Enciclopedia filosofica Bompiani: Lan-Rad [3]

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[Lan] LANCASTER, JOSEPH. – Pedagogista inglese, Lancaster n. a Southwark (Londra) il 25 mar. 1778, m. a New York il 23 ott. 1838. È il principale esponente del metodo del mutuo insegnamento, secondo il quale gli alunni più progrediti possono insegnare ai meno progrediti. Pubblicò nel 1805 l’opera Improvements in Education as It Respects the Industrious Classes of the Community, che riproduceva il titolo mutato di una delle molte successive edizioni, quella di Londra del 1810, nella quale faceva conoscere il metodo, detto del «mutuo insegnamento», secondo il quale reggeva una scuola per bambini poveri da lui aperta nel 1798 a Southwark. L’opera richiamò su di lui l’attenzione sia dei privati sia dello stato, così che essa si diffuse notevolmente, ma suscitò anche opposizioni, specie da parte della chiesa anglicana. Emigrò perciò prima nell’America Latina, protetto da Bolivar, poi negli Stati Uniti, interessandosi sempre alla diffusione del suo sistema e alla istituzione di scuole. A. Cardin BIBL.: A. SALOMON, Joseph Lancaster, London 1904; J.F. REIGART, The Lancasterian System of Instruction in the Schools of New York City, New York 1916; M. DICKSON, Teacher Extraordinary: Joseph Lancaster, 1778-1838, Sussex (England) 1986.

LANCETTA, TROILO. – Medico e pensatore Lancetta del secolo XVII, n. a Maderno (Brescia). Celebre per le sue dottrine mediche, scrisse: Disciplina civile di Platone divisa in quattro parti o riformata, Venezia 1643 (la prima parte tratta della forma retta della repubblica, la seconda delle quattro forme in cui lo stato repubblicano degenera; la terza tratta delle leggi e la quarta delle sanzioni penali e civili); Raccolta medica e astrologica divisa in due discorsi, ivi 1645 (il primo discorso difende le teorie di Ippocrate contro Galeno, l’altro è scritto in favore di Ippocrate e di Aristotele contro l’astrologia); La scena tragica di Adamo ed Eva estratta dai primi tre capi della sacra Genesi, e ridotta a significato morale, ivi 1644-46, che forse fornì a Milton alcune idee per il suo Paradise lost. In appendi-

ce alla Dialectica di Cremonini aggiunse una parafrasi delle lezioni del filosofo patavino, di cui era stato auditore nello Studio padovano. A. Viviani BIBL.: A. SCHIVARDI, Biografia dei medici illustri bresciani, Brescia 1839, vol. I, p. 199; H.C. KUHN, Venetischer Aristotelismus im Ende der aristotelischen Welt. Aspekte der Welt und des Denkens des Cesare Cremonini, Frankfurt am Main 1996, pp. 20-21.

LAND, JAN PIETER NICOLAAS. – Filosofo olanLand dese, n. a Delft nel 1834, m. ad Arnhem nel 1897. Dopo gli studi di filologia a Leida conclusi nel 1857, insegna filosofia e filologia orientale dal 1864 ad Amsterdam (Redevoering over den zamenhang tusschen gelooven en weten [Discorso sulla relazione tra scienza e fede]), e dal 1873 a Leida (De eenheid van den geest [L’unità dello spirito]). Altri scritti: Beginselen der analytische logica (Principi di logica analitica), Leiden 1873; Ter gedachtenis van Spinoza (Il pensiero di Spinoza), Leiden 1877; Inleiding tot de wijsbegeerte (Introduzione alla filosofia), Den Haag 1889; Arnold Geulincx und seine Philosophie, ivi 1895. Land considera, da un punto di vista critico, la sfera della ragione come oggetto proprio della filosofia e combatte il positivismo di C.W. Opzoomer. In seguito accetta una sorta di eclettismo e nell’Introduzione riconosce la competenza della metafisica nella ricerca dei fondamenti del reale. Di grande importanza la sua edizione delle opere di Spinoza (Opera, Hagae Comitum 1882-83, 2 voll., insieme con J. van Vloten) e Geulincx (Opera philosophica, ivi 1891-93, 3 voll.). M. Marlet BIBL.: C.B. SPRUYT, Biografia, in J.P.N. Land, De wijsbegeerte in de Nederlanden, L’Aia 1899; F. SASSEN, Land, in Geschiedenis van de wijsbegeerte in Nederland tot het einde der negentiende eeuw (Storia della filosofia nei Paesi Bassi fino alla fine del secolo XIX), Amsterdam 1959.

LANDGREBE, LUDWIG. – Fenomenologo teLandgrebe desco, n. il 9 mar. 1902 a Vienna, m. il 14 ag. 1991 a Colonia. 6209

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Landino Studiò filosofia nelle università di Vienna e Freiburg im Breisgau, dove si addottorò nel 1927. Dal 1923 al 1930 fu assistente di Husserl (e fu l’editore, nel 1939, dell’opera del maestro Erfahrung und Urteil). Libero docente nel 1935, fu professore di filosofia nell’università tedesca di Praga fino al 1939; nel 1939-40 collaborò con E. Fink allo Husserl-Archiv dell’Institut Supérieur de Philosophie di Lovanio; passò come professore di filosofia nelle università di Amburgo (1945), di Kiel (1947), e infine di Colonia (1956), dove divenne direttore del locale Husserl-Archiv. Fu anche presidente della Gesellschaft für Philosophie in Deutschland. Il pensiero del Landgrebe è fortemente influenzato dall’incontro con Husserl, le cui tematiche egli approfondì e sviluppò in molteplici direzioni, sulla base anche delle analisi heideggeriane. In Phänomenologie und Geschichte, Landgrebe esamina il problema della storicità della vita in rapporto con la fenomenologia husserliana. Dilthey e Husserl sono presenti in analisi che differenziano i due pensatori, e nelle quali tuttavia essi sono messi in suggestiva relazione. È posta in luce l’analisi fenomenologica in rapporto alla metafisica, sono studiati i rapporti con Brentano e Cartesio, e la riduzione fenomenologica (il «mettere tra parentesi») è intesa anche come riduzione intersoggettiva, con considerazioni che coinvolgono la relazione tra Glauben e Wissen. Landgrebe si rivolge inoltre a un’indagine delle tematiche del «mondo» come orizzonte universale di ogni esperienza e del problema di una conoscenza assoluta. Un interesse particolare riveste altresì il suo studio della natura della filosofia, affrontato in Was bedeutet uns heute Philosophie; egli analizza insieme il concetto di Weltanschauung, il problema dell’autocomprensione dell’uomo e il valore della conoscenza, sostenendo la necessità di un pensiero che sia apertura verso l’alterità ontologica. La filosofia deve dunque essere disponibile a comunicare con la metafisica e la teologia (cfr. anche Philosophie der Gegenwart). Se poi la filosofia deve essere ancorata o aperta anche alla storia, allora diventa indispensabile chiarire l’atto con il quale e dal quale la validità del sapere filosofico dipende ed è saturato (cfr. Der Weg der Phänomenologie). Alla storicità della soggettività che costituisce il mondo, alla sua fatticità e individualità, e alla teoria della 6210

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società sono dedicate ancora anche le ultime opere. A. Babolin BIBL.: Wilhelm Diltheys Theorie der Geisteswissenschaften, Halle 1928; Nennfunktion und Wortbedeutung, Halle 1934; Phänomenologie und Metaphysik, Hamburg 1948; Was bedeutet uns heute Philosophie, Hamburg 1948; Philosophie der Gegenwart, Frankfurt am Main 1957 (Bonn 1952); Der Weg der Phänomenologie. Das Problem der ursprünglichen Erfahrung, Gütersloh 1963; Phänomenologie und Geschichte, Darmstadt 1968; Der Streit um die philosophischen Grundlagen der Gesellschaftstheorie, Opladen 1975; Faktizität und Individuation, Hamburg 1982. Su Landgrebe: W. BIEMEL (a cura di), Phänomenologie Heute: Festschrift für Ludwig Landgrebe, Den Haag 1972; U. CLAESGES - K. HELD (a cura di), Perspektiven Transzendentalphänomenologischer Forschung: für Ludwig Landgrebe zum 70. Geburtstag von seinen Kölner Schülern, Den Haag 1972; S. POGGI, Filosofia della vita, fenomenologia ed esistenzialismo in L. Landgrebe, in «Rivista di Filosofia», 64 (1973), pp. 232256; H. VETTER (a cura di), Lebenswelten: Ludwig Landgrebe, Eugen Fink, Jan Patocka, Frankfurt am Main 2003.

LANDINO CRISTOFORO. – N. a Firenze nel Landino 1424 da una famiglia di origini casentinesi, compì la sua formazione umanistica sotto la guida di Carlo Marsuppini, l’umanista aretino che insegnava retorica e poetica e lingua greca nello Studio fiorentino. La sua carriera di magister fu abbastanza rapida, sebbene, nel 1456, in occasione dell’attribuzione della cattedra dello Studio già tenuta dal suo maestro, gli fosse preferito il dotto bizantino Giovanni Argiropulo. Comunque, nel 1458 fu chiamato a «leggere» poetica e oratoria, un insegnamento che continuò sino all’anno della sua morte, avvenuta nel 1498. Landino fu pure insignito di importanti cariche pubbliche, con la nomina, nel 1467, a cancelliere di parte guelfa e, più tardi, a scrittore di lettere della Signoria. Il corso della sua attività magistrale e letteraria coincise, peraltro, con la trasformazione di Firenze da una repubblica governata da un’oligarchia patrizia nella «coperta» signoria dei Medici. E anche l’umanista – che, in gioventù, aveva avuto rapporti con ambienti e personalità estranei, se non addirittura avversi alla «consorteria medicea» – fu, poi, sempre più vicino a Cosimo il Vecchio e ai suoi successori, in particolare a Lorenzo il Magnifico, pur non divenendo mai un «intellettuale di regime» e mantenendo una sua personale autonomia.

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Non è qui possibile presentare la sua vasta attività di poeta in latino e in volgare, di studioso, lettore e commentatore dei classici latini – soprattutto Giovenale, Persio, Orazio, Virgilio, Cicerone, Plinio (di cui volgarizzò la Naturalis Historia), nonché dei massimi poeti in lingua volgare, Petrarca e Dante – che egli svolse durante il suo lungo insegnamento, influendo in maniera decisiva sullo sviluppo e l’evoluzione della tradizione umanistica fiorentina. Ma si dovrà riconoscergli l’importante funzione di efficace artefice della «trasfigurazione» letteraria dell’umanesimo che R. Cardini gli ha giustamente attribuito, e che lo indusse a riconoscere nell’eloquenza e, soprattutto, nella poesia, non solo l’espressione della pura bellezza, generatrice dell’amore del bene, ma la liberazione degli uomini dalla loro vita primitiva, selvaggia ed eslege. Come egli scrisse nella prolusione al suo corso sul Petrarca (146768?), i poeti giustamente intesero che il «dolce parlare» di Orfeo li persuase al «giusto vivere» nelle società «civili» e li rese consapevoli della loro vera natura. Proprio questa ferma convinzione può spiegare perché Landino restasse estraneo o addirittura ostile alle nuove istanze filologiche, storiche e critiche del maturo umanesimo quattrocentesco, e facesse propria la dottrina platonica del «divino furore» poetico come momento essenziale dell’ascesa della mente verso la sua finale, amorosa identificazione con il sommo bene. Non per questo, si può ridurre la sua esperienza filosofica a una semplice imitazione o ripresa delle idee filosofiche del suo più giovane amico e competitore, il Ficino, che, del resto, fu da lui sostenuto e ben consigliato agli inizi del suo impegno di rinnovatore della tradizione platonica. È però altrettanto certo che, nel corso della sua lunga attività, Landino fu uno dei protagonisti del profondo mutamento delle idee filosofiche dominanti nella cultura fiorentina della seconda metà del Quattrocento. Lo dimostra lo svolgimento cronologico delle sue opere di carattere specificamente filosofico, che sono databili nel corso di un ventennio, tra il 1469 e il 1488, e permettono d’intendere come la sua meditazione mirasse a congiungere, con una sua personale sintesi, le maggiori tradizioni filosofiche dell’antichità, platonismo, aristotelismo e stoicismo, e a ricondurle nell’ambito della «verità» cristiana. Ma egli volle pure esprimere le sue convinzioni nel modo più limpido, semplice e persuasivo,

Landino affinché fossero comprensibili anche a coloro che non avevano familiarità con il linguaggio filosofico delle Scholae. Non a caso, già nella Praefatio in Tusculanis (databile al nov. del 1468, all’inizio del suo insegnamento ufficiale nello Studio), esaltò in Cicerone «il difensore del pensiero e della tradizione latina, insuperato nella riflessione morale» (Cardini) e ribadì la necessaria connessione della sapienza filosofica e della «eloquenza». Queste finalità sono bene evidenti già nei dialoghi De nobilitate animae – supposti come avvenuti nel 1453, ma scritti tra il 1469 e l’autunno del 1471 – dove l’affermazione dell’ideale umanistico della perfetta unione tra la filosofia e l’eloquenza è affidata a Marsuppini, principale protagonista, che, utilizzando abili procedimenti retorici, sa «conciliare» le diverse opinioni degli antichi, eliminando i contrasti accentuati dalle «spinose argomentazioni» dei maestri scolastici, dai loro procedimenti dialettici e dall’oscuro «gergo», generatore di ambiguità e di equivoci. Landino mostra, del resto, un’evidente e approfondita conoscenza non solo dei testi di Platone, di Aristotele, di Cicerone e di Seneca, bensì pure delle dottrine medievali sull’anima e dei loro autori, si tratti dei massimi maestri, come Agostino, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, o di altri commentatori dei testi aristotelici, come Egidio Romano. Ma lo svolgimento della sua ricostruzione storica del concetto dell’anima, che occupa un’ampia parte dell’opera, rivela anche un accurato esercizio espositivo, in vista di altri sviluppi, più aderenti ai suoi propositi di umanista e connessi alle nuove esigenze intellettuali da lui sollecitate. Pochi anni dopo, egli si dedicò, infatti, – tra le diverse date estreme proposte dagli studiosi (1471-1473 o persino 1475) – all’elaborazione dei dialoghi delle Camaldulenses disputationes (supposte nel 1468), ove chiamò a parteciparvi o ad assistervi alcune tra le maggiori personalità della cultura e della vita politica fiorentina, Pietro e Donato Acciaiuoli, Alamanno Rinuccini, Marco Parenti, Marsilio Ficino, Antonio Canigiani, Lorenzo e Giuliano de’ Medici, oltre al più celebre umanista Leon Battista Alberti. E proprio ad Alberti e al Magnifico affidò la disputa sulla superiorità della vita contemplativa o di quella attiva, divenuta ormai un tema cruciale della cultura umanistica fiorentina. Nel libro I, la netta contrapposizione tra la via della contemplazione celebrata da Alberti e 6211

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Landino quella dell’azione proposta da Lorenzo, con l’abile richiamo politico alle tradizioni dell’«umanesimo civile», sembrò trovare la sua «conciliazione» nella personalità simbolica di Paolo Dal Pozzo Toscanelli, matematico, «fisico», astronomo e medico, ma anche appartenente a una famiglia di mercanti, chiamato a mostrare come la ricerca della sapienza fosse necessaria anche a chi operava nella «città terrena» per il bene dei suoi simili. Così, nella conclusione, Landino, interpretando simbolicamente le figure bibliche di Marta e Maria, poté scrivere che erano «buone entrambe, ma laboriosa l’una, inattiva l’altra, e, tuttavia, non in modo che la fatica generi eccesso, o l’ozio accidia». Nel libro II, l’ispirazione platonica dell’umanista fu però decisamente prevalente e, servendosi di argomentazioni affini anche a quelle di Ficino, riconobbe il sommo bene dell’uomo nell’ascesa contemplativa alla conoscenza di Dio, alla quale sono ordinate anche le virtù «civili» e quelle propriamente «etiche», necessari presupposti affinché l’anima, non più turbata dalle passioni e dalle «tempeste» della vita, possa raggiungere il suo ultimo «porto» e trovi la sua totale beatitudine nella visione della suprema verità divina. Infine, nei libri III e IV, un’interpretazione allegorica dell’Eneide servì a confermare le conclusioni già raggiunte e a riconoscere in Virglio un «poeta-teologo» che, nella narrazione delle vicende di Enea, aveva rivelato, sotto il «velame» della fabula, la difficile ascesa dell’uomo al suo vero fine. Le Camaldulenses disputationes ebbero una notevole diffusione, confermata dalla sua edizione a stampa, a Firenze, intorno al 1480, e da altre cinque edizioni quattrocentesche e da cinque nel XVI secolo. Meno fortunata fu, invece, l’ultima opera strettamente filosofica del Landino, il De vera nobilitate, presentata sotto la forma di un convito, tenuto dopo la morte di Cosimo il Vecchio (1464), nel cui corso, Ficino, Alberti, Giovanni Argiropulo, Poliziano, e «Filotimo» e «Aretofilo» discussero sull’origine della nobiltà, alla presenza dei maggiori intellettuali fiorentini. La sua composizione risale a un tempo assai più tardo, probabilmente tra la fine del 1487 e gli inizi del 1488. La disputa – che sembra, almeno in parte, ispirata dal libro IV del Convivio di Dante – intendeva mostrare che la nobiltà non deriva affatto dalla nascita, perché gli uomini sono tutti concepiti e generati dalla natura nello stesso modo, e 6212

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che soltanto l’acquisizione delle virtù può renderli veramente nobili. Non solo: era respinta anche l’ipotesi che la nobiltà sia prodotta dalla ricchezza, sebbene Landino riconoscesse che l’esser diventato ricco in maniera onesta e con il proprio impegno personale non inficiava e anzi confermava la nobiltà di chi ha saputo così bene operare. Ma, infine, l’umanista tornava di nuovo ad affermare che la virtù più «nobilitante» era quella speculativa che conduceva l’anima, ormai liberata dalle sue colpe dalle virtù «civili» e da quelle «purificatrici», a riconquistare la sua vera «nobiltà» originaria, nella suprema beatitudine della contemplazione divina. Il De vera nobilitate non ebbe la fortuna delle Camaldulenses disputationes, forse perché il moderato platonismo di Landino era ormai offuscato dalla rinascita delle tradizioni platoniche, neoplatoniche ed ermetiche suscitata dalla vasta diffusione delle versioni di Marsilio Ficino e dei suoi scritti filosofici. Ebbe, invece, un’eccezionale successo la sua edizione con il commento della Comedia di Dante, edita a stampa a Firenze nel 1481, accompagnata da un ampio proemio, da un’epistola celebrativa di Ficino e dalle illustrazioni di Botticelli. Anche in quest’opera davvero «monumentale», Landino dimostrò di possedere gli strumenti esegetici necessari per intendere e illustrare le fonti filosofiche del poeta e intervenire con sapiente autorità nella discussione dei passi più oscuri e controversi del poema, grazie anche alle sue notevoli conoscenze astronomiche e astrologiche. Soprattutto, egli mirò, in accordo con Ficino, a presentare Dante come filosofo e teologo-poeta per eccellenza, nutrito dalle idee platoniche di Virgilio e dalla conoscenza di opere come il Liber de causis, portatore di evidenti tradizioni neoplatoniche, ma ispirato dal furor poeticus: un dono divino che, secondo la sua interpretazione – destinata a restare predominante sin quasi alla metà del XVI secolo – aveva permesso all’autore della Commedia di raggiungere la più alta «intelligenza» delle supreme «verità» e di esprimerle nella lingua di tutti e con l’alto potere persuasivo della rivelazione poetica. C. Vasoli BIBL.: Edizioni a stampa delle opere dove sono espresse le sue idee filosofiche: Oratione havuta alla illustrissima Signoria fiorentina quando presentò el Comento suo di Dante, Firenze 1481-1483?; Publii Virgilii Maronis opera cum tribus commentariis Servi Mauri

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Honorati Grammatici, Aelii Donati, Christophori Landini, Firenze 1487; Praefatio in Tusculanis, in K. MÜLLNER, Reden und Briefe italienischer Humanisten, Wien 1899, pp. 118-129; De nobilitate animae libri, a cura di G. Gentile - A. Paoli, in «Annali delle Università toscane», 34-36 (1915-17); Carmina omnia, a cura di A. Perosa, Firenze 1939; Testi inediti e rari di Cristoforo Landino e Francesco Filelfo, a cura di E. Garin, Firenze 1949; Quaestiones Camaldulenses, Florentiae 1480 ca., (dopo l’editio princeps, un altro incunabolo e sei edizioni cinquecentesche); un’ed. del l. I, con versione in lingua italiana, in E. GARIN, Prosatori italiani del Quattrocento, Milano-Napoli, 1952, pp. 715-751; Camaldulenses disputationes, ed. critica a cura di P. Lohr, Firenze 1980; M. LENTZEN, Cristoforo Landinos Antrittvorlesung in Studio Fiorentino. Einleitung und Edition, in «Romanische Forschungen», 81 (1969), pp. 60-88; De vera nobilitate, a cura di M.T. Liaci, Firenze 1970; ed. critica anche a cura di M. Lentzen, Genève 1970; Scritti critici e teorici, a cura di R. Cardini, Roma 1974, 2 voll. (particolarmente importante, per la vasta raccolta critica di testi); A. FIELD, An Inaugural Oratio by Cristoforo Landino in Preise of Virgil, in «Rinascimento», 21 (1981), pp. 235-245. Per l’ed. della Comedia di Dante, cfr. Commento di Cristoforo Landino fiorentino sopra la Comedia di Dante Alighieri, Fiorenza 1481 (cinque successivi incunabuli e cinque edizioni cinquecentesche); una recente rist. dell’ed. di Brescia 1487 è stata pubblicata a Bornato in Franciacorta nel 1976. Su Cristoforo Landino: A.M. BANDINI, Specimen litteraturae florentinae saeculi 15. In quo dum Christophori Landini gesta enarrantur, Firenze 1747-51; M. BARBI, La fortuna di Dante nel secolo XVI, Pisa 1890, pp. 150179 (ripr. Avezzano 1983); E. WOLF, Die allegorische Virgilerklärung des Cristoforo Landino, in «Neue Jahrbücher für das Klassische Altertum», 22 (1919), pp. 453-479; A. BUCH, Dichtung und Dichter bei Cristoforo Landino, in «Romanische Forschungen», 58-59 (1947), pp. 233-246; C. DIONISOTTI, Dante nel Quattrocento, in «Atti del Congresso internazionale di studi danteschi», Firenze 1965, vol. I, pp. 360-378; E GARIN, Storia della filosofia italiana, Torino 19662, pp. 430-431; C. DIONISOTTI, Varia fortuna di Dante, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, pp. 123-128, 137, 151, 202 (già edito in «Rivista Storica Italiana», 78 (1966), pp. 544-583); E. GARIN, Dante nel Rinascimento, in «Rinascimento», 7 (1967), pp. 100-107; F. TATEO, Tradizione e realtà dell’umanesimo italiano, Bari 1967; E. MÜLLER-BOSCHAT, Leon Battista Alberti und die Vergil-Deutung der «Disputationes Camaldulenses». DichterErklärung bei Cristoforo Landino, Krefeld 1968; F. LOHE, Die Datierung der «Disputationes Camaldulenses» des Cristoforo Landino, in «Rinascimento», 9 (1969), pp. 291-299; P. GIANNANTONIO, Dante e l’alle-

Landino gorismo, Firenze 1969, pp. 287-294; D. THOMPSON, Landino’s Life of Dante, in «Dante Studies», 88 (1970), pp. 119-127; M. LENTZEN, Studien zur DanteExegese Cristoforo Landinos, mit einem Anhang bisher unveröffentlicher Briefe und Reden, Köln-Wien 1971; C. DIONISOTTI, s. v. in Enciclopedia dantesca, Roma 1970-76, vol. III, coll. 566b-568b; P. GIANNANTONIO, Filosofia ed esegesi dantesca nel Quattrocento: l’Inferno nel «Comento sopra la Comedia» di Cristoforo Landino, Napoli 1971; R. CARDINI, La critica del Landino, Firenze 1973 (raccolta di studi importanti, in parte già editi tra il 1967 ed il 1971 e in parte inediti); S. BATTAGLIA, Dante e la teoria del poeta-teologo nei secoli XIV e XV, in Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Napoli 1974, pp. 48-58; M. LENTZEN (a cura di), Reden Cristoforo Landinos, München 1974; G. RESTA, Dante nel Quattrocento, in A. BORRARO - P. BORRARO (a cura di), Dante nel pensiero e nell’esegesi dei secoli XIV e XV, «Atti del Convegno di studi, Melfi 27 settembre-2 ottobre 1970», Firenze 1975, pp. 71-91; M. LENTZEN, Cristoforo Landinos Dante- Kommentar, in A. BUCK - O. HERDING (a cura di), Der Kommentar der Renaissance, Boppard 1975, pp. 167-169; M. LENTZEN, Zum gegenwärtigen Stand der Cristoforo Landinos Forschungen, in «Wolfenbütteler Renaissance Mitteilungen», 5 (1981), pp. 92-100; C. KALLENDORF, Cristoforo Landino’s «Aeneid» and the Humanistic Critical Tradition, in «Renaissance Quarterly», 36 (1983), pp.519-548; A. FIELD, The Studium Florentinum Controversy, 1455, in «History of the Universities», 3 (1983), pp. 31-59; A. FIELD, Cristoforo Landino commentateur de la «Divine Comédie», in «L’Alphée», 11-12 (1984), pp. 10-14; A. FIELD, Tradition exégétique et vulgarisation néo-platonicienne dans la partie doctrinale du commentaire dantesque de Cristoforo Landino, in AA.VV., Culture et société en Italie: du Moyen-âge à la Renaissance. Hommage à André Rochon, Paris 1985, pp. 117-129; M. LENTZEN, Le lodi di Firenze di Cristoforo Landino, in «Romanische Forschungen», 97 (1985), pp. 36-46; C. ZITZEN, Zur «Aeneis»-Interpretation des Cristoforo Landino, in «Mittellateinisches Jahrbuch», 20 (1985), pp. 193-215; G. PASCUCCI, I versi finali della IV egloga di Virgilio nell’interpretazione degli umanisti, in R. CARDINI et al., Tradizione classica e letteratura umanistica. Per Alessandro Perosa, Roma 1985, A. FIELD, Cristoforo Landino’s First Lecture on Dante, in «Renaissance Quarterly», 39 (1986), pp. 16-48; F. LA BRASCA, L’humanisme vulgaire et la genèse de la critique littéraire italienne; étude descriptive du commentaire dantesque de Cristoforo Landino, in «Chroniques Italiennes», 6 (1986), pp. 3-96; F. LA BRASCA, Du prototype à l’archetype: lecture allégorique et réécriture de Dante dans et par les commentaires de de Cristoforo Landino, in G.C. MAZZACURATI - M. PLAISANCE (a cura di), Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento, in Biblioteca del Cinquecento, vol. XXXVI, Roma 1987, pp. 67-107; A.

