?”, “che cosa si diventa” a seguito di un’ulteriore nascita? Occorre infatti distinguere, oltre alla nascita biologica, vari tipi di “nascite” successive in base al prodotto che esse generano. L’espressione “antropo-genesi” si riferisce alle nascite che mettono capo a “esseri umani”, intendendo con ciò che vi possono anche essere nascite che generano qualcosa d’altro, di più o di meno che esseri umani. 5) Riti antropo-genetici. Dall’esempio indiano riportato più sopra si comprende immediatamente che una seconda nascita (oltre a quella biologica) consiste per lo più in un rituale. La prima nascita è soprattutto un processo fisiologico: la cultura interviene a interpretarlo e a organizzarlo; ma, per quanto possano esserne condizionati (e persino alterati), i meccanismi fisiologici rappresentano fattori dinamici imprescindibili. Le nascite successive, a cui è eventualmente sottoposto un individuo, sono invece di tutt’altra natura: non fisiologica, ma sociale. Anche qui vi è un “processo”, un concatenarsi di eventi e un succedersi di fasi. Ma tale processo è letteralmente inventato, costruito, “finto”. «Si dice», per esempio, che nel rito upanayana il precettore trasforma il ragazzo in embrione (1974: 81). Appunto, «si dice»; non si constata. Secondo Eliade (1974: 82), è probabile che questa idea della “doppia nascita” (biologica e sociale) sia stata suggerita dalla doppia nascita degli uccelli: prima la fuoriuscita delle uova dal grembo della genitrice, poi il loro dischiudersi (come sarebbe, per esempio, attestato dai Kavirondo del Kenya, i cui iniziandi sono assimilati a pulcini che escono dalle uova). Ma, mentre nel caso degli uccelli le due fasi sono interamente biologiche, nel caso degli umani la seconda nascita è esclusivamente culturale. Non è un processo che avviene nella natura, a cui gli uomini assistono in modo più o meno passivo; è invece un processo che ha luogo nella società e, per quanto ispirato a certi eventi naturali, è del tutto programmato e costruito con mezzi culturali. ­­­­­36

6) Antropo-genesi e antropo-poiesi. La seconda nascita è dunque sociale. E tuttavia, un conto è dire che la seconda nascita è un evento, un qualcosa che deve avvenire, che deve verificarsi in un certo periodo dell’esistenza degli individui; un altro conto è sostenere che sono gli uomini stessi a “fabbricare” – con la seconda nascita – altri esseri umani. La prima prospettiva (che chiameremmo “antropo-genesi”) si limita semplicemente ad affermare che uomini e donne (ma più spesso gli uomini) hanno da nascere o ri-nascere socialmente; lascia tuttavia impregiudicata la questione di chi interviene per far nascere socialmente uomini e donne adulti. La seconda prospettiva (che potremmo più precisamente designare con “antropo-poiesi”) sottolinea invece il tema del “fare”, “costruire”, “fabbricare” esseri umani. Il presupposto comune a entrambe le prospettive è che gli esseri umani hanno da nascere una seconda volta; ma “antropo-genesi” è maggiormente rivelativa dell’inevitabilità della seconda nascita, mentre “antropo-poiesi” pone in luce soprattutto il momento della “fabbricazione” e quindi anche dell’“invenzione” e della “finzione”. In entrambe le prospettive rimane impregiudicata la questione delle entità a cui si è disposti ad attribuire l’incarico (e la responsabilità) della “generazione” e della “formazione”: entità sacre, divine o comunque extra-umane, oppure entità e processi rigorosamente umani? 7) Finzioni. Questo “far nascere” una seconda volta, che cos’è? È forse tutta una fandonia? Una presa in giro, da attribuire magari a ignoranza, a superstizione? Una credenza senza fondamento? Un’illusione o un’auto-illusione, dovuta alla fede in entità sovraumane oppure a una sorta di super-valutazione dei poteri degli uomini di una società? “Si dice” (ancora una volta) di poter “trasformare”, di “far nascere” esseri umani compiuti. Ma questo «“fare” l’uomo» (1974: 89) è poi davvero nei poteri degli esseri umani o non si tratta piuttosto di un’auto-esaltazione per così dire “umana, troppo umana”? Una sorta di hybris antropo-poietica (su cui avremo modo di tornare insistentemente nel capitolo V)? Troviamo espresso questo dubbio nel testo più volte citato di Eliade: «l’esistenza puramente biologica è una scoperta recente nella storia dell’umanità; scoperta resa possibile proprio dalla desacralizzazione radicale della Natura» (1974: 89). ­­­­­37

8) Modernità/tradizioni. Secondo Eliade, nell’epoca moderna l’uomo avrebbe proceduto all’estirpazione delle idee di sacro che da sempre avrebbero avvolto la sua visione del mondo e della vita. Questa desacralizzazione avrebbe reso possibile una «scoperta», quella dell’«esistenza puramente biologica dell’uomo». Nell’epoca moderna, l’uomo non procede dunque a “inventarsi” una seconda nascita; accetta invece, realisticamente, di nascere una sola volta. L’uomo moderno, con la “scoperta” del suo essere biologico, fa fuori (secondo Eliade) i riti “antropo-genetici” o “antropo-poietici”, cioè quei riti che (si presume) fanno nascere o fabbricano gli autentici esseri umani, e che nella letteratura etno-antropologica vengono di solito definiti riti di iniziazione. Orbene, «è stato spesso affermato che una delle caratteristiche del mondo moderno è la scomparsa dell’iniziazione», ovvero la scomparsa dell’idea che con l’iniziazione (rituali antropo-genetici e/o antropo-poietici) si dia luogo a una «modificazione radicale», a una «mutazione ontologica» dell’essere umano, in base a un’«immagine» di umanità che verrebbe fatta conoscere e trasmessa durante tali riti (1974: 9-10). Sarebbe tipico invece delle società pre-moderne ritenere che «l’uomo è [...] fatto» ritualmente e che non è sufficiente la nascita biologica per accedere all’umanità. Anzi, «la seconda nascita, iniziatica, non ripete la prima, biologica»: si tratta infatti di un processo del tutto diverso, il quale per “fare l’umanità” si ispira a un «canone esemplare e transumano» (1974: 14). 9) Critica di Eliade. Sarà bene prendere subito le distanze da questo modo di intendere i rituali di iniziazione (antropo-genetici o antropo-poietici che siano), in quanto fa ricorso a categorie non più accreditabili in antropologia, come quella generica delle “società pre-moderne” o di un insostenibile «pensiero arcaico» (1974: 14). Da tempo l’antropologia ha ormai abbandonato categorie così ampie e uniformizzanti, almeno dal momento in cui si è resa conto delle “differenze” che possono intercorrere (come in effetti è) tra società troppo disinvoltamente considerate “primitive”, “arcaiche” ecc. In particolare, lo schema di Eliade (società moderna da un lato // società pre-moderne dall’altro) non è più condivisibile, dal momento in cui si riconoscono differenze sostanziali nella categoria delle società pre-moderne (PM) – differenze che fanno ­­­­­38

esplodere tale categoria – e nel contempo ci si rende conto che, per le stesse ragioni, si attenua (fino a scomparire) l’opposizione M//PM (modernità // pre-modernità). Lo schema di Eliade attribuiva una fondamentale caratteristica di sacralità al mondo PM: le società tradizionali, o pre-moderne, sarebbero – secondo lo storico delle religioni – immerse in un’atmosfera sacrale, per cui (per esempio) i modelli di umanità, che i riti di iniziazione si incaricano di trasmettere e far valere, sarebbero dovuti non all’invenzione degli stessi uomini, bensì a «ciò che è stato [...] rivelato all’inizio dei tempi dagli Esseri soprannaturali» (1974: 14). Questo “fare l’umanità” (antropo-poiesi) o questa “seconda nascita” (antropogenesi) sarebbero dunque non già un lavoro degli uomini, bensì un’«opera divina, creata dalla potenza e dalla volontà degli Esseri sovrumani». Nella modernità (M) tutto ciò scomparirebbe: verrebbe meno il principio del “fare l’umanità” come opera divina, sostituito dall’idea di un “essere” umano sostanzialmente biologico, in quanto verrebbe meno la sacralità PM. La modernità (M) è de-sacralizzazione, e la de-sacralizzazione si porta via, con il sacro, anche i rituali antropo-genetici e antropo-poietici. In Eliade (è bene notare) antropo-genesi e antropo-poiesi sono idee o modelli sempre impregnati di sacro: la seconda nascita o la fabbricazione dell’umanità sarebbero dovuti non ad azioni “culturali”, ma ad azioni “cultuali”. Ebbene, occorre sciogliere queste connessioni troppo strette ed esclusive, liberandosi in primo luogo dello schema PM//M, che imbriglia come una prigione intellettuale ogni considerazione antropologica relativa a idee di antropogenesi o di antropo-poiesi (Remotti 1999). 10) Antropo-genesi e antropo-poiesi: ideologia o necessità ineludibile? Che i temi antropo-genetici e antropo-poietici siano suscettibili di una forte ideologizzazione è dimostrato, oltre che dalle riflessioni di Eliade a cui si è fatto riferimento, dalle numerose ricerche in campo etnologico. È importante sottolineare, sotto questo profilo, come molto spesso l’ideologia antropo-poietica assuma l’aspetto di un’opposizione di “genere” (maschile contro femminile). Ma il problema fondamentale è se le idee antropogenetiche e/o antropo-poietiche (a) rispondano a una necessità ineludibile e fondamentale oppure (b) non siano altro che “fandonie” (“finzioni” nel senso deteriore del termine) propalate per ­­­­­39

difendere e avvalorare un certo tipo di potere (quello degli uomini sulle donne e quello degli adulti sui giovani). Nel primo caso, antropo-genesi e antropo-poiesi (pur impregnate di ideologia e di “finzionalità”) rimanderebbero a una problematica ancora più complessa e profonda di quella – pur già rilevante – dei conflitti tra sessi e tra generazioni; nel secondo caso, antropo-genesi e antropo-poiesi avrebbero un mero significato ideologico, di cui in definitiva sarebbe bene liberarsi. 11) Antropo-poiesi irrinunciabile. Se antropo-genesi e antropopoiesi non fossero altro che strumenti o finzioni ideologiche per stabilire il dominio dei maschi sulle donne e degli adulti sui giovani (ipotesi b), esse potrebbero essere scartate, qualora si volesse ricorrere ad altri mezzi o qualora quei tipi di conflitto perdessero la loro importanza. La loro sostituzione verrebbe determinata o da un mutamento culturale (altri strumenti di lotta e di potere) o da un mutamento sociale (altri tipi di società in cui non sia più rilevante l’opposizione tra i sessi o tra le generazioni). La prima ipotesi che abbiamo avanzato nel punto 10 (l’ipotesi a) riguarda invece una problematica che si addentra a livelli assai più profondi e in modi ancor più inquietanti nell’essere umano. L’ipotesi a (quella dell’irrinunciabilità o imprescindibilità dell’antropopoiesi) richiama infatti una prospettiva che coinvolge sia la realtà culturale e sociale, sia la realtà biologica dell’uomo. Tale prospettiva è stata per lo più definita in termini di “incompletezza” o di “carenza originaria”. 12) L’uomo come essere incompleto. In pensatori come Blaise Pascal (1623-1662) da un lato e Giambattista Vico (1668-1744) dall’altro si possono rintracciare i presupposti di questa teoria. Pascal aveva gettato un forte dubbio sul carattere roccioso della natura umana: mutamento, variabilità, molteplicità sono caratteri che ineriscono radicalmente alla realtà dell’uomo. Vico, dal canto suo, aveva posto in luce il carattere “indefinito” della natura umana, sprovvista in quanto tale di strutture o di regole proprie. Come già aveva asserito Michel de Montaigne (1533-1592), l’essere dell’uomo si realizza attraverso i costumi e le consuetudini che lo attorniano socialmente: essi non si depositano sopra a una struttura precostituita; al contrario, l’essere stesso dell’uomo richiede l’intervento dello strato esteriore e sociale dei costumi. Ciò ­­­­­40

che Montaigne e Pascal chiamano “costumi” in Johann Gottfried Herder (1744-1803) diventa “cultura”. E la cultura – intesa in senso estremamente ampio (in modo molto simile alla concezione antropologica di un secolo dopo) – interviene dall’“esterno”, socialmente, a colmare il «vuoto», le «lacune e manchevolezze» che contrassegnano la natura umana (Remotti 2009: 142). Herder procede infatti a un confronto tra l’uomo e gli altri esseri animali, e ne deduce che sul piano meramente organico l’uomo risulta essere l’animale più «inerme», più disarmato, con «facoltà indeterminate» e con «istinti languidi», «privo di ogni guida nella vita». Questo tema dell’uomo come animale incompiuto riemerge nella seconda metà dell’Ottocento nella filosofia di Friedrich Nietzsche e nel Novecento nell’antropologia filosofica di Arnold Gehlen, il quale provvede a ricostruire questa genealogia di pensiero a partire da Herder (Gehlen 2010: 123-125). Nell’antropologia culturale, soprattutto Clifford Geertz, riprendendo il tema dell’uomo come animale “difettoso” o “incompiuto” sul piano biologico (incapace di garantire la propria sopravvivenza facendo conto soltanto sulle proprie risorse organiche), interpreta la cultura non già come un abbellimento, né come un’aggiunta che garantisca un maggiore conforto o un maggiore vantaggio, bensì come un’integrazione indispensabile alla stessa sopravvivenza biologica dell’essere umano. 13) La cultura che dà forma all’uomo. Comunque venga intesa, ovvero sia come apparato strumentale sia come apparato simbolico, la cultura contribuisce a modellare profondamente un essere che si presenta come organicamente incompleto. L’incompletezza organica richiede e sollecita l’intervento della cultura, facendo sì che essa sia il fattore di “formazione” e “de-formazione” dell’uomo: «l’uomo [...] non può sottrarsi a questa cultura che forma e deforma: la tradizione giunge a lui e forma la sua testa e modella le sue membra. A seconda di come è quella e di come queste si lasciano formare, l’uomo diventa in un certo modo, assume una certa figura» (Herder 1992: 159). 14) Herder e la prospettiva antropo-poietica. Come si vede, verso la fine del Settecento Herder aveva già formulato in gran parte i temi di una prospettiva antropo-poietica. Dal tema della carenza originaria scaturisce l’esigenza della cultura come fattore ­­­­­41

che colma le lacune e, nello stesso tempo, “dà forma” (ma anche inevitabilmente “de-forma”, nel senso che dà una forma particolare) all’essere umano. La cultura è chiaramente definita da Herder «questa seconda genesi dell’uomo, che dura per tutta la vita» (1992: 158, corsivo nostro): l’uomo nasce biologicamente, ma poi per tutta la sua vita ha da generarsi e completarsi affidandosi alla cultura in cui incidentalmente viene a vivere. La cultura è quindi per Herder direttamente “antropo-genetica”: dà forma e figura all’uomo, lo fa “essere”, anzi lo fa “diventare” un certo particolare tipo di uomo. «Noi non siamo ancora uomini, ma lo diventiamo ogni giorno» (1992: 160). In questo modo Herder sottolinea non solo l’irrinunciabilità del compito antropo-genetico (la “seconda genesi”, la “seconda nascita”), ma anche il suo carattere diuturno, continuo, incessante, non essendo necessariamente concentrato in un rituale apposito (i rituali di iniziazione di Eliade, per esempio). Tutti i giorni, in ogni momento, in qualunque circostanza, l’uomo è impegnato in un processo antropo-genetico, che è anche inevitabilmente antropo-poietico. «In tutte le condizioni e in tutte le società, l’uomo non ha potuto aver altro disegno, non ha potuto costruire altro che l’umanità, comunque la intendesse» (1992: 289, corsivo nostro). Secondo la teoria di Herder, il compito antropopoietico è dunque irrinunciabile, sovrastante, globalizzante, infiltrante, pervasivo, decisivo, ancorché (potremmo anche aggiungere) non sempre consapevole. Ed è un compito che, proprio perché continuo e quotidiano, non è originariamente affidato ad “altri” che non sia la “cultura” umana. Inoltre, essendo un compito affidato alla cultura, a una qualunque forma di cultura locale, esso conserva inevitabilmente un carattere di irriducibile arbitrarietà e di contingenza («l’uomo prende forma a seconda delle mani in cui cade», ovvero a seconda dei «modelli» della forma di vita locale in cui gli capita di vivere [1992: 160]). L’effetto dei vari, continui e infiniti processi antropo-genetici o antropo-poietici in cui l’uomo è coinvolto risulta essere non già l’unità, bensì la molteplicità e l’eterogeneità dei tipi di umanità: non esiste da qualche parte sicura l’uomo, un’unica e stabile forma di umanità (l’isola della verità di Kant), esistono invece gli uomini (1992: 156); non l’umanità nella sua interezza e integralità, bensì soltanto le sue particolari forme di vita, caratterizzate dunque da progetti antropo-poietici distinti, ­­­­­42

presumibilmente divergenti, talvolta opposti, forse anche in certi casi incompatibili. 15) Considerazioni biologiche. Le tesi antropo-poietiche qui sopra esposte non costituiscono soltanto argomenti di riflessione filosofica o di un’antropologia inguaribilmente teorica. Clifford Geertz, in particolare, aveva provveduto negli anni Sessanta del Novecento a collegare la tradizione di pensiero più sopra evocata (la teoria dell’uomo come animale incompleto) alle più recenti scoperte e conclusioni della paleo-antropologia per un verso e della neurologia per l’altro (Geertz 1987). Decisiva è la scoperta, da questo punto di vista, della preesistenza della cultura allo sviluppo del cervello tipicamente umano. È indubbio che il cervello costituisca il fattore fondamentale della cultura propriamente umana: «il cervello umano di tipo moderno» (quello di Homo sapiens sapiens) è ciò che ha consentito «il pieno sviluppo in senso moderno della cultura» (Klein 1995: 269). Ma il cervello è a sua volta un prodotto culturale, in quanto «la maggior parte dell’espansione corticale umana ha seguito, non preceduto, l’“inizio” della cultura» (Geertz 1987: 110). A conferma di questa tesi, Geertz ricorre all’opinione di antropologi fisici, come Sherwood Washburn, per il quale è assai più corretto concepire la maggior parte della struttura umana «come risultato della cultura», piuttosto che pensare a una progressiva acquisizione della cultura da parte di esseri anatomicamente simili agli uomini attuali (1987: 113). Il cervello e in generale il sistema nervoso dell’organismo umano richiedono un ambiente sociale e culturale per poter funzionare. Ancora una volta, la conferma di questo tipo di prospettiva può essere ottenuta ricorrendo a studiosi del versante naturalistico, a neurologi e a fisiologi. Come afferma Jean-Jacques Dreifuss, in un libro collettivo intitolato significativamente L’homme inachevé (“L’uomo incompiuto”), alla nascita di ogni essere umano «il cervello è ancora molto immaturo»: i neuroni non hanno ancora portato a termine la loro crescita; i prolungamenti che ne stabiliscono i contatti non sono ancora stati completati e non sono ancora ricoperti dalla mielina che più tardi assicurerà «una propagazione accelerata dell’informazione nervosa» (Dreifuss 1987: 55). Lo stesso fisiologo aggiunge che «questa “rifinitura” tardiva» è ciò che consente alle prime esperienze vissute dal soggetto di influire ­­­­­43

sull’espressione del programma genetico, nello stesso tempo in cui conferisce un ruolo decisivo all’apprendimento del linguaggio e in generale all’ambiente sociale. 16) Rifiuto del determinismo biologico e del determinismo culturale. Nella prospettiva dell’uomo come animale incompleto, è evidente il rifiuto di forme accentuate di determinismo biologico, secondo le quali il senso della realtà umana sarebbe già dato e contenuto nella sua organizzazione genetica: l’uomo si “completa” (si fa, diventa) grazie alla società e alla cultura. Ma nella prospettiva antropo-poietica è altrettanto importante il rifiuto del determinismo culturale. La tesi di Steven Rose (un neurobiologo), di Richard Lewontin (un genetista), di Leon Kamin (uno psicologo) – secondo cui «l’unica cosa ragionevole che si possa dire sulla natura umana è che è “insito” in essa costruire la propria storia» (Rose, Lewontin, Kamin 1983: 51, corsivo nostro) – è rivolta non solo contro il determinismo biologico, ma anche contro quello culturale. Allo stesso modo in cui «gli organismi costruiscono i propri ambienti» a partire da elementi che via via si rivelano importanti, così gli individui costruiscono di volta in volta i loro ambienti sociali e culturali, sottoponendoli a un «continuo processo di riorganizzazione e di ridefinizione» (1983: 279-282). Come non esistono ambienti già dati (essendo l’ambiente definito dall’interazione con gli organismi), così sarebbe errato entificare società e culture, facendone entità aventi «un’esistenza indipendente, al di sopra e al di fuori delle singole persone»: esse sono invece «una loro creazione» (1983: 294). Questi autori non intendono liberarsi dai vincoli del determinismo biologico per cadere nelle trappole del determinismo culturale: una libertà guadagnata sul piano biologico e subito perduta sul piano sociologico. Intendono invece sottolineare il grado di “libertà” biologica e sociale che caratterizza i processi antropo-poietici in cui gli esseri umani sono costantemente coinvolti: «la nostra biologia ci ha trasformato in creature che ricreano costantemente i propri ambienti psichici e materiali, e le cui vite individuali sono il risultato di una straordinaria molteplicità di vie causali che si intersecano. In conclusione è proprio la nostra biologia a renderci liberi» (1983: 297, corsivi nostri). 17) Capacità di auto-plasmazione (auto-poiesi) e grado di libertà. Un testo come quello di Rose, Lewontin e Kamin non può non ­­­­­44

interessare a una prospettiva antropo-poietica. Se l’uomo ricrea costantemente i suoi ambienti materiali e culturali e se da questi ambienti interattivi dipende in gran parte la “rifinitura” o il “completamento” di cui esso ha bisogno, se ne deduce che la rimodellazione continua dell’ambiente è anche una plasmazione continua di se stesso. L’uomo si “fa”, si “costruisce”, nello stesso tempo in cui rimodella i propri ambienti. Presupposto della prospettiva antropo-poietica è un certo grado di “libertà” di cui l’essere umano dispone nella sua auto-poiesi. E il tema della “libertà” – l’essere in qualche modo consegnati a se stessi – è assolutamente centrale. Infatti: 1) fino a che punto l’uomo è “libero” nel plasmare se stesso? 2) La libertà antropo-poietica può essere intesa come segno di grandezza dell’essere umano (come, per esempio, nell’umanesimo e nel rinascimento), ma anche come segno della sua miseria, della sua indigenza (l’uomo è «condannato ad essere libero», per l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre [1965: 534]). 3) Libertà significa anche, infatti, “mancanza” di modelli fissi, predeterminati, assolutamente certi, e pone quindi da subito il problema della “reperibilità” dei modelli di umanità: se l’uomo ha da costruire se stesso, dove può reperire i modelli mediante cui darsi una forma? 4) Ciò significa che alla base di ogni processo antropo-poietico vi è comunque un discorso o un’immagine antropologica. I modelli di umanità – da inventare, da realizzare o da applicare, o a cui ispirarsi – implicano che “si dica” o “si pensi” qualcosa sull’uomo, che si elabori una qualche antropologia. 5) I modelli di umanità sono indubbiamente prodotti culturali (“finti”, “inventati”). Ma ammettere che essi sono frutto di finzione o di invenzione (prodotti meramente culturali) significa indebolirne radicalmente l’efficacia. È quindi presumibile che con una certa frequenza si propenda a dotare tali modelli di una consistenza e indipendenza autonoma, rinnegando la libertà originaria grazie alla quale sono stati costruiti (Sartre parla di mascheramento della libertà [1965: 534]), e considerando gli stessi modelli come dovuti all’azione e all’imposizione di “altri” (spiriti, antenati, divinità, natura ecc.). 18) Ineludibilità dell’ideologia. Come si vede, la componente ideologica è ineludibile nei processi antropo-poietici, e ciò in una molteplicità di significati. 1) La componente ideologica è presente fin da subito nel discorso antropologico, nelle antro­­­­­45

pologie esplicite o implicite che ineriscono a qualsiasi processo antropo-poietico, nella misura in cui si tratta in primo luogo di “inventare” precisamente modelli di umanità, i quali di per sé non sono preventivamente reperibili da alcuna parte. 2) Una componente ideologica è poi presente nell’attribuzione di un qualche statuto ai modelli di umanità, in una loro eventuale entificazione, solidificazione, de-storificazione, con conseguente riduzione o “mascheramento” della libertà originaria. Questa può essere chiamata l’ideologia della de-responsabilizzazione, dell’attribuzione ad “altri” fuori di “noi” della responsabilità di quanto si sta producendo – in termini antropo-poietici – presso di “noi”. Questa ideologia si può spingere (e in effetti si spinge) fino alla negazione della stessa antropo-poiesi, dei suoi presupposti e quindi delle sue implicazioni. 3) Una componente altrettanto ideologica può essere riconosciuta infine nell’atteggiamento opposto, quello per il quale la libertà originaria viene esaltata e la capacità di plasmazione sovra-valutata. Si ha l’impressione che proprio questo possa avvenire nei rituali di “costruzione dell’umanità” in cui, mentre si fanno degli uomini, si provvede anche a definire e ristabilire certi tipi di potere (quello degli uomini sulle donne e quello degli adulti sui giovani). 19) Fecondità dell’ipotesi antropo-poietica. Le due ipotesi avanzate al punto 10 (a: antropo-poiesi come compito costruttivo a cui non ci si può sottrarre // b: antropo-poiesi come inganno e fandonia, come finzione nel senso deteriore del termine) sono dunque conciliabili. Ma sono conciliabili solo a partire dalla ipotesi a. Se si assumesse per buona e prioritaria l’ipotesi b (antropopoiesi come fandonia), non si arriverebbe a recuperare l’ipotesi a: le società appaiono inevitabilmente come luoghi di conflitti e le affermazioni “antropo-poietiche” si configurano soltanto come rivendicazioni o legittimazioni ideologiche di un potere strappato o imposto ad altri. In effetti, come negare tutto ciò? L’ipotesi a ha però il pregio di poter rendere conto anche di ciò di cui si occupa l’ipotesi alternativa: se si sceglie come prioritaria l’ipotesi a si perviene agevolmente ai contenuti dell’ipotesi b. Infatti, partendo dall’idea che l’uomo ha da affrontare costantemente il compito di reinventarsi (punto 14 – Herder), si può facilmente capire come tale compito venga spesso affidato ad “altri”, ad altre “entità” ­­­­­46

umane, extra-umane o sovra-umane: sarebbe invivibile un’esistenza in cui il compito antropo-poietico fosse tenuto costantemente presente, di continuo e ad ogni istante. L’insostenibilità di un’antropo-poiesi continuativamente consapevole induce inoltre a concentrare tale compito in un periodo particolare, circoscritto, socialmente e culturalmente delimitato (i cosiddetti rituali di iniziazione o della “seconda nascita”). Tale compito può essere coniugato con altre istanze ed essere interpretato secondo linee di divisione e categorie che corrispondono a forme specifiche di potere (in base all’età, al sesso e così via). Non si diviene uomini o donne in modo neutro, pacifico, naturale; lo si diviene sempre in modo particolare, conflittuale, socialmente negoziato, culturalmente condizionato. L’antropo-poiesi è un processo a partire dal quale possono scaturire tutti gli aspetti – edificanti o aberranti – con cui gli umani danno forma al loro essere. Herder, grande teo­ rico dell’antropo-poiesi, intesa come «un esercizio che dura tutta la vita», aveva ben visto che «su questo si fonda tanto la perfettibilità che la corruttibilità del genere umano» (Herder 1992: 156). 20) Casualità, arbitrarietà, senso delle possibilità. Come si è detto sopra (punto 19), l’insostenibilità di un compito antropo-poietico continuo fa sì che ci si affidi ad “altri” (una forma di alienazione). In tal modo si attenua – direbbe Sartre (1965: 535) – «l’angoscia della libertà». Vi sono diverse vie per sfuggire al compito antropopoietico e all’enorme senso di responsabilità che esso comporta, attribuendo ad altre entità le direttive antropo-genetiche e i modelli antropo-logici: agli antenati, alla tradizione, alla storia, agli spiriti, alle divinità, ad altre società o semplicemente alla natura, giungendo (specialmente in questo caso) fino alla negazione che esista un tale compito. In una prospettiva antropo-poietica, le vie di cui sopra sono espedienti che provocano un ottundimento, un misconoscimento, una forte riduzione di possibilità, quasi un senso di necessità (“è così che si diviene uomini”). Il ricorso alla ritualità ha indubbiamente anch’esso un significato di decisa riduzione della molteplicità delle vie percorribili e dei modelli (o possibilità) alternativi: la ritualità produce infatti “indurimento” e “solidificazione” (Roumeguère-Eberhardt 1996). Ma un dato su cui occorre riflettere è l’insistenza del tema della “casualità”, dell’“accidentalità” e dunque di un’insopprimibile “arbitrarietà”, ­­­­­47

che affiora non appena si indaghi sulle origini dei rituali antropogenetici in molte società che Eliade, e con lui tanti altri, avrebbero definito pre-moderne: quasi a segnalare, proprio a chi si accinge a divenire “uomo” in un certo qual modo socialmente e culturalmente determinato, che “è così, ma potrebbe essere altrimenti”. Una conferma di questa incancellabile arbitrarietà originaria alla base di rituali antropo-poietici è rinvenibile, per esempio, presso i Dìì del Camerun (Muller 1996), i Gisu dell’Uganda (Heald 1996), i Kaliai della Nuova Britannia (Lattas 1996). Il compito antropopoietico è in effetti poco sostenibile, e questo spiega il ricorso ad agenti o entità extra-umani a cui addebitare il carico di responsabilità. Ma tale compito non è del tutto “alienabile” (conferibile ad “altri” rispetto a “noi”): una traccia almeno della “libertà” originaria, con cui si è provveduto a inventare i contenuti antropopoietici, è difficile che non venga conservata, prendendo la forma di un riconoscimento dell’arbitrarietà originaria. 21) Umorismo. Sembrerà strano; ma in faccende così serie, importanti e decisive, quali sono quelle fin qui descritte, vi sono società che non si esimono neppure dall’umorismo, specialmente quando si tratta di ricordare come siano nati i loro costumi e le loro istituzioni antropo-poietiche. Fa ridere il modo con cui i Dìì del Camerun – indagati da Jean-Claude Muller (1996) – spiegano l’origine della circoncisione. Una donna, andando in foresta, si imbatte casualmente in alcune scimmie cinocefale, mentre provvedono a circoncidersi. Trova che il pene circonciso è molto bello, e così persuade suo marito a farsi circoncidere da lei. Anche gli altri uomini ritengono che il pene dopo l’operazione divenga «più elegante»; ma uccidono la donna, al fine di conservare per sé il segreto per migliorare l’immagine della loro mascolinità (Muller 1996: 64). Fa pure ridere il modo con cui gli Ndembu dello Zambia, studiati da Victor Turner, raccontano le origini della circoncisione. Una donna va nella boscaglia con i suoi bambini; giocando in mezzo all’erba con gli steli taglianti, il loro prepuzio viene tagliato. La mamma corre con i bambini insanguinati nel villaggio, e qui gli anziani provvedono a rifinire questa sorta di casuale e accidentale circoncisione prodotta dall’erba tagliente, giudicando molto bello il risultato della loro operazione (Turner 1992: 188-189). In un altro testo (Remotti 1996b) abbiamo già ­­­­­48

provveduto a sottolineare come la dimensione umoristica – così tipicamente presente in molti racconti africani – apra spazi di riflessione ai soggetti, aumentando con la casualità il senso delle possibilità alternative. A imporre la circoncisione agli Ndembu o ai Dìì non c’è – come invece nella Bibbia ebraica – un perentorio e indiscutibile ordine divino («Vi farete recidere la carne del vostro prepuzio. E ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi» – Genesi 17, 11 [La Bibbia 1987: 28]). Per Ndembu e Dìì vi è al contrario un episodio umoristico, che consente oltre tutto di prendere le distanze dai propri rituali antropo-poietici. 22) Riflessioni e senso critico. È significativo perciò che gli stessi rituali – anziché proporsi soltanto come incanalamenti rigidi a certe forme specifiche di umanità – si configurino come “spazi di riflessione”, come momenti di “passaggio”, dunque di “crisi”, ma anche di riflessione critica su ciò che si sta attuando: una “finzione” di umanità, nel duplice senso che questo termine riveste. Da un lato, ci si accinge infatti a “costruire”, a “fabbricare”, a “modellare” esseri umani; dall’altro lato, e nello stesso tempo (avendo molto spesso affidato ad “altri” il compito antropo-poietico), si “finge” l’inevitabilità, la necessità o persino la sacralità (Eliade) del modello antropo-logico adottato. Vi è “ambiguità”, vi è “oscillazione” tra i due lati: la “costruzione” effettiva o la “messa in scena”. Ma, anche su questo punto, pare di poter concludere che la prospettiva antropo-poietica in senso forte (davvero si “costruisce” umanità, e non ci si limita ad una sua illusoria rappresentazione) sia in grado di comprendere entrambi i corni del dilemma o i lati della questione. Si è tenuti (si è condannati, come direbbe Sartre) all’antropo-poiesi e in questo senso si è costretti a “fingere” (a costruire, a modellare). Ma, data la sua difficile sostenibilità, questa “finzione” (costruttiva) se ne trascina dietro altre. Quali? 23) Altre finzioni. Proviamo a enumerare queste ulteriori finzioni: i) per esempio, far credere (“fingere”) che non siamo “noi”, ma sono “altri” (antenati, divinità ecc.) a provvedere al compito antropo-poietico; ii) far credere che ciò che si è “finto” (costruito, modellato) non sia un particolare tipo di umanità, bensì l’autentico modello di umanità; iii) ritenere che ciò che si fa o si “finge” ritualmente (il rito come messa in scena, come rappresentazione ­­­­­49

drammatica) sia davvero una “rinascita” (antropo-genesi) o una “fabbricazione” di umanità (antropo-poiesi); iv) dimenticare (fingendo, appunto) che «costruire [...] l’umanità» – secondo quanto affermava Herder (1992: 289) – è una faccenda che non solo riguarda tutte le società, ma si svolge «in tutte le condizioni», cioè non solo nei rituali che si definiscono antropo-poietici, ma anche negli aspetti più minuti della vita quotidiana, non solo nei momenti più esaltanti delle credenze e delle ideologie antropo-poietiche, ma anche nelle imprese più insensate e crudeli (dove non si fabbrica l’uomo, ma lo si distrugge). 24) Livelli e modi diversi di fare umanità: a) antropo-poiesi anonima, continua, inconsapevole. L’antropo-poiesi non si concentra soltanto nei rituali appositamente dedicati; essa prende avvio, prende forma e si svolge continuativamente nell’infinita serie di gesti, azioni, reazioni che costituiscono il flusso della vita individuale e collettiva. Sotto questo profilo, potremmo recuperare una tesi di David Le Breton: osservando che le «condizioni di esistenza [...] trasformano» di continuo l’essere umano, egli sostiene che «l’uomo non smette mai di nascere» (Le Breton 2005: 21). Occorre però distinguere tra il “flusso” antropo-poietico e le “forme” che si vengono a organizzare a partire dal flusso e che in una certa misura lo rallentano. Potremmo dire che gli habitus così spesso evocati dagli antropologi – dietro suggerimento di Pierre Bourdieu – sono concrezioni di forme di umanità. Del resto, i costumi – nozione su cui ci siamo già soffermati nel capitolo I – che cosa sono, se non simulacri di umanità che si vengono a formare addosso agli esseri umani, senza un esplicito progetto antropopoietico, bensì a seguito di frequentazioni sociali, abitazioni (nel senso frequentativo dell’abitare) e – se è lecito dire così – “abituazioni” (Remotti 1993: 30-36)? Potremmo sostenere – prendendo spunto da Edward Sapir – che nel flusso comportamentale si formano “derive” antropo-poietiche, movimenti non voluti o programmati, che tuttavia conducono verso la formazione di “tipi” di umanità in qualche modo riconoscibili. In mezzo alla molteplicità indescrivibile di azioni e di eventi, di fattori e di condizioni in cui gli esseri umani si muovono, agiscono forze di relativa “coerentizzazione” e di relativo, reciproco “assomigliamento”, le quali provocano dunque certe uniformità tipologiche. Potremmo ­­­­­50

forse spingerci fino al punto di utilizzare una metafora quanto mai famosa, quella di una mano impersonale e inafferrabile, che modella in modo tacito e subdolo menti, corpi, comportamenti: una invisibile mano antropo-poietica. 25) Livelli e modi diversi di fare umanità: b) antropo-poiesi programmata, discontinua, consapevole. Esiste poi un altro modo di fare umanità, ossia quello di assumere esplicitamente il compito antropo-poietico, tentando di realizzarlo in contesti, luoghi e tempi designati. Si passa in questo modo da modalità perlopiù inconsapevoli a una consapevolezza assai pronunciata, così come si passa da una modalità continua a una programmazione che prevede invece periodiche interruzioni di ciò che possiamo chiamare il “tran tran” quotidiano dell’antropo-poiesi, una sorta di laissez faire antropo-poietico anonimo, silenzioso, (almeno apparentemente) non programmato, e tuttavia dotato di una notevole efficacia. Se esiste questa mano invisibile, e particolarmente efficace proprio perché invisibile, la teoria dell’antropo-poiesi non può non porsi il problema del perché si debbano investire tempo e risorse, sacrificare normalità di vita e serenità di crescita, spesso in misura considerevole, per programmi antropo-poietici che assumono l’aspetto di riti drammatici, con tutta la loro teatralità e finzione (v. punto 7), accompagnati quasi sempre da prove molto dolorose. 26) Eterogeneità e contrasto tra le due modalità antropo-poietiche. Abbiamo dunque distinto, a proposito di antropo-poiesi, un livello a) e un livello b). In base alle caratteristiche individuate (antropo-poiesi anonima, continua, inconsapevole per il livello a e antropo-poiesi programmata, discontinua, consapevole per il livello b), possiamo ritenere che si tratti di due tipi formalmente e radicalmente diversi di antropo-poiesi, aventi inoltre funzioni e contenuti diversi. Il primo tipo di antropo-poiesi può essere definito un continuo e ininterrotto modellamento che i soggetti subiscono o a cui si adeguano per il semplice fatto di essere immersi nel flusso della vita sociale; il secondo tipo di antropo-poiesi è invece costituito da un “sapere” antropo-poietico, a cui si accede grazie all’esperienza critica dei rituali di iniziazione. Il tipo b di antropo-poiesi è infatti costituito da sradicamento rispetto al flusso antropo-poietico quotidiano, sua interruzione e allontana­­­­­51

mento anche fisico, collocazione degli individui in contesti diversi da quelli della quotidianità, affrontamento di prove molto spesso dolorose, inevitabile costrizione a riflettere sul flusso di prima e, all’opposto, sulla “crisi” di cui si fa esperienza. Nel capitolo VI, utilizzando Victor Turner (1992) e Stefano Allovio (2009), illustreremo soprattutto il punto dell’acquisizione della consapevolezza in riferimento al rituale olusumba dei baNande del Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo). Qui ci limitiamo a sostenere che il sapere acquisito attraverso l’esperienza di tipo b consiste – per riprendere Turner (1992: 138) – nello spezzare «la crosta del costume», nell’incrinare con il dolore il senso di finta naturalità delle forme di umanità fatte proprie e interiorizzate con il modellamento continuo, quotidiano e inconsapevole di tipo a. Tra l’antropo-poiesi di tipo a e quella di tipo b c’è dunque un vincolo di complementarità, così come c’è un rapporto di opposizione e di eterogeneità, nel senso che lo spirito critico (Turner) può svilupparsi soltanto in relazione e in contrasto con i contenuti antropo-poietici precedentemente acquisiti. 27) Come si fa a “fare umanità”? Nell’Introduzione a Forme di umanità (Remotti 2002), a cui si rinvia per un maggiore approfondimento analitico, si è proposto di aggiungere al livello a (interiorizzazione delle forme di umanità della propria società) e al livello b (presa di coscienza di forme di umanità ulteriori e alternative), un livello c, inerente alla consapevolezza di come si possano inventare e costruire forme di umanità nuove, aprendosi così al tema della “creatività” in campo antropo-poietico (Favole 2010). La tesi è che le società non avvertono soltanto l’esigenza di modellare i propri membri: hanno bisogno anche di sviluppare, presso i propri membri, un sapere approfondito e articolato relativo al “fare umanità”. Se l’antropo-poiesi non è un argomento che sta a cuore soltanto ad alcuni antropologi, ma è – come si è ormai detto più volte – un compito irrinunciabile per ogni società, ciò comporta che le società stesse investano risorse, in maniera programmatica, per lo sviluppo di questo sapere. Per questo, i rituali antropo-poietici non sono affatto il momento in cui nei giovani si inculcano i valori tradizionali, le forme di umanità in uso (se così possiamo dire): questo scopo è più efficacemente ed economicamente raggiungibile con l’antropo-poiesi di tipo a (continua, ­­­­­52

quotidiana, inconsapevole). I rituali antropo-poietici sono invece i momenti in cui, allontanandosene, si prende coscienza critica delle proprie forme di umanità e ci si pone la domanda – come vedremo meglio nel caso dell’olusumba nande (capitolo VI) – relativa al “come fare” per “fare umanità” (Remotti 2002: 11). Ponendosi questo tipo di domanda, il senso delle possibilità – su cui ha insistito Turner (1992: 127) – e quindi il senso dell’arbitrarietà delle forme di umanità, che possiamo adottare o che addirittura possiamo inventare, assumono una rilevanza particolare nel contesto di un approfondito sapere antropo-poietico. 28) Irreperibilità dei modelli di umanità. Il sapere antropopoietico (per definizione, un sapere non meramente teorico e speculativo) è fatto di molte incertezze e di molti interrogativi, il più drammatico dei quali è stato posto come titolo del capitolo VI, “Ma un uomo, che cos’è?”: una domanda che i circoncisori dell’olusumba nande pongono a se stessi e pongono alla divinità, senza ottenere una risposta. La tesi che vogliamo sostenere è che, nel pensiero antropo-poietico nande, come anche altrove, ciò che importa davvero è la domanda di carattere universale, con il senso delle possibilità che apre, non un tipo di risposta, sempre inesorabilmente particolare, eccetto che si dica che l’uomo (o la sua essenza) è appunto la domanda che pone in relazione a se stesso. In effetti, se i presupposti su cui è stata elaborata la prospettiva dell’antropo-poiesi sono quanto meno plausibili, l’essere umano elabora e impiega la sua cultura per dare forma a se stesso e inevitabilmente non può non rendersi conto dell’arbitrarietà delle forme di volta in volta inventate, contemplate, sperimentate, criticate, dismesse. Sotto questo profilo, risulta poco accettabile la tesi di Michel Foucault (1996: 413-414), secondo cui l’uomo, lungi dall’essere un «problema più o meno costante» per l’umanità, motivo di «una vecchia inquietudine», di un’«ansia millenaria», è «un’invenzione [...] recente». Al contrario, da sempre gli esseri umani si sono posti il problema dei modelli di umanità da adottare nelle loro vite, nelle loro società, nelle loro attività ed esperienze. La tesi che, a questo proposito, si è voluto sostenere è l’irreperibilità di modelli saldi, certi, definitivi. Ciò che gli esseri umani possono fare è trarre ispirazione – non più che questo – da antenati, da divinità, da altre società umane, da altre specie na­­­­­53

turali (Remotti 1997: 34). Il dramma dell’antropo-poiesi consiste nella sproporzione tra l’urgenza mai sopita del modellamento e la precarietà dei mezzi e delle soluzioni disponibili. Da questo dramma scaturiscono alcune possibili conseguenze e reazioni, sotto un certo profilo persino divergenti e contrastanti. Ne vediamo due: a) la prima consiste nell’accettare il compito antropo-poietico nella sua precarietà di fondo, nella sua dimensione di miseria e di sprovvedutezza; b) la seconda consiste invece nel celare questi limiti e sostenere che la prospettiva antropo-poietica che abbiamo fatto nostra (rivelata da Dio, trovata in natura, acquisita in un percorso storico o conquistata con le nostre tecnologie) è la vittoria sulla precarietà umana: questa sarebbe davvero hybris sul piano antropo-poietico (punto 7). 29) Accettazione della precarietà antropo-poietica (reazione “a”). A noi, europei, moderni e occidentali, fa impressione constatare come molti rituali antropo-poietici perseguano lo scopo del disvelamento delle finzioni su cui si regge l’ordine della società. Per i giovani della regione Kaliai (Nuova Britannia) la maturità consiste nel riconoscimento dell’inevitabilità sociale delle finzioni, dei tentativi posti in essere per celare la loro origine umana, della loro funzione e, nel contempo, della loro inconsistenza (Lattas 1996). Allo svelamento delle finzioni può essere accostato un tratto che abbiamo già rilevato, ossia il riconoscimento della casualità e dunque dell’arbitrarietà delle istituzioni antropo-poietiche in vigore presso la propria società (punto 20). A ciò aggiungiamo il senso dell’umorismo, che serve in maniera oltre modo efficace a impedire un’eccessiva identificazione con le soluzioni antropopoietiche adottate, come per esempio la circoncisione tra i Dìì del Camerun e gli Ndembu dello Zambia (punto 21). Nel capitolo VI avremo modo di vedere come il dubbio antropologico dia il senso più profondo all’olusumba nande: e che cosa di più efficace del dubbio per conservare umanità al di là delle certezze più evidenti e comunque provvisorie, per impedire che si sviluppino hybris e furori antropo-poietici? Concludiamo questo punto con il tema della contestazione giovanile: un altro modo per dire a chi detiene il potere che non è il caso di approfittarne. L’esempio proviene dagli Ndembu e dalla maniera con cui si pone termine al mukanda, un rituale «difficile e pericoloso», le cui prove (soprattutto la ­­­­­54

circoncisione) «tendono esplicitamente a trasformare i ragazzi in uomini» (Turner 1992: 316, 324). Quando ormai tutto è concluso, il kambanji, il portavoce dei giovani appena iniziati si fa avanti e con queste parole si rivolge al capo: ora io sono un uomo grande, io stesso. Tu sei uno sciocco e un furfante, non sei buono a niente. D’ora in avanti sta’ attento a non mangiarti tutto il cibo da solo, ma dividilo con i tuoi figli! (1992: 306).

Un monito – potremmo dire – che serve a scongiurare la formazione della hybris del potere politico e del potere antropo-poietico. Se alla base le soluzioni proposte o imposte conservano il loro carattere di arbitrarietà e precarietà, nonostante tutte le certezze di cui si ammanta il potere, la maturità è svelare tutto questo. Il mukanda ndembu prevedeva, da ultimo, il raggiungimento di questa consapevolezza e la sua proclamazione pubblica. 30) Celare la precarietà antropo-poietica (reazione “b”). Con quale espediente si può raggiungere questo scopo? Il migliore e in apparenza il più sicuro è quello di coinvolgere la divinità nelle faccende molto umane dell’antropo-poiesi: non – come facevano i baNande – rivolgendo alla divinità i loro dubbi circa l’essere umano e i loro auspici, affinché «il nostro viaggio [il rituale dell’olusumba] generi degli uomini» (capitolo VI, § 2); ma – come succede nelle tradizioni religiose a cui la nostra civiltà si appella – “credendo” che i problemi dell’antropo-poiesi siano già stati risolti ab origine dalla nostra divinità. La soluzione antropo-teologica di queste religioni è data da una formula divisa in due articoli, i quali ovviamente richiedono un atto di “fede”: a) “noi siamo stati fatti da Dio” e b) “Dio ci ha fatti simili a lui”. Ebraismo, cristianesimo, modernità (anche una modernità laicizzata, secolarizzata, persino ateizzata) hanno adottato e fatta propria questa duplice formula. Nel capitolo V approfondiremo alcune sue implicazioni. Qui ci limitiamo a far notare come i passaggi da ebraismo a cristianesimo e poi da cristianesimo a modernità siano stati intesi – da chi li ha praticati – come un “inveramento” progressivo della somiglianza uomo/dio, quasi che il senso della storia dovesse essere appunto quello di un progressivo “assomigliamento” e avvicinamento all’origine divina. ­­­­­55

31) Diventare sempre più simili a Dio. Nel capitolo V, § 3, faremo notare come, sul piano antropo-poietico, sia molto impegnativo sostenere che la nostra umanità non solo è stata fatta direttamente da Dio, ma in più è stata fatta a sua immagine e somiglianza (Genesi I, 26-27 – La Bibbia 1987: 10). Rispetto a quanto si legge nella Genesi, il cristianesimo di san Paolo sostiene una somiglianza ancora più stretta, un’adesione ancora più profonda tra l’uomo e Dio, grazie alla venuta del Figlio di Dio tra gli uomini e al superamento della morte che ne consegue. La modernità a sua volta – come appare evidente nel filosofo Francis Bacon – si propone come l’instaurazione del regno dell’uomo sulla terra, un uomo che assomiglia ancora di più a Dio per la riconquista del suo dominio sulla natura. L’idea del progressivo “assomigliamento” a Dio si spinge oggi fino al punto di volere conquistare con la tecnologia l’immortalità terrena: una vittoria totale sulla precarietà non solo antropo-poietica, ma persino esistenziale. Non è più Dio che si è fatto uomo, ma dominando tecnologicamente la natura fino al punto di pensare di sconfiggere la morte qui, in terra, sul suo stesso terreno, quello specificamente del corpo corruttibile, è l’uomo che ritiene di avere acquisito poteri antropopoietici sempre più simili a quelli un tempo attribuiti solo a Dio. È l’uomo che “rischia” di diventare esso stesso Dio, rischio che l’autore della Genesi aveva previsto: Il Signore Dio disse allora: “Ecco che l’uomo è diventato come uno di noi, conoscendo il bene e il male! Ed ora ch’egli non stenda la sua mano e non prenda anche l’albero della vita, sì che ne mangi e viva in eterno” (Genesi, 3, 22 – La Bibbia 1987: 14).

32) Antropo-poiesi trans-umanistica. Nel capitolo IV vedremo come l’idea di intervenire sul proprio corpo a scopi puramente antropo-poietici (e in gran parte estetici) è diffusissima nelle diverse società umane e assume una pluralità di forme, tra cui l’inserimento nel corpo di oggetti esterni. È possibile quindi riscontrare una notevole continuità e somiglianza tra progetti antropo-poietici, specialmente di natura estetica, presenti in altre società, e quanto si sta verificando nelle società occidentali, dove si provvede a sostituire «arti e organi artificiali in grado di imitare le funzioni biologiche, o di integrarle» (Marazzi 2012: 41). Come ­­­­­56

vedremo, molti di quegli interventi che, con opportune tecniche, “artificializzano” o “culturalizzano” il corpo, possono inoltre essere interpretati come una lotta contro il tempo e, in un certo senso, contro la morte. Ma ad attenuare questa potenziale hybris si affaccia molto spesso la consapevolezza della “finzione” a cui ci si acconcia (punti 7, 17). Nella modernità più spinta, nella cui analisi si inoltrano i libri di Roberto Marchesini (2002) e di Antonio Marazzi (2012), emergono però progetti antropo-poietici da cui è del tutto esclusa l’idea frenante della “finzione”. Può essere significativo fare presente come molti movimenti “trans-umanisti” si richiamino al pensiero del gesuita, paleontologo e filosofo, Pierre Teilhard de Chardin, il quale ha esplicitamente teorizzato la possibilità per l’uomo di «transumanizzarsi» grazie allo sviluppo vertiginoso della tecnologia, a tal punto da uscire dalla prigione dell’evoluzione darwiniana, dominata dal caso, e avviare invece un’evoluzione della specie umana guidata dalla stessa umanità e dalla sua capacità di invenzione (Teilhard de Chardin 1972: 371, 403; Marazzi 2012: 56-57). Per quanto laici possano essere i movimenti del trans-umanismo, l’obiettivo esplicito di salvaguardare con lo sviluppo tecnologico il corpo individuale, sia come consistente prolungamento della vita, sia come vera e propria immortalità terrena, viene inteso come punto di convergenza – tramite Teilhard de Chardin – tra teologia cristiana e tecnologia transumanistica (Steinhart 2008). Nella visione di Ray Kurzweil, l’impregnazione tecnologica dell’umanità sarà tale che supereremo i limiti dei «nostri corpi e cervelli biologici», in quanto saremo in grado di acquisire «potere sul nostro stesso destino», a tal punto che «la nostra mortalità sarà nelle nostre mani» e quindi «saremo in grado di vivere quanto vorremo», anche se si tratta di una cosa un po’ diversa dal vivere per sempre (Kurzweil 2008: 9). Non solo, ma «alla fine, l’intero universo verrà saturato dalla nostra intelligenza» (un’intelligenza di macchine, non biologica) e – si badi – «questo è il destino dell’universo» (2008: 29). Ha ragione Marchesini nel mettere in luce – con l’aiuto di Lynn White (1973) e di David Noble (2000) – il profondo afflato religioso che sostiene lo sviluppo tecnologico della modernità (Marchesini 2002: 544). Nel capitolo V avremo modo di approfondire i “furori” che provengono da questo progressivo assomigliamento a Dio, ovvero da questa sorta di indebita deificazione dell’antropo-poiesi. ­­­­­57

33) Completezza o incompletezza antropo-poietica. Nel porre in luce la convergenza tra il pensiero di Teilhard de Chardin e quello dei trans-umanisti, Eric Steinhart opportunamente pone in luce l’idea di completezza che traspare in entrambi (Steinhart 2008: 7, 10, 16). Qui assumiamo l’idea della completezza/incompletezza come criterio per distinguere due concezioni radicalmente diverse di antropo-poiesi. La prima è quella a cui abbiamo accennato or ora, e per la quale non abbiamo esitazione a usare la nozione di hybris: si tratta di un’antropo-poiesi che, voluta da Dio o conquistata dagli uomini, si propone come un’acquisizione che “trascende” una serie di limiti caratterizzanti la condizione umana e la sua finitudine (la morte, la biologia, la corruttibilità). La seconda applica invece il criterio dell’incompletezza ai programmi antropo-poietici: per quanto arditi possano essere, essi non travalicano questi limiti, e tale consapevolezza si manifesta attraverso l’idea della finzione, della revocabilità, della contestazione, del dubbio. Anche questo secondo tipo di antropo-poiesi conosce il movimento della “trascendenza”; ma un conto è pensare a una trascendenza per così dire verticale e qualitativa, in base alla quale si ritiene di poter superare i limiti che finora hanno angustiato l’esistenza umana, raggiungendo così lo stadio della pienezza, e un altro conto è pensare e praticare una trascendenza orizzontale, che pur producendo sempre qualcosa di nuovo e di inedito, sa che la completezza non è mai raggiunta. Superabilità o insuperabilità dell’incompletezza: questo è il discrimine tra i due tipi di antropo-poiesi, tra un’antropo-poiesi segnata dalla propria hybris e un’antropo-poiesi contraddistinta invece dalla consapevolezza della propria “miseria”. 34) Deificazione o débrouillardise antropo-poietica? Se la prima concezione non è esente da ambizioni di deificazione (l’idea della “divinità dell’uomo”, come ha messo in luce David Noble [2000]), per la seconda potremmo impiegare una nozione molto più umile, popolare, utilizzata da chi per le strade di Kinshasa, o di altre affamate città dell’Africa francofona, esercita l’arte dell’arrangiarsi. È la débrouillardise, termine francese derivato dal verbo se débrouiller, che vuol dire appunto “arrangiarsi”. Si tratta senza dubbio di un’arte, in quanto implica un “saperci fare”, sagacia, esperienza, inventiva; ma è un’arte costantemente accompagnata ­­­­­58

dalla consapevolezza del rischio del fallimento. Non solo: anche se si raggiunge un obiettivo, si sa che questo è sempre e inesorabilmente parziale, perché la condizione, per fronteggiare la quale ci vuole débrouillardise, non sarà mai superata del tutto. Allo stesso modo, permane inesorabile la condizione umana generale, che di continuo richiede qualche soluzione antropo-poietica. Il principio dell’incompletezza comporta infatti da un lato l’esigenza insopprimibile dell’antropo-poiesi (nonostante tutte le ambizioni e le asserzioni di completezza) e, dall’altro, la precarietà dei mezzi con cui tentiamo di porvi rimedio. 35) L’inizio a cui aggrapparsi. Applicando le riflessioni di Hannah Arendt alla problematica che stiamo trattando, si potrebbe dire che le soluzioni totalitarie, definitive e deificate costituiscono «un’evasione suicida da questa realtà» (Arendt 2004: 655). Invece di pensare all’instaurazione di un “uomo nuovo” (v. infra, capitolo V) – di un’umanità cioè che, grazie a Dio o grazie alla tecnologia, si ritiene abbia risolto una volta per tutte il problema dell’antropo-poiesi – è assai più ragionevole e opportuno aggrapparsi all’idea di “inizio”, di cui ogni débrouillardise si avvale e di cui Hannah Arendt tesse l’elogio alla fine del suo libro sulle origini del totalitarismo. Anche il mito dell’Uomo Nuovo presuppone ovviamente un inizio: si tratta però di un inizio assoluto e irripetibile, che segna una cesura qualitativa in qualche parte della storia dell’umanità. L’inizio di cui si avvale ogni débrouillardise è invece una possibilità che, in modo anonimo e silenzioso, torna costantemente a ripetersi. Prima ancora che essere un avvenimento storico – sostiene Hannah Arendt (2004: 656) – «l’inizio [...] è la suprema capacità dell’uomo»: esso «si identifica con la libertà umana» ed è semplicemente «garantito da ogni nuova nascita»; l’inizio – così si conclude il suo libro – «è in verità ogni uomo».

Parte seconda

Fare-disfare corpi

III

L’enigma dell’ornamento. Prologo darwiniano

1. Debolezza e successo biologico della specie umana Gli antropologi culturali, di solito, si guardano bene dal frequentare Charles Darwin. Persino quando si lanciavano nelle loro ricostruzioni degli stadi di sviluppo culturale o sociale dell’umanità – cioè nel periodo che d’abitudine viene chiamato, erroneamente, “evoluzionismo culturale” – è molto raro trovare nei loro scritti riferimenti al pensiero darwiniano. Nei decenni successivi Darwin non viene considerato dagli antropologi (oggi meno che mai) come un autore da cui apprendere qualcosa o con cui discutere: come se Darwin rappresentasse una compagnia troppo pericolosa o come se, in ogni caso, il grande «iato» tra scienze della natura e scienze della cultura, proclamato da Alfred Kroeber, fosse un dato insuperabile e – proprio come voleva Kroeber nel 1917 – convenisse agli antropologi culturali continuare il proprio cammino su un lato di questo «abisso», infischiandosene di ciò che fanno i naturalisti sull’altro lato (Kroeber 1974: 92). Eppure Darwin ha molto da insegnare agli antropologi culturali, se non altro a proposito del suo lungo giro attorno al mondo, e quindi del rapporto tra viaggio e pensiero, tra teorizzazione ed esperienza, tra mucchio e ordine (Remotti 2009: cap. I). Contravvenendo una seconda volta al tabu anti-darwiniano, tacitamente concordato tra gli antropologi culturali, intendiamo qui riprendere il dialogo con Darwin su un tema solo apparentemente lontano da questioni inerenti ai meccanismi dell’evoluzione delle specie. La tematica che si vuole proporre coincide con la seguente domanda: cosa fanno gli esseri umani del loro corpo in vista di fini estetici? Non è una domanda oziosa e peregrina, visto che persino Darwin se n’è occupato da par suo, ponendo a confronto ­­­­­62

specie umana e specie animali, e visto che questa faccenda della ricerca della bellezza e degli interventi estetici sul corpo andrà ad occupare una parte rilevante di ciò che abbiamo voluto chiamare “antropo-poiesi” (v. capitolo IV). Obiettivo di questo prologo è comunque poco altro che un invito a prendere in attenta considerazione alcune pagine di The Descent of Man and Selection in Relation to Sex, che Darwin pubblicò nel 1871 (Darwin 1983), anno fatidico per l’antropologia culturale, essendo lo stesso anno di edizione di Primitive Culture di Edward B. Tylor (Tylor 1958) e di Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family di Lewis H. Morgan (Morgan 1997): un invito che prende la forma, un po’ veloce, di alcune semplici osservazioni di avvio. Queste osservazioni avrebbero potuto essere ulteriormente approfondite e meglio organizzate, se si fosse conosciuto prima un altro “invito”, cioè il recente e importante studio che Lorenzo Bartalesi (2012) ha dedicato all’estetica evoluzionistica e in particolare al “senso del bello” in Darwin. Una delle caratteristiche più evidenti delle riflessioni antropologiche di Darwin in The Descent of Man è la tensione tra due approcci diversi: da un lato l’intento di collocare l’essere umano nel contesto più generale della natura, rimarcando la continuità e la somiglianza con gli altri mammiferi, e dall’altro il suo essere quasi costretto a rilevare la peculiarità della condizione umana. Così, se da un lato Darwin afferma che l’uomo è costruito sullo stesso tipo o modello generale di ogni altro mammifero, dall’altro egli non può fare a meno di constatare che, per esempio, per quanto riguarda i suoi individui e i ritmi del loro sviluppo, la specie umana è contrassegnata da una maturazione molto lenta. Inoltre, se si pone l’essere umano a confronto con gli altri primati, non può non colpire la nudità della sua pelle (Darwin 1983: 3435, 46). Darwin ritorna più volte sulla caratteristica della nudità dell’essere umano e lo fa ponendo in relazione questo carattere con due tematiche, in apparenza almeno, assai diverse, se non addirittura divergenti: A) il carattere inerme dell’uomo e B) il rilievo fondamentale che nell’uomo assume l’ornamento. Cominciamo con il primo tema (A). Anche agli occhi di Darwin, l’essere umano appare caratterizzato da mancanze e da penurie, ovvero da ciò che in altri autori ­­­­­63

– come abbiamo già visto nei capitoli precedenti – verrebbe definito in termini di “incompletezza” biologica (da Johann Gottfried Herder nel Settecento a Clifford Geertz nel Novecento, per esempio). Darwin si dimostra infatti disponibile a prendere in attenta considerazione le tesi del duca di Argyll, l’autore di Primeval Man del 1869 (Campbell 1869), secondo cui «l’uomo è una delle creature più prive di aiuto e di difesa del mondo» (Darwin 1983: 89). Più precisamente, il duca di Argyll sostiene – come riferisce Darwin – che «la struttura umana si è distaccata da quella dei bruti, evolvendosi verso una maggiore debolezza e gracilità fisica». In questo quadro, «lo stato nudo e privo di protezione del corpo» andrebbe ad aggiungersi ad altre «mancanze», come «l’assenza di grandi denti o artigli per la difesa, la piccola forza e velocità dell’uomo e il suo scarso potere di scoprire il cibo o di sfuggire il pericolo con il fiuto», nonché l’incapacità di arrampicarsi velocemente sugli alberi per sottrarsi ai predatori. È importante rilevare, nella tesi del duca di Argyll, come la gracilità e la debolezza divengano maggiori nell’essere umano quanto più procede la sua evoluzione. Ma gracilità e debolezza fisica non decretano la scomparsa di questa specie e neppure determinano una diminuzione del suo ruolo nel contesto più ampio della lotta per la vita: curiosamente, la debolezza fisica o organica non si trasforma in una debolezza generale della specie umana. Questa indubbia «penuria di mezzi naturali» si traduce infatti, agli occhi di Darwin, in un «immenso vantaggio», in quanto costringe l’uomo a puntare selettivamente su alcune qualità che maggiormente lo contraddistinguono (1983: 90). Darwin fa capire che se l’uomo fosse stato un essere di «grandi dimensioni, forza e ferocia», non avrebbe avuto bisogno di sviluppare le qualità che hanno poi determinato il suo successo (1983: 89). Vi è dunque un rapporto, per Darwin, tra la «penuria» biologica dell’uomo e il suo successo altrettanto biologico. Anche se consideriamo i gruppi umani ritenuti più arretrati – quelli che Darwin aveva incontrato nel suo lungo viaggio attorno al mondo (per esempio, gli abitanti della Terra del Fuoco) –, non v’è dubbio che «l’uomo [...] è pur sempre l’animale più potente che sia mai apparso sulla terra»: egli si è infatti esteso in tutte le regioni del globo e le altre forme di vita altamente organizzate hanno dovuto cedere di fronte a lui (1983: 75). Il nesso tra la debolezza ­­­­­64

organica e la forza organizzativa, tra la penuria e il successo, tra la mancanza e la conquista, tra il rischio di soccombere e il predominio acquisito nella «lotta per la vita» è dato, per Darwin, dalla compresenza di tre fattori: a) sviluppo di «facoltà intellettuali», b) incidenza di «costumi sociali», c) particolarità della «struttura fisica». Le facoltà intellettuali – ovvero i «poteri intellettivi superiori», grazie ai quali l’essere umano si procura mezzi e strumenti aggiuntivi (1983: 90) – si esplicano in primo luogo nel «linguaggio articolato», e in una serie di altre invenzioni, come armi, strumenti, trappole (mediante cui difendersi, cacciare, procacciarsi il cibo), e soprattutto nella scoperta del fuoco, «probabilmente la maggiore [scoperta] mai compiuta dall’uomo», grazie alla quale ha saputo rendere digeribili certi cibi e innocue radici ed erbe velenose (1983: 75). Queste stesse facoltà intellettuali vengono così elencate: capacità di osservazione, memoria, curiosità, immaginazione, ragione. Per quanto riguarda il secondo fattore, la socialità, essa prende forma attraverso la «simpatia» e «l’amore» verso i propri compagni, sviluppando così solidarietà e reciproco aiuto (1983: 90). Anche quando si tratta di precisare gli aspetti della struttura fisica (terzo fattore) che maggiormente hanno determinato il successo dell’uomo, Darwin non può fare a meno di porne in luce i risvolti sociali e tecnologici. È soprattutto «l’uso di una mano perfetta» ciò che consente all’essere umano di dare luogo alla stupefacente industria litica, con conseguente «divisione del lavoro», che caratterizza anche le fasi più primitive della storia dell’umanità: mano perfetta che però si sarebbe rivelata svantaggiosa per arrampicarsi sugli alberi (1983: 76). Darwin insiste poi su un carattere della struttura fisica dell’uomo che lo separa nettamente rispetto agli altri animali, ossia la posizione eretta: «solo l’uomo è divenuto un bipede» (1983: 78). Non solo, ma lo stesso uso della mano «perfetta» che, unitamente all’intelletto, ha garantito «la sua attuale posizione di dominio nel mondo», deve moltissimo all’acquisizione del bipedismo. Darwin introduce così un tema di grande importanza, quello cioè della “liberazione” delle mani e dell’intera parte superiore del corpo dai compiti della deambulazione, tema poi ampiamente ripreso da André Leroi-Gourhan (1977), il quale proprio per questo si spingerà ad affermare che l’uomo è “comin­­­­­65

ciato” dai piedi (lo sviluppo cerebrale verrà dopo). Avere le mani e le braccia «libere» è dunque un enorme «vantaggio» per l’uomo. 2. Un ponte tra animali ed esseri umani: la cultura Un qualunque antropologo culturale, che prenda in considerazione la sinergia fra i tre fattori individuati da Darwin per spiegare il successo biologico dell’uomo (sviluppo di «facoltà intellettuali», incidenza di «costumi sociali», particolarità della «struttura fisica»), non avrebbe esitazione alcuna a introdurre la nozione di “cultura”. Quando Darwin evoca l’acquisizione della stazione eretta, descrive le condizioni più significative grazie alle quali gli antenati degli esseri umani sono divenuti animali culturali. Detto in altri termini, è la cultura il nesso tra la penuria dell’uomo e il suo successo; è la cultura che spiega il paradosso dell’essere umano: un animale molto debole e indifeso, che è però divenuto l’animale più potente, decretando il proprio predominio nel mondo. È la sempre maggiore incidenza della cultura nell’organizzazione della specie umana ciò che spiega anche il progressivo indebolimento sul piano organico lungo il processo dell’evoluzione. Darwin non parla però di cultura in senso antropologico, e quando usa il termine il significato è soltanto quello tradizionale: la cultura degli uomini colti, che si differenziano dai barbari, dalle persone incolte (1983: 119). Come mai questa mancanza terminologica? La domanda nasce dal fatto che – come già si è detto – The Descent of Man viene pubblicato nello stesso anno (1871) e dallo stesso editore (Murray di Londra) presso cui esce Primitive Culture di Tylor, libro fondante dell’antropologia culturale anche perché inizia con la più famosa definizione di cultura in ambito antropologico: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società» (Tylor 1970: 7). La contemporaneità dei due libri spiega perché Darwin non abbia potuto avvantaggiarsi della chiara ed esplicita definizione di Tylor, il quale però già utilizzava il concetto di cultura – nel suo significato antropologico (per esempio, nell’espressione «cultura umana» [Human Culture]) – in un ­­­­­66

libro precedente, Researches into Early History of Mankind and Development of Civilization del 1865 (Tylor 1964), consultato e citato da Darwin in The Descent of Man. Ma proprio come appare dall’espressione ora riferita, il concetto tyloriano di cultura aveva un’applicazione esclusivamente antropologica, indicando attività e sviluppi non biologici dell’attività umana. Del resto, Tylor aveva esplicitamente ricavato il suo concetto di cultura dalla tradizione di pensiero continentale e dall’etnologia tedesca dell’Ottocento (in particolare da Gustav Klemm), per la quale “cultura” (Kultur) non aveva alcuna implicazione di ordine biologico ed alcuna applicazione al di là della storia umana (come è attestato dall’espressione Kultur-Geschichte, “storia culturale”). Pur nella sua innovativa valenza antropologica ed etnografica, “cultura” non poteva che essere un concetto estraneo alla cassetta degli attrezzi darwiniana. Darwin non poteva infatti accettare l’idea che la specie umana costituisse un dominio a sé nell’ambito più vasto della natura: “cultura” (nella versione tedesca e poi tyloriana) avrebbe rappresentato una negazione di quei legami e di quelle continuità con le altre specie animali, da cui Darwin non poteva certo recedere. Si sarebbe dovuto aspettare praticamente un secolo per vedere il concetto di cultura sottoposto a un’estensione in senso zoologico e paleoantropologico: saranno infatti gli etologi (John Bonner [1983] per esempio e, in Italia, Danilo Mainardi [1974]) a utilizzare il concetto di cultura per la descrizione e l’analisi di diversi aspetti del comportamento animale e saranno i paleoantropologi a rendersi conto e a suggerire che la stessa evoluzione biologica che ha condotto all’uomo attuale è avvenuta sotto l’insegna della cultura (Remotti 2011: cap. II). Persino le neuroscienze, oggi, non possono fare a meno del concetto di cultura per capire come funziona il cervello umano. Tutto questo per dire che nelle argomentazioni di Darwin, relative alle caratteristiche degli esseri umani e in particolare al paradosso dell’umanità (la sua penuria e il suo successo), il concetto di cultura potrebbe inserirsi in maniera appropriata e convincente, purché naturalmente esso non sia considerato come un patrimonio esclusivo dell’umanità, bensì come una risorsa già presente in natura (ovvero nelle altre specie), a cui gli antenati dell’uomo hanno potuto accedere nelle loro trasformazioni evolutive. ­­­­­67

In altri termini, si potrebbe legittimamente pensare che Darwin sarebbe disponibile a far suo il concetto di cultura, purché esso venga inteso come una potenzialità zoologica, prima ancora che antropologica, in base all’assunto che dunque la cultura ha preceduto e poi accompagnato la formazione dell’umanità, anziché essere soltanto un suo prodotto. In una sorta di divertissement intellettuale saremmo quasi in grado di fare andare d’accordo Charles Darwin da una parte e Clifford Geertz dall’altra: a Darwin, rappresentante della biologia, a cui la maggior parte dei biologi intende tuttora rimanere fedele, si potrebbe chiedere di accettare un concetto che proviene dagli antropologi culturali (in primis da Tylor), e a Geertz, il quale ha scritto pagine tuttora illuminanti sul ruolo della cultura nel processo di ominazione, si potrebbe chiedere di accettare esplicitamente l’origine zoologica della cultura. Non sarebbe male che proprio sulla cultura – sul suo ruolo, sulla sua funzione, sulle sue implicazioni – si realizzasse un reale incontro tra biologi e antropologi culturali, ossia il superamento di quello «iato» che invece Kroeber concepiva come un dato ineliminabile. Ciò che qui proponiamo non è la stessa cosa prospettata da Luigi L. Cavalli-Sforza, il quale intende dimostrare agli antropologi culturali come essi dovrebbero studiare “scientificamente” la cultura (Cavalli-Sforza 2004: 12, 77-78): una lezioncina da chi pretende di saperne di più, senza rendersi conto che la cultura è qualcosa di più disorientante dei suoi benefici, della sua utilità e della sua capacità di adattamento (come avremo modo di vedere in seguito in questo stesso capitolo e come appare un po’ in tutto il libro). Detto in altri termini ancora, non potrebbe forse proprio essere la cultura il fattore che, lungi dal creare lo iato o l’abisso, avvicina l’uomo e le altre specie animali? Non nel senso di ridurre la cultura umana a meccanismi pre- o extra-culturali, per esempio di ordine genetico, come succede nella sociobiologia, ma nel senso di riconoscere anche ad altri animali la caratteristica di essere culturali. È importante tenere presente, sotto questo profilo, la doppia mossa di Darwin. Se da un lato infatti egli individua i tre fattori che maggiormente contraddistinguono la condizione umana (di cui abbiamo parlato nel paragrafo 1), e che potrebbero essere facilmente raggruppati, sotto diverso titolo, nella categoria più ampia della cultura, dall’altro si preoccupa di ristabilire ­­­­­68

legami di continuità: «Il mio scopo in questo capitolo è di dimostrare che non vi è alcuna differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi superiori per quanto concerne le loro facoltà mentali» (Darwin 1983: 92). Più in particolare, allorché egli tratta della ragione, concepita come la facoltà della mente umana che si trova «al vertice», è interessante vedere come Darwin si atteggia. Essendo il suo obiettivo quello di non creare iato, ma continuità, Darwin aveva di fronte a sé due possibilità: abbassare la facoltà umana a quella animale oppure innalzare la facoltà animale verso quella umana. Darwin sceglie la seconda strada aiutato da alcuni dati osservativi: a) poche persone negherebbero la presenza negli animali di qualche capacità raziocinante; b) infatti «si possono continuamente vedere animali esitare, decidere e risolvere»; c) «è un fatto significativo che più le abitudini di un particolare animale sono studiate da un naturalista, più questi attribuisce importanza alla ragione e meno quindi agli istinti rozzi» (1983: 101). Si tratta di osservazioni estremamente preziose, in quanto inducono a pensare che l’attribuzione di istinti rozzi e quindi di automatismi agli animali sia in gran parte funzione della nostra scarsa conoscenza del loro comportamento e del prevalere di un paradigma dicotomico, secondo il quale la ragione spetta agli esseri umani e l’istinto agli animali. Non solo, ma altrettanto significativo è il modo con cui Darwin segnala la presenza del comportamento razionale (negli animali come nell’uomo): «esitare, decidere e risolvere», dove sono evidenti il pensiero, la valutazione delle alternative possibili, e la scelta o decisione che sfocia in una risoluzione. Il nucleo della razionalità umana e animale è individuato nella “scelta”, che infatti ritorna in un elenco successivo di facoltà condivise (1983: 105). La scelta – il contrario dell’automatismo – è ciò che consente a Darwin di umanizzare gli animali (di innalzarli verso la condizione umana), anziché di abbassare gli uomini al livello degli animali. La scelta inoltre viene posta alla base della dimensione culturale, anche in ambito zoologico (Bonner 1983: 191-192; Remotti 2011: 59-63). Altro dato significativo: per corroborare questa sua linea interpretativa, Darwin si riferisce al lavoro di Lewis H. Morgan – il fondatore dell’antropologia sociale negli Stati Uniti d’America – sul comportamento dei castori (Morgan 1868). Una domanda per concludere queste considerazioni: quanti approcci che si vogliono “scientifici”, e pur ­­­­­69

tuttavia tesi a spiegare l’incidenza della dimensione culturale, si risolvono di fatto in un non riconoscimento della fase della scelta e della sua inestirpabile dimensione di arbitrarietà? 3. Il senso del bello. Come spiegarlo? Le pagine di The Descent of Man che abbiamo deciso di esaminare ci riservano ulteriori spunti di grande interesse antropologico. Essi provengono dall’osservazione iniziale sulla nudità tipica dell’uomo. Come abbiamo visto, Darwin inserisce questa osservazione in due tematiche distinte: A) il carattere inerme dell’uomo e B) l’importanza cruciale dell’ornamento. È su questa seconda tematica che dobbiamo ora soffermarci. Partiamo dal linguaggio, e in particolare dal linguaggio articolato, che secondo Darwin è una facoltà del tutto peculiare dell’uomo (Darwin 1983: 111). Esso non è un istinto, e infatti ha da essere appreso: anzi, «è un’arte come fare la birra o fare il pane» (1983: 112). Subito dopo Darwin ricorre però al canto degli uccelli. Anche qui abbiamo a che fare con suoni che vengono emessi non istintivamente, ma per apprendimento. L’analogia tra il linguaggio degli uomini e il canto degli uccelli viene stabilita sottolineando che in un caso e nell’altro vi è una base o «tendenza istintiva», che spinge i piccoli (umani e animali) verso l’emissione di suoni, «mentre nessun bambino ha una tendenza istintiva a fare la birra, a cuocere il pane o a scrivere». Ma la tendenza istintiva è soltanto una base necessaria e non sufficiente: per imparare a parlare o a cantare ci vuole esercizio, apprendimento, acquisizione di tecniche particolari da parte dei piccoli e insegnamento da parte degli adulti. Non solo, ma le osservazioni di Darwin pongono in luce una connessione molto significativa: ciò che viene appreso, nel linguaggio articolato dell’uomo, così come nel canto degli uccelli, non è una lingua o un canto universale, ma lingue o dialetti particolari. Le osservazioni condotte sui canarini del Tirolo – da parte di Daines Barrington, un naturalista del Settecento, qui riportate da Darwin – dimostrano che gli adulti trasmettono ai loro piccoli varianti locali, simili a «dialetti provinciali». Oltre a questa illuminante connessione tra apprendimento e particolarità di ciò che viene appreso, le analisi di Darwin spin­­­­­70

gono poi verso una seconda connessione, che ci consente di approdare al tema dell’ornamento. Egli riporta le osservazioni dei linguisti del tempo per quanto riguarda «la costruzione perfettamente regolare e magnificamente complessa dei linguaggi di molte nazioni barbare» (1983: 117). Beninteso, pure qui Darwin intravede il rischio di trasformare questo argomento in una prova del carattere eccezionale dell’essere umano, della sua inconfondibile e irripetibile capacità creativa, se non addirittura dell’origine divina di questi linguaggi. In maniera molto opportuna, egli avverte l’improponibilità di considerare come superiori quelle lingue che si presentano più complesse, simmetriche e regolari rispetto alle lingue irregolari, abbreviate e imbastardite, frutto di contatti tra popoli diversi. Dopo avere considerato la varietà delle lingue umane e dei canti degli uccelli, egli non può esimersi dall’affrontare il tema del «senso del bello» (1983: 117). Suoni, forme, colori possono produrre un piacere estetico, che ritroviamo tanto negli esseri umani quanto negli animali. Quando ammiriamo un uccello maschio che dispiega con cura le sue meravigliose piume [...] è impossibile dubitare che la femmina ammiri la bellezza del suo compagno (1983: 118).

Il senso del bello diviene agli occhi di Darwin un tema di tale interesse da affermare: non conosco alcun fatto nella storia naturale più meraviglioso del fatto che la femmina del fagiano argo apprezza la squisita sfumatura degli ornamenti a ocelli e l’elegante disposizione delle piume delle ali del maschio (1983: 648).

Per i creazionisti, per coloro che negano l’evoluzione naturale, sarà inevitabile ammettere che le grandi piume, che non permettono alle ali di essere usate per volare, e che sono dispiegate durante il corteggiamento e in nessun altro tempo [...] gli furono date come ornamento. Io differisco solo nella convinzione che il maschio del fagiano argo abbia acquisito la sua bellezza gradualmente (1983: 648, corsivo nostro). ­­­­­71

«Il gusto del bello» – ribadisce Darwin – «non è carattere particolare della mente umana». Tra gli animali, tuttavia, o meglio «per la gran maggioranza degli animali [...], il senso del bello, per quanto possiamo giudicare, è limitato all’attrazione del sesso opposto» (1983: 118, corsivi nostri). Il senso del bello è dunque ammesso anche per gli animali, ma rientrerebbe nel paradigma della selezione sessuale. Perché mai le esitazioni che abbiamo segnalato? E per quanto riguarda gli esseri umani vale la stessa limitazione? Poco oltre, allorché Darwin sostiene che il «senso della bellezza», insieme all’immaginazione, alla meraviglia, alla curiosità, all’imitazione, all’amore dell’eccitazione e della novità (tutte facoltà utili per il «progressivo avanzamento» dell’uomo), determina nell’uomo «capricciosi cambiamenti di costume e di mode», non può non rilevare che anche gli animali inferiori si dimostrano «ugualmente capricciosi nei loro affetti, avversioni e senso della bellezza» e che per giunta «vi è anche ragione di sospettare che amino la novità per se stessa» (1983: 119). Ancora una volta, Darwin propende per la tesi di una continuità animali/uomini, la quale prende la forma di un avvicinamento dei primi ai secondi, piuttosto che dei secondi ai primi: le qualità che – secondo una visione tradizionale e antropocentrica – sembrano essere peculiari degli esseri umani risultano rinvenibili anche negli animali “inferiori”. In ogni caso, appare alquanto difficile ricondurre le diverse manifestazioni del piacere estetico, quale ritroviamo nelle varie società, a cominciare da quelle ritenute più primitive, al paradigma della selezione sessuale. A leggere le opere di Edward Tylor e di John Lubbock, Darwin dichiara di rimanere «profondamente colpito» dal «piacere che tutti [gli esseri umani] provano nel danzare, nella rozza musica, nel recitare, dipingere, tatuare ed altri modi di decorarsi» (1983: 204). È l’ornamento ciò che alla fine attrae maggiormente l’attenzione di Darwin. Riferendosi allo «studio completo ed eccellente» condotto da un «viaggiatore italiano», Paolo Mantegazza (1867), Darwin sottolinea che «i selvaggi pongono molta cura nel loro aspetto personale» e che essi «amano molto ornarsi» (1983: 606). Nell’adornarsi l’uomo prova un intenso piacere, per quanto misera e povera sia la sua condizione sociale ed economica; non solo, ma per l’ornamento è disposto a investire gran parte dei suoi averi ­­­­­72

e del suo lavoro. Infine, come sottolinea Alexander von Humboldt, nel decorare con pitture il proprio corpo nudo, gli esseri umani manifestano «l’immaginazione più fertile e il capriccio più mutevole», tanto quanto nel rivestirlo di indumenti. I tatuaggi da un capo all’altro della terra, le scarificazioni del continente africano, le modificazioni del cranio sia nel Vecchio che nel Nuovo Mondo, le elaborate acconciature dei capelli, lo strappo di ciglia e sopracciglia, l’avulsione dei denti, la loro limatura, l’attenzione rivolta soprattutto al volto, dove si provvede a perforare il setto nasale, i lobi auricolari, le labbra inferiori o superiori così da inserirvi oggetti ornamentali sono alcuni degli interventi estetici su cui Darwin si sofferma, e su cui torneremo nel capitolo IV, allorché tenteremo di proporre una tipologia sufficientemente vasta e articolata. Ma leggiamo la conclusione di Darwin a seguito del suo improvvisato elenco: «quasi nessuna parte del corpo suscettibile di essere modificata artificialmente viene rispettata» (1983: 608, corsivo nostro). Inoltre, se Darwin in una parte precedente del suo libro (1983: 204) era rimasto colpito dal “piacere” con cui gli esseri umani si tatuano, si dipingono, si decorano, così come ballano e cantano, ora emerge invece il tema opposto, quello del “dolore”. Quanto grande sarà il dolore a cui gli esseri umani si sottopongono per questi interventi estetici, molti dei quali non si realizzano in pochi istanti, ma richiedono un lavoro che si protrae per anni? «Le sofferenze causate da queste mutilazioni devono essere notevolissime»; il che significa che «la convinzione della loro necessità deve essere ben radicata» (1983: 608). Riprenderemo nel capitolo IV (§ 3) la compresenza di “piacere” e “dolore”, che in questo abbozzo di teoria darwiniana si configurano come due dimensioni soggettive dell’ornamento: l’ornamento dà piacere (c’è piacere, c’è gusto nell’adornarsi); il dolore è un po’ come un prezzo che si paga per avere o costruire sul corpo determinati tipi di ornamento. Qui conviene però seguire ancora il ragionamento di Darwin, quando evoca la «necessità» di cui gli esseri umani sarebbero profondamente convinti nel campo dell’ornamento. Infatti, di quale necessità si tratta? I vari casi di interventi estetici sul corpo vengono riportati da Darwin nel paragrafo intitolato “Influenze della bellezza sui matrimoni del genere umano” (1983: 605 sgg.), paragrafo che fa parte del capitolo 19, “Caratteri sessuali secondari dell’Uomo”. È abbastanza ­­­­­73

agevole rilevare tuttavia che paragrafo e capitolo sono contenitori alquanto inerti: scarsi e poco approfonditi sono i nessi che Darwin cerca di ipotizzare tra questi tipi di fenomeni (gli interventi estetici sul corpo riscontrati un po’ in tutte le società umane) e le sue teorie più generali. Forse è abbastanza significativo rilevare due ammissioni di Darwin in questo stesso capitolo. In base alla prima egli dichiara che la teoria della selezione sessuale risulta molto più applicabile alle fasi più remote della storia dell’umanità che non alle epoche successive, dove, invece di istinti e di passioni, predominano la ragione e la capacità di previsione, potremmo anche aggiungere la scelta e la progettazione (1983: 637). La seconda ammissione è la seguente: «Le ipotesi qui avanzate sul ruolo svolto dalla selezione sessuale nella storia dell’uomo mancano di precisione scientifica» (1983: 638, corsivo nostro). Tutta l’argomentazione relativa agli interventi estetici sul corpo finisce infatti col ruotare attorno all’idea dell’irrinunciabilità dell’ornamento. Persino le «mutilazioni», ovvero quegli interventi che provocano la maggiore sofferenza, vengono ricondotte a questo tema: «l’ornamento, la vanità e l’ammirazione degli altri sembrano costituire il motivo principale di tali pratiche» (1983: 609, corsivo nostro). Il tema dell’ornamento assume così una sua autonomia scientifica: anziché essere spiegato, esso spiega; è un explanans, non un explanandum. Del resto, lo stesso Darwin, nella prima parte del libro, a proposito della nudità della pelle nell’organismo umano, si era espresso significativamente in questi termini: «l’opinione che mi sembra più probabile è che l’uomo [...] sia divenuto privo di peli per scopi ornamentali» (1983: 84, corsivo nostro). Ma poi, questa, non è forse anche l’opinione che così spesso viene data da parte degli “indigeni”, rozzi o civili che siano? Un capo africano, richiesto di spiegare perché mai la moglie portasse degli strani ornamenti infilati nel labbro inferiore, rispose stupito: «Per bellezza!» (1983: 608). La ricerca della bellezza – quale si esprime soprattutto nell’ornamento – si impone come uno dei temi più significativi dell’antropologia presente in The Descent of Man, tema che pare articolarsi su due piani: quello dell’universalità dell’esigenza e quello della particolarità delle realizzazioni. Ricercare la bellezza del corpo attraverso ornamenti di ogni tipo è una costante che Darwin attesta e che, beninteso, l’antropologia culturale non ha fatto che ­­­­­74

confermare. Ma questa esigenza così universale si realizza inevitabilmente attraverso concezioni particolari della bellezza e dell’umanità. «Certamente non è vero» – conclude Darwin – «che nella mente dell’uomo esiste una concezione universale di bellezza rispetto al corpo umano», ed è anzi «molto notevole la differenza che esiste nella concezione della bellezza fra una razza e l’altra» (1983: 616, 613): noi diremmo “tra una cultura e l’altra”. In un certo senso, la faccenda della bellezza è un po’ come quella del linguaggio esaminata da Darwin nella prima parte del suo lavoro: tutti gli esseri umani hanno una “tendenza istintiva” (questa era la sua espressione) a emettere suoni articolati; ma poi essi danno luogo a lingue che spesso sono tra loro incomprensibili. Tutti gli esseri umani ricercano la bellezza (hanno bisogno di bellezza), ma i modelli di bellezza che inventano e realizzano sono spesso molto divergenti. Per Darwin – in ciò seguendo, come egli afferma, Alexander von Humboldt e Paolo Mantegazza – i modelli di bellezza, pur divergenti tra loro, non farebbero altro che adottare suggerimenti presenti in natura, ovvero le diverse culture selezionerebbero alcuni aspetti del corpo umano e, ammirandone le peculiarità, si limiterebbero a «esagerare» questi caratteri (1983: 614-615). Se si esaminano i diversi tipi di interventi estetici sul corpo, è facile constatare che vi sono anche interventi che – a parte il dolore che comportano – potremmo definire disfunzionali o antifunzionali sul piano organico, nel senso che alterano, ostacolano o addirittura impediscono funzioni motorie, sessuali, digestive, fonatorie, respiratorie ecc. Avremo modo di riaffrontare questo problema nel capitolo seguente. Qui ci limitiamo a suggerire la nozione di interventi “contro-naturali”, intendendo con ciò designare i tipi di interventi mediante cui le culture si allontanano o persino entrano in contrasto con le condizioni naturali che indubbiamente caratterizzano gli esseri umani sotto il profilo biologico (Remotti 2008: 251). Occorre infatti riconoscere che le culture – nella loro ricerca dei modelli di bellezza e di umanità – possono addirittura dar luogo a soluzioni che vanno contro a processi, funzioni e bisogni che non sapremmo definire altro che come “naturali”. Con le sue considerazioni sugli interventi estetici sul corpo, con la sua visione – sia pure ottocentesca – di «corpi modificati artificialmente» (Darwin 1983: 615), Darwin consegna un pro­­­­­75

blema per il quale l’antropologia culturale (e non solo la biologia evoluzionistica) stenta a trovare una risposta. Su questo punto, è molto significativo ricordare – secondo l’opportuna segnalazione di Bartalesi (2012: 15) – quanto Darwin arriva ad ammettere nella sesta edizione (1876) di The Origin of Species, e cioè che lo sviluppo del «senso della bellezza (sense of beauty)» tanto negli uomini quanto negli animali inferiori «è una questione nient’affatto chiara» e su cui anzi «noi non sappiamo» nulla (Darwin 1967: 259, 538). Possiamo pure aggiungere che, proprio sul tema della bellezza, Darwin avverte una potenziale e seria minaccia per la sua teoria (1967: 257-258). In Darwin però ci sono indizi e spunti, che vale la pena sfruttare. La pelle nuda, ancora una volta, può esserci utile, proprio in quanto – come abbiamo visto – viene abbinata da un lato al carattere inerme e carente dell’essere umano e dall’altro al tema dell’ornamento e della bellezza. La pelle nuda suggerisce che le due tematiche, entrambe darwiniane, non sono del tutto separate e divergenti. Anzi, la penuria dell’essere umano può essere collegata all’esigenza della bellezza, se si fa intervenire una prospettiva certamente estranea al paradigma darwiniano, quella dell’antropo-poiesi, secondo cui, proprio a causa delle sue carenze, l’essere umano ha da costruirsi culturalmente (Remotti 2011: cap. II). Come già abbiamo visto nel capitolo I (§ 6), la “bellezza” è lì, con tutta la sua carica inquietante e misteriosa, quale dimensione ineludibile del modellare. Se l’essere umano non può sottrarsi all’esigenza del modellamento, non può nemmeno rinunciare alla ricerca della bellezza, in stretta e inestricabile connessione con l’invenzione di forme di umanità: comunque poi queste – umanità e bellezza – vengano intese (Herder 1992: 290). Ed è all’interno della prospettiva antropo-poietica che il tema dell’ornamento prende ulteriore risalto: esso non viene dibattuto soltanto nella Vienna di Adolph Loos, che sulla scia di Cesare Lombroso lo criminalizzava, e dell’art nouveau che lo esaltava; esso non è soltanto un tema della modernità del Novecento. Come Christine Buci-Glucksmann con la sua Philosophie de l’ornement (BuciGlucksmann 2010) ci può confermare, l’ornamento è un tema che attraversa le differenze culturali. È dunque un tema tipicamente e irrinunciabilmente antropologico, a cui sarà dedicato per intero il prossimo capitolo. Ma è anche un tema che – come Darwin ­­­­­76

aveva ben notato – attraversa persino le differenze di specie, e che dunque, insieme alla cultura, fa da ponte per superare lo “iato” che in modo troppo sbrigativo e maldestro è stato creato tra noi e gli altri animali.

IV

Interventi estetici sul corpo

1. La dimensione estetica e i suoi confini In A Midsummer Night’s Dream (Sogno d’una notte di mezza estate), una commedia di William Shakespeare, Ermia, innamorata di Lisandro, rifiuta di sposare Demetrio, opponendosi in tal modo alla volontà del padre, Egeo. Il duca di Atene, Teseo, la rimprovera aspramente, facendole notare che per lei suo padre dovrebbe essere simile a un dio, un dio – egli precisa – «che modellò le tue grazie» (one that compos’d your beauties) e che, proprio per questo, ha il potere o di conservare intatta la “tua” figura o, all’opposto, di sfigurarla (within his power / to leave the figure, or disfigure it): tu, Ermia, «altro non sei che cerea forma da lui plasmata» (you are but as a form in wax / by him imprinted) (I, i, 47-50 – Shakespeare 1991: 6-7). In queste poche righe Shakespeare raduna una serie di temi assai rilevanti sotto il profilo antropo-poietico: 1) l’essere umano (nel caso specifico, Ermia) può o deve essere plasmato; 2) essendo l’essere umano una sostanza malleabile, simile a “cera”, esso richiede un intervento che gli dia “forma” e “figura”; 3) l’intervento plasmatore, reso necessario dalla mancanza di forma originaria, è in quanto tale di tipo estetico: ha a che fare immediatamente con la “bellezza”; 4) l’intervento plasmatore è anche una faccenda di “potere”: nel caso di Ermia, si tratta del potere che il padre Egeo esercita sulla figlia; 5) plasmare un essere umano è un potere enorme e terribile, tale per cui il padre Egeo può dire che Ermia «mi appartiene, ed io disporrò di lei» (I, i, 42); 6) chi detiene (chi si arroga o colui a cui venga riconosciuto) un potere siffatto è assimilabile a un “dio”: plasmare gli esseri umani è un potere di natura divina; 7) come Ermia, ci si può ribellare a ­­­­­78

questo potere, sfuggire alla sua presa e modellare diversamente se stessi o la propria vita. Se non ci si può sottrarre all’antropo-poiesi, se in un modo o nell’altro occorre provvedere a un modellamento, si aprono diverse alternative inerenti ai gradi, tipi e livelli di attività antropopoietiche, nonché ai soggetti che subiscono oppure esercitano capacità di tal genere (v. capitolo II). Ma, quali che siano le attività e i soggetti considerati, è altrettanto vero che ogni intervento antropo-poietico, per il fatto stesso di modellare e dar forma, presenta implicazioni di natura estetica. Colui (dio o uomo) che modella si imbatte nel problema della forma, della sua bellezza, grazia, appropriatezza, oltre che della sua funzionalità. Il perseguimento di un fine estetico può risultare secondario rispetto a fini più propriamente funzionali. Ma gli effetti estetici sono comunque ineludibili, essendo connaturati all’idea di forma, di immagine, di modello. Nella Genesi biblica fu Dio a volere “fare” l’uomo («facciamo l’uomo») e lo fece non esattamente dal nulla, ma “modellando” – come il vasaio – la terra; inoltre Dio fece gli uomini «a norma della sua immagine» (Genesi 1, 26-27; 2, 7 – La Bibbia 1987: 10-11), e con ciò impresse un modello da cui non è lecito discostarsi. Nella commedia di Shakespeare, Teseo, mentre riconosce a Egeo un indiscutibile diritto di disporre della figlia Ermia, sottolinea vigorosamente la dimensione estetica del suo prodotto. Attribuito a Dio oppure agli uomini, il lavoro antropo-poietico è globale e pervasivo. Certo, secondo le sue finalità può dirigersi prevalentemente verso questo o quell’aspetto della realtà umana. È quindi del tutto plausibile che si determini una gerarchia di fini antropo-poietici, nel senso che si potrà dare, per esempio, maggiore importanza al modellamento morale, piuttosto che all’educazione intellettuale, oppure privilegiare le dimensioni intellettuali e morali rispetto a quelle sensibili o, al contrario, curare maggiormente il corpo rispetto all’anima o allo “spirito”. Anche quando l’antropopoiesi si concentra sulle dimensioni spirituali è bene non dimenticare che vi è in effetti un’estetica dello spirito, ovvero che le preoccupazioni estetiche non si riducono affatto alla cura del corpo1. 1   Tipica è l’espressione “una bella persona”, quando si vuole indicare il senso di gradevolezza che promana da una persona il cui comportamento culturale è ben costruito. Su un piano più filosofico, inevitabile è il riferimento alla teoria

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È indubbio, tuttavia, che come la dimensione estetica è ineludibile per qualsiasi tipo di foggiatura antropo-poietica, così non ci si può mai sottrarre del tutto alle preoccupazioni per gli aspetti del corpo. Ammettere la dimensione estetica di qualsiasi tipo di intervento antropo-poietico significa riconoscere l’onnipresenza del corpo in ognuno di questi tipi di interventi. Anche quando il corpo viene trascurato o condannato, esso subisce effetti estetici di indubbio rilievo: il rifiuto di curare l’estetica del corpo è comunque una scelta di tipo estetico. Pure quando non si perseguono obiettivi di bellezza, e al contrario si abbandona volutamente un simile tipo di preoccupazioni, non si esce affatto da un’estetica del corpo. Sosteniamo dunque le seguenti tesi. 1) Ogni progetto antropopoietico, per il fatto stesso di essere un modellamento, comporta necessariamente una qualche dimensione estetica. 2) Tale dimensione passa attraverso una qualche scelta estetica relativa al corpo. 3) Tale scelta può essere conforme ai canoni di bellezza di una determinata società, oppure contraria e alternativa ad essi. 4) Più precisamente, tale scelta può configurarsi: a) come una scelta di conformità rispetto ai canoni di bellezza comunemente accettati; b) come una scelta alternativa rispetto ai canoni di bellezza vigenti; c) come una scelta di non-intervento. Se nel caso a) gli individui si impegnano a realizzare sul loro corpo modelli e tipi ampiamente diffusi nella loro società, e se nel caso b) gli individui si ingegnano invece a ricercare modelli di bellezza difformi rispetto a quelli vigenti, contravvenendo ai canoni particolari della propria società, nel caso c) gli individui si spingono invece ai limiti della stessa estetica del corpo, non già scegliendo interventi difformi, alternativi o contrastanti, bensì scegliendo il “non-intervento” (o una serie di “non-interventi” su singoli aspetti particolari). L’estetica del corpo si articola quindi in “Interventi” e in “Non Interventi”, intendendo che anche i “Non Interventi” (singoli o globali che siano) rappresentano una scelta che riguarda l’estetica del corpo: ci si spinge ai suoi confini, ma tutto sommato ci si mantiene entro i suoi limiti. Per quanto ideologicamente si possa scegliere il “non-intervento” globale (ritenendo che il corpo debba dell’anima bella (schöne Seele) di Friedrich Schiller con le sue idee di grazia e di dignità (Schiller 1998; 2010).

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essere del tutto ed esclusivamente affidato alle sue manifestazioni, funzioni e processi naturali), sembra inevitabile che ci si debba accontentare però di una serie di “non-interventi” particolari (si lasceranno crescere, per esempio, barba e capelli, ma ci si adatterà a tagliare le unghie o a togliere certa sporcizia dal proprio corpo). Potremmo aggiungere che i “Non Interventi” rientrano nella categoria delle “Sospensioni” culturali che abbiamo indagato di recente: può succedere che gruppi o individui decidano di non estendere le proprie attività di intervento in determinati settori, ovvero di arrestare l’esercizio di attività che pure caratterizzano la propria cultura. I baNande del Nord Kivu sospendevano per esempio la propria attività di disboscatori in alcuni punti del loro territorio (una sospensione di ordine spaziale), così come sospendevano le proprie attività di coltivatori in occasione della morte dei loro capi (sospensione di ordine temporale) (Remotti 2011: cap. VIII). Gli interventi estetici sul corpo (d’ora in avanti designati con l’acronimo IEC) possono essere classificati secondo una tipologia più o meno estesa e articolata. Ma, qualunque sia il numero delle categorie di IEC individuate, possiamo ipotizzare tre diversi generi di situazioni: i) società (o al loro interno individui) che tendono ad accumulare tutti i possibili tipi di IEC; ii) società (o individui) che adottano soltanto alcuni tipi di IEC; iii) società (o individui) che rifiutano ogni tipo di IEC e che anzi intendono rifiutare l’idea stessa di intervento estetico sul corpo. Come è facile intuire, i due estremi (tutti/nessun tipo di IEC), per quanto teoricamente ipotizzabili, ben difficilmente corrispondono a situazioni reali (sia a livello individuale, sia a livello sociale). Decisamente più probabile è invece la situazione intermedia, in cui società e individui inventano, elaborano o adottano un certo numero di IEC, quantitativamente variabile secondo le scelte operate, con esclusione di altri. Ciò significa che società e individui si differenziano tra loro sia per i tipi di IEC adottati sia anche per il numero di IEC prescelti. A un estremo vi sono società e individui che si riempiono di segni e che dunque manifestano in modo del tutto palese l’esigenza antropo-poietica di intervenire sul corpo al fine di modificarlo; all’altro troviamo invece società e individui che tendono a ridurre al minimo gli IEC e per i quali è decisamente più importante astenersi da certi interventi (specialmente dagli ­­­­­81

interventi più invasivi) e cercare di mantenere il corpo nella sua integrità “naturale”. In altri termini, società e individui possono esibire prospettive antropo-poietiche per così dire barocche (in cui si accumulano tipi molto diversi di IEC) e prospettive antropo-poietiche scarne ed essenziali, centrate su modelli fortemente selettivi di IEC. Potremmo allora richiamare il concetto di “densità” relativa, suggerendo che vi siano culture più dense e culture meno dense per quanto riguarda gli interventi estetici sul corpo. Facendo intervenire, insieme a quello di sospensione, il concetto di densità culturale (2011: cap. VII), ci apriamo la strada a un’ulteriore considerazione. Sospendere, scegliere di non intervenire, significa lasciare spazio a forze, fattori, fenomeni, processi di altra natura, rispetto agli interventi di ordine culturale (si lasciano crescere unghie o capelli sul proprio corpo, così come tra i baNande si lasciano crescere del tutto spontaneamente gli alberi che formano le tombe arboree dei loro capi [Remotti 2007-2008]). Come abbiamo già detto, anche questa è una scelta di tipo estetico, esattamente come le tombe arboree dei capi nande sono opere d’arte, pur affidate nella loro costruzione alle forze naturali degli alberi di foresta: scelta che si spinge ai confini, pur rimanendo entro i confini dell’estetica. Ma se possiamo immaginare gli interventi estetici sul corpo come un’area a densità variabile, con sospensioni più o meno volute e progettate, è inevitabile pensare anche ai confini e ai limiti che quest’area subisce e alle situazioni e fattori che agiscono contro le possibilità di intervento estetico, impedendone la realizzazione e finanche l’ideazione. Come avremo modo di vedere in seguito, l’antropo-poiesi subisce impedimenti e arresti organici (si pensi alle malattie) e soprattutto conosce nella morte il suo scacco definitivo. Obiettivo di questa prima parte è però quello di concentrarsi sulla molteplicità degli interventi positivi sul corpo, elaborando una tipologia sufficientemente articolata di IEC. Proprio analizzando tale tipologia ci si renderà conto dell’impossibilità da un lato di adottare e dall’altro di evitare tutti i tipi di interventi; ovvero le società oscillano tra i due estremi, posizionandosi – spesso in modo temporaneo – più verso un estremo o più verso l’altro. Inoltre, per quanto una società possa definirsi attraverso la scelta di particolari tipi di IEC (Maori e isole Marchesi, per esempio, attraverso il tatuaggio), ben difficilmente gli IEC prescelti ­­­­­82

riguarderanno tutti i membri di quella società, nello stesso modo e nella stessa misura. Nel campo IEC le variazioni individuali, spesso in relazione a differenze di rango, di età, di genere e così via, sono all’ordine del giorno. Questa osservazione del resto apre la strada a un’altra riflessione, ovvero la tendenza da parte degli individui a esplorare vari tipi di IEC, così che in una società si possono riscontrare fluttuazioni, tentativi, soluzioni temporanee, abbandoni. Alla base degli IEC presenti nelle diverse società (e nei diversi individui) vi sono dunque selezioni mirate, principi e atteggiamenti che esprimono nello stesso tempo convinzioni e incertezze, ricerche ostinate e perplessità di fondo. 2. Tipologia (categorie I-XIX) Costruire una tipologia di IEC ha il significato di provare a mettere un po’ di ordine in una molteplicità incredibilmente complessa e variegata di fenomeni culturali. Si è già cercato in due occasioni precedenti di proporre una tipologia di IEC. La prima era costituita da 14 tipi (Remotti 2000: 123-138), mentre la seconda si è arricchita di ulteriori categorie, facendo salire il numero a 21 (Remotti 2005: 338-339). In questa sede, oltre a incrementare l’illustrazione dei contenuti dei singoli tipi, si è pensato di concentrarsi sulle ultime categorie, quelle per così dire “funebri” o “tanatologiche”, aggiungendo due categorie che originariamente non avevamo previsto, ossia – nel nuovo elenco – la categoria XX, dedicata agli interventi “in vista della morte” e la categoria XXIII, quella della “dissoluzione”. Sia l’introduzione di queste nuove categorie, che fanno salire il totale a 23, sia una più estesa trattazione delle categorie tanatologiche, sono dovute ad analisi e riflessioni riguardanti il nesso tra l’antropo-poiesi e i processi del morire (Remotti 2006). Pure questa terza tipologia non è altro che un’ipotesi di lavoro. Non raggiunge cioè il livello di una tassonomia vera e propria, se a questa nozione intendiamo annettere un valore sistematico. Nel tentativo proposto il sistema è piuttosto carente, e comunque non è stato perseguito come obiettivo. Si è voluto sacrificare un impianto sistematico per conseguire invece un altro scopo: quello di elaborare un’immagine ampia e sufficientemente articolata delle ­­­­­83

possibilità di IEC. Per fare questo era assolutamente inevitabile costruire dei “tipi” o delle “categorie” dotate di una certa plausibilità e aderenza ai casi concreti: solo mediante questi mezzi ci è sembrato possibile provare ad addentrarsi nella foresta intricata degli interventi estetici a cui il corpo può essere sottoposto. Ridurre in qualche modo la varietà ed eterogeneità degli IEC, sottoponendole a una sorta di controllo concettuale e tipologico, ci è sembrato una via obbligata per potersi rendere conto con maggiore precisione della pluralità dei modi che le società hanno inventato per modificare il corpo, per trasformarlo e conferire ad esso valori e significati (sia in vita, sia in occasione della morte). Il prezzo che si è dovuto pagare, insieme alla carenza di sistematicità, è un elevato grado di difformità delle categorie. Una tipologia, per quanto non sistematica, ubbidisce comunque a determinati criteri. Ed è quindi opportuno chiarire i criteri principali, insieme ad alcuni avvertimenti. 1) Un primo criterio è stato quello di considerare il corpo nelle sue tre principali condizioni: quella di “corpo vivo”, quella di “corpo morto” e quella di “corpo distrutto” (a cui si riferisce l’ultima categoria), così da avere uno spettro il più ampio possibile di IEC. 2) Occorre poi avvertire il lettore che sono presenti alcune “super-categorie” (come, per esempio, la categoria XVII, dedicata in modo globale alla “chirurgia estetica” che si autodefinisce moderna), le quali richiederebbero certamente una trattazione più analitica. Nonostante la loro ampiezza e, forse, genericità, esse hanno il significato di perimetrare alcuni campi di ricerca, che assumono comunque un loro rilievo se posti a paragone con categorie confinanti. 3) Un criterio, che ci è sembrato importante seguire, è stato poi quello di non privilegiare unicamente gli IEC i cui effetti siano percepibili dalla vista: e questo principio ci ha indotto a proporre categorie ulteriori (rispetto al primo elenco), come la III, la VIII e la IX. 4) Uno dei criteri più esplicitamente adoperati nell’elencazione delle categorie, riguardanti specialmente i corpi vivi, è stato quello del progressivo passaggio dall’esterno all’interno dell’organismo. 5) Tale criterio si combina abbastanza bene – com’è facile intuire – con il tema della reversibilità/irreversibilità degli interventi (quanto più un intervento è esterno, tanto più risulta reversibile). 6) Le nozioni di interiorità ed esteriorità, così come di reversibilità e irreversibilità, richiamano a loro volta una questione che torna ­­­­­84

insistentemente in tutta la problematica antropo-poietica: quella del dolore e della sofferenza, quali aspetti inevitabili di diversi tipi di intervento. Riprenderemo questo tema, una volta terminata l’esposizione della tipologia degli IEC dei vivi (§ 3). Qui, in sede preliminare, sarà sufficiente avvertire che, in maniera forse un po’ arbitraria e dunque discutibile, si è dato maggiore spazio alla dimensione del “dolore” rispetto a quella del “piacere”, come se il piacere contenesse minori stimoli teorici, mentre il dolore appare agli occhi degli studiosi come una sfida, per chiarire la quale si richiede un maggiore impegno teorico (Le Breton 2007). La nuova tipologia è dunque la seguente: I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII

Oggetti esterni Toilette Profumazione Cosmesi, coloritura e pitture corporali Modellamento di annessi della pelle (peli, unghie, capelli) Modellamento di struttura muscolare Modellamento di struttura ossea dall’esterno Modellamento del comportamento Modellamento della voce Tatuaggi Scarificazioni Bruciature e marchiature della pelle Perforazioni e inserimento di oggetti esterni Intaglio dei denti Amputazioni Chirurgia genitale Chirurgia estetica moderna Alimentazione e diete Interventi chimici e ormonali Interventi in vista della morte Trattamento del cadavere Produzione e trattamento dei resti umani Dissoluzione

I. Oggetti esterni. Un primo tipo di interventi estetici consiste nel far indossare al corpo oggetti che possono essere sia raccolti nell’ambiente sia appositamente costruiti. Un fiore infilato nei capelli di una fanciulla è un esempio di oggetto raccolto dall’am­­­­­85

biente naturale; un serto di fiori deposto sul suo capo è invece un oggetto artigianalmente costruito. La categoria degli oggetti esterni è comunque molto ampia, perché comprende tutti i generi di abbigliamento (abiti, calzature, copricapi), tutti i monili che possono essere posti su varie parti del corpo, nonché tutte le specie di maschere. Questa categoria è tanto vasta che, a rigore, avrebbe potuto scindersi in quattro o cinque sottocategorie. Che dire infatti della molteplicità di abiti e della variabilità di fogge che essi assumono sia tra le diverse società e i diversi periodi storici, sia al loro interno? Che dire delle materie (vegetali, animali, minerali o sintetiche) a cui gli esseri umani hanno fatto ricorso per costruire i loro abiti? Se poi si tiene conto di come «alla sterminata varietà degli impieghi sul piano ergologico» si unisce «una varietà ugualmente vasta di interpretazioni simboliche», ha ragione Vinigi Grottanelli nel concludere che uno studio approfondito del vestiario equivarrebbe a «un’analisi praticamente completa della cultura umana» (Grottanelli 1965: 77). Se quindi al vestiario si aggiungono i copricapi, le parrucche, gli ornamenti di ogni tipo (dai perizomi agli astucci penici), le calzature, i monili appoggiati o appesi a non importa quale parte del corpo, ed infine le maschere con tutta la loro carica di significati e di forme, i dubbi circa la plausibilità di una categoria di questo genere insorgono numerosi. Si è voluto però mantenere l’unità di questa categoria sulla base dei seguenti presupposti. A) Nonostante la funzione adattiva e protettiva che i diversi generi di abbigliamento possono svolgere, è indubbio tuttavia il loro valore comunicativo e simbolico (in relazione al genere, al rango, alle situazioni, ai contesti ecc.), e questo valore li accomuna ai monili e alle maschere. B) Gli IEC qui considerati hanno tutti le seguenti caratteristiche comuni: i) si riferiscono ad “oggetti” visibili e tangibili; ii) questi oggetti vengono selezionati o costruiti appositamente; iii) tali oggetti vengono fatti indossare al corpo secondo le differenti occasioni; iv) similmente tali oggetti vengono pure fatti levare al corpo per altre occasioni. Gli IEC di questa categoria I si svolgono dunque all’esterno del corpo, in una zona – potremmo dire – che avvolge il corpo e di cui costituisce un prolungamento. Gli IEC I consistono infatti nella selezione e manipolazione di materiali esterni e nell’aggiunta e sovrapposizione di oggetti su qualche parte esterna del corpo. Gli oggetti di cui qui si tratta hanno una loro consistenza, una loro ­­­­­86

autonomia e relativa indipendenza dal corpo che normalmente li indossa (a parte alcuni tabù in senso contrario, un abito, un monile, una maschera possono essere indossati anche da altri). Il lavoro di intervento estetico si concentra a lungo su tali oggetti, prima che sul corpo: basti pensare alla cura (artigianale e spesso artistica) con cui vengono costruiti abiti, copricapi, calzature, monili, maschere. Dopo di che si passa alla fase dell’intervento sul corpo, che consiste per lo più in un “mettere” e in un “levare”. E tuttavia, questa più semplice operazione (è più semplice “mettere e levare” che non “costruire”) diventa assolutamente decisiva: il corpo, il suo apparire, la sua configurazione più esterna si modificano radicalmente a seconda che tali oggetti vengano indossati o tolti. Un corpo vestito con abiti da lavoro non è lo stesso che quando è abbigliato con abiti da cerimonia o quando è nudo. L’esteriorità, l’autonomia degli oggetti, la loro intercambiabilità, la relativa facilità con cui possono essere messi e tolti, l’occasionalità del loro uso sono tutte caratteristiche che rendono questa categoria I come la più “superficiale” (in senso tecnico), quella che interessa l’apparenza più mobile ed esterna, quella che modifica di meno il corpo come entità biologica e incide di meno sui suoi organi; e tuttavia i suoi interventi risultano comunque decisivi nel modificare, anche radicalmente, l’immagine sociale dell’individuo, della persona e del corpo che la incarna. Sarà bene aggiungere che qui la dimensione estetica si intreccia indubbiamente con altre funzioni: da quella ecologico-protettiva a quella sociologico-comunicativa. Ma l’intreccio di queste dimensioni non è affatto da intendersi come una loro reciproca armonizzazione. Può succedere infatti che la ricercatezza estetica vada a detrimento della funzione protettiva (le gambe parzialmente scoperte delle donne nelle società occidentali anche nella stagione invernale); così come può succedere che la scelta estetica di indumenti e tipi di abbigliamento celi, più che svelare o “comunicare”, l’appartenenza a generi, classi, ceti, strati sociali. In effetti, le coordinate della dimensione estetica degli IEC I coincidono in gran parte con il “coprire” e lo “svelare”: coprire e svelare il corpo, così come coprire e svelare condizioni sociali, intenzioni o propensioni personali e così via. È importante rendersi conto che vi sono società “nude” e società “coperte”, società per le quali è sufficiente deporre sul ­­­­­87

corpo un ornamento e società che invece tendono a coprire il più possibile il corpo nella sua interezza. Come è evidente, non è soltanto una faccenda di clima; è anche una faccenda di pudore: entrambi variano e non è detto, però, che varino in maniera concomitante. Le donne afgane tutte coperte dai loro burqa sono la dimostrazione di un’intenzionalità culturale del “coprire”. All’opposto, presso molte società – specialmente della fascia equatoriale e tropicale – il vestiario può ridursi davvero a poca cosa (a un semplice ornamento, per esempio) e non è affatto detto che tali oggetti debbano per forza coprire i genitali, maschili o femminili (Grottanelli 1965: 74). Del resto, anche quando “coprono” i genitali, la dialettica del velare/svelare è costantemente accentuata, come è dimostrato dai vistosi astucci penici degli uomini della Nuova Guinea e della Melanesia o dai succinti costumi da mare delle nostre spiagge: si cela (o si fa finta di celare) esattamente ciò che si vuole mettere in mostra. In fondo, sono proprio le maschere l’oggetto che maggiormente sintetizza le caratteristiche della categoria I: l’esteriorità (o superficialità) dell’intervento estetico; il carattere esterno e costruito dell’oggetto; la dinamica del mettere e del togliere; la dialettica del coprire e dello svelare. II. Toilette. Gli IEC II si rivolgono direttamente al corpo, alla sua epidermide e ai suoi orifizi. Qui il contatto con il corpo si traduce prevalentemente in una eliminazione di suoi escreti e secreti, così come di materiali imbrattanti che dall’esterno si vengono a depositare sul corpo. A questo fine, il corpo può essere lavato, strofinato, raschiato. Oltre alla pratica del bagno e all’uso dell’acqua e del sapone, occorre ricordare anche il ricorso ad altre sostanze detergenti, come bacche, frutti e radici di certe piante. In certe zone, la scarsità d’acqua può rendere il lavarsi estremamente difficile, e allora è interessante ricordare che la neve mista a orina diventa presso gli Inuit dell’Alaska un sostituto dell’acqua e che il contenuto ammoniacale apre i pori, facilitando l’estromissione delle impurità e del sudore (1965: 62-63). Ma non è soltanto questione di mezzi e di metodi mediante cui perseguire un fine che potrebbe sembrare del tutto “naturale”. Per convincersi del significato “culturale” che la pulizia del corpo inevitabilmente assume è sufficiente pensare quanto lungo, difficile e persino penoso sia il suo apprendimento a cominciare dall’infanzia. L’igiene è par­­­­­88

te integrante del nostro tipo di educazione; ma l’igiene – come ha dimostrato Mary Douglas (1975) – non è affatto soltanto una questione di progresso scientifico (acquisizione di nozioni circa l’esistenza di batteri, per esempio): essa è l’espressione di una visione “cosmologica”, in cui ordine del mondo, della società e del corpo si combinano e si richiamano a vicenda. «Non esiste qualcosa come lo sporco in assoluto» e «la sua eliminazione non è un atto negativo»; è invece «un’azione creativa» che risponde a un’idea su sé, l’esperienza, il mondo (Douglas 1975: 20). Per i bramini Havik, per esempio, è necessario almeno un bagno al giorno per poi compiere gli atti di culto, e l’ingestione di cibo deve essere preceduta dal lavaggio sia delle mani sia dei piedi. Inoltre, per i bramini Havik «tutto ciò che fuoriesce dal corpo [...] è fonte di impurità»; se dunque inavvertitamente ci si sfiora le labbra e quindi la propria saliva con le dita, occorre procedere al lavaggio delle mani e al cambiamento d’abito (1975: 63). Per Mary Douglas non è possibile opporre le “loro” idee, “simboliche”, alle “nostre”, “igieniche”: «anche i nostri concetti di sporco esprimono dei sistemi simbolici» (1975: 64), ovvero un particolare modo di concepire se stessi nel mondo (un’antropologia, oltre che una cosmologia). III. Profumazione. Mentre la categoria II elimina con lo sporco anche gli odori considerati sgradevoli o non confacenti al tipo di umanità che si ritiene di dover incarnare, la categoria III si distingue per il fatto di “mettere” o “aggiungere” al corpo sostanze odoranti. Di norma, si aggiungono al corpo sostanze “bene” odoranti, anziché “male” odoranti: e ciò non in assoluto, bensì in relazione a quanto in una cultura è considerato “buono” o “cattivo” dal punto di vista dell’olfatto. L’etnografia fornisce diversi esempi di uso di profumi a scopo estetico. Qui ci limitiamo però all’esempio dei Dassanetch dell’Etiopia, in quanto illustra in modo significativo i temi ora accennati. La società dei Dassanetch è costituita da due gruppi distinti, i pastori e i pescatori, disposti in uno schema gerarchico, in base al quale i pastori sono considerati superiori ai pescatori. Ebbene, mentre si ritiene che i pescatori emanino un cattivo odore, i pastori avvolgono il loro corpo degli odori dei loro animali, giudicati buoni. Per questo motivo, i pastori spesso si lavano le mani con l’urina dei loro animali e si ­­­­­89

imbrattano il corpo con il letame del loro bestiame: per i Dassanetch questo non è semplicemente odore, e tanto meno cattivo odore; è invece «profumo» (Almagor 1987: 109). La categoria III è dunque costituita da tutti quegli interventi che “aggiungono” al corpo sostanze odoranti, e ciò sia in combinazione con gli interventi della categoria II, i quali eliminano gli odori del corpo, sia indipendentemente da essi, allorché i profumi aggiunti hanno la funzione di “coprire” (nascondere o attutire) gli odori corporali. Lo spazio che l’antropologia degli odori si è guadagnata nell’ambito più vasto dell’antropologia dei sensi (Howes 1991) ci fa capire che il modellamento estetico dell’essere umano non è soltanto di natura visiva e tattile: l’antropo-poiesi e i processi collegati di identificazione/differenziazione passano anche attraverso l’olfatto (Classen 1992; Gusman 2004). IV. Cosmesi, coloritura e pitture corporali. La categoria IV implica anch’essa un intervento diretto sulla superficie cutanea, su cui si spalmano sostanze di vario genere in modo uniforme oppure secondo particolari disegni e modelli. Inoltre, la cosmesi – attività soprattutto femminile nella nostra società, eminentemente maschile invece tra i Wodabe della Repubblica del Niger – implica un lavoro accurato e sapiente di pittura del corpo e specialmente del volto: «davanti al suo specchio la donna si fa pittrice» (Borel 1992: 59), così come grandi pittrici erano le donne Caduveo con i loro disegni geometrici dipinti sul volto (Lévi-Strauss 1960). Questo tipo di interventi produce effetti trasformativi di una certa durata, in quanto si lavora sul corpo stesso, non su oggetti esterni che vengono depositati all’occorrenza su di esso; ma, mentre gli oggetti esterni (categoria I) hanno una loro autonomia che consente di solito una prolungata riutilizzabilità, gli interventi della categoria IV (come, del resto, quelli della categoria III) sono decisamente più effimeri ed esigono perciò di essere ripetuti. A proposito dei Caduveo, Lévi-Strauss ci informa che un tempo esisteva tra loro anche la tecnica del tatuaggio. Non si sa per quale motivo essi abbiano abbandonato il tatuaggio, che consente di fissare in modo indelebile i disegni sul corpo, quei disegni che, secondo i Caduveo, conferiscono «all’individuo la sua dignità di essere umano» (Lévi­­­­­90

Strauss 1960: 183)2. Sta di fatto che i Caduveo – per evenienze incontrollabili o per scelta deliberata – si sono ritrovati a “fare” umanità con segni delebili ed effimeri. Per il senso dell’umanità è forse più appropriato ciò che è effimero e transeunte e che proprio perciò va costantemente ripetuto? In ogni caso, vale la pena aggiungere l’osservazione di Grottanelli (1965: 57), ossia che «il carattere poco permanente della pittura trova un compenso – nei confronti del tatuaggio – nella gamma assai maggiore dei colori usati», e dunque in una maggiore ricchezza di mezzi espressivi e simbolici messi a disposizione dei pittori del corpo. È opportuno integrare questa quarta categoria con la coloritura dei capelli e con la laccatura delle unghie, ben presenti nella nostra società, e che, di norma, rispetto al trucco e alle pitture corporali, fruiscono di una maggiore durata. Aggiungiamo però anche la coloritura dei denti ottenuta con diverse sostanze, tra cui il betel e una specie di bitume, ottenuto dal miscuglio di latte di cocco, limatura di ferro e scorza di melograno (pratiche attestate nel Sud-Est asiatico). In questi casi, per quanto durevole possa essere, «la tinta è delebile» (Chippaux 1990: 533). Chippaux riferisce però anche di una particolare tecnica di tinteggiatura dei denti, il cui effetto è permanente, grazie all’uso di una droga a base di gomma lacca secreta da un animale: al colore rosso iniziale subentra una tinta nera che se «ben realizzata, è indelebile». Occorre dire che con questi ultimi esempi la categoria qui trattata subisce una certa dilatazione, giacché viene costretta a comprendere anche interventi che agiscono su parti (i denti) decisamente più interne del corpo, che non la pelle, i capelli o le unghie, e che possono produrre modificazioni assai più durevoli o addirittura indelebili. Ma non è soltanto una questione logica, inerente alla coerenza interna della categoria IV. Più significativo è il fatto che nella stessa categoria vediamo coabitare tendenze opposte, quella che produce segni effimeri e quella che produce segni indelebili: una coabitazione, un’oscillazione, una tensione   I Caduveo, come tante altre società, inorridirebbero a sentire quanto affermava il grande Johann W. Goethe all’inizio dell’Ottocento(1988: 55): «La pittura e il tatuaggio del corpo sono un ritorno allo stato bestiale», anche se pure gli animali non sono esenti dalla ricerca dell’ornamento e della bellezza (v. capitolo III). 2

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che (forse) i Caduveo hanno conosciuto nella loro storia e che, comunque, caratterizzano, oltre che la categoria IV, l’intera serie delle categorie qui prese in esame. V. Modellamento di annessi della pelle (peli, unghie, capelli). Gli interventi compresi nella categoria V operano anch’essi – come tutti gli interventi precedenti – sulla parte esterna del corpo. Essi non si limitano però a depositarvi oggetti o sostanze (dagli abiti ai profumi, ai colori), né a spalmare sostanze coloranti sull’epidermide. Per un certo verso, gli interventi della categoria V richiamano quelli della categoria II, in quanto consistono molto spesso in processi di eliminazione. Ma, mentre nella categoria II sporcizia e odori sono eliminati con gesti di strofinamento e al massimo di raschiatura, qui l’eventuale eliminazione di annessi della pelle comporta quasi necessariamente l’uso di strumenti che “tagliano”. È la prima volta che nella successione delle categorie proposte vediamo apparire la nozione del “tagliare” e quindi il ricorso a una strumentazione apposita. Come osserva Grottanelli (1965: 64), gli strumenti moderni, con cui tagliamo in maniera praticamente indolore gli annessi della pelle, ci fanno dimenticare che, per esempio, la depilazione del corpo è altrove «una vera e propria mutilazione». Coltelli poco affilati, schegge di selce, conchiglie, denti di pescecani, frammenti di vetro sono gli strumenti con cui per lo più si procede alla «tortura della depilazione», che può riguardare i peli superflui del corpo, del pube, delle ascelle, del viso, ma anche ciglia e sopracciglia. In Polinesia la rasatura del capo ha lo scopo di «aumentare la superficie del viso da ornare con tatuaggi» (1965: 66). Non vi sono però soltanto interventi che eliminano (che radono e che tagliano); vi sono anche interventi che modellano; e vi sono anche scelte di “non-intervento”. Casi tipici per queste tre possibilità sono i peli della barba e i capelli. I Sikh dell’India non intervengono in alcun modo a tagliare la barba, che viene poi annodata sotto un turbante. I mandarini cinesi facevano altrettanto per quanto riguarda le unghie, che venivano lasciate crescere indefinitamente, a tal punto da non poter utilizzare le mani (Borel 1992: 54). In questa categoria V cominciano ad affiorare comportamenti, il cui esito (o scopo?) è quello di intralciare, se non addirittura impedire, la funzionalità di certi organi: in parecchie ­­­­­92

categorie successive, e dunque nell’economia generale degli IEC, vedremo che il tema dell’intralcio o dell’impedimento funzionale avrà un suo peso determinante. Un’altra novità della categoria V è il modellamento tridimensionale (e non più la decorazione bidimensionale) a cui possono essere sottoposti gli annessi della pelle. Nella maggior parte delle società, «la chioma è proprio la parte del corpo umano che riceve le cure maggiori, da parte degli uomini ancor più che delle donne», e «sterminata è la varietà delle acconciature» (Grottanelli 1965: 67). I Tupi-Guaraní usavano cera d’api su cui conficcavano una quantità di penne policrome; gli Omaha si radevano parzialmente il capo così da rappresentare l’animale totemico; i Pawnee si acconciavano in modo da avere un ciuffo eretto e appuntito. In Asia le donne hanno dato luogo a una grande varietà di acconciature con la treccia; in Africa esse ricorrono abbastanza spesso al modello delle treccioline multiple, a cui in alcuni casi aggiungono catenine e monili di vario tipo. Come sostiene Grottanelli (1965: 67), le acconciature del capo, maschili e femminili, sono il campo privilegiato di «quel singolare fenomeno che è la moda», in cui la fantasia e l’invenzione si combinano con le tradizioni e le esigenze di differenziazione sia di tipo etnico, sia di genere. Eliminare, foggiare, non intervenire: queste sembrano essere le alternative fondamentali di questa categoria, in cui per la prima volta, in vista di risultati estetici, vediamo affiorare in maniera consistente sia il dolore (insieme al tagliare), sia l’intralcio funzionale. VI. Modellamento di struttura muscolare. Diversi criteri motivano la successione delle categorie qui proposte: uno di questi è il progressivo passaggio dall’esterno all’interno; un addentrarsi graduale nelle parti più interne del corpo. Con la categoria VI si agisce ancora dall’esterno, ma gli interventi non riguardano più la pelle o ciò che cresce sulla pelle (gli annessi della categoria V), bensì ciò che sta sotto la pelle, ovvero il tessuto muscolare e con esso anche il connettivo sottocutaneo e la cute. Senza dubbio sarà possibile trovare esempi di questo tipo di interventi in diverse aree culturali, come l’Amazzonia, dove si assiste alla deformazione deliberata di polpacci e di braccia portando per anni fasce molto strette (1965: 46). I casi più evidenti e clamorosi sono però rintracciabili nella nostra stessa società, in cui attraverso massag­­­­­93

gi, elettrostimolazione, atletica, esercizi sportivi, body building, si provvede programmaticamente a modellare la struttura muscolare e con essa anche l’epidermide. Le modificazioni possono essere anche vistose (come nel caso del body building) e alquanto durature. Esse però non raggiungono permanenza e irreversibilità, che sono caratteristiche esclusive delle categorie che vengono dopo (a cominciare dalla categoria VII). Questo tipo di interventi richiede quindi una certa continuità e la ripetizione di esercizi, aventi lo scopo di mantenere le modificazioni desiderate. VII. Modellamento di struttura ossea dall’esterno. Anche questa è una categoria di interventi “esterni”. Già nella categoria VI l’azione modellante dall’esterno era però indirizzata su parti interne, come il tessuto muscolare. Gli interventi della categoria VII, pur mantenendosi esterni, prolungano i loro effetti ancora più all’interno, venendo a interessare le strutture ossee. Inoltre, modificando le strutture ossee, gli interventi VII provocano anche modificazioni irreversibili. L’azione principale mediante cui si ottengono tali modificazioni è la compressione. Cranio, collo, torace e piedi sono le parti del corpo maggiormente interessate da questi tipi di interventi. Il modellamento del cranio – sostiene Chippaux – «non è un gesto semplice»: esso richiede pazienza e prudenza, anche se è noto che «il cranio infantile è un involucro plastico di ossa cartilaginose che obbedisce alle pressioni esterne» (1990: 506, 509). Sono stati individuati due tipi fondamentali di modellamento del cranio, vale a dire un modellamento tabulare fronto-parietale, ottenuto con l’uso di assicelle che appiattiscono la parte frontale (si parla in questo caso di brachicefalia artificiale) e un modellamento circolare, ottenuto con l’uso di fasciature che allungano il cranio lungo l’asse longitudinale (dolicocefalia artificiale). Nelle Americhe troviamo entrambi i tipi di modellamento: Aztechi, Maya, Inca e altri gruppi di Amerindiani sono esempi significativi; così come l’Oceania, il Sud-Est asiatico, l’India, la Cina e certe zone dell’Europa in alcuni periodi storici, per non parlare dell’Africa, con i Mangbetu del Congo nord-orientale. Se si indaga sulle possibili motivazioni, è significativo segnalare come il modellamento del cranio fosse per i Mangbetu segno di nobiltà, e tra gli Amerindiani del Nordamerica una pratica vietata agli schiavi. ­­­­­94

Tra gli Inca, invece, la testa arrotondata era ritenuta adeguata ai guerrieri, mentre la testa piatta era caratteristica delle popolazioni sottomesse, considerate «semplici e senz’anima» (1990: 511-512). Questi brevi esempi ci fanno capire come modellamento e nonmodellamento, oppure modellamento di un tipo e modellamento di un altro, siano da collegare a diverse immagini di umanità. Per alcuni dei casi qui riportati la vera e più autentica forma di umanità è quella il cui cranio viene modellato, mentre il non-modellamento segna – in negativo – le forme inferiori di umanità. Oppure sono i tipi diversi di modellamento a svolgere questa funzione di differenziazione antropologica. Nel Sud-Est asiatico, e in particolare presso i Padaung tra Cina e Birmania, troviamo gli esempi più vistosi di allungamento del collo (che però in realtà è un abbassamento di costole e clavicole [Borel 1992: 95]), ottenuto mediante progressiva aggiunta di anelli. Si inizia all’età di cinque anni e si prosegue ogni ventiquattro lune, fino a quando la giovane raggiunge l’età adulta e potrà sposarsi: un collo lungo assicura un buon matrimonio. Un collo così trattato può raggiungere una lunghezza di venti centimetri. Chippaux pone in luce le conseguenze anatomiche di questo tipo di intervento, sottolineando che l’immobilità forzata comporta «l’atrofia dei muscoli del collo, che perdono ogni funzionalità, venendo questa compensata dalla mobilità del tronco» (Chippaux 1990: 535). Privata di questa incastellatura di anelli (è la minaccia che incombe sulla donna infedele), la testa non più adeguatamente sorretta dai muscoli del collo cadrebbe con effetti letali per la donna. Ma – come si legge in Chippaux (1990: 536) – «la donna padaung è fiera della sua parure». L’uso di corsetti rigidi per assottigliare la cassa toracica delle donne è un intervento estetico tipico dei secoli della modernità in Europa. Alla deformazione del torace si accompagnano un’alterazione della funzione respiratoria e un ostacolo alla lattazione: conseguenze assai gravi che avevano indotto alcuni stati europei al divieto del corsetto. Comparso nel XV secolo e poi vietato, esso è ritornato di moda nell’Europa della Belle Époque (1990: 540-541). Cranio, collo, torace: parti ossee o dello scheletro che, subendo dall’esterno pressioni prolungate per diversi anni, finiscono per assumere una particolare configurazione in corrispondenza a canoni estetici vigenti. A parte l’esempio del corsetto nell’Eu­­­­­95

ropa moderna, in tutti gli altri casi gli interventi considerati cominciano a esercitarsi dall’infanzia del soggetto (gli interventi sul cranio fin dai primi giorni di vita, quelli sul collo o sulle scapole a partire dai cinque anni). Il caso che ora prendiamo in esame – quello della riduzione dei piedi femminili nella Cina dell’ultimo millennio – prevede anch’esso un intervento assai precoce, a partire dai quattro o cinque anni di età. Il caso cinese viene inoltre a incrementare una categoria di interventi prevalentemente femminili (insieme all’allungamento del collo, al restringimento del torace, oltre che il modellamento del cranio in comune con i soggetti maschili). Si tratta di far ruotare la parte anteriore del piede attorno al primo metatarso, così che la faccia dorsale viene trasformata in plantare; e si tratta poi di raccorciare il piede piegando al massimo la volta plantare (1990: 547). Questo «costume strano» trova sia una motivazione estetica, sia una motivazione erotica: il piede così modellato richiama la mezzaluna nella sua fase crescente, e inoltre nella cultura cinese il piede femminile esercita una forte attrazione erotica. Da un lato abbiamo dunque il riferimento a una sorta di modello naturale (la mezzaluna) e l’esigenza di adeguare certe parti del corpo ad alcuni aspetti o fenomeni della natura; dall’altro, il valore erogeno del piede femminile contribuisce forse a spiegare perché su questa parte del corpo umano si siano diretti interventi estetici così trasformativi. Anche in questo caso Chippaux non si esime dal porre in luce i controeffetti invalidanti di questa «pratica straordinaria», che è durata nella civiltà cinese per un millennio, fino all’inizio del XX secolo. L’immobilizzazione a cui il piede è costretto con le sue fasciature dà luogo a un irrigidimento anchilosante di tutto il piede e della caviglia, con l’effetto che alla gamba viene a mancare un appoggio sicuro, eccetto che il tallone; il ginocchio subisce una riduzione dell’ampiezza della sua mobilità, obbligando la donna a muoversi con l’articolazione dell’anca e a far ondeggiare il bacino; l’atrofia dei polpacci e per contrasto lo sviluppo dei muscoli interni delle cosce fanno sì che venga accentuato l’ondeggiamento dei glutei (1990: 548-549). Nonostante alcuni vistosi contro-effetti invalidanti, la donna andava «fiera dei suoi piedini», che le avrebbero assicurato un «matrimonio ricco» e «successi mondani». Le sue minuscole calzature, segni concreti di nobiltà e di bellezza, erano ­­­­­96

poste al centro dei colloqui e delle trattative tra la sua famiglia e quella del suo eventuale pretendente. In questa categoria, gli effetti invalidanti sono particolarmente evidenti, dolorosi e persino potenzialmente letali. Ma importanti e decisivi sono pure i modelli di femminilità, entro la cui logica gli effetti invalidanti e disfunzionali sul piano anatomico si trasformano in elementi caratterizzanti e apprezzabili sul piano erotico ed estetico (sia dal punto di vista maschile, sia da quello femminile). VIII. Modellamento del comportamento. Questa è senza dubbio una supercategoria, nel senso che comprende una serie di categorie più particolari entro cui potrebbe essere scomposta. È però importante quanto meno accennare all’ampia serie di interventi volti a dare forma estetica (e non semplicemente funzionale) al comportamento, alle azioni, alla gestualità. Marcel Mauss aveva avuto, a questo proposito, un’intuizione geniale, allorché nel 1936 aveva elaborato la nozione di techniques du corps. Il presupposto è che il corpo sia «il primo e il più naturale oggetto tecnico e, nello stesso tempo, mezzo tecnico dell’uomo» (Mauss 1965: 392). Per servirsene gli esseri umani non dispongono di leggi naturali, bensì ricorrono a “tradizioni” specifiche, che insegnano come usare e modellare il corpo nei contesti più vari e per gli scopi più diversi: l’uso del corpo non si riduce a sfruttare uno strumento già dato in natura, ma implica, nel contempo, un’azione di modellamento delle funzioni e delle attività corporee. Tale azione di modellamento viene evidenziata da Mauss con termini quali “modo di vita” (mode de vie), “maniera” (manière), “foggia” (façon), da cui appare che la dimensione estetica è parte intrinseca di questo tipo di interventi. Qui potremmo sfruttare meglio la distinzione maussiana tra “oggetto” e “mezzo” e aggiungere che il corpo è anche il primo e più immediato oggetto e mezzo “estetico”. In tutte le categorie precedenti, si possono vedere gli esseri umani usare il corpo come un “oggetto” da pulire, adornare, abbellire (il corpo come «un semplice pezzo di legno», secondo l’immagine usata da Arnold Van Gennep [1981: 63]). Nella categoria VIII invece vediamo il corpo “agire” e gli esseri umani ingegnarsi per imprimere una forma estetica, piacevole, apprezzabile (secondo le culture e i loro canoni peculiari) alle loro “azioni”. Le azioni non hanno soltan­­­­­97

to una finalità strumentale (Colajanni 2010): o meglio, anche le azioni aventi finalità strumentale si prestano, per il fatto stesso di essere modellate, a inglobare una dimensione estetica e nel contempo un apprezzamento estetico. Mauss riporta l’esempio delle donne maori e del loro modo di camminare, tratto dal libro The Maori di Elsdon Best (1924). Esso consiste – secondo le parole di Best (1924: 408-409) – in «un dondolamento distaccato e, tuttavia, articolato delle anche, che a noi sembra sgraziato, ma che i Maori ammirano moltissimo»; esso ha pure un nome (onioi) e «le madri addestravano le figlie a questo modo di camminare» (Mauss 1965: 390). Nei rituali il gesto, sganciato per lo più da finalità tecniche, è letteralmente “artefatto”: in quanto costrutto culturale, appositamente inventato e modellato, esso non può non contenere una rilevante significatività anche di ordine estetico (Colajanni 2010: 76). Del resto, vi è un’attività che forse più di altre coincide con il grado massimo di efficacia estetica nell’invenzione e nel modellamento sistematico di azioni e gesti. Questa è la danza: tratto praticamente universale, presente in non importa quale tipo di società, costituisce uno dei punti culminanti della categoria VIII, entro cui pare svolgere un vero e proprio ruolo prototipico. Non sarà certo un caso che molte società, in varie parti del mondo, scorgano nella danza una delle attività originarie e fondative della cultura umana. IX. Modellamento della voce. Si sarebbe forse potuto inserire questo tipo di interventi nella categoria precedente. Ma è opportuno precisare che la voce e le sue modificazioni vengono colte da un apparato sensoriale diverso da quello che percepisce il modellamento del comportamento più in generale: se quest’ultimo è soprattutto oggetto della vista, l’altro è invece oggetto dell’udito. E poi, è forse da imputare al privilegiamento della vista nella tradizione di pensiero occidentale (Tyler 1984) il fatto che tendiamo a trascurare gli IEC che invece interessano più da vicino gli altri sensi. Per rimediare a questa unilateralità, si è pensato di istituire una categoria autonoma per la voce, in modo simile a quanto già fatto per la categoria III (“Profumazione”), i cui relativi IEC vengono colti dall’olfatto. L’importanza del modellamento della voce (e della sua intrinseca dimensione estetica) appare già a livello ­­­­­98

fonetico, in relazione al quale il modellamento dà luogo a una selezione (a uno sfrondamento) di possibilità foniche. Le cosiddette lingue maschili e lingue femminili, ovvero le varietà di genere, a livello fonologico, di una medesima lingua (Cardona 1976: 77-81), costituiscono inoltre un esempio particolarmente significativo di modellamento estetico della voce. Si interviene esteticamente sulla voce, e più in generale sulla capacità fonica, in modo simile – si potrebbe dire – all’adozione di un particolare stile di camminare: vi è un’“arte” in tutto ciò, come sosteneva Edward Sapir, il quale concepiva le lingue come «abiti invisibili» con cui gli esseri umani si drappeggiano (Sapir 1969: 218). Ciò che in generale vale per le lingue è particolarmente adatto alla capacità fonica degli esseri umani. Del resto, come il modellamento estetico delle possibilità motorie si esprime assai bene nella danza (categoria VIII), così il modellamento delle possibilità foniche dà luogo a un prodotto estetico altrettanto universale, “strano” (se si vuole) da un punto di vista funzionale e tuttavia umanamente molto caratterizzante, vale a dire il “canto”. I Suya del Brasile centrale si dimostrano ben consapevoli dell’importanza antropo-poietica di questi abbellimenti, allorché accostano il loro particolare stile di canto (categoria IX) ad altri IEC a cui loro fanno ricorso (piattelli labiali e dischi auricolari, rientranti, come vedremo, nella categoria XIII), ritenendo che questi tre interventi estetici siano tali da renderli «mê, ovvero interamente umani» (Seeger 1975: 213). X. Tatuaggi. Nel caso dei tatuaggi ci si ingegna a far penetrare, appena al di sotto dello strato epidermico della cute, sostanze coloranti al fine di elaborare disegni o pitture permanenti. Da questa definizione risultano importanti tre caratteristiche, grazie alle quali il tatuaggio si collega per un verso a certe categorie precedenti e per un altro verso a certe categorie successive. La prima è quella dei disegni prodotti sul corpo (v. categoria IV). La seconda è quella della penetrazione nel corpo di strumenti e di sostanze. La terza è quella di produrre disegni, non già superficiali e transeunti, ma permanenti e indelebili. Con la categoria dei tatuaggi si riprende dunque il tema estetico del corpo come portatore di pitture e di disegni, conferendo però a questi segni una durata coincidente con la vita dell’individuo; e il mezzo per raggiungere questa durata è dato dalla penetrazione sottocutanea. ­­­­­99

In effetti, con la categoria dei tatuaggi inizia (per quanto riguarda la nostra tipologia) tutta una serie di interventi che comportano un’introduzione nel corpo di strumenti e/o di sostanze, e quindi un esplicito proposito di superare la barriera dell’epidermide o, in altri casi, quella di determinati orifizi al fine di provocare modificazioni permanenti. La parola inglese tattoo (da cui il francese tatouage, l’italiano tatuaggio, il tedesco Tatowirung), introdotta per la prima volta in Europa dal capitano James Cook, riproduce i termini polinesiani tattow, tatau, tattaw, derivanti dalla radice ta, “battere” o “percuotere”. Non è escluso che le parole indigene per “tatuaggio” siano onomatopeiche, in quanto indicano il suono “tat-tat” prodotto dallo strumento utilizzato per tatuare (Scutt e Gotch 1974: 30). Le tecniche per tatuare consistono sostanzialmente nell’uso di strumenti affilati mediante cui introdurre sotto pelle le sostanze coloranti. Aghi o schegge di legno, di selce, di osso, spine vegetali, squame e lische di pesce sono gli strumenti più tradizionali, e i loro ritrovamenti in siti preistorici indicano l’antichità di questo tipo di intervento, in cui la dimensione estetica è del tutto evidente. In area oceaniana troviamo spesso una sorta di pettine fatto con piccole lamelle, percuotendo il quale si introduce nel derma il pigmento. Tipico degli Inuit è invece l’uso di un ago che trascina sotto pelle un filo impregnato di colore. Nelle società occidentali, presso le quali il tatuaggio si è diffuso negli ultimi due secoli e ancor più in questi ultimi tre decenni, si fa ricorso invece a un apparecchio elettrico che, fornito di un ago a iniezione, consente di dosare meccanicamente la penetrazione sottocutanea delle sostanze coloranti e attenuare il dolore dell’operazione in misura ragguardevole (Chippaux 1990: 490). Il tatuaggio è conosciuto ormai universalmente, anche se, da un punto di vista etnografico, i casi più interessanti appartengono all’Estremo Oriente (Giappone) e alla Polinesia (nelle isole Marchesi gli uomini aristocratici avevano tutto il corpo coperto di tatuaggi). Tra i Maori, il tatuaggio era in gran parte riservato agli uomini nobili e liberi, ed era collegato a un lungo processo di acquisizione di un grado più completo di umanità: un uomo senza tatuaggio è nudo, simile a un’asse liscia (Gathercole 1988: 172). Se il primo tatuaggio veniva praticato in occasione della pubertà, dovevano passare parecchi anni prima che il moko (questo è il no­­­­­100

me del tatuaggio maori) venisse completato. Simbolo dell’unicità e irripetibilità dell’individuo, il moko era pure segno di una raggiunta completezza: «senza un moko completo» gli uomini maori «non sono persone complete» (Gathercole 1988: 175). Christopher Steiner (1990) ha messo a confronto i diversi stili e tipi di intervento estetico sul corpo in Melanesia e in Polinesia, contribuendo a far meglio comprendere la differenza di significato tra IEC transeunti (come le pitture facciali) e IEC permanenti (come i tatuaggi). In Melanesia, dove il potere del big man non è ereditario, ma temporaneo e sottoposto a continue sfide e contestazioni, i simboli della sua autorità, quali si esprimono negli ornamenti del corpo, sono parimenti temporanei, transeunti e facilmente amovibili (si tratta di pitture facciali, piume di uccello ecc.). In Polinesia invece, dove l’organizzazione politica è rigidamente stratificata e fondata sul principio di ranghi e status ereditari, trasmessi da una generazione all’altra, i capi venivano distinti dalla gente comune proprio mediante il tatuaggio iscritto per sempre sui loro corpi (Burton 2001: 67). Sarebbe errato però conferire al tatuaggio un significato costante e uniforme: come nel caso di tutti gli altri IEC, anche i significati del tatuaggio vanno colti nelle pratiche e nei contesti storici e culturali. Se consideriamo la storia del tatuaggio nelle società occidentali, appare chiaro che esso un tempo era segno di marginalità sociale e di alterità culturale (tatuati erano marinai, galeotti, prostitute da un lato oppure, dall’altro, certi aristocratici), mentre ora è stato adottato anche dalle classi medie, divenendo un elemento della cultura di massa (Blanchard 1994). È anche vero però che per le sue insopprimibili radici “esotiche”, esso è una manifestazione di ciò che si è convenuto chiamare «primitivismo moderno» (Burton 2001: 63). Non si tratta soltanto del fascino del primitivo; si tratta anche e soprattutto del recupero di un “artificio modificatore”, di un’“arte del corpo” verso cui la modernità aveva spesso manifestato la propria diffidenza e il proprio rifiuto (dal medico inglese John Bulwer [1650] al criminologo italiano Cesare Lombroso [1876], all’architetto austriaco Adolf Loos [1908]). Tra le varie arti del corpo, il tatuaggio occupa una posizione ambigua (e forse questo spiega il suo fascino pressoché universale): esso è un intervento che agisce sulla pelle, e quindi modifica ­­­­­101

l’“apparenza”, ma nello stesso tempo “penetra” nel corpo oltre l’apparenza, imprimendovi in maniera indelebile (come una scrittura permanente o una «memoria cutanea» [Borel 1992: 167]) i segni dei suoi interventi e delle sue modificazioni. Il risultato è una «seconda pelle» (Gell 1993: 39), una pelle “artefatta”, culturale, e che tuttavia fa tutt’uno con la pelle naturale, un’apparenza non più mobile e amovibile, ma fissata e inamovibile: una pelle e un’apparenza che intendono sfidare il tempo (nel Museo “Lombroso” di Torino sono conservati lembi di pelle tatuata e nel Museo di Anatomia dell’Università di Tokyo vi è una collezione di pelli umane tatuate con più di 100 esemplari [Scutt e Gotch 1974: 47]). XI. Scarificazioni. Il dolore, già vividamente presente nella categoria dei tatuaggi (solo la macchinetta elettrica, inventata dall’americano Samuel O’Reilly nel 1890, ha consentito di ridurlo in misura notevole), domina del tutto la categoria delle scarificazioni. A differenza del tatuaggio, le cui tecniche consistono sostanzialmente in punture mediante cui far penetrare i pigmenti nella pelle, le scarificazioni sono invece prodotte da tagli profondi ottenuti con rasoi, coltelli, lame, vetri. Chippaux sostiene anche che «la scarificazione non sempre coincide con un’incisione» vera e propria, dato che il risultato che contraddistingue questa categoria – ossia la produzione di cicatrici, siano esse in rilievo, siano esse “depresse” – può essere ottenuto con l’escissione di una zona di pelle strappata per esempio con un amo: qui il riferimento agli Amerindiani del Nord che, durante sedute rituali di tipo estatico, si strappano la pelle del petto appendendosi a dei ganci è quasi d’obbligo (Chippaux 1990: 491-492). Anche la pratica della Mensur, ossia il duello all’arma bianca con cui studenti tedeschi dell’Ottocento e del primo Novecento si procuravano cicatrici come segni di coraggio può essere evocata. Se la caratteristica generale della categoria XI è la produzione programmata di cicatrici che devono rimanere visibili («queste mutilazioni» – sostiene Chippaux [1990: 489] – «sono effettuate proprio per essere viste; è la loro ragion d’essere»), occorre però distinguere le scarificazioni in cui si persegue l’obiettivo di un disegno artistico, ovvero operazioni di vera e propria chirurgia estetica. Un conto è voler produrre cicatrici, che in quanto tali sono segni ­­­­­102

(di fierezza, di coraggio); un altro conto è saper produrre con le cicatrici forme decorative, in cui si vede la mano abile ed esperta di un artista-chirurgo. Occorre inoltre ricordare che questa arte chirurgica tradizionale prevede anche l’inserimento nella ferita di sostanze che favoriscono l’iperplasia di uno dei costituenti della cicatrizzazione, così da ottenere i motivi decorativi, tipici delle pratiche di scarificazione delle popolazioni melanoderme in Africa, Melanesia, Australia (1990: 491). Se tra le sostanze da inserire nelle ferite vi sono i pigmenti, si può ottenere per così dire una categoria ibrida: si tratta delle «scarificazioni tatuate», i cui esempi maggiori sono visti da Chippaux (1990: 492) nella cultura maori. Mentre il tatuaggio può essere considerato – quanto ai suoi effetti – come una pittura corporale indelebile, le scarificazioni sono invece assimilabili a sculture corporali. Come già per i tatuaggi, anche per le scarificazioni che non si riducono alla mera produzione di cicatrici è impossibile non ammettere l’idea di tecniche artistiche estremamente raffinate, che comportano una grande abilità chirurgica. La “bellezza” sui corpi, esplicitamente ricercata attraverso le scarificazioni, s’impregna di motivazioni particolarmente “profonde”, rese indelebili dai segni prodotti nel dolore, con tagli e incisioni. Tra i Tiv della Nigeria le scarificazioni sul volto e sul corpo, a cui si riconosce esplicitamente una funzione estetica, sono analoghe a una forma di iniziazione: il corpo diventa il canovaccio su cui imprimere la definizione culturale del genere maschile e del genere femminile (Burton 2001: 82). La scarificazione totale del corpo – forma di intervento estetico specialmente femminile – può richiedere persino venticinque anni per essere completata; e questo lungo processo di decorazione del corpo, che accompagna la vita di un individuo, ricorda significativamente il caso dei Maori, dove un tatuaggio completo richiede un periodo di tempo analogo, con il rischio che la decorazione rimanga incompleta. In base ai dati forniti da Paul Bohannan e avvalendosi dell’interpretazione di Bruce Lincoln (1983), Burton sostiene che tra i Tiv la scarificazione femminile si configura come «un archivio vivente della storia patrilineare e della mitologia collettiva»: «le linee diritte e i cerchi concentrici, che sono incisi sull’addome della donna [...] rappresentano la storia passata di un lignaggio e la via del suo ­­­­­103

sviluppo futuro» (Burton 2001: 84). Le scarificazioni fanno della donna la custode della fertilità e del benessere, erede del passato e creatrice del futuro: «le cicatrici stesse sono ad un tempo il mezzo della sua trasformazione e il segno visibile che questa trasformazione è compiuta, facendo di ogni fanciulla una donna e un oggetto sacro che tutti possono contemplare» (Lincoln 1983: 79). Paul Bohannan aveva chiesto a un gruppo di Tiv se la scarificazione non fosse una pratica “eccessivamente” dolorosa. «Certo che è dolorosa» – gli fu risposto – ma «quale ragazza guarderebbe a un uomo, se le sue cicatrici non gli fossero costate sofferenza?» (Bohannan 1988: 82). Anche per i Tiv, bellezza e umanità possono essere acquisite soltanto con la sofferenza. Quanto più il modellamento entra nella pelle, quanto più si fa penetrante (tatuaggio) e incisivo (scarificazioni), quanto più acquista così il carattere della permanenza, tanto più il dolore tende a divenire non solo una componente inevitabile, ma anche un evento voluto, ricercato: le cicatrici divengono allora significative di un’esperienza traumatica ovvero di un modellamento che riguarda la pelle e il corpo, la psiche e la memoria. Con il dolore e la sofferenza lo scopo è “segnare” l’irreversibilità. «Le iscrizioni irreversibili sono, in quanto tali, legate a fenomeni anch’essi irreversibili»: appartenenze etniche o di genere, momenti critici nella vita di un individuo, quali iniziazione, matrimonio, parto, lutto, successi in guerra o a caccia (Borel 1992: 138), tappe inesorabili di dolorosi processi antropopoietici maschili o femminili. La “bellezza” sui corpi, esplicitamente ricercata attraverso le scarificazioni, si impregna dunque di motivazioni “profonde”, rese indelebili dai segni prodotti nel dolore, con tagli e incisioni. Tra i Budja del Congo un corpo senza scarificazioni è un corpo “nudo”, da rigettare nella foresta (1992: 145), privo di segni di umanità, che testimoniano tappe e momenti di una vita tipicamente umana, distinta da un’esistenza animale. Tra i Marka dell’Africa occidentale (Mali e Burkina), le donne riproducono mediante le scarificazioni sul volto i tre grandi dolori della loro vita: sulla guancia destra il dolore dell’escissione del clitoride; sulla guancia sinistra il dolore della deflorazione; sul mento il dolore del parto (1992: 142). XII. Bruciature e marchiature della pelle. Si può iniziare l’illustrazione di questa categoria con un tipo di intervento che, tenuto ­­­­­104

conto dei suoi effetti, potrebbe essere collocato nella categoria IV: l’abbronzatura è in effetti una maniera di colorare la pelle. Ma l’abbronzatura, tanto apprezzata nella nostra società, non è una semplice coloritura, ottenuta deponendo sulla pelle una sostanza colorante: essa comporta invece una modificazione nella pigmentazione della pelle indotta dai raggi ultravioletti del sole o di lampade apposite; è la pelle che cambia. Esporre il corpo all’azione dei raggi solari (o di lampade) significa far sì che i fotoni penetrino nella pelle. È una questione di dosaggio della quantità di energia che si intende introdurre nel corpo. Al di là di una certa soglia l’esposizione ai fotoni produce una bruciatura, e quindi una lesione della pelle. Con l’abbronzatura siamo quindi soltanto sulla soglia della categoria XII: ciò che si vuole ottenere è, per così dire, un effetto pittorico. Le bruciature da insolazione (per lo più non volute) ci avvicinano però al centro della categoria XII, dove troviamo le marchiature a fuoco, prodotte per segnare, distinguere e separare certi individui (per esempio gli schiavi nell’antichità). In Chippaux (1990: 490) vi è poi un accenno alla bruciatura come una tecnica di tatuaggio, consistente nel bruciare in profondità il derma e deporre una sostanza colorante sulla piaga in occasione della medicazione. Anche Scutt e Gotch (1974: 14) segnalano la tecnica della bruciatura per introdurre pigmento e rilevano che questo metodo era usato in alcune isole del Pacifico, oltre che dagli antichi Greci per marchiare i criminali. Occorre infine segnalare il branding, a cui oggi nella nostra stessa società alcuni fanno ricorso a scopo nettamente ornamentale, lasciando dei segni indelebili sul proprio corpo (prodotti con lame d’acciaio roventi), simili a quelli delle scarificazioni. XIII. Perforazioni e inserimento di oggetti esterni. Come già si è visto a proposito del tatuaggio (categoria X), l’azione del perforare è culturalmente molto diffusa. Qui però, a differenza del tatuaggio, ci concentriamo su perforazioni “da parte a parte”, con le quali si creano fori di dimensioni sufficienti per alloggiarvi diversi tipi di oggetti ornamentali. Se nella categoria I abbiamo preso in esame “oggetti esterni” che vengono fatti depositare sul corpo, nella categoria XIII abbiamo invece a che fare con “oggetti esterni” che vengono introdotti in fori appositamente costruiti in alcune parti dell’organismo. Ciò significa che l’inserimento di ­­­­­105

denti finti e di dentiere, oppure di lenti a contatto a scopo estetico, rientrano soltanto in parte in questa categoria. Più specifiche di questa categoria sono le incrostazioni dei denti, ottenute mediante trapanazione e inserimento di pietre e metalli preziosi. Oltre alle civiltà amerindiane, sono interessate sia l’India sia alcune zone della Cina (Chippaux 1990: 532-533). Ma trapanazioni (se non proprio perforazioni) e inserimento di oggetti che coprono o sostituiscono i nostri denti (un tempo denti in oro, in argento o in acciaio) sono all’ordine del giorno nei nostri gabinetti dentistici. Le perforazioni “da parte a parte” riguardano diverse zone del corpo, anche se il volto – dove si concentrano organi e orifizi indispensabili per la funzionalità organica, tanto quanto per molte attività culturali umane, e proprio per questo estremamente carichi di valore simbolico – è senza dubbio la parte maggiormente interessata. «La perforazione» – commenta Chippaux (1990: 513) – «è un mezzo che permette al volto di divenire una specie di portagioie». La lingua trafitta tra i Maya e in alcuni gruppi dell’India, la perforazione rituale delle gote in Indonesia, in India, in Siria, gli orifizi prodotti in corrispondenza degli zigomi dove infilare piume di uccello tra popolazioni di lingua guaranì, sono soltanto alcuni esempi di perforazioni, le quali costituiscono una categoria di interventi estremamente diffusa (1990: 514). Se ora ci concentriamo più in particolare su labbra, naso e orecchie, vediamo che questi tipi di IEC non solo sono molto diffusi, ma rispondono anche a motivazioni di grande rilievo antropologico, nonostante i contro-effetti che possono comportare sul piano della funzionalità degli organi interessati. La perforazione delle labbra ha la funzione di offrire un alloggiamento per gli oggetti ornamentali, o piattelli labiali, che vi vengono deposti. Tra i Sara del Tchad le donne portavano spesso piattelli sia al labbro superiore sia al labbro inferiore di dimensioni ragguardevoli (fino a 21 cm di diametro). Gli oggetti possono essere di forme e materiali diversi: piattelli, tappi, fatti di legno, pietra, avorio, metallo. L’uso è pure attestato in Kenya, Tanzania, Niger. La perforazione labiale è presente anche in altri continenti, come per esempio nel continente nord-americano, dove gli uomini Inuit perforano il labbro lateralmente e in modo simmetrico, e nel continente sud-americano, dove dischi di legno riservati agli uomini vengono incastrati tra il labbro inferiore e il mento. Chippaux ­­­­­106