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Landmark FIELD, The Origins of the Platonic Academy of Florence, Princeton (New Jersey) 1988; F. LA BRASCA, «Scriptor in cathedra»: les cours inauguraux de Cristoforo Landino au «studio» de Florence (1468-1474), in A. FIORATO - J.-C. MARGOLIN (a cura di), L’écrivain face à son public en France et en Italie à la Renaissance, «Actes du Colloque de Tours, 4-6 décembre 1986», Paris 1989, pp. 107-125; P. PROCACCIOLI, Filosofia ed esegesi dantesca nel Quattrocento: l’Inferno nel «Comento sopra la Comedia di Dante» di Cristoforo Landino, Firenze 1989; R. CARDINI, Landino e Dante, in «Rinascimento», 30 (1990), pp. 175-190; M. LENTZEN, Zur Problematik von «vita activa» und «vita contemplativa» in den «Disputationes Camaldulenses» von Cristoforo Landino, in «Wolfenbütteler Renaissance Mitteilungen», 14 (1990), pp. 57-64; M. LENTZEN, Die Konzeption der «anima rationalis» in dritten Buch von Dialog «De anima», in «Wolfenbütteler Renaissance Mitteilungen», 15 (1991), pp. 104-114; B.G. MACNAIR, Cristoforo Landino’s «De anima» and His Platonic Sources, in «Rinascimento», 32 (1992), pp. 227-247; G. TANTURLI, Proposta e risposta. La prolusione petrarchesca del Landino e il codice cavalcantiano di Antonio Manetti, in «Rinascimento», 32 (1992) pp. 213-225; B. PORCELLI, Beatrice nei commenti danteschi del Landino e del Vellutello, in M. PICCHIO SIMONELLI (a cura di), Beatrice nell’opera di Dante e nella memoria europea (1290-1990), Fiesole 1994, pp, 231-259; R. CARDINI, Landino e Lorenzo, in «Schifanoia», 15-16 (1995), pp. 99-109 (cfr. anche AA.VV., La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico. Politica Economia Cultura Arte, «Convegno di studi promosso dalle Università di Firenze, Pisa, Siena, 5-8 novenbre 1992», Pisa 1996, vol. II, pp. 449-461); R. FUBINI, Le «Disputationes Camaldulenses» e il volgarizzamento di Plinio: questioni di cronologia e interpretazione, in L. BORGIA et al., Studi in onore di Arnaldo Daddario, Lecce 1995, pp. 535-560; C. KALLENDORF, Landino (Cristoforo) (1424-1498), in C. NATIVEL (a cura di), Centuriae latinae. Cent une figures humanistes de la Renaissance aux Lumières offertes à Jacques Chomarad, Genève 1997, pp. 477-483; C. VASOLI, Dante e la cultura fiorentina del maturo Quattrocento, in S. GENTILE (a cura di), Sandro Botticelli pittore della Divina Commedia, Milano 2000, vol. I, coll. 12a-25a; C. VASOLI, Considerazioni sul Commento di Cristoforo Landino alla «Comedia» di Dante, in A. GHISALBERTI (a cura di), Il pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri, Milano 2001, pp. 175-197.

LANDMARK, JOHAN DANIEL. – Filosofo norLandmark vegese, n. nel 1876, m. nel 1938. Fu professore di filosofia a Kristiania dal 1914 al 1916. La sua opera fondamentale è Erkjendelsesteoretisk religions filosofi. En kritisk-empirisk undersökelse av den religiöse erkjendelse (Sag6214

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gio filosofico sulla natura della conoscenza religiosa, Kristiania 1908). Landmark dà una risposta originale alla problematica filosoficoreligiosa propria del suo tempo in Norvegia, particolarmente al problema dei limiti e dei compiti della filosofia della religione. Essa è considerata una scienza normativa e i filosofi della religione devono appunto fondare la religione stessa con la ragione. A. Negri

LANDQUIST, JOHN. – Filosofo e psicologo Landquist svedese, n. a Stoccolma il 3 dic. 1881, m. nel 1974. Addottoratosi a Upsala nel 1909, poi pubblicista a Stoccolma e professore di psicologia e pedagogia nell’università di Lund dal 1935 al 1946. Tra i frutti più notevoli della sua produzione filosofica è da ricordare anzitutto il libro Människokunskap (La conoscenza dell’uomo), Stockholm 1920, che egli stesso del resto considera il suo capolavoro filosofico. Si tratta di un’analisi della conoscenza storica e artistica, condotta alla luce di un’interpretazione critica della teoria di Rickert sulla costruzione storica del concetto. Anche altri scritti costituiscono una conciliazione di alcuni aspetti caratteristici e complementari della sua filosofia: così Filosofiska essayer (Saggi filosofici), ivi 1906, Viljan, ivi 1908, Essayer, ivi 1913 e Det levande förflutna (Il passato vivente), ivi 1919. In tutti questi scritti Landquist sostiene che il tempo è essenzialmente «scoperta», afferma il potere innovatore e creatore della fantasia, la libertà del volere e la possibilità d’intuire l’essenza di altri soggetti spirituali in virtù di un’intuizione «tetica»; temi questi che lo avvicinano chiaramente a Bergson, a cui Landquist ha pure dedicato uno scritto (Henri Bergson: en populär framställnin av hans filosofi, ivi 1928). Per tutto ciò Landquist appartiene essenzialmente alla reazione al positivismo e al naturalismo iniziatisi in Svezia intorno al principio del secolo. Si ricordano anche: Humanism, ivi 1931; Själens enhet (Unità dello spirito), ivi 1935; Psykologi, ivi 19403 (1940); Pedagogikens historia, ivi 19658 (1941); Förståndets och viljans uppfostroan (L’educazione della ragione e della volontà), ivi 1944; Charles Darwin, liv och verk (Charles Darwin, vita e opere), ivi 1959. A. Nyman BIBL.: P. ANTMAN, Att vilja sa mycket: en studie av J. Landquists filosofi och dess mottagande, Stockholm 1991.

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LANDSBERG, PAUL LUDWIG. – Filosofo perLandsberg sonalista tedesco, n. a Bonn il 3 dic. 1901, m. a Oranienburg-Sachsenhausen (Berlino) il 2 apr. 1944. Dopo aver insegnato all’università di Bonn, all’avvento del nazismo, essendo di ascendenza israelitica, emigrò a Barcellona e quindi si stabilì definitivamente a Parigi, dove si unì al gruppo personalista diretto da Mounier. Collaborò a «Esprit» con articoli come: Quelques réflexions sur l’idée chrétienne de la personne (1934), Réflexions sur l’engagement personnel (1937), Introduction à une critique du mythe (1938), raccolti poi in Problèmes du personnalisme (Paris 1952). Nel 1940, in seguito all’occupazione tedesca della Francia, venne deportato in Germania e morì di stenti in un campo di concentramento. Scritti principali: Einführung in die philosophische Anthropologie, (Frankfurt am Main 1934 [19602]), Essai sur l’expérience de la mort (Paris 1936 [19512], curata da J. Lacroix, assieme a Le problème morale du suicide, tr. it., Saggio sull’esperienza della morte, Milano 1995). Gli scritti del periodo dell’esilio sono stati pubblicati in edizione italiana: M. Bucarelli (a cura di), Scritti filosofici, vol. I: Gli anni dell’esilio (1934-1944) (Cinisello Balsamo 2004). Le fonti della meditazione di Landsberg sono Agostino, Pascal, Kierkegaard, Scheler: pensatori che per Landsberg sono preoccupati di chiarire il senso dell’esistenza personale come rapporto a Dio e ai valori. La persona è un singolarissimo rapporto con Dio; la personalizzazione (slancio di perfezionamento contro l’abitudine e la materialità) è sospesa all’atto creatore divino. Landsberg sostiene la possibilità di un’apprensione emotiva e allo stesso tempo rigorosa dei valori: la persona intuisce i valori e si rapporta ad essi come all’orizzonte di trascendenza. La persona, elevandosi alla meditazione della realtà divina, trova nel Cristo il modello infinito della propria perfezione. L’esperienza della morte rivela la realtà della persona spirituale: il senso della morte è infatti l’irruzione dell’eterno nel temporale. Landsberg ha studiato tale sentimento nei grandi santi e mistici e lo ha confrontato con la sopportazione della morte negli stoici, che giunge fino all’accettazione del suicidio: nel primo caso, vi è un superamento della morte come inizio d’un più intimo rapporto con Dio; nel secondo caso vi è soltanto dominio di sé. Nonostante la sua educazione luterana, Landsberg si trova vicino a posizioni cattoliche

Lanfranco quando affronta il problema della morte e del suicidio. La sua filosofia è caratterizzata dal senso della lotta e del dissidio che scuotono la persona: da una parte il sostrato biologico, individuale, dall’altra la costruzione personale. Le forze della vita spingono l’uomo a una falsa trascendenza, verso un’«estasi nera», mentre le forze dello spirito conducono all’autentica trascendenza e, nei santi, portano a un’estasi superiore. La persona sente le due vertigini nell’atto della scelta: in questo Landsberg è vicino a posizioni esistenzialiste. Un’accentuazione importante in questa direzione è la trattazione originale del tema dell’engagement, cioè dell’impegno totale della persona di fronte all’incertezza della scelta e alla difficoltà di operare sempre nella garanzia del giusto. L’engagement non è ostacolo alla ricerca della verità, ma anzi rende possibile una comprensione più profonda della realtà del conoscere, essendo necessario al conoscere di essere coinvolgimento completo della persona. L. Malusa Per una bibliografia delle opere cfr.: E. ZWIERLEIN, Die Idee einer philosophischen Anthropologie bei P.L. Landsberg, Würzburg 1989; M. BUCARELLI, Saggio introduttivo, in P.L. LANDSBERG, Scritti filosofici, vol. I: Gli anni dell’esilio (1934-1944), pp. 201-218. BIBL.: A. LISCHEWSCHI, Person und Bildung. Überlegungen im Grenzgebiet von Philosophischer Anthropologie und Bildungstheorie im Anschluss an P.L. Landsberg, Dettelbach-Amsterdam 1998, 2 voll.; E. SIMONOTTI, Paul Ludwig Landsberg. Filosofia dell’uomo e resistenza, in «Humanitas», 61 (2006), pp. 320-329.

LANFRANCO di PAVIA (Lanfranco del Bec; Lanfranco Lanfrancus Cantuariensis archiepiscopus). – Maestro longobardo originario di Pavia, priore al monastero normanno del Bec, abate di Caen, dal 1070 arcivescovo di Canterbury, m. nel 1089. Figura rilevante nel panorama culturale dell’XI secolo, scrisse intorno al 1066 un trattato in forma di lettera denominato De corpore et sanguine Domini (ed. in J.-P. Migne, Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Paris 1845-55, vol. CL, coll. 407-442), in risposta allo Scriptum contra Synodum di Berengario di Tours. I due autori furono i protagonisti principali della controversia sull’eucarestia svoltasi tra il 1048 e il 1079. Lanfranco rimprovera all’avversario un cattivo uso della dialettica che lo spinge a inserire indebitamente anche il divino nel sistema cosmico fruibile mediante la ragione, laddove il compi6215

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Lang to della logica, in cui si realizza pienamente il suo valore scientifico, è per Lanfranco quello di stabilire le regole dell’ordo verborum affinché rifletta al meglio l’ordo rerum. Sulla base di questo presupposto metodologico, Lanfranco afferma che nel miracolo eucaristico, in forza dell’onnipotenza divina, le accidentalità apparenti del pane e del vino, permangono nonostante la reale trasformazione della sostanza. Lanfranco è autore, tra l’altro, anche di un ampio e analitico commentario alle Lettere di san Paolo (ed. in J.-P. Migne, op. cit., vol. CL, coll. 105-406), da lui considerate il principale modello del teologo per l’utilizzo metodico delle arti profane ai fini di una completa realizzazione della scientia fidei e per l’impalcatura logica sotterranea che la sorregge. L. Catalani BIBL.: il catalogo completo delle opere è in M. GIBSON, Lanfranc of Bec, Oxford 1978, appendice D, tr. it. di P. Fiorini, Lanfranco: da Pavia al Bec a Canterbury, Milano 1989, pp. 249 ss.; l’opera omnia è in J.P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Paris 1845-55, vol. CL; Epistolae, ed. critica e tr. ingl. a cura di H. Clover - M. Gibson, The Letters of Lanfranc Archbishop of Canterbury, Oxford 1979; Decreta Lanfranci, ed. a cura di D. KNOWLES, The Monastic Constitutions of Lanfranc, nuova ed. a cura di C. Nugen - L. Brooke, Oxford 2002. Su Lanfranco di Pavia: G. D’ONOFRIO (a cura di), Lanfranco di Pavia e l’Europa del secolo XI, nel IX centenario della morte (1089-1989), «Atti del Convegno internazionale di studi, Pavia, Almo Collegio Borromeo, 21-24 settembre 1989», in «Italia Sacra, Studi e documenti di storia ecclesiastica», vol. LI, Roma 1993; G. D’ONOFRIO, La crisi dell’equilibrio teologico altomedievale (1030-1095), in G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. I: I principi, Casale Monferrato 1996, pp. 450-457 (bibl., pp. 476-477).

LANG, ANDREW. – Classicista, storico delle Lang religioni e antropologo scozzese, n. il 31 marzo 1844 a Selkirk, in Scozia, m. il 20 luglio 1912 ad Aberdeen. Giunto a Oxford con una borsa di studio del Balliol College, dopo aver studiato alla Edinburgh Academy e alle università di Saint Andrews e Glasgow, si laureò nel 1868. Divenuto Fellow del Merton College vi rimase fino al 1874 dedicandosi alla ricerca antropologica. Nell’anno successivo si trasferì a Londra, dove iniziò a dedicarsi alla carriera di critico letterario, che coltivò accanto alla attività di scrittore di fiabe, di romanziere e poeta (si ricorda la 6216

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raccolta Helen of Troy, London 1882), di traduttore di Omero e di studioso di folclore e di problemi storico-religiosi. Tra i più noti giornalisti del tempo fu editorialista del Daily News e curò per il Longman’s Magazine una rubrica chiamata «At the Sign of the Ship». Se tuttora sono apprezzate le sue versioni in prosa dell’Odissea (London 1879) in collaborazione con S.H. Butcher e quella dell’Iliade (London 1883) con E. Myers e W. Leaf, in stile arcaico, a Lang molte generazioni devono il loro incontro con il mondo magico della fiaba: tra il 1889, anno d’edizione di The Blue Fairy Book, e il 1910, in cui fu dato alle stampe The Lilac Fairy Book, Lang pubblicò ben dodici raccolte di fiabe, ciascuna intitolata con un diverso colore, oltre all’edizione di My Own Fairy Book (Bristol 1895). In occasione di una lezione su Lang tenuta nel 1938 all’università Saint Andrews lo stesso Tolkien, pur in una visione critica della concezione vittoriana della fiaba, riconobbe i meriti dell’autore di quel The Red Fairy Book del 1890, tra le cui pagine da bambino si era imbattuto nella visione del drago Fafnir, che tanto lo avrebbe affascinato nella sua opera di studioso del Medioevo e di scrittore di racconti fantastici. Come editore Lang curò la pubblicazione di uno dei trattati fondamentali sul folclore scozzese, Secret Commonwealth di Robert Kirk. Fondatore della British Folklore Society, fu membro della Society for Psychical Research. Profondo conoscitore della cultura classica e della mitologia di molti popoli, Lang diede un importante contributo alla storia dell’antropologia e delle scienze religiose, affrontando in chiave epistemologica i problemi interpretativi sollevati nel XIX secolo dall’antropologia evoluzionista e dalla linguistica sull’origine e sul senso dell’esperienza religiosa. In Myth, Ritual and Religion (I-II, London 1887) Lang prese le distanze dalla teoria animistica proposta da E.B. Tylor, sostenendo l’inderivabilità del concetto di Dio, creatore, onnipotente e onnisciente dall’evoluzione e dallo sviluppo delle nozioni di anima o di spirito: la presenza di tale idea presso popolazioni culturalmente più arretrate lo indusse ad avanzare l’ipotesi che l’idea di Dio potesse precedere i concetti, da cui l’evoluzionismo la faceva derivare. In Modern Mythology (London 1897) Lang affrontò la questione sollevata da Max Müller sull’origine del mito quale espressione di una ‹ ‹ malattia del linguaggio› › , mostrando l’infondatezza di una teoria nata in se-

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de puramente filologica sulla base delle prove, che la mitologia comparata offre a favore della tendenza universale dell’uomo a personificare i fenomeni della natura. Con lo stesso intento critico Lang mise in dubbio la validità dell’impianto evoluzionistico della teoria creata da J. Frazer, che interpreta il sorgere della religione con il venir meno di un precedente e universale mondo magico corroso dal suo incessante fallimento nello sforzo di piegare le potenze naturali al dominio dell’uomo (Magic and Religion, London 1901). Precursore delle teorie sull’«Essere supremo», che negli anni a venire videro impegnati eminenti studiosi nei due ambiti dell’etno-antropologia e della storia delle religioni come, ad es., W. Schmidt e R. Pettazzoni, Lang sviluppò in tarda età interessi per lo studio dello psichismo religioso, asserendo la fondatezza di fenomeni spiritistici e telepatici, entro i cui orizzonti si potrebbero indagare le radici stesse dell’esperienza religiosa. Grande conoscitore della Scozia iniziò sul finire della vita a stendere l’autorevole Highways and Byways of the Border, portato a termine alla sua morte dalla moglie e dal figlio (London 1913). G. Camuri BIBL.: Custom and Myth, London 1884; Cock Lane and Common-Sense, London 1894; The Book of Dreams and Ghosts, London 1897; A History of Scotland from the Roman Occupation, I-IV, Edinburgh 1900-1907. Su Lang: R.L. GREEN, Andrew Lang. A Critical Biography with a Short-Title Bibliography of the Works of Andrew Lang, Leicester 1946.

LANGE, Lange FRIEDRICH ALBERT. – Filosofo tedesco, n. a Wald, presso Solingen, il 28 sett. 1828, m. a Marburgo il 21 nov. 1875. Studia a Zurigo e poi a Bonn, dove consegue la docenza nel 1855. Dal 1858 al 1862 insegna al ginnasio di Duisburg; lascia l’insegnamento per motivi politici e lavora come pubblicista e segretario della locale camera di commercio. Nel 1866 emigra in Svizzera e nel 1870 è nominato professore all’università di Zurigo. Da qui, nel 1872, è chiamato all’università di Marburg, dove ha tra i suoi primi allievi Hermann Cohen. Lange si forma inizialmente sotto l’influsso della psicologia herbartiana e delle concezioni di F.D.E. Schleiermacher intorno al linguaggio, alla logica e alla dialettica, con le quali viene a contatto attraverso F. Ueberweg. È però decisi-

Lange vo per lo sviluppo delle sue concezioni l’intreccio tra fisiologia delle sensazioni, analisi psicologica nei termini della «chimica mentale» di J.S. Mill e teoria kantiana della conoscenza che costituisce il nucleo problematico del «ritorno a Kant» che si avvia già nel corso degli anni cinquanta del secolo XIX e di cui poi lo stesso Lange si fa attivo promotore. Lange condivide sia la teoria milliana dell’induzione sia le concezioni gnoseologiche (in primo luogo quella dell’«inferenza inconscia») maturate nell’ambito della fisiologia tedesca, soprattutto con H.L.F. von Helmholtz. Il rifiuto del dogmatismo speculativo degli epigoni della tradizione idealistica si accompagna così ad una valutazione positiva del materialismo non come «visione del mondo», ma come esigenza di un modello altamente funzionale dal punto di vista della indagine sperimentale come è quello meccanicistico delle scienze fisico-chimiche. Il processo sensorial-percettivo alla base della conoscenza della realtà, una volta analizzato con gli strumenti della indagine scientifica, rivela delle sue strutture costanti. Appare perciò legittimo sostenere che la teoria kantiana delle forme pure dell’intuizione e dello schematismo ha trovato la sua «giustificazione» nei risultati della fisiologia delle sensazioni. Lange ritiene su questa base possibile rafforzare e precisare il rinnovamento della riflessione filosofica proposto da Kant nei termini della «rivoluzione copernicana», non senza – come tutti i primi sostenitori di un «ritorno a Kant» – dare nello stesso tempo atto a Schopenhauer di essere stato tra i primi ad avere colto il nesso non accidentale tra teoria kantiana della conoscenza e fisiologia delle sensazioni. Gli oggetti di esperienza – afferma Lange richiamandosi alla sostanza del detto kantiano – non sono niente altro che i «nostri oggetti»; l’intera oggettività, lungi dall’essere assoluta, è una oggettività «solo per l’uomo e per gli esseri organizzati allo stesso modo». La nostra natura, la nostra struttura fisiologica ci obbliga a «fare esperienza nel modo in cui la facciamo, a pensare nel modo in cui pensiamo». Sono inoltre le questioni della sfera pratica a interessare vivamente Lange, che ad esse si accosta con una specifica attenzione per i problemi sociali nati con la rivoluzione industriale e che anche in questo caso deriva dal dibattito britannico spunti fondamentali. Ma sono anche le questioni più specificatamente etiche a sollecitare l’interesse di Lange, sensibile una 6217

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Lange volta di più alle prospettive aperte dalla riflessione di Schopenhauer e perciò indotto (non va d’altronde dimenticato il forte interesse per la tematica dell’utilitarismo e della economia politica) a prendere per più aspetti le distanze dalle tesi di Kant, o quantomeno dal Kant della «ragion pratica». Lange assegna l’etica, al pari della religione e dell’estetica, al dominio della «poesia» e ne ritiene quindi impossibile una fondazione scientifica. La necessità della «poesia» ovvero di una aspirazione verso l’armonia, verso un ideale di forma perfetta è sottolineata da Lange – in nome di un «punto di vista dell’ideale» – in termini direttamente ispirati alle teorie di Schiller circa il nesso di estetica e di etica. E al «punto di vista dell’ideale» Lange si richiama esplicitamente anche nelle sue considerazioni sulla «questione sociale», la cui soluzione pare potersi dare a condizione che l’egoismo sia abbandonato e superato con la realizzazione dell’ideale della perfezione umana. F. Barone - S. Poggi BIBL.: Die Arbeiterfrage in ihrer Bedeutung für Gegenwart und Zukunft, Duisburg 1865; Die Grundlagen der mathematischen Psychologie, ein Versuch zur Nachweisung des fundamentalen Fehlers bei Herbart und Drobisch, Duisburg 1865; Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart, Iserlohn 1866, Duisburg (1873-752), ed. ampliata in 2 voll., tr. it. di A. Treves, Storia critica del materialismo, Milano 1932; John Stuart Mills Ansichten über die soziale Frage und die angebliche Umwälzung der Sozialwissenschaften durch Carey, Iserlohn 1866; H. Cohen (a cura di), Logische Studien. Ein Beitrag zur Neubegründung der formalen Logik und der Erkenntnistheorie, Iserlohn 1877 (Leipzig 18942). Su Lange: A. FAGGI, Friedrich Albert Lange e il materialismo, Firenze 1896; S. POGGI, I sistemi dell’esperienza. Psicologia, logica e teoria della conoscenza da Kant a Wundt, Bologna 1977, pp. 37-56; G.J. STACK, Lange und Nietzsche, Berlin - New York 1983; F. FREIMUTH, Friedrich Albert Lange. Denker der Pluralität: Erkenntnistheorie, Pädagogik, Politik, Frankfurt am Main 1995; B. JACOBSEN, Max Weber und Friedrich Albert Lange: Rezeption und Innovation, Wiesbaden 1999.

LANGE, JOHANN JOACHIM. – Avversario della Lange filosofia leibniziano-wolffiana, n. a Gardlegen il 26 ott. 1670, m. a Halle il 7 magg. 1744. Professore a Halle, in forza del suo protestantesimo pietistico giudicò irreligiose le dottrine professate in quella stessa università da Wolff, il cui leibnizianesimo egli vedeva incline a un 6218

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determinismo spinoziano. Adoperò perciò tutta l’influenza di cui disponeva presso Federico Guglielmo I di Prussia per far deporre il collega, che dovette anche lasciare la città (1723). In quello stesso anno Lange pubblicò a Halle lo scritto Causa Dei et religionis naturalis, adversus atheismum, in cui illustrava l’ateismo di fondo del wolffismo, nonché una Modesta disquisitio novi philosophiae systematis de Deo, mondo et homine et praesertim harmonia commercii inter animam et corpus praestabilita (ivi 1723), ove cercava di dare alle dottrine leibniziane uno sviluppo meno pericoloso per la religione. V. Mathieu BIBL.: B. BIANCO, Libertà e fatalismo. Sulla polemica tra Joachim Lange e Christian Wolff, in «Verifiche», 15 (1986), pp. 43-89; AA.VV., Johann Joachim Lange der «Hällische Feind» oder: ein anderes Gesicht der Aufklärung. Ausgewählte Texte und Dokumente zum Streit über Freiheit -Determinismus, Halle-Saale 1996.

LANGE, Lange JULIUS HENRIK. – Storico dell’arte ed estetico danese, fratello di Konrad, n. a Vordingborg (Sjælland) il 19 giu. 1838, m. a Copenaghen il 20 sett. 1896. Fu docente dell’accademia (1870) e professore nell’università di Copenaghen (1875). S’interessò particolarmente dell’arte greca, e, in opposizione all’estetica speculativo-filosofica, sostenne un’estetica realistica e positivistica. G. Santinello BIBL.: Om Kunstvaerdi, 1876, tr. ted. di F. Nagler, Introduzione di J. von Schlosser, Vom Kunstwerk, Zürich 1925 (?) [1874-76]; Guder og Mennesker hos Homer, 1881; Menneskefiguren i Kunstens Historie fra den graeske Kunsts artden Blomstringstid indtil vort Aarhundrede, 1899; Darstellung des Menschen in der älteren griechischen Kunst, tr. ted. di M. Mann - C. Jorgensen, a cura di A. Furtwangler, Strassburg 1899; Ausgewählte Schriften, 1900-03, 3 voll.; Briefe, 1903; Studien über Michelangelo, tr. ted. di I. Jacob-Anders, Strassburg 1910; Studien über Leonardo da Vinci, tr. ted. di I. Jacob-Anders, Strassburg s. d. Su Lange: Meyers Kunstlexikon, Leipzig 1927, vol. VIII, col. 580; F. KAINZ, in «Zeitschrift für Ästhetik», (1928), pp. 449-453.

LANGE, KONRAD. – Studioso di estetica, n. a Lange Gottinga il 15 mar. 1855, m. a Tubinga il 30 lug. 1921. Insegnò nella città natale, a Königsberg e a Tubinga. Fine dell'arte è, per Lange, il piacere che si ottiene attraverso l’illusione. Questo assioma

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esclude però qualsiasi concetto sensistico, ammettendo solo il piacere che placa le facoltà superiori dell’anima, cioè il piacere estetico. A tale esito l’arte giunge offrendo un’immagine convincente di vita reale, che porti il lettore o lo spettatore a rappresentazioni fantastiche ben definite. L’arte «non è semplicemente natura, ma natura vista da un temperamento, cioè trasformata da una personalità artistica fortemente sensibile e nello stesso tempo familiarizzata con le leggi della rappresentazione artistica» (Das Wesen der Kunst, Berlin 19072, p. 341). Il risultato concreto dell’opera d’arte, in colui che le si accosta, è l’eccitazione illusoria, qualcosa di diverso dall'eccitazione sensibile. È appunto l’illusione estetica che nelle rappresentazioni tragiche concede allo spettatore la possibilità di sottrarsi al peso di orrore che lo spettacolo di per sé tenderebbe a creare. L’arte, perciò, «libera da qualsiasi interesse d’altro genere, non è se non gioco, e non ha altro scopo che di produrre illusioni, ma tali da contribuire a colmare le lacune della vita sentimentale umana e ad approfondire, allargandola, la natura sensibile, etica e intellettuale dell’uomo» (ibi, p. 657). G. Pizzetto BIBL.: Gedanken zu einer Ästhetik auf entwicklungsgeschichtliche Grundlage, in «Zeitschrift für Psychologie», 14 (1897); Über die Methode der Kunstphilosophie, in «Zeitschrift für Psychologie», 36 (1904); Über den Zweck der Kunst, Stuttgart 1912; Die ästhetische Illusion und ihre Kritiker, in «Annales de Philosophie», 1 (1918); Das Kino in Gegenwart und Zukunft, Stuttgart 1920. Su Lange: M. PORENA, L’estetica tedesca all’alba del sec. XX, «L’essenza dell'arte» di C. Lange, in «Rivista d’Italia», 6 (1911); A. PLEBE, L’estetica tedesca del ’900, in «Momenti e problemi di storia dell’estetica», III (1961), pp. 1211-1212.

L’ANGE HUET, JOSUÉ. – Teologo e filosofo L’Ange Huet olandese, n. a Haarlem il 3 nov. del 1840, m. a Rangkas Betung (Giava) nell’estate del 1924. Addottoratosi in teologia a Leida (1866) con la tesi De methode der positieve filosofie volgens A. Comte, scelse di dedicarsi alla ricerca filosofica, abbandonando l’ufficio di pastore protestante. Invitato nel 1876 in Indonesia per dirigere un giornale, si ritirò verso la fine del 1800 nel Bantam, dove morì. Nella sua tesi L’Ange Huet mostrò il ruolo che il positivismo svolge nei riguardi della teologia. In seguito applicò lo stesso metodo al problema della causalità,

Langer intesa come proiezione del rapporto tra l’intenzione umana e l’effetto corrispondente nel campo dei mutamenti che si realizzano senza la mediazione umana. M. Marlet BIBL.: Nieuwe oplossing van een oud vraagstuk. De methode van het positivisme toegepast op het begrip van oorxaak en gevolg (Nuova soluzione di un vecchio problema. Il metodo del positivismo applicato al concetto di causa ed effetto), Leiden 1872. Su L’Ange Huet: F. SASSEN, Geschiedenis van de wijsbegeerte in Nederland tot het einde der negentiende eeuw (Storia della filosofia nei Paesi Bassi fino alla fine del secolo XIX), Amsterdam 1959.

LANGER, SUSANNE KATHERINE KNAUTH. – FiLanger losofa americana, n. a New York il 20 dic. 1895, m. a Old Lyme ( Connecticut) il 17 luglio 1985. Formatasi al Radcliffe College, dopo un breve soggiorno presso l’università di Vienna (192122), vi fece ritorno per proseguire gli studi sotto la guida di Alfred N. Whitehead. Nel 1926 conseguì il PHD con una dissertazione sul problema dell’analisi logica del significato. Dal 1927 al 1942 fu tutor in filosofia presso il Radcliffe College. In seguito lavorò con l’incarico di assistente all’università di Delaware e di lettrice alla Columbia University. Visiting professor in numerose università americane, insegnò dal 1954 al 1962 al Connecticut College a New London. Nel 1960 fu eletta all’American Academy of Arts and Sciences. Autrice di un’importante An Introduction to Symbolic Logic (New York 1937, 19673), ispirata al Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein e ai Principia mathematica di Bertrand Russell e Whitehead, la Langer dedicò gran parte della sua esistenza alla costruzione di una teoria generale del simbolismo. Nutrita di una forte esperienza di musicista e di scrittrice di fiabe – il suo primo libro fu una raccolta di fiabe illustrate da Helen Sewell, The Cruise of the Little Dipper and Other Fairy Tales (1923) – esplorò a fondo (sulla scia delle ricerche linguistiche di Edward Sapir e delle indagini epistemologiche di Ernst Cassirer, di cui nel 1925 tradusse Sprache und Mythos) le condizioni trascendentali dell’esperienza espressiva, che al di là delle «forme discorsive» del pensiero razionale si manifesta nella creazione di «forme presentazionali» o «simboli inconsumati», caratterizzati da continuità, totalità, organicità, quali sono le figure e i comportamenti propri del rito, del mito e dell’arte. 6219

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Langue - parole Con la differenziazione dei due ordini simbolici esposta in Philosophy in a New Key. A Study in the Symbolism of Reason, Rite and Art (Cambridge [Massachusetts] 1942, 19573, tr. it. di G. Pettenati, Filosofia in una nuova chiave. Linguaggio, rito, mito e arte, Roma 1972), la Langer decretò il superamento del pregiudizio analitico della superiorità del linguaggio proposizionale e l’avvio di una diversa concezione del pensiero fondata sul processo trasformazionale, che opera al livello imprescindibile del «sentire» umano e determina la creazione dei rapporti strutturali che affondano nelle molteplici dimensioni pre-riflessive della vita. Al termine di un decennio di ricerche condotte in collaborazione con esponenti del mondo delle arti, grazie a un contributo della Rockefeller Foundation, pubblicò Feeling and Form. A Theory of Art developed from Philosophy in a New Key (New York 1953, tr. it. di L. Formigari, Sentimento e forma, Milano 1965), uno dei trattati di estetica più incisivi e discussi del Novecento, contenente una complessa fenomenologia delle arti costruita sulla categoria di «oggetto virtuale», elaborata dalla reinterpretazione della nozione neokantiana di forma simbolica, mutuata dalla Philosophie der symbolischen Formen di Cassirer, alla luce del concetto di simbolo prospettato da Freud nel contesto specifico del processo onirico descritto in Traumdeutung. In quest’opera la Langer sviluppò a pieno una concezione nuova dell’estetica quale teoria generale della corporeità, individuando nel processo di simbolizzazione diffuso nel gesto del corpo la radice dei campi in cui si costituisce il simbolismo artistico. Dalla scoperta del corpo-metafora trasse poi origine Mind. An Essay on Human Feeling (Baltimore-London 1967-83), un’imponente trilogia dedicata al superamento della dicotomia d’ispirazione cartesiana tra corpo e anima, ragione ed emozione e alla ricostruzione dei processi che portano dal mondo della materia vivente alla formazione dei simboli primordiali della coscienza umana. G. Camuri BIBL.: altre opere: The Practice of Philosophy, New York 1930; Problems of Art. Ten Philosophical Lectures, New York - London 1957, tr. it. di M. Attardo Magrini, Problemi dell’arte. Dieci conferenze filosofiche, Milano 1962; Reflections on Art: a Source Book of Writings by Artists, Critics and Philosophers, Baltimore 1958; Philosophical Sketches, Baltimore 1962.

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Su Langer: B. KÖSTERS, Gefühl, Abstraktion, symbolische Trasformation. Zu Susanne Langers Philosophie des Lebendigen, Frankfurt am Main - Berlin 1993; R. LACHMANN, Susanne K. Langer. Die lebendige Form des menschlichen Fühlens und Verstehens, München 2000.

LANGUE PAROLE. – Questa distinzione è Langue - -parole stata introdotta da Saussure. Identifica la langue con «un tesoro depositato dalla pratica della parola nei soggetti che appartengono a una stessa comunità, un sistema grammaticale che esiste in forma virtuale in ciascun individuo o, più esattamente, nel cervello di un insieme di individui» (Cours de linguistique générale, edizione critica, Engler, Wiesbaden 1968, p. 6). È frutto dell’evoluzione sociale di un popolo e quindi è patrimonio di una collettività. Poiché consiste nell’insieme di regole che, in un certo ambito linguistico, governano l’uso dei suoni, delle forme e degli strumenti sintattici di espressione, la langue corrisponde all’aspetto istituzionale e normativo del linguaggio, ma non al suo impiego effettivo. La parole, invece, «è un atto individuale di volontà e di intelligenza, nel quale occorre distinguere, in primo luogo, le combinazioni con cui il soggetto parlante utilizza il codice della lingua in vista dell’espressione del proprio pensiero personale, poi, il meccanismo psico-fisico che gli permette di esternare tali combinazioni» (ibi, p. 11). Data questa sua origine, la parole rappresenta l’atto linguistico effettivamente compiuto dai parlanti all’interno di un contesto storicamente determinato. Sebbene siano tra loro differenti, tuttavia la langue e la parole si implicano vicendevolmente. La langue costituisce il sistema di regole sintattiche e semantiche a cui l’individuo deve sottostare per rendere comprensibile quanto egli dice; la parole equivale all’applicazione pratica della langue in relazione a quello che il singolo individuo vuole esprimere e in relazione a quello che vuole comunicare: «Vi è dunque interdipendenza tra la langue e la parole: l’una è nello stesso tempo lo strumento e il prodotto dell’altro» (ibi, p. 15). La langue si evolve in stretta relazione all’uso che ne facciamo, cioè in virtù della parole. Il carattere individuale e personale della parole, dipende dalla «libertà delle combinazioni». È assai probabile che Saussure, quando parlava di «libertà di combinazioni», non si riferiva all’aspetto puramente

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e astrattamente sintattico di esse, bensì all’aspetto semantico. Langue e parole sono due termini che si oppongono, ma, nello stesso tempo si completano e si condizionano reciprocamente. L’apparizione della nozione di idioletto, della «lingua individuale», non mette in crisi la nozione saussuriana di langue, perché l’assorbe in sé senza annullarla. Di conseguenza, non mette neppure in crisi la distinzione di langue e parole. R. Raggiunti BIBL.: R. HIERSCHE, Ferdinand de Saussures langue-parole-Konzeption und sein Verhältnis zu Durkheim und von der Gabelentz, Innsbruck 1972; G. DRESSELHAUS, Langue/Parole und Kompetenz/Performanz: zur Klärung der Begriffspaare bei Saussure und Chomsky, Frankfurt am Main 1979; P. BOTTARI, Ricerche saussuriane: langage: langue e parole o langage, parole e langue?, Pisa 1985; D. Holdcroft, Saussure: Signs, System and Arbitrariness, Cambridge 1991; AA.VV., Langue and parole in synchronic and diachronic perspective, Amsterdam 1999; S. BADIR, Saussure: la langue et sa représentation, Paris 2001.

LANGUET, HUBERT. – Scrittore e politico Languet ugonotto, n. a Vitteaux (Borgogna) nel 1518, m. ad Anversa il 30 sett. 1581. Gli si suole attribuire le Vindiciae contra tyrannos, che furono forse composte in collaborazione con Philippe Du Plessis-Mornay. Pubblicate anonime per la prima volta a Edimburgo nel 1579 (tr. ingl. a cura di G. Garnett, Cambridge-New York 1994) con lo pseudonimo di Iunius Brutus, rappresentano la più completa esposizione della piattaforma ideologico-politica degli ugonotti. La società politica ritrova il suo fondamento, come ci viene mostrato dalla Bibbia, nella volontà di Dio, che ha fatto il popolo depositario della sovranità, incaricandolo dell’elezione del re e della formulazione delle leggi fondamentali del regno. I rapporti fra il popolo, il re e Dio sono regolati da un duplice patto: il primo intercorre fra il popolo e il re da una parte e Dio dall’altra, e in forza di esso i primi due si impegnano a rispettare la religione che Dio stesso ha insegnato agli uomini; il secondo intercorre fra il popolo e il re, e riguarda l’esercizio del potere politico da parte del sovrano, nel senso che questi è impegnato dal patto a rispettare, nella sua attività di governo, le leggi fondamentali del regno. II re che viola il patto deve essere considerato un tiranno e va quindi deposto dal trono; qualora insista nella sua azione tirannica il popolo ha il di-

Laozi ritto di insorgere contro di lui. Nelle Vindiciae il popolo è ancora concepito organicamente e non come complesso di individui; la sovranità, in ultima analisi, viene delegata dal popolo, irrevocabilmente, all’assemblea degli «ordini» che costituiscono le classi nobili del regno. Quest’ultimo non viene concepito unitariamente, come dotato di una sua propria e specifica autonomia, bensì come federazione delle varie regioni che lo costituiscono e che possono, pertanto, darsi una nuova organizzazione politica sovrana qualora il re dovesse violare il patto intercorso fra lui e il popolo. Questa concezione federalistica della Respublica fu ripresa ed elaborata in un preciso sistema giuspubblicistico da Althusius nella Politica methodice digesta (Herbornae 1603), offrendo la prima giustificazione teorica della Confederazione dei Paesi Bassi. M. D’Addio BIBL.: P. MESNARD, L’essor de la philosophie politique au XVIe siècle, Paris 19522, pp. 340-347, tr. it. a cura di L. Firpo, Il pensiero politico rinascimentale, Bari 1963-64, 2 voll.; B. NICOLLIER, Hubert Languet: un réseau politique international de Melanchton à Guillaume d’Orange, Genève 1995.

LAOZI. – Tradizionalmente considerato l’iniLaozi ziatore della Scuola del Dao (daojia) e l’autore del Daodejing (Classico della Via e della Potenza, noto anche come Qianzi wen «Scrittura in cinquemila caratteri»). L’appellativo Laozi viene interpretato come Vecchio Maestro ma anche, nelle narrazioni orali che arricchiscono la sua agiografia, come Vecchio Bambino (in questo caso l’interpretazione del carattere zi come «bambino» fa riferimento alla sua nascita miracolosa dall’ascella della madre, quando, dopo una gestazione durata più di ottant’anni, viene al mondo con capelli e barba già bianchi). A partire dalla rivelazione di nuovi insegnamenti taoisti nel II secolo d. C., che inaugura la Via dei Maestri Celesti (detta anche Zhengyi, «Via dell’Uno Ortodosso»), Laozi verrà «divinizzato» con il titolo di Taishang Laojun (il Supremo Signore Lao). Secondo la biografia contenuta nello Shiji, l’autore del Daodejing, nativo dello stato di Chu, avrebbe rivestito la funzione di archivista alla corte dei Zhou; il suo nome di famiglia sarebbe stato Li, il suo nome proprio Er di «orecchio» (carattere che, come del resto l’ulteriore appellativo Dan, fa riferimento alla notevole lunghezza delle sue orecchie, segno di grande saggezza). Nello 6221

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Laplace

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stesso Shiji, ma anche nel Zhuangzi, si narra che Confucio si sarebbe in più occasioni recato a consultarlo; indipendentemente dall’attendibilità storica di questi incontri, il riconoscimento da parte di Confucio della superiorità della via spirituale di Laozi non fa che confermare la diversità di ampiezza delle due prospettive dottrinali e del loro oggetto: l’ordine umano e cosmico, per i confuciani, i principi metafisici, che di tale ordine sono la ragion d’essere, per i taoisti. La discussione sulla storia testuale e sulla datazione del Daodejing (cfr. W.G. Boltz, Lao tzu Tao te ching, in M. Loewe, Early Chinese Texts. A Bibliographical Guide, Berkeley 1993, pp. 269-292) si è recentemente riaccesa dopo il ritrovamento di due versioni su seta e una su listelli di bambù, versioni che antedatano notevolmente il textus receptus risalente al II-III secolo d. C. A. Cadonna

LAPLACE, PIERRE SIMON. – Marchese di BeLaplace aumont-en-Auge (Normandia), n. il 28 mar. 1749, m. il 5 mar. 1827 a Parigi. Astronomo, fisico, matematico, ingegno precoce, a soli 18 anni per interessamento di D’Alembert fu nominato insegnante all’Ecole militaire di Parigi. Dedicatosi all’astronomia, riuscì immediatamente a risolvere il grave problema dell’instabilità del sistema solare, aperto da Newton, dimostrando nel 1766 (in una forma che sarà ritoccata successivamente) che gli apparenti scostamenti annuali di Giove e Saturno dalle orbite ritenute stabili sono in realtà parte di un movimento periodico simile a quello di un pendolo, non portatori di conseguenze catastrofiche. In questa occasione Laplace compì un passaggio metodologico decisivo per la scienza settecentesca: l’impossibilità di risolvere per via diretta le equazioni dei moti planetari e la necessità di accontentarsi di soluzioni approssimate, ottenute anche con il ricorso al calcolo delle probabilità, lo convinsero della necessità di passare da una scienza sicura, precisa, perfettamente deterministica, razionale in quanto capitolo della matematica, a un’altra empiristica, approssimata e probabile. Fu in questa occasione che egli enunciò per la prima volta la sua celebre tesi, manifesto del meccanicismo, che contrappone un’intelligenza superiore, in grado di prevedere con certezza il futuro grazie alle leggi della meccanica, ritenuta scienza perfetta, definitiva, all’intelligenza umana che si deve accontenta6222

re di una conoscenza sempre ottenuta mediante la meccanica, ma imperfetta. Laplace estese poi l’applicazione del modello astronomico a svariati ambiti fenomenici, riuscendo a formare attorno a sé la prima vera scuola di fisica, che a cavallo tra i due secoli rappresentò l’avanguardia della scienza mondiale imponendo un tipo di fisica che riteneva necessario assumere come base di partenza per la spiegazione di ogni campo fenomenico la costruzione di un ipotetico modello meccanico. Il meccanicismo laplaciano sarà superato definitivamente solo all’inizio del XX secolo. Laplace riuscì ad acquistare grande influenza politica, diventando brevemente ministro di Napoleone nel 1799 e vicepresidente del senato nel 1803. Con la Restaurazione il suo potere fu ridimensionato, ma non di molto: nel 1817 divenne presidente dell’Académie de France. Le sue ricerche furono esposte principalmente nei 5 volumi del Traité de mécanique céleste (Paris 1799-1825). Di grande importanza fu la Théorie analytique des probabilités (Paris 181220), atto di nascita della teoria della probabilità. Di grande successo fu l’opera divulgativa di astronomia Exposition du système du monde (Paris 1796), nella quale è esposta la celebre ipotesi, anticipata da Kant, dell’origine del sistema solare a partire da una nebulosa. R. Maiocchi BIBL.: le opere complete di Laplace sono state pubblicate dall’Académie de France (1878-1912). Su Laplace: M.P. CROSLAND, The Society of Arcueil: a View of French Science at the Time of Napoleon I, Cambridge (Massachusetts) 1967; R. FOX, The Rise and Fall of Laplacian Physics, in «Historical Studies in Physical Sciences», 4 (1974), pp. 89-136; J. MERLEAUPONTY, Situation et rôle de l’hypothèse cosmogonique dans la pensée cosmologique de Laplace, in «Revue d’historie des sciences et de leurs applications», 29 (1976), pp. 21-49; I. GRATTAN-GUINNES, Laplace, in Dictionary of Scientific Biography, vol. 15, New York 1978, pp. 273-403; S.M. STIGLER, Laplace’s Early Work: Chronology and Citations, in «Isis», 69 (1978), pp. 234-254; J. DHOMBRES, La théorie de la capillarité selon Laplace: mathématisation superficielle ou étendue?, in «Revue d’histoire des sciences», 42 (1989), pp. 43-77; C.C. GILLISPIE - R. FOX - I. GRATTAN-GUINNESS, Pierre-Simon Laplace, 1749-1827. A Life in Exact Science, Princeton (New Jersey) 1997.

LAPLACE, TEORIA DI. – Sotto questo nome si Laplace designa talora la concezione deterministica che sta a fondamento della fisica classica espressa in modo particolarmente efficace da

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Laporta

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Laplace nella prefazione della sua Théorie analytique des probabilités (Paris 18203, in Oeuvres, t. VII, Paris 1886, p. VI): «Nous devons donc envisager l’état présent de l’univers comme l’effet de son état antérieur et comme la cause de celui qui va suivre. Une intelligence qui, pour un instant donné, connaîtrait toutes les forces dont la nature est animée et la situation respective des étres qui la compose, embrasserait dans la même formule les mouvements des plus grands corps de l’univers et ceux du plus léger atome; rien ne serait incertain pour elle, et l’avenir comme le passé serait présent à ses yeux». Sul contesto e sul significato storico di questa celebre pagina si veda la voce Laplace, Pierre Simon; ci limitiamo qui ad alcune considerazione teoretiche. In linguaggio matematico, basta conoscere le leggi fisiche che sotto la forma di equazioni differenziali governano un sistema e le condizioni iniziali del sistema stesso in un istante determinato per poterne conoscere tutta la storia passata e futura; è ciò che fanno gli astronomi quando calcolano un’eclisse o il passaggio di una cometa. Naturalmente questa possibilità estesa a tutto l’universo è solo teorica per noi che non conosciamo esattamente tutte le leggi dell’universo fisico, né siamo in grado di determinare la posizione e velocità di tutti gli atomi che compongono l’universo a un dato istante e, quando anche possedessimo tutte queste conoscenze, saremmo incapaci di risolvere lo smisurato sistema di equazioni differenziali che ne risulterebbero; perciò talora si fa appello a un’intelligenza superiore, al così detto «spirito di Laplace», al qual proposito va osservato che sarebbe inesatto identificare questa intelligenza con Dio, il quale conosce in tutt’altro modo né ha bisogno di ricorrere a calcoli matematici (cfr. Agostino, De civ. D., XI, 21). Inoltre va notato che Laplace non tiene conto delle cause libere la cui azione non è esprimibile in termini di equazioni matematiche. Anche tenuto conto di queste restrizioni, la concezione deterministica di Laplace è ritenuta oggi superata dalla fisica, che riconosce all’attuazione di questo ideale una impossibilità non solo di fatto ma anche di principio, in virtù delle relazioni di indeterminazione di Heisenberg, che non ci permettono di determinare con la dovuta esattezza le condizioni iniziali, e della natura stessa della meccanica quantistica, che opera su probabilità anziché

su dati esatti. Resta però da determinare se questa impostazione della fisica atomica si debba ritenere definitiva, o se non possa un giorno venir superata con un ritorno a una nuova forma di fisica deterministica; inoltre, posto anche che il carattere probabilistico della nostra fisica sia definitivo, ci si può domandare se non si possa pensare a «parametri nascosti», vale a dire a cause a noi inconoscibili che determinano univocamente il comportamento delle particelle elementari. M. Vigano ➨ INDETERMINISMO FISICO; PROBABILITÀ.