(1990: 516) pone in luce la disfunzionalità a cui questo tipo di interventi dà luogo sia sul piano masticatorio, sia su quello fonatorio. A maggiore ragione è dunque importante rendersi conto delle motivazioni addotte. Per quanto riguarda le donne Sara del Tchad, Chippaux (1990: 515, 518) sottolinea l’aspetto rituale, secondo il quale è il fidanzato che perfora il labbro della futura sposa, inserendovi pezzi di legno sempre più grandi, sino a potervi collocare il piattello adatto. È una questione di pudore mantenere in pubblico i piattelli labiali; e la stessa osservazione è stata fatta per le donne della costa orientale dell’Alaska. Rilevante è poi il fatto che tra i Sara la donna, rimasta vedova, abbandona i suoi piattelli. Nel Sud­america i Charrua considerano il labbro perforato un «segno di virilità», mentre per gli Xikrin e gli Shama la perforazione labiale, compiuta dal padre, assume un alto valore simbolico, in quanto consente di inserirvi un piattello a forma di pesce, animale di cui si ciba la popolazione (1990: 519). Data la sua conformazione anatomica, in diverse parti del mondo il naso viene prescelto come organo particolarmente adatto alle perforazioni e all’inserimento di oggetti. Tra gli indiani pueblo del Nord-America alcuni gruppi sono stati chiamati “Nez percés”. Presso i Muisca dell’America meridionale soltanto la presenza di raffinati oggetti di oreficeria di ornamento nasale consentiva agli uomini di poter parlare ai loro capi, mentre in Oceania è molto diffuso l’inserimento di piume, conchiglie, ossa d’uccello, fiori, anelli come segni indicanti il rango sociale: «la motivazione» – commenta Chippaux (1990: 521) – «è, secondo noi, il desiderio dell’ornamento»: commento condivisibile, purché si voglia attribuire a “ornamento” (parure) e a “desiderio dell’ornamento” (désir de la parure) la profondità di significati che provengono dal principio del modellamento antropo-poietico, come già abbiamo visto nel capitolo III. Secondo lo stesso autore, l’Europa ha dimostrato, al confronto, un ben scarso interesse per questo tipo di interventi nasali; ma occorre rilevare che di questi tempi gli ornamenti al naso (perforazioni e inserimento di oggetti) conoscono una notevole attrazione. Le società europee condividono con altre società un forte interesse invece per l’ornamento delle orecchie, la cui conformazione anatomica le predispone a un «destino di portagioie» (1990: 523). In particolare, la perforazione del lobo consente l’inserimento di ­­­­­107

oggetti via via più grandi per poi collocarvi un ornamento particolarmente voluminoso oppure l’inserimento di oggetti pesanti che allungheranno progressivamente questa parte dell’orecchio. La diffusione in India (significative le raffigurazioni del Buddha con le orecchie allungate), in Tibet, nel Sud-Est asiatico, a Bali, in Oceania (per esempio, le statue dell’isola di Pasqua) fa capire l’insistenza dell’interesse estetico e antropo-poietico per questa parte del volto umano. Presso gli Inca è possibile reperire una motivazione particolarmente profonda. La perforazione del lobo auricolare veniva eseguita direttamente dall’Inca sui giovani delle famiglie nobili come forma di iniziazione e il disco inserito nel foro del giovane iniziato «ne faceva un uomo» (1990: 524). Come si è già visto a proposito della categoria IX, l’uso di piattelli labiali e di dischi auricolari, insieme a un particolare stile di canto, sono per i Suya caratteri particolari dei loro modelli di umanità. Nelle società occidentali il body piercing (introduzione di pezzi di metallo nel naso, nella lingua, nelle orecchie, nell’ombelico, nei capezzoli, nei genitali) è stato fatto proprio dalla cultura punk, come «un esplicito mezzo di protesta sociale» contro un uso standardizzato del corpo (Burton 2001: 65). È però significativo osservare che esso è divenuto un fenomeno alquanto diffuso e, in modo simile al tatuaggio, consiste in una ripresa di temi e di tecniche ben presenti nelle società un tempo definite “primitive”, “tradizionali”, “pre-moderne”. Anche il piercing è una manifestazione del cosiddetto “primitivismo moderno”: simbolo di disagio e di insofferenza nei confronti della cultura contemporanea e ricorso a pratiche ritenute “esotiche” (2001: 66). È importante sottolineare che tali pratiche comportano dolore e talvolta mettono a rischio la funzionalità degli organi o delle parti a cui sono applicate. In effetti, con la categoria XIII riaffiora il tema della disfunzionalità che – come vedremo – si imporrà in modo ancora più clamoroso in alcune categorie successive. Se la protesta sociale si nutre del dolore e della disfunzionalità, come spiegare però il ricorso alla disfunzionalità in situazioni dove – a quanto pare – le perforazioni non hanno il carattere di protesta e di contestazione? XIV. Intaglio dei denti. Denti colorati (categoria IV), denti trapanati e incrostati di pietre e di metalli preziosi (categoria XIII): i denti sono oggetto di molti tipi di interventi. Essi costituiscono in ­­­­­108

effetti una componente fondamentale dell’estetica del corpo e più in particolare del viso. Per intervenire sui denti – anche solo per la loro tinteggiatura – è necessario introdursi in una parte interna del corpo, la cavità orale, la quale però facilmente e di continuo comunica con l’esterno, soprattutto quando si tratta di attività assolutamente normali, quotidiane e indispensabili, come il mangiare e il parlare. Della cavità orale i denti costituiscono, subito dopo le labbra, una vera e propria barriera di protezione; e inoltre – fatto indubbiamente interessante in un’estetica dell’apparire e dell’occultare, come è quella del corpo – essi possono per alcuni momenti essere messi in mostra e per altri nascosti. Nella categoria qui esaminata gli interventi sui denti comportano un modellamento più massiccio: non più quello del pittore (categoria IV), che spalma materia colorante più o meno duratura, o quello dell’orafo e del cesellatore (categoria XIII), che incide per incastonare metalli o pietre preziose, ma quello dello scultore, che intaglia la forma, togliendo materia. I denti in effetti si prestano per la loro durezza e consistenza a essere intagliati in modi sufficientemente precisi. A parte l’incrostazione di cui si è detto, l’intaglio dei denti assume diverse forme e comporta esiti estetici diversi: dall’amputazione della corona al taglio dell’angolo distale degli incisivi, dal taglio a punta al taglio ad ascia, dal taglio a uncino al taglio a sega ecc. Georges Montandon per la sola Africa aveva elencato 21 tipi di intaglio e Javier Romero aveva individuato 51 forme (Chippaux 1990: 529). Limatura, scheggiatura, abrasione sono le tecniche più ricorrenti, oltre che ovviamente molto dolorose. Chippaux (di formazione medica) è particolarmente sensibile agli aspetti di mutilazione e di devastazione che molti interventi di questa categoria comportano. Nella fattispecie egli non può fare a meno di notare che «la funzione masticatoria è costantemente minacciata» e che inoltre la vita del dente è inevitabilmente compromessa (1990: 525, 529). Nella prospettiva antropo-poietica qui adottata le osservazioni di Chippaux si rivelano utili per ribadire un punto che appare sempre più indubitabile: l’esigenza di modellamento del corpo, la ricerca costante di modelli e l’obiettivo estetico che li accompagna tendono a soverchiare, compromettere e persino minacciare le funzioni a cui le parti del corpo interessate sono normalmente adibite. Non seguiamo dunque Chippaux quando afferma che «la ­­­­­109

motivazione estetica invocata in Africa e altrove ci appare secondaria» (1990: 531). Se la motivazione estetica viene tanto spesso invocata, da parte delle società interessate, sia per questa sia per altre categorie di IEC, altrettanto dolorose e devastanti, ciò significa che – in modo simile al «desiderio di ornamento» (di cui si è parlato a proposito della categoria XIII) – essa è particolarmente profonda e insopprimibile. Del resto, secondo i Tiv della Nigeria, «avere i denti scheggiati aiuta a imparare le lingue», oltre che essere un segno di bellezza (Bohannan 1988: 82), e dunque – secondo la concezione tiv – l’intervento estetico può rivelarsi forse dannoso per certe funzioni, ma utile per altre. XV. Amputazioni. Tra i Sioux il giovane che aspira a essere considerato un adulto offre un dito al sacrificatore (Chippaux 1990: 497). Tra gli abitanti della Grande Comora e presso i Teda del Tchad si provvede ad amputare l’ugola, al fine di evitare di inghiottire la saliva durante il ramadan, gesto proibito dal Profeta. Ma l’amputazione dell’ugola è praticata anche da altre etnie non islamizzate del Tchad (1990: 514). Nelle isole Sandwich si amputava un orecchio come segno di lutto. Nelle ceramiche mochica sono attestate mutilazioni – con escissioni più o meno estese – di naso, labbra, orecchie. In questa categoria entrano di nuovo in scena i denti, dato che la pratica della loro avulsione a scopo estetico conosce una diffusione davvero impressionante: da ritrovamenti preistorici in diverse zone del Maghreb, della Palestina, all’America precolombiana, dal Sud-Est asiatico al Giappone. Anche per quanto riguarda questo tipo di intervento l’Africa (soprattutto equatoriale e orientale) è presente. Ma è soprattutto in Oceania che – secondo Chippaux (1990: 527) – affiorano alcune motivazioni di questa pratica nei rituali di iniziazione: connessa o no con la circoncisione (categoria XVI), l’avulsione di un incisivo è spesso per il giovane il segno della sua “morte” iniziatica e la prova che apre la porta dei misteri custoditi dagli anziani (1990: 528). A Vanuatu (Nuove Ebridi), alla circoncisione del ragazzo fa riscontro l’avulsione dei due incisivi superiori mediani della ragazza: in entrambi i casi abbiamo a che fare con interventi estetici di amputazione che esprimono «la rottura con il mondo incerto dell’infanzia e l’entrata nella comunità degli adulti». Il tema delle amputazioni merita una riflessione aggiuntiva. ­­­­­110

Come finora abbiamo visto, vi sono categorie di IEC che “tolgono” (tipica la categoria II) e categorie di IEC che “aggiungono” (oggetti esterni, odori, colori, come nelle categorie I, III, IV); vi sono inoltre categorie di IEC che tolgono per fare assumere al corpo nel suo insieme o ad alcune sue parti forme più specifiche (categorie V, XIII, XIV). Nella categoria delle amputazioni invece il modellamento si riduce a una semplice eliminazione: si “taglia”, si “toglie”, si “elimina”. Non si disegna né si costruisce una forma; la forma che si ottiene è semplicemente il risultato di una sottrazione, di una “mancanza” voluta, di un “difetto” programmato. Arnold Rubin (1988: 13-14) invita a non usare espressioni con connotazioni negative, come per esempio “mutilazioni” o “deformazioni” (Chippaux è un esempio del sovrabbondare di queste espressioni), e questo suo invito generale può essere accolto specialmente in una prospettiva antropo-poietica, tesa a porre in evidenza l’aspetto costruttivo, e dunque positivo, dei vari interventi. Ma nel caso delle amputazioni, rientranti anch’esse nella serie di interventi che “modellano”, l’aspetto negativo – quello della sottrazione o della mutilazione – non solo è una componente innegabile, bensì è l’essenza stessa dell’intervento. Questo non è altro che una produzione voluta di incompletezza: un esplicito “fare incompletezza” su qualche parte del corpo, così che la mancanza volutamente prodotta dovrebbe significare l’intervento in quanto tale. Quale intervento è più puro della semplice amputazione? Quale intervento è più autoreferenziale? Questo tipo di intervento dice soltanto se stesso: il suo esito significa soltanto che c’è stato un intervento. Esso non aggiunge sostanza né forma; si limita appunto a tagliare e ad eliminare. Rispetto a tutti gli altri tipi di intervento, l’amputazione è forse il più elementare, in quanto presenta il grado minimo di invenzione: è sufficiente porre a confronto le amputazioni con le modalità di abbigliamento, con le pitture corporali, i tatuaggi, le scarificazioni per rendersi conto dell’elementarità del gesto amputatorio. Nello stesso tempo, le amputazioni sono chirurgicamente aggressive e irreversibili; i loro effetti lasciano tracce indelebili, inattaccabili dal tempo. Esse sfidano il tempo, e non solo il tempo della vita individuale, se – come pare – non possiamo non attribuire un’intenzionalità raffigurativa alle impronte di «mani incomplete, amputate in modo evidente di una o più dita», che ci ­­­­­111

sono state lasciate in diversi siti preistorici (Chippaux 1990: 543). Nelle grotte dei Pirenei franco-cantabrici sono state segnalate più di duecento impronte, e impronte di mani mutilate appaiono anche nelle pitture rupestri dell’Australia. Inoltre, nelle grotte dei Pirenei è rilevante il fatto che, mentre le impronte di mani normali sono rappresentate in positivo, «quelle incomplete [...] sono in negativo, contornate di nero o di rosso ocra», quasi a segnalare questo tipo di rappresentazione. D’altronde, se in India l’amputazione di un dito da parte delle madri per preservare la vita dei figli ha il sapore di un sacrificio, e se in Nuova Guinea può avere il significato di un segno di lutto, tra gli Herero la mutilazione digitale è richiesta come rito di passaggio per divenire cacciatori, un po’ come tra i Sioux di cui si è detto prima (1990: 546). Altri esempi citati da Chippaux sono i Warramunga dell’Australia, dove le ragazze si amputano l’estremità dell’indice, e la tribù indiana dei Barula Kodo, “tagliatori di dita”, i quali tagliano il dito di una donna in occasione di cerimonie. Nella tipologia qui proposta, possiamo considerare le amputazioni come uno snodo categoriale. Esse riguardano infatti non soltanto dita e denti (per citare quelle più importanti), ma pure gli organi genitali, sia maschili sia femminili. Ablazione del prepuzio ed escissione del clitoride avrebbero quindi potuto essere considerate all’interno della categoria XV. Abbiamo però preferito collocarle nella categoria XVI, in quanto fanno parte di un insieme assai articolato di interventi modificatori degli organi genitali. Prima di passare alla categoria dedicata espressamente alla “chirurgia genitale”, è bene però rilevare che le amputazioni considerate, comprendenti anche quelle della categoria XVI, riguardano organi o parti del corpo assolutamente decisivi per il funzionamento biologico, sociale e culturale dell’essere umano: la mano, la bocca, il sesso, a conferma che le esigenze di intervento e i propositi di modellamento possono assumere perfino caratteri distruttivi, oltre che trasformativi. XVI. Chirurgia genitale. Non tutti gli interventi che verranno considerati nella categoria XVI sono di ordine chirurgico, per cui a rigore si sarebbe forse dovuto intitolare la categoria “modellamento degli organi genitali”. Si è voluto però privilegiare gli interventi chirurgici, attribuendo loro una posizione prototipica, ­­­­­112

a causa della loro maggiore significatività e problematicità. Preannunciata dalla categoria delle amputazioni (XV), la categoria della chirurgia genitale – una delle più drammatiche e inquietanti – rappresenta una sfida al senso morale e alla comprensione intellettuale. Pure Chippaux, più interessato a sottolineare di solito i contro-effetti negativi dei vari tipi di intervento, avverte la complessità del problema, ritenendo opportuno affermare che «così come le altre, le mutilazioni sessuali esprimono il pensiero e il comportamento delle società» (1990: 552). Inoltre egli aggiunge che «di rado le mutilazioni sessuali si presentano come isolate», accompagnandosi spesso, o facendo seguito, a tatuaggi, scarificazioni, perforazioni, modificazioni dentarie ecc., quasi che la chirurgia genitale dovesse completare, in questa o in quella società, tutta una serie di interventi che intendono modificare in modo massiccio e irreversibile l’essere umano. È ragionevole pensare che si faccia ricorso alla chirurgia genitale là dove il modellamento del corpo di uomini e donne viene avvertito non solo come un’esigenza imperiosa, a cui non ci si può sottrarre, ma anche come un’operazione vasta, complessa, multiforme, nella quale la riconfigurazione degli organi sessuali maschili o femminili viene ad assumere un significato decisivo. Gli interventi della categoria XVI costituiscono forse i punti estremi a cui sono state spinte le possibilità di modellamento estetico del corpo umano. A) Interventi femminili – Tra gli interventi sui genitali femminili, occorre considerare in primo luogo l’imene e le scelte persino opposte che le società adottano in relazione alla sua integrità e alla deflorazione. In diverse società, come per esempio tra i Sinti e i Rom, è la madre che si incarica di deflorare la figlia in modo indolore fin da piccola. Presso alcuni gruppi aborigeni dell’Australia, invece, la deflorazione della ragazza pubere avveniva con un allargamento energico dell’orifizio vaginale e, in certi casi, con una sorta di stupro collettivo (1990: 554). Anche per quanto riguarda clitoride e piccole labbra gli interventi modificatori si collocano a due estremi opposti: da un lato l’allungamento del clitoride (come, per esempio, tra gli Yoruba della Nigeria) e delle piccole labbra (Khoi-San, Gisu, Luba, Venda) a forza di manipolazioni, dall’altro la loro escissione. Secondo Chippaux (1990: 556), la clitoridectomia sarebbe caratteristica, da un punto di vista storico, delle civiltà della Mesopotamia, della Palestina e dell’Egitto (Stra­­­­­113

bone ne parla a proposito sia di Egiziani sia di Ebrei); da un punto di vista etnografico, essa è presente in molte parti dell’Africa, specialmente dell’Africa islamizzata, in una fascia assai vasta, che va dal Senegal al Kenya. Essa è pure attestata tuttavia in alcune parti della Malesia, in Pakistan, forse in alcune civiltà amerindiane precolombiane (come potrebbero suggerire le ceramiche mochica), nonché tra gli Shipibo dell’Amazzonia e in alcuni gruppi di aborigeni australiani. Per quanto possa sembrare strano, «l’Europa non è rimasta estranea a questo tipo di intervento sui genitali femminili» (1990: 558). Il caso più significativo – su cui torneremo – è quello degli Skopzi, un gruppo mistico nella Russia del XVIII e del XIX secolo. Ma Chippaux aggiunge anche il caso del medico londinese Ysaac Backer Brown, il quale riuscì a convincere (siamo nel 1853) una parte del mondo medico anglosassone a praticare la clitoridectomia come rimedio contro la masturbazione femminile. Per lo stesso motivo, nella seconda metà dell’Ottocento, negli Stati Uniti d’America la clitoridectomia era «comunemente praticata» (Burton 2001: 41). Il commento di Chippaux (1990: 558) può essere al riguardo illuminante: «per quanto elevato sia il livello di una civiltà, può vedersi di tutto» (corsivo nostro). E il commento di Burton (2001: 42) è più o meno dello stesso tenore: la modernità non è esente da atteggiamenti irrazionali, perché «vi è irrazionalità in tutti i tentativi umani, in ogni società, in qualsiasi momento temporale». La domanda che dobbiamo porci è però la seguente: si tratta di un’insorgenza di barbarie, di irrazionalità e di insensatezza – come Chippaux tende a pensare – o si tratta invece di modalità di intervento a cui le società (o gruppi al loro interno) possono inclinare nella misura in cui elaborano certi modelli di femminilità? È l’ignoranza e la superstizione o sono specifici modelli di femminilità che occorre indagare? Secondo la prospettiva qui adottata, i modelli di umanità (di virilità e di femminilità) costituiscono l’elemento esplicativo per ogni tipo di intervento estetico, anche per quelli più distruttivi. I modelli di umanità sono però frutto di “invenzione”; ci si ingegna a costruire modelli, non essendocene di già dati. E la costruzione-invenzione contiene arbitrarietà e avventurosità. Qui vi è spazio per il potere: il potere di proporre e imporre forme di umanità (anche crudeli, anche in contrasto con le funzionalità organiche). Ha ragione Chippaux ­­­­­114

quando si chiede: «A quale forza occorre attribuire la persistenza di un simile costume?» (Chippaux 1990: 562, corsivo nostro). La persistenza di costumi di questo genere – unitamente alla loro diffusione – costituisce in effetti un problema, tanto più se si tiene conto che la clitoridectomia viene praticata dalle donne su altre donne. Come si potrebbero spiegare la persistenza e la diffusione della clitoridectomia se non facendo ricorso a un qualche fattore positivo (a una “forza”, appunto), che sostiene e giustifica, che inquadra e offre motivazioni, che fa superare l’atrocità del male, del dolore, della sofferenza? La risposta è intravista dallo stesso Chippaux: «Senza dubbio, la trasmissione di generazione in generazione produce nella ragazza la convinzione che, accettando il fatto, essa compie un dovere. Se non è escissa, “non è una donna”». Persino da parte di autori interessati agli aspetti medici (come Chippaux), piuttosto che a quelli simbolici, il fattore esplicativo viene individuato in un modello di femminilità che le stesse donne hanno contribuito ad elaborare e che per diverso tempo hanno fatto proprio. In quel modello di umanità è la “forza” esplicativa che occorre ricercare, non nell’“insensatezza” che lo stesso Chippaux attribuisce a questi costumi (1990: 553). Come è noto, vi sono altri tipi di interventi sui genitali femminili, che comportano modificazioni ancora più rilevanti: si allude in questo caso specialmente all’infibulazione, che consiste nella sutura delle piccole labbra, a seguito di escissione, lasciando un piccolo foro inferiore per la fuoriuscita delle orine e del flusso mestruale. Attestata sia nell’Africa orientale (soprattutto in Somalia), sia nell’Africa occidentale, l’infibulazione si configura come una forma estrema di verginità femminile, condizione indispensabile per accedere a un matrimonio. Il marito provvederà ad allargare con una lama l’orifizio urinario; ma occorrerà procedere a un’ulteriore e più adeguata apertura allorché la donna incinta sarà in procinto di partorire (1990: 565). Messo fuori causa l’Islam, in quanto – come per la Bibbia – il corpo umano è da considerarsi come proprietà assoluta di Dio, rimane da sottolineare il peso di una cultura in cui l’immagine della donna è fortemente condizionata dal predominio dell’uomo e persino dall’uso del coltello che interviene per tagliare e quindi chiudere le piccole labbra per poi riaprirle in occasione del matrimonio e del parto. Ponendo a confronto l’escissione del clitoride e l’infibulazione, Chippaux (1990: ­­­­­115

567) rileva che, mentre la prima è di per sé «anatomicamente poco mutilante», il secondo tipo di intervento comporta «disordini anatomici [...] aberranti e tragici, poiché mettono in pericolo la funzione della gestazione e neutralizzano il pieno sviluppo della donna». Come abbiamo già visto a proposito della categoria XV (Amputazioni), Arnold Rubin (1988: 13-14) suggerisce di evitare l’impiego di espressioni come “mutilazioni”, e gli antropologi che si occupano di chirurgia genitale femminile disapproverebbero certamente la terminologia usata da Chippaux (consacrata del resto dall’OMS nell’espressione ufficiale di “Mutilazioni genitali femminili”: MGF). Sono le stesse protagoniste di questi interventi a rifiutare il concetto di mutilazione, in quanto contiene di per sé una «valutazione negativa», mentre invece si tratta di «eventi “positivi” della vita dell’individuo», ovvero di «passaggi necessari e obbligati nel percorso di crescita della persona» (Fusaschi 2003: 31). Sulla necessità di cogliere il “fattore positivo” di questo tipo di interventi abbiamo già dichiarato il nostro accordo, facendo vedere come persino un autore come Chippaux sia incline a intravedere nell’immagine di femminilità elaborata in determinate culture la ragione di queste pratiche altrimenti inspiegabili. Commentando la ricerca che Janice Boddy (2006) aveva dedicato all’operazione di infibulazione in un villaggio del Sudan, anche Chiara Pussetti individua i significati “positivi” dell’intervento in termini di socializzazione della fertilità, di accrescimento della femminilità, di «operazione chirurgica di femminilizzazione», avente lo scopo di costruire un corpo femminile levigato, pulito, chiuso, puro (Pussetti 2006a: 86-87). Ma le operazioni chirurgiche di “tagliare” e di “chiudere” – con tutto quello che comportano in termini di dolore, di sofferenza, di effetti drammatici e persino letali – sono reali, almeno quanto i loro significati simbolici. Non si tratta di aspetti secondari: “tagliare” e “chiudere” chirurgicamente sono parte integrante di quei modelli di femminilità, e la ricerca del significato di questo tipo di interventi li deve assumere in tutta la loro pregnanza e drammaticità. Del resto – come ci ricorda la stessa Pussetti (2006a: 88) – le società provvedono spesso a “tagliare” qualcosa anche per quanto riguarda gli organi genitali maschili. B) Interventi maschili – La circoncisione (asportazione totale o parziale del prepuzio) viene effettuata mediante un taglio net­­­­­116

to del prepuzio o mediante un’incisione circolare. Testimonianze storiche relative a questo tipo di intervento riguardano i Sumeri, i Fenici, i Siriani, gli Egizi, gli Ebrei, gli Arabi prima di Maometto. Per quanto riguarda gli Ebrei, è opportuno rilevare che la circoncisione costituisce l’unico “taglio” consentito, e anzi imposto dalla divinità, sul corpo umano come segno dell’alleanza tra Israele e il proprio Dio, essendo tutti gli altri proibiti (Genesi 17, 9-14 – La Bibbia 1987: 28). A cominciare da san Paolo, il cristianesimo rifiuta la circoncisione «nella carne», dando ad essa un’interpretazione meramente spirituale (Romani 2, 28-29 – La Bibbia 1987: 1728 – Remotti 2000: 149-151), mentre l’Islam fa propria l’idea e la pratica della circoncisione come mezzo per ottenere la purezza del corpo. Grazie soprattutto all’Islam e alla sua espansione, il Vicino Oriente è spesso considerato come un centro di diffusione di questa pratica anche altrove, ovvero in diverse parti dell’Africa orientale e in Madagascar (Chippaux 1990: 573). Per quanto riguarda l’Africa, la pratica della circoncisione è comunque presente in molte società, del tutto indipendentemente dalla presenza dell’Islam. Questo costume non era conosciuto nella zona d’influenza indoeuropea, presso i Mongoli e le popolazioni ugro-finniche. Si ritrova invece in diverse zone del Sud-Est asiatico e dell’Estremo Oriente, in Oceania (Melanesia, Vanuatu, Nuova Guinea, Nuova Caledonia, Australia). Era praticato inoltre da Inca e da Aztechi preclassici e da alcune tribù amerindiane. Oggi, è una pratica assai diffusa nel continente nord-americano, a prescindere da appartenenze religiose (ebraismo, Islam). Senza dubbio, non si riscontra continuità nella distribuzione geografica e temporale di questo tipo di intervento. Ciò nonostante, Chippaux (1990: 574) ritiene che «la circoncisione possa essere considerata come una mutilazione di carattere universale» e che dunque debba essere concepita come una risposta a «un bisogno culturale profondo» (corsivo nostro). Vi è un’indubbia analogia con la clitoridectomia, e in quanto “amputazioni” entrambe le operazioni potrebbero essere collocate nella categoria XV. A parte la circoncisione ebraica (eseguita l’ottavo giorno dopo la nascita), quasi tutti i casi di circoncisione rituale riguardano il periodo della pubertà come rituale di passaggio all’età adulta. La circoncisione, praticata molto spesso in foresta, lontano dalla vita del villaggio, è una prova di «prepa­­­­­117

razione psicologica», in cui l’esperienza del dolore e del coraggio si unisce alla «meditazione sull’insegnamento dei miti, delle tradizioni, dei divieti» (1990: 575). In modo più approfondito, Victor Turner sottolinea il carattere di «riflessione» sulla società che questa prova viene ad assumere tra gli Ndembu dello Zambia: trovandosi in una situazione di accentuata liminarità, i giovani sono costretti a svincolarsi dai costumi e dalle tradizioni e ad acquisire una sorta di spirito critico, di senso delle possibilità (Turner 1992: cap. IV). Del resto, che cos’è l’idea della “seconda nascita”, che caratterizza la circoncisione in diverse etnie del Madagascar, se non l’accentuazione di un passaggio – di una trasformazione radicale, antropo-poietica – dalla condizione di «cosa, zavatra» a quella di «lahy, maschio», cioè di un essere umano più pieno e autentico (Chippaux 1990: 578)? Giustamente, Chippaux sottolinea che «i Malgasci aggirano la legge naturale, e con l’espediente della circoncisione procedono essi stessi al “parto” dei loro figli, trasformandoli così in “soggetti di diritto”». Secondo Chippaux, il taglio del prepuzio è di per sé un «intervento banale», il quale tuttavia «assume significati diversi secondo le etnie, le culture, le epoche». Per esempio, non c’è dubbio che il significato della circoncisione degli Ebrei non è lo stesso di quello ndembu (per certi versi è persino opposto). Ma è altrettanto indubbio che si tratta in ogni caso di significati “culturalmente profondi”: appartenenza etnica o religiosa, acquisizione di uno status di maggiore completezza, seconda nascita, sviluppo del senso delle possibilità, rivendicazione o appropriazione di una capacità riproduttiva da parte dei maschi. Se si taglia, e se si taglia dolorosamente, non è per “banale” acquiescenza a tradizioni insensate. Qualcosa di molto importante è in gioco, com’è dimostrato anche dalla subincisione, taglio operato longitudinalmente nell’uretra, dallo scroto al meato urinario: pratica attestata soprattutto presso diverse tribù di aborigeni australiani, nelle isole Fiji e in alcuni gruppi dell’America del Sud. Ha (o meglio aveva) significato rituale, in quanto faceva parte di un rituale di iniziazione, in aggiunta alla circoncisione. L’operazione (ariltha o mika, secondo i termini australiani), effettuata con una lama di pietra o d’osso, provoca una modificazione permanente dell’organo maschile, sul quale, mediante l’apertura dell’uretra, è come se si venisse a creare una sorta di vulva: «una ­­­­­118

manifestazione» – afferma Chippaux (1990: 569), sulla scorta di Bruno Bettelheim (1996) – «dell’ambivalenza sessuale». La tesi appare piuttosto condivisibile e seducente, se si tiene conto del fatto che il taglio dell’uretra viene periodicamente ripetuto, così che i giovani sanguinano come le donne durante le mestruazioni (Glowczewski 1991: 199) e che l’uretra tagliata viene chiamata “vulva”. Definire questa operazione «barbara» (Chippaux 1990: 568) non ci fa però progredire sulla strada della comprensione. Questi tipi di interventi rappresentano senza dubbio una sfida alle comuni categorie antropologiche. Essi obbligano a riconoscere alla loro radice – e proprio a causa della loro «deliberata crudeltà» (Grottanelli 1965: 39), del dolore che provocano e degli effetti irreversibili che comportano – un complesso di pensieri e di preoccupazioni su come debba essere un uomo o una donna. Si tratta di interventi che costringono non solo gli antropologi, ma anche e prima ancora i protagonisti di questi rituali, a riflettere sulla problematicità dei rapporti tra maschile e femminile. Per queste società il “fare” umanità, maschile o femminile (nel caso specifico, “to make the boys into men” [Spencer e Gillen 1938: 246, n. 1]), rappresenta un compito esplicito, a cui non intendono sottrarsi, ma anche un compito difficile, crudele, periglioso. In questo scenario occorre evocare la castrazione, a cominciare dalla castrazione unilaterale, che non pregiudica le facoltà procreative (attestata in Micronesia e in alcune zone dell’Africa), per terminare con la castrazione totale che invece mette fine alla capacità riproduttiva dell’uomo. Spesso la castrazione viene inflitta a nemici vinti, a criminali, a schiavi, come è attestato per l’antichità nell’area mediterranea, in Asia minore, in India, in Cina. In altri casi, si tratta invece di produrre eunuchi destinati agli harem nel Vicino Oriente, in Cina o in Africa. In questi casi, il modellamento della persona è del tutto evidente e ancora più evidente è il modellamento a fini estetici nel caso dei castrati utilizzati in Spagna e soprattutto in Italia dal XVI al XVIII secolo per il “bel canto” (con voci di soprano e di contralto) nelle chiese, nelle corti, nei teatri. Anche qui vediamo come il modellare comporti un “tagliare”, un “rinunciare” (alla funzione procreativa con tutto ciò che implica sul piano organico e psicologico) al fine di ottenere un comportamento o una voce specializzati, appropriati. Nel Vangelo di Matteo (XIX, 12) Gesù propone una tipologia ­­­­­119

di eunuchi: quelli che così nascono dal seno materno, quelli che così sono stati fatti dagli uomini e quelli che invece «si resero tali da sé per il Regno dei Cieli» (La Bibbia 1987: 1546). E Gesù aggiunge: «Chi può comprendere, comprenda». Origene “comprende” alla lettera e si evira per il regno dei cieli; ma il Concilio di Nicea del 325 «esclude dal sacerdozio coloro che si sono volontariamente castrati con il pretesto della castità» (Chippaux 1990: 582). In effetti, Origene non è il solo a prendere la strada dell’automutilazione per motivi religiosi: la frase del Vangelo, per quanto possa essere convenientemente interpretata come metafora, fa capire che questo fenomeno poteva già essersi verificato. Soprattutto occorre segnalare nella Russia del XVIII secolo il movimento degli Skopzi (“eunuchi”), una setta di flagellanti cristiani che praticavano l’automutilazione sia per gli uomini sia per le donne. Nel caso degli uomini si poteva procedere alla soppressione dei due testicoli («piccolo sigillo») o alla eliminazione anche del pene («sigillo imperiale») e nel caso delle donne le mutilazioni potevano riguardare seni, clitoride, piccole labbra, interpretando in questo modo le parole di Gesù nel Vangelo di Luca (XXIII, 29 – La Bibbia 1987: 1635): «Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e quelle che non hanno mai generato e le mammelle che non hanno mai allattato» (Chippaux 1990: 583-584). Rifacendosi ai Vangeli, gli Skopzi hanno praticato «le più radicali mutilazioni di cui si abbia notizia nella storia dell’umanità» (Grottanelli 1965: 46). La castrazione degli Skopzi comincia ad apparire nella regione di Oriol (a sud di Mosca) nel 1757; il governo ne è informato soltanto nel 1771. Ma nell’Ottocento il movimento si estende a tutta la Russia (fino a raggiungere la cifra di 20.000 adepti), ed è pure presente in Siberia (dove furono deportati), nei Balcani, in Romania, in Turchia, in Libano. Inoltre, «tutte le classi della società sono rappresentate» e, nonostante le condanne e le deportazioni, il movimento durò per più di un secolo e mezzo, fino all’inizio del Novecento (Chippaux 1990: 584-585). Del resto, anche in India troviamo movimenti di “eunuchi”, le hijra. Si tratta di individui nati maschi e che, per motivi di impotenza o di incapacità procreative, si sottopongono a un’operazione di evirazione. Le hijra si riuniscono attorno al culto di Bahuchara Mata, una manifestazione della Dea Madre hindu, e si esibiscono con canti e danze nei matrimoni e in occasione di ­­­­­120

nascite, benedicendo le famiglie perché abbiano maggiore fertilità e prosperità (Nanda 2007: 21). Come chiarisce Serena Nanda, l’operazione chirurgica di evirazione viene compiuta da una hijra, la quale recide in tutto o in parte i genitali mediante due tagli diagonali e lasciando una piccola fessura per l’urina: il sangue viene lasciato scorrere, in modo che la persona «si libera della maschilità» (2007: 27). Di fronte a questo tipo di interventi, la società contemporanea inorridisce ed emette di solito giudizi di “barbarie”. Lo stesso Chippaux, che è tutt’altro che esente da giudizi di questo genere, e che con il caso delle hijra coinvolge il lettore nella speranza che così si sia posto termine al «tour delle mutilazioni sessuali aberranti», ci pone di fronte a questi fatti, che ci riguardano più da vicino: A seguito di un articolo apparso il 3 dicembre 1953 su “Daily News”, il mondo veniva a sapere che ormai era possibile cambiare sesso. Dei colleghi di Copenhagen, i dottori Hamburger, Sturup e Dohl-Iversen, avevano eseguito la prima operazione di femminilizzazione medico-chirurgica d’un transessuale maschio. Questa informazione, data all’insaputa dell’équipe medica, offriva una speranza a tutti coloro che desideravano cambiare sesso [...]. Essa apriva però un nuovo capitolo sulle mutilazioni sessuali volontarie. Con questi interventi mutilanti sui transessuali, il chirurgo fornisce il completamento indispensabile per assicurare il successo e la stabilità di una terapia ormonale utilizzabile a partire dal 1935 e in grado di “correggere la fragilità relativa della differenziazione sessuale umana” (Chippaux 1990: 586, corsivo nostro).

Non è dunque possibile sostenere che la società contemporanea sia estranea alla manipolazione chirurgica dei genitali. Tutt’altro: sia che la causa vada ravvisata in incerte o plurime conformazioni genitali, sia che la si debba attribuire a disordini ormonali e a disagi psicologici, la chirurgia moderna che interviene a rimodellare genitali maschili e femminili è perfettamente collocabile nella categoria XVI, quella della “chirurgia genitale”, insieme alle etnie che in Africa praticano clitoridectomia e infibulazione e che in Australia hanno invece inventato la subincisione. Si dirà, giustamente, che c’è differenza tra un individuo che soffre per conformazioni genitali non accettabili o per una problematica collocazione di genere da un lato e, dall’altro, le pratiche presenti ­­­­­121

in altre società, mediante cui si interviene comunque a modificare l’apparato genitale. Ma anche in questi casi gli interventi sono fatti per aggiustare e correggere, come per esempio tra i Dogon, secondo i quali la circoncisione elimina ciò che di femminile si troverebbe nel sesso maschile e l’escissione del clitoride taglia via ciò che di maschile vi sarebbe nel sesso femminile (Griaule 1972: 182-189). Forse alla base di tutti questi interventi vi è un “disagio” profondo (avvertito ora sul piano individuale, nel rapporto individuo/società, ora sul piano collettivo, nel rapporto società/natura), riconducibile alla «fragilità» della differenziazione sessuale evocata da Chippaux: disagio che si esprime talvolta nell’impossibilità di accettare una conformazione genitale così come viene data in natura o come viene proposta dalla società. Occorre segnalare a questo punto ciò che avviene normalmente nei nostri ospedali: in presenza di casi di intersessualità alla nascita, e pur in assenza di complicazioni mediche, il chirurgo interviene con il suo bisturi per assegnare al genere femminile o al genere maschile un essere umano altrimenti inaccettabile (De Nardi 2010-2011). Per “noi”, le categorie di genere non possono che essere due, caratterizzate dalla loro reciproca opposizione e dalla loro specifica “identità”; e la chirurgia genitale è il mezzo “tagliente” per eliminare equivoci, fluttuazioni, somiglianze sospette, commistioni inaccettabili. XVII. Chirurgia estetica moderna. Come vi è stata una parziale sovrapposizione tra la categoria XV (Amputazioni) e la categoria XVI (Chirurgia genitale), così ora ne registriamo un’altra tra la stessa categoria XVI e la categoria XVII (Chirurgia estetica moderna). Sotto il profilo tecnico, la chirurgia plastica di tipo estetico, il cui scopo è trasformare il corpo per adeguarlo a un ideale culturale, è in gran parte un’invenzione del Novecento, dovuta all’insorgere – alcuni sostengono – dell’individualismo moderno (Burton 2001: 61). Burton sottolinea che un tempo, nella civiltà occidentale, il corpo era considerato come un prodotto della divinità e quindi intoccabile, e questa ideologia persiste nelle credenze dei Christian Scientists, i quali vietano ogni manipolazione del corpo, considerata come un comportamento eretico e aberrante. La chirurgia estetica moderna affonda le proprie radici nel periodo appena successivo alla prima guerra mondiale, come risposta della chirurgia all’esigenza di porre rimedio a traumi e disabilità ­­­­­122

subite in guerra. Rispetto alla maggior parte degli interventi chirurgici esaminati prima, la chirurgia moderna cerca di sopprimere o di attenuare il dolore con l’anestesia e opera in ambienti asettici. Anche grazie a queste differenze, la chirurgia estetica moderna si impone nella nostra società come una maniera particolarmente efficace e organizzata di rimodellare esteticamente il corpo. Come molti altri interventi precedenti, essa foggia e scolpisce il corpo di uomini e di donne (nasi, seni, ventri, glutei, guance, labbra, orecchie, vagine ecc.) e lo fa tagliando, incidendo, asportando, inserendo. Inoltre, per quanto riguarda il dolore, non sono comunque sofferenze di poco conto l’ospedalizzazione, gli effetti dell’anestesia, il periodo di convalescenza e i costi monetari. A ben vedere, molti interventi della chirurgia estetica moderna avrebbero potuto essere distribuiti nelle categorie precedenti. Si è però preferito istituire una categoria a parte a causa di alcuni tratti che contraddistinguono questo tipo di chirurgia. In primo luogo, essa si colloca nell’alveo della tradizione medica occidentale, ovvero della biomedicina (uso di un sapere biologico approfondito, strumentazione raffinata, laboratori, tecnologia costantemente rinnovata, ospedalizzazione ecc.). Un secondo aspetto importante va messo in rilievo secondo France Borel (1992: 207): la chirurgia estetica moderna è «la manifestazione più violenta e dissimulata della tendenza alle mutilazioni nel mondo occidentale contemporaneo», in quanto «nascosta sotto la copertura» della medicina ufficiale. A sua volta, Arnold Rubin sostiene che la chirurgia plastica moderna si differenzia dalle forme di interventi riscontrati nelle altre società, in quanto questi «tendono all’ostentazione», alla visibilità dell’intervento, mentre essa «cerca di mascherare i suoi procedimenti, realizzando un tipo di bellezza “naturale”» (Rubin 1988: 16). L’obiettivo che essa persegue è dunque duplice: quello della trasformazione e quello della “naturalità”, e ciò si verifica sia sul piano estetico (intervenendo là dove si pensa che nasi, glutei, seni di un determinato individuo si siano discostati troppo dai canoni di bellezza considerati più naturali), sia sul piano tecnico (cercando in ogni modo di occultare l’intervento). Il prodotto deve coincidere con un tipo di bellezza che le “convenzioni” sociali del momento ritengono maggiormente rispondente ai dettami della natura, partendo dal presupposto che per natura – non per cultu­­­­­123

ra – seni, nasi, glutei devono avere un certo tipo di conformazione, di misure e di proporzioni. Se oggi non sono affatto inconsuete le ammissioni di essersi sottoposti a interventi di chirurgia estetica (esistono persino concorsi dove si eleggono “Miss Chirurgia Estetica”), rimane però saldo e imprescindibile l’obiettivo di occultare tecnicamente l’intervento: l’occultamento di tagli e cicatrici è parte indispensabile del suo successo. Insomma, ciò che si realizza nella chirurgia estetica moderna è un formidabile gioco di “finzioni” e di “come se”. Alla base essa condivide quella «tendenza alle mutilazioni» che, secondo Borel, affiora in molte culture, non importa se definite “tradizionali” o autodefinite “moderne”. Sorta in un ambiente di “modernità” e postasi sotto l’ombrello della biomedicina, la chirurgia estetica moderna opera “come se” i suoi obiettivi rispondessero a canoni di bellezza “naturali”: del resto solo con la forza di convincimento della natura potrebbero essere proposti, nella nostra società, interventi così massicci, invasivi e per lo più irreversibili; se venissero invece attribuiti al “costume” o alla “cultura”, difficilmente si potrebbe evitare di definirli “barbari” (alla stessa stregua degli altri). Infine, occorre evitare il riconoscimento della “finzione” (della manipolazione, dell’intervento culturale): l’intervento c’è stato, lo si ammette (persino lo si festeggia), ma – non lasciando segni di sé sul corpo modellato, se non il risultato ottenuto – è “come se” non ci fosse stato. L’occultamento dell’intervento è un’ulteriore finzione per convincere circa la naturalità del prodotto e la plausibilità dell’intervento. Si tratta insomma di una naturalità finta, culturalmente perseguita, artefatta, da cui si cancella – per motivi di opportunità culturale e quindi economica – il riconoscimento della finzione. XVIII. Alimentazione e diete. Perché mettere questa categoria verso il fondo? Perché è la categoria i cui interventi consistono interamente nell’introduzione di sostanze esterne (gli alimenti) negli organi più interni dell’uomo. Si tratta di sostanze non inerti, ma che si trasformano e in maniera sostanziale contribuiscono a “fare” l’organismo (a farlo crescere, a mantenerlo e a trasformarlo). È anche la categoria i cui effetti sono meno immediati, meno immediatamente visibili: ci vuole tempo perché le diete producano effetti estetici consistenti. Una volta introdotto il cibo, si ­­­­­124

tratta di un agire all’interno e dall’interno: per cui non è soltanto questione di cibo e di bevande in senso stretto; è anche questione di sostanze che vengono ingerite e che provocano trasformazioni o effetti di tipo metabolico. A pensarci bene, il “fare umanità” più elementare è quello dell’alimentazione. La cura con cui in ogni società si seleziona il cibo fa capire che in questione è esattamente la forma di umanità che si intende realizzare. Da ciò che si ingurgita dipende in maniera sostanziale l’essere umano, anche sotto il profilo estetico, quello, per esempio, della sua silhouette: non è la stessa cosa – come tutti sanno – una dieta liquida o una dieta solida, una dieta carnea o una dieta vegetariana. Diete e tipi di alimentazione vengono spesso selezionati – come è ampiamente dimostrato dalla nostra società – in vista dei risultati estetici che ci si prefigge di conseguire, anche a prezzo di sacrifici non indifferenti (impressionanti sono le “torture” a cui uomini e donne della nostra società si sottopongono nei centri preposti al dimagrimento). Lo stesso fatto che si verifichino tra società e tra periodi storici vistose oscillazioni circa i modelli da realizzare (ora verso l’estremo della magrezza, ora verso l’estremo dell’obesità) ci fa capire che qui siamo davvero nella sfera di una “moda” antropo-poietica. Fin troppo ovvi sono gli esempi di modelli di magrezza nelle società occidentali, e tuttavia è significativo segnalare – ricordando l’anoressia, con i suoi esiti talvolta letali – la presa profonda di questi modelli sul piano psichico e organico, la “sofferenza” provata da chi non riesce ad adattarvisi, la più o meno latente disapprovazione sociale. All’opposto, si possono citare le popolazioni della Polinesia, come di diverse parti dell’Africa, che coltivano il culto della grassezza e anzi dell’obesità. In Mauritania le ragazze vengono sottoposte a un precoce ingrassamento, concepito come segno esteriore di ricchezza e di prestigio (Chippaux 1990: 540). Del resto, la statuaria dei Mende della Sierra Leone sottolinea in modo inequivocabile l’idea di bellezza di figure femminili con i loro rotolini di grasso sul collo (Bargna 1998: 124, tavv. 54-55). Che dire, infine, delle numerose Veneri steatopigie della preistoria europea (per esempio, la Venere di Willendorf), di circa 20.000 anni fa, sostituite nell’era magdaleniana da figure femminili assai più agili e gracili? Fin qui, abbiamo posto una relazione di ordine causale tra il ­­­­­125

tipo di alimentazione (o le diete) e gli effetti estetici che ne derivano, considerando questi ultimi specialmente sotto l’aspetto visivo e, forse secondariamente, tattile: si vede se una persona è – o è diventata – grassa o magra. Vi sono però società che intravedono una relazione causale tra il tipo di alimentazione prescelto ed effetti estetici di ordine olfattivo. Per esempio, i gruppi Tukano della foresta amazzonica, studiati da Gerardo Reichel-Dolmatoff, sostengono che l’odore corporeo, con cui i componenti di una stessa tribù segnano in qualche modo il loro territorio, dipende dal diverso tipo di alimentazione: i Desana (cacciatori) odorano di carne, data la loro dieta prevalentemente carnea; per motivi analoghi, i Pira-Tupuya (pescatori) odorano invece di pesce; i Tukano (coltivatori) odorano invece di radici (Classen 1992: 135). XIX. Interventi chimici e ormonali. La società contemporanea pone a disposizione per interventi di tipo estetico diversi mezzi chimici. Da registrare è, per esempio, il ricorso a iniezioni sottocute della tossina botulinica, il cui effetto (della durata di alcuni mesi) è quello di spianare le rughe del volto provocando la paralisi e quindi la distensione di alcuni fasci dei sottili muscoli sottocutanei. È interessante rilevare che la stessa tossina botulinica viene usata per bloccare le ghiandole sudoripare delle mani e quindi ridurne la sudorazione. A questo scopo, indubbiamente estetico, la tossina viene iniettata in una ventina di sedi in ciascun palmo delle mani. L’operazione, molto dolorosa, ha un effetto di circa sei mesi, e quindi richiede di essere ripetuta. Tra i mezzi chimici più rilevanti per la loro diffusione e ampiezza di impiego estetico vi sono gli ormoni. Come già si è visto nella categoria XVI, si ricorre in primo luogo a trattamenti ormonali per iniziare un processo di mascolinizzazione o di femminilizzazione, che spesso si concludono con la metamòrfosi prodotta da interventi chirurgici. Trattamenti ormonali e interventi chirurgici, pur convergendo in questi casi verso un obiettivo comune, rientrano inevitabilmente in categorie separate, per il tipo di mezzi impiegati, per la natura stessa dell’intervento (chimico in un caso, fisico nell’altro) e per lo spettro della loro azione (di ordine sistemico e complessivo in un caso, e locale nell’altro). Oltre all’uso di ormoni femminili e di ormoni maschili, occorre inoltre ricordare l’ampio impiego nella nostra società di almeno altri due tipi di or­­­­­126

moni: ormoni della crescita e ormoni anabolizzanti per sviluppare le masse muscolari (pratiche del cosiddetto body building) da un lato e gli ormoni tiroidei, dall’altro, a scopo di dimagrimento. È evidente che con la chimica la nostra società ha aggiunto ulteriori possibilità di IEC, anche se gli IEC più tipicamente caratteristici di società culturalmente lontane o “esotiche” non sono affatto stati dimenticati, ma – come si è visto in diverse occasioni – tendono a presentarsi anche da noi con notevole frequenza. 3. Intermezzo sulla moda e sulla morte A questo punto occorre operare una cesura, poiché finora abbiamo trattato interventi estetici in relazione ai corpi vivi (§ 2), mentre nel paragrafo successivo (§ 4) affronteremo le categorie di interventi sui corpi morti, e le problematiche loro peculiari sono ovviamente diverse. Nonostante vi sia – come avremo modo di vedere – una categoria a scavalco (categoria XX), è meglio approfittare di questa cesura, ovvero l’attuale paragrafo 3, per svolgere alcune considerazioni conclusive in coda alle analisi fin qui condotte e per cominciare ad avviare il discorso sulle categorie tanatologiche. Uno dei temi a cui abbiamo accennato, allorché eravamo in procinto di illustrare la prima parte della nostra tipologia (§ 2), riguardava il dolore, facendo notare che la connessione “IEC-dolore” risulta più tematizzata, e forse anche più produttiva sotto il profilo teorico, che non la connessione “IEC-piacere”3. In effetti, quando siamo di fronte a IEC, per lo più volontari, accompagnati da “piacere” sia in fase di esecuzione, sia in fase di risultato conseguito (come possono essere quelli delle categorie I-IV), la nostra propensione, forse per pigrizia scientifica, è quella di non trasfor3   Opportunamente Lorenzo Bartalesi (2012: 24-25) riporta le seguenti considerazioni di Edmund Burke, un autore che Charles Darwin ebbe modo di leggere al ritorno dal suo viaggio attorno al mondo: «Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime: ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. Dico l’emozione più forte perché sono convinto che le idee di dolore sono molto più forti di quelle che riguardano il piacere» (Burke 2006: 71).

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mare il nesso IEC-piacere in un nodo problematico, accettando come ovvio e normale che il piacere accompagni l’esecuzione di un intervento, allorché questo viene compiuto da sé o da altri a regola d’arte, e che parimenti esso scaturisca da un risultato particolarmente apprezzato sotto il profilo estetico. Nel capitolo III abbiamo visto però il tema del piacere spuntare in maniera vivida dal testo di Darwin, là dove afferma di essere «profondamente colpito» dal «piacere che tutti [gli esseri umani] provano nel danzare, nella rozza musica, nel recitare, dipingere, tatuare ed altri modi di decorarsi» (Darwin 1983: 204). In quel capitolo abbiamo inoltre connesso il piacere all’ornamento e al senso del bello, verso cui Darwin ci ha condotti a riflettere. Ma in Darwin – come si ricorderà – c’è anche il dolore, a cui gli esseri umani si sottopongono per procurarsi quegli ornamenti corporei che, nel suo viaggio attorno al mondo, egli aveva visto essere così diffusi nelle società umane. “Piacere” e “dolore” costituiscono dunque un binomio fondamentale per affrontare adeguatamente il grande tema degli interventi estetici sul corpo. Come intendere però questo binomio? A uno sguardo rapido, sembrerebbe di poter dire che vi sono categorie di IEC più “piacevoli” e categorie di IEC più “dolorose”, ma “piacere” e “dolore” non si spartiscono senza ambiguità le categorie della nostra tipologia, come se esistesse una netta dicotomia tra categorie del “piacere” e categorie del “dolore”. Infatti, mentre le categorie iniziali sono probabilmente quelle in cui il dolore è meno presente, a tutto vantaggio del piacere, non sono poche le categorie “dolorose” (la cui esecuzione provoca in effetti grandi sofferenze) in relazione alle quali i risultati conseguiti appaiono tuttavia “piacevoli”, appaganti, gratificanti. Per affrontare con maggiore lucidità il binomio “pia­ce­re”/­ “dolore”, è indispensabile tenere conto delle due fasi in cui si articolano gli IEC: è in relazione alle due fasi che si potrà valutare infatti il grado di piacere e di dolore, nonché il dosaggio variabile tra le due dimensioni. Non c’è dubbio, per esempio, che la categoria XI (Scarificazioni) presenti un grado elevatissimo di dolore nella fase dell’esecuzione (fase 1) e un grado altrettanto elevato di piacere (estetico e anche erotico) nella fase del risultato (fase 2). Tenendo distinte queste due fasi (e quindi una diversa incidenza di dolore e di piacere), si può riformulare con maggiore precisione la questione del dolore e chiedersi “perché” sottoporre i corpi al ­­­­­128

dolore (e spesso a un dolore davvero atroce) per interventi aventi uno scopo prevalentemente “estetico”. La risposta dovrebbe consistere nel conferire molta importanza all’esito estetico, come se il piacere estetico fosse in grado di compensare il dolore della fase preparatoria. In altre parole, il dolore dell’esecuzione (fase 1) verrebbe spiegato come passaggio obbligato e strumentale rispetto al risultato conseguito (fase 2), estremamente apprezzabile sul piano estetico e sociale. Con questo schema delle due fasi e con la riduzione del dolore alla fase preparatoria, riusciamo in effetti ad avvicinarci agli IEC che ci appaiono maggiormente problematici, quelli cioè della categoria XVI (Chirurgia genitale), e in particolare a quelli della chirurgia genitale femminile. Janice Boddy, l’antropologa che aveva studiato direttamente nel 1976-1977 clitoridectomia e infibulazione in un villaggio del Sudan, sottolinea, insieme alle sue interlocutrici, il «cambiamento positivo» che così interviene «nel corpo di una donna» (Boddy 2006: 96, n. 13, corsivo nostro), vedendo concentrata la positività del risultato in quegli aspetti di “pulizia”, “levigatezza”, “purezza”, “chiusura” a cui avevamo già accennato e che costituiscono le condizioni estetiche ideali della donna, preliminari al matrimonio. La positività dà ovviamente piacere, e qui potremmo dire con convinzione che esso scaturisce dal “riconoscimento” sociale4. La ragazza che è stata sottoposta alle operazioni dolorosissime della categoria XVI vede trasformato il proprio corpo in un corpo di donna, in base al modello di femminilità elaborato dalla propria cultura: una trasformazione bio-culturale, a cui la ragazza ha dato il proprio contributo mediante la sopportazione del dolore. Il riconoscimento sociale della ragazza trasformata in donna compenserebbe dunque il dolore della fase preparatoria. Lo schema delle due fasi (esecuzione e risultato) ci consente anche di gettare una certa luce su quei tipi di IEC “dolorosi”, in cui la spiegazione va ricercata non tanto nella fase 2, quella del risultato definitivo, bensì nella fase 1, quella dell’esecuzione, dove si annida più propriamente il dolore. È ciò che ci suggerisce David 4   Sull’importanza del riconoscimento e sulla sua utilizzabilità anche in assenza del concetto di identità, mi sia consentito rinviare a Remotti 2010.