LAPORTA, RAFFAELE. – Pedagogista italiano, Laporta n. a Castellammare Adriatico (poi Pescara) l’11 mar. 1916, m. a Firenze il 16 nov. 2000. Si laurea in legge, insegna Filosofia, Storia e Pedagogia nelle scuole secondarie e, dal 1963, diviene titolare della cattedra di Pedagogia presso l’Università degli Studi di Siena. Successivamente insegnerà anche negli atenei di Firenze, Cagliari, Bologna e Roma. Fin dall’inizio della sua carriera Laporta affronta i problemi della scuola che cerca di interpretare alla luce di una riflessione filosofico-educativa. Partecipa attivamente al dibattito teorico-epistemologico e si impegna in iniziative di pedagogia popolare nell’ambito dei CEMEA, dell’MCE e della direzione – a Firenze – di «Scuola-Città Pestalozzi». Laporta, tra gli anni sessanta e novanta, ha svolto un ruolo di guida esemplare per la pedagogia italiana, ponendo in luce la complessità del discorso pedagogico e affermando la centralità di un approccio metodologico organico e rigoroso, critico-razionale, ma aperto e dinamico, mai riduttivo. Ne La difficile scommessa (Firenze 1971) ha indicato una via epistemologica alla pedagogia, in modo da coniugare la dimensione teorica con quella empirica, la valenza axiologica con quella scientifica. La sua ricerca è stata caratterizzata da un’instancabile «analisi del discorso pedagogico», allo scopo di costituire una nuova «paidetica» e affermare nella società un principio educativo fondato sugli ideali della laicità e della convivenza democratica. Con esemplare coerenza, Laporta ha promosso lo sviluppo di una «scienza empirica dell’educazione», scandita tra fattualità e progettualità e sottratta ai condizionamenti ideologici, considerati prevaricatori rispetto alla metodologia della ricerca educativa. Un percorso che deweyanamente 6223

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Laporte

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ha rivendicato l’autonomia delle scienze dell’educazione, dotate di caratteri analoghi a quelli delle altre scienze umane, e ha individuato la centralità della libertà di apprendimento come vero e proprio «assoluto pedagogico». A. Mariani BIBL.: Educazione e libertà in una società in progresso, Firenze 1960; La comunità scolastica, Firenze 1963; La difficile scommessa, Firenze 1971; L’autoeducazione delle comunità, Firenze 1979; L’assoluto pedagogico, Firenze 1996. Su Laporta: F. CAMBI, Laporta e il «discorso pedagogico», in «Itinerari», 1-2 (1980), pp. 179-184; F. CAMBI, La «scuola di Firenze» da Codignola a Laporta (19501975), Napoli 1982; G. BROCCOLINI, Gli approcci epistemologici di Raffaele Laporta in pedagogia, in «I problemi della pedagogia», 1-2 (1987), pp. 181-207; AA.VV., Scritti offerti a Raffaele Laporta, Chieti 1990; M. MUZI, Laporta Raffaele, in M. LAENG (a cura di), Enciclopedia pedagogica, Brescia 1990, vol. IV, pp. 6551-6554; F. CAMBI, Con Laporta, oltre la pedagogia?, in «Scuola e Città», 1 (1997), pp. 5-12; F. CAMBI, Conversando con Raffaele Laporta, in «Studi sulla formazione», 2 (2000), pp. 160-162; AA.VV., Un pedagogista laico: Raffaele Laporta, in «Studi sulla formazione», 2 (2001), pp. 13-99; G. FLORES D’ARCAIS, Raffaele Laporta (1916-2000), in «Rassegna di pedagogia», 1-2 (2001), pp. 109-110; M. LAENG, Laporta Raffaele, in M. LAENG (a cura di), Enciclopedia pedagogica. Appendice A-Z (1994-2002), Brescia 2003, pp. 842843.

LAPORTE, JEAN. – Filosofo e storico della fiLaporte losofia, n. a Limoges il 23 mar. 1886, m. a Parigi il 6 dic. 1948. Fu professore alle facoltà di Caen (1920), Nancy (1923) e Parigi (1933). Accanto a ricerche teoretiche (L’abstraction, Paris 1940; L’idée de nécessité, ivi 1941 e La conscience de la liberté, ivi 1947), si è interessato in modo particolare di storia della filosofia e delle idee. Specialista della filosofia francese del sec. XVII, pubblicò importanti studi sul giansenismo, cui dedicò molti anni, dalla tesi di dottorato pubblicata a Parigi nel 1923 (La doctrine de Port-Royal) fino all’opera postuma La doctrine de Port-Royal. La morale d’après Arnauld (Paris 1951-1952). Inoltre: Le rationalisme de Descartes, ivi 1945; Le coeur et la raison selon Pascal, ivi 1950; e parecchi articoli in varie riviste, alcuni dei quali raccolti in Etudes d’histoire de la philosophie française au XVIIe siècle, ivi 1951. C. Rosso

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BIBL.: M. REYMOND, L’abstraction et la nécessité selon J. Laporte, in «Revue Théologique et Philosophique», 1943, pp. 174-131; A. KOYRÉ, Le rationalisme de Descartes, in «Europe», 1946, pp. 116-124; G. DELEDALLE, Réflexions sur l’abstraction et la nature de l’abstract, in «Revue Philosophique de Louvain», 1950, pp. 63-89.

LAPPARENT, ALBERT-AUGUST DE. – Geologo Lapparent francese, n. il 30 dic. 1839 a Bourges, m. il 5 magg. 1908 a Parigi. Dal 1875 titolare della cattedra di geologia e mineralogia all’istituto cattolico di Parigi. Tra le sue opere ricordiamo: Traité de géologie (Paris 1882); Course de minéralogie (ivi 1884); Géographie physique (ivi 1896). Alcune delle sue opere minori sono di stampo filosofico: Science et apologétique (ivi 1905); Science et philosophie (ivi 1906); La providence créatrice (ivi 1907). In esse Lapparent, profondamente cattolico, sviluppò un’apologetica scientifica, sostenendo non solo che le scienze non possono recar danno alla religione, ma altresì che servono per mettere in luce fatti come la finalità di fenomeni e l’ordine della natura, che trovano tuttavia la loro ultima spiegazione solo in sede teologica. Lapparent accettò l’evoluzionismo, limitandolo però alle trasformazioni nell’ambito della specie e adottando una forma di meccanicismo provvidenzialistico che presiede allo sviluppo delle condizioni vitali e finalizza l’evoluzione alla vita dell’uomo. A. Negri BIBL.: A. D’ALES, Études religieuses, Paris 1908, p. 511; A. MICHIELI, Albert de Lapparent, in «Rivista di Fisica, Matematica e Scienze Naturali», 10 (1908), pp. 225242; C. BARROIS, Albert-August de Lapparent et sa carrière scientifique, in «Revue des questions scientifiques», 43 (1909); E. HOCEDEZ, Histoire de la théologie au XIX siecle, vol. III, Bruxelles 1947, p. 211; E. DE MARGERIE, Albert de Lapparent, in «Annales de géographie», 94 (1954), pp. 344-347; A. CAILLEUX, AlbertAugust de Lapparent, in Dictionary of Scientific Biography, vol. 8, New York 1973, pp. 30-31.

LAPPO-DANILEVSKIJ, ALEKSÀNDER SERLappo-Danilevskij GÉEVIC. – N. a Pietroburgo il 15 genn. 1863, m. ivi il 7 genn. 1919. Storico e filosofo della storia russo, fu membro dell’accademia delle scienze. L’interesse per la filosofia nacque in LappoDanilevskij nel corso delle sue vaste e concrete ricerche storiche, che lo condussero alla necessità di chiarire e fondare filosoficamente il senso dell’indagine storica e il rapporto tra la

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«metodologia» e la «fenomenologia» nella scienza storica. Ciò lo indusse a elevare la metodologia della storia a scienza autonoma, la quale non poteva non basarsi su una teoria generale della conoscenza. Sul piano gnoseologico Lappo-Danilevskij seguì le soluzioni prospettate da Kant, ma insistette sulla necessità, per ogni teoria della conoscenza storica, di realizzare la sintesi tra la ragione pura e quella pratica per poter ritrovare i necessari criteri a priori d’una valutazione etica della storia. Il processo storico è per Lappo-Danilevskij un processo essenzialmente psicologico, che si svolge nella profonda sfera dei rapporti spirituali degli uomini con i gruppi sociali, caratterizzati dalla loro «coscienza collettiva». La conoscenza storica di tale processo deve quindi mirare a risolvere la sua antitesi fondamentale tra la concezione «nomotetica» e quella «idiografica». E proprio in funzione di questa esigenza Lappo-Danilevskij si sforzò di tracciare la sua metodologia della storia, considerandola, non senza l’influenza, da lui stesso riconosciuta, di Rickert e in parte di Windelband, come teoria della conoscenza scientifica del mondo concreto, quale realizzazione d’una sempre più profonda e operante unità etica. L. Gancikov BIBL.: Metodologija istorii, Petersburg 1910-23, 3 voll.; Istorija politiceskich idej v Rossii v 18-om veke, v svjazi s raxvitiem eë kul'tury i chodom eë politiki, Petersburg s. d., ora pubblicato in edizione integrale sulla base del lascito di Lappo-Danilevskij, Politische Ideen im Russland des 18. Jahrhunderts. Ihre Geschichte im Zusammenhang mit der allgemeinen Entwicklung der russischen Kultur und Politik, a cura di M. Sorokina e K. Lappo-Danilevskij, Köln-Weimar 2005; Istorija russkoj obcestvennoj mysli i kultury XVII-XVIII vv., Moskva 1990. Su Lappo-Danilevskij: n. mon., in «Russkij istoriceskij zurnal», 6 (1920), con bibliografia completa; A.V. MALINOV - S.N. POGODIN, A. Lappo-Danilevskij: istorik i filosof, Sankt-Peterburg 2001; E.A. ROSTOVCEV, A. S. Lappo-Danilevskij i peterburgskaja istoriceskaja skola, Rjazan’ 2004.

LAPŠIN, IVÀN IVÀNOVIC. – Pensatore russo, n. Lapšin l’11 ott. 1870 a Pietroburgo, m. nel nov. 1949 a Praga. Insegnò filosofia all’università di Pietroburgo sino al 1922, quando fu espulso dalla Russia insieme a un gruppo di filosofi ritenuti avversi

Larenz al regime sovietico; si stabilì quindi a Praga, dove visse e insegnò sino all’ultima guerra. Già nel 1906 aderì al criticismo kantiano, da lui (sotto l’influenza del suo maestro A. Vvedenskij) interpretato in senso strettamente fenomenistico. Trovandosi quindi su un piano così decisamente antimetafisico, egli non riuscì a prospettare alcuna soluzione veramente convincente ai problemi più assillanti del soggettivismo, a cui fu condotto dalla dialettica stessa del proprio criticismo. Così i suoi lavori principali, tanto il Problema cuzogo «ja» v novejsej filosofii (Il problema dell’io altrui nella filosofia contemporanea), Petersburg 1910, quanto la Oproverzenie solipzisma (Confutazione del solipsismo), Praga 1924, risultarono poco persuasivi. Ottimo invece il suo lavoro di psicologia Filosofija izobretenija i ixobretenie v filosofii (Filosofia dell’invenzione e invenzione in filosofia), Moskva 1922, 19992. L. Gancikov BIBL.: altre opere: Chudozestvennoe tvorcestvo (La creazione artistica) Petersburg 1922, Rimskij-Korsakov, Petersburg 1922; Estetika Dostoevskogo, Berlin 1923; Nikolai Rimsky-Korsakow: Zugänge zu Leben und Werk. Monographien. Schriften. Tagebücher. Verzeichnisse. Mit Beiträgen aus der Feder des Komponisten sowie von Ivàn Lapsin, a cura di E. Kuhn, Berlin 2000. Su Lapsin: L.J. SHRIN (a cura di), Readings in Russian Philosophical Thought: Logic and Aesthetics, The Hague 1973.

LARENZ, KARL. – N. nel 1903 a Wesel, m. nel Larenz 1993 a Monaco di Baviera. Allievo di Julius Binder a Gottinga, qui si addottora in Giurisprudenza nel 1926 e ottiene la libera docenza nel 1929. Nel 1933 occupa la cattedra di Diritto privato e Filosofia del Diritto all’università di Kiel, dove rimane fino al 1960 allorché è chiamato all’università di Monaco, dove resta fino alla pensione nel 1968. La filosofia del diritto di Larenz è uno degli esiti estremi della svolta idealistica, legata al nome di Rudolf Stammler, nel pensiero giusfilosofico e nella scienza giuridica tedesca. Stammler reinterpreta le categorie giuridiche alla luce del pensiero filosofico neo-kantiano, tentando in particolare di rinvenire giudizi sintetici a priori propri dell’esperienza giuridica. Questa fase viene poi sviluppata in termini hegeliani dall’idealismo «assoluto» di Binder e di Walter Schönfeld, le cui tesi sono infine radicalizzate da Larenz sia dal punto di vista metodologico sia da 6225

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La Rochefoucauld quello ideologico. Larenz si fa così sostenitore di una visione del diritto fortemente antiindividualistica e comunitaristica, facendo collassare l’ambito del diritto in quello dell’eticità e riformulando quest’ultima come sfera ontologizzata secondo una prospettiva etnicistica e anzi schiettamente razzistica. All’ethos viene sovrapposto l’ethnos di uno specifico popolo con accenti socialdarwinistici e non senza l’eco delle idee spiritualistiche e völkisch di un Paul de Lagarde. Tra il 1933 e il 1945 Larenz è, insieme a Carl Schmitt, il teorico del diritto più raffinato del nazionalsocialismo. Si fa così protagonista del movimento della Deutsche Rechtserneuerung, di una riforma cioè in profondità dell’ordinamento giuridico in applicazione dei principi nazisti. Rilevanti in quest’ambito sono le sue proposte in materia di diritto soggettivo, di cui propone la sostituzione con una organica e comunitaria Rechtsstellung, e in materia di contratto, condannato ad essere ridotto a mera Einigung. Nel dopoguerra Larenz ricostruisce, con successo, il proprio profilo, affermandosi come il maggiore giusprivatista del suo tempo. Il suo punto d’arrivo è infine una dottrina che mantiene in buona sostanza le tesi neo-hegeliane e geisteswissenschaftlich degli anni trenta, mescolandole con suggestioni che gli provengono dall’ermeneutica di Hans-Georg Gadamer e dalla topica di Theodor Viehweg. L’ultimo suo libro è dedicato al richtiges Recht, una formula propria di Stammler, e al recupero dunque della nozione dell’«idea del diritto», letta ancora con gli occhiali di una idiosincratica lettura di Hegel, in particolare del giovane Hegel antiliberale e misticheggiante. M. La Torre BIBL.: Das Problem der Rechtsgeltung, Berlin 1929; Rechts- und Staatswissenschaft der Gegenwart, Berlin 19352; Methodenlehre der Rechtswissenschaft, Berlin 19795, tr. it. a cura di S. Ventura, Storia del metodo nella scienza giuridica, Milano 1966; Richtiges Recht, München 1979.

LA ROCHEFOUCAULD, FRANÇOIS (duca La Rochefoucauld di). – Moralista e scrittore francese, n. a Parigi il 15 sett. 1613, m. ivi il 17 mar. 1680. Discendente da illustre e antica famiglia dell’Angoumois, fece parte giovanissimo della corte francese, conducendovi un’esistenza avventurosa. Partecipò a intrighi contro Richelieu, in favore di Anna d’Austria. Dopo la vittoria del cardinale, si ritirò in semiesilio a Ver6226

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teuil dove scrisse i Mémoires, racconto ponderato delle sue gesta politiche. Di ritorno a Parigi nel 1656, prese a frequentare i salotti mondani dove si discuteva di morale e di teologia, con particolare riferimento ai sentimenti umani. In questo clima nacquero le Réflexions ou sentences et maximes morales (Paris 1665 [(già Den Haag 1664, ed. incompleta e non autorizzata, con il titolo Sentences et Maximes morales]). La Rochefoucauld offre in esse un «portrait du coeur de l’homme», e il suo pensiero si perfeziona in considerazioni generali partendo dal principio che l’amor proprio è l’unico movente delle azioni umane, le quali sono contaminate dall’ambizione, dall’ingratitudine e dall’astuzia e celano motivi egoistici fin nelle manifestazioni più elevate quali l’eroismo, la bontà, l’amore e l’amicizia: «Les vertus se perdent dans l’intérêt comme les fleuves dans la mer». Tesi pessimistica che muove da un’analisi spietata per concludere con la negazione dell’idea di virtù, almeno come virtù pura; indagine senza remissione né redenzione, perché all’uomo decaduto il moralista non indica, come Pascal, la salvezza in Dio. Nei confronti di La Rochefoucauld, si è parlato troppo superficialmente di giansenismo; più che filosofo, egli fu un moralista disincantato e convinto della rarità dell’autentica virtù. Per la profondità dell’analisi psicologica, per le qualità della sua prosa, raccolta ed elaborata in raccourcis di notevole efficacia, egli si pone a buon diritto accanto ai grandi classici del Seicento francese, quali Pascal e La Bruyère, e vive nella gloriosa lignée dei moralisti che fanno capo a Montaigne. A. Bruzzi BIBL.: Mémoires, Amsterdam 1662 (a insaputa dell’autore); Réflexions ou Sentences et Maximes morales, ed. a cura di Gilbert et Gourdault, Paris 186883, 4 voll. Edd. recenti: Oeuvres complètes, a cura di L. Martin-Chauffier, Paris 1986; tr. it.: La fatica di diventare migliori, a cura di G. Vigini, Milano 2002 (ed. integrale delle Maximes). Su La Rochefoucauld: J. MARCHAND (a cura di), Bibliographie générale raisonnée de La Rochefoucauld, Paris 1948; A. BRUZZI, La formazione delle Maximes di La Rochefoucauld attraverso le edizioni originali, Bologna 1968; O. DE MOURGUES, Two French Moralist. La Rochefoucauld and La Bruyère, Cambridge 1978; V. THWEATT, La Rochefoucauld and the Seventeenth-Century Concept of the Self, Genève 1980; F. SEMERARI, La fine della virtù. Gracián, La Rochefoucauld, La Bruyère, Bari 1993; H.C. CLARK, La Rochefoucauld and the Language of Unmasking in Seventeenth-Century

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France, Genève 1994; R.G. HODGSON, Falsehood Disguised. Unmasking the Truth in La Rochefoucauld, West Lafayette (Indiana) 1995 (bibliografia pp. 163172); K.-U. HARTWICH, Untersuchungen zur Interdependenz von Moralistik und höfischer Gesellschaft am Beispiel La Rochefoucaulds, Bonn 1997; J. LAFOND, La Rochefoucauld: l’homme et son image, Paris 1998.

LAROMIGUIÈRE, PIERRE. – Filosofo franceLaromiguière se n. a Livignac (Aveyron) il 3 nov. 1756, m. a Parigi il 12 ag. 1837. È stato un esponente del gruppo degli «ideologi», il noto movimento intellettuale formatosi negli anni settanta del sec. XVIII e attivo nella stagione rivoluzionaria, post-rivoluzionaria e napoleonica. Come gli altri ideologi – i cui leader furono Cabanis e Destutt de Tracy – anche Laromiguière svolse una notevole attività politica soprattutto negli anni del consolato del generale Bonaparte. Fu, in effetti, tra i primi ad accorgersi dell’orientamento autoritario assunto dal primo console; e, dai seggi del tribunato, non mancò di far sentire la sua voce critica. L’opposizione a Napoleone, certo meno radicale di quella di altri tribuni, non gli impedì di accedere ad alte cariche pubbliche, particolarmente in ambito culturale (fu, tra l’altro, membro della rinnovata Accademia francese, nella sezione di Scienze morali e politiche). La sua attività principale restò peraltro quella dello studioso. Le opere per le quali è ancor oggi ricordato sono non tanto il Projet d’éléments de métaphysique (Toulouse 1793) quanto l’Essai sur les paradoxes de Condillac (Paris 1805), un notevole lavoro dedicato alla Langue des calculs del padre del sensismo e ancor più le Leçons de philosophie (ivi 1815 e 18202), che riproducono i testi dei corsi professati alla facoltà di lettere dell’università imperiale voluta da Napoleone, e che ebbero un grande successo editoriale (ne esiste anche una traduzione italiana, uscita a Pavia nel 1821). Amico di Destutt de Tracy, Laromiguière si è formato come lui e gli altri ideologi nell’alveo della tradizione di Condillac. Del maestro ha fatto propria soprattutto la lezione metodologica, l’interesse per la logica e la riflessione sul linguaggio e il principio dell’origine in larga misura empirica delle conoscenze. Non diversamente dagli altri ideologi ha però respinto la celebre riconduzione condillachiana dell’uomo a una statua. Ben lungi dal risultare assimilabile a un inerte oggetto fisico, l’essere umano è un soggetto titolare di funzioni atti-

Laromiguière ve, complesse e interagenti tra di loro. Lo studio dei processi cognitivi umani si configura, in prima approssimazione, come una idéologie – il neologismo coniato da Destutt de Tracy nel 1796 col significato letterale di «scienza delle idee». Senonché, mentre Destutt de Tracy, Cabanis e altri ideologi interpretavano l’idéologie in modo psicofisico unitario – attribuendo anzi al physique umano un ruolo per più versi privilegiato –, Laromiguière concepisce la «nuova scienza» in modo diverso. Egli non crede che l’universo mentale e cognitivo complesso dell’uomo sia riducibile ai soli motori e operazioni della corporeità strettamente intesa. Tende piuttosto a ritenere che, a partire da un determinato livello in avanti, detto universo si avvalga di funzioni richiedenti un’analisi non esclusivamente fisico-organica dell’essere umano. In tale prospettiva egli guarda a figure come la coscienza e l’attenzione, l’idea e la volontà in un modo che si potrebbe definire postidéologique. Era il modo che, a partire dai primi anni del nuovo secolo, andava caratterizzando l’opera di studiosi, solitamente più giovani di Destutt de Tracy e Cabanis (anche se questo non è il caso di Laromiguière) e formatisi intellettualmente nel loro ambiente. Tali studiosi – il principale dei quali è Maine de Biran, al quale si possono avvicinare Degérando, Jouffroy e Royer-Collard – erano più sensibili dei loro maestri alle mutate esigenze filosofiche del tempo. Il sec. XIX si era aperto con un forte rilancio dello spirito religioso, delle concezioni cristiane (Le Génie du Christianisme di Chateaubriand risale al 1802), dei primi germi del romanticismo. In ambito propriamente speculativo, la filosofia tende ad autonomizzarsi dalle scienze, a riconsiderare in termini nuovi la metafisica, ad ammettere l’esistenza di quello che Maine de Biran chiamava il «superorganico» (per distinguerlo dalla pura organisation physique dell’uomo) – e che altri presto chiameranno esprit o âme. Il merito storico di Laromiguière è di essere stato, in senso cronologico, uno dei primi ad avviare un ripensamento critico di almeno alcune delle tesi psico-fisiche degli ideologi sull’origine delle conoscenze (si veda il già ricordato Projet d’éléments de métaphysique, e ancor più il lavoro Sur la détermination de ces mots, Analyse des Sensations, seguito da un Mémoire sur la détermination du mot Idée, in Mémoires de l’Institut, Classe de Scien6227

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Larroyo

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ces Morales et Politiques, 1796, vol. I, pp. 45174). S. Moravia BIBL.: F. PICAVET, Les idéologues, Paris 1891 (la seconda ed., del 1920, contiene alcune lettere inedite di Laromiguière); P. ALFARIC, Laromiguière et son école, Paris 1929; S. MORAVIA, Il pensiero degli idéologues, Firenze 1974; S. MORAVIA, Il tramonto dell’illuminismo, Bari 19862 (1968).