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Le Breton, il quale in un libro successivo a L’Anthropologie de la douleur (Le Breton 2007), non ha potuto fare a meno di imbattersi in fenomeni inquietanti della nostra stessa società, quali le «ferite [deliberatamente] inflitte al corpo (incisioni, scorticature, scarificazioni, bruciature, escoriazioni, lacerazioni ecc.)», al di là dei più comuni e accettati tatuaggi e piercing (Le Breton 2005: 7). Considerando la fase 1 (esecuzione) e la fase 2 (risultato), qui si direbbe che l’operazione della fase 1, con tutto il dolore che comporta, sovrasti come importanza e significatività ciò che si ottiene con la fase 2. Secondo Le Breton, questo «farsi male» da sé, questo aggredire il proprio stesso corpo, queste ferite deliberatamente inferte sono una ricerca del dolore, a cui il corpo viene sottoposto, come «materia prima» di una «difficile fabbricazione di sé» (2005: 11). Siamo – egli suggerisce – nel quadro di «un’antropologia paradossale», in cui «in gioco [...] vi sono senza dubbio delle logiche d’umanità – delle antropo-logiche – che è necessario comprendere»: una sorta di disperata lotta «contro lo smarrimento», in cui «una travolgente brama di esistere» conduce questi soggetti «sino ai limiti della condizione umana», fino al desiderio di «distruggere» la pelle che li separa dal mondo (2005: 9, 17-18). Le Breton si avvicina molto alla prospettiva antropo-poietica, allorché afferma: «La fabbricazione di sé, nelle società occidentali, impone ad alcuni un duro scontro con il mondo» (2005: 45). C’è da chiedersi se, avendo riconosciuto l’esigenza di una «fabbricazione di sé», il ricorso individuale al dolore e alle operazioni di intervento più elementari (tagli, incisioni, amputazioni) non sia la denuncia più chiara e inquietante di un “disorientamento”, anzi di uno “smarrimento antropo-poietico”, che del resto colpisce non solo le società occidentali, ma larghi strati delle società di altri continenti (con manifestazioni di interventi dolorosi sul corpo curiosamente molto simili). Si potrebbe aggiungere che lo “smarrimento antropo-poietico” traspare precisamente dal fatto che in questi casi è decisamente più importante l’intervento, il “taglio” in sé (fase 1), che non la forma, il disegno, il prodotto (fase 2) dell’operazione: non c’è una forma da disegnare, che fa da scopo e obiettivo antropo-poietico (fase 2); c’è solo il bisogno di averne una, bisogno che si esprime attraverso il ricorso ai mezzi con cui si disegna, cioè il taglio, l’incisione (fase 1). Si tratta in ­­­­­130

qualche modo di un’antropo-poiesi mutilata, immiserita, privata di un disegno, di un modello di umanità da perseguire5. Se teniamo fermo ancora il semplice ma utile schema delle due fasi (esecuzione e risultati), questo ci servirà ad affrontare un altro aspetto problematico che emerge dall’analisi di non poche categorie di IEC: quello della disfunzionalità di organi su cui operano certi tipi di interventi. Proviamo a sintetizzare, sotto questo profilo, le analisi precedenti. Come abbiamo visto, vi sono: A) numerosi IEC che sia nella fase 1 sia nella fase 2 lasciano sostanzialmente indenne il corpo, essendo i loro interventi esterni, superficiali, accessori, reversibili, neutri rispetto al dolore e anzi direttamente piacevoli (v. soprattutto le categorie I-IV); B) diversi IEC che comportano nella fase 1 (esecuzione) dolore, spesso anche un grande dolore, e che tuttavia determinano nella fase 2 risultati di grande piacevolezza (tipiche sono le categorie X e XI, quelle dei tatuaggi e delle scarificazioni); C) IEC che prevedono una certa dose di dolore nella fase 1, dell’esecuzione, e nella fase 2 modifiche rilevanti di organi, senza però che ciò comprometta la funzionalità degli organi interessati (per esempio, le modificazioni dei lobi auricolari nella categoria XIII e il modellamento del cranio nella categoria VII); D) IEC che, comportando certamente dolore nella fase 1, provocano in fase 2 modifiche strutturali che compromettono od ostacolano in misura più o meno profonda la funzionalità degli organi interessati (numerosi esempi possono essere tratti dalle categorie XIII, XIV, XV, XVI: dai piattelli labiali alle amputazioni, dalla riduzione di piedi e di toraci femminili al vasto campo della chirurgia genitale maschile e femminile). Per la serie di IEC riuniti al punto D, non è dunque soltanto questione di dolore; è anche questione degli effetti di disfunzionalità che vanno a colpire organi vitali sul piano delle attività motoria, sessuale, digestiva, fonatoria, respiratoria (piedi, bocca, nasi, toraci, organi genitali). Inoltre, occorre tenere presente che un conto è il dolore dovuto alla fase 1, quella dell’esecuzione, e un altro conto è la disfunzionalità, con conseguente dolore e 5   Sul tema dell’impoverimento culturale, decisivo per la considerazione dell’efficacia dei mezzi e degli obiettivi antropo-poietici, mi sia consentito rinviare a Remotti 2011.

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sofferenze, prodotta nella fase 2: il primo è infatti transitorio, la seconda è invece permanente. Questo tipo di interventi che interferiscono con determinate funzionalità dell’organismo, diminuendole, deviandole, contrastandole o addirittura impedendole, non possono essere affrontati con un semplice ricorso – come spesso si fa in antropologia – alla diversità culturale dei canoni di bellezza e di umanità. Se è vero – come diceva Mauss (1965: 392, 385) – che «il corpo è il primo e il più naturale strumento» di cui gli esseri umani «si servono», perché sottoporlo a interventi che ne compromettono la funzionalità? Di fronte al dolore che emerge soprattutto nella fase 1 (esecuzione) e che poi viene superato nella fase successiva, la risposta è consistita nel far intervenire la nozione di modelli di umanità (ovviamente differenziati, per esempio maschili e femminili), i quali danno garanzia di riconoscimento sociale (fase 2). Ma che dire di quei modelli di umanità che nella fase 2 – quindi in maniera permanente, non superabile – comportano le disfunzionalità di cui abbiamo detto? Essi daranno garanzie di riconoscibilità sociale, di condivisione di modelli di umanità, ma la disfunzionalità organica non è eliminata dal riconoscimento sociale. Come si vede, il problema non viene risolto facendo leva sui risultati che si ottengono nella fase 2; il problema anzi si sposta esattamente e pesantemente nella fase 2, sotto forma di questa semplice domanda: “perché gli esseri umani talvolta si inventano modelli di umanità ‘invalidanti’ sul piano organico?”. L’abbiamo già detto numerose volte: la via da battere non è certo quella della “barbarie” (fanno così perché sono dei “barbari” o, addirittura, facciamo così perché siamo dei barbari). Scartato il vicolo cieco della barbarie, gli antropologi si rifugiano spesso in una prospettiva di tipo socio-centrico: gli esseri umani fanno così perché per loro è più importante il riconoscimento sociale delle loro forme di umanità che non le loro implicazioni biologiche (e se le loro forme di umanità sono un po’ “invalidanti”, pazienza: non sono altro che un effetto secondario). I membri di quelle società sarebbero dunque a tal punto abbacinati dal loro socio-centrismo da non accorgersi di ciò che di invalidante fanno ai loro corpi? Inoltre, visto che il campo di invenzione delle forme di umanità è straordinariamente ampio, perché scegliere proprio le forme invalidanti? Forse, con la domanda di prima siamo arrivati ai confini attuali ­­­­­132

dell’antropo-poiesi, in attesa di qualche idea risolutiva. Proviamo dunque a procedere riprendendo a riflettere ancora sulla prospettiva entro la quale è stata intrapresa questa ricerca sugli IEC e a cui questo libro è dedicato. Poiein, da cui poiesis, in greco è fabbricare, costruire, modellare; ma abbiamo già messo in luce come il “modellare” non consista semplicemente in un porre rimedio a carenze (teoria dell’uomo come essere biologicamente incompleto), bensì produca a sua volta un’incompletezza sul piano culturale (Remotti 2011: cap. V; cfr. inoltre supra, i capitoli I e II). Ora, se consideriamo gli interventi che maggiormente fanno problema, potremmo forse dire che il “fare umanità” produce un’incompletezza anche sul piano organico. L’esame finora svolto degli IEC induce infatti a prendere le distanze dall’idea del poiein: non per rifiutarla, ma per integrarla con l’idea opposta, quella della “distruzione”. Nel “modellare”, gli esseri umani spesso fanno “violenza” e talvolta davvero “distruggono”: certi tipi di IEC qui esaminati ne sono la prova. Anzi, a ben vedere, la violenza è connaturata nel “fare umanità”, poiché il modellare è sempre un lavoro di selezione, e la selezione è sempre anche negativa oltre che positiva: è un adottare e, nel contempo, un sopprimere possibilità (Remotti 2000: 161). L’aveva detto chiaramente Claude Lévi-Strauss nel 1949 con la sua teoria della maturazione individuale come “sfrondamento”, e dunque perdita o distruzione di possibilità (Lévi-Strauss 1984: 150-155), e ora troviamo confermata questa tesi dello sfrondamento da parte delle neuroscienze (Favole e Allovio 2002). Sul piano etnografico, le società della Nuova Guinea, prese in considerazione da Marilyn Strathern, ci fanno capire che i rituali di iniziazione – e dunque anche gli interventi sul corpo, oltre che sullo spirito – consistono in una «scomposizione», nel senso che «disgiungono un insieme preesistente di attributi», separandoli secondo i generi, e rendendo «incompleta un’entità», la quale di per sé contiene l’insieme globale delle possibilità (Strathern 1993: 48). È allora opportuno preferire ad “antropo-poiesi” – espressione che risente del “costruttivismo” oggi così diffuso nelle scienze sociali – l’espressione “antropo-metamòrfosi”, con la quale John Bulwer (1650) designava globalmente tutti gli IEC? Se vogliamo mantenere l’espressione “antropo-poiesi”, come ci sembra opportuno, è necessario fare in modo che il concetto di poiesis ­­­­­133

non coincida con l’idea di una costruzione dal nulla o comunque neutra e indolore. L’importante è trattenere l’idea del modellare come “trasformare”, che è un “fare” e nel contempo un “disfare”, un “costruire” e nello stesso tempo un “distruggere”: un’attività dunque che ha molto a che fare con la morte, oltre che con la vita. In un testo di alcuni anni or sono, abbiamo parlato degli IEC come di “mode antropo-poietiche” (Remotti 2000: 115-138). La moda, essendo il mondo dell’effimero e dell’apparenza, è anche il mondo in cui più facilmente appaiono l’arbitrarietà e la caducità dei modelli proposti; ed è anche un principio per il quale si è disposti a “sacrificare” molte cose (2000: 116). In effetti, il concetto di moda è ciò che funge da nesso tra antropo-poiesi e morte. Sembrerà strano, ma un poeta e pensatore dell’inizio dell’Ottocento ci viene in soccorso in questo frangente. Nel Dialogo della moda e della morte di Giacomo Leopardi, del 1824, la Moda dice alla Morte: «Io sono La Moda, tua sorella»; e la parentela sarebbe dovuta al fatto che entrambe «tiriamo parimente a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù» (Leopardi 1998: 90). È vero che la Morte aggredisce le persone, mentre la Moda si occupa di barbe, capelli, abiti, masserizie, palazzi e di «cose tali». Ma Leopardi con grande intuito antropologico pone in luce come la moda interessi direttamente i corpi mediante i suoi interventi estetici. È la moda infatti che induce a «sforacchiare» orecchi, labbra, nasi, inserendovi «bazzecole», ad «abbruciacchiare le carni degli uomini con istampe roventi», a «sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni», a «storpiare la gente colle calzature snelle», a rendere difficile il respiro con la «strettura dei bustini» (1998: 90-91): sembra di ripassare i contenuti delle categorie VII, XII e XIII della nostra tipologia. È «per bellezza» – sostiene Leopardi – che gli esseri umani si sottopongono a «cento altre cose di questo» genere, ed è per bellezza che essi sopportano «ogni giorno mille fatiche e mille disagi, e spesso dolori e strazi», rischiando finanche la morte. È per bellezza che la moda riesce a indurre gli esseri umani a «fare di ogni cosa a mio modo ancorché sia con loro danno» (corsivi nostri). La concezione che Leopardi trasmette, e che coincide in buona parte con gli esiti della nostra ricerca, si può forse riassumere nei seguenti punti: a) una strabiliante molteplicità e varietà di interventi estetici sul corpo, spesso fantasiosi e frutto di immagina­­­­­134

zione; b) una sorta di disorientamento di fondo, non esistendo un modello generale; c) la centralità del tema della bellezza, la quale tuttavia si declina in una molteplicità di soluzioni e di idee divergenti e contrastanti; d) una ricerca di bellezza che si spinge oltre la barriera della funzionalità (organica, psicologica e sociale) e che si inoltra nei territori del dolore, della sofferenza, dell’impedimento, della perdita, del disagio, del “danno”, quasi a indicare (e) una urgenza antropo-poietica, di cui esistono motivazioni profonde e universali, e per la quale non affiorano però sbocchi definitivi, modelli stabili, soluzioni felici, certe, generalizzabili e senza costi. Si tratta infatti – nella massima serietà dell’espressione – di “mode antropo-poietiche”, che richiedono, come tutte le mode, non pochi “sacrifici”. 4. Tipologia (categorie XX-XXIII) Nell’introdurre l’ultimo segmento della tipologia proposta – quello cioè relativo alle categorie XX-XXIII – sarà bene precisare alcuni punti, a cominciare dalla tesi esposta da France Borel (1992: 6570), secondo cui i vari tipi di IEC finora considerati possono essere concepiti come una «lotta contro il tempo» e come una «lotta contro la morte». Segnare in qualche modo il corpo ha in effetti il significato di sottrarre almeno in parte il suo destino al flusso temporale: sia che si tratti di IEC superficiali e reversibili, da rinnovare costantemente (come, per esempio, le pitture facciali dei Caduveo), sia che si tratti invece di segni incisi e irreversibili (come tatuaggi e scarificazioni), tutti questi segni comportano e anzi producono una certa organizzazione del tempo, il quale – come il corpo – viene segnato, scandito. Il tempo non è però una dimensione che si lascia semplicemente modellare: esso è invece un insieme di forze che si oppongono a quanto viene costruito; la freccia del tempo è infatti inesorabilmente irreversibile, e per quanto riguarda la vita individuale, in fondo al tempo, al suo svolgersi lungo o breve, c’è la morte, che pone fine a tutti i progetti antropo-poietici. La morte – già presente in quella “perdita” e “soppressione” di possibilità di cui abbiamo parlato prima (§ 3) – investe poi l’intero organismo individuale con tutte le sue costruzioni antropo-poietiche: la morte è un vero e proprio scacco dell’antropo-poiesi. Come sosteneva Robert ­­­­­135

Hertz, «la morte non si limita a metter fine all’esistenza corporea, visibile di una persona, ne distrugge l’essere sociale», cioè una realtà che è stata costruita nel tempo e su cui la società aveva impresso il «proprio marchio» (Hertz 1994: 95-97). Se si tiene conto della valenza antropo-poietica che ogni vita racchiude, specialmente sotto il profilo sociale, la tesi di Jan Assmann, secondo cui «ogni cultura ha il suo centro nel problema della mortalità» (Assmann 2002: 37), viene ad assumere un significato particolarmente rilevante. Nell’elaborazione del nesso morte-cultura, Assmann va però oltre, fino a sostenere che il «desiderio» o «bisogno di immortalità» funziona come «generatore di cultura e di significato» (2002: 26). Possiamo dire che l’analisi degli interventi estetici che ora prenderemo in considerazione non sembra confermare questa seconda tesi: il desiderio di immortalità non è un bisogno universale. Vi sono società che rivendicano la fine, la dissoluzione definitiva, come destino propriamente umano. Un’ultima considerazione, prima di avviare l’analisi delle quattro categorie tanatologiche, riguarda il criterio dell’attività-passività. Gli IEC sui morti sono ovviamente caratterizzati dal massimo grado di passività (persino assenza) del soggetto: sui morti sono i sopravvissuti che operano gli IEC ritenuti più appropriati. Se in questi casi la passività del soggetto è estrema quanto meno nella fase dell’esecuzione (prescindendo cioè dalla manifestazione di volontà del soggetto in vita), gradi di passività più o meno elevati compaiono però anche in numerose categorie di IEC riservate ai vivi: fasciature di crani a individui appena nati, clitoridectomia e fasciature di piedi nel periodo infantile, circoncisione imposta ai neonati oppure ai ragazzi nel periodo della pubertà sono solo alcuni esempi. All’opposto, se ora passiamo a considerare le categorie tanatologiche, vediamo che la prima categoria in cui ci imbattiamo (categoria XX) si distingue per un grado decisamente elevato di attività del soggetto. Come avevamo preannunciato, si tratta infatti di una categoria a scavalco. Più in generale, concludiamo questo punto asserendo che la questione dei gradi di attività/ passività presenti nei vari IEC (nella loro esecuzione, più ancora che nella loro struttura) richiama all’attenzione quello che si può definire “l’argomento di Egeo” (§ 1), ovvero di coloro – uomini, dèi o altre entità – che dispongono del potere di “modellare” la figura degli altri: potere effettivo o potere immaginario che sia. ­­­­­136

XX. Interventi in vista della morte. Come si è detto, questa è una categoria aggiuntiva rispetto alle due proposte di tipologia avanzate in precedenza (Remotti 2000; 2005). È inoltre una categoria a scavalco, in quanto se da un lato ha a che fare indubbiamente con la morte, essa vede però i vivi come soggetti e come protagonisti, e anzi come soggetti attivi. Quali sono dunque i contenuti di questa categoria? Se partiamo dall’esempio dei baNande del Nord Kivu, un tempo era facile constatare una sorta di modellamento del carattere degli anziani, sia sul piano del comportamento, sia sul piano emotivo: era previsto infatti che il carattere della persona si “addolcisca” via via che la vecchiaia avanza e ci si avvicina così alla morte. L’affievolirsi delle forze si combina con un senso di “pace”, di “calma”, di “tranquillità” (obú-holo) che i baNande collegano alla morte (olú-hólo), quando questa è la morte “naturale”, non dovuta a stregoneria, di una persona in età avanzata (Remotti 1994: 134-135; Remotti 2006: 2). Ciò a cui si assiste è dunque una sorta di anticipazione della morte: non si tratta solo di un oggettivo venir meno della vigoria fisica; si tratta invece di un intervento morale dell’individuo sul proprio comportamento, così da eliminare le asprezze del vigore vitale e guadagnare la “dolcezza” progressiva della morte. In sintonia con questa anticipazione della morte nella vecchiaia, è significativo ricordare come tra gli stessi baNande si proceda a sistemare il corpo del malato senza più speranze in una posizione mortuaria (supino, con le braccia distese lungo il corpo) e ciò ancor prima del trapasso vero e proprio (Jourdan 2006: 268, n. 16). Più in generale, possiamo dire che per l’essere umano, di continuo sottoposto a interventi estetici (da quando nasce a quando muore, ovvero dalla culla alla tomba, così come dal mattino alla sera), vi sono interventi estetici per il morire, e la morte non pone certo fine alle preoccupazioni estetiche per il corpo. «Il corpo umano non è più esente da elaborazioni culturali al momento della morte di quanto non lo sia al momento della nascita» (Burton 2001: 47). Occorre tuttavia rilevare che il processo del morire, specialmente se contrassegnato dalla sofferenza, pone in gravi difficoltà i programmi estetici che normalmente ispirano la vita degli individui. Il processo del morire annulla infatti l’efficacia di molti IEC, rendendone difficile o impossibile l’applicazione. Sono quindi ipotizzabili strategie estetiche rivolte al morente, ov­­­­­137

vero una selezione di IEC che si adattino in qualche modo alla situazione di sofferenza e al momento critico del trapasso. Nel testo del 2006 a cui si è già fatto riferimento (Remotti 2006), frutto di un lavoro di ricerca collettivo sulla “tanato-metamòrfosi”, ovvero interventi culturali sul corpo in occasione della morte, sono stati raccolti casi di anticipazione della morte assai più accentuati di quelli ora riferiti. Se infatti l’anziano nande si limita a incorporare la “dolcezza” della morte nel suo comportamento, rimanendo in attesa dell’evento finale, gli eremiti miira del Giappone, i quali vivevano in grotte in totale solitudine, rinunciavano alla parola, alla scrittura, ai legami sociali, al cibo in maniera sempre più rigorosa, fino ad arrivare al digiuno più completo, al respiro fino alla sua totale ritenzione. Massimo Raveri (2006) ne ha fornito un quadro particolarmente approfondito, da cui possiamo ricavare l’idea di una vera e propria antropo-poiesi, la cui essenza è però «una inesorabile e programmata tanato-metamòrfosi» (Remotti 2006: 16). Gli eremiti miira con la loro auto-mummificazione, con il loro diventare già in vita sempre più «simili ai morti o alle pietre» (Raveri 2006: 329), assurgono a un ruolo proto-tipico nella categoria di cui stiamo trattando. Nella stessa posizione troviamo i monaci buddisti in Cina già a partire dalla fine del III secolo, gli asceti rinuncianti dell’India (samnyasin) che in vita subiscono il loro rito funebre, i monaci dei primi secoli del cristianesimo, i quali facevano propria l’esortazione di san Paolo a portare «sempre e dovunque la morte [lt. mortificationem; gr. nekrosin] di Gesù nel nostro corpo» (2 Corinti 4, 10-11 – La Bibbia 1987: 1768). La “mortificazione” (nekrosis) del corpo – concetto fondamentale nel cristianesimo dei primi secoli e oltre – esprime in maniera sintetica molti aspetti significativi della categoria che abbiamo trattato. Esso potrebbe collegare del resto questa categoria alla dimensione “distruttiva” che abbiamo visto affiorare diverse volte nell’analisi delle categorie precedenti. Solo che, mentre nelle categorie precedenti la distruttività veniva rivolta a questo o a quell’organo, a questa o a quella funzione, qui la distruttività si generalizza e riguarda tutto il corpo. Questa “mortificazione” si configura infine come una battaglia contro la morte. I monaci della Siria «non si rassegnavano a morire di morte naturale»: infatti «cercavano di autodistruggersi con digiuni inauditi, offrendosi ­­­­­138

alle fauci delle fiere e perfino gettandosi nel fuoco» (Colombás 1984: 142, corsivo nostro). È un po’ come sottrarre alla morte naturale la sua forza: anziché subire la morte che proviene dal corpo, dal suo decadere naturale, siamo noi che, attivamente, diamo la mortificazione al corpo, siamo noi che comandiamo la morte. Questo impossessarsi del potere della morte può avere tuttavia esiti divergenti sul corpo: mentre i monaci della Siria puntavano alla “dissoluzione” del corpo (categoria XXIII), la mortificazione messa in atto dagli eremiti miira si configurava come un tentativo estremo di conservare il corpo integro e intatto (categoria XXI). XXI. Trattamento del cadavere. Una volta avvenuta la morte, si impongono scelte estetiche radicali, a cui nessuna società può davvero sottrarsi. Il corpo sta infatti per essere aggredito da eventi e da fattori (fisici, chimici, biologici) che lo portano presto o tardi – secondo le condizioni ambientali in cui si trova – verso una completa distruzione. Di fronte a ciò, le società adottano espedienti e soluzioni, che manifestano gradi di intenzionalità e di progettualità almeno pari a quelli che abbiamo visto affiorare negli IEC delle categorie precedenti. Al fine di inquadrare gli interventi culturali che le società si inventano, è bene tenere presenti le tre fasi “naturali” a cui il corpo del defunto va inevitabilmente incontro: a) la fase di pre-decomposizione (dal momento del trapasso, comunque venga fissato dalle diverse culture, alla manifestazione dei primi segni di putrefazione); b) la fase della putrefazione, che segna senza dubbio la fine dell’organismo individuale e che tuttavia coincide con la «vita brulicante» dei microrganismi che lo aggrediscono; c) la fase della mineralizzazione, che coincide invece con la fine di ogni segno di vita (Thomas 1980: 27-28). È importante segnalare anche il breve periodo della predecomposizione, perché in questa fase le società si affrettano di solito a provvedere alla toilette del defunto, alla sua vestizione e talvolta profumazione e cosmesi, riprendendo così in tutto o in parte le categorie I-IV della nostra tipologia. Questo avviene per esempio tra i Bijagó della Guinea Bissau. Ma se qui li ricordiamo è perché essi approfittano di questo breve lasso di tempo per inscenare con il morto una sorta di finzione teatrale, come se l’individuo fosse ancora in vita: il cadavere viene tutto adornato, vestito con gli abiti più belli; viene fatto sedere nella sua veranda ­­­­­139

per accogliere gli ospiti; viene fatto danzare e partecipare a un banchetto in suo onore (Pussetti 2006b: 91). Anche tra i MedjeMangbetu del Congo assistiamo a una vera e propria corsa contro il tempo e contro la decomposizione, visto che nell’arco di pochi giorni occorre esporre il cadavere in tutti i villaggi dei suoi parenti (Allovio 2006). Nelle isole Marchesi, dove il tatuaggio costituiva davvero una «seconda pelle», le donne approfittano invece del periodo della pre-decomposizione per provvedere alla detatuazione del defunto. Ha perfettamente ragione Alfred Gell nel sottolineare che gli abitanti delle Marchesi vanno ricordati non soltanto perché venivano tatuati su tutto il loro corpo, ma anche perché con la morte «venivano detatuati» (Gell 1993: 39, 216). Come non avvertire in tutto ciò l’esigenza di «disfare umanità» con le proprie mani, di smantellare culturalmente ciò che culturalmente era stato costruito, prima di consegnare il corpo umano ai processi naturali della putrefazione (Remotti 2006: 14)? La tatuazione in vita e la detatuazione post mortem fanno parte di un unico processo di modellazione, di un unico progetto antropopoietico di costruzione (prima) e di distruzione (poi). Siamo ora nella fase più terribile e drammatica, quella della putrefazione, il momento più temuto dagli esseri umani (Thomas 1976: 296). Come afferma Adriano Favole (2003: 35), «gestire i processi di disgregazione dei corpi è una necessità ineludibile per le società umane». Egli individua cinque modalità principali con cui le culture affrontano la putrefazione: a) “evitare” (la cremazione consente infatti di evitare d’un balzo il periodo della putrefazione e accedere direttamente alla fase della mineralizzazione); b) “accelerare” (esponendo per esempio il cadavere agli eventi atmosferici); c) “dissimulare” (mediante per esempio l’inumazione); d) “rallentare” (facendo ricorso per esempio alle tecniche di imbalsamazione parziale; e) “bloccare” (impiegando per esempio tecniche di mummificazione e di criogenizzazione). Procedendo a un’analisi più approfondita (Favole 2003; Remotti 2006), potremmo vedere agire in questi tipi di interventi due principi opposti: quello del “rifiuto” della putrefazione (soluzioni a e e) e quello della sua “accettazione” (b, c e d); ma potremmo anche vedere come la soluzione a) e, in modi diversi, anche b), c) e d) determinino uno “scomparire” del corpo, delle sue fattezze, delle sue forme, mentre la soluzione e) si ostina a far “rimanere”, ­­­­­140

con il corpo, le sue sembianze, il suo volto. Con la sua distruttività perentoria e senza appello, la soluzione a elimina qualsiasi possibilità di rappresentazione: è l’ultimo gesto antropo-poietico, anzi è l’azzeramento dell’antropo-poiesi, perché non lascia più traccia alcuna di umanità. Con la sua forte propensione conservativa, la soluzione e) è quasi «un tentativo di prolungare l’antropo-poiesi al di là della morte» (Remotti 2006: 12). La nobildonna cinese, sepolta nel 168 a.C. e riscoperta più di duemila anni dopo (con il suo corpo integro, gli orifizi corporei sigillati da pietre di giada, gli organi interni completi e intatti, dentro a una tomba profonda 20 metri, all’interno di quattro sarcofagi, con l’impermeabilizzazione del sepolcro garantita da diversi strati di carbone e di argilla), è la testimonianza di questa volontà di evitare tanto lo sfacelo della putrefazione, quanto la distruttività di certi interventi, e di approdare così alla fase della mineralizzazione facendo rimanere intatto il corpo, il volto, le sembianze umane: la morte ideale – come afferma Tiziana Lipiello (2006: 53) – è «una morte senza distruzione del corpo», facendolo diventare «imperituro e immortale». Del resto, anche per i miira del Giappone l’integrità del corpo dopo la morte era l’obiettivo da raggiungere. Si procedeva infatti alla scopertura della tomba del defunto dopo tre anni e se il corpo si rivelava integro, avendo superato indenne la fase della putrefazione, esso veniva affumicato, verniciato, laccato, ricoperto di foglie d’oro. Si procedeva così a un ulteriore perfezionamento del corpo: una sorta di “vittoria contro la morte”, come esito conclusivo di quel processo di “mortificazione” del corpo avviato mentre era ancora in vita. In fondo, è facile constatare – come già abbiamo fatto nel caso degli IEC per i viventi – due estremi: da un lato un atteggiamento per così dire molto “interventista” e dall’altro un atteggiamento che preferisce ridurre a poca cosa o quasi a nulla gli interventi estetici sul cadavere. Per esempio, tra i baNande del Nord Kivu ci si affretta a deporre nella tomba il corpo del defunto; allo stesso modo, la cremazione, quale viene praticata nelle società occidentali, si configura come una scelta che riduce di molto i margini degli interventi estetici e che, anzi, con la distruzione violenta del cadavere pone fine a ogni tipo di intervento estetico e a ogni finzione. Al contrario, l’inumazione nella nostra società (ma ancor più l’imbalsamazione e la mummificazione) sembra quasi ­­­­­141

voler protrarre la finzione che si mette in atto, allorché il cadavere viene rivestito, imbellettato, trattato “come se” l’individuo fosse ancora vivo. Con gli esempi sopra riportati è inevitabile concludere che la categoria XXI non soltanto è una supercategoria, la quale richiederebbe per ciò stesso di essere articolata e suddivisa, ma è anche una categoria estremamente complessa, in quanto i significati dei vari interventi si intrecciano talvolta in maniera inestricabile. Tenendo conto di questa complessità intrinseca, si può forse suggerire, a scopo euristico, la compresenza e spesso l’implicazione reciproca di tre dimensioni o criteri-guida degli interventi qui contenuti: la conservazione, la distruzione (totale o parziale), la trasformazione. XXII. Produzione e trattamento dei resti umani. Vi è un’ultima possibilità di interventi estetici post mortem, quella relativa ai “resti”, a “ciò che rimane” dopo la distruzione (naturale o culturalmente provocata) del cadavere (Remotti 1993). È vero che qui non siamo più in presenza del corpo, neanche del corpo morto: mentre il cadavere conserva, almeno entro certi limiti, le sembianze del corpo vivente, tra i resti e il corpo (vivo o morto) non c’è davvero più alcun legame di somiglianza morfologica, bensì soltanto di appartenenza. Tra il corpo e i resti si sono verificati infatti almeno due passaggi radicali: il venir meno delle funzioni vitali dall’organismo e la distruzione del cadavere. Il corpo non esiste, è irrimediabilmente scomparso; c’è dunque un’estrema lontananza tra il corpo e i suoi resti. I “resti” tuttavia sono pur sempre i resti di un corpo; sono “ciò che rimane” di un corpo dopo che non solo la vita l’ha abbandonato, ma dopo che anche la putrefazione (come processo naturale) o la distruzione (culturalmente progettata) l’hanno polverizzato. I resti, parti o frammenti di un corpo, sono “ciò che rimane” come sua traccia e testimonianza. I “resti” sono tali infatti non solo rispetto a un tutto, ma anche rispetto al tempo: parti di un insieme (“stanno per”) e frammenti che rimangono nel tempo: il loro valore proviene sia dalla loro capacità evocativa, sia dalla loro durata e inalterabilità. Si comprende allora come facilmente si propenda a conferire ai resti un elevato valore simbolico. In un testo classico Robert Hertz (1994) aveva fatto vedere come con i resti si proceda a una seconda e definitiva sepoltura e, a sua volta, ­­­­­142

Adriano Favole ha dimostrato nel suo libro (2003) come i resti si prestino a una serie molto ampia di usi e funzioni: da oggetti che sostengono una memoria individuale e collettiva a reliquie aventi significato religioso e politico, a beni fruibili sul piano artistico, scientifico e persino tecnologico. Le fasi su cui ora dobbiamo soffermarci, in quanto implicano tipi di interventi molto diversi, sono fondamentalmente due: quella della produzione dei resti e quella della loro utilizzazione. Nella ricerca a cui si è più volte fatto riferimento e da cui traiamo diversi spunti e idee, si è potuto constatare che – a parte i casi cinesi e giapponesi di conservazione pressoché integrale del corpo – «affinché un corpo possa “rimanere” in qualche modo, occorre il più delle volte rinunciare all’integrità e pagare il prezzo della frammentazione» (Remotti 2006: 20)6. Gli Aztechi, i quali avevano una concezione della morte come una «catena di processi di divisione», si comportavano essi stessi come infaticabili produttori di resti: i sacrifici umani – così caratteristici della cultura nahua – possono infatti essere interpretati come «una forma di separazione e distribuzione di potenze di entità animiche» che si trovavano in diverse parti del corpo dell’ucciso: i cuori estratti dalle vittime e conservati in appositi recipienti di pietra, i teschi collocati nelle rastrelliere, i femori incisi, decorati e trasformati in strumenti musicali (Guaraldo 2006: 138, 141; Remotti 2006: 20). Bronislaw Malinowski era rimasto quanto mento sconcertato di fronte alle operazioni di produzione e trattamento dei resti nelle isole Trobriand: «quello che rimane del defunto, il suo corpo» riesumato per ben due volte, viene «tagliato a pezzi», così da ricavarne delle reliquie che sono trattenute dalla moglie e dai suoi figli, mentre altre sono distribuite a parenti acquisiti e ad amici (Malinowski 2005: 144, 149). Unghie, denti, capelli diventeranno degli ornamenti, il cranio diventerà un recipiente a disposizione della vedova, mentre da radio, ulna, tibia si ricaveranno delle spatole per uso culinario. Ma questi usi non si riducono a uno strano e macabro utilitarismo: «la reliquia (kayvaluba)» – dicono infatti i Trobriandesi – «ci riporta indietro quello che non è più, e inte6   Sulla dialettica tra “scomparire” e “rimanere”, che così spesso ritorna in queste analisi, vorremmo rinviare a Remotti 1993: 76-89.

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nerisce il nostro cuore» (2005: 149). Del resto, qualcosa di simile succede in certi conventi di clausura cattolici, dove la produzione di reliquie dai resti corporei è caratterizzata da una «azione aggressiva molto forte», condizione per passare da scarti e rifiuti a «oggetti preziosi», che vengono ceduti, scambiati, donati, acquistati (Sbardella 2006: 175, 177). Non c’è dubbio che la categoria XXII – anch’essa in realtà una supercategoria – vede una accentuata volontà di intervento estetico, dato che i resti si prestano particolarmente bene a essere puliti, purificati, conservati in luoghi artisticamente appropriati (i templi della mascella del sovrano defunto nel regno del Buganda), esibiti come trofei (in molte parti dell’Indonesia e dell’Oceania), trattati come oggetti di culto (le reliquie dei santi nei paesi cattolici), trasformati essi stessi in opere d’arte (come i crani tempestati di pietre preziose delle civiltà meso-americane), utilizzati nell’ambito di esperienze estetiche (come le tibie dei morti usate come flauti nel Vaupes). Si può anche sostenere che con gli interventi della categoria XXII le società riescono a vincere il tempo e la morte, sottraendo al decadimento, alla corruzione e alla distruzione parti significative e “durature” di un corpo (e di un individuo) ormai scomparso; ma con la frantumazione definitiva di un essere vi è pure il riconoscimento di una fine irrimediabile. L’intervento estetico trionfa al di là della soglia della morte (in un certo senso, più forte della morte), ma su un corpo che non c’è più. Il corpo non c’è più, ma in compenso c’è qualcosa di duro, di stabile, che può sopportare e conservare le intenzionalità estetiche delle società umane. Sarà anche per questo che, come Gian Giuseppe Filippi ha dimostrato nel libro da cui ricaviamo le seguenti considerazioni, l’India tradizionale – al di là della produzione e distribuzione di reliquie del Buddha – sviluppa un pensiero cosmologico e metafisico che pone al proprio centro la nozione di resto. Le ceneri sono il “resto” del pasto del dio del fuoco, ma «l’intero universo [...] tutto è cenere» (Atharvaśira Upanishad, 7), e Sesa è il nome che viene dato a un residuo universale, la «cenere di tutti i mondi del passato, bruciati ed estinti» (Filippi 2006: 323). «Sul resto sono fondati il nome e la forma, sul resto si fonda il mondo [...] l’essere e il non-essere sono contenuti nel resto [...]. Dal resto sono nati tutti gli dèi»: così leggiamo nell’Avesta, che Filippi cita nel suo ­­­­­144

saggio per illustrare la «visione macrocosmica e universale dei resti e delle ceneri» nell’India tradizionale. Come essere più precisi? «L’essere e il non-essere sono contenuti nel resto». Vogliamo però concludere questo paragrafo con la constatazione secondo cui le società, anche prive di un pensiero metafisico così esplicito, non si limitano a valorizzare i resti dei “propri” morti. Già abbiamo accennato agli Aztechi, e così possiamo pure aggiungere i Tupinamba del Brasile del XVI secolo, che trasformavano le ossa dei nemici in strumenti musicali (Remotti 1996b: 85-86). Che dire allora della caccia alle teste tra le società del Sud-Est asiatico insulare in epoca precoloniale (prima cioè che diventasse una strategia di tipo terroristico), quando cioè essa si inseriva nelle pratiche di trasformazione del nemico in amico, in una logica di scambio e di interdipendenza (Scarduelli 2000: 171, 172-175)? Oltre a esibire le teste dei nemici come trofei ammirati e celebrati, fa riflettere l’uso – tra gli Asmat della Nuova Guinea – di conferire i nomi dei nemici uccisi e decapitati ai propri figli al momento dell’iniziazione, così come è significativo rilevare che i parenti delle vittime trattavano gli iniziati, i figli degli uccisori, come l’incarnazione dei loro parenti, chiamandoli con i nomi di questi, facendo loro doni, eseguendo canti e danze in loro onore (Harrison 2002: 215). Nemmeno gli europei si sono però dimostrati esenti da questa propensione a procurarsi “resti” di morti “altrui”. Nelle periferie dei loro imperi coloniali, si sono dati anche loro a una sorta di “caccia” di resti corporei – e soprattutto di teste – da portare nei musei di antropologia fisica e di etnografia, di storia naturale e di anatomia, profanando tombe e cimiteri nativi e perfino uccidendo individui. Adriano Favole ha paragonato questi raccoglitori “scientifici” di resti corporei ai contemporanei “cacciatori di teste” dell’Indonesia e dell’Oceania e ha messo in luce come gli europei, così facendo, abbiano trasformato «i cadaveri e i resti umani in residui organici da sottoporre ad analisi scientifiche» (Favole 2006: 153). Intendiamo concludere con questo esempio perché esso ci consente di porre in luce due aspetti: da un lato la violenza con cui ci si procura i resti “altrui”, strappandoli letteralmente alla loro «vita sociale» (Favole 2003), ai culti di cui potevano essere oggetto, ai significati che in ogni caso venivano loro conferiti e, dall’altro, la valorizzazione che si attribuiva loro. Beninteso, si tratta di una ben strana valorizzazione, ­­­­­145

fatta in nome di una scienza altrettanto strana, e a prezzo di una innegabile violenza culturale e anche fisica. E tuttavia, di valorizzazione si tratta. Violenza, per un verso; valorizzazione, per l’altro. Ma non sempre i resti umani vanno incontro a questo destino. XXIII. Dissoluzione. Vogliamo qui parlare di un ultimo gesto, quello che porta alla dissoluzione: il gesto o la serie di interventi che istituiscono la “fine”, il “nulla”, dove si dissolvono i corpi e spesso anche la loro memoria. Ci si può chiedere che cosa c’entri tutto ciò con la tipologia degli interventi estetici sui corpi. C’entra, perché sono interventi sui corpi, e sono estetici, in quanto sono la formazione (la poiesis) intenzionale del nulla, della negazione di qualsiasi forma umana, un farsi carico della nullificazione, dello scomparire totale e definitivo. Questo per quanto concerne la legittimità o, quanto meno, la plausibilità della nostra ultima categoria. Per quanto riguarda i suoi contenuti possono forse essere sollevate perplessità persino maggiori che per la sua istituzione. Vediamo allora di spiegarci. Nel programma di ricerca i cui risultati sono poi confluiti nel volume più volte citato (Remotti 2006), alcuni autori si erano occupati della dissoluzione dei cadaveri in contesti di violenza estrema. Studiando la violenza nell’America Latina, Silvia Giletti Benso ha richiamato la nostra attenzione sulle tecniche del fare scomparire, togliere dalla vista, dalla vita, dalle relazioni, ovvero sulla «trasformazione dei corpi in desaparecidos», e ha pure messo in luce come la tortura sia un «disfare umanità» (2006: 245-246), venendo così a confermare le conclusioni di Françoise Sironi (2001: 32), secondo la quale la tortura è quasi un disfare “puro”, «un disfare senza ricostruire, un separare senza riunire»: un disfare che apre le porte al nulla. Allo stesso modo, Luca Jourdan (2006) ha dimostrato come in Africa, in particolare nel Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo) dove aveva condotto le sue ricerche durante gli anni della guerra, si sia potuto assistere non solo alle uccisioni indiscriminate, ma anche all’immondo trattamento dei cadaveri, mutilati, spolpati, cannibalizzati, gettati nelle latrine, abbandonati e consegnati anch’essi al nulla. Sembrerà strano, molto discutibile e persino inaccettabile quello che ora si vuole proporre, ossia, rimanendo nella stessa categoria, provare a mantenere il concetto di “dissoluzione”, ma ­­­­­146

collocarlo in un’altra prospettiva o, se si vuole, provare a considerare un altro tipo di dissoluzione. Ancora una volta tiriamo in ballo la dialettica fra il “rimanere” e lo “scomparire”: in occasione della morte, le società hanno da decidere su “ciò che rimane” e su “ciò che scompare”, e queste decisioni, questi accordi o convenzioni, si risolvono spesso in dosaggi tra le due dimensioni che coinvolgono corpi, anime, oggetti materiali, relazioni, memoria (Remotti 1993: 76-89). Tutti gli interventi sui corpi morti esaminati prima (categorie XXI-XXII) possono essere intesi come trasformazioni, e le trasformazioni possono avere destinazioni ed esiti diversi: con le loro ultime operazioni di antropo-poiesi (o meglio di tanato-metamòrfosi) gli esseri umani si trasformano in spiriti o in reliquie, in antenati o in beni culturali (monumenti, utensili, strumenti musicali), in realtà naturali o in entità soprannaturali. In tutte queste trasformazioni la componente dello “scomparire” e quella del “rimanere” risultano entrambe necessarie e inevitabili, combinandosi tra loro con dosaggi variabili. Ma tra gli esiti possibili [di queste] trasformazioni [...] non dobbiamo dimenticare il “nulla”, un esito in cui lo “scomparire” sovrasta nettamente il “rimanere”. Non si tratta dell’annientamento disumanizzante dei massacri e degli episodi di violenza (a cui abbiamo alluso prima); si tratta infatti di una nullificazione voluta, culturalmente decisa: un modo di “disfare umanità” culturalmente condiviso e proprio per questo umanamente accettabile e accettato (Remotti 2006: 30).

Un tempo (prima della cristianizzazione) i baNande erano piuttosto inclini a pensare che, come il corpo morto si dissolve nel bananeto, così l’anima o spirito (o qualunque sia il termine che vogliamo usare per ekirimu) è destinata a perdersi in un nulla irraggiungibile dai vivi: e ciò coincide con il momento in cui non vi sarà più nessuno tra i vivi che serberà memoria del defunto. Adriano Favole ci ricorda che tra i Tasmaniani non c’erano tombe o luoghi dei morti: essi distruggevano i cadaveri con il fuoco e ne disperdevano le ceneri (Favole 2006: 160). C’è insomma un «diritto all’oblio» che i Tasmaniani riconoscevano e praticavano, e che invece gli europei calpestavano con la loro ossessione di esporre crani e scheletri di coloro che consideravano come gli esseri più primitivi. ­­­­­147

Allo stesso destino andò incontro l’ultima donna, Truganini, nonostante che, sette anni prima della morte, avesse esplicitamente chiesto al reverendo Atkinson che i resti del suo corpo venissero gettati nel punto più profondo del canale d’Entrecasteaux. Il suo scheletro fu esposto nel museo di Hobart Town [Tasmania] per oltre settant’anni. Nel 1976 i resti di Truganini sono stati restituiti, cremati e dispersi in mare. La volontà di oblio e di distacco dai corpi morti si è finalmente realizzata (2006: 160).

È ancora l’India però che ci parla in modo più esplicito e convinto della dissoluzione come l’esito finale, coincidente con il nirvana, «l’estinzione», e con il mukti, «la liberazione» (Filippi 2006: 320). In India, «la famiglia volutamente cancella il ricordo dell’individualità dei propri defunti una volta che siano morti da tre generazioni». È dunque un grave errore pensare agli interventi sui morti come necessariamente ispirati soltanto al “rimanere”, alla “memoria”, o addirittura – come vorrebbe Assmann (2002: 26) – all’immortalità. Non è vero che l’immortalità sia un bisogno o un desiderio universale. Anche lo “scomparire” può essere, e in effetti è, un’aspirazione umana, che trova soluzioni culturali e che richiede l’espressione di una grande pietas. È con pietas che Pierre Clastres ha ricostruito il significato dell’endo-cannibalismo di un gruppo di Aché del Paraguay: gli Aché Gatu mangiavano infatti tutti i loro morti, e Clastres intravede «un profondo significato religioso» in questo atto che «rappresenta l’estrema onoranza che i vivi riservano ai morti» (Clastres 1980: 233-234). Nel significato profondo che Clastres ci propone si intravede nitidamente il tema della dissoluzione. Il corpo viene smembrato e poi, una volta arrostito, viene interamente mangiato dal gruppo, affinché l’anima, che con la morte si stacca dal corpo, se ne vada via, per sempre. «Se mangiamo i morti, allora ianve non c’è più, ianve se ne va via svolazzando» (1980: 239). Ed ecco il commento di Clastres: «Quindi: il cannibalismo non è altro che una tecnica supplementare di difesa contro le anime dei morti. Per eliminare l’anima bisogna mangiare il corpo». Al contrario, se i corpi non vengono mangiati (eliminati, dissolti, fatti scomparire in noi), se vengono collocati sotto terra, «arrivano moltissime anime e vogliono trascinare gli Aché nel paese degli antenati». Nella concezione di ­­­­­148

questo gruppo di Aché, l’eliminazione del cadavere, trasformato in cibo, obbliga l’anima a riconoscersi per quello che è: un fantasma immateriale che non ha più ragione di restare tra i vivi. E infatti viene portata via dal fumo che, sprigionandosi dalle ceneri del cranio orientato verso ovest, si innalza nel cielo, dirigendosi verso il mondo che sta in alto: Foresta invisibile, Grande Savana, paese dei morti (1980: 242).

Concludiamo la descrizione di questo rito “dissolutivo” degli Aché Gatu con la prospettiva del morente, il quale – estremo atto di pietas rivolto verso coloro che gli sopravvivono – «nel suo ultimo dialogo con i compagni, insiste per essere mangiato» (1980: 242). La sua preoccupazione è che l’anima staccata da lui non penetri nel corpo dei vivi. Con la sua dissoluzione si assicura così che la sua morte non provochi alcun danno al gruppo, e se vi è qualcuno a cui è legato da un affetto più profondo, sarà lui soprattutto che vorrà difendere: «perciò, gli ricorda che dovrà mangiarlo» (1980: 243). Clastres riporta le ultime parole di Prembegi, una donna con due mariti, il secondo dei quali «amava moltissimo»: Quando gli Aché si resero conto che la malattia del miele stava uccidendo Prembegi, le chiesero: “Ci manderai il baivwä [malattia che conduce alla morte]?” “Niente baivwä! Mangiatemi completamente!” Poi chiamò suo marito Pyteragi, già in lacrime, e gli fece l’ultima raccomandazione: “Non voglio che il baivwä ti faccia ammalare e poi ti uccida. Mangiami! Facendo così non ti ammalerai e ianve non riuscirà ad entrare”. Lui seguì il consiglio e non si ammalò. Ultima prova d’amore della moglie per il suo sposo, ultimo atto d’amore del marito per sua moglie (1980: 243).

Nella categoria della “Dissoluzione” facciamo dunque coesistere due forme opposte, ed è questa coabitazione che senza dubbio suscita perplessità e sconcerto. È però importante, e significativo sotto il profilo antropo-poietico, rendersi conto che “dissolvere” cadaveri, memorie, spiriti, anime non è soltanto l’esito di una violenza estrema e “anti-poietica”, che con la vita intende distruggere anche segni e forme di umanità: un disfare ciò che è stato umano. È importante non abbandonare del tutto questa categoria alla dissoluzione disumanizzante, rivendicando un’altra ­­­­­149

forma di dissoluzione, la quale, pur essendo anch’essa un “disfare ciò che è stato umano”, si configura come una dissoluzione umanizzante, un ultimo gesto antropo-poietico. “Dissolvere” infatti può anche essere l’esito di una violenza interamente posta al servizio di una cultura che fa del riconoscimento del nulla e dello “scomparire” il tema finale della sua antropo-poiesi: un tema coltivato con pietas e con senso profondo di umanità. Si tratta infatti di un ultimo, possibile intervento estetico, quello che sfuma nel silenzio e nell’oblio perenne. Un esempio musicale di questo atto estremo e sublime di dissoluzione è rintracciabile nelle battute finali di Das Lied von der Erde (“Il canto della terra”) di Gustav Mahler, con le parole del mezzo-soprano che vengono «per sempre» (Ewig... Ewig...) inghiottite dal nulla.