LARROYO, FRANCISCO. – Filosofo messicano, Larroyo neokantiano, n. a Zacatecas nel 1910. Direttore della Facoltà di Filosofia e Lettere dell’Università Nazionale del Messico, delle Società di Filosofia (1963-68), ha svolto un’intensa attività pedagogica e politica. La filosofia di Larroyo può essere definita un «personalismo critico», che non contraddice l’idealismo critico con cui di solito lo si qualifica. La filosofia è, per Larroyo, prima di tutto una teoria dei valori, ma anche una teoria dell’uomo e dell’esistenza. I valori non sono entità trascendenti la coscienza, bensì leggi della coscienza stessa, legalità inerenti ad essa. La coscienza ha, in effetti, due modi di considerare l’oggetto: a) in ciò che l’oggetto è (la sua essenza); b) nella sua finalità e nel suo significato. La determinazione del fine è sempre un atto che implica un giudizio di preferenza, di valore. I valori sono, così, le forme fondamentali, categoriali, attraverso le quali l’uomo sceglie, cioè ordina gerarchicamente quanto è offerto alla sua opzione. La legge basilare di essi è l’idea (in senso neokantiano), in virtù della quale la filosofia ha la possibilità di comprendere il mondo e la vita, di avere dell’esistenza un concetto, un significato, un valore, di interpretare il senso totale dell’universo e il posto che vi occupa l’uomo. La realtà della persona non implica alcun principio metafisico, dato che l’autocoscienza, la responsabilità e la legge immanente dei valori sono concetti sufficienti per chiarirla. Non esiste opposizione tra individuo e persona, perché la persona si realizza nell’individuo umano. Per questo, se si intende la cultura (scienza e tecnica, arte e religione, morale e economia) come il luogo in cui si incarnano o si realizzano i valori, l’uomo si caratterizza anzitutto in termini di cultura; in secondo luogo, per i suoi vincoli concreti con gli altri uomini; in terzo luogo, per la sua temporalità storica e, infine, per la sua intrinseca libertà. M.A. Virasoro

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BIBL.: opere principali (tutte edite a Città del Messico): Los principios de la ética social. Concepto, axiología, vigencia y realización de la moralidad, 1936 (nuova ed. 1962); La filosofía de los valores, 1936 (19422); La lógica de las ciencias, 1938 (196112); Dos ideas de la filosofía. Pro y contro la filosofía de la filosofía (in collaborazione con J. GAOS), 1940; Historia general de la pedagogía, 1944 (19628); El romanticismo filosófico, 1946; Historia de la filosofía en Norteamérica, 1948; El existencialismo, sus fuentes y direcciones, 1952; La filosofía americana. Su razón y su sinrazón de ser, 1958; Pedagogía de la enseñanza superior, 1959; La antropología concreta, 1963. Su Larroyo: A. CASO, La filosofía en la Facultad de filosofía y letras, in «El Universal» (Città del Messico), 1936; S. RAMOS, Historia de la filosofía en México, Città del Messico 1943; R. FRONDIZI, Panorama de la filosofía latino-americana contemporánea, in «Minerva, Revista continental de filosofía» (Buenos Aires), 1944; J. GAOS, L’actualité philosophique au Mexique, in «Etudes philosophiques», 1958; R.S. HARTMAN, La «Filosofía americana» de F. Larroyo, in « Philosophy and Phenomenological Research», 1959; L. WASHINTON VITA, La filosofía de F. Larroyo, in «Revista brasileira de filosofia», 1959; H.E. DAVIS, Latin American Thought, Washington 1961; M.E. ESCOBAR, F. Larroyo y su personalismo ético, México 1970; S. SARTI, Panorama della filosofia ispanoamericana contemporanea, Milano 1976, pp. 503-511.

LARSSON, HANS. – Filosofo svedese, n. nel Larsson 1862, m. nel 1944. Insegnò filosofia teoretica all’università di Lund. Partecipò ai dibattiti che si accesero a fine Ottocento tra la tradizione metafisica, ancora viva, del boströmismo e hegelismo da un lato e il realismo scientifico dall’altro. Nello scritto per l’abilitazione Kants transcendentala deduktion af kategorierna (Kant e la deduzione trascendentale delle categorie), Lund 1893, mise in luce i diversi orientamenti di pensiero che si intrecciano nella deduzione kantiana: quello che nella sintesi delle categorie scorge il presupposto dell’esperienza degli oggetti, e quello che invece vi scorge anche il presupposto della coscienza. In Gränsen mellan sensation och emotion (I confini tra sensazione ed emozione), ivi 1890, rivolto anzitutto contro la dottrina degli affetti di James e Lange, Larsson mostra come anche il sentimento possa essere trascendentalmente dedotto come condizione della coscienza. Nell’acutissimo scritto Intuition. Nagra ord om diktning och vetenskap (Intuizione. Alcune parole sulla poesia e la scienza), ivi 1891, e poi, più

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a fondo, nella Poesiens logik (Logica della poesia), ivi 1899, criticò il realismo nell’estetica e nella letteratura. Queste due opere (comparse in tr. fr. sotto il titolo comune La logique de la poésie, Paris 1919) sono dirette contro alcune deficienze della cultura del suo tempo, nelle quali Larsson scorgeva il sintomo di un unico errore fondamentale: il disuso delle capacità sintetiche e intuitive dell’intelligenza. L’analisi non è compensata dalla sintesi, il pensiero discorsivo non è sorretto dall’intuizione: di qui il sovraccarico dell’intelletto, l’impotenza e l’incoerenza della volontà, la povertà di idee propria del romanzo naturalistico con la sua «fotografia della realtà» e il suo «realismo da ciabattino». Con l’accentuazione dell’intuizione, Larsson riprende in modo originalissimo la linea che va da Spinoza alla filosofia del romanticismo tedesco, ma afferma chiaramente che nemmeno nelle sue forme supreme l’intuizione può farci oltrepassare i limiti del mondo sensibile. In essa operano le stesse forze che nel pensiero discorsivo comune, ma in un tempo più rapido; col che chiarisce anche la sua distanza rispetto a Bergson; Intuitionsproblemet, särskilt med hänsyn till H. Bergson (Il problema dell’intuizione con particolare riferimento alla teoria di H. Bergson), Lund 1912. Larsson segui con critica attenta anche gli ulteriori mutamenti nel pensiero dell’epoca: nei libri Filosofien och politiken (Filosofia e politica), ivi 1915; Under världskrisen (Durante la crisi mondiale), ivi 1920; Filosofiska uppsatser (Saggi filosofici), ivi 1924; Gemenskap (Comunità), ivi 1932 e Minimum, ivi 1935, appare con evidenza il punto centrale della sua ultima filosofia, ossia la convinzione che le varie concezioni di pensiero, per quanto appaiano inconciliabili, possono essere ricondotte all’unità, purché elevate alle loro più alte possibilità. A tutto ciò si connette indissolubilmente il tema della comunità, che nel pensiero di Larsson si amplia in un sistema che abbraccia non solo il mondo delle idee e delle anime, ma anche quello degli atomi. Da ricordare anche le due ampie monografie: Platon och var tid (Platone e il nostro tempo), ivi 1913 e Spinoza, ivi 1931. A. Nyman BIBL.: A. NYMAN, H. Larsson. En svensk tänkareprofil (Profilo di un pensatore svedese), Stockholm 1945; G. ASPELIN, H. Larsson som tänkare och skriftställare (H. Larsson pensatore e scrittore), Stockholm 1946; R. EKNER, H. Larsson, Stockholm 1962; S. NORDIN, Filosofer och filosofihistoria i Lund, Lund 1996.

La Salle LARUELLE, FRANÇOIS. – N. nel 1937. DirettoLaruelle re al Collège international de philosophie, insegna all’università di Paris X-Nanterre. Influenzato da Nietzsche, ma anche da Fichte e da Spinoza, si è confrontato con diversi pensatori della differenza, quali Heidegger, Derrida e Deleuze. Ha collegato il tema e la pratica della decostruzione derridiana a una problematica materialista, con riferimento alla libido nella sua versione nietzscheana, cioè alla «volontà di potenza». In tale prospettiva, attraverso uno stile che pone molte difficoltà di lettura, Laruelle ha sollevato la questione del desiderio della decostruzione, conducendo una critica del significante che ha lo scopo di trasformare le diverse forme del materialismo marxista e di radicalizzare la decostruzione. Per Laruelle occorre intendere la différence derridiana come correlazione di attività e affermazione nel senso nietzscheano di tali termini, occorre cioè pensarla in termini non testuali ma libidinali. E la libido va intesa al di là dell’opposizione natura/tecnica, cercando di dissolvere il teorico. In seguito Laruelle ha elaborato un pensiero dell’uno, da intendersi come contrapposto all’essere e ad esso antecedente, come esperienza trascendentale puramente immanente e accessibile non alla filosofia ma alla scienza. In tale ottica, si tratta per Laruelle di elaborare una «scienza trascendentale della decisione filosofica». Ha infine proposto un pensiero eretico, che fa propri elementi cristiani, gnostici e giudaici, in vista di una scienza non cristiana. È considerato il fondatore della non-filosofia, ossia di una pratica della filosofia che non sia solo filosofica ma scientifica, mistica ed estetica. G. Piana BIBL.: Machines textuelles. Déconstruction et libido d’écriture, Paris 1976; Une biographie de l’homme ordinaire. Des autorités et des minorités, Paris 1985; Principes de la non-philosophie, Paris 1996; Le Christ futur. Une leçon d’hérésie, Paris 2002. Su Laruelle: H. CHOPLIN, La non-philosophie de F. Laruelle, Paris 2002.

LA SALLE, ANTOINE DE. – Pensatore franceLa Salle se, n. a Parigi nel 1754, m. ivi nel 1829. Tornato in patria dopo molti viaggi, scrisse opere di filosofia, passando per lo più inosservato. Di carattere ombroso e amante della vita libera, La Salle fu certo egli stesso la causa prima delle traversie che gli impedirono ogni pratico successo. Nondimeno, egli lavorò molto 6229

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Lasaulx (tra l’altro è l’autore d’una voluminosa traduzione delle opere di Bacone) e con grande fiducia nel proprio valore. Nell’opera La Balance Naturelle, ou essai sur une loi universelle appliquée aux sciences, arts et métiers, et aux moindres détails de la vie commune (Paris 1788, 2 voll.) espone una dottrina dell’universale compenso sulla linea segnata dal trattato De la Nature di Robinet. La concezione dell’universale dialettica d’equilibrio è tuttavia espressa in modo meno chiaro di Robinet: il pensiero di La Salle è infatti pervaso da un fuoco dialettico in cui i vari contenuti sfumano. Negli spessi volumi di quest’opera si trova di tutto: osservazioni banali, acute intuizioni, analisi della vita sociale del tempo, disquisizioni morali, trattazioni geografiche ed astronomiche, discettazioni fisiologiche e caratteriologiche. Altra sua opera è Le désordre régulier (Auxerre 1786): lo stesso titolo bizzarro esprime il temperamento dell’autore e vuol indicare che si tratta di saggi apparentemente privi di nesso. C. Rosso BIBL.: A. VIATTE, Les sources occultes du romantisme: illuminisme-théosophie, 1770-1820, Paris 1928, passim; C. ROSSO, Moralisti del «Bonheur», Torino 1954, pp. 79 ss.

LASAULX, ERNST von. – Storico e filosofo, n. Lasaulx a Coblenza nel 1805, m. a Monaco nel 1861. Fu professore di filologia a Würzburg e a Monaco (1844). Si occupò particolarmente della filosofia della storia, con gli scritti: Der Untergang des Hellenismus und die Einziehung seiner Tempelgüter durch die christlichen Kaiser. Ein Beitrag zur Philosophie der Geschichte, München 1854 (rist. Stuttgart 1965); Neuer Versuch einer alten, auf die Wahrheit der Tatsachen gegründeten Philosophie der Geschichte, München 1857. Da ricordare anche l’opera di estetica Die Philosophie der schönen Künste, ivi 1860. Fra gli altri scritti: Ueber die theologischen Grundlage aller philosophischen Systeme, ivi 1856. Red. BIBL: R. STOERLZLE, Ernst von Lasaulx, Halle 1904; H. HORN, Die Geschichtsphilosophie Ernst von Lasaulx’s, in «Zeitschrift für deutsche Kulturphilosophie», 2 (1936), pp. 217-240; A. KOETHER, Ernst von Lasaulx’ Geschichtsphilosophie, und ihr Einfluss auf Burckhardts «Weltgeschichtliche Betrachtungen», Münster 1937; S.J. TONSOR, The Historical Morphology of Ernst von Lasaulx, in «Journal of the History of Ideas», 25 (1964), pp. 374-392; S. PEETZ, Die Wiederkehr im Unterschied. Ernst von Lasaulx, Freiburg-München

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1989; A. SCHWAIGER, Christliche Geschichtsdeutung in der Moderne: eine Untersuchung zum Geschichtsdenken von Juan Donoso Cortés, Ernst von Lasaulx und Vladimir Solov’ëv in der Zusammenschau christlicher Historiographieentwicklung, Berlin 2001.

LASHLEY, KARL SPENCER. – Psicologo comLashley portamentista americano, n. a Davis il 7 giu. 1890, m. a Jacksonville il 7 ag. 1958. Laureatosi alla Johns Hopkins University con John B. Watson, Lashley studiò con Shepherd I. Franz a Washington gli effetti della parziale distruzione del tessuto cerebrale sulla formazione delle abitudini nel ratto albino, e pubblicò con lo stesso Shepherd nel 1917, The Effects of Cerebral Destruction upon Habit Formation and Retention in the Albino Rat (in «Psychobiology», 1, 1917, pp. 71-139). Continuando, con alcune ricerche sull’intelligenza e sulla discriminazione sensoriale nel ratto cerebrotomizzato, lo studio sulla localizzazione corticale, Lashley nel 1929 raccolse nell’importante volume Brain Mechanism and Intelligence (Chicago-Cambridge 1929) le proprie conclusioni, che consistono essenzialmente nel principio di equipotenzialità e in quello di azione di massa. Per il principio di equipotenzialità, l’espletamento di determinate funzioni, come l’apprendimento di un labirinto nel ratto, non dipende dalla particolare area di tessuto corticale utilizzabile, mentre, secondo il principio di azione di massa, l’efficienza delle stesse funzioni è proporzionalmente legata alla quantità utilizzabile di tessuto corticale, indifferentemente dalla localizzazione della parte distrutta. Lashley stesso, come sottolinearono in seguito Hunter e altri ricercatori, rilevò che il principio di equipotenzialità non è applicabile a tutte le funzioni psichiche del ratto; così, egli mise in evidenza che la percezione della forma è rigidamente legata alla conservazione di una particolare regione della corteccia occipitale, mentre, p. es., la discriminazione della luminosità non richiede affatto la funzionalità della corteccia cerebrale. Lashley ha affrontato anche le questioni dell’istinto (Experimental Analysis of Instinctive Behavior, in «Psychological Review», 45 [1938], pp. 445-472) e i problemi della selezione di particolari caratteri in specie animali, concludendo per l’impossibilità di migliorare un particolare carattere attraverso la selezione operata su popolazioni geneticamente omogenee (Inheritance in the Asexual Reproduction of

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Lask

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Hydra Viridis, in «Journal of Experimental Zoology», 19 [1915], pp. 157-210). Oltre alle opere citate, sono da menzionare: Behavioristic Interpretation of Consciousness (Chicago 1923); Factors Limiting Recovery after Central Nervous Lesions (in «Journal of Nervous and Mental Disease», 88 [1938], pp. 733-755). G. Fidora

LASK, EMIL. – Filosofo tedesco n. a Wadowice Lask il 25 sett. 1875 e m. presso Turza-Mata (Galizia), sul fronte dei Carpazi, il 26 magg. 1915. Studiò a Friburgo giurisprudenza e filosofia con Rickert. Addottoratosi nel 1902 con una dissertazione su L’idealismo di Fichte e la storia (Fichtes Idealismus und die Geschichte, Tübingen-Leipzig 1902), si abilitò con Windelband a Heidelberg presentando un lavoro sulla filosofia del diritto e una lezione sul formalismo dell’etica kantiana. All’abilitazione va anche riferita la prolusione su Hegel e l’illuminismo che ebbe luogo l’11 gennaio 1905. Libero docente a Heidelberg, fu nominato professore straordinario nel 1910 e venne chiamato nel 1913 sulla cattedra che era stata di Kuno Fischer. Poco dopo lo scoppio del conflitto mondiale si arruolò volontario e nel febbraio 1915 venne inviato sul fronte di guerra in Galizia, dove trovò la morte pochi mesi dopo. La classificazione del pensiero di Lask presenta non poche difficoltà, anche se le sue origini sono indubbiamente collocate sul terreno del neokantismo di Windelband e Rickert, orientato verso la problematica della filosofia dei valori e della validità delle norme ideali che danno fondamento ai diversi campi del sapere. Nei confronti di questa impostazione Lask prende però le distanze sin dall’intervento al III Congresso Internazionale di Filosofia di Heidelberg (1908), in cui egli sostiene – rispondendo alla domanda «Gibt es einen “Primat der praktischen Vernunft” in der Logik?» – che l’«errore» dei suoi maestri consiste nel conferire al regno dei valori una dimensione normativa, rispetto alla quale il soggetto dovrebbe prendere posizione: laddove invece, in opposizione a ogni «eticizzazione del concetto di conoscenza e di giudizio», il dominio del valore è quello del «valere oggettivo in sé» (cfr. in Gesammelte Schriften, a cura di E. Herrigel, Tübingen 1923-24 [rist. anastatica dei voll. I e II: Jena 2002-03], vol. I, pp. 350, 353). L’esito ultimo del pensiero di Lask, orientato in senso fortemente oggettivistico benché questo non

escluda (specie negli scritti inediti) l’apertura alla dimensione della soggettività e dell’esperienza vitale, fuoriesce pertanto dai quadri del neokantismo di Windelband e Rickert e costituisce un percorso originale, la cui influenza si è fatta tra l’altro sentire sulla formazione del pensiero filosofico di Heidegger (un punto sul quale ha spesso insistito la critica più recente). Alla base della filosofia di Lask vi è la distinzione tra il regno del sensibile e il regno del non-sensibile (che va però distinto chiaramente dal sovrasensibile di cui si occupa la metafisica tradizionale). Questo dualismo originario segna la contrapposizione tra il regno della validità e dell’oggettività logica e quello, appunto, del mondo sensibile a cui si è rivolta la filosofia trascendentale di Kant. Lask ritiene che il limite di Kant consista precisamente nel non aver preso in considerazione la possibilità di un’indagine categoriale rivolta non già al mondo dei fenomeni sensibili, bensì a quello della pura validità logica e della verità, ovvero del non-sensibile e del regno dell’«in sé» tematizzato da Bolzano e poi da Husserl. Il richiamo a Platone e al neoplatonismo, a una certa ripresa di Aristotele, all’eredità di Lotze: è questo lo sfondo sul quale Lask colloca il suo ripensamento della filosofia di Kant (ma anche del neokantismo), della sua dottrina delle categorie e della cosiddetta «rivoluzione copernicana» nel modo di pensare introdotta dal criticismo. La «logica della filosofia», a cui Lask dedica nel 1911 la sua prima opera teoretica e che rappresenta l’inizio di una costruzione sistematica poi interrotta dalla morte, è «teoria delle categorie» nel senso di una sorta di autoapplicazione della riflessione trascendentale a se stessa: è il tentativo di esplicitare i presupposti ultimi della stessa indagine trascendentale individuando non già le categorie della conoscenza sensibile, bensì le categorie in base alle quali viene articolato l’apparato categoriale della conoscenza. Pertanto l’ambito delle forme categoriali nel loro distinguersi dal contenuto costituisce propriamente l’oggetto della «conoscenza filosofica», ciò che rappresenta il terreno su cui si colloca la «categoria della categoria» e che è in grado di restituire alla logica la «patria» che Kant non aveva saputo garantirle (cfr. Die Logik der Philosophie und die Kategorienlehre, Tübingen 1911, poi in Gesammelte Schriften, cit., vol. II, pp. 9091, 260-261). 6231

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Lask Per Lask il significato della «rivoluzione copernicana» di Kant non consiste nel far dipendere gli oggetti dalla struttura legale della soggettività trascendentale che li costituisce, bensì nel far «ruotare» gli oggetti intorno al puro «valere logico», onde la loro oggettività deve essere intesa come «verità valida». Il valere si configura così – con qualche analogia con l’intenzionalità husserliana – come valere sempre in direzione di qualcosa (Hingelten), mentre al tempo stesso al tradizionale rapporto tra soggetto e oggetto della conoscenza subentra quello tra «contenuto logico trascendentale della conoscenza e oggetto». Se Kant ha avuto il merito di superare l’opposizione tra i due mondi del sensibile e dell’intelligibile, egli ha però mancato di riconoscere la natura autentica del piano logico, degradandolo a forma del sensibile, laddove il contenuto logico che «investe» l’oggetto è invece, per Lask, un «regno» da cui emana la validità dell’essere (cfr. ibi, pp. 29-33). Da questo punto di vista anche il rapporto materia-forma subisce una radicale revisione rispetto alla tradizione del kantismo. Se infatti è essenziale per il concetto di forma il suo riferirsi alla materia, ciò non significa tuttavia che la forma abbia una capacità formatrice o legislatrice rispetto alla materia: la funzione della forma è piuttosto quella di portare a esplicitazione il logico «in cui» la materia sta, ma senza per questo determinare la perdita del suo carattere a-logico. La materia, in altri termini, rimane strutturalmente impenetrabile dal logico: a differenza di Windelband e Rickert, Lask non individua lo hiatus irrationalis nell’individuale, inaccessibile al concetto generalizzante, quanto nella materia in quanto «sensibile-intuibile come tale» (ibi, p. 78). In questo modo Lask riconosce la «panarchia» del logico in contrasto con ogni «panlogismo» di impronta hegeliana, ma pone anche con forza – pur senza concedere nulla all’«irrazionalismo» – il problema dell’irrazionale in termini sconosciuti alla tradizione del neokantismo: «irrazionalità del materiale, ma non irrazionalismo; razionalità della forma, ma non razionalismo» (ibi, p. 213). Tuttavia la tensione irriducibile tra materia e forma conduce Lask a sostenere la piena autonomia delle forme logiche e il loro configurarsi in una struttura gerarchica in cui ogni forma subordinata costituisce a sua volta la materia di quella sovraordinata, assegnando alla materia uno statuto che non è solo quello del sensibile-intuibile, ma di un 6232

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contenuto di volta in volta collocato su un piano determinato dalla forma che lo investe, onde la forma può essere essa stessa materia di un’altra forma. D’altra parte è essenziale per Lask sottolineare come il principio di differenziazione delle forme categoriali risieda in ultima analisi proprio nel materiale e come esso sia da intendersi, pertanto, in senso «puramente “empiristico”» (ibi, p. 63). Conferita alla riflessione sulla razionalità che compete alla forma la funzione di riflessione non sulle forme del sapere, ma sulla validità stessa, sull’«apparato categoriale» che è a fondamento della «filosofia della validità», Lask si pone il problema di delimitare lo statuto del giudizio partendo dal «fenomeno logico originario» della forma categoriale. Nel lavoro del 1912 sulla «teoria del giudizio» Lask chiarisce come il giudizio rappresenti solo una regione «secondaria» e «artificiale» del logico, che deve essere commisurato alla «regione logicooggettiva» per acquistare il suo posto nell’edificio della logica trascendentale (cfr. Die Lehre vom Urteil, Tübingen 1912, poi in Gesammelte Schriften, cit., vol. II, pp. 287-288). Anche in questo caso Lask opera un rovesciamento della posizione di Kant, revocando la posizione privilegiata del giudizio in nome di una «regione originaria» che può essere raggiunta per mezzo della «distruzione» a cui occorre sottoporre ogni pretesa di fondare il logico partendo da ciò che è solo un riflesso del logico (cfr. ibi, p. 298). Dal giudizio, considerato come una struttura subordinata e ascrivibile al piano gnoseologico in cui il soggetto opera come soggetto conoscitivo, Lask risale invece alla dimensione nella quale sono superate le opposizioni intrinseche alla natura del giudizio come nesso logico formale (prima di tutto il nesso tra soggetto e predicato). Tale dimensione è la dimensione della «sovrapposizionalità» o, meglio ancora, di «ciò che è al di là dell’opposizione (Übergegensätzlichkeit)», in cui è superata l’opposizione tra valore e non valore, tra positivo e negativo, tra vero e falso, in forza di un «criterio» logico ultimo che costituisce il fondamento dal quale le opposizioni traggono il loro senso (cfr. ibi, p. 387); si tratta perciò di elaborare una «teoria metagrammaticale, e tuttavia ancora intimamente logica, orientata sugli oggetti che sono al di là del giudizio» (ibi, pp. 328-329). Eppure questa peculiare forma di oggettivismo trascendentale non emargina la dimensione del soggetto,

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quanto piuttosto la delimita nel suo proprio ambito specifico: nell’ambito, cioè, della «dedizione» con cui il soggetto concreto, che vive la propria esperienza vitale, si rivolge all’oggetto della conoscenza, costituito non dalle forme categoriali del sapere, ma dalla validità logica stessa. Un tema, quest’ultimo, che si riaffaccia negli scritti rimasti inediti, in cui la critica più recente ha scorto un’influenza significativa della filosofia della vita e, più specificamente, di Dilthey. Ma la prematura scomparsa ha impedito a Lask di portare a termine il compito sistematico che egli si era prefisso, lasciando così aperti interrogativi e aporie di cui non tardarono ad accorgersi i suoi stessi contemporanei, in primo luogo il suo maestro Rickert. Lask era stato davvero, come scrisse Husserl a Rickert, «una delle più belle speranze della filosofia tedesca». M. Ferrari BIBL.: Rechtsphilosophie, in Die Philosophie im Beginn des 20. Jahrhunderts, a cura di W. Windelband, Heidelberg 1905, pp. 1-50; tr. it.: Filosofia giuridica. In appendice: Hegel e la concezione del mondo dell’illuminismo, a cura di A. Carrino, Napoli 1984. Su Lask: H. SOMMERHÄUSER, Emil Lask in der Auseinandersetzung mit H. Rickert, Berlin 1965 (dissertazione); S. NACHTSHEIM, Emil Lasks Grundlehre, Tübingen 1992; R. HOFER, Gegenstand und Methode. Untersuchungen zur frühen Wissenschaftstheorie Emil Lasks, Würzburg 1997; U.B. GLATZ, Emil Lask. Philosophie im Verhältnis zu Weltanschauung, Leben und Erkenntnis, Würzburg 2001; S. BESOLI, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza, Macerata 2002, pp. 239-338; C. TUOZZOLO, Emil Lask e la logica della storia, Milano 2004.

LASKI, HAROLD JOSEPH. – Filosofo e uomo Laski politico inglese, n. a Manchester il 30 giugno 1893, m. a Londra il 24 mar. 1950. Oltre che teorico del diritto e della politica, è stato l'esponente più rappresentativo del partito laburista inglese; terminati gli studi presso l'Università di Oxford, insegnò, dal 1914 al 1920, in varie Università americane (McGill, Harvard, Yale). Rientrato in Inghilterra, svolse corsi vari presso la London School of Economics, e dal 1926 tenne la cattedra di scienza politica presso l'Università di Londra. La sua educazione si riallaccia alla tradizione liberale inglese, quale si era venuta realizzando da J.S. Mill in poi, ed Laski restò fedele ai principi individualistici di quel liberalismo anche quando accettò successivamente, dopo il

Laski 1930, l'interpretazione marxistica. I presupposti filosofici sono benthamiani, dato che il pensiero inglese intorno al diritto ed allo stato era stato profondamente influenzato, in particolare nella dottrina della sovranità, dall'opera di J. Austin. La lotta contro lo stato sovrano rappresenta il punto di partenza: la dottrina classica della sovranità appariva infatti pericolosa per le sue implicazioni sul piano politico. Lo stato ha, per Laski, una giustificazione in quanto permette agli individui una più piena realizzazione dei loro scopi; esso non è sovrano perché i gruppi sociali all'interno sono autonomi e rifiutano di essere ridotti ad unità: è insomma un gruppo senza preminenza sugli altri e continuamente in competizione con questi. Pluralismo politico significa controllo e frazionamento del potere, concepiti come i mezzi più efficaci per la libertà individuale; una tale concezione si ispirava al pragmatismo di James (A Pluralistic Universe, New York 1909). La spiegazione del passaggio al marxismo dopo il 1930 potrebbe forse trovarsi nella base positivistica dei presupposti utilitaristici e pragmatistici, da cui il suo pluralismo prendeva le mosse: dalla constatazione dell'esistenza di società autonome, è passato allo studio delle leggi, cui devono sottostare queste società e questi gruppi. A. Giuliani BIBL.: opere principali: Political Thought from Locke to Bentham, London 1920; A Grammar of Politics, London 1925; rist. London-New York 1997; Liberty in the Modern State, London 1930, tr. it. di A. Schiavi, La libertà nello stato moderno, Bari 1931; Studies in Law and Politics, London 1932; Democracy in Crisis, London 1933, ed. it. a cura di A. Schiavi, Democrazia in crisi, Bari 1935; The Rise of European Liberalism, London 1936, tr. it. di P. Vittorelli, Le origini del liberalismo europeo, Firenze 1971; The American Presidency, London 1940, tr. it. di G. Monicelli, La repubblica presidenziale americana, Milano 1948; Reflections on the Revolution of Our Time, London 1943; Faith, Reason, and Civilization: an Essay in Historical Analysis, New York 1944, tr. it. di E. Benetti Aloisi, Fede, ragione e civiltà: saggio di analisi storica, Torino 1947; The American Democracy, New York 1948; An Introduction to Politics, Londra 19542, tr. it. di G. Raponi, Introduzione alla Politica, Torino 2002; The Dilemma of Our Times, London 1952. Sull'adattamento del marxismo all'interpretazione delle istituzioni giuridiche cfr. in particolare The State in Theory and Practice, London 1935. Si veda infine Collected Works of H.Laski, a cura di P. Hist, London - New York 1997.

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Lassalle Su Laski: C. HAWKINS, The Political Ideas of H.J. Laski, Minneapolis 1949; A. PASSERIN D'ENTRÈVES, H.J. Laski, In «Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto», 27 (1950), pp. 596-598; J.C. REES, La teoria politica di H. Laski, in «Il politico», 31 (1951), pp. 285305; H.A. DEANE, The Political Ideas of H.J. Laski, New York 1955; G. EASTWOOD, H. Laski, Oxford 1977; C. PALAZZOLO, Pluralismo e garantismo nel pensiero del giovane Laski, in «Prassi e teoria«», 1 (1975), 1-2, pp. 61-139; C. PALAZZOLO, La libertà alla prova: stato e società in Laski, Pisa 1978; M. PICCININI, «Sovereignty» e «Disruption»: note su «the Problem of Sovereignty» (1915) di H.Laski, in «Filosofia Politica», 6 (1992), 3, pp. 507-527; M. NEWMAN, H. Laski: A Political Biography, London 1993; P. LAMB, H. Laski: Problems of Democracy, the Sovereign State, and International Society, Basingstoke 2004.

LASSALLE, FERDINAND. – Filosofo sociale e Lassalle uomo politico tedesco, n. a Breslavia l’11 apr. 1825, m. a Ginevra il 31 ag. 1864. Compì gli studi universitari a Breslavia e Berlino; lo hegelismo permeò la sua formazione intellettuale fino a esercitare una profonda e costante influenza su tutto il suo pensiero. A vent’anni fu a Parigi, dove strinse amicizia con H. Heine e conobbe P. Proudhon. Nel 1848 ebbe a Düsseldorf i primi contatti con K. Marx e F. Engels, dai quali assimilò la tesi dell’interpretazione economica della storia. In quella città, un anno dopo, partecipò tanto vivamente a una agitazione popolare che ebbe due processi per tradimento e resistenza alla polizia a seguito dei quali fu condannato a sei mesi in carcere. Seguì un periodo di relativa calma, durante il quale terminò un erudito studio intorno a Eraclito, il cui concetto di «divenire» dovette stimolare i suoi ripensamenti hegeliani: Die Philosophie Herakleitos’ des Dunkeln von Ephesos (Berlin 1858, 2 voll.). Stabilitosi a Berlino, pubblicò nel 1859 il noto opuscolo Der italienische Krieg und die Aufgabe Preussens (tr. it. in La guerra d’Italia: i compiti della Prussia e altri scritti, Milano 1996), in cui additò, come esempio per la Prussia, l’attività per l’unificazione nazionale intrapresa in Italia dal Piemonte. Nel 1861 uscì a Lipsia il System der erworbenen Rechte (2 voll.), che contiene i germi delle sue idee socialistiche. Con una lettura data a una società operaia a Berlino nel 1863 (Legame fra la presente epoca storica e l’idea della classe lavoratrice) Lassalle iniziò in pieno la sua carriera di agitatore socialista, esponendosi a una seconda prigionia. 6234

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Invitato nel 1863 a un congresso degli operai a Lipsia, rispose con una lettera programmatica alla classe lavoratrice, la quale segnò il primo passo del movimento socialista e del partito operaio tedesco. In tale lettera Lassalle fissò la strategia e la tattica riformistica del movimento operaio, criticando da una parte l’assenteismo politico, dall’altra l’appoggio dei lavoratori a partiti «progressisti» e prescrivendo, per l’elevazione della condizione «normale» della classe lavoratrice, l’agitazione politica, il suffragio universale, la sostituzione del lavoro associato al lavoro salariato, cioè l’estensione della produzione cooperativa da introdursi con l’aiuto e con il credito dello stato (socialismo di stato). Lassalle vagheggiò uno stato popolare tedesco fondato sul suffragio universale: per queste sue idee fu ben presto in contrasto con Marx, del quale non ottenne mai la collaborazione. Fondò l’Associazione generale delle classi lavoratrici e pubblicò i due testi fondamentali delle sue dottrine socialistiche: Arbeiterprogramm (Berlin 1862) e Herr BastiatSchultze von Delitzsch, der ökonomische Julian; oder Capital und Arbeit (ivi 1864, tr. it. di A. Treves, Il signor Bastiat-Schulze von Delitzsch: Giuliano economico ossia capitale e lavoro, Roma 1970). Il punto di partenza delle due opere citate è l’interpretazione di tipo storicistico hegeliano dell’emancipazione della classe lavoratrice. Di grande interesse storico sono le dottrine enunciate da Lassalle su stato e classe lavoratrice: in coerenza con queste dottrine nei suoi ultimi anni si avvicinò a Bismarck, nella speranza di poterne influenzare la politica in senso riformistico socialista. Ottenne la concessione del suffragio universale, sebbene questa giungesse dopo la sua morte. F. Barbano BIBL.: E. BERNSTEIN (a cura di), Gesammelte Reden und Schriften, Berlin 1919-21, 12 voll.; G. MAYER (a cura di), Nachgelassene Briefe und Schriften, Stuttgart 1921-25, 6 voll.; tr. it.: MARX-ENGELS-LASSALLE, Opere, Milano 1914-21, voll. V e VI; Discorsi sulla natura della costituzione, Milano 1945. Su Lassalle: H.P. BLEUEL, Ferdinand Lassalle oder der Kampf wider die verdammte Bedürfnislosigkeit, München 1979, (Frankfurt am Main 19822); B. ANDRÉAS, Ferdinand Lassalle, allgemeiner deutscher Arbeiterverein. Bibliographie ihrer Schriften und der Literatur über sie von 1840 bis 1975, Bonn 1981; H.J. FRIEDERICI, Ferdinand Lassalle: eine politische Biographie, Berlin 1985; S. DAYAN-HERZBRUN, Mythes et Mémoire du

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mouvement ouvrier: le cas Ferdinand Lassalle, Paris 1990; F. COMO, Die Diktatur der Einsicht: Ferdinand Lassalle und die Rhetorik des deutschen Sozialismus, Frankfurt am Main - Bern - New York - Paris 1991; T. RAMM, Ferdinand Lassalle, der Revolutionär und das Recht, Berlin 2004.

LASSÈRE, FRANÇOIS (Cherubino da Orléans). Lassère – Cappuccino francese, matematico, astronomo, meccanico, n. a Orléans nel 1613, m. a Tours nel 1697. Progettò e costruì vari strumenti per la fabbricazione delle lenti, perfezionò il cannocchiale, il microscopio e il telescopio, specialmente quello binoculare ideato dal confratello Rheita. Costruì una macchina per disegnare oggetti lontani (una sorta di pantografo combinato al telescopio) e si interessò al perfezionamento dell’udito, scoprendo uno strumento amplificatore del suono. S. Gieben BIBL.: opere: La dioptrique oculaire, ou la théorique, la positive, et la méchanique de l’oculaire dioptrique en toutes ses espèces, Paris 1671; La vision parfaite: ou le concours des deux axes de la vision en un seul point de l’objet, Paris 1677-81, 2 voll.; Effets de la force de la contiguité des corps par lesquels on répond aux expériences de la crainte du vide et à celles de la pesanteur de l’air, Paris 1679 (un’appendice, pp. 363-423, contiene preziose notizie per la storia del binocolo nel Seicento); L’expérience justifiée pour l’élévation des eaux par un nouveau moyen, à tel hauteur et en telle quantité que ce soit, proportionnant la force, Paris 1681; Dissertation en laquelle sont résoulües quelques difficultés prétendües au sujet de l’invention du binocle, et de quelques autres contenües dans les livres de la vision parfaite, s. l. 1679. Su Lassère: UBALD D’ALENÇON, Le Père Chérubin d’Orléans et la téléphonie sans fil au XVIIe siècle, in «Annales Franciscaines», 1910-11, pp. 401-403; 1933, pp. 150 ss.; M. DAUMAS, Les instruments scientifiques aux XVIIe et XVIIIe siècles, Paris 1953.

LASSISMO (laxism; Laxismus; laxisme; laxiLassismo sm). – Tendenza all’attenuazione del rigore nel giudizio morale, ovvero laxus opinandi modus, secondo la definizione di Alessandro VII, comportante una maggiore ampiezza di interpretazione e applicazione della legge morale, fino al rilassamento delle norme, in opposizione al rigorismo o al tuziorismo. Nella terminologia di Kant (Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft) si identifica con il latitudinarismo, con il sincretismo morale, basato sul compromesso, e con l’indifferentismo.

Lassismo In senso stretto il termine riguarda propriamente l’ambito della teologia morale, e si è storicamente determinato quale tendenza – piuttosto che «sistema morale» in senso proprio, mancando di organicità e di tematizzazione teorica – sorta in relazione alla casistica dei trattatisti morali del Sei-Settecento, in larga parte gesuiti, e collegata al probabilismo, all’equiprobabilismo e al probabiliorismo. Il nesso con la casistica e con il probabilismo consiste nel margine di interpretazione implicato nell’ineludibile enucleazione pratica delle regole e dei precetti morali per la loro applicazione concreta. Posta, infatti, la facoltà della coscienza di procedere all’applicazione della norma, in caso di dubbio appare legittimo seguire l’opinione probabile, ma l’estensione indebita di questo principio finisce con l’ammettere un’ampiezza di spettro di opinioni probabili tale da contemplare scelte anche in evidente contrasto con la norma o con la sua ragion d’essere, pervenendo in tal modo alla cosiddetta «rilassatezza morale». Se sul piano individuale della coscienza il lassismo è espressione di soggettivismo morale e consiste in un errore di giudizio nel ritenere lecito e praticabile ciò che non lo è, o nel ritenere proibito sub levi ciò che è tale sub gravi, riducendo l’imputabilità della propria azione, sul piano sociale rappresentò un tentativo, intrapreso da molti teologi moralisti – tra i principali autori ricordiamo A. Escobar y Mendoza, É. Bauny, H. Busembaum, T. Tamburini, C. Lacroix, J. Caramuel, V. Filliucci, F. Amico –, di compromesso e conciliazione o legittimazione delle istanze degli orientamenti morali alla «devozione facile» e della sensibilità mondana dell’età moderna con lo spirito del Vangelo, con ricadute sociali e civili notevoli. La crisi fu avvertita con particolare gravità in Francia e di fatto, già nell’aprile 1641 l’Assemblée du Clergé de France dichiarava che il P. Étienne Bauny, del quale l’anno precedente erano state messe all’Indice due opere (la Pratique du droit canonique au gouvernement de l’Eglise e la Somme des péchez qui se commettent en tous estats), spingeva le anime verso il libertinaggio. Nel 1656 l’attacco di B. Pascal nelle Lettres Provinciales denunciò il carattere corruttore del lassismo, l’opposizione allo spirito del Vangelo (ad es. nelle proposizioni sulla liceità dell’omicidio a tutela del proprio onore, il tradimento della fiducia altrui, o del furto per necessità di sostentamento), il disorientamento dei fedeli 6235

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Lasson nel popolo e il permissivismo tra le classi elevate, nonché la caduta di garanzie di sicurezza per la stessa convivenza civile che ne derivavano, offrendo diffusi esempi di opinioni e soluzioni a casi di coscienza sostenute da autori gesuiti all’insegna di una morale marcatamente lassista. Pascal stabilì pure un nesso tra il lassismo e la dottrina molinista della grazia sostenuta dai gesuiti, riconoscendo nei princìpi accomodanti dei loro trattati una «morale del tutto pagana» per cui «la natura basta per osservarla» (Provinciales, V). Con il Settecento il lassismo si esaurisce come tendenza teorica, dopo aver esercitato una diretta influenza sul quietismo, che ne aveva tradotto alcuni aspetti nella sfera della spiritualità individuale, rimanendo, in senso generico, come atteggiamento individuale praticato da cristiani tiepidi e da libertini. Secondo alcuni moralisti (cfr. K. Rahner, in Schriften zur Theologie, II) la cosiddetta etica della situazione sarebbe una forma di lassismo in senso lato, mentre altri la interpretano come esigenza di un più autentico impegno personale (Schillebeeckx) o, al più, come indicativa della crisi dell’«etica oggettiva» (J. Fuchs). Reiterate condanne di opere caratterizzate da un’impronta lassista furono emesse dal Sant’Uffizio dal 21.8.1659 (G. Pirot, Apologie pour les casuistes); 23.9.1653 (M. Vidal, Arca vitalis); 8.3.1661 (M. Vidal, Arca salutaris consultus utriusque iuris includens); 21.4.1654 (A.M. Verricelli, Quaestiones morales et legales); 15.1.1664 (J. Caramuel, Apologema pro antiquissima et universalissima doctrina de probabilitate); 28.6.1664 (F. Verde, Theologiae fundamentalis Caramuelis positiones selectae); 17.1.1672 (O. Fabri, Apologeticus doctrinae moralis Societatis Iesu); 11.5.1683 (Z. Pasqualigo, Decisiones morales iuxta principia theologica, et sacras atque civiles leges, difficultatum, quae in utroque foro passim occurrunt). Durante il pontificato di Alessandro VII furono condannate in due riprese (24.9.1665 e 18.3.1666) 45 proposizioni come contrarie al diritto divino ed ecclesiastico (Denzinger, E. S., 2021-2065); altre 65 proposizioni furono condannate il 2.3.1679 sotto Innocenzo XI (Denzinger, E. S., 2101-2167). A. Peratoner BIBL.: P. BERT, La morale des Jésuites, Paris 1880; I. VON DÖLLINGER - F.H. REUSCH, Geschichte der Moralstreitigkeiten in der römisch-katholischen Kirche, Nördlingen 1889, 2 voll.; E. DOUTREBANDE, La morale des Jésuites, Neuchâtel 1891; A. MOLIEN - É. AMANN, s.v., in

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1903-, vol. IX, coll. 39-86; A. BROU, Les Jésuites et la légende, Paris 1907; B. SPAVENTA, La politica dei Gesuiti nel sec. XVI e nel XVII, Milano 1911; R. DUGUET (a cura di), Écrits des curés de Paris contre la politique et la morale des Jésuites (1656) avec une étude sur la querelle du laxisme, Paris 1921; A.C. JEMOLO, Il giansenismo in Italia prima della rivoluzione, Bari 1928, pp. 185-224; G. CACCIATORE, S. Alfonso de’ Liguori e il giansenismo, Firenze 1944; M. PETROCCHI, Il problema del lassismo nel sec. XVII, Roma 1953. ➨ EQUIPROBABILISMO; PROBABILIORISMO; PROBABILISMO; QUIETISMO; RIGORISMO; SITUAZIONE, ETICA DELLA; TUZIORISMO.

LASSON, ADOLF. – N. ad Altstrelitz nel 1832, Lasson m. a Berlino nel 1917. Professore all’università di Berlino. Mentre in Germania negli ultimi decenni dell’Ottocento si impone il ritorno a Kant (zurück zu Kant), Lasson difende Hegel all’università di Berlino. Di Hegel studia in particolar modo la filosofia della religione e del diritto. Lasson trasmette la passione per la filosofia hegeliana al figlio Georg, il futuro editore di Hegel. Di Lasson si ricordano anche studi di storia della filosofia, in particolare dedicati a Eckhart, Bacone e Fichte (Johann Gottlieb Fichte im Verhältnis zu Kirche und Staat, Berlin 1863; Meister Eckhardt, der Mystiker, ivi 1868, ripr. Wiesbaden 2003). A. Plebe BIBL.: fra le opere teoretiche: Das Kulturideal und der Krieg, Berlin 1868; Prinzip und Zukunft des Völkerrechts, Berlin 1871; Ueber Gegenstand und Behandlung der Religionsphilosophie, Leipzig 1879; System der Rechtsphilosophie, Berlin 1882; Zeitliches und Zeitloses, Leipzig 1890; Der Leib, Berlin 1898; Über den Zufall, Berlin 1908. Su Lasson: P. KILLINGER, Adolf Lassons Religionsphilosophie, Erlangen 1913; A. LIEBERT - F.J. SCHMIDT, Adolf Lasson, zum Gedächtnis, in «Kant-Studien», 23 (1919), pp. 101-123; H. STEIGER, Völkerrecht und Naturrecht zwischen Christian Wolff und Adolf Lasson, in D. Klippel (a cura di), Naturrecht im 19. Jahrhundert, Goldbach 1997, pp. 45-74.

LASSON, GEORG. – N. a Berlino il 13 lug. Lasson 1862, m. ivi il 2 dic. 1932. Pastore protestante a Berlino fu nominato, in particolare per i suoi studi hegeliani, nel 1921 dottore in filosofia «honoris causa» dall’università di Kiel e nel 1927 in teologia dall’università di Berlino. Opere: Was heisst Hegelianismus?, Berlin 1916; Hegel als Geschichtsphilo-

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Lastarria

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soph, Leipzig 1920; Einführung in Hegels Religionsphilosophie, ivi 1930. Ereditò dal padre Adolf la passione per Hegel, che coltivò in tutta la vita nello sforzo di interpretare analiticamente tutta la produzione del filosofo di Stoccarda, di difenderla dai suoi avversari, di mostrarne il sostanziale accordo col cristianesimo. L’opera fondamentale a cui deve la fama è l’edizione critica di tutte le opere di Hegel, da lui intrapresa e condotta in maniera esemplare presso l’editore Meiner di Lipsia: Kritische Gesamtausgabe, ivi 1905 ss., 18 voll. (v. le recensioni in «Preussische Jahrbücher» e in particolare nella «Deutsche Literaturzeitung» del 1931). L’edizione, il cui piano è di 26 voll., fu proseguita da Johannes Hoffmeister, designato da Lasson quale successore ufficiale nel genn. 1932. Cfr. Zum 70. Geburtstag Georg Lassons, in «Kantstudien», 1932, p. 314. A. Plebe

LASSWELL, HAROLD DWIGHT. – N. nel 1902 a Lasswell Donnellson (Illinois) e m. nel 1978 a New York. Contrapponendo lo studio empirico del potere al tradizionale approccio giuridico-formalistico, è uno dei padri della scienza politica contemporanea, la quale, nella sua concezione, incentrata sul potere in quanto capacità di dettare i comportamenti altrui, allarga oltremisura i suoi confini: il potere non è infatti un fenomeno esclusivo della politica, ma è diffuso nell’intera società. Noto per aver applicato allo studio del potere anche l’approccio psicanalitico, Lasswell pone al centro della vita associata lo sforzo, condotto a livello individuale e collettivo, di acquisire valori sociali per il tramite del potere. I valori sociali sono per Lasswell cumulativi, nel senso che detenerne alcuni – ad esempio: il benessere personale, la ricchezza, il prestigio, lo stesso potere – accresce le possibilità di conseguirne altri. I valori di cui gli individui o i gruppi già dispongono, e che sono in condizione di acquisire, ne configurano l’influenza, la quale tacitamente condiziona i comportamenti altrui. La distribuzione dei valori, a sua volta, circoscrive le classi, in un’accezione ben più ampia di quella marxiana, talora, ma non sempre, per Lasswell in conflitto tra loro. A. Mastropaolo BIBL.: H.D. LASSWELL - A. KAPLAN, Power and Society, New Haven 1950, tr. it. di M. Stoppino, Potere e società, Milano 1969; una traduzione di vari scritti è

contenuta in H.D. LASSWELL, Potere, politica e personalità, ed. it. a cura di M. Stoppino, Torino 1975.

LASSWITZ, KURD. – Neokantiano, n. a BreLasswitz slavia nel 1848, m. a Gotha nel 1910. Lasswitz aderisce alla concezione metafisica spiritualistica di G. Fechner, e nei suoi ultimi scritti cerca di conciliarla con il punto di vista neokantiano sostenuto da H. Cohen. La dimensione psichica e quella fisica si distinguono per Lasswitz soltanto come contenuti della coscienza e compaiono solo nel processo reale della conoscenza. Le leggi naturali, la moralità, il mondo dell’arte e l’esperienza emozionale immediata costituiscono campi autonomi di realtà (Wirklichkeiten) che hanno la loro unità nell’unità della persona spirituale. Da ricordare gli studi di Lasswitz sulla storia dell’atomistica. F. Barone BIBL.: Atomistik und Kritizismus, Brunswick 1878; Die Lehre von der Elementen während des Übergangs von der scholastischen Physik zur Korpuskulartheorie, Gotha 1882; Die Lehre Kants von der Idealität des Raumes und der Zeit im Zusammenhang mit seiner Kritik des Erkennens, Berlin 1883; Geschichte der Atomistik vom Mittelalter bis Newton, Hamburg 1889-90, 2 voll. (ripr. Hildesheim 1963); Wirklichkeiten. Beiträge zum Weltverständnis, Berlin 1900 (Leipzig 19214); Seelen und Ziele. Beiträge zum Weltverständnis, Leipzig 1908. Su Lasswitz: H. LINDAU, Kurd Lasswitz, in «Kant-Studien», 16 (1911), pp. 1-5; H. ROOB (a cura di), Kurd Lasswitz: handschriftlicher Nachlaß und Bibliographie seiner Werke, Gotha 1981; H. SZUKAJ, «Empfundenen und Erkanntes»: Kurd Lasswitz als Wissenschaftspopularisator 1848-1910, Münster 1996.