Parte terza

Le tragedie delle certezze e il respiro del dubbio

V

Furori antropo-poietici

1. Sul furore Nell’antropologia italiana la nozione di furore rinvia a Ernesto De Martino, il quale descrisse i cinquemila giovani che la notte di capodanno del 1956 misero a soqquadro il centro di Stoccolma come «adolescenti in furore» (De Martino 2002: 167). Che cosa fecero questi giovani? Rovesciarono automobili, frantumarono le vetrine dei negozi, svelsero inferriate e montanti per erigere barricate, profanarono le pietre tombali di una chiesa, lanciarono sacchetti di carta imbevuti di benzina. A quanto pare, non fu un episodio solitario: ogni sabato sera queste scene tendevano a ripetersi a Stoccolma e in altre città della Svezia. «Come per un richiamo misterioso», gruppi di giovani si riunivano «senza conoscersi fra di loro e nulla avendo in comune tranne l’età»: essi formavano bande temporanee che, come si formavano, così si scioglievano «senza lasciare traccia di rapporti oltre la carica distruttiva» (2002: 168). Apparentemente inesplicabile, il «furore distruttivo» di questi adolescenti viene ricondotto da De Martino a ciò che egli definisce la «nostalgia del non-umano», un «impulso a lasciar spegnere il lume della coscienza vigilante e ad annientare quanto, nell’uomo e intorno all’uomo, testimonia a favore della umanità e della storia», qualcosa di assimilabile all’«istinto di morte» teorizzato da Sigmund Freud dopo la prima guerra mondiale (De Martino 2002: 169). Tutte le società – sostiene De Martino – hanno da fronteggiare e da sottoporre a «controllo» e «risoluzione» questa «nostalgia del nulla». E così, con riferimenti alle feste del capodanno babilonese, ai saturnali romani, ai rituali di vendetta in occasione di certi funerali, ai riti di iniziazione di molte società che egli definisce ­­­­­152

“arcaiche”, De Martino fa vedere come altrove e in altri tempi le società abbiano «a loro modo» affrontato «un problema di fondo che appartiene alla condizione umana», quello cioè di elaborare «sistemi tecnici per evocare e al tempo stesso dare orizzonte culturale al furore antisociale e antiumano» (2002: 171-172). Nel mondo moderno, in particolare, questa forza «dilaga» senza trovare «adeguati modelli di risoluzione culturale» che la disciplinino e la incanalino in «un alveo di deflusso e di arginamento socialmente accettabile e moralmente conciliabile» con i valori storicamente conquistati dall’Occidente (2002: 173). Il Terzo Reich – con il suo neopaganesimo razzista, lo sterminio degli Ebrei, le camere a gas, i raduni di Norimberga, la morte di Hitler tra le rovine del palazzo della Cancelleria – è il segnale che «qualcosa comincia nel mondo moderno a somigliare al furore cannibalico degli iniziati kwakiutl». Ma, mentre tra i Kwakiutl (indiani della costa americana di nord-ovest) esiste una Casa delle Cerimonie, in cui l’aggressività dei giovani, che talvolta giungono fino al punto di mordere le persone che incontrano, si modella e risolve, nella modernità «le nostre istituzioni sociali si mostrano impreparate a fondare una umanità più adulta e responsabile». Da questa sintetica ricostruzione del tema demartiniano del furore vorremmo trattenere un elemento, che è quello che affiora nelle ultime parole citate: il compito cioè di “fondare una umanità”, un compito che – come abbiamo visto – riguarda non soltanto le società moderne, ma ogni tipo di società. Per De Martino le società moderne si rivelano alquanto impreparate a questo compito, e probabilmente il tema dell’impreparazione al compito antropo-poietico è qualcosa da non tralasciare. Se modernità significa infatti cambiamento, e cambiamento radicale, viene logico pensare che tutto ciò comporti delle difficoltà sul piano di una programmazione antropo-poietica: difficoltà di mezzi (di tecniche, di espedienti, di istituzioni) e difficoltà di obiettivi (quali modelli di umanità perseguire?). In altri testi, abbiamo avanzato l’ipotesi che la modernità abbia decisamente sottovalutato l’impegno antropopoietico, sicura – come spesso ha pensato di poter essere – che non c’è bisogno di arrovellarsi troppo sul tipo di umanità che si vuole realizzare (Remotti 2000; 2008). La grande polemica che la modernità ha sviluppato sui rituali antropo-poietici tipici delle cosiddette società tradizionali, il loro rifiuto e la loro condanna, ­­­­­153

insieme alla netta svalutazione e ridicolizzazione degli interventi estetici sul corpo praticati da altre società, sono stati ispirati dai suoi presupposti di fondo: a) l’esistenza di una natura umana stabile, universale, riconoscibile al di sotto della coltre dei costumi che in tutte le società pre-moderne la ricoprono; b) se proprio si deve parlare di antropo-poiesi, come la “nostra” religione ci ha insegnato, questo è un compito già risolto: è Dio che foggia l’uomo e che determina la natura umana; c) se non c’è un Dio che risolve con il suo potere infinito i nostri problemi antropo-poietici e se anche la natura umana si rivela un principio assai meno certo e stabile, la modernità occidentale ha fatto intervenire un altro fattore, quasi altrettanto decisivo e potente: la storia, la storia del genere umano, una storia universale che, con la modernità, riesce a unificare, in un unico grande fiume, portatore e realizzatore dell’umanità più compiuta e più autentica, le molteplici diramazioni e deviazioni in cui, nelle epoche precedenti, si era suddivisa. Quelle elencate ai punti precedenti sono ovviamente opzioni diverse. Tutte però condividono una certezza: quella che ormai è “venuto il tempo” – grazie a Dio o grazie agli uomini – di non doversi più scervellare su come gli uomini debbano essere fatti. Gli “altri” brancolano nel buio e in mezzo ai loro dubbi antropopoietici (come vedremo soprattutto nel capitolo VI); “noi” invece sappiamo come l’uomo è fatto o come si debba fare: se non ce l’ha insegnato Dio, e se non è già iscritto nella natura umana, è la storia che si è tramutata miracolosamente in magistra humanitatis. La modernità, dunque, sembra avere le sue certezze antropopoietiche. Ma neanche la modernità se ne sta con le mani in mano. A proposito di antropo-poiesi, un conto sono i modelli e un altro conto sono le realizzazioni: le certezze riguardano i modelli, così come riguardano le modalità e i tempi di realizzazione. Quando poi si tratta di realizzare quei modelli, occorre che anche la modernità sfoderi impegno, forza, potere. Le certezze antropo-poietiche non inducono affatto un atteggiamento di tollerante attesa: è tipico della modernità – è anzi il suo vessillo rispetto alle società tradizionali – un atteggiamento particolarmente attivo, fattivo, rea­lizzatore, conquistatore, rivoluzionario tanto presso di sé quanto presso gli altri. Se si ritiene di poter disporre di un modello ­­­­­154

di umanità non solo valido, ma avente un valore universale – in quanto coincidente con i dettami della natura umana, della storia, di Dio o anche di tutte queste cose insieme –, non c’è tempo da perdere: ci si rimbocca le maniche e si fa, si costruisce. Non ci si attarda a sentire il parere altrui, non ci si perde in discorsi vani e in confronti inutili. La certezza antropo-poietica imprime forza al braccio che deve realizzare i suoi contenuti e giustifica il vigore con cui si agisce. Se vi è certezza per un compito così elevato, gli ostacoli vanno affrontati con decisione e persino irruenza. Tutte le dilazioni sono ingiustificate e i motivi dei ritardi vanno rimossi con determinazione. Il furore è qua, ovvero nella determinazione con cui coloro che si arrogano il potere e la responsabilità storica e politica della realizzazione antropo-poietica rimuovono gli ostacoli e i motivi delle dilazioni. A differenza di De Martino, il quale concepiva il furore come un impulso distruttivo che «appartiene alla condizione umana» (De Martino 2002: 172) in quanto non sufficientemente controllata dalla cultura, noi utilizziamo questo termine per descrivere il comportamento di coloro che, presumendo di detenere certezze antropo-poietiche, realizzano i loro modelli con la massima determinazione possibile. Se così stanno le cose, l’impreparazione di cui parla De Martino, quella cioè relativa al tema di “fondare l’umanità”, può forse essere concepita in due maniere diverse: a) impreparazione derivante dalla sottovalutazione del compito antropo-poietico (un progetto inutile, in quanto l’umanità è già fatta o il suo modello è già dato) e b) impreparazione rispetto a un programma antropo-poietico dagli obiettivi eccessivamente elevati, fuori dalla portata degli esseri umani (un’umanità di ordine universale, per sempre e per tutti). Come è noto, fin dall’antichità è stato teorizzato un furor poeticus, qualcosa che riguarda l’ispirazione del poeta, una sorta di invasamento, di mania, di possessione (Tigerstedt 1970). In questo capitolo – ricalcando l’espressione di prima – parleremo invece da un lato di “furore antropo-poietico”, quando vedremo l’eccesso di determinazione nelle costruzioni degli esseri umani, e, dall’altro lato, di “furore anti/antropo-poietico”, quando vedremo la stessa determinazione nel lavoro di distruzione di quanto altri – probabilmente con minori mezzi (con minori “arti”) e con obiettivi più modesti – hanno tentato di realizzare nel campo dell’antropo-poiesi, in ­­­­­155

quello che con Seneca potremmo chiamare “coltivazione della propria umanità”1. C’è un punto delle osservazioni di De Martino che non possiamo tuttavia tralasciare, là dove egli, dopo avere evocato il Terzo Reich, sostiene che «qualcosa comincia nel mondo moderno a somigliare al furore cannibalico degli iniziati kwakiutl», quasi che il furore cannibalico di questi indiani della costa americana di nord-ovest potesse essere concepito come una sorta di prototipo per altre culture e per epoche successive e quasi che la modernità fosse di per sé esente dalle esplosioni di furore (a cui noi qui aggiungiamo l’aggettivo “antropo-poietico”). Questa propensione a considerare il nazismo come una mera interruzione della civiltà moderna, come una parentesi in cui riemergono “furori” da primitivi, barbari e selvaggi, richiama quanto Norbert Elias scriveva nel suo Über den Prozess der Zivilisation del 1939, là dove concepiva la civiltà moderna come un processo di progressivo controllo della violenza e delle pulsioni irrazionali degli uomini e là dove agli atteggiamenti pacifici degli europei civilizzati opponeva l’aggressività e il «furore» bellico del «combattente abissino» (Elias 1988: 340). Su questo «passo stupefacente» ha soffermato di recente la propria attenzione Enzo Traverso, facendo notare che il testo di Elias era stato pubblicato ad appena tre anni di distanza dalla guerra condotta dall’esercito italiano in Etiopia, durante la quale – oltre all’uso di armi chimiche – soldati italiani “civilizzati” non esitavano a esibire «come trofei di guerra le teste tagliate dei capi delle tribù “selvagge”» (Traverso 2012: 147). Insomma, il furore bellico apparterrebbe agli “altri” (primitivi o barbari che siano) e se esso affiora nella modernità, ciò sarebbe dovuto soltanto a un qualche cedimento della coscienza, crisi o spiraglio attraverso cui si infiltrerebbe una barbarie a noi estranea. Per Elias, come 1   Nel De ira (III, 43, 5) Seneca afferma: «Iam istum spiritum expuemus. Interim, dum trahimus, dum inter homines sumus, colamus humanitatem». In una traduzione italiana piuttosto recente, a cura di Costantino Ricci, troviamo: «Ben presto esaleremo quest’anima. Intanto, finché respiriamo e siamo tra gli uomini, mostriamoci umani» (Seneca 1998: 247). Peccato che venga così del tutto perduto il significato particolarmente pregnante di colamus humanitatem: prova forse di una certa refrattarietà, tipicamente moderna, nei confronti dell’antropopoiesi? Martha Nussbaum ha invece valorizzato l’espressione di Seneca, tanto da incastonarla nel titolo di un suo libro (Nussbaum 1999).

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per De Martino e per Benedetto Croce, «è dall’alterità che proviene il male, non dall’interno della modernità» (Remotti 2009: 252). A questo proposito, Enzo Traverso fa notare come tutta una cultura (da Gaetano Salvemini a Benedetto Croce, da Friedrich Meinecke a Thomas Mann, da György Lukács a Karl Löwith) abbia concepito il fascismo e il nazismo come qualcosa di alieno ed eterogeneo rispetto alla nostra civiltà, essendo pochi coloro che «riuscirono a interpretarlo come un prodotto della stessa civiltà moderna» (Traverso 2012: 147). Un po’ come dire: “noi” non siamo fatti così e le terribili esperienze del nazismo hanno le loro radici nella “barbarie” e nella “primitività” degli “altri”, rispetto a cui ci siamo storicamente evoluti, da cui abbiamo preso nettamente le distanze, contro cui ci siamo formati, fino a dare luogo a una “nuova” e inedita forma di umanità. Il nazismo non sarebbe dovuto ad altro che a un cedimento momentaneo delle difese che la civiltà moderna oppone normalmente all’alterità. In questo capitolo, nel quale affronteremo i furori antropopoietici della modernità, partiremo dal presupposto contrario, quale abbiamo già illustrato nel 1990 in Noi, primitivi (Remotti 2009: cap. I), ovvero il nesso profondo tra nazismo e modernità, su cui del resto Zygmunt Bauman nel 1989 aveva scritto pagine molto significative (Bauman 2010). Ma se in Noi, primitivi avevamo visto nel nazismo soprattutto ciò che ora chiamiamo il furore anti/antropo-poietico, ovvero, attraverso il suo sistema concentrazionario, l’esasperazione della tendenza tipicamente moderna all’«azzeramento» e anzi allo «sradicamento dei costumi» (Remotti 2009: 253), qui ora collocheremo il nazismo in quella esplosione di grandiosi e inediti progetti antropo-poietici che, spesso in conflitto tra loro, contraddistinguono, in modo altrettanto significativo, la modernità. Che ne è allora dei Kwakiutl e dei loro furori antropo-poietici, a cui De Martino aveva accennato? È utile soffermarci un poco su questi indiani della costa di nord-ovest al fine di porre ulteriormente a fuoco il concetto di furore applicato all’antropo-poiesi: con una tipologia di furori sia pure grossolana e improvvisata saremo forse in grado di affrontare con maggiore precisione i furori antropo-poietici della modernità. Tra i Kwakiutl il «furore estatico», ovvero la «sacra follia» (come la chiamava Franz Boas), è dell’hamatsa, il giovane iniziato che, dopo avere trascorso tre o ­­­­­157

quattro mesi in foresta, viene alla fine costretto a fare ritorno nel villaggio (Comba 1992: 45, 39). C’è violenza, c’è furore, c’è follia nel suo comportamento: a stento trattenuto, egli si dimena, corre, aggredisce gli astanti e soprattutto rivela un atteggiamento cannibalico. Secondo alcune testimonianze raccolte da Boas, l’hamatsa si metterà a divorare il cadavere di uno schiavo ucciso a questo scopo, così come cercherà di mordere qualcuno al suo ritorno nel villaggio (1992: 43, 47). Come avevamo anticipato leggendo le osservazioni di De Martino, il rituale procede ottenendo un definitivo acquietamento dell’hamatsa. Ma ciò che viene acquietato è davvero un impulso che – secondo l’interpretazione di De Martino – attiene alla condizione umana e che ogni cultura si pone il compito di porre sotto controllo e se del caso di sublimare? Tanto per cominciare, non tutti i giovani kwakiutl vengono sottoposti al rito che abbiamo descritto; ma, soprattutto, l’accurata ricostruzione di Comba ci pone di fronte a una situazione certo inaspettata per l’interpretazione di De Martino. Molti aspetti ed elementi inducono infatti a pensare che l’hamatsa è il protagonista di una vera e propria messinscena, di uno spettacolo fortemente drammatico, il cui oggetto è la rappresentazione pubblica e collettiva – sulla piazza del villaggio – di ciò che si verifica quando un individuo lascia il mondo umano, quello appunto del villaggio o della comunità, per inoltrarsi nei territori della foresta, quando supera cioè i confini tra umano e inumano, quando – come appunto succede all’hamatsa, rapito dagli spiriti della foresta – è costretto a sperimentare quelli che sono gli «estremi limiti del mondo concepibili dai Kwakiutl» (1992: 68). La differenza tra l’interpretazione di De Martino e quella di Comba è notevole. Per De Martino vi è “per natura” un impulso distruttivo, il quale può assumere forme cannibaliche, in ogni essere umano, e i rituali tipici delle società che egli chiamava arcaiche avrebbero la funzione di porre sotto controllo tale impulso. Per Comba il “furore” non appartiene alla natura umana, ovvero non nasce da questo impulso, che il rituale avrebbe lo scopo di acquietare: al contrario, il furore fa parte del rito, in quanto oggetto di un dramma rituale che ha per tema la rappresentazione di ciò che succede quando si esce dalla condizione propriamente umana, qui rappresentata dalla comunità del villaggio. Insomma, sembra che il messaggio che ci proviene dai lontani Kwakiutl sia il ­­­­­158

seguente: non si è cannibali per natura; lo si diventa invece allorché si abbandona la socialità umana. Potremmo dire quindi che il furore kwakiutl è un impasto di follia, di esaltazione estatica, di comportamento asociale e inumano, e tuttavia potremmo anche aggiungere che siamo di fronte a una pedagogia del furore: l’hamatsa acquietato viene rivestito degli ornamenti della Società del Cannibale e il suo danzare finalmente quieto è la dimostrazione che egli viene ormai riconosciuto come appartenente a pieno titolo alla gerarchia cerimoniale (1992: 46). Non solo, ma questa pedagogia del furore fa parte di una vera e propria «costruzione culturale dell’uomo», ossia di un programma antropo-poietico, nel quale è parte essenziale lo sperimentare e, nello stesso tempo, rappresentare ciò che è culturalmente considerato estraneo alla condizione umana (1992: 296)2. Del resto, sono numerosissimi i rituali antropo-poietici che effettivamente prevedono e, per così dire, mettono in programma il “furore” disumano e antisociale. Nel volume Forme di umanità avevamo visto, per esempio, come tra i Samburu del Kenya i moran – cioè i giovani circoncisi – permangano a lungo (circa quattordici anni) in una condizione di marginalità: essi vivono infatti lontano dai villaggi, a contatto diretto della boscaglia, in una condizione per cui essi stessi «si considerano simili agli animali», e vengono in effetti visti dagli abitanti del villaggio come «selvaggi, a-sociali e pericolosi» (Nazionale 2002: 82-83). Anche qui, il loro “furore” – il loro «comportamento turbolento e impetuoso», per cui «combattono l’uno contro l’altro», la loro impulsività, la loro violenza, la loro irresponsabilità, il loro scarso controllo emotivo, i loro «violenti attacchi di “tremiti” e di “scuotimenti”, in cui perdono il controllo di se stessi» (2002: 83-84) – non è dovuto ai loro istinti: è invece oggetto di una prevista e prolungata esperienza di «sospensione» di umanità. Nello stesso volume, la descrizione dei naro, cioè dei giovani che tra i Bijagó della Guinea Bissau si trovano in un grado d’età che precede l’iniziazione vera e propria, conferma le caratteristiche di ciò che abbiamo chiamato “pedago2   In una nota Enrico Comba avverte il lettore di avere desunto l’espressione “costruzione culturale dell’uomo” dai nostri colloqui durante la preparazione del suo testo. In effetti, quelli erano gli anni in cui si cominciava a elaborare la teoria dell’antropo-poiesi.

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gia del furore”. L’espressione eraké ya naro, «il teatro dei naro», indica «l’attività performativa» dei naro, ossia il loro mettere in scena «sulla piazza principale del villaggio, uomini, tori, natura, società, foresta, potenza sessuale, animalità, forza, controllo sociale» (Pussetti e Bordonaro 2002: 115). La loro identificazione con il toro selvaggio – da cui emergono «selvatichezza, forza, aggressività e potenza sessuale» – prevede anche una messa in discussione dell’autorità degli anziani e persino una fuga verso la capitale «al fine di sottrarsi ai modelli di vita tradizionali» (2002: 116). Anche qui, occorre rendersi conto che il furore dei naro è previsto e programmato. Essi si rifiutano, per esempio, di aiutare i padri nei lavori dei campi e non partecipano al sostentamento della famiglia: «ma tutto ciò rientra nelle aspettative che la comunità ha nei loro confronti: li si incoraggia a essere ribelli, arroganti, coraggiosi, seducenti, abili danzatori e musicisti». Ribellione e rappresentazione teatrale: i naro mettono in scena il loro «furore», che nasce dalla loro voluta «estraneità al contesto sociale umano» (2002: 117). Leggiamo cosa scrivono Chiara Pussetti e Lorenzo Bordonaro: In una prospettiva teatrale e performativa il rendersi selvaggio del karo [sing. di naro] è, più che un effettivo abbandono delle norme etiche e politiche, una “rappresentazione” del loro sovvertimento, o meglio della situazione nella quale si troverebbero gli esseri umani al di fuori del contesto sociale (2002: 117).

La prospettiva teatrale tuttavia non appartiene soltanto agli antropologi e ai loro sforzi di interpretazione; è propria anche, e in primo luogo, dei Bijagó. Durante l’eraké, la rappresentazione sulla piazza del villaggio, un domatore tenta invano di placare il «furore» del karo, invano perché il karo, destinato a passare un periodo in foresta, appartiene ormai al mondo selvatico e con le sue corna di legno minaccia la gente che assiste alla sua furia: «ma tutto ciò – dicono i Bijagó – non è che un “teatro”: il teatro del karo», un dramma in cui «un uomo rappresenta il non-umano utilizzando la metafora del toro» (2002: 117). La rappresentazione è ovviamente destinata a finire; ma in una prospettiva antropopoietica è tutt’altro che da sottovalutare questa sorta di pedagogia del furore, cioè uno sperimentare drammaticamente ciò che può ­­­­­160

essere disumano. Molti rituali antropo-poietici mettono in scena la disumanità, in quanto per molte culture si diventa uomini capendo e rappresentando la disumanità. Proprio così queste stesse culture ci propongono allora un altro tema, ossia il carattere essenziale della rappresentazione nei processi (e nei rituali) antropo-poietici: si diventa esseri umani – secondo l’immagine di umanità che intendiamo coltivare – con i mezzi della rappresentazione. Il “fare” umanità è propriamente un “rappresentare”: come già abbiamo anticipato nel capitolo II, l’antropo-poiesi è “finzione” (con tutta la gamma di significati che questo termine si porta dietro). 2. Sradicare e sopprimere Il pensiero che consapevolmente si è posto alle origini di ciò che noi chiamiamo “modernità”, e più in particolare modernità “europea” o “occidentale”, ha manifestato fin da subito una profonda allergia per “finzioni” e “rappresentazioni teatrali” soprattutto in campo antropo-poietico, ovvero per forme di umanità dominate da costumi e tradizioni. Il filosofo inglese Francis Bacon (1561-1626) – da molti considerato uno dei maggiori ispiratori del pensiero moderno – esprime infatti una chiara consapevolezza di appartenere a un tempo “nuovo”, che si situa alle soglie di una grande e innovativa epoca dell’umanità. Nel Novum Organum del 1620 egli afferma con convinzione che, nella lunga storia del genere umano, sono stati pochissimi i periodi in cui gli uomini si siano effettivamente dedicati allo sviluppo del sapere scientifico e quindi al progresso delle loro condizioni. Al di fuori di questi periodi, quasi picchi solitari, c’è soltanto desolazione, «regioni deserte e solitudine» (Bacone 1968: 52). Ma quali sono questi periodi? Si possono elencare solo tre periodi o ritorni [revolutiones] nell’evoluzione del sapere: uno presso i Greci, uno presso i Romani, e l’ultimo presso di noi, popoli dell’Occidente d’Europa [apud nos, Occidentales scilicet Europae nationes] (1968: 52).

Come si vede, c’è una delimitazione geografica, che è anche una caratterizzazione storica e culturale: “noi, europei” o “noi, ­­­­­161

occidentali” viviamo in una nuova epoca, la quale è pronta per consentire «l’ingresso nel regno dell’uomo» (aditus ad Regnum Hominis), da Bacon esplicitamente assimilato all’«ingresso nel regno dei cieli» (1968: 42). Per entrare nel regno dei cieli occorre essere “puri” come bambini; allo stesso modo, l’ingresso nel regno dell’uomo richiede un atto di purificazione: È tempo ora di fare il solenne e costante proponimento di rinnegare e spazzar via tutti questi idoli, dai quali l’intelletto deve essere completamente liberato e purificato (1968: 42).

Rinnegare, sradicare, spazzar via: per entrare finalmente nel regno dell’uomo, per intraprendere ciò che Bacon (1968: 4) definisce l’«unica via di salvezza» (unica salus, ac sanitas), occorre provvedere a una distruzione degli “idoli”. “Noi, occidentali” – unici tra gli uomini del presente e del passato – abbiamo la possibilità di accedere finalmente, su questa terra, al regno dell’uomo. Ma per riuscire in questa impresa del tutto inedita nella storia dell’umanità è necessario procedere a un’opera di demolizione e di sradicamento degli «idoli della mente umana», i quali «hanno invaso l’intelletto umano gettandovi radici profonde» (1968: 16, 19). Data la loro subdola tenacia, questo lavoro di distruzione non si risolve in un unico momento, ma richiede una “guerra” costante, continua e consapevole. Cosa sono questi idoli della mente? Non è da sottovalutare la terminologia religiosa usata da Bacon: idolum è da intendersi come un’immagine fallace, verso cui gli esseri umani manifestano un atteggiamento di culto e di venerazione. C’è insomma una vera e propria “idolatria” nei costumi delle società umane, di cui occorre liberarsi per accedere alla “salvezza”: gli idoli vanno completamente distrutti. Bacon pone una netta distinzione tra ciò che egli chiama humanae mentis Idola e le divinae mentis Ideae (1968: 16): queste ultime sono «le tracce veraci che sono state da Dio impresse nelle cose create», mentre gli idoli (idola) non sono altro che «opinioni» e «convenzioni», le quali, senza fondamento di verità, assediano e occupano la mente umana (1968: 16-17). Come è noto, Bacon elenca quattro tipi di idola a seconda che derivino dalla conformazione dell’essere umano e dalla sua tendenza a deformare i dati dell’esperienza (idola tribus), dalla soggettività individuale (idola specus), dal linguaggio ­­­­­162

e dalla vita sociale (idola fori), dalle tradizioni e dalle opinioni che si cerca di far valere sulla scena pubblica (idola theatri) (1968: 19-22). Qualunque sia la loro origine, questi idola si frappongono tra l’intelletto umano e la realtà, creando uno schermo che impedisce di cogliere le idee veraci, cioè quei “segni” che invece Dio ha impresso nelle cose. Il Novum Organum si propone di scalzare questo schermo, consentendo così all’intelletto di avere un contatto diretto con le cose, di divenire «la copia fedele della realtà», lo specchio della natura: solo aderendo direttamente alla realtà naturale, facendo proprie le sue leggi, l’intelletto umano potrà costruire «l’impero dell’uomo nel mondo» e «trionfare sulla natura» (1968: 91, 102, 7). Bacon non è l’unico a svalutare del tutto il sapere sociale, ovvero le idee (da lui considerate meri idola) che si vengono a formare nella società. All’inizio della modernità – come si è già avuto modo di argomentare altrove (Remotti 1995) – incontriamo in Francia René Descartes (1596-1650), il quale propone in modo analogo una “via della salvezza”, un “metodo”, grazie al quale si attraversa la folta selva dei costumi per accedere all’io, al nucleo della natura umana, dove funzionano le leggi universali del pensiero. A differenza di Bacon, il quale cerca di porre l’intelletto a contatto diretto con la natura esterna, Descartes si impegna a far emergere lo strato roccioso della natura umana. Ma sono almeno due gli elementi che accomunano la visione di Bacon e quella di Descartes: ovvero, da un lato la considerazione dei costumi come uno schermo che occorre distruggere o di cui occorre comunque liberarsi, e dall’altro la presunzione che così facendo si raggiunga un terreno solido su cui è possibile costruire in maniera duratura e definitiva. Significativamente, anche in Descartes la società è concepita come un teatro in cui si rappresentano commedie, rispetto alle quali egli vuole essere spettatore piuttosto che attore (Descartes 1954: 77), e pure in Descartes si assiste all’idea che, liberandosi dai costumi, si possa accedere a un’epoca nuova, l’epoca delle costruzioni razionali e salde. Nel Discours de la méthode del 1637 vi è infatti un’immagine che avrà molto successo nel pensiero della modernità. Il sapere tradizionale, fatto di opinioni, convenzioni e costumi, è paragonato alle antiche città che si sono ingrandite nel tempo in maniera disordinata e i cui edifici sono ora traballanti e ­­­­­163

fatiscenti (1954: 48-49). In opposizione a ciò, Descartes immagina un ingegnere che, trovando davanti a sé spazi liberi (le vecchie case non esistono più), disponga della libertà di progettare secondo criteri puramente razionali. Le nuove città di Descartes, coincidenti con il pensiero che ha saputo liberarsi dai costumi, hanno le stesse caratteristiche del regno dell’uomo di Bacon, nel senso che il “nuovo” di cui questi filosofi parlano non è nuovo soltanto rispetto a un passato recente o al passato della propria società; non è un nuovo relativo, ma assoluto, non quantitativo, ma qualitativo: è un “nuovo” definitivo e universale, un nuovo che è tale rispetto a ogni passato e rispetto all’umanità intera. La battaglia contro i costumi non si riduce quindi a essere la battaglia contro questo o quel costume, ma è la battaglia contro “i” costumi; e l’esito di questa battaglia non è l’introduzione di nuovi e altri costumi, convenzionali e arbitrari come i primi, ma l’ingresso in una condizione in cui domina definitivamente un sapere certo, in quanto aderente alla natura e alle sue leggi universali. È quindi una battaglia che si conduce certamente in Europa, nei luoghi e nei tempi della civiltà moderna, ma è una battaglia che in definitiva riguarda tutte le società. Bacon è molto chiaro su questi punti. La via della salvezza che egli propone non è «stata ancora percorsa dagli uomini»; è però «la vera via», su cui tutti dovranno dunque prima o poi incamminarsi (Bacone 1968: 15). Proprio perché “noi, europei” abbiamo trovato il metodo, la via che ci consente di accedere – per la prima volta nella storia – al regno dell’uomo, ci troviamo in una condizione di indiscutibile superiorità rispetto alle altre “nazioni”, verso le quali abbiamo il diritto-dovere di indicare, insegnare o imporre la forma più autentica della vera umanità. Proviamo a leggere questo brano di Bacon: Si consideri [...] quanta differenza passa tra il modo di vivere in una regione civilissima [excultissima] dell’Europa e in una regione ferocissima e barbara della Nuova India; e si vedrà che quest’ultima contrada è tanto inferiore alla prima, che si può dire con ragione che l’uomo è Dio all’uomo, non solo per l’aiuto e il beneficio che può dare all’altro uomo, ma anche per la disparità di condizione. E questa disparità da che proviene? Non dal terreno, né dal clima, né dalla costituzione fisica, ma dalla superiorità delle arti (1968: 101). ­­­­­164

Come si vede, non c’è razzismo in queste parole (l’autore nega anzi esplicitamente che la disparità sia dovuta alla costituzione fisica); ciò che fa differenza e determina disparità sono invece le “arti” (artes) con cui “noi”, a differenza degli altri, siamo in grado di dominare la natura, il mondo. Ormai sappiamo che le arti più produttive si formano per Bacon attraverso lo sradicamento degli idola, il superamento dei costumi: “noi” siamo superiori agli Amerindiani non perché abbiamo dei costumi migliori, ma perché siamo riusciti a costruire una umanità “liberata” dagli “idoli”, dai costumi, dalle convenzioni e dalle immaginazioni sociali, un’umanità che con questa “purificazione” e questa “battaglia” si è garantita l’ingresso nel regno dell’uomo. Non per niente Enrico De Mas, la cui traduzione abbiamo qui utilizzato, sostiene che «tutto il disegno baconiano è fortemente impregnato di profetismo biblico» (De Mas 1968: xviii). Egli intravede in Bacon un «senso di aspettazione messianica» scaturito dalla Riforma, un «rinnovamento» che consiste nel ripristinare il dominio sull’universo di cui l’uomo disponeva prima del peccato originale. Proprio per questo, è opportuno considerare il Novum Organum non solo come opera di metodologia scientifica, ma come un atto di “fede” nel progresso che riguarda il genere umano nel suo insieme (1968: xix). Dovremo tornare tra breve su questo nesso tra “modernità” e messianismo religioso universale. Qui però non possiamo tralasciare di soffermarci sul vertiginoso senso di superiorità che Bacon attribuisce all’uomo europeo, una superiorità che lo innalza fino al punto che esso stesso si tramuta in un “Dio” rispetto agli altri uomini3. Si tratta – possiamo aggiungere – di un Dio terribile, che ha un enorme potere, quello di distruggere, insieme agli “idoli”, le forme di umanità che gli altri esseri umani si sono date. Siamo nel 1620: da più di un secolo gli europei stanno distruggendo 3   La frase – avente tutt’altro significato che in Bacon – è del commediografo latino Cecilio Stazio (230-168 a.C.) e, per intero, suona così: Homo homini deus est, si suum officium sciat (“l’uomo è un dio per l’uomo, se conosce il proprio dovere”). Plauto (255-184 a.C.) aveva invece sostenuto: lupus est homo hominis, non homo, quom qualis sit non novit (“l’uomo è un lupo per l’uomo, quando si ignori chi egli sia”). Terenzio (184-159 a.C.) dirà poi: Homo sum: humani nihil a me alienum puto (“sono uomo e niente di umano reputo estraneo a me”).

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nel Nuovo Mondo vite umane, società, lingue, culture, civiltà. Nel 1552 viene data alle stampe la Brevísima relación de la destruición de las Indias di Bartolomé de Las Casas, nella quale leggiamo il seguente brano: Tra questi agnelli mansueti [gli indiani d’America] entrarono gli spagnoli, non appena ne ebbero notizia, come lupi, come tigri e leoni crudelissimi affamati da molti giorni. Altro non hanno fatto da quarant’anni a questa parte, e oggi continuano a fare, che straziarli, ucciderli, vessarli, affliggerli, tormentarli e distruggerli con atti di crudeltà straordinari, diversi e nuovi e di cui prima d’ora mai si era visto, né letto né udito (Las Casas 2012: 55).

La denuncia di Las Casas, quarant’anni dopo l’inizio della conquista, parla esplicitamente di «milioni» di vittime (2012: 49) e fa già capire l’entità di quello che è stato poi chiamato l’“olocausto americano”, un massacro durato quattro secoli e che ha cancellato qualcosa come il 95 per cento della popolazione complessiva dell’America pre-colombiana (e dunque decine e decine di milioni di individui: da 75 a 100 milioni, secondo le stime degli storici); un massacro del resto che non è ancora finito, se teniamo conto, per esempio, della “scomparsa” dei diretti discendenti dei Maya in Guatemala negli anni Settanta e Ottanta del Novecento (Stannard 2001: 15). Certo, un conto sono le epidemie e un altro sono i massacri intenzionali; un conto è essere aggredito dalle spade dei soldati o dai denti dei mastini con cui gli spagnoli si dilettavano a cacciare gli indios, e un altro conto è essere colpito da una malattia (anche un semplice raffreddore) verso cui l’organismo non ha ancora sviluppato difese immunitarie. Ma è difficile negare che – per riprendere il termine inequivocabile di Las Casas – si tratti comunque di “distruzione”. Si può allora parlare di “catastrofe”, piuttosto che di genocidio, come ci suggerisce Massimo Livi Bacci (2005), il quale sostiene opportunamente un punto di vista che sappia differenziare la pluralità delle cause, delle situazioni e dei periodi. Ma se consideriamo, leggendo il libro di David Stannard, il susseguirsi incessante degli episodi che dallo sterminio di Hispaniola (Santo Domingo) del 1494 arrivano fino al massacro degli indiani Sioux a Wounded Knee del 1891, è impossibile scindere i secoli della modernità dalla furia distrut­­­­­166

tiva che ha sconvolto il Nuovo Mondo. Non si tratta di episodi isolati: si tratta invece di un ripetersi costante e implacabile, di un atteggiamento che non si arresta nemmeno a Wounded Knee, ma si protrae fino a questo momento e ha tutta l’aria di continuare ancora. Scopo di questo capitolo non è però quello di addentrarsi nella molteplicità angosciante dei casi e degli esempi. Ci interessa invece cogliere – per quanto possibile – un qualche significato, sul piano antropo-poietico, di questo persistente furore disumano. Proviamo a farlo riflettendo ancora su Francis Bacon, il filosofo a cui gli illuministi francesi avevano dedicato la loro Encyclopédie e che viene quasi sempre considerato come colui che più di altri ha saputo traghettare la cultura europea “dalla magia alla scienza” (Rossi 1957)4. Lo facciamo ricorrendo a un breve testo, in apparenza modesto e innocuo, che il filosofo inglese aveva redatto settant’anni dopo la denuncia di Las Casas. È un saggio del 1622, scritto sotto forma di conversazione tra sei personaggi (cinque cattolici e un protestante), i quali discutono sulla nozione di “guerra santa”. Il discorso più lungo e conclusivo è quello di Zebedeo, «romano cattolico zelante», in cui Bacon si identifica: egli affronta la questione se sia legittimo per stati e principi cristiani condurre una guerra soltanto per la propagazione della fede, «senz’altra causa di ostilità», e se una guerra «santa» possa spingersi fino all’«evacuazione» o addirittura allo «sterminio» di un popolo (Bacone 1971: 717, 720). Infatti – come avverte Marzio, uno degli interlocutori – «ricordandoci di essere cristiani, noi ci dimentichiamo che anche gli altri sono uomini» (1971: 721). Ebbene, per Zebedeo, più che rivolgersi ad Aristotele con la sua distinzione tra uomini nati per comandare e uomini nati per obbedire, occorre tenere conto di quanto si legge nella Bibbia. Qui c’è la spiegazione della «originaria donazione del governo», ovvero della base sulla quale è fondato il diritto di governarsi da sé, e come mai invece si possa negare a una nazione tale diritto (1971: 725). Bacon riporta i versetti di Genesi I, 26: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, ed abbia egli dominio sui pesci del mare, sugli uccelli dell’aria e sugli animali della terra ecc.», e subito dopo fa 4   In realtà, il libro di Paolo Rossi pone in evidenza i legami profondi che riportano il pensiero di Bacon alle concezioni medievali e dunque il travaglio difficile e laborioso di proposte moderne.

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suo l’«aforisma verissimo e divino» del giurista spagnolo Francisco De Victoria, secondo cui «non si fonda un dominio, se non nell’immagine di Dio». Usando la prospettiva che vogliamo illustrare in questo libro, possiamo dire che all’origine c’è un’antropo-poiesi divina: è Dio che fa gli uomini; non sono gli uomini che fanno se stessi. La natura degli uomini è dovuta alla plasmazione divina. Per natura l’uomo è dunque sulla terra l’immagine di Dio; e come Dio è il signore dell’universo, così l’uomo trae da questa sua somiglianza con Dio il diritto a dominare sugli altri esseri del creato. Giustamente Bacon afferma che «qui abbiamo la carta di fondazione»: la Bibbia, ben più di Aristotele, ci spiega la base del diritto al governo, al dominio, così come della «sua perdita o sequestro» (1971: 725). In effetti, questo diritto si può perdere: «distruggete l’immagine e annullerete il diritto». Nonostante l’uomo sia frutto di un’antropo-poiesi divina e nonostante la sua stessa natura riproduca l’immagine di Dio, in questa antropologia teologica vi è il riconoscimento di una fragilità intrinseca: la possibilità di vedere distrutta nell’uomo, e da parte dell’uomo, l’immagine divina a lui connaturata. A sua volta, l’immagine divina che è nell’uomo viene fatta coincidere da Bacon con la «ragione naturale», e quando questa facoltà venga distrutta in tutto o per la maggior parte, viene meno «il diritto di governare» (1971: 726). Forse sarà il caso di ricordare a questo punto la violenta polemica di Bacon contro gli idola, quella sorta di schermo che offusca, devia o impedisce la lettura diretta delle idee impresse da Dio nella realtà naturale. La possibilità di deviazione, o meglio di distruzione della ragione naturale (quindi della stessa immagine di Dio), è lì, negli idola che infestano e corrompono la mentalità di una nazione e che fanno perdere a quella nazione il diritto di governarsi. È infatti significativo che Bacon sostenga che non è questione di cattivi governanti o tiranni: non sono loro che distruggono l’immagine divina ovvero la ragione naturale; è questione invece di «qualche perversione o defezione della nazione stessa», qualcosa cioè che attiene alla sua cultura. Bacon non usa in questo caso il termine cultura, ma cultura in senso antropologico ci consente di comprendere meglio il discorso del filosofo inglese. Dagli esempi che egli fa (la terra delle Amazzoni dove sono le donne a detenere il comando o il sultanato dei Mammalucchi ­­­­­168

dove invece comandano gli schiavi) si deduce che per Bacon vi sono società i cui costumi costituiscono una vera e propria «aberrazione della legge naturale», «violazioni integrali e perversioni del diritto naturale» (1971: 729). Rivolgendosi poi alle Indie occidentali, egli sostiene che, oltre alla «nudità» della gente che vi abita (che di per sé sarebbe, curiosamente, «un affronto fatto alla natura»), alle loro strane e stupide credenze, alle loro stregonerie, tipiche di tutte le «nazioni idolatre», ciò che maggiormente distrugge l’immagine divina e la ragione naturale sono i «sacrifici» umani e l’«antropofagia» (1971: 730). In questo – sostiene Bacon – «sta il loro abominio»; e sono queste loro abitudini o costumi ciò che «rende legittima da parte degli Spagnoli l’invasione del loro territorio, sequestrato dal diritto naturale, allo scopo o di ridurlo o di distruggerlo». Questo abbandonare la ragione naturale mediante costumi abominevoli, questo violare l’immagine divina impressa da Dio negli uomini, fa sì che non solo persone singole, ma intere nazioni si trovino «fuori legge e proscritte dal diritto naturale e internazionale»: queste nazioni non sono nazioni di diritto, ma soltanto di nome, riducendosi ad essere mere «moltitudini o sciami di gente» (1971: 727). Ma anziché essere isolate o abbandonate al loro destino, queste nazioni di nome richiamano su se stesse l’attenzione di coloro che incarnano la vera e autentica umanità. Bacon richiama a questo punto il verso di Terenzio (vedi nota 3): «sono uomo e niente di umano reputo estraneo a me» (1971: 732). Bacon dà luogo anzi a una visione di reciproco coinvolgimento delle società umane, che ha risonanze profonde sul piano antropologico. «È un grave errore» – egli sostiene – «e frutto di una mente ristretta, pensare che le nazioni non abbiano nulla a che fare l’una con l’altra», e ciò a prescindere dall’esistenza di patti e accordi sul piano politico, diplomatico o militare: «vi sono altri legami della società e implicite confederazioni» (1971: 731). Ciò che lega tutti gli uomini tra loro, ciò che fa sì che vi sia una «società tra tutti gli uomini», è però una «indissolubile e suprema consanguineità», dovuta al fatto che tutti discendiamo dalla coppia originaria, creata da Dio. Ebbene, a «noi cristiani» – continua Bacon (1971: 731) – «è stato rivelato in modo particolare» questa comune discendenza di tutta l’umanità; perciò noi cristiani in modo particolare «dobbiamo riconoscere che non vi sono nazioni intera­­­­­169

mente straniere tra loro». Questa consapevolezza di una comune umanità e di una comune discendenza ci obbliga a essere «caritatevoli» verso tutti gli esseri umani, verso tutto ciò che ha a che fare con l’umanità: “niente di umano ci è estraneo”, nemmeno – potremmo aggiungere – le aberrazioni. Anzi, soprattutto le aberrazioni sollecitano la coscienza e la carità di “noi cristiani”, motivando e attivando questa sorta di «tacita lega o confederazione» tra gli esseri umani. Se c’è una lega infatti, essa «non è senza uno scopo». E se di “lega” si tratta sarà per difendersi o comunque per agire «contro qualche cosa» (corsivo nostro): non contro fenomeni naturali, contro animali o bestie feroci, bensì «contro quelle congerie o assembramenti di genti, che sono decadute dalle leggi naturali». Come si è già visto, coloro che con i loro costumi aberranti hanno distrutto in sé l’immagine divina o la ragione naturale non costituiscono società (o “nazioni”) di diritto, degne di essere riconosciute e rispettate: queste società «sono decadute dalle leggi naturali, ed hanno nel loro stesso corpo e nella struttura dello Stato una mostruosità» (1971: 731). Esse sono «disgrazie e rifiuti della natura umana», rispetto a cui si attiva la “carità” cristiana evocata prima. Agli occhi di “noi cristiani” quelle aberrazioni vanno «annoverate [...] fra i comuni nemici e le fonti di afflizioni del genere umano»: “nemici” dell’umanità, contro cui occorre usare le armi e combattere. «Alla soppressione di tali genti tutte le nazioni sono interessate» (corsivo nostro). A vantaggio dell’umanità intera il cristianesimo si pone alla “caccia” dei “nemici” comuni, ossia di coloro che, sfigurando l’immagine divina nell’uomo o deviando rispetto alla natura umana e alla ragione naturale, distruggono la stessa umanità. La guerra “santa” teorizzata da Bacon è dunque un “distruggere la distruzione”, in quanto consiste nel “distruggere” le cause e gli agenti che distruggono l’immagine divina nell’uomo. Nella sua teorizzazione sulle forme di “caccia all’uomo”, Grégoire Chamayou ha opportunamente richiamato l’attenzione su queste pagine di Bacon, facendo notare come la caratterizzazione della “preda” non più soltanto come inferiore, ma come per natura «fuori dalla legge», ne autorizzi «l’eradicazione», anziché il semplice asservimento. Rifondato su una base siffatta, l’imperialismo nascente riceveva de jure un potere di ostilità assoluta che poteva accontentarsi della conquista, ma anche spingersi fino allo sterminio (Chamayou 2010: 40). ­­­­­170

3. Il regno dell’uomo-dio Se è vero – come abbiamo sostenuto fin dal capitolo I – che l’antropo-poiesi è un compito irrinunciabile e che tuttavia nulla di più incerto, variabile, arbitrario, discutibile vi è rispetto ai modelli di umanità applicati nei processi antropo-poietici, allora si può comprendere come l’antropo-poiesi divina illustrata nella Genesi rappresenti una soluzione di grande richiamo. Rileggiamo i versetti di Genesi I, 26, su cui Bacon si era soffermato, e poi di I, 27-28, utilizzando ora la versione a cui facciamo ricorso in questo libro (La Bibbia 1987: 10): Finalmente Dio disse: «Facciamo l’uomo a norma della nostra immagine, come nostra somiglianza, affinché possa dominare sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò gli uomini a norma della sua immagine; a norma della immagine di Dio li creò; maschio e femmina li creò. Quindi Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, ed abbiate dominio sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su ogni essere vivente che striscia sulla terra».

Nella descrizione di questa antropo-poiesi sono rinvenibili perlomeno i seguenti aspetti: a) in primo luogo, l’antropo-poiesi è nelle mani di Dio. È Dio che “fa” gli uomini, non sono gli uomini che “fabbricano” se stessi o altri uomini. L’antropo-poiesi è dunque una faccenda divina; è umana soltanto in senso passivo, secondo cui l’uomo viene “fatto” o “plasmato” dalla divinità. Il contenuto della poiesis è dato dall’uomo (anthropos), ma la poiesis come azione è divina. Per gli aderenti alle religioni che pongono la Bibbia a fondamento delle proprie credenze, la tesi dell’antropo-poiesi divina è del tutto ovvia: pensare altrimenti, ritenere cioè che l’essere umano sia autore della sua stessa poiesis, sarebbe una manifestazione di arroganza e di insubordinazione, qualcosa che richiama ciò che nel pensiero cristiano è interpretato come la ribellione di Satana. Sotto il profilo antropologico (ossia con l’adozione di uno sguardo comparativo ad ampio raggio), la tesi dell’antropo-poiesi divina è però ­­­­­171

tutt’altro che ovvia: sono molte le società, le quali ritengono, al contrario, che l’antropo-poiesi sia una faccenda umana, persino troppo umana, senza tirare in ballo la figura del diavolo5; b) non solo è Dio che “fa” l’uomo, ma lo fa “a norma della sua immagine”. Qui l’espressione “antropo-poiesi divina” si carica di un ulteriore significato: l’uomo è il prodotto di un’antropo-poiesi divina non soltanto perché l’operazione antropo-poietica (di fabbricazione dell’uomo) viene compiuta da Dio, ma anche perché la natura umana consiste nella riproduzione della natura divina. Dio fa l’uomo, ma nel costruirlo non inventa un modello a lui estraneo; al contrario, prende se stesso come norma e criterio. Dio è dunque presente sia nel fabbricare, sia in ciò che viene fabbricato. Ovviamente c’è uno scarto tra il produttore e il prodotto, tra Dio e l’uomo, e tuttavia l’immagine divina determina pur sempre l’essenza umana. Tra Dio e l’uomo non c’è un rapporto di identità; c’è soltanto un rapporto di “somiglianza”, ma è sufficiente per sollevare l’uomo da una ricerca di modelli di umanità appropriati. Come forse si ricorderà, nel capitolo I avevamo preso in considerazione il mito della creazione dell’uomo da parte di Pico della Mirandola. Il paragone tra la versione di Pico e quella della Genesi è molto illuminante proprio in relazione ai punti che stiamo trattando. Pico segue la Genesi nel sostenere che Dio ha portato all’esistenza gli esseri umani; ma Pico si discosta vistosamente dal racconto biblico, allorché afferma che Dio non ha impresso alcun “modello”, alcun “prototipo” nella sua creatura: sulla faccenda dei modelli da adottare, ancor meglio da inventare, interviene il libero arbitrio degli esseri umani, con tutti i rischi e le angosce che questa libertà comporta; c) se l’uomo è stato fatto simile a Dio, se la sua natura è la stessa immagine divina, ne discende che in modo simile a Dio anch’egli esercita un “dominio” sulla natura, sugli esseri che nel disegno creativo di Dio sono a lui inferiori. Dio è ovviamente il padrone dell’universo e l’uomo è il signore-padrone della terra. Abbiamo già visto nel paragrafo precedente come Bacon (sulla scia di Francisco De Victoria) colga immediatamente questa implicazione: il 5   Per un esempio molto significativo di antropo-poiesi “umana, squisitamente umana”, rinviamo al capitolo VI di questo libro.

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rapporto di somiglianza con Dio è il fondamento del “potere” sulla terra, che va “soggiogata” e “riempita”. Qui è bene sottolineare che questa implicazione non è frutto di una deduzione da parte del pensiero umano, in quanto lo stesso Dio afferma di avere fatto l’uomo a sua immagine, «affinché possa dominare» sulla terra. Nell’antropo-poiesi divina il dominio dell’uomo sulla natura non è dunque soltanto un tratto caratteristico dell’essenza umana, ma è il suo obiettivo finale: dominare la terra significa realizzare l’obiettivo che Dio stesso ha formulato per l’uomo, e anzi significa portare a compimento quel fondamento dell’essenza umana che la rende particolarmente simile alla divinità. Quanto più l’uomo domina la terra, tanto più egli si rende simile a Dio. Il paleontologo americano Niles Eldredge ha giustamente visto nel testo della Genesi sopra riportato una nettissima «dichiarazione di indipendenza» nei confronti della natura – ovvero dell’ecosistema – da parte di una società alle cui spalle si colloca (nel Vicino Oriente) il passaggio da un’economia di caccia e raccolta alla domesticazione di piante e animali (Eldredge 1995: 101). Ma non si tratta soltanto di indipendenza: si tratta invece espressamente di “dominio”, di padroneggiamento della natura, la quale addirittura viene ad assumere – come pure Ian Tattersall (2004: 196) fa notare – l’aspetto di un «nemico» da combattere, piegare, sfruttare e in molti casi da annientare. Questa idea di dominio, mai così fortemente proclamata dall’umanità – sostiene Eldredge (1995: 101) –, è qualcosa di «inebriante», e tuttavia dà i brividi: è qualcosa che «fa paura». Si tratta in effetti – possiamo aggiungere – di una sorta di hybris (di un comportamento violento ed eccessivo), in quanto questo dominio non solo viene avallato e concesso da Dio, ma conferisce agli esseri umani un ruolo e un potere molto simile a quello della stessa divinità6. Anche presso altre società di 6   Roberto Marchesini dedica un intero paragrafo al concetto greco di hybris (2002: 199-206), ponendo in luce la non condivisibilità di tale concetto (arroganza, tracotanza), nella misura in cui presuppone un ordine naturale fisso e determinato, un’armonia del mondo a cui occorre adeguarsi, anziché infrangere. Mutando questa prospettiva sul mondo, considerando la natura come dominata dall’incertezza e dalla complessità, hybris si tramuta in qualcosa di positivo: «da rischio, pericolo, peccato diventa motore di coniugazione dell’uomo con il mondo» (2002: 203). In questo capitolo si preferisce comunque usare il concetto di hybris per illustrare ulteriormente l’idea di “uomo-dio”, con cui una

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coltivatori riscontriamo, insieme al dominio sulla natura, un vero e proprio “furore” distruttivo nei confronti di ciò che si oppone al progetto di vita: è con furore, per esempio, che i baNande hanno disboscato i loro territori; c’è del furore nella loro guerra contro la foresta, così come c’è dell’orgoglio nel loro proclamarsi abakondi, distruttori di foresta, abbattitori di alberi (Remotti 1994). Ma – come vedremo meglio nel prossimo capitolo – a fondamento della loro cultura non c’è alcuna divinità che li abbia “fatti” abakondi e che li abbia “benedetti” nella loro conquista del mondo, nel loro “tagliare il mondo” (eritwa ekihugo). Quante società – di nostra più diretta conoscenza storica – si sono invece ispirate alla parola di Dio, posta a fondamento delle loro imprese e del loro furore? Tutto questo per dire che non tutte le società di coltivatori hanno formulato un’ideologia così “terribile” come quella che traspare dalle parole della Genesi. Se riconsideriamo la conquista europea del Nuovo Mondo, è facile constatare come molto spesso essa sia avvenuta all’insegna di un principio che unisce l’antropo-poiesi divina all’idea secondo cui chi non coltiva e non sfrutta la terra non ha titolo al suo possesso, finendo per appartenere a una categoria inferiore di umanità. Anthony Pagden dimostra molto bene come – agli occhi dei conquistatori – la mancanza del senso della proprietà da parte degli indiani del Nord America non solo li priva di un loro diritto sulla terra su cui pure risiedono, ma li degrada a una condizione di non umanità (Pagden 2005: 137-138). Nell’ideologia della conquista la coltivazione della terra fa parte di un’immagine e di una progettazione antropo-poietica che, come abbiamo visto, affonda le proprie radici nei testi sacri per eccellenza della civiltà occidentale. Nella seconda metà del Settecento Emeric de Vattel, autore di Le Droit de gens, ou principe de la loi naturelle del 1758, sostiene per esempio che la coltivazione della terra non solo è di grande utilità, ma è «un obbligo imposto all’uomo dalla natura»: un dovere, più ancora che un diritto (2005: 138). E quindi, coloro che, pur abitando terre fertili, disdegnano la coltivazione, «meritano di essere sterminati come bestie feroci da preda». Se infatti il coltivare è parte consistente di umanità ha voluto legittimare il suo dominio sull’ambiente e sugli altri uomini.