LASTARRIA, JOSÉ VICTORINO. – Pensatore Lastarria positivista cileno, n. a Rancagua il 22 magg. 1817, m. a Santiago del Cile il 14 giu. 1888. Fu professore di diritto all’università di Santiago; partecipò al cosiddetto «movimento letterario del ‘42», fu sostenitore delle idee liberali e intervenne attivamente, come ministro di stato, nella politica nazionale. Le Investigaciones sobre la infiuencia social de la conquista y del sistema colonial de los españoles en Chile (Santiago 1844) sono un atto di accusa contro la colonizzazione spagnola e la stessa evangelizzazione. Si ispirò all’illuminismo francese e in seguito al positivismo comtiano, specie nell’opera della maturità, Lecciones de política positiva (ivi 1874), dove inserisce motivi liberali nella sociologia comtiana. L’ideale de6237

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Latini mocratico-liberale viene sostenuto nell’opera forse più notevole di Lastarria, Elementos de derecho costitucional (ivi 1846). Lastarria svolse un ruolo importante nell’evoluzione filosofica dell’America Latina, in quanto esemplifica il passaggio dal mito indigenista e dal sajonismo al credo positivista. J. Jiménez B. BIBL.: A. FUENZALIDA G. (a cura di), Obras completas, Santiago 1906 ss., 8 voll. Su Lastarria: A. FUENZALIDA G., Lastarria y su tiempo, Santiago 1911; P.N. CRUZ, Estudios critícos sobre don José Victorino Lastarria, Santiago 1917; E. MOLINA G., La filosofía en Chile en la primera mitad del siglo XX, Santiago 1953; L. OYARZÚN P., El pensamiénto de Lastarria, Santiago 1953; R. ESCOBAR, La filosofía en Chile, Santiago 1975.

LATINI, BRUNETTO. – Erudito, n. a Firenze Latini verso il 1220, m. ivi verso il 1295. Prese parte alla vita politica fiorentina. Esule in Francia, scrisse in lingua francese il Trésor, ampia enciclopedia, in cui viene a compendiare il sapere del tempo: nella prima delle tre parti in cui è divisa, si ha una trattazione di carattere storico e scientifico del mondo fisico naturale e umano; nella seconda una trattazione morale dei vizi e delle virtù dell’uomo; e nell’ultima una trattazione sulla retorica e sulla politica.

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per la riforma della scuola elementare. Fu collaboratore di riviste straniere e del Dictionnaire de pédagogie (Paris 1911) di F. Buisson. Nella cornice del positivismo, prima ancora di Angiulli e di Ardigó, sostenne che la pedagogia è una scienza, perché ha un oggetto proprio che consiste nel «determinare il valore delle cognizioni per rispetto all’intento finale del compiuto vivere e della loro efficacia in ordine ai gradi dello svolgimento organico e psichico e alle particolari funzioni a cui l’uomo è chiamato nella civil comunanza»; essa è quindi al centro di quell’organismo scientifico costituito dalle varie discipline che hanno per oggetto lo studio dell’uomo, si fonda sul metodo sperimentale e tende a conciliare l’assoluto delle scienze col relativo dell’esperienza, la dottrina pedagogica con la pratica dell’educazione.

A. Tognolo BIBL.: C. MEIER, Vom Homo Coelestis zum Homo Faber. Die Reorganisation der Mittelalterlichen Enzyklopädie für neue Gebrauchsfunktionen bei Vinzenz von Beauvais und Brunetto Latini, in H. KELLER - K. GRUBMÜLLER - N. STAUBACH (a cura di), Pragmatische Schriftlichkeit in Mittelalter, München 1992, pp. 157-175; E. ARTIFONI, Sull’eloquenza politica nel duecento italiano, in «Quaderni Medievali», 35 (1993), pp. 57-78; C. MEIER, Organisation of Knowledge and Encyclopedic «ordo»: Functions and Purposes of a Universal Knowledge, in P. BINKLEY (a cura di), Pre-modern Encyclopedic Texts, «Proceedings of the Second COMERS Congress, Groningen, 1-4 July 1996», Leiden-New YorkKöln 1997, pp. 103-126.

E. Petrini BIBL.: Prefazione a R. ROBINSON, Teacher’s Manual of Method and Organisation, Adapted to the Primary Schools of Great Britain, Ireland, and the Colonies, London 1869, tr. it. di F. Verdinois, Guida del maestro primario, Roma 1882; Dell’educazione letteraria dei commercianti in Italia (manuale di lingua e letteratura), in collaborazione con S. Malato Todaro, Palermo 1872-74, 2 voll.; Del concetto e dei limiti dell’antropologia, Palermo 1876; Della pedagogica nelle sue armonie e antinomie, Palermo 1876; L’ultima mostra universale e i nuovi bisogni della vita scolastica sul rispetto igienico, pedagogico e sociale, Roma 1883; Le malattie della scuola e la riforma igienica degli arredi scolastici, Roma 1883 ; Il lavoro manuale e il problema educativo, Roma 18843; Frammenti pedagogici, Palermo 1896. Su Latino: F.P. SCAGLIONE, s. v., Dizionario illustrato di pedagogia, Milano 1895, vol. II, pp. 419-423; Giudizi sulle pubblicazioni pedagogiche del prof. Emanuele Latino, in «Archivio di Pedagogia e scienze affini», Palermo s. d.; G.B. GERINI, Gli scrittori pedagogici italiani del sec. XIX, Torino 1910; F.R. ARANGIO, Emanuele Latino. Vita e Opere, Vittoria 1911; S. DE DOMINICIS, La scienza comparata dell’educazione, Milano 1913; R. MESSINA-LADRIA, La pedagogia in Sicilia nei secc. XVIII e XIX, Piazza Armerina 1913.

LATINO, EMANUELE. – Pedagogista, n. a PaLatino lermo il 22 giu. 1846, m. ivi il 22 dic. 1890. Direttore di scuola tecnica (1871), poi ordinario di Antropologia e Pedagogia a Palermo (1884), vi fondò presso l’università un Museo Pedagogico, diresse l’Archivio di pedagogia e scienze affini, diede contributi di rilievo all’ammodernamento dell’organizzazione scolastica ed ebbe incarichi in Italia e all’estero

LATITATIO FORMARUM. – Espressione Latitatio formarum propria di una parte della tradizione aristotelica pretomistica che, per spiegare le mutazioni, non arrivando a una concezione esatta della nozione metafisica di potenzialità, pensò che le forme dei nuovi esseri risultanti dalle mutazioni fossero già, nascoste, nella materia. Alberto Magno al posto di latitatio utilizza il termine latentia: «Et hoc est ens in potentia, ex

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Lattanzio

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quo fit ens in actu. [...] Non enim omne quod fit, ex illo fieret, nisi in ipso esset aliquo modo inchoatio formarum omnium cum privatione actus, et hoc non vocavit ipse privationem, sed latentiam» (Metaphysica, ed. a cura di B. Geyer, in Opera Omnia, vol. XVI, Monasterii 1960-64, p. 464, 45-55; cfr. anche pp. 72, 15 e pp. 471, 26) Con Tommaso si ebbe la chiarificazione, enucleandosi il concetto di eduzione. G. Feltrin ➨ EDUZIONE; ENTELECHIA; FORMA.

LATITUDINARISMO (latitudiniarism; LatiLatitudinarismo tudinarismus; latitudinarisme; latitudinarismo). – Indirizzo teologico «liberale», manifestatosi nella chiesa anglicana durante le controversie dei secoli XVII-XVIII, e al quale appartennero i platonici di Cambridge. Nell’intento di riunire le sette tra loro opposte, il latitudinarismo parte dalla distinzione fra ciò che, nella religione, è fondamentale e ciò che invece è accessorio: per la riunione dei cristiani basterebbe l’accordo sui dogmi fondamentali; quanto ai rimanenti, si dovrebbe usare la massima tolleranza vicendevole. La «chiesa larga» (Broad Church Party) che rappresenta, in seno all’anglicanesimo, la corrente più razionalista e meno ecclesiastica è, in certo senso, la continuazione del latitudinarismo. A. Beni BIBL.: M. SINA, Razionalismo e latitudinarismo teologico: i platonici di Cambridge, in M. SINA, L’avvento della ragione. «Reason» e «above Reason» dal razionalismo teologico inglese al deismo, Milano 1976, pp. 64-146. ➨ PLATONICI DI CAMBRIDGE.

LA TOUR La Tour duDU Pin PIN, C HARLES -H UMBERT RÉNÉ DE, marchese de la Charce Chambly. – Teorico del cristianesimo sociale, n. il primo apr. 1834 ad Arrancy (Aisne), m. il 4 dic. 1924 a Losanna. In contrasto col liberalismo, sostenne una visione antindividualistica della vita, dichiarandosi socialista cristiano. Si oppose alle idee della Rivoluzione francese e auspicò la restaurazione dei Borboni in Francia, mantenendo un atteggiamento monarchico anche successivamente all’intervento di Leone XIII nel 1893. Le linee del suo programma non trovarono reale consenso tra gli intellettuali cattolici, in gran parte liberali. Il suo tentativo di realizzare un’effettiva unione tra padroni e operai mediante associazioni (Cercles catholiques), sotto

la direzione di un’élite proveniente dalle classi più elevate, e di stabilire un regime corporativistico con l’intervento dello stato cristiano, non ebbe facile attuazione tra i lavoratori, diffidenti dell’azione di una minoranza di intellettuali. Collaboratore dell’Action française, fu l’editore del quotidiano l’Association catholique. Fra le sue opere principali ricordiamo: Les bases du mouvement social chrétien, Paris 1897; Vers un ordre social chrétien, ivi 1907; Aphorismes de politique sociale, ivi 1909. G. Nirchio BIBL.: G. WEILL, Histoire du mouvement social en France (1852-1924), Paris 19243, pp. 181-184; J. RIVAIN, Un programme de restauration sociale: La Tour du Pin, précurseur, Paris 1926; E. LECANUET, Les derniers années du pontificat de Pie IX (1870-78), Paris 1931, pp. 39-422; A. CANALETTI-GAUDENTI, Un corporativista cattolico: Renato de La Tour du Pin, Roma 1935.

LATTANZIO, LUCIO CECILIO (Celio) FIRMIALattanzio NO. – Retore e apologista cristiano. N. in Africa intorno alla metà del sec. III d. C. e discepolo di Arnobio, fu chiamato dall’imperatore Diocleziano a insegnare retorica nella capitale Nicomedia, in Bitinia. Convertitosi al cristianesimo, dovette sottrarsi alla grande persecuzione scatenata nel 303. Intorno al 315 lo ritroviamo a Treviri come precettore di Crispo, figlio di Costantino. Morì tra il 320 e il 325. Tutta la cronologia lattanziana, relativa sia ai dati biografici (compresa la conversione) sia agli scritti, è tuttora in discussione. Di lui ci sono giunte quattro importanti opere: De opificio Dei; Divinae institutiones; De mortibus persecutorum; De ira Dei, più il carme in esametri De ave phoenice. Notizia in Girolamo, De viris illustribus, 80. Lattanzio rappresenta l’apologetica cristiana tra la fine delle persecuzioni e l’incipiente età costantiniana; la sua opera si pone come cerniera tra l’eredità culturale pagana e l’emergente ideologia cristiana, a cominciare dal superamento del pregiudizio nei confronti della retorica e della composizione letteraria, come testimonia l’espressa intenzione di guadagnare al cristianesimo gli strati colti del paganesimo grazie a una cura formale che gli valse, dall’umanesimo in poi, il titolo di «Cicerone cristiano». La sua opera più vasta e ambiziosa, i sette libri delle Divinae institutiones, composti tra il 304 e il 311 circa, costituiscono il primo tentativo, in ambito latino, di presentazione sistematica del cristianesimo. A partire dal 314, dopo la svolta costantiniana, Lattanzio ne 6239

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Lauberg compose anche un’Epitome. Sulla base di una cultura filosofica eclettica, di impronta stoica e centrata su Seneca e su Cicerone, cui peraltro non fa riscontro un’adeguata preparazione teologica biblica e cristiana, Lattanzio mira a superare una fondazione naturale della teologia, della morale e del diritto, per proporre la dottrina rivelata cristiana come l’unica vera sapientia, fonte dell’autentica iustitia (concetto al centro dei cruciali ll. V-VI), che fonda l’uguaglianza tra gli uomini a partire dalla sottomissione all’unico vero Dio. L’idea guida di tutta la riflessione lattanziana, in polemica soprattutto con l’epicureismo, è quella della provvidenza divina, come appare fin dal primo scritto, il De opificio Dei (del 3034), in cui Lattanzio esalta la struttura finalistica e la perfezione del costitutivo umano, sulla base di spunti filosofici (stoici e ciceroniani) prima ancora che cristiani. Nel De ira Dei si legittima l’ira divina, che, pari e contraria all’amorevolezza, è indice di come Dio segua le sorti del mondo applicando una giustizia retributiva. Il De mortibus persecutorum (314-17 ca.) inaugura la storiografia «costantiniana», che lega le sorti dell’impero alla protezione accordata al cristianesimo ed esalta il ruolo provvidenziale di Costantino. Vi si elabora il fortunato topos apologetico secondo cui gli imperatori che hanno perseguitato la chiesa (e che sono stati anche cattivi imperatori, tradendo gli ideali della romanità) sono andati incontro a una morte orribile. Il cristianesimo di Lattanzio è fortemente radicato nella religiosità della tradizione romana, governata dal timore della giustizia divina. G. Visonà BIBL.: elenco degli scritti e delle edizioni in Clavis Patrum Latinorum, nn. 85-92; J.-P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Paris 1845-55, voll. VI-VII; Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, Vindobonae (et al.) 1866-, voll. XIX/1: Divinae institutiones et epitome divinarum institutionem, ripr. New York 1965, vol. XXVII/2, De mortibus persecutorum, ripr. New York 1965; Sources Chrétiennes, voll. CCIV-CCV, CCCXXVI, CCCLXXVII, CCCXXXVII, Divinae institutiones, Paris 1973-92; voll. CCXIII-CCXIV: De opificio Dei, Paris 1974; vol. CCLXXXIX, De ira Dei, Paris 1982; vol. CCCXXXV, Epitome, Paris 1987. Su Lattanzio: V. LOI, Lattanzio nella storia del linguaggio e del pensiero teologico pre-niceno, Zürich 1970; J. FONTAINE - M. PERRIN (a cura di), Lactance et son temps: recherches actuelles, «Actes du IVe Colloque d’études historiques et patristiques, Chantilly,

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21-23 septembre 1976», Paris 1978; A.S. CHRISTENLactantius the Historian: An Analysis of the «De mortibus persecutorum», Copenhagen 1980; M. PERRIN, L’homme antique et chrétien: l’anthropologie de Lactance, Paris 1981; P. MONAT, Lactance et la Bible, Paris 1982, 2 voll.; AA.VV., Thesaurus Lactantii, Turnhout 1998; E. DE PALMA DIGESER, The Making of a Christian Empire: Lactantius & Rome, Ithaca-London 2000; J.-Y. GUILLAUMIN - S. RATTI (a cura di), Autour de Lactance: hommage à Pierre Monat, Paris 2004. SEN,

LAUBERG, CARLO (francesizzò il cognome in Lauberg Laubert). – Scienziato, farmacista militare, filosofo, n. nel 1752 o 1753 a Teano, m. il 5 nov. 1834 a Parigi. Scolopio, svestì l’abito religioso pare intorno al 1791; è considerato il primo cospiratore del nostro Risorgimento, a Napoli, poi seguace degli eserciti francesi nella repubblica partenopea e nelle imprese napoleoniche; finì per stabilirsi in Francia. Disordinata e tumultuosa la sua attività politica, sempre al servizio dei francesi. Scrisse molte opere di fisica, chimica e farmacia; lo si ricorda in filosofia come traduttore del De l’esprit di Helvétius , e come autore di un’operetta: Riflessioni sulle operazioni dell’umano intendimento (Napoli s. d.), in cui cercò di esporre «in miniatura» ai propri scolari delle scuole pie di Chieti, ove insegnò filosofia, le «scoperte» degli ideologi francesi. Egli elimina la riflessione lockiana, considerandola come derivante dal sentimento, cioè dalla percezione o sensazione (= coscienza) che l’anima ha di sé e delle sue operazioni. Non riduce però tutto al sentire come invece aveva fatto Condillac. Distingue al pari di Bonnet l’attenzione attiva dalla sensazione passiva. «L’animo», egli scrive, «considerato relativamente all’impressione che riceve da un oggetto qualunque è passivo, giacché la causa che eccita in tal caso la sua maniera di sentire è fuori di lui, ma è attivo allorché dirige la sua forza pensante all’impressione ricevuta, poiché dalla sua natura medesima nasce la sua totale determinazione dell’attuale sentimento» (op. cit., § 13). Lauberg non ammette neppure la tesi di Condillac che il tatto basti di per sé ad assicurarci della realtà del mondo esterno, poiché noi conosciamo sempre le nostre maniere di essere. «Sanamente filosofando noi non conosciamo che le nostre maniere di essere; e tutte le nostre cognizioni sugli oggetti esteriori si riducono a considerarle riunite in

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un soggetto, che noi crediamo diverso da noi e che riguardiamo come la cagione di esse». Sebbene, tuttavia, le qualità delle cose da noi conosciute siano soggettive, le cose hanno esistenza reale fuori di noi. Lauberg combatte infine, a differenza di altri ideologi, il materialismo principalmente perché trova incompatibili tra loro i due concetti di materia e di sensazione, in quanto quella è estesa, composta e quindi divisibile in parti, questa invece semplice e una. Non nega però l’azione del corpo sull’anima e di questa su quello; ma dice che «non si può spiegare come ciò succeda» (op. cit., §§ 80-82). G. Capone Braga BIBL.: B. CROCE, Carlo Lauberg, in La rivoluzione napoletana del 1799, Bari 19264, pp. 210-218; B. CROCE, La vita di un rivoluzionario: Carlo Lauberg, in Vite di avventure, di fede e di passione, Bari 19617 (1936), pp. 351-427; G. GENTILE, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, Firenze 1958, 2 voll.; F. PALLADINO, Carlo Lauberg e il metodo dell’analisi, in Gli scienziati e la rivoluzione napoletana, Napoli 2000, pp. 73101.

LAUDAN, LARRY. – N. a Austin (Texas) il 16 Laudan ott. 1941, è professore di filosofia della scienza all’Universidad Nacional Autónoma de Mexico. Muovendo dalla tesi deweyana, già riproposta da K. Popper, secondo cui la scienza «è essenzialmente un’attività che consiste nel risolvere problemi» (Progress and Its Problems, Berkeley 1977, cap. 1; Beyond Positivism and Relativism, Boulder 1996, cap. 4), Laudan sostiene che il criterio del progresso scientifico non consiste in un avvicinamento sempre maggiore alla verità (cfr. anche la critica del «realismo gnoseologico convergente» in Science and Values, London 1984, pp. 109-134), ma nel grado crescente di «efficacia nel risolvere problemi», sia empirici sia concettuali, in un certo dominio (Progress, p. 68; cfr. Beyond Positivism, p. 78). Questo criterio di progresso non si applica però a teorie isolate, ma a «tradizioni di ricerca» (la teoria atomica, il darwinismo ecc.), le quali contengono almeno due componenti: 1) un insieme di credenze riguardanti le entità e i processi che costituiscono il dominio della ricerca; 2) un insieme di norme metodologiche su come questo dominio dev’essere indagato, su come controllare le teorie scientifiche, sulla raccolta dei dati ecc. (cfr. Progress, p. 80; Beyond Positivism, pp. 83-84). Nonostante le analogie con i «paradigmi» di Kuhn o i «pro-

Laue grammi di ricerca» di Lakatos, le «tradizioni di ricerca» si distinguono da entrambi, perché in esse non mutano storicamente soltanto le ipotesi secondarie, ma anche gli assunti fondamentali (cfr. Progress, pp. 73-78). In Science and Values grande importanza assume la riflessione sulle regole metodologiche, che asseriscono delle «relazioni empiricamente controllabili tra fini e mezzi» e possono quindi essere controllate rispetto alla loro capacità di far conseguire determinati fini (p. 40). In Science and Relativism (Chicago 1990) e nei saggi raccolti in Beyond Positivism, infine, Laudan critica a fondo le epistemologie relativistiche, che in realtà hanno portato alle estreme conclusioni tesi già neopositivistiche. La tesi della sottodeterminazione da parte dell’esperienza, ad es., presuppone la netta distinzione fra osservativo e teorico, mentre le conseguenze osservabili di una teoria sono relative a un certo momento di sviluppo della scienza e delle risorse tecnologiche disponibili (L. Laudan - J. Leplin, Empirical Equivalence and Underdetermination, in « The Journal of Philosophy», 88 (1991), pp. 449-472, rist. in Beyond Positivism). M. Buzzoni BIBL.: G. DOPPELT, Laudan’s Pragmatic Alternative to Positivist and Historicist Theories of Science, in «Inquiry» 24 (1981), pp. 253-271; G. DOPPELT, Relativism and the Reticulational Model of Scientific Rationality, in «Synthese: An international Journal for Epistemology, Methodology and Philosophy of Science», 69 (1986), pp. 225-252; J. WORRALL, The Value of a Fixed Methodology, in «British Journal for the Philosophy of Science», 39 (1988), 263-275; G. DOPPELT, The Naturalist Conception of Methodological Standards, in «Philosophy of Science», 57 (1990), pp. 1-19; J. LEPLIN, Renormalizing Naturalism, in «Philosophy of Science», 57 (1990), 1, pp. 20-33; A. GROBLER, Between Rationalism and Relativism, in «British Journal for the Philosophy of Science», 41 (1990), pp. 493-507; R.P. FARRELL, Rival Theories and Empirical Content Revisited, in «Studies in History and Philosophy of Science», 31 (2000), pp. 137-149.

LAUE, MAX VON. – Fisico tedesco, n. il 9 ott. Laue 1879 a Pfaffendorf (Coblenza), m. il 14 apr. 1960 a Berlino. Dopo aver tenuto la cattedra di fisica a Zurigo, Francoforte e Berlino, dal 1951 fu direttore del Max-Plank-Institut. Premio Nobel nel 1914. Il suo nome è legato alla determinazione della natura di vibrazioni elettromagnetiche dei raggi X, da lui realizzata nel 1921 (in cooperazione 6241

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Launoy con P. Kipping e W. Herschel), valendosi della struttura reticolare dei cristalli. Significativo è anche il suo contributo allo sviluppo della teoria della relatività con la costituzione di una termodinamica relativistica. La sua storia della fisica è notevole per l’attenzione dedicata agli studi e alle conquiste degli ultimi cento anni. F. Barone BIBL.: Die Relativitätstheorie, Brunswick 1911 (dal 1921 in 2 voll.: vol. I, Brunswick 1955; vol. II, Brunswick 19533); Röntgenstrahleninterferenzen, Leipzig 19482 (1941); Materiewellen und ihre Interferenzen, Leipzig 19482 (1944); Geschichte der Physik, Bonn 19503 (1946); Theorie der Supraleitung, Berlin 19503 (1947). Su Laue: H. HARTMANN, Schöpfer des neuen Weltbildes. Grosse Physiker unserer Zeit, Bonn 1952; P.P. EWALD, Max von Laue, in «Biographical Memoirs of Fellows of the Royal Society», 6 (1960), pp. 135-156; W. MEISSNER, Max von Laue als Wissenschaftler und Mensch, in «Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften zu München», 43 (1960), pp. 101-121; M. PLÄSER, Leben und wissenschaftliches Werk Laues, in «Physikalische Blätter», 16 (1960), pp. 552-567; F. HERNECK, Max von Laue, in F. HERNECK, Bahnbrecher des Atomzeitalters, Berlin 1965, pp. 273326; P. FORMAN, The Discovery of the Diffraction of XRays by Cristal, in «Archives d’Histoire des Sciences», 6 (1969), pp. 38-71; A. HERMANN, Max von Laue, in C.C. GILLISPIE, Dictionary of Scientific Biography, vol. VIII, New York 1973, pp. 530-531; F. HERNECK, Max von Laue, Leipzig 1979; M. WALKER, German National Socialism and the Quest for Nuclear Power, Cambridge - New York 1989; M. WALKER, Nazi Science. Myth, Truth and the German Atomic Bomb, New York - London 1995; J. LEMMERICH, Lise Meitner - Max von Laue: Briefwechsel 1938-1948, Berlin 1998.