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qualcosa che attiene alla stessa natura umana, i non coltivatori non si limitano a essere non umani, ma rappresentano una “minaccia” per l’umanità intera (2005: 139). Ben presto gli indiani delle Americhe diventano – agli occhi degli europei – «nostri nemici», perché sono nemici dell’umanità. Gli europei si ritengono infatti portatori, eredi e testimoni di un progetto antropo-poietico il cui autore è Dio: non il “nostro” Dio particolare, un dio in mezzo agli altri dèi (gli dèi degli altri), ma il Dio che ha creato tutti gli esseri umani. Già nel Cinquecento il giurista spagnolo Fernando Vázquez de Menchaca aveva affermato senza esitazione che gli indiani d’America sono «nostri nemici, ci danneggiano, sono odiosi e pericolosi» (2005: 169). Essere “illuminati”, essere a conoscenza di come gli uomini vengono fatti, da chi sono costruiti o modellati, e a quale scopo, conferisce ovviamente un enorme potere, insieme a una posizione di netta superiorità, rispetto a chi brancola nel “buio” dell’antropo-poiesi. Sotto questo profilo, il cristianesimo si presenta come un sapere antropo-poietico dotato di notevoli certezze, nonché come un movimento e poi come una religione istituzionalizzata che provvede direttamente e quotidianamente a “fare umanità” secondo i dettami di Dio. Nel capitolo I avevamo visto come il filologo tedesco Werner Jaeger avesse accordato agli antichi Greci e quindi a “noi” europei moderni il titolo di scopritori e teorizzatori dell’impresa antropo-poietica, in quanto i Greci e noi progettiamo di “fare umanità” seguendo le linee e i principi della natura umana: su questa base, egli affermava nel 1933, l’anno della prima edizione di Paideia (oltre che dell’ascesa al potere di Hitler), che c’è «un immenso divario», «un’alta muraglia» tra “noi”, Greci ed europei, e i popoli dell’Oriente, Ebrei, Cinesi, Hindu (Jaeger 1936: 4-5, 7). E il cristianesimo? Per Jaeger il cristianesimo – la religione di “noi europei” – è esattamente ciò che ci mette sullo stesso piano dei Greci. In un libro pubblicato nel 1961, Early Christianity and Greek Paideia, Jaeger si pone alla ricerca delle concezioni “antropo-poietiche” (per usare la nostra terminologia, del resto assai vicina a quella del filologo tedesco) che hanno caratterizzato il pensiero dei primi secoli del cristianesimo. Egli trova che in molti pensatori cristiani si verifica una rilevante convergenza tra il concetto greco di paideia (educazione e formazione) e il mes­­­­­175

saggio divino contenuto nei vangeli e nella figura di Gesù. Così, per esempio, in Clemente di Alessandria Gesù viene ad assumere un ruolo elevatissimo, che mai nessun personaggio dello stesso genere ha ricoperto «nella storia dell’uomo»: si tratta di un «ruolo nuovo», ossia quello di «divino educatore», di «“educatore” del genere umano», di «Pedagogo di tutti gli uomini» (Jaeger 1966: 80-81, n. 29). È vero che i pensatori cristiani recuperano la tradizione greca, quale si esprime nel concetto di paideia, ma essi affermano anche una netta superiorità della loro fede, e quindi del cristianesimo, in quanto il compito antropo-poietico, la «missione formativa del genere umano», è ora svolto «in un grado superiore a quello raggiunto nel passato» (1966: 81). Per Clemente di Alessandria, la filosofia greca è soltanto una «pre-paideia» rispetto alla religione cristiana: la pre-paideia è «opera dell’uomo», mentre «la vera paideia in se stessa deriva da Dio» (1966: 83, n. 33). Trattandosi di un’antropo-poiesi divina – non di un semplice sforzo umano, bensì di una iniziativa che proviene, tramite la figura di Gesù, da Dio stesso – occorre anche cogliere, per Origene, un disegno divino nella storia umana, il quale consiste nella «unione e cooperazione sempre crescenti delle varie razze umane entro la fede cristiana» (1966: 87, 84). Allo stesso modo, secondo Jaeger (1966: 97), i grandi padri della Cappadocia della seconda metà del IV secolo – Basilio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa – hanno in mente una paideia cristiana che dovrà dar luogo a «una civiltà cristiana totale». In particolare, per Gregorio di Nissa la figura di Gesù è la realizzazione di un modello di umanità, in cui assistiamo tanto a una «sinergia» tra Dio e l’uomo quanto a una convergenza inedita e innovativa tra la paideia greca e i contenuti di umanità presenti nella Bibbia: proprio per questo, l’antropopoiesi cristiana è non soltanto una morphosis dell’essere umano, ma una meta-morphosis, una trasformazione radicale mediante il rinnovamento dello spirito (1966: 114, 125). A leggere queste pagine di Werner Jaeger, si intuisce che egli non si limita a essere l’interprete della concezione antropo-poietica, quale si forma nei primi secoli del cristianesimo, ma vi aderisce con convinzione. Per cogliere questo punto, notiamo che pure in queste pagine vi è una netta svalutazione dell’antropo-poiesi ebraica: la paideia giudaica è soltanto un fatto di «legge», di obbedienza dunque a normative dettate dalla propria tradizione, ­­­­­176

mentre quella cristiana è educazione e formazione (1966: 119). Il concetto cristiano di paideia si riempie del contenuto semantico della morphosis (formazione), e anzi della meta-morphosis (trasformazione), in cui l’uomo è protagonista di una sorta di deificatio, di una progressiva «assimilazione a Dio» (1966: 116, 126, n. 29). Con questa innovativa reinterpretazione della paideia greca, «la religione cristiana si mostrò capace di offrire al mondo molto di più di qualsiasi altra setta religiosa» (1966: 92). Rispetto all’ebraismo, nell’antropo-poiesi cristiana la divinità è molto più vicina: il legame con Dio viene reso più stretto dalla figura di Gesù che – al di là di tutte le più che comprensibili controversie teologiche – sta a metà, o comunque fa da trait d’union tra la condizione dell’uomo e quella della divinità. Grazie alla figura del Cristo, la somiglianza dell’uomo a Dio, di cui parla la Genesi, non si configura più come un dato naturale, tutto sommato rassicurante, ma come un obiettivo da perseguire in una sorta di progresso indefinito. Sotto il profilo antropo-poietico, si può interpretare in diversi modi, anche opposti, questo farsi sempre più simili alla divinità: i movimenti ascetici e mistici, con la loro mortificazione del corpo, e dunque con l’esaltazione dello spirito, ne sono un esempio. Ma facciamo un balzo di nuovo nel continente americano. I pionieri che si spingevano nel Nuovo Mondo erano molto spesso convinti di agire – come abbiamo già visto – sulla base di una antropo-poiesi divina, ossia di uomini il cui obiettivo era piegare la natura al lavoro trasformativo e, nel contempo, dare luogo a un regno umano e divino insieme. Quanto più si opera entro il quadro di un’antropo-poiesi divina, tanto più si diventa simili a Dio, legittimati ad agire con la capacità modellatrice e creatrice tipica della divinità che ci ha fatti a sua immagine e somiglianza. Regno dell’uomo e regno di Dio tendono a coincidere. L’America si configura fin da subito come un mondo “nuovo”, in cui l’operosità umano-divina si può dispiegare senza ostacoli, in cui la capacità di trasformazione dell’uomo tende ad assumere una forza e un potere quasi “divini”. Verso la conclusione del suo lungo e angosciante percorso tra i massacri provocati dalla «collera sfrenata degli occidentali», David Stannard riferisce il seguente pensiero di Oliver Wendell Holmes, un famoso medico di Harvard, il quale nel 1855 auspicava in quelle terre la costruzione di «un’umanità un po’ più somigliante all’immagine ­­­­­177

di Dio» (Stannard 2001: 388, corsivo nostro). Ovviamente tocca agli europei, o ai discendenti degli europei, costruire un regno dell’uomo sempre più somigliante al regno divino e per fare ciò occorre rimuovere gli ostacoli che vi si frappongono: lo «sterminio» dei nativi americani – «un abbozzo incompleto di umanità», «un’umanità rudimentale» verso cui è del tutto naturale provare disprezzo e odio – si configura, per il dottor Holmes, come la soluzione necessaria e indispensabile (2001: 387-388). Quando si concepisce un’antropo-poiesi così elevata, quando nelle faccende umane del “fare umanità” si mette di mezzo Dio (in questo caso l’unico Dio, e per giunta un Dio che dichiara egli stesso di essere «geloso» – [Esodo 20, 5 – La Bibbia 1987: 101]), un Dio che non solo fa gli uomini, ma li costruisce simili a sé, si impongono alcune scelte, gravide di conseguenze non sempre volute. Nei primi secoli del cristianesimo, farsi simili a Dio tramite la figura di Gesù ha significato per un numero tutt’altro che irrilevante di persone una scelta solitaria e monastica: il deserto, l’eremitaggio, l’abbandono della società da un lato e dall’altro la mortificazione del corpo e quindi per questa via l’esaltazione dello spirito, al fine di sconfiggere il nemico, il diavolo, che si annida nel corpo. Diventare più simili a Dio significava, in questi casi, diventare meno simili rispetto agli altri uomini. Giovanni Filoramo ha voluto evocare questi «mille volti di asceti e solitari [...] che cercarono di realizzare la sequela Christi in forme radicali di ascesi», ponendoli in «oggettiva contrapposizione» a una Chiesa sempre più compromessa con il “mondo” (saeculum) e avente un potere sempre più incisivo sulle coscienze e sulle vite sia dei propri aderenti, sia di coloro che non lo erano (Filoramo 2011: 393). Proprio questa è la tesi che Filoramo intende dimostrare, ovvero un mutamento che vede la trasformazione progressiva dei “cristiani da martiri a persecutori”. La svolta avviene quando il cristianesimo diviene religione di stato e quando l’eresia non è più una semplice divergenza di opinione, un diverso modo di vivere e di concepire i temi della religione, ma diviene un crimine perseguibile addirittura dal potere politico. Se nella solitudine del deserto il nemico è il diavolo annidato nel corpo, per la Chiesa alleata al potere, fattasi essa stessa potere, i nemici sono gli eretici, gli Ebrei, i pagani. Di fronte agli attacchi che la Chiesa cristiana sferra contro i suoi nemici, è inevitabile chiedersi quali siano le radici di tanta ­­­­­178

intolleranza e di tanta violenza, i motivi della «furia devastatrice» con cui, per esempio, furono abbattuti i templi pagani di Alessandria d’Egitto, le ragioni che hanno spinto i cristiani a «uccidere in nome di Dio» la filosofa Ipazia e a infierire in modo così crudele sul suo corpo (2011: 378, 383). Filoramo scorge le radici della violenza cristiana nella configurazione originaria delle comunità cristiane, fondate non su criteri etnici o culturali, ma su un elemento religioso, cioè la fede indiscutibile che Gesù, il Messia, è risorto (2011: 358). Si tratta di una «verità unica», posseduta in proprio dai soli cristiani, una verità a cui gli Ebrei non hanno colpevolmente voluto accedere, una verità che degrada gli altri (compresi gli eretici) in una condizione di errore, di peccaminosità e di oscurità, una verità però che non ha da essere conservata nel chiuso della comunità, ma diffusa a tutti, senza distinzione di ceto, classe, etnia (Paolo, Colossesi 3, 11 [La Bibbia 1987: 1801]). In relazione a questa verità, «la comunità cristiana si fa obbligo di includere l’intera umanità»; «rifiutarsi di entrare a farne parte significa dare prova di un vizio perverso e sconvolgente», qualcosa di insensato e di maligno, contro cui, da parte dei cristiani, è possibile che scatti una «intolleranza violenta» (Filoramo 2011: 358). A queste considerazioni di Filoramo vorremmo aggiungere la tesi che veniamo svolgendo in questo capitolo, ovvero che la «verità unica» si carica di un profondo significato antropo-poietico, ovvero di un qualcosa che mette in gioco il modo di intendere e praticare l’umanità, non però una forma particolare di umanità, ma l’umanità nella sua interezza. Questa alta posta in gioco è dovuta al fatto che l’antropo-poiesi per il cristiano non è una faccenda che si risolve in un villaggio, nel contesto di una tradizione, nel quadro di una cultura: non è una faccenda di costumi più o meno arbitrari; è invece una faccenda in cui sono direttamente coinvolti Dio, il Figlio di Dio, nonché gli esseri umani che, unendosi in Lui, aumentano la propria somiglianza divina, e ciò a favore dell’umanità intera. C’è molta invenzione e c’è molta “fede” nell’antropo-poiesi cristiana: e quanto più si inventa, quanto più si richiede fede, tanto più si avverte, nel profondo, una sorta di instabilità e di fragilità. Per coprire questo senso di instabilità, da una parte si attiva un grande sforzo di unità e di coesione, dall’altra si tende a esteriorizzare le minacce, a “creare” i propri nemici, ossia gli ­­­­­179

“altri”, i “non credenti”, verso i quali si è inevitabilmente portati ad adottare le seguenti strategie: a) assimilazione (attraverso la conversione), b) espulsione, c) annientamento. In effetti, gli “altri”, molto spesso concepiti come la personificazione del male, del demonio, sono alla radice “insopportabili”, in quanto con la loro stessa esistenza e diversità rappresentano, dall’esterno, una “minaccia”: che cosa di più minaccioso della diversità rispetto a una concezione antropo-poietica che si presenta fideisticamente come divina, universale e in grado di rendere i propri fedeli quanto più vicini possibile alla divinità? Come Richard Rubenstein (1996: 35) ha suggerito, gli Ebrei hanno da sempre costituito per i cristiani una vera e propria «sfida cognitiva», per quanto riguarda il fondamento stesso dell’antropo-poiesi cristiana, ovvero la credenza nella divinità di Cristo e della sua resurrezione. La reazione dei cristiani, che consiste nel collegare gli Ebrei al diavolo, addebitando loro la colpa del deicidio, può quindi essere intesa come «una forma di riduzione della dissonanza» cognitiva, come un modo per esorcizzare la minaccia che proviene dagli stessi Ebrei. È difficile contestare a Rubenstein la tesi secondo cui l’Europa si è in gran parte costruita sull’ordine del cristianesimo latino e che lungo il corso della sua storia il sistema politico dell’Occidente, «nella misura in cui si fondava su qualcosa d’altro della forza nuda, [...] dipendeva dalla verità del Cristianesimo» (Rubenstein 1996: 31, 34). Questo spiega allora perché la storia europea è piena di tentativi di ridurre – anche con la violenza più distruttiva – l’alterità, rappresentata da coloro che non condividevano la fede cristiana o che ne offrivano una versione diversa: con la diffamazione, con il battesimo, con l’espulsione o con lo «sterminio sistematico» (1996: 23). Le crociate per la liberazione della Terra santa e i massacri di musulmani e di Ebrei, i pogrom in Europa contro gli Ebrei, la crociata contro gli albigesi, la cacciata degli Ebrei e dei musulmani dalla Spagna, le guerre di religione nel cuore della stessa Europa, la caccia agli indiani delle Americhe, la tratta degli schiavi dall’Africa al continente americano, lo sfruttamento coloniale in tutti i continenti, le guerre mondiali del Novecento: il tutto con l’idea di essere i detentori della più autentica umanità, fatta da Dio e resa salva da Cristo (Bessis 2002). Elie Wiesel ha diverse volte sostenuto l’idea dell’unicità dell’Olocausto (il massacro degli Ebrei nei campi di sterminio ­­­­­180

nazisti). Ma ha poi riconosciuto che il nazismo non fu un fenomeno improvviso e solitario: facendo notare che «tutti gli assassini erano cristiani», egli intravede le radici del nazismo nel passato dell’Europa cristiana (Stannard 2001: 264). Richard Rubenstein interpreta l’Olocausto come «una guerra santa modernizzata, il cui scopo era quello di eliminare la presenza degli Ebrei dal dominio dell’Europa cristiana» (Rubenstein 1996: 31). Stannard conclude il suo esame dell’Olocausto americano, sostenendo con Wiesel che «la strada che condusse ad Auschwitz era stata aperta» dal cristianesimo, ma questa strada – egli aggiunge – passa per le Americhe (Stannard 2001: 390), e anche beninteso in tutti quei continenti in cui gli europei hanno imposto, con la croce e con la spada, la loro “fede” antropo-poietica: un regno dell’uomo fatto a somiglianza di Dio e che l’uomo cerca di realizzare con furore tipicamente moderno. 4. L’idea dell’uomo nuovo Secondo un’opinione assai diffusa, tra cristianesimo e modernità c’è un salto, c’è discontinuità. In un altro libro, si è già provveduto a fornire una visione un po’ diversa, mostrando come cristianesimo e modernità siano entrambi caratterizzati da una concezione fortemente universalistica, cioè dall’idea di possedere una verità universale sull’uomo o sulla natura umana, facendo vedere come in entrambi i casi ci sia una notevole diffidenza verso i costumi e dunque verso le culture locali, come ci sia un vero e proprio proselitismo della modernità nella sua espansione mondiale, in parallelo con l’espansione del cristianesimo, sottolineando inoltre una sorta di «aiuto reciproco tra modernità e cristianesimo [...] nelle loro modalità di incontro con le culture “altre”» (Remotti 2000: 148). Anche la modernità, esattamente come il cristianesimo, si presenta come «qualcosa di inedito nella storia dell’umanità». Svilupperemo ora questo punto, utilizzando la prospettiva antropo-poietica, quale emerge soprattutto nell’idea – sorprendente e impegnativa – di “uomo nuovo”, presente sia nel cristianesimo, sia nella modernità. Paolo di Tarso, ebreo, quasi contemporaneo di Gesù, persecutore dei primi cristiani, convertitosi al cristianesimo dopo la ­­­­­181

folgorazione sulla via di Damasco, autore, con le sue Lettere, dei primi documenti scritti del pensiero cristiano, è il grande teorizzatore dell’uomo nuovo, della creazione di una nuova umanità. Nella Lettera agli Efesini, il concetto di uomo nuovo (gr. kainos anthropos, lt. novus homo) appare come l’unità voluta da Dio rispetto alla divisione tra “circoncisi” e “incirconcisi”. La comunità o le comunità a cui Paolo si rivolge erano infatti i “gentili” (ethne, gentes), «chiamati incirconcisi [anzi, “prepuzio”, akrobustia, prae­ putium] da coloro che si dicono circoncisi per una operazione subita nella carne» (Efesini 2, 11 – La Bibbia 1987: 1787). Paolo sta così descrivendo una situazione fatta di differenze culturali: da una parte gli Ebrei che si circoncidono e dall’altra gli ethne o gentes che invece non si circoncidono – differenze quindi dovute a differenti pratiche antropo-poietiche (in sostanza, quelle che abbiamo esaminato nel capitolo IV). È noto quanto Paolo abbia combattuto il principio secondo cui la circoncisione debba essere considerata come un rito irrinunciabile, come condizione necessaria e insuperabile per accedere alla salvezza (Atti degli apostoli 15, 1-3 – La Bibbia 1987: 1696): per Paolo la circoncisione non ha più da essere praticata «nell’apparenza esterna», nella «carne», bensì «al di dentro», «nel cuore» (Romani, 2, 28-29 – La Bibbia 1987: 1728). Ed è importante rilevare come Paolo adotti un atteggiamento di profonda diffidenza verso i costumi, verso le «tradizioni umane», gli «insegnamenti umani» – ciò che noi oggi chiameremmo “cultura” –, «tutte cose destinate a logorarsi con l’uso» (Colossesi 2, 8 e 22 – La Bibbia 1987: 1800). Agli occhi di Paolo, convertito alla nuova religione, la circoncisione degli Ebrei è soltanto una pratica umana, una pratica antropo-poietica legata a una tradizione o a una cultura particolare, e non può dunque essere posta a fondamento dell’“uomo nuovo”, avente un valore e un significato universale. Con la svalutazione della cultura e dei costumi umani vi è anche, inevitabilmente, una negazione di ciò che l’uomo può fare di se stesso con le proprie mani. La salvezza proviene da Dio, dalla sua «grazia»; è un «dono» che Dio ci fa; non proviene dal nostro fare, cosicché «nessuno se ne vanti»: «in realtà, noi siamo sua opera [poiema, factura], creati in Cristo Gesù, per le opere buone che Dio ha predisposto che noi compiamo» (Efesini, 2, 8-10 – La Bibbia 1987: 1787). L’uomo nuovo è totalmente opera di Dio, il quale, con l’avvento di ­­­­­182

Gesù, ha unificato i circoncisi e gli incirconcisi, gli Ebrei e quelli che gli Ebrei chiamavano ethne, gentes o “prepuzio”. Con Gesù, Dio ha abbattuto questo «muro divisorio» e dei due popoli «ha fatto [...] una sola unità», «un solo uomo nuovo», unificandoli «in un solo corpo mediante la croce, dopo avere ucciso in se stesso l’inimicizia» (Efesini, 2, 14-16, corsivo nostro). Come si vede, in Paolo c’è una acuta sensibilità antropo-poietica, che raggiunge il suo culmine nell’idea dell’uomo nuovo, cioè un nuovo tipo di umanità, a cui finalmente si può accedere andando oltre le forme di umanità dettate o imposte dalle “tradizioni umane”. Per riprendere un’espressione che abbiamo già usato, l’antropo-poiesi che dà luogo all’uomo nuovo è del tutto divina: l’uomo non ha da fare altro che riconoscerla, aderirvi, farla propria, abbandonando gli stili di vita precedenti, forme di umanità che creano soltanto divisioni, incomprensioni, inimicizie, come quelle tra “circoncisi” e “incirconcisi”, tra “noi” (gli eletti) e “loro” (gli ethne, le gentes). Questo è l’«uomo vecchio», di cui occorre spogliarsi: la liberazione dai vincoli dell’uomo vecchio è condizione preliminare perché ci si possa “rinnovare” nella mente e “rivestirsi” dell’«uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità» (Efesini, 4, 22-24 – La Bibbia 1987: 1789). Il messaggio di salvezza di Paolo è coinvolgente: supera d’un balzo le diversità culturali. Ai “gentili” (a quelli che sarebbero poi stati chiamati pagani) prospetta un accesso del tutto paritario alla verità: per mezzo di Gesù crocifisso sia noi, «i vicini», sia «voi, i lontani», «entrambi abbiamo libero accesso al Padre in un solo Spirito»: «così dunque non siete più stranieri, né pellegrini, ma concittadini dei santi e familiari di Dio» (Efesini 2, 17-19 – La Bibbia 1987: 1788), ovvero «i gentili sono ammessi alla stessa eredità, sono membri dello stesso corpo e partecipi della stessa promessa in Cristo Gesù» (Efesini 3, 6). Gli uomini con le loro leggi, con i loro costumi, persino con la loro «filosofia» – «questo fatuo inganno che si ispira alle tradizioni umane, agli elementi del mondo e non a Cristo» (Colossesi 2, 8) –, sono incapaci di fondare l’unità dell’uomo, di andare oltre le divisioni etniche e sociali, di avviare il superamento delle inimicizie, il raggiungimento della «pace» (Efesini 2, 17). A questo fine è necessario instaurare l’uomo nuovo, e questo non è dovuto a un lungo processo formativo, a cui gli uomini si dedichino con intelligenza, con passione, con ­­­­­183

pervicacia e con sapienza: esso è invece dovuto a un «evento» che – come afferma Alain Badiou (1999: 80) – è «puro inizio». L’evento che dà inizio alla nuova umanità si compone di due momenti: la morte sulla croce di Gesù e la sua resurrezione. Sulla centralità di questo evento Paolo è del tutto esplicito. Consapevole che esso non è altro che follia o «stoltezza» per i gentili e «scandalo» per i Giudei, egli ritiene che invece per i «chiamati» sia il momento decisivo e fondamentale, in quanto in esso si racchiude tutto il significato della venuta di Gesù: quell’evento infatti «è Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio» (I Corinzi 1, 23-24). Con la morte di Gesù muore infatti l’“uomo vecchio” e con la sua resurrezione – evento unico e mai visto prima nella storia del mondo – appare l’“uomo nuovo”. Certo, la resurrezione è per Paolo argomento di fede (pistis), non di conoscenza: egli non va in giro a raccogliere prove, indizi, segni o testimonianze per dimostrare che quell’evento è veramente accaduto. Ma dalla fede in quell’evento dipende tutto il significato della nuova religione, compresa l’idea dell’uomo nuovo: «se Cristo non fu risuscitato, è vana la nostra predicazione, vana la vostra fede» (I Corinzi 15, 14). Paolo fa dipendere l’idea dell’uomo nuovo dalla resurrezione di Cristo, perché l’uomo nuovo a cui il cristianesimo dà avvio non è nuovo rispetto a questa o quella forma di umanità (a questa o quella tradizione o cultura): è nuovo rispetto alla condizione in cui fino allora l’umanità intera è vissuta, condizione segnata dal peccato e di conseguenza dalla morte. L’uomo nuovo, impersonato da Gesù, è tale in quanto ha superato la condizione di mortalità: la novità più nuova per gli esseri umani consiste nella sconfitta della morte. La resurrezione di Gesù è infatti l’evento che determina la resurrezione dei morti, passando così dalla «corruzione» all’«incorruttibilità», dallo «squallore» allo «splendore», dall’«infermità» alla «potenza», dal «corpo naturale» al «corpo spirituale» (I Corinzi 15, 42-44 – La Bibbia 1987: 1762). Paolo può così proclamare: «La morte è stata ingoiata nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» (I Corinzi 15, 54-55). L’ipotesi che vogliamo proporre in questo paragrafo è che l’idea dell’uomo nuovo di san Paolo rappresenti una sorta di prototipo, ed è per questo che ci siamo soffermati sul caso di san Paolo in un discorso che avrebbe di mira eventi e processi che invece ­­­­­184

caratterizzano ben più da vicino la modernità e la nostra contemporaneità. Proviamo dunque a estrarre da questo prototipo alcuni spunti o elementi aventi nel nostro discorso un valore euristico. 1) In primo luogo, l’idea dell’uomo nuovo implica una indubitabile dimensione antropo-poietica: il fatto stesso di pensare o affermare che siamo in presenza di un uomo nuovo significa che vi è una “trasformazione” dell’essere umano. 2) Occorre a questo punto porsi la domanda sulle dimensioni della novità e sull’incidenza della trasformazione, ovvero chiedersi quali siano gli aspetti che vengono trasformati e che fanno sì che un determinato “uomo nuovo” risulti diverso rispetto alle condizioni precedenti. 3) Ciò significa che sarebbe bene ipotizzare una gradualità nell’incidenza trasformativa dell’uomo nuovo. Consideriamo per esempio l’uomo nuovo di san Paolo: esso rappresenta una discontinuità fortissima in relazione al tema della mortalità/immortalità (l’uomo nuovo è immortale, in quanto come Gesù risorgerà dopo la morte fisica), ma sul piano sociale immediato è noto che Paolo mantiene pressoché intatte certe rilevanti differenze, come la schiavitù e la subalternità della donna rispetto all’uomo. 4) Per determinare l’incidenza trasformativa dell’uomo nuovo occorre quindi individuare le condizioni – storiche, sociali, ideologiche, simboliche – rispetto alle quali la novità viene affermata, così come occorre esaminare lo scarto tra le proclamazioni ideologiche delle novità e ciò che effettivamente l’uomo nuovo produce sul piano sociale. 5) Questa distinzione tra ideologia e praxis suggerisce inoltre di prendere in considerazione i soggetti o le entità a cui si fa risalire la formazione dell’uomo nuovo. In san Paolo, per esempio, risulta indubitabile che l’ideazione e la realizzazione dell’uomo nuovo siano faccende esclusivamente divine: è Dio, con la sua potenza, che “trasforma” così vistosamente l’essere umano, inviando suo Figlio sulla terra, facendolo morire sulla croce e poi risorgere. Questo è ciò che appare sul piano ideologico, rimanendo poi aperta la questione degli attori che agiscono sul piano della praxis in conformità dell’uomo nuovo, inteso come modello antropo-poietico. 6) Quando si parla di uomo nuovo, di solito si allude a una capacità e incidenza trasformativa (punto 3) particolarmente ac­­­­­185

centuate. Abbiamo preso san Paolo come caso paradigmatico, in quanto la trasformazione concerne addirittura il passaggio dalla mortalità all’immortalità. È presumibile che non tutti i casi di “uomini nuovi” debbano avere questa caratteristica. Tuttavia, i casi più eclatanti e antropologicamente significativi di uomini nuovi presentano obiettivi, ambizioni e pretese antropo-poietiche di rilievo eccezionale: si tratta molto spesso di mutamenti ritenuti epocali e di acquisizioni e risultati inediti dal punto di vista della storia dell’umanità. I casi più significativi (e drammatici) di uomini nuovi mettono in questione, di solito, l’intera umanità. 7) Non tutte le situazioni “inedite” sotto il profilo storico e antropologico corrispondono a modelli di “uomini nuovi”, ovvero sarebbe bene intendere l’uomo nuovo come un prodotto ideologico o come un esplicito e consapevole programma antropopoietico. Se così non fosse, il concetto di uomo nuovo si polverizzerebbe in una molteplicità indescrivibile di casi: a ogni istante le società producono infatti uomini nuovi, sia dal punto di vista biologico, sia dal punto di vista culturale. 8) Inteso come esplicito programma antropo-poietico, l’idea dell’uomo nuovo risulta essere in effetti un’eccezione, piuttosto che una regola. Di norma, le società studiate dagli antropologi non accampano pretese di questo genere. L’idea di uomo nuovo manifesta una hybris particolare, applicata appunto alla trasformazione dell’essere umano e alla formazione di un tipo di umanità inedito o comunque tale da stabilire una cesura profonda rispetto al passato. 9) Essendo un programma antropo-poietico a cui si annette un valore eccezionale, l’idea di uomo nuovo richiede un’applicazione particolarmente decisa, la quale comporta sia un taglio spesso violento rispetto al passato (l’abbandono o la distruzione dell’uomo vecchio), sia un forte impegno costruttivo rispetto al futuro. 10) Essendo un programma antropo-poietico molto impegnativo, l’idea di uomo nuovo suscita la percezione di ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione. È inevitabile che l’uomo nuovo abbia perciò i suoi “nemici”, sia interni sia esterni, identificabili in tutti coloro che per un motivo o per l’altro oppongono una qualche resistenza, anche se inconsapevole. Quanto più elevati sono gli obiettivi del programma, quanto più intenso è l’impegno e l’investimento di risorse, tanto più inquietanti e intollerabili sono i ­­­­­186

nemici, da inglobare, respingere o distruggere. È qui che sorgono le “tragedie degli uomini nuovi” e i loro devastanti furori. 5. Tragedie degli “uomini nuovi” Come abbiamo già visto, la modernità europea è tutta percorsa da aneliti di realizzazione dell’uomo nuovo: è con questa idea in testa che gli europei hanno intrapreso la conquista non solo del Nuovo Mondo (Pagden 2005: 67; Stannard 2001: 381), ma persino di se stessi. Abbiamo fatto ricorso a Bacon e al suo “regno dell’uomo” per far vedere come la modernità nasca con questo programma antropo-poietico che apprende e desume, trasformandolo, dal cristianesimo. Si potrebbe esplorare la rivoluzione francese per capire come questa idea abbia ispirato, in diversi momenti, la “furia” distruttrice che l’ha caratterizzata, costituendo così a sua volta un modello per la “violenza” e il “terrore” anche di altre rivoluzioni (Mayer 2000; Fritzsche e Hellbeck 2009: 304). Preferiamo però concentrarci ora su un periodo in cui si assiste a un’esplosione contagiosa dell’idea di uomo nuovo da un capo all’altro dell’Europa, come una sorta di viatico a quell’immane – e fino a quel punto davvero inedita – tragedia che fu la prima guerra mondiale. La ricostruzione di Emilio Gentile (2008) è particolarmente utile, in quanto ci fa vedere come il mito dell’uomo nuovo si combini strettamente con una diffusa concezione della guerra, intesa come ciò che “fa nascere” la nuova umanità. È talmente pressante e affascinante il mito dell’uomo nuovo che persino pensatori assai poco bellicosi, come lo storico svizzero Jacob Burckhardt, non esitano a parlare dell’«azione benefica della guerra»: essa fa infatti scaturire «la più nobile virtù eroica», il «vero rinnovamento della vita», eliminando tutto ciò che è vecchio e strappando le masse da «esistenze stentate, miserabili e paurose» (Gentile 2008: 106-107). Da Burckhardt la guerra è addirittura definita come «qualcosa di divino». A sua volta, il musicista tedesco Richard Wagner invoca la «gran dea della rivoluzione», in quanto «questa madre» avrebbe il potere di rinnovare «eternamente [...] l’umanità»: il carattere terribile e distruttivo delle rivoluzioni è esattamente ciò che «può fare delle nostre bestie civilizzate ancora degli “uomini”» ­­­­­187

(2008: 102-103). Anche per lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij la guerra è una «cosa utilissima», in quanto «rinfresca gli uomini», «dà sollievo all’umanità»; «senza la guerra il mondo [...] si trasformerebbe in una massa vergognosa» (2008: 115-116). Nella ricostruzione di Gentile, il momento culminante è rappresentato da Friedrich Nietzsche, il quale invoca la costruzione di un uomo nuovo, che vada “oltre” l’uomo moderno, ossia un Übermensch, «una razza dominatrice», per la quale «conquista, avventura, pericolo, dolore sono diventati un bisogno», per la quale la guerra è un atto «indispensabile», i cui «istinti virili [...] gioiscono della guerra» (2008: 142-145). Poi la guerra scoppia davvero. Molti giovani volontari vanno al fronte portandosi nello zaino i libri di Nietzsche. A Berlino, a Vienna, a Parigi, a Londra, a Pietroburgo folle in delirio esultano per l’inizio della guerra. Il sociologo Max Weber dichiara: «questa guerra è grande e meravigliosa»; in Italia, Benedetto Croce, pur essendo contrario all’intervento, sostiene che «le guerre sono azioni divine» (2008: 142-145). Tutti sanno che le guerre significano distruzione e morte. Perché allora questa grande voglia di guerra? La risposta può forse essere intravista in ciò che le guerre si ritiene siano in grado di produrre, cioè l’uomo nuovo, un uomo rigenerato. In effetti, che cosa di più violentemente incisivo e trasformativo di una guerra nella vita degli esseri umani? L’ideologia antropo-poietica tipica della modernità aggiunge poi questo elemento, e cioè che la guerra non si limita in qualche modo a trasformare gli esseri umani – come succede per tutti gli altri rituali antropo-poietici (capitolo II) –, ma li trasforma nell’“uomo nuovo”. Ovviamente, perché si possa raggiungere questo grande e inedito risultato occorre che la trasformazione sia anch’essa grande e inedita: non dunque una guerra qualsiasi, ma una Grande Guerra, e anzi una guerra mondiale, visto che la trasformazione che conduce all’uomo nuovo è una trasformazione che riguarda l’umanità intera. Per il filosofo tedesco Rudolf Eucken, la guerra con la sua «furia rigeneratrice» ridà vita e forza all’anima tedesca, ma essa viene fatta coincidere con l’anima dell’umanità: in vista di ciò, «ancora una volta» – egli afferma – «si infiamma il furor teutonicus» (2008: 217). Sul piano dell’ideologia antropo-poietica tutte le potenze in conflitto avevano fatto proprio questo obiettivo di «rigenerazio­­­­­188

ne dell’uomo moderno nella totalità della sua essenza e della sua esistenza», creando nel contempo il proprio nemico, trasformato a sua volta in un nemico dell’umanità: per tutte le potenze belligeranti la guerra si configura allora come una guerra santa, come «una crociata [...] per la difesa della civiltà e la salvezza dell’umanità» (2008: 133, 212). Molto significativa è l’analisi che Emilio Gentile ci propone. Dio viene posto alla testa degli eserciti in guerra e Cristo si trova tra i soldati nelle trincee: si tratta dunque di una «missione divina» (2008: 212), che è nel contempo un’antropo-poiesi divina, nel senso che è la stessa divinità a volere, sorvegliare e garantire questo processo di trasformazione dell’umanità (secondo il modello ispirato dal cristianesimo). Qui però non è soltanto Gesù, qui sono gli stessi esseri umani che si auto-sacrificano, rinnovellando in tal modo il «sacrificio del Cristo per la salvezza dell’umanità» (2008: 213). Ci sembra di poter dire che l’«analogia cristologica» – come viene chiamata da Gentile – comporti dunque un’innovazione rispetto al sacrificio della Croce: auto-sacrificandosi gli uomini assumono lo stesso ruolo di Gesù; sono essi stessi i protagonisti, e non più soltanto i beneficiari, di questa enorme e terribile antropo-poiesi che – secondo l’ideologia imperante – dovrebbe mettere capo alla realizzazione dell’uomo nuovo. Insomma, ancora più simili a Dio: sacrificarsi come Gesù, e da questo sacrificio far nascere una nuova umanità. Sotto un certo profilo, la Grande Guerra assume l’aspetto di un vasto e partecipato rituale di “iniziazione”: non soltanto un evento che trasforma gli individui, come nei classici e tradizionali riti di passaggio, ma una «prova» che dà «inizio» a una «nuova epoca» dell’umanità. A differenza del cristianesimo, la Grande Guerra mette in campo direttamente gli stessi esseri umani come fabbricatori dell’uomo nuovo: in questo modo essa può essere accostata ai rituali antropo-poietici delle società “non-moderne”7. A differenza, però, dei rituali antropo-poietici “non-moderni”, il punto è che la Grande Guerra non è stata affatto un rituale, ma   Preferisco usare l’espressione “non-moderne” (anziché “pre-moderne”) per designare le società originariamente estranee al progetto della modernità, anche se poi travolte dalla modernità europea e occidentale. Sul modo in cui ho affrontato la problematica della modernità in antropologia, mi sia consentito rinviare ad altri scritti (Remotti 1999; 2009: cap. VI). 7

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un’enorme carneficina. In netta continuità con il cristianesimo, la Grande Guerra assume – agli occhi dei suoi ideologi – il carattere di un evento epocale e generatore di una nuova umanità, un evento però dove l’amore (agape), che san Paolo ritiene essere la chiave di volta dell’uomo nuovo, viene sostituito del tutto dalla violenza e dalla distruzione. La modernità, quale si esprime nell’ideologia della Grande Guerra, fa propria la profonda esigenza di un rinnovamento generale; ma anziché affidare a Dio questo compito immane – oppure ridurlo alla portata dei rituali antropo-poietici, come avviene nelle società non-moderne – lo attribuisce agli stessi uomini, dando luogo alle spaventose tragedie di cui la Grande Guerra è stata un’esemplificazione estrema. La Grande Guerra è “la” tragedia dell’antropo-poiesi moderna. Lungi dal rigenerare l’uomo nuovo, essa «si rivelò tragicamente diversa» dal mito che l’aveva ispirata: i corpi trucidati; la «carneficina di massa senza senso», di cui parlava Blaise Cendrars; «i cadaveri in putrefazione» che «milioni di soldati ebbero davanti a sé per anni»; in sintesi «l’orrore della Morte e della Putrefazione», per usare le parole di Ernst Jünger, oltre alla «stupidità indicibile» della guerra di posizione, furono i motivi per cui ben presto «l’entusiasmo scomparve», lasciando il posto alla «delusione» di «un tragico risveglio» (2008: 229, 247, 238, 233, 231). Il mito dell’uomo nuovo miseramente infranto: non la rigenerazione, ma la degenerazione e la disumanizzazione sotto gli occhi di tutti. L’Europa sbrana se stessa, e visto che l’Europa si identifica con l’umanità intera, lo spettacolo della Grande Guerra è quello «dell’umanità che divora se stessa» (2008: 257). C’era dunque da aspettarsi che la Grande Guerra, anziché essere fucina della nuova umanità, si tramutasse nella fossa dell’uomo nuovo: il tramonto e il seppellimento di un grande mito. Se questo è vero per molti che ebbero la ventura di parteciparvi, il mito però tenacemente sopravvisse, e anzi si può persino dire che la Grande Guerra, proprio in virtù delle sue devastanti esperienze di disumanizzazione, costituì una sorta di rilancio di questo stesso mito, rendendo in alcuni «ancor più convinta e decisa l’aspirazione a far nascere un uomo nuovo e migliore» (2008: 235). Il bisogno antropo-poietico – su cui abbiamo insistito in tutto questo libro – è troppo radicato nella condizione umana perché lo si possa abbandonare dopo i fallimenti a cui può andare incon­­­­­190

tro. Come avremo modo di vedere nel prossimo capitolo, vi sono società che mettono in conto la possibilità del fallimento, del non riuscire a “fare umanità”. L’ideologia moderna dell’uomo nuovo – un’ideologia irruente e “furente” – non contempla e non ammette la possibilità dello smarrimento e dell’errore: essa dà luogo a un esperimento grandioso, a una prova dal carattere terribile e generale, lasciando poi sul terreno e nelle coscienze un’umanità perduta e sbandata. Quanto più il fallimento è stato devastante, quanto più l’umanità è stata stritolata dall’esperienza della guerra, tanto più il bisogno di un modellamento e di una “guida” che lo garantisse nei suoi presupposti, nei suoi obiettivi e nei suoi processi di realizzazione si è fatto impellente. I regimi totalitari – dal fascismo italiano, al nazismo tedesco, al comunismo sovietico – si incaricarono di riprendere il mito dell’uomo nuovo, di formularne nuove e anche divergenti versioni, e di provvedere al bisogno antropo-poietico, che sorgeva dal profondo disorientamento delle masse, con l’imposizione di modelli di umanità chiari, definiti, rigorosi (dall’abbigliamento al comportamento, dal modellamento dei corpi a quello delle anime, dalle parole alle idee, dalle vite individuali ai movimenti delle masse). In un certo senso possiamo dire che la tragedia collettiva e generalizzata della Grande Guerra, anziché indurre a rivedere il programma antropo-poietico, ridimensionandone la portata, rinunciando al mito dell’uomo nuovo, è stata vissuta come un’enorme e prolungata esperienza di “margine”, secondo lo schema dei rituali di passaggio che gli antropologi studiano nelle società “non-moderne”. Lo schema dei rituali di passaggio, elaborato nel 1909 da Arnold Van Gennep, è molto semplice: esso prevede una fase pre-liminare di «separazione», una fase liminare di «margine» e una fase conclusiva o post-liminare di «aggregazione» (Van Gennep 1981: 10-11). Abbiamo già detto che la Grande Guerra non è stata certo un rito, tanto meno nel senso di una guerra ritualizzata (come spesso vediamo nelle società “non-moderne”). Eppure ha tutte le caratteristiche del “margine”, cioè di un’esperienza di “sospensione dell’umanità”, con il dolore, la violenza, la sofferenza, il disorientamento, la morte che questa sospensione comporta e con lo sbocco terminale in una fase di “aggregazione”. I regimi totalitari si sono in effetti imposti con la certezza “vitale” della costruzione definitiva e positiva dell’uomo nuovo. ­­­­­191

La domanda con cui Simona Forti interpreta la problematica sollevata da Hannah Arendt circa le “origini del totalitarismo” – «da dove deriva la hybris costruttivistica di queste ideologie, la loro ambizione a costruire ex novo l’umanità?» (Forti 2004: xv) – può forse trovare una risposta nella disorientante esperienza di “margine” e di “sospensione di umanità” quale è stata per l’Europa la prima guerra mondiale. Come la stessa Arendt ha voluto sottolineare, i regimi totalitari hanno inteso «“stabilizzare” gli uomini», fornendo indiscutibili certezze circa le leggi della natura o della storia di cui quegli stessi regimi vogliono essere la «realizzazione» (Arendt 2004: 636). Dopo il profondo disorientamento della guerra, i regimi totalitari “assicurano” che l’uomo nuovo non solo può, ma deve essere costruito, a tutti i costi. La posta in gioco (niente meno che un nuovo genere di umanità) è troppo alta, perché l’argomento possa essere dato in pasto al dibattito, alle critiche, alle contestazioni, ai dubbi. L’uomo nuovo viene ovviamente inteso in modi diversi dai diversi regimi totalitari8, ma praticamente identico «è il movimento [...] che individua i nemici dell’umanità contro cui scatenare il terrore» (2004: 636). Potrà sembrare strano, se non addirittura blasfemo quanto ora si dice, ovvero che il terrore è molto umano, non appena andiamo alle sue radici antropo-poietiche. Il terrore è disumano nel suo manifestarsi ed è disumanizzante nei suoi effetti; ma le sue radici sono fin troppo umane. “Occorre” che sia umano per poterlo comprendere. Occorre capire come e perché si arriva al terrore: una serie di azioni di non poco conto e che costano anche a chi le pratica. Alla base di questi fenomeni ci può condurre san Pao­ 8   Importante è lo studio comparativo che gli storici Peter Fritzsche e Jochen Hellbeck hanno dedicato al concetto di “uomo nuovo” nella Russia di Stalin e nella Germania nazista, ponendo in luce la diversità di impostazione tra il programma di «liberazione dell’intera umanità» da parte del comunismo sovietico e il programma di creazione di una «razza superiore» da parte del nazismo, e dunque da un lato un programma che si affida maggiormente alle “forze” storiche e privilegia soprattutto la formazione intellettuale da affidare agli scrittori (celebre la definizione che ne diede Stalin come «ingegneri di anime» [Westerman 2006: 34]) e dall’altro un programma che pone al centro il corpo, la biologia, le virtù guerriere (Fritzsche e Hellbeck 2009: 302 sgg.). Approfondimenti significativi sulle antropologie di nazismo e stalinismo possono essere trovati inoltre in Conte ed Essner (2000) e in Hoffmann (2011).

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lo, allorché afferma che le «tradizioni umane» sono «destinate a logorarsi» (Colossesi 2, 8 e 22 – La Bibbia 1987: 1800). È molto probabile che, alla base delle rivendicazioni o delle aspirazioni a un’umanità nuova e inedita, ci sia un forte logoramento antropopoietico. Possono essere diverse le cause del logoramento: forme di umanità non più credibili per una sorta di entropia o di implosione interna, o forme di umanità distrutte per cause esterne. Quanto più accentuato è il logoramento, tanto più seducenti sono le certezze fornite da una formula come quella dell’uomo nuovo. La formula di san Paolo – quella del cristianesimo – si avvale della fede e si affida a Dio. Le formule moderne predicano un uomo nuovo oltre il cristianesimo (molto spesso anche in conflitto dichiarato con questa e con altre religioni): l’uomo nuovo non è più opera di Dio, ma dell’uomo, solo dell’uomo. Non c’è più un Dio che fa da garante. L’uomo si sostituisce a Dio: prende il posto di Dio nel creare il mondo con la sua tecnologia e nel creare se stesso con tecniche antropo-poietiche. Si assiste così a una sorta di “deificazione” di coloro a cui fanno capo i programmi di realizzazione dell’uomo nuovo. Delirio e hybris aumentano, così come aumenta l’esigenza di fornire certezze indiscutibili. Tolto di mezzo Dio, diventa assai più difficile e temeraria l’impresa dell’uomo nuovo. Ma proprio per questo occorre mettere a tacere dubbi e incertezze. Quanto più radicale è l’uomo nuovo (quanto più gli ancoraggi con il passato o con altre esperienze umane vengono tagliati), tanto più esso va incontro all’ambiguità profonda delle sue certezze: quanto più l’uomo nuovo è “nuovo”, tanto più esso racchiude in sé un’incertezza inesorabile, che nasconde con il terrore. Il terrore dell’uomo nuovo è lo strumento con cui vuole annichilire e distruggere non semplicemente gli altri, il nemico esterno o interno, ma il nemico più interno che possa esserci, cioè il suo stesso terrore, la paura del suo vuoto, del suo profondo disorientamento, del suo fallimento. Anche in Arjun Appadurai c’è un nesso intrinseco tra terrore e incertezza: la «frenesia» della violenza e della «furia» genocidaria non sono infatti da ricondurre a sentimenti di appartenenza “tribale”, a qualcosa di “primordiale” (come avrebbe voluto De Martino [§ 1]), ma alle «incertezze» tipiche del mondo contemporaneo per quanto riguarda la definizione di “noi” e della nostra identità (Appadurai 2001: 192; 2005: 41). «Queste forme di incertezza» – sostiene Ap­­­­­193

padurai (2005: 63) – «pretendono come compensazione la forma peggiore di certezza, quella certezza che ci fa sentire “sicuri da morire”». Secondo il commento di Fabio Dei (2005: 42), «queste forme di violenza sono un modo per estrarre “certezza” da una situazione di angosciosa incertezza». Tesi molto condivisibili, ancor più se le rapportiamo all’incertezza antropo-poietica, soprattutto quando questa – come nella modernità – viene nascosta e prodotta da progetti antropo-poietici “oltre-che-umani”. Nel Novecento vi è in effetti un’esplosione del mito dell’uomo nuovo: anche fuori dell’Occidente la modernità viene acquisita con l’idea delirante di costruire ex novo un’umanità perfetta e, nel frattempo, di distruggere – come era stato imposto alle Guardie Rosse di Mao Tse Tung – tutto ciò che riguarda il passato. Il periodo della rivoluzione culturale della Cina di Mao non è solo terrore e devastazione (una gigantesca caccia alle streghe, come è stata definita da Marie Claire Bergère [1989]): è anche spaventoso caos e disorientamento, a cui si tenta di porre rimedio, oltre che col terrore, con una sorta di deificazione della guida suprema (culto della personalità, enormi raduni di massa che alcuni hanno paragonato alle radunate naziste a Norimberga [Fairbank 1988]). Nella caoticità è perfettamente rinvenibile il disorientamento, un radicale “che fare?” che curiosamente troviamo all’inizio del mito comunista e sovietico dell’uomo nuovo9: terrore e furia devastatrice hanno la funzione di coprire con una pietra tombale il dubbio, provvedendo con azioni subitanee, imperiose, rivoluzionarie, insensate a dare l’illusione della costruzione dell’uomo nuovo. A sua volta, la Kampuchea Democratica di Pol Pot e dei Khmer 9   Che fare? è il titolo del romanzo che Nikolaj Gavrilovič Černyševskij scrisse in prigione tra il 1862 e il 1863 (Černyševskij 1974). In omaggio esplicito a Černyševskij, Lenin intitolò allo stesso modo il libro del 1902, in cui espose la sua concezione del partito rivoluzionario (Lenin 2002). Il sottotitolo del romanzo di Černyševskij era “Dai racconti sugli uomini nuovi”. Ispirato al pensiero degli utopisti del socialismo francese, Claude Henri de Saint-Simon e Charles Fourier, il romanzo vuole essere la descrizione di individui nuovi, moralmente puri, razionalmente organizzati, e perciò stesso «resi quasi indistinguibili gli uni dagli altri» (Fritzsche e Hellbeck 2009: 307). Il protagonista Rakhmetov, l’uomo nuovo che con la sua sobrietà, la sua astinenza sessuale, la sua ginnastica quotidiana, il suo sottoporsi a pesanti lavori fisici, intendeva prepararsi alla rivoluzione, esercitò su Lenin un profondo condizionamento (Hoffmann 2011: 225).

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Rossi può essere considerata la sintesi estrema dei crimini, delle insensatezze, delle forme di disumanità a cui i tentativi di realizzazione di “uomo nuovo” possono dare luogo, soprattutto quando si considera l’esito spaventoso di “auto-genocidio” a cui ha messo capo nella Cambogia della seconda metà degli anni Settanta (Morellini 2005-2006), senza dimenticare «l’etica gentile» delle comunità cambogiane tradizionali (Hinton 1996). Dobbiamo allora rassegnarci alla malvagità innata – tenuta talvolta nascosta e sotto controllo – degli esseri umani o non conviene piuttosto risalire alla profonda umanità delle condizioni di avvio, ossia un bisogno estremo, e talvolta accecante, di antropo-poiesi, proprio quando il disorientamento è più atroce?

VI

Ma un uomo, che cos’è?

1. Meditazioni da un piccolo angolo di mondo C’è sempre un po’ di furore in ogni gesto antropo-poietico: una determinazione, una “decisione”, che è sempre in qualche modo un taglio, uno sfrondamento di possibilità, compiuto sulla base di una convinzione e di una scelta ormai assunta. C’è furore nell’operazione chirurgica della circoncisione a cui venivano sottoposti i ragazzi nande, in piena foresta equatoriale, durante l’olusumba, il rituale di iniziazione di cui tratteremo in questo capitolo. Ma questo capitolo ha lo scopo di fare vedere quanta distanza intercorra tra i furori antropo-poietici, terribili e sconvolgenti (tanto sul piano storico, quanto sul piano morale), di cui abbiamo finito or ora di occuparci (capitolo V), e un’impresa antropo-poietica, di assai più modeste dimensioni, dove il dubbio mitiga le certezze, il furore svanisce e ciò che emerge è un’antropo-poiesi soltanto umana. Nell’olusumba la divinità, pur invocata, non interviene per nulla nel modellamento e lascia gli esseri umani praticamente soli di fronte al loro compito antropo-poietico. Chi interpreta la religione come dispensatrice di certezze (oggetto di “fede” incrollabile, come la pistis che Paolo di Tarso esigeva per l’evento su cui si reggeva la “nuova” religione, ossia la resurrezione di Cristo) emetterà il solito giudizio svalutativo con cui gli europei hanno da sempre “inferiorizzato” le religioni africane tradizionali. Chi invece ritiene che il dubbio, l’incertezza, l’esitazione siano caratteri specifici, qualificanti e oltre modo apprezzabili, di molte religioni africane tradizionali (come hanno dimostrato, per esempio, Jack Goody [1988] e Marc Augé [2008]), sarà portato a cogliere nell’olusumba nande un modo istruttivamente diverso di intendere l’antropo-poiesi. Dopo le cupezze del capitolo V, vorremmo che ­­­­­196

questo capitolo finale ci desse modo di respirare un po’. La tesi che si intende illustrare è che il dubbio non soltanto è il fattore che attenua i furori antropo-poietici, ma è anche ciò che, collocandosi al centro dell’antropo-poiesi, la rende umana, definitivamente e soltanto umana: un’impresa a cui gli uomini non possono sottrarsi (come abbiamo ripetuto più volte), rispetto alla quale è inevitabile compiere scelte, decisioni, tagli, e che tuttavia può essere compiuta con spirito critico e persino auto-critico, non dunque con i furori dogmatici di chi ritiene di essere dotato di una “verità” antropo-poietica (graziosamente rivelata da una qualche divinità o duramente conquistata nella storia). Far vedere come si possa intendere diversamente il compito antropo-poietico è quello che si cercherà di fare in questo capitolo, proponendo fin da subito la lettura di un canto-preghiera che i circoncisori nande rivolgevano alla divinità prima di iniziare l’operazione della circoncisione. Ci troviamo tra i baNande, un’etnia del Nord Kivu, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (denominata un tempo Zaïre e prima ancora Congo Belga), un’etnia di coltivatori di lingua bantu, la cui caratteristica storica predominante, che ha segnato per buona parte la loro cultura, è stata quella di essere distruttori di foresta: abakondi, “abbattitori di alberi”, è infatti il termine che i baNande prediligono per descrivere se stessi. Come abbiamo già visto nel capitolo V, c’è un furore nande in questa loro “lotta” contro la foresta. Là dove essi vivono, il buNande (il territorio dei baNande) è infatti ormai quasi del tutto spoglio di foresta: omusitu, la grande foresta equatoriale inizia là dove termina il loro territorio, anche se in alcuni punti è ancora possibile vedere “sopravvivenze” di foresta e in altri si può ancora assistere al furore della lotta contro la foresta. Come presso altre società africane, pure presso i baNande un segno distintivo dell’essere uomini è la circoncisione (olusumba), ed è ovviamente plausibile un nesso assai significativo tra il “tagliare” il prepuzio per divenire abakondi e il “tagliare” la foresta, da parte degli stessi “abbattitori di alberi”, come segno di acquisizione della più matura forma di umanità. Oggi però la circoncisione si pratica in modo assai poco rituale negli ospedali o, più spesso, nei dispensari della regione. Un tempo essa veniva praticata dai circoncisori in foresta (ovviamente senza anestesia) e costituiva il nucleo sostanziale del rituale di iniziazione dei giovani nande. L’ultima volta che l’olusumba (il rituale ­­­­­197

di iniziazione tradizionale) è stato praticato – almeno nella zona dove chi scrive ha condotto le sue ricerche (nel Bukenye, una delle chefferie dei Baswagha) – risale agli anni Quaranta del Novecento1. Sono ormai trascorsi più di settant’anni: l’olusumba per gli stessi baNande è un lontano e sempre più evanescente ricordo del passato. Sul loro territorio sono passati quei furori antropo-poietici (identificabili nel cristianesimo e nella modernità), di cui abbiamo trattato nel capitolo precedente e che hanno reso obsoleti molti aspetti della loro cultura. Anche per questa inesorabile evanescenza è importante cercare di ricostruire alcuni momenti di questo rituale: è importante in primo luogo per i baNande al fine del recupero quanto meno di una memoria storica; è importante per un sapere etnologico riguardante questa parte dell’Africa; è importante infine per la teoria antropo-poietica che cerchiamo di presentare in questo libro. Analizzato in un certo modo, l’olusumba contribuisce a gettare una luce preziosa sulla “visione antropologica” insita nella cultura nande e nel contempo a farci riflettere sul confronto, e sullo scontro, con il cristianesimo, a cui i baNande sono stati, loro malgrado, costretti. Si è trattato – potremmo dire – di un confronto implicito tra due tipi di programmi antropo-poietici nettamente divergenti, persino opposti; e si è trattato di uno scontro impari tra due culture, tra due visioni del mondo, da cui quella nande è uscita senza dubbio soccombente. Il segno più impressionante della gravità della sconfitta è che essa non viene nemmeno intesa come tale, tanto ne sono stati interiorizzati i motivi. Chi oggi tra i baNande – in una cultura così capillarmente cristianizzata, dove è stato compiuto un esteso lavoro distruttivo nei confronti del passato, in nome di una modernità in cui si coniugano bellamente capitalismo e cristianesimo – è in grado di rivendicare la dignità dell’olusumba e il suo profondo significato antropo-poietico? Quello che si tenta di fare in questo capitolo è dunque un recupero culturale non soltanto verso un angolo di mondo geograficamente lontano dai centri di potere internazionali, ma anche verso un tratto di storia irrimediabilmente sepolto da quelle che si possono chiamare le macerie della modernità. Il recupero è almeno in parte possibile 1   I baNande sono attualmente suddivisi in quattro grandi chefferies: i Bashu, i Baswagha, i Bamate, i Batangi.

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e si iscrive in quel tipo di operazioni da attribuire a un’antropologia che senza esitazioni possiamo chiamare “inattuale” (Remotti 2012). Frugare nei più distanti angoli di mondo e nelle macerie della storia, assumendo un atteggiamento à rebours, una posizione decisamente controcorrente, alla ricerca di “ciò che non siamo” o di ciò che altri “non sono più” o “non hanno più”, può essere particolarmente utile e significativo, specialmente se – come si è cercato di dimostrare nel capitolo V – la modernità lascia molto a desiderare sul piano antropo-poietico e il cristianesimo propone un’antropo-poiesi le cui certezze di fede si sono rivelate quanto mai urtanti contro le altre forme di umanità. Tra le macerie dell’olusumba nande, tra i ricordi di chi vi aveva partecipato, è stato trovato un breve canto che i circoncisori rivolgevano a Katonda, la loro divinità, sotto forma di preghiera. La lettura e l’analisi di questo canto consentiranno di far emergere una inaspettata visione antropologica nande e un modo particolarmente prezioso di intendere il compito antropo-poietico. 2. Richieste rivolte alla divinità e agli antenati Il canto-preghiera, pubblicato per la prima volta in francese da uno studioso nande, Athanase Waswandi (1981: 99-100), è stato da lui raccolto nel villaggio di Luhiri, nei pressi di Mulo (Bukenye). Poiché abbiamo già provveduto a fornire un’analisi circostanziata del rituale olusumba in cui si colloca il testo (Remotti 1996c), qui ci limiteremo ad alcuni aspetti essenziali. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13

O dio dei nostri antenati, Katonda In una casa, in una famiglia, in un villaggio Un uomo, che cos’è? Noi chiediamo il vostro ritmo, il ritmo degli iniziati Un uomo, che cos’è? E voi, gli antenati dei nostri genitori Ecco i nostri figli: Essi arrivano da ogni dove Confondono ancora le radici e le foglie dell’albero. Che il nostro viaggio sia la vostra iniziazione Che il kapipi scaraventi a terra gli incirconcisi e gli stregoni Che il nostro viaggio generi degli uomini O dio Katonda, insegnaci ad abitare queste colline. ­­­­­199

Nel verso 1 è importante sottolineare il termine Katonda con cui viene denominata la divinità: derivante dal verbo eri-tonda, questo nome designa una funzione significativa della divinità stessa, che è quella di “mettere ordine”. Il dio Katonda è il garante dell’ordine nel mondo nande: non solo nel presente, ma anche nel passato («o dio dei nostri antenati»). Tanto nel passato, quanto nel presente i baNande si rivolgono a Katonda perché ci sia ordine nel loro universo. Sono dunque tre i termini in questione: a) il “noi” dei circoncisori nande, che nel presente stanno per procedere all’operazione dell’olusumba (circoncisione e iniziazione); b) gli antenati, a cui ci si ispira nel momento in cui si dà avvio al rituale di formazione dei giovani; c) la divinità, che nel presente e nel passato dovrebbe garantire l’ordine nella società e nella cultura nande. Nel verso 3, alla divinità si chiede: «un uomo, che cos’è?» (in kinande: omundu, niki?). Alcune precisazioni vanno fatte. I circoncisori rivolgono questa domanda non agli antenati, ma alla divinità, e in particolare alla divinità che ha la funzione di garantire l’ordine nel mondo: si va oltre, per così dire, gli antenati, allorché si pone questa radicale questione antropologica. Inoltre, la domanda non è generica, ma collega il “che cos’è l’uomo” con i luoghi in cui i baNande abitano: una casa, una famiglia, un villaggio, ovvero con i punti più significativi e domestici del loro territorio, là dove hanno costruito la loro specifica forma di umanità, sconfiggendo e distruggendo la foresta. È in questi luoghi, ovviamente, che si realizza l’ordine nande: è in questi luoghi soprattutto che si decide l’umanità nande. Ma, appunto, omundu, niki? Ovvero: che cos’è un uomo nell’ordine culturale nande? Che tipo di uomo è quello che prende forma nei luoghi dell’universo nande? Se i circoncisori si rivolgono alla divinità per chiedere quale sia il tipo di umanità che si realizza nella cultura nande (nei loro villaggi, nel loro territorio, sulle loro colline), essi chiedono poi agli antenati il loro ritmo, «il ritmo degli iniziati» (verso 4). Sono dunque due le richieste che vengono rivolte nei primi quattro versi: la prima – per sapere – è diretta alla divinità; la seconda – per ottenere – è invece indirizzata agli antenati. Agli antenati i circoncisori richiedono il «ritmo», il ritmo che è proprio degli iniziati e che contraddistingue la loro condizione, ovvero coloro che hanno raggiunto lo status di uomo a pieno titolo. L’umanità nande ­­­­­200

è contrassegnata dal ritmo: è necessario acquisire il ritmo giusto per accedere all’umanità più autentica. La precisazione necessaria su questo punto riguarda in effetti il nesso ritmo/umanità, ovvero l’incidenza della musica – e in particolare della musica ritmica, quale si esprime attraverso la danza e il tamburo – nel “dare forma” all’umanità (capitolo IV, § 2, categoria viii). È agli antenati che ci si rivolge per ottenere il ritmo, in quanto esso è tipico della cultura nande e in effetti viene trasmesso – insegnato e appreso – da una generazione all’altra proprio attraverso l’olusumba. Non si tratta di un ritmo generico, ma di una danza particolare – il munde – che i giovani apprendono durante l’iniziazione e che verrà riprodotta come segno distintivo degli iniziati (Facci 1991). Ma apprendere il ritmo che qualifica l’umanità (o meglio la virilità) nande, non significa avere soddisfatto la domanda iniziale: «un uomo, che cos’è?», e in particolare: un uomo nande, che cos’è? Se dagli antenati i baNande ricavano il contenuto della loro specifica umanità, rimane però il problema più generale di quale sia il suo specifico significato e il suo valore: e la risposta a questa domanda – se mai si otterrà – potrà essere data soltanto dalla divinità che è garante dell’ordine nel mondo. Oltre tutto, occorre tenere presente che il ritmo richiesto agli antenati è il «ritmo degli iniziati», una qualità dunque maschile, un contenuto che inerisce alla forma maschile dell’umanità nande, mentre la domanda omundu, niki?, rivolta alla divinità, riguarda l’essere umano in generale, essendo omundu la persona umana sia maschile sia femminile. A Katonda si chiede di sapere non come sono fatti gli “uomini” (i maschi) nande, ma come è fatto e che cos’è un essere umano più in generale, al di là dunque della distinzione tra maschile e femminile e al di là forse della stessa specificità nande. Nei versi successivi (6-8) ci si rivolge di nuovo agli antenati per presentare loro i giovani che stanno per essere iniziati. Sono due gli elementi che caratterizzano questa presentazione: il fatto che essi provengano «da ogni dove», cioè dai diversi villaggi della regione, e il fatto che siano ancora immaturi, incapaci di “distinguere” le cose più ovvie, quelle del mondo naturale di più immediata osservazione. «E voi, gli antenati dei nostri genitori, ecco i nostri figli», raccolti dai più sperduti villaggi, strappati al loro mondo infantile (il loro villaggio, le loro madri), trascinati in foresta mentre ancora sono intellettualmente e psicologicamente ­­­­­201

immaturi: qui, nella foresta, lontano dal mondo della loro cultura, terrorizzati dall’idea della circoncisione, dovranno affrontare un lungo periodo (sei mesi) di prove e di sacrifici. 3. L’avventurosità del viaggio Si comprende allora l’auspicio del verso 10: «Che il nostro viaggio sia la vostra iniziazione». L’olusumba si presenta qui come un viaggio, secondo una metafora (quella del viaggio, appunto) con cui in diverse società vengono intesi i rituali di iniziazione. È un viaggio, in primo luogo perché dai villaggi sulle colline del buNande ci si reca in piena foresta; perché per diverso tempo (sei mesi, come si è detto) si lascia la propria casa, le proprie abitudini, il proprio mondo; perché si affrontano prove, sacrifici, ostacoli di ogni tipo, a cui non si era abituati; perché infine è un passaggio (un “rituale di passaggio”) che conduce da una condizione infantile o comunque di immaturità a una condizione di maturità maschile. Ma il fatto che il concetto del viaggio venga espresso come un auspicio trasmette un’altra componente: quella del rischio, del pericolo, dell’avventurosità, della non totale sicurezza della meta che si intende raggiungere. L’iniziazione, la «vostra iniziazione», quella che consente di apprendere dagli antenati i loro insegnamenti, il loro “ritmo”, finanche il loro mistero (il tema del mistero caratterizza anche semanticamente il termine olusumba), non è di per sé un’impresa garantita, è un’avventura. Nel viaggio si sa da dove si parte, ma non si sa con precisione dove si arriverà, non si è sicuri se si raggiungerà il fine che ci si era prefissi: si può anche fallire nell’iniziazione. A tal fine, onde rendere la via più sicura, occorre eliminare due ostacoli, i quali sono raffigurati al verso 11 dagli incirconcisi (evitsule) e dagli stregoni (avaloyi). Si tratta in entrambi i casi di figure “devianti”: i primi, in quanto non essendosi sottoposti alla circoncisione, non hanno potuto apprendere e fare propri i contenuti dell’umanità/virilità nande; i secondi, in quanto portatori del male, distruggono gli esseri umani e i loro rapporti sociali, costituendo una minaccia per l’umanità nande. Occorre con “furore” farli fuori, scaraventarli a terra, affinché la loro presenza non sia di ostacolo al cammino verso l’umanità delineato nell’olusumba. E il kapipi – uomo alto e forte, che porta ­­­­­202

il nome di uno spirito terribile (kapipi, per l’appunto), e che è a capo dell’orchestra dell’iniziazione, seminando il terrore tra i non iniziati (gli incirconcisi) – si incarica di liberare il cammino da questi ostacoli, da questi elementi di rischio e di pericolo. Il verso 12 è poi l’esplicitazione chiara dello scopo a cui dovrebbe mirare il viaggio dell’olusumba: «Che il nostro viaggio generi degli uomini». Anche qui, l’auspicio svela un’incertezza, e anzi un’inquietudine profonda. Se già nel verso 10 («Che il nostro viaggio sia la vostra iniziazione») si intravedeva la consapevolezza di ostacoli e deviazioni che potrebbero frapporsi al raggiungimento dell’obiettivo, nel verso 12 la coscienza dei rischi di fallimento del viaggio diviene più acuta e più intensa: in primo luogo, in quanto viene ripetuta («Che il nostro viaggio...»); e in secondo luogo, perché l’obiettivo che si intende raggiungere con il viaggio iniziatico appare ancora più alto e impegnativo. Nel primo caso (verso 10), l’obiettivo è per così dire interno alla cultura nande: si tratta infatti di acquisire l’iniziazione degli antenati, ovvero i contenuti culturali che vanno trasmessi da generazione a generazione (nel verso 4 simbolicamente riuniti nel «ritmo degli iniziati»). Nel secondo caso (verso 12), l’obiettivo è invece più generale: ciò che si tratta di raggiungere è niente di meno che la stessa umanità («Che il nostro viaggio generi degli uomini»). 4. Dubbi e perplessità tra ecologia e antropologia L’idea che il rituale dell’olusumba sia generatore di uomini è assolutamente centrale: è l’obiettivo che dà senso sia all’intero cantopreghiera sia al rituale stesso. In base a questa idea, l’olusumba rientra nella serie assai vasta di rituali che con diversi collaboratori abbiamo interpretato alla luce dell’antropo-poiesi o dell’antropogenesi (Remotti 1996c; 1997; 2000; 2002; 2003; Allovio 1999; Favole 2000; Allovio e Favole 1996; Forni, Pennacini, Pussetti 2006; Pussetti 2005). Ma ciò che qui soprattutto si vuole porre in luce è la connessione tra il costruire gli uomini e l’abitare. Il canto infatti si conclude (verso 13) con un’invocazione rivolta ancora alla divinità: «O dio Katonda, insegnaci ad abitare queste colline». È importante rendersi conto che, se nei primi versi ci si rivolge al dio Katonda per sapere “che cos’è l’uomo”, il ricorso a Katonda affio­­­­­203

ra altresì nella conclusione del canto, allorché si prospetta l’idea di generare (antropo-genesi) o di fabbricare (antropo-poiesi) degli esseri umani e queste operazioni vengono collegate alle modalità di insediamento sulle colline. Del resto, la domanda “che cos’è un uomo” presentava anch’essa questo collegamento territoriale, questa dimensione ecologica: a Katonda si chiedeva che cos’è un uomo non in astratto, come se fosse una domanda metafisica, puramente speculativa, bensì più concretamente «in una casa, in una famiglia, in un villaggio» (verso 2), insomma su «queste colline» (verso 13). Il buNande è un territorio collinoso. Ma perché può essere così importante rivolgersi a Katonda per imparare ad abitare queste colline? Anche qui, come già quando si trattava di sapere “che cos’è un uomo”, si va oltre al sapere degli antenati. Non ci si rivolge agli antenati per sapere “che cos’è un uomo” e nemmeno per sapere come si fa ad abitare queste colline. È come se il sapere degli antenati – sia il sapere antropologico (che cos’è un uomo), sia quello ecologico (abitare le colline) – fosse ritenuto limitato, non del tutto soddisfacente. Gli antenati da tempo avevano abitato queste colline e avevano costruito – di generazione in generazione – un certo modello di umanità. Inoltre, la loro cultura, il loro sapere, i loro modelli di umanità (relativi al “che cos’è un uomo”) e per abitare queste colline vengono normalmente trasmessi attraverso i canali della comunicazione culturale, così come attraverso i rituali di iniziazione. Ma se ci si rivolge a Katonda per avere un più sicuro orientamento antropologico ed ecologico, ciò significa che il sapere degli antenati è posto in questione, ovvero è posta in questione la stessa cultura nande nei suoi risvolti antropo-poietici, insieme e inestricabilmente antropologici ed ecologici. L’ipotesi che qui si vuole avanzare è che i circoncisori nande siano portatori di un “dubbio” che cova nell’intimo della loro cultura, un dubbio che è ecologico e quindi anche antropologico. Il dubbio ecologico riguarda proprio l’abitare queste colline ed esso si manifesta nonostante l’insegnamento tradizionale degli antenati; più precisamente e paradossalmente – potremmo dire – esso nasce proprio dai modelli trasmessi dagli antenati. Da sempre i baNande si sono comportati in modo estremamente aggressivo (con furore distruttivo) nei confronti della foresta. Come abbiamo già visto, essi si sono autodefiniti nel passato e tuttora si autode­­­­­204

finiscono come abakondi, “abbattitori di alberi”, “distruttori di foresta”. Inoltre, questo essere abakondi ha sempre rappresentato il vanto della loro cultura, l’orientamento principale del loro “essere-nel-mondo”, un principio dunque di cui essere fieri e orgogliosi nei confronti delle altre etnie (e di fronte all’etnografo che li interrogava). L’essere abakondi costituisce il senso ed anche però il dramma della cultura nande, giacché distruggere la foresta – sia pure per farne campi e villaggi – non avviene impunemente. La selvaggina si allontana (e con essa la fonte più pregiata di proteine animali); e comunque la distruzione della foresta è pur sempre la distruzione di un intero mondo di vita, nel quale convivono, in una simbiosi complessa, alberi (i grandi alberi della foresta), animali e gruppi umani. Per quanto questi gruppi siano disprezzati dai baNande, essi sono la dimostrazione vivente di come si possa non solo coesistere, ma persino convivere con la foresta. Infatti, mentre i baNande distruggono del tutto (o quasi del tutto) la foresta2, altri gruppi di lingua bantu (baPere, baPakombe, baBila), vivendo dentro la foresta, ne distruggono porzioni circoscritte: si tratta – potremmo dire – di una forma di coesistenza che limita l’impatto distruttivo nei confronti della foresta. La testimonianza più viva di un modo nettamente alternativo di abitare quelle colline, sotto forma di una vera e propria simbiosi con la foresta, è data dai Pigmei baMbuti, i quali – tutto all’opposto dei baNande – considerano la foresta come loro “padre e madre”, e quindi come una realtà che occorre rispettare e amare. In sintesi, i baNande sono nella condizione di poter prendere in considerazione tre atteggiamenti alternativi verso la foresta: a) la loro stessa strategia di coltivatori “fuori” della foresta, definibile in termini di “respingimento” e di “distruzione”; b) la strategia dei coltivatori “in” foresta (baPere, baPakombe, baBila), che 2   La precisazione «quasi del tutto» nasce dal fatto che il modello tradizionale dei baNande non coincideva in effetti con una distruzione totale: essi volutamente praticavano qua e là una vera e propria “sospensione” della loro attività di abakondi, lasciando sopravvivere piccole zone di foresta, al fine di ricordare, più che la loro impresa di abbattitori e di conquistatori, la realtà naturale contro cui essa si è esercitata: questione di memoria – come essi stessi dicono –, ma anche di spirito critico e auto-critico. Non per niente ho interpretato queste “sospensioni” come una sorta di epoché, e quindi di “dubbio” (Remotti 2011: cap. VIII).

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possiamo definire in termini di “coesistenza”; c) la strategia dei baMbuti, i quali vivono “con” la foresta e che dunque è possibile definire come “convivenza”. Il dubbio ecologico, il quale dà luogo all’invocazione terminale del canto-preghiera, nasce proprio da questo confronto tra un atteggiamento quasi del tutto distruttivo (quello dei baNande), un atteggiamento in parte distruttivo e in parte conservativo (quello dei baPere, baPakombe, baBila), infine un atteggiamento del tutto conservativo (quello dei baMbuti) nei confronti della foresta. Tenendo presente questo dubbio, nonché il dramma e il disagio che ne scaturiscono, si può capire meglio perché i baNande si rivolgano non già ai loro antenati, bensì a Katonda, il dio dell’ordine, affinché spieghi loro come «abitare queste colline» (verso 13). 5. Rituali, sofferenza, coscienza critica L’obiettivo ora non è quello di approfondire ulteriori motivi e implicazioni di questo dramma ecologico, se non per richiamare l’attenzione, ancora una volta, sul nesso, che i baNande pongono quasi del tutto esplicitamente, tra le modalità dell’abitare e i tipi di umanità che ne scaturiscono: in virtù di questo nesso il dubbio ecologico dà luogo anche a un disagio e a un dramma antropologico (versi 3 e 5: omundu, niki?, «un uomo, che cos’è?»). La tesi che si vorrebbe sostenere, da un punto di vista più generale, è che qui tra i baNande, come anche altrove, presso molte altre etnie africane, i rituali di iniziazione non hanno affatto la funzione di rassicurare, né di trasmettere un senso di certezza delle proprie tradizioni, dei propri costumi, della propria cultura. Al contrario, i rituali di iniziazione paiono essere momenti di crisi e di riflessione, in cui si costringono i giovani a prendere coscienza di che cosa stanno per diventare. Per illustrare questo punto è opportuno rifarsi alle tesi di Victor Turner (1992), il quale aveva studiato i rituali di iniziazione, e in particolare il mukanda (il rituale di iniziazione maschile) degli Ndembu dello Zambia, ponendone decisamente in evidenza la funzione formativa, tesa a sviluppare la consapevolezza e il senso critico dei giovani che vi erano sottoposti. Come tutti i rituali, anche il rituale di iniziazione ndembu presenta certe sue rigidità; ­­­­­206

ma la durezza che lo contraddistingue (circoncisione e reclusione in foresta, anche in questo caso) è un modo per obbligare ad assumere, da parte dei giovani, una presa di coscienza critica rispetto alla società in cui dovranno svolgere la loro vita da adulti. L’interpretazione dei rituali di iniziazione che qui si offre potrebbe essere definita “discontinuista”, per contrapporla a una più tradizionale interpretazione “continuista”. Quest’ultima è caratterizzata dalla tesi secondo cui i rituali di iniziazione avrebbero sostanzialmente la funzione di garantire la continuità della trasmissione culturale da una generazione all’altra. Ma, se si trattasse soltanto di garantire la continuità delle tradizioni e del senso di appartenenza collettivo (noi baNande, oppure noi Ndembu, siamo così, ed è bene che i nostri giovani non facciano altro che divenire – come se fossero fotocopie – Ndembu, baNande e così via), la domanda allora sarebbe: “Perché tanto male? Perché infliggere tanta sofferenza fisica e morale? Perché intraprendere – come si è visto – un ‘viaggio’ rischioso? Perché esporre i giovani a pericoli di ogni genere?”. Non si tratterebbe forse di un sadismo antifunzionale? L’interpretazione continuista è assai poco adatta a rispondere alla domanda sul male apportato, sulla violenza, sulla sofferenza. Assai più soddisfacente risulta invece l’interpretazione discontinuista, secondo la quale i rituali di iniziazione sono il momento in cui i giovani, proprio attraverso la sofferenza, proprio attraverso il dolore, sono costretti a prendere coscienza di ciò che sta avvenendo. Si tratta di un prendere coscienza, e quindi inevitabilmente di assumere una certa distanza critica rispetto non soltanto a se stessi (passaggio – e quindi momento di crisi – da una condizione di vita a un’altra) e alla società in cui si sta per entrare ormai a pieno titolo, ma anche rispetto ai modelli di umanità che gli iniziatori sono in procinto di incidere sui corpi e sulle menti dei giovani. Il passaggio dallo stato di bambino o di ragazzo allo stato di persona matura non consiste soltanto in uno spostamento di categoria sociale: consiste invece in una vera e propria trasformazione, della quale il soggetto, e non soltanto gli iniziatori, occorre che siano consapevoli. Il dolore, la sofferenza, persino la violenza sono ciò che provocano la trasformazione, mentre nel contempo attivano ed esaltano la coscienza, fornendo la base ineliminabile della memoria dell’evento. Stefano Allovio ha scritto pagine molto ef­­­­­207

ficaci su questo argomento. Avendo preso a riferimento diversi autori che si sono soffermati sul dolore iniziatico (Clastres 1977: cap. X; Pitt-Rivers 1989; Pouillon 1989; Bloch 2005), Allovio non può non porsi la domanda che riguarda anche l’olusumba, oltre a un’infinità di altri riti antropo-poietici: «perché il dolore, perché bisogna far soffrire per costruire esseri umani?» (Allovio 2009: 49). La risposta viene cercata nell’esigenza di imprimere sul corpo individuale i segni del passaggio verso la forma di umanità socialmente condivisa, una sorta di documentazione e di certificazione autenticata dell’avvenuto cambiamento, così come, in modo parallelo, si sottolinea l’esigenza di bloccare l’oblio, opponendogli non solo i segni sul corpo, ma anche i segni nella mente: l’adrenalina è infatti un potente mezzo per fissare la memoria (2009: 54-56). Ciò che noi qui vogliamo rimarcare è però soprattutto la formazione della coscienza critica: il dolore più acuto, un’indimenticabile esperienza di sofferenza rappresentano momenti di “crisi” – di frattura, di rottura – da cui emerge in modo vivido un moto di consapevolezza. Il richiamo esplicito all’autocoscienza è un tratto che compare in molti rituali di iniziazione, sia in Africa sia altrove; e lo ritroveremo tra poco in un canto-preghiera dei baKonjo (un’etnia molto simile ai baNande, dislocata nella regione del Toro e sulle prime falde del Ruwenzori nell’Uganda occidentale), là dove si dice ai giovani di non andare al rituale “con la testa nel sacco”, ma guardando, osservando, prendendo coscienza. Sotto questo profilo, le osservazioni che si possono compiere sui rituali di iniziazione (africani e non) sono importanti per farci capire quanto meno due aspetti. Il primo (come abbiamo già accennato) coincide con l’idea di costruzione dell’essere umano, che questi rituali di iniziazione molto spesso comportano. «Che il nostro viaggio generi degli uomini» (verso 12): in questo verso è chiarissima la tesi “antropo-poietica”, secondo cui l’olusumba nande è – o dovrebbe essere – un rituale generatore di uomini, di umanità. Il secondo aspetto, su cui occorre richiamare l’attenzione, è che si diventa uomini prendendo le distanze dalla società in cui normalmente si vive, essendo costretti in qualche modo a uscirne fisicamente, e soprattutto mentalmente. Certo, è poi previsto il ritorno alla società: conclusi i sei mesi in foresta (per i baNande), si ritorna al villaggio. Però è importante ­­­­­208

sottolineare come questo ritorno sia appunto preceduto da un’uscita mentale e fisica, la quale comporta anch’essa la dimensione del distacco, della separazione, della sofferenza, della violenza, così come un entrare maggiormente in contatto con l’alterità, con ciò che la società ordinaria non è. Andare in foresta, oltretutto, per i baNande, significa davvero inoltrarsi “nell’alterità”, un’alterità geografica ed ecologica in primo luogo, giacché dove vivono i baNande non c’è quasi più foresta (il buNande è un territorio spogliato dalla foresta: è un territorio, dal punto di vista nande, fortemente umanizzato e culturalizzato). Andare in foresta significa proprio andare in un “altro” mondo, nel mondo opposto a quello dove di solito vivono gli uomini. C’è opposizione nel pensiero nande tra foresta e umanità, tra il luogo dove crescono gli alberi (i grandi alberi della foresta) e il luogo dove crescono gli uomini; e – come affermano i baNande – occorre impiantare gli uomini (con i loro villaggi e i loro campi) al posto degli alberi della foresta. Si tratta allora di togliere, di eliminare la foresta come realtà estranea e oppositiva rispetto all’umanità. Il rituale di iniziazione è però un andare nell’alterità, in un “altrove” che non è soltanto ecologico, ma anche etnologico e antropologico. Andare in foresta significa infatti entrare in contatto con “altre” società, le quali sono “altre” proprio perché vivono diversamente dai baNande: esse abitano diversamente quelle colline, hanno altri modelli di insediamento e dunque altri modelli di umanità. Intrisa di dolore, questa esperienza di “alterità” e di “alterazione” è fattore fondamentale di formazione di una coscienza più “elevata” e matura. 6. La discontinuità, la morte e il senso delle possibilità La presa di coscienza di cui si è parlato si ottiene infatti inoltrandosi nell’alterità, avvicinandosi, quanto meno, e intuendo che esiste un’alterità, apprendendo inoltre che questa alterità è tale perché adotta modelli diversi e alternativi di insediamento e di umanità. Che cosa significa apprendere l’alterità, se non lo sviluppo del senso delle possibilità (Turner 1992: 127)? Potremmo dire che ai baNande, come agli Ndembu studiati da Turner, è come se non interessasse avere dei giovani che diventano adulti semplicemente così, in modo automatico, spontaneo, naturale. Interessa invece ­­­­­209

che acquisiscano la forma di umanità nande o la forma di umanità ndembu in modo sostanzialmente critico, avendo considerato e riflettuto sulle possibilità alternative. Sottoponiamo ora alla lettura il brano preannunciato (già oggetto di analisi in Remotti 1996c: 229-230). Si tratta di un cantopreghiera dei baKonjo – raccolto e pubblicato da Kirsten Alnaes (1967: 457) –, il quale risulta molto significativo dal punto di vista dell’autocoscienza. 1 Nyamayingi, guarda con benevolenza i ragazzi 2 Padre mi hai dato questo consiglio: 3 Non andare [al rituale della circoncisione] con cocciutaggine 4 Colui che è cocciuto sarà preso nella trappola per gli animali grandi. 5 Fa un freddo tremendo nella valle della virilità 6 Il ragazzo non lo può sopportare 7 Padre mi hai dato questo consiglio: 8 Non andare [al rituale della circoncisione] con cocciutaggine 9 Colui che è cocciuto diviene un’esca nella trappola. 10 Io risposi: sto andando a trovare Byole, come se fosse un nostro parente. 11 La cocciutaggine non è più qui 12 I mandriani di capre sono ora mandriani dell’uccello della foresta ... 13 Padre mi hai dato questo consiglio: 14 Non andare [al rituale della circoncisione] con cocciutaggine Io sono stato mangiato dagli avvoltoi 15 16 La mia cocciutaggine è finita 17 Fa un freddo tremendo nella valle della virilità.

Dopo il primo verso – un’invocazione a Nyamayingi, che è una divinità femminile di tipo materno, affinché protegga gli iniziandi –, il tema della consapevolezza balza subito in evidenza con il consiglio del padre («non andare con cocciutaggine») che si ripete per ben tre volte nel brano prescelto. Cocciutaggine (eri-lume) qui significa anche eccessiva determinazione e sicurezza di sé, come di colui che non badando a nulla, senza guardarsi attorno, procede diritto, andando quasi con la testa nel sacco. Incurante dei pericoli, rischia infatti di finire nella trappola degli animali ­­­­­210

(verso 4), di fallire dunque l’obiettivo primario, che è quello della trasformazione in un essere umano consapevole e accorto. Ma la trasformazione è anche qui un processo che implica dolore e sofferenza, come è testimoniato dal verso 5 («Fa un freddo tremendo nella valle della virilità») e dal verso 17 che, in conclusione del canto, ripete il verso di prima. Il freddo di cui si parla è indubbiamente il freddo fisico della valle sulle falde del Ruwenzori, dove si svolgono i rituali di iniziazione (i giovani restano nudi durante e dopo la circoncisione), ma è anche il freddo psicologico della solitudine del giovane che, privo dell’abituale protezione dei genitori (in particolare della madre), è ora costretto ad affrontare una situazione terribile, in cui si profila minacciosa persino la morte. Al verso 10 il giovane afferma: «sto andando a trovare Byole, come se fosse un nostro parente», e Byole è personaggio mitico che rappresenta la morte. Anche qui – come già per altri temi affrontati prima (l’alterità, il freddo, la sofferenza) – vi sono molti aspetti che confluiscono in un unico concetto. La morte è tema diffuso e centrale nei rituali di iniziazione, proprio nella misura in cui essi sono anche rituali di rinascita: l’individuo muore per essere rifatto e ricostruito, per nascere una seconda volta. Molto spesso non si tratta soltanto di una morte rituale e simbolica, e nemmeno soltanto di una morte sociale e psicologica, bensì anche di un pericolo di morte fisica, tenuto conto delle sofferenze a cui i giovani sono davvero sottoposti, soprattutto in concomitanza della circoncisione. In questo canto però essi fanno accenno in primo luogo alla morte psicologica, come appare dal verso 15 («Io sono stato mangiato dagli avvoltoi»), dove si prende coscienza di un “io” che non è più, che è stato distrutto, “mangiato”. Sono l’infanzia e in generale l’immaturità, con la loro spensieratezza e sconsideratezza (la “cocciutaggine”), che vanno superate: per trasformarsi e divenire uomo adulto e maturo occorre infatti “morire” in se stessi. Il rituale di iniziazione è un meccanismo violento, perché mediante la violenza si produce un taglio nella vita dell’individuo. L’infanzia viene uccisa, abbandonata, lasciata alle spalle; ma ciò verso cui ci si incammina non è un obiettivo sicuro. Occorre essere guardinghi, vigilanti, accorti. La trasformazione non è interamente nelle mani degli anziani, degli iniziatori; i giovani, gli interessati, debbono infatti assumere una profonda e chiara consapevolezza di ciò che stanno per diventare: ­­­­­211

da «mandriani di capre», quali erano prima dell’iniziazione, debbono trasformarsi in «mandriani dell’uccello della foresta» (verso 12). I mandriani di capre sono i ragazzini prima dell’iniziazione, ai quali di fatto vengono affidate le caprette che essi portano al pascolo. Invece, “mandriani dell’uccello della foresta” non designa un’occupazione lavorativa, ma indica il raggiungimento di una condizione psicologica: l’uccello della foresta è il simbolo della libertà, è il simbolo di colui che può spaziare, superare barriere e confini, vedere le cose dall’alto. Il rituale di iniziazione ha precisamente questo significato: di sollevare i giovani (olu-sumba deriva dal verbo eri-sumba, “sollevare”, “alzare”), di portarli in alto in modo che si rendano conto e capiscano come sono fatti, com’è fatta la loro società e come sono fatte “altre” società, acquisendo in tal modo lo spirito critico, il senso delle possibilità, e quindi almeno un margine di libertà. 7. Modelli di umanità Si tratta ora di accennare a un ultimo tema, che è un po’ implicito in quanto detto prima, e che consente di concludere in modo significativo il discorso condotto finora: è il tema della reperibilità dei modelli antropologici. Il canto-preghiera letto all’inizio, caratterizzato dall’insistente domanda omundu, niki?, illustra in maniera inequivocabile la presenza di questo dramma – un dramma che non solo i baNande, ma molte altre società, compresa la nostra, continuamente vivono, se si tiene conto non solo dei rituali di iniziazione come l’olusumba, bensì in generale dei processi formativi ed educativi in cui esse sono coinvolte e a cui pongono mano per dare forma all’umanità delle nuove generazioni. Anche se non esplicitano una vera e propria teoria “antropo-poietica” o “antropo-genetica” – come nel caso dei baNande –, le società non possono sottrarsi ai processi formativi mediante cui costruiscono di volta in volta, nei più vari contesti e nelle più diverse maniere, gli esseri umani. Il dramma consiste nella reperibilità dei modelli antropologici, o meglio nella difficoltà di reperire modelli che guidino validamente i processi formativi o a cui ispirarsi nei procedimenti antropo-poietici. Dove tali modelli si possono reperire? Da questo punto di vista, i baNande sono stati molto espliciti: proprio quando stanno ­­­­­212

per iniziare il processo di formazione dell’olusumba, ammettono quasi con sgomento di non disporre di modelli di umanità certi e sicuri. La domanda che, in almeno due occasioni, ritorna così insistentemente (omundu, niki?, “un uomo, che cos’è?”) viene rivolta alla divinità, non agli antenati. Anche gli antenati avranno dovuto affrontare questa problematica, non avranno potuto eludere tale questione. E alla domanda non viene data risposta. I baNande provano a bussare a Katonda, provano a chiedere a Katonda: “Un uomo, che cos’è?”. L’olusumba è in quanto tale un tentativo di risposta; ma è null’altro che un tentativo, una risposta che, per così dire, nasce dal basso, dalla cultura nande (la quale in effetti non si arresta impietrita di fronte al dubbio antropologico), da uomini che tentano di trovare la loro strada nella foresta, di inventare la loro umanità in un ambiente ostile ed estraneo. A ogni olusumba la questione si ripropone, conferendo al “viaggio” iniziatico dei baNande un profondo significato di scommessa, di consapevolezza dei rischi di fallimento antropo-poietico. La questione dell’omundu, niki? può però essere generalizzata. Essa non aleggia soltanto sulle colline del buNande: essa segnala il carattere drammatico e rischioso di ogni processo antropo-poietico, a cui del resto nessuna società può davvero sottrarsi. Alla luce del tema della reperibilità dei modelli antropologici in connessione con i processi antropo-poietici, si possono forse interpretare nella loro profondità queste parole di Walter Benjamin (1986: 701-702): Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, “moderna” e non abbia creduto di essere immediatamente davanti a un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità. Ogni epoca si presenta irrimediabilmente moderna e ciascuna ha le sue buone ragioni per essere così concepita.

La crisi, l’insicurezza, la problematicità non appartengono soltanto – insieme con lo spirito critico – a ciò che definiamo società moderna, come se le società definite per convenzione tradizionali vivessero invece quiete e felici all’ombra protettiva delle loro tradizioni e dei loro antenati. Ogni qualvolta si debba porre mano alla costruzione dell’umanità, i dubbi e le perplessità insorgono, ­­­­­213

condannati – come siamo – a “pro-gettarci” continuamente verso un futuro, per il quale il passato ci è solo molto limitatamente d’aiuto, e sul quale incombe invece costantemente la domanda che abbiamo trovato in un lontano angolo di mondo: omundu, niki?, «l’uomo, che cos’è?». 8. Tra foresta e “modernità”: la sfida del cristianesimo Questo dramma, che si ripeteva in foresta ogni qualvolta si doveva procedere all’olusumba, si è senza alcun dubbio acuito allorché, all’orizzonte dei baNande, si è aggiunta un’altra “alterità”, un’ulteriore fonte di dubbio, un’ulteriore dimostrazione di possibilità alternative. Se in foresta da sempre i pigmei baMbuti hanno rappresentato agli occhi dei baNande un modo radicalmente diverso di “abitare” quelle colline, a cominciare dagli ultimi anni dell’Ottocento e poi sempre più nei decenni della prima metà del Novecento gli europei, infiltrandosi nel territorio e nella società nande, hanno portato con sé un modo ancora diverso di concepire il mondo e l’umanità. I baNande si sono trovati stretti tra (a) le forme di umanità della foresta – rispetto a cui da sempre, come abakondi, avevano voluto distinguersi, per lo meno da quando, alcuni secoli prima, avevano abbandonato la regione del Toro (Uganda) – e (b) le forme di umanità esibite dalla “modernità” europea. Da un lato la foresta e, dall’altro, i portati ultimi della “storia” e del “progresso”. Da un lato una natura selvaggia, da vincere, da conquistare, i cui abitanti però erano lì a dimostrare come si poteva ben altrimenti adattarsi al suo ambiente (senza distruzione, senza violenza) e dall’altro un potere tecnologico ed economico, che invece con la sua forza ed efficienza conquistava il territorio dei baNande, come quello dei loro vicini. Forme di umanità opposte, generatrici di dubbi antropologici ugualmente inquietanti per i baNande, attanagliati, presi in qualche modo in mezzo. Ma – differenza di non poco conto – i Pigmei baMbuti, disprezzati dai baNande come ngata (“uomini da nulla, pigri e fannulloni”), denigrati come forme di umanità inferiori (appena al di sopra delle scimmie), esercitavano il loro ruolo “critico” standosene in foresta; gli europei, invece, venivano a proporre un altro modo di “fare umanità” infiltrandosi tra i baNande, sfruttando il ­­­­­214

loro lavoro, insediandosi nel loro territorio, decidendo di conquistare, insieme ai loro campi, anche le loro menti. Se territorio e lavoro furono assoggettati con il potere economico e la tecnologia, le menti o la cultura furono oggetto di dominio da parte della religione e della teologia dei conquistatori. È significativo che uno dei primi obiettivi contro cui i colonizzatori – e in prima fila i missionari cattolici – si scagliarono fosse proprio l’olusumba, il sistema “educativo” dei baNande, la loro scuola, la loro fucina di umanità. E per distruggere l’olusumba il metodo migliore e più efficace era quello di non riconoscerne affatto la funzionalità antropo-poietica e il valore storico. Che cos’era l’olusumba agli occhi, per esempio, di padre Lieven Bergmans? Non certo un sistema educativo a cui contrapporre un altro sistema, un’altra proposta formativa. Se così fosse stato, si sarebbe dovuto scendere a un troppo disdicevole confronto, a una inaccettabile valutazione comparativa. L’impostazione di Bergmans è stata invece quella di rifiutare ogni senso educativo all’olusumba, facendolo così retrocedere a una mera manifestazione di superstizione, se non proprio di barbarie. Padre Bergmans nega infatti ogni profondità storica all’olusumba nande, ridotto a una sorta di moda, a null’altro che «un’imitazione» di una pratica in vigore presso i vicini baPere (Bergmans 1973: 86). Senza voler qui affrontare la questione del significato storico e del carattere di situazionalità dell’olusumba (Remotti 1996c), è intuibile l’obiettivo di delegittimazione perseguito da Bergmans: l’olusumba non sarebbe che una delle varie “superstizioni” che i baNande avrebbero tratto dai baPere. Non avendo alcuna radice nella cultura, il «valore educativo» dell’olusumba sarebbe praticamente nullo: «lo ripetiamo: non si tratta affatto di una reale formazione del carattere, né di un addestramento serio». Un’ulteriore notazione di Bergmans può tuttavia risultare preziosa: «all’inizio dell’evangelizzazione, le feste di iniziazione avevano preso un tale vigore che la vita sociale ne risentì» (Bergmans 1971: 32). Se si fosse trattato della mera e stupida imitazione di una moda (per giunta straniera), perché questa presa di vigore? L’ipotesi più corretta sembra essere piuttosto un’altra: l’evangelizzazione, imposta oltre tutto da chi non aveva alcuna sensibilità per le concezioni e i progetti antropo-poietici dei nativi, non ha fatto altro che aumentare a dismisura il dramma contenuto nella domanda omundu, niki?, offrendo in cambio certezze teologiche, ­­­­­215

insieme a vantaggi tecnologici, opportunità sociali, “sviluppo” economico. Con la loro delegittimazione dell’olusumba, gli evangelizzatori non si sono nemmeno accorti che, così facendo, semplicemente stavano sgretolando una cultura, insieme al suo momento più formativo e critico. Infatti, non è soltanto una cultura (costumi, istituzioni, tradizioni) che hanno distrutto. Con le loro certezze hanno pure cancellato la parte più preziosa e “umana”, la dimensione del dubbio e della riflessione, grazie alla quale una cultura non è soltanto se stessa, ma pensa anche ad “altro”, ad altri modi di “abitare le proprie colline”, predisponendosi così al confronto, al dialogo, all’apertura. I baNande – come molte altre società africane – avevano in effetti aperto le loro menti, così come i loro villaggi e il loro territorio, a chi, venuto da tanto lontano, proponeva non dubbi, ma “verità”, e per giunta verità divinamente rivelate. BaNande ed evangelizzatori non si sono dunque trovati a discutere sullo stesso piano, in una kyaganda (la capanna comune degli uomini iniziati). Da un lato, i baNande con i loro dubbi antropologici (omundu, niki?) e le loro perplessità ecologiche («insegnaci ad abitare queste colline»); dall’altro i colonizzatori e gli evangelizzatori europei con le loro certezze. Da un lato una domanda («un uomo, che cos’è?») rivolta alla divinità e a cui Katonda non darà mai una risposta, lasciando agli uomini la responsabilità delle loro scelte e del loro agire antropo-poietico («che il nostro viaggio generi degli uomini»); dall’altro un modello di umanità preconfezionato e garantito ab origine dalla stessa divinità, un modello, oltre tutto, a cui è predestinato il dominio sulla terra. Come non ricordare, a questo proposito, i versetti della Genesi (I, 26-28 – La Bibbia 1987: 10), che abbiamo già citato nel capitolo precedente (V, § 3)? Finalmente Dio disse: «Facciamo l’uomo a norma della nostra immagine, come nostra somiglianza, affinché possa dominare sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e sulle fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò gli uomini a norma della sua immagine; a norma della immagine di Dio li creò; maschio e femmina li creò. Quindi Dio li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, ed ­­­­­216

abbiate dominio sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su ogni essere vivente che striscia sulla terra».

È difficile mantenere il dubbio (la capacità critica del dubbio) di fronte alle certezze, tanto più quando queste certezze teologiche si combinano con il successo tecnologico e il potere economico. Rispetto alla sfida del cristianesimo, la soluzione dei baNande era stata quella dell’ospitalità: accogliere sulle proprie colline gli stranieri, ospitando anche la loro (un po’ strana, ma potente) divinità (Remotti 1996b: 39-40). Ma “Dio”, il dio dei cristiani, non sta, non può stare tra gli avalimu (gli spiriti) dei baNande: è “unico”; non tollera altre divinità. Gli avalimu, insieme ai loro rituali e alle loro “superstizioni”, come l’olusumba, devono essere spazzati via: senza riguardo, senza ritegno, senza rimorso. I baNande – fieri abakondi nei confronti della foresta e, tuttavia, coltivatori di dubbi nel momento dell’olusumba – non potevano certo saperlo: un dio così esclusivo e imperioso non faceva parte del loro timido e titubante sapere teologico; tanto meno era a fondamento della loro antropologia “critica”. Cosa può mai essere e cosa può mai fare un’antropo-poiesi soltanto umana, miseramente umana, la quale in modo esplicito si configura come nulla più che un tentativo, un barcamenarsi tra incertezze, dubbi e perplessità, di fronte a un’antropo-poiesi divina, non solo benedetta da Dio, ma voluta e organizzata da Dio? Come abbiamo già visto, ci sono furori antropo-poietici che nascono dalle certezze e che si abbattono sulle culture che invece coltivano il dubbio. Un tempo, i baNande praticavano un forte dubbio antropo-poietico proprio quando si trattava di dare forma alla loro umanità di abakondi, di distruttori di foresta. Oggi, sulle colline del buNande, con i conflitti e le guerre in corso, ci sono altri tipi di distruttori, che pur giovanissimi imbracciano il kalashnikov (Jourdan 2010). Tuttavia, da un passato sempre più lontano una voce che chiede “Ma un uomo, che cos’è?” è ancora in qualche modo udibile, una voce che può insegnare anche a noi una semplicissima verità: il dramma dell’antropo-poiesi, la consapevolezza della miseria umana dell’antropo-poiesi (quale è data dalla sua necessità e, nel contempo, dalla irreperibilità dei modelli e dalla scarsa affidabilità dei mezzi) contro deliri, furori, mostri, tragedie antropo-poietiche di cui, da troppo tempo, siamo autori, vittime, protagonisti. ­­­­­217

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Indice

Premessa



V

Parte prima

Presupposti e struttura teorica

I. Dalla cultura all’antropo-poiesi

4

1. Natura, costumi, cultura, p. 4 2. Teorie dell’incompletezza, p. 9 3. Plasticità, p. 14 4. Inventare o scoprire?, p. 19 5. Come ridurre la responsabilità antropo-poietica, p. 22 6. Le difficoltà dell’invenzione, p. 27

II. Temi, nodi, ipotesi: la struttura a rete dell’antropo-poiesi 1. Terminologia, p. 33 - 2. Fonti, p. 35 - 3. Quante nascite?, p. 35 - 4. Antropo-genesi, p. 36 - 5. Riti antropogenetici, p. 36 - 6. Antropo-genesi e antropo-poiesi, p. 37 - 7. Finzioni, p. 37 - 8. Modernità/tradizioni, p. 38 - 9. Critica di Eliade, p. 38 - 10. Antropo-genesi e antropo-poiesi: ideologia o necessità ineludibile?, p. 39 - 11. Antropopoiesi irrinunciabile, p. 40 - 12. L’uomo come essere incompleto, p. 40 - 13. La cultura che dà forma all’uomo, p. 41 - 14. Herder e la prospettiva antropo-poietica, p. 41 - 15. Considerazioni biologiche, p. 43 - 16. Rifiuto del determinismo biologico e del determinismo culturale, p. 44 - 17. Capacità di auto-plasmazione (auto-poiesi) e grado di libertà, p. 45 - 18. Ineludibilità dell’ideologia, p. 45 - 19. Fecondità dell’ipotesi antropo-poietica, p. 46 - 20. Casualità, arbitrarietà, senso delle possibilità, p. 47 - 21. Umorismo, p. 48 - 22. Riflessioni e senso critico, p. 49 23. Altre finzioni, p. 49 - 24. Livelli e modi diversi di fare umanità: a) antropo-poiesi anonima, continua, inconsape-

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vole, p. 50 - 25. Livelli e modi diversi di fare umanità: b) antropo-poiesi programmata, discontinua, consapevole, p. 51 - 26. Eterogeneità e contrasto tra le due modalità antropo-poietiche, p. 51 - 27. Come si fa a “fare umanità”?, p. 52 - 28. Irreperibilità dei modelli di umanità, p. 53 - 29. Accettazione della precarietà antropo-poietica (reazione “a”), p. 54 - 30. Celare la precarietà antropo-poietica (rea­ zione “b”), p. 55 - 31. Diventare sempre più simili a Dio, p. 56 - 32. Antropo-poiesi trans-umanistica, p. 56 - 33. Completezza o incompletezza antropo-poietica, p. 58 34. Deificazione o débrouillardise antropo-poietica?, p. 58 - 35. L’inizio a cui aggrapparsi, p. 59





Parte seconda

Fare-disfare corpi

III. L’enigma dell’ornamento. Prologo darwiniano 62 1. Debolezza e successo biologico della specie umana, p. 62 2. Un ponte tra animali ed esseri umani: la cultura, p. 66 3. Il senso del bello. Come spiegarlo?, p. 70

IV. Interventi estetici sul corpo 1. La dimensione estetica e i suoi confini, p. 78 2. Tipologia (categorie I-XIX) , p. 83 I. Oggetti esterni, p. 85 - II. Toilette, p. 88 - III. Profumazione, p. 89 - IV. Cosmesi, coloritura e pitture corporali, p. 90 - V. Modellamento di annessi della pelle (peli, unghie, capelli), p. 92 - VI. Modellamento di struttura muscolare, p. 93 - VII. Modellamento di struttura ossea dall’esterno, p. 94 - VIII. Modellamento del comportamento, p. 97 IX. Modellamento della voce, p. 98 - X. Tatuaggi, p. 99 - XI. Scarificazioni, p. 102 - XII. Bruciature e marchiature della pelle, p. 104 - XIII. Perforazioni e inserimento di oggetti esterni, p. 105 - XIV. Intaglio dei denti, p. 108 - XV. Amputazioni, p. 110 - XVI. Chirurgia genitale, p. 112 - XVII. Chirurgia estetica moderna, p. 122 - XVIII. Alimentazione e diete, p. 124 - XIX. Interventi chimici e ormonali, p. 126 3. Intermezzo sulla moda e sulla morte, p. 127 4. Tipologia (categorie XX-XXIII), p. 135 XX. Interventi in vista della morte, p. 137 - XXI. Trattamento del cadavere, p. 139 - XXII. Produzione e trattamento dei resti umani, p. 142 - XXIII. Dissoluzione, p. 146

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78





Parte terza

Le tragedie delle certezze e il respiro del dubbio

V. Furori antropo-poietici

152

1. Sul furore, p. 152 2. Sradicare e sopprimere, p. 161 3. Il regno dell’uomo-dio, p. 171 4. L’idea dell’uomo nuovo, p. 181 5. Tragedie degli “uomini nuovi”, p. 187

VI. Ma un uomo, che cos’è?

196

1. Meditazioni da un piccolo angolo di mondo, p. 196 2. Richieste rivolte alla divinità e agli antenati, p. 199 3. L’avventurosità del viaggio, p. 202 4. Dubbi e perplessità tra ecologia e antropologia, p. 203 5. Rituali, sofferenza, coscienza critica, p. 206 6. La discontinuità, la morte e il senso delle possibilità, p. 209 7. Modelli di umanità, p. 212 8. Tra foresta e “modernità”: la sfida del cristianesimo, p. 214



Riferimenti bibliografici

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