LAUNOY, J EAN DE. – Erudito francese, n. Launoy presso Valognes (Bassa Normandia) nel 1603, m. nel 1678. Ordinato prete nel 1634, si dedicò interamente agli studi, divenendo famoso per le sue indagini critiche sulle leggende dei santi e sulla storia monastica. La sua vastissima produzione si apre con un’opera filosofico-teologica, Syllabus rationum quibus causa Durandi, de modo conjunctionis concursuum Dei et creaturae defenditur (Parisiis 1636), in cui, d’accordo con Durando di S. Porziano, si sostiene che Dio non concorre immediatamente alle nostre azioni malvagie. Nel campo della storia della cultura e delle istituzioni scolastiche del medioevo, soprattutto parigine, vanno segnalati il De varia Aristotelis in Academia Parisiensi for6242

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tuna, ivi 1653 (una vasta raccolta di materiali sulla fortuna di Aristotele dall’età dei Padri fino al XVII secolo, cui attinsero in seguito molti storici della filosofia) e il De scholis celebrioribus, seu a Carolo Magno seu post eundem Carolum per Occidentem instauratis, ivi 1672. G. Piaia BIBL.: P. FÉRET, La Faculté de théologie de Paris et ses docteurs les plus célèbres, Paris 1900-1907, vol. IV, pp. 1-35; G. PIAIA, Jean de Launoy, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, Brescia 1979, vol. II, pp. 14-22; J.M. HEADLEY, T. Campanella and J. de Launoy: The Controversy over Aristotle and His Reception in the West, in «Renaissance Quarterly», 43 (1990), pp. 529-550.

LAURELL, LARS. – Pensatore svedese, n. nel Laurell 1705, m. nel 1793. Professore all’università di Lund, fu seguace del wolffismo, che però in Svezia ebbe un carattere piuttosto rigido e formalistico, privo di quella freschezza e di quell’amore della libertà per i quali tale sistema si impose in Germania. Laurell diresse come professore circa cinquanta dispute pubbliche (tutte scritte in latino) nello spirito del wolffismo. I suoi interessi si rivolsero più allo studio del linguaggio e all’etimologia che ai problemi logici e metafisici. Fu maestro del giovane poeta e filosofo Thoriid. A. Nyman

LAURIE, SIMON SOMMERVILLE. – Filosofo inLaurie glese, n. a Edimburgo il 13 nov. 1829, m. ivi il 2 mar. 1909. Professore di pedagogia all’università di Edimburgo, si occupò della riforma della pubblica istruzione in Scozia. G. Remacle diede risonanza alla sua filosofia traducendo in francese due sue opere: la Metaphysica (London 1884) e l’Ethica (ivi 1885; accresciuta 18912 ), pubblicate sotto lo pseudonimo di Scotus Novanticus. A queste opere seguì la vasta sintesi metafisica Synthetica (ivi 1906). La filosofia di Laurie, estranea al pensiero inglese a lui contemporaneo, ricorda l’andamento della Fenomenologia dello spirito di Hegel. Laurie descrive, infatti, l’elevarsi dello spirito dalle forme incoative più basse a quelle più sviluppate. Il primo stadio, in cui il soggetto non è ancora differenziato dall’oggetto, è iI mero sentire. La sensazione, in cui il soggetto comincia ad aver coscienza di qualcosa di altro da sé, è già un gradino più elevato e prelude a quella che Laurie chiama «attuizione», qualcosa di intermedio tra la sensazione e la perce-

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zione. Quest’ultima è raggiunta quando all’attuizione si aggiunge la volontà, per cui il soggetto si contrappone all’oggetto. Il termine di questo cammino è la volontà-ragione nella quale il soggetto cosciente può dominare l’oggetto. L’indagine sull’uomo si allaccia, a questo punto, a quella su Dio. L’uomo, pur nella temporalità, è partecipe dell’eterna vita divina, e può dirsi un collaboratore dei disegni di Dio che Laurie considera allo stesso tempo immanente (come vita) e trascendente (come perfezione). La compresenza dei due attributi permette a Laurie di spiegare l’esistenza della negatività nel mondo, sebbene egli non chiarisca adeguatamente come quest’ultima si possa conciliare con l’affermazione che Dio è tutto in tutto, l’unità della molteplicità e l’identità delle differenze. V. Mathieu - G. Maddalena BIBL.: G. REMACLE, La philosophie de Simon Sommerville Laurie, Bruxelles 1909; R. METZ, Die philosophische Strömungen der Gegenwart in Grossbritannien, Leipzig 1935, vol. I, pp. 425-430.

LAUTH, REINHARD. – N. a Oberhausen (RenaLauth nia) il 14 ag. 1919. Ha iniziato il suo itinerario con una ricerca sulla filosofia di Dostoevskij (1950) e con una indagine sul problema del «senso dell’esistere» (1953), concetto di cui sottolinea la portata sistematica. Dagli anni Cinquanta il suo pensiero si è incrociato con la sua attività di curatore della edizione completa di J.G. Fichte (inizio pubblicazioni 1962). Ha elaborato perciò una «filosofia trascendentale», nella quale la impostazione di Descartes, Kant, Fichte viene originalmente ripensata alla luce della funzione costituente dei momenti «pratici» e viene sviluppata in un «sistema aperto», ovvero come comprensione autoriflessiva della realtà da principi e secondo principi, aperta da se stessa sull’accadimento concreto della libertà. M. Ivaldo BIBL.: Die Frage nach dem Sinn des Daseins, München 1953; Zur Idee der Transzendentalphilosophie, München-Salzburg 1965; Begriff, Begründung und Rechtfertigung der Philosophie, München-Salzburg 1967; Ethik in ihrer Grundlage aus Prinzipien entfaltet, Stuttgart 1969; Theorie des philosophischen Arguments, Berlin - New York 1979; Die Konstitution der Zeit im Bewusstsein, Hamburg 1981.

LAVATER, JOHANN CASPAR. – Pensatore svizLavater zero, n. a Zurigo il 15 nov. 1741, m. ivi il 2 genn. 1801.

Lavater Di confessione zwingliana, studiò teologia nella città natale e in seguito (1763-64) in Germania con Spalding. Oltre che degli scritti di Zwingli, subì l’influsso di Leibniz, di Ch. Bonnet e di Rousseau. Terminò la sua vita come pastore, dopo essere stato anche diacono dell’orfanatrofio di Zurigo. Lavater coltivò una sua particolare forma di umanesimo misticheggiante, che deriva da un incontro di motivi religiosi pietistici con motivi illuministici e rousseauiani, e che si esprime, tra l’altro, in parecchie poesie religiose (Christliche Lieder, Zürich 1771; Jesus Messias, ivi 1783-86, 5 voll. ecc.). La figura del Cristo – mediatore tra l’uomo e Dio, colui che, attraverso la sua umanità, innalza a Dio tutto il creato – ha in questa concezione un posto centrale, come appare già dalle lettere a Zimmermann (Aussichten in die Ewigkeit, ivi 1768-78, 4 voll.). In questo periodo, a cui appartengono le opere più note (il Geheimes Tagebuch, Leipzig 1772-73, e i Physiognomische Fragmente, zur Beförderung der Menschenkenntniss und Menschenliebe, Leipzig-Winterthur 1775-78, 4 voll.), il misticismo di Lavater non è ancora orientato così fortemente in senso escatologico da impedirgli di prendere interesse anche all’uomo su questa terra. In ogni creatura, per Lavater, si rispecchia in qualche modo il creatore: quindi nulla di ciò che consideriamo «empirico» è un fatto bruto. L’esteriorità rivela l’interiorità, e questa, in ultima analisi, ha sempre un contenuto spirituale e un significato religioso. Ciò fa sì che anche da un punto di vista estetico, per esempio, Lavater annetta particolare importanza al caratteristico e all’individuale, in quanto ciascuna particolarità delle creature è un segno lasciato dall’operare divino: non c’è volto umano così brutto che non vi rimangano i tratti d’una somiglianza con Dio. Da un altro lato la predeterminazione teologica pone un limite all’espandersi incontrollato dell’individualità, per cui anche il «genio» (di cui Lavater è uno dei teorici), pur essendo a suo modo «creatore», si sviluppa nei limiti dell’impronta con cui Dio ha segnato la sua personalità. I Physiognomische Fragmente, a cui collaborarono Herder e Goethe, rimasero, per un mezzo secolo circa, un’opera assai apprezzata dal punto di vista antropologico. La tesi di Lavater, che trovava un precedente nel De humana physiognomia di G.B. Della Porta (Napoli 1586) e si rifaceva a una tradizione viva fin dall’antichità, è che tutti i tratti del carattere e della psiche si manife6243

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Lavelle stino nei tratti del volto, sicché, studiando questi, sarebbe possibile risalire scientificamente a quelli. Data questa premessa è chiaro quale partito Lavater pensasse di poter trarre dalla fisiognomica non solo per la conoscenza, ma anche per il miglioramento morale dell’umanità. Scientificamente, il lavoro di Lavater appare oggi assai debole; tuttavia le sue indagini psicologiche e caratteriologiche di personaggi celebri non mancano di acutezza. In seguito la fede nel trascendente si fa in Lavater più esclusiva, l’influsso illuministico diminuisce; di conseguenza, si raffredda anche l’amicizia con Goethe, del tutto alieno dal seguire Lavater nel suo misticismo. Scoppiata la Rivoluzione francese, Lavater salutò in essa, dapprima, il sorgere della libertà; ma dovette presto ricredersi di fronte alle violenze che accompagnarono l’invasione francese della Svizzera, di cui egli stesso fu vittima: deportato a Basilea per la sua opposizione al nuovo regime, tornò in seguito a Zurigo dove, ferito da un soldato francese, morì. V. Mathieu BIBL.: edizioni: Samtliche Werke, Augsburg-Lindau 1834-38, 6 voll.; Goethe und Lavater. Briefe und Tagebücher, a cura di H. Funck, Weimar 1901; Ausgewählte Werke, a cura di E. Staehelin, Zürich 1943, 4 voll.; G. LUGINBÜHL-WEBER (a cura di), Johann Kaspar Lavater, Charles Bonnet, Jacob Bennelle: Briefe 1768-1790. Ein Forschungsbeitrag zur Aufklärung in der Schweiz, Bern 1997, 2 voll.; Ausgewählte Werke in historisch-kritischer Ausgabe, Zürich 2001. Su Lavater: O. GUINAUDEAU, Johann Caspar Lavater. Études sur sa vie et sa pensée jusqu’en 1786, Paris 1924; M. LAVATER-SLOMAN, Genie des Herzens. Die Lebensgeschichte Johann Kaspar Lavaters, Zürich 19555; K. RADWAN, Die Sprache Lavaters im Spiegel der Geistesgeschichte, Göppingen 1972; K.M. SAUER, Die Predigttätigkeit Johann Kaspar Lavaters (1741-1801), Zürich 1988; K. HUIZING, Das erlesene Gesicht: Vorschule einer physiognomischen Theologie, Gütersloh 1992; J. SALTZWEDEL, Das Gesicht der Welt: physiognomisches Denken in der Goethezeit, München 1993; G. MRAZ - U. SCHÖGL (a cura di), Das Kunstkabinett des Johann Caspar Lavater, Wien 1999; R.T. GRAY, About Face: German Physiognomic Thought from Lavater to Auschwitz, Detroit (Michigan) 2004 (bibliografia pp. 397-427); M. PERCIVAL - G. TYTLER (a cura di), Physiognomy in Profile: Lavater's Impact on European Culture, Newark (Delaware) 2005; G. Gurisatti, Dizionario fisiognomico, Macerata 2006.

LAVELLE, LOUIS. – N. a Saint-Martin-de-VilLavelle leréal il 15 lug. 1883, m. ivi il primo sett. 1951. 6244

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Discepolo di Hannequin all’università di Lione, sentì in un primo tempo l’influenza kantiana e bergsoniana del maestro e in seguito più profondamente il fascino dello Essai sur les éléments principaux de la représentation (1907) di Hamelin. Spirito sensibilissimo ai problemi della metafisica, pensatore acuto, scrittore e conferenziere suggestivo, insegnò al Collège de France e fondò, insieme a Le Senne, la «Philosophie de l’esprit», uno dei movimenti più ricchi di motivi speculativi della Francia contemporanea. Opere principali: La dialectique du monde sensibile, Strasburgo 1921; La perception visuelle de la profondeur, ivi 1921; La dialectique de l’éternel présent, 3 voll.: De l’être, Paris 1928, 1947; De l’acte, ivi 1937 (1946 2; 19923); Du temps et de l’éternité, ivi 1945 (una quarta parte - De la sagesse - non è stata pubblicata); La conscience de soi, ivi 1933 (Étrepilly 19932); La présence totale, ivi 1934, tr. it. a cura di A. Caparello, La presenza totale, Bergamo 1970; Le moi et son destin, ivi 1936 (tr. it. di A. Valenziani, Studi sul pensiero contemporaneo, Milano 1943); L’erreur de Narcisse, ivi 1939, tr. it. di L. Santelli - E. Vecchio, L’errore di Narciso, Padova 1970; Le mal et la souffrance, ivi 1940; La philosophie française entre les deux guerres, ivi 1942 (tr. it. di P. Sartori Treves, La filosofia francese tra le due guerre, Brescia 1949); La parole et l’écriture, ivi 1942; Introduction à l’ontologie, ivi 1947; Traité des valeurs, 2 voll., I : Théorie générale de la valeur, ivi 1951 (19912); II : Le système des différentes valeurs, ivi 1955 (19912); L’intimité spirituelle, ivi 1955; Conduite à l’égard d’autrui, ivi 1957 (tr. it.di P. De Bosis, La condotta verso gli altri, Roma 19632); Manuel de méthodologie dialectique, ivi 1962; Panorama des doctrines philosophiques, e Psychologie et spiritualité (saggi), ivi 1967. 1. La restaurazione della metafisica e la «philosophie de l’esprit» - Nella speculazione di Lavelle confluiscono diversi motivi e molteplici correnti: Lavelle continua l’ontologismo della tradizione occidentale, da Platone a Malebranche, e lo spiritualismo di Maine de Biran; si inserisce nel pensiero contemporaneo per la sua reazione antiscientista, fa proprie le preoccupazioni della coscienza religiosa e dei moralisti di fronte all’intellettualismo, accoglie alcuni motivi dell’esistenzialismo contemporaneo, per il profondo senso della persona nella sua intimità e originalità. Preoccupazione fondamentale di Lavelle fu la restaurazione della metafisica, per la fondazio-

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ne di una «philosophie de l’esprit». La filosofia è filosofia dello spirito: non è né metodologia della storia, né metodologia della scienza e tanto meno è riducibile alla psicologia, all’etnologia, alla psichiatria. Ha il compito di cercare il significato più profondo dell’universo: è metafisica o cessa di essere. Metafisica, però, non dell’essere esterno al pensiero e che si compiace di scarnificare l’esperienza per giungere all’essere astrattissimo, ma metafisica che parte dall’essere quale si rivela a un’esperienza privilegiata, sui generis, che ci colloca nell’interno, in un mondo in cui l’orgoglio e l’egoismo si dissolvono. L’esperienza di cui parla Lavelle è simile all’intuizione bergsoniana, ma, mentre per Bergson l’intuizione ci colloca nella «durata», l’intuizione lavelliana ci colloca nell’ «eterno»; mentre l’intuizione bergsoniana si contrappone alla ragione, per Lavelle la ragione deve prolungare l’opera dell’intuizione (De l’acte, p. 28). L’originalità della metafisica è di farci scoprire l’universalità dell’intimità spirituale, ce foyer commun, dove tutte le coscienze si alimentano e che, nella misura in cui ciascuna di esse è capace di ritrovarlo, fonda la sua esistenza personalissima (La métaphisique ou la science de l’intimite spirituelle, p. 60). Compito del filosofare è di collocarci nell’eterno, di scoprire la vivente dialettica fra il singolo e il tutto, tra l’uomo e Dio. Nei momenti eccezionali, quando la nostra attività è più perfetta, la coscienza del tempo scompare in noi e ci installiamo nell’eternità, che coincide con la presenza stessa dell’essere in noi. Come è nella tradizione della filosofia francese, in Lavelle psicologia e metafisica si integrano: noi abbiamo bisogno dell’assoluto per poggiare in esso tutte le nostre certezze, e ciascuna delle nostre certezze è una prova che non può trarre il suo senso che da ciascuno di noi stessi (La philosophie française entre les deux guerres, p. 8). 2. La dialettica della partecipazione e la libertà.L’esperienza fondamentale del filosofare è l’esperienza dell’essere, la partecipazione, che fonda il mio esistere, che unifica particolare e universale, atto partecipante e atto partecipato, assoluto e relativo, Dio e uomo. Nella partecipazione tra me e Dio c’è una specie di «complicità». Scoprire la mia intimità significa scoprire l’intimità dell’essere; io sono presente all’essere e l’essere è presente a me. Il mistero dell’esistenza si rivela quando scopriamo il nostro punto di incontro con l’assoluto,

Lavelle quando penetriamo in quella realtà profonda in cui vogliamo quello che siamo, e coincidiamo con una volontà eterna che illumina ciascuno dei nostri atti e a cui siamo portati a offrire con gioia tutti i sacrifici (Le moi et son destin, pp. 129-133). Ciascuno di noi è atto partecipato dell’atto assoluto, perché l’essere di cui scopriamo la presenza totale e l’essere nostro sono il medesimo essere (univocità dell’essere). Ma affermare che l’essere è univoco non significa cadere nel panteismo? La dialettica dell’Eterno presente è uno sforzo acutissimo per intendere proprio l’immanenza del divino in noi senza cadere nell’immanentismo e nel panteismo. Mentre in De l’être Lavelle si preoccupa di dimostrare l’originalità dell’essere e la sua univocità, in De l’acte egli si sforza di intendere l’essere come atto, come efficacia pura, cioè libertà, perché il concetto di atto consente, meglio di quello di essere, di spiegare il rapporto tra il creatore e le creature. Se l’essere è «atto» (che è libertà), non c’è difficoltà ad ammettere che esso resti sempre il medesimo, cioè libertà e, senza dividersi, fornisca o, meglio, partecipi a ogni essere particolare tutta la potenza efficace o libertà, per «divenire» quello che è (De l’acte, pp. 109-113). Se l’essere è atto, sorgente dinamica, dinamicamente deve intendersi l’unità tra il tutto e le determinazioni, che però hanno una certa autonomia, cioè sono «libere», così da collaborare con il tutto stesso, assumendo la propria iniziativa, realizzando liberamente la propria essenza e vocazione. E l’atto è trascendente e immanente insieme: è sovranamente trascendente la coscienza, a cui pure è presente, perché è precisamente il suo al di là; è rigorosamente immanente ad essa, perché non vi è nulla che non tragga da lui la propria realtà (ibid., p. 146). Nell’intimità dell’atto di partecipazione c’è un processo dialettico tra l’atto totale e l’atto particolare che garantisce la libertà delle creature. Il proprio della partecipazione è di creare uno «scarto» tra l’atto totale e l’atto particolare (De l’acte, pp. 200-210). Tra noi e Dio c’è come un «intervallo», una frattura, una specie di «difetto ontologico» (pp. 101-102). In virtù di questo intervallo c’è nell’atto dissociazione e, insieme, unità di essenza ed esistenza, perché l’esistenza si dispiega come ricerca dell’essenza, ansia di coincidere con essa, mediante un atto libero, assumendo la propria vocazione, «volendo» quello che si è. Esistere vuol dire compiere un atto libero e puro, staccarci dall’esse6245

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Lavelle

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re per rientrare in esso, «non come estranei, ma come amici» (De l’être, pp. 9-11). Riceviamo l’esistenza come un dono, come un dato, e dobbiamo trasformare tale «dato» in «atto», la «necessità» in «libertà». È allora che da «individui» diventiamo «persone» (ibid., pp. 139143). La dialettica della persona è esistere e insistere: il primo momento indica il distacco, il secondo la comunione. La libertà, che è il cuore della partecipazione, è «dono», ma anche «conquista». Agire è consentire a un’attività che ci è proposta, compiere un’opzione, rispondere a un appello. L’esistenza è vocazione e invocazione, «appello» e «consenso», dono e scelta. Ognuno deve scoprire la propria vocazione e restarle fedele. La libertà consiste nel fare, di ciò che ci è «dato», l’essenza del nostro vivere. La libertà è possibilità di opzione. Noi ci troviamo sempre di fronte a un’alternativa, a una scelta da fare, e la nostra libertà consiste nel «consentire» all’assoluto, e «manifesta la sua indipendenza nel potere che ha di opporsi all’essere stesso che le è proposto e, di conseguenza, di rivoltarsi contro la sua stessa origine» (op. cit., p. 191; L’erreur de Narcisse, p. 230). Gli insuccessi degli uomini derivano dal fatto che essi non sanno scoprire son génie e vogliono realizzare un destino che non risponde alla loro vocazione. La vocazione è una «grazia» con cui occupiamo una place d’élection e si rivela nel momento in cui l’uomo riconosce «che egli non può essere se non il messaggero di un’opera alla quale coopera e nella quale ritrova interessato il destino dell’universo intero» (op. cit., p. 139). Sforzo di Lavelle è di accordare l’antico e il moderno; il suo pensiero ha, da un lato, l’architettonicità dei grandi sistemi metafisici del passato, dall’altro l’apertura e il senso della problematicità dell’esperienza, che è proprio delle filosofie contemporanee. Dalla sovrapposizione di questi due motivi nascono le difficoltà della sua speculazione. Cristiana la filosofia di Lavelle? Non crediamo possa identificarsi pienamente l’atto lavelliano con il dio dei cristiani. La trascendenza lavelliana non è la trascendenza teistica classica. Tra Lavelle e i pensatori cristiani, soprattutto italiani, c’è stato comunque un punto di contatto: la rivendicazione della metafisica, più precisamente, l’esigenza di costruire una nuova metafisica, evitando gli scogli sia dell’idealismo sia del vecchio oggettivismo. E. Centineo

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BIBL.: Autopresentazione, in «La mia prospettiva filosofica», Padova 1950, pp. 123-143. Cfr. O.M. NOBILE, La filosofia di L. Lavelle, Firenze 1943; E. CENTINEO, Il problema della persona nella filosofia di Lavelle, Palermo 1944; G. TRUC, De J.-P. Sartre à L. Lavelle, ou Désaggrégation et réintégration, Paris 1946; P.G. GRASSO, Lavelle, Brescia 1949; «Giornale di Metafisica», 1952, interamente dedicato a Lavelle, contenente un suo scritto inedito e un carteggio con M.F. Sciacca; J. ÉCOLE, La métaphysique de l’être dans la philosophie de L. Lavelle, Louvain-Paris, 1957; B. SARGI, La participation à l’être dans la philosophie de L. Lavelle, Paris 1957; in «Les Études Philosophique», 1957; M. ANDRÉS, El problema del assolutorelativo en la filosofía de L. Lavelle, Buenos Aires 1957; W. PIERSOL, La valeur dans la philosophie de L. Lavelle, Paris 1959; P. LEVERT, L’être et le réel, selon L. Lavelle, Paris 1960; C. JOANNE OPALEK, The experience of Being in the Philosophy of L. Lavelle, London 1962; G. BESCHIN, Il tempo e la libertà in L. Lavelle, Milano 1964; CH. D’AINVAL, Une doctrine de la présence spirituelle. La philosophie de L. Lavelle, Louvain-Paris 1967; F. POLATO, L. Lavelle. L’essere e il tempo, Ravenna 1972; S. CAVACIUTI, Momenti della ontologia contemporanea: M. Blondel, Lavelle, M.F. Sciacca, Roma 1976; M. PINTON, La persona umana soggetto storico in L. Lavelle, Vicenza 1979; J. ECOLE, L. Lavelle et le renouveau de la métaphysique de l’être au XXe siècle, Hildesheim 1987; G. BRETONNAU, L’exigence des valeurs chez L. Lavelle, Paris 1987; J. GARCÍA CAFFARENA, El instante y el tiempo en la filosofía de L. Lavelle, Rosario 1988; F. LEOCATA, La vida humana como experiencia del valor. Un dialogo con L. Lavelle, Buenos Aires 1991; J. ECOLE, La métaphysique de l’être, doctrine de la connaissance et philosophie de la religion chez L. Lavelle, Genova 1994; S. CAVACIUTI, Libertà e alterità nel pensiero di L. Lavelle, Genova 1996; K. ALBERT, Lavelle und die Philosophie der 20. Jahrunderts, Dettelbach 1997. Per gli articoli in riviste, cfr. J. ÉCOLE, La métaphysique de l’être dans la philosophie de L. Lavelle, LouvainParis, 1957, pp. 259-293, aggiornato sino al 1964 da J.R. SANABRIA, in «Giornale di Metafisica», 1966, pp. 562-585; M.F. SCIACCA, in «La filosofia oggi», 1963, pp. 336-349; M. PÉRIGORD, Du rôle de l’instant dans la philosophie de L. Lavelle, in «Giornale di Metafisica», 1962, pp. 240-259; M.F. SCIACCA, L. Lavelle, in «Giornale di Metafisica», 1956, pp. 735-752; A. DENTONE, Scritti postumi di L. Lavelle e R. Le Senne, in «Giornale di Metafisica», 1958, pp. 745-760; V. GIORDANO, L’esperienza metafisica in L. Lavelle, in «Giornale di Metafisica», 1962, pp. 92-107; U. REGINA, L’esito formalistico dell’ontologia di L. Lavelle, in «Rivista di Filosofia neoscolastica», 1962, pp. 318-350; R. JOLIVET, L. Lavelle, in «Sapientia», 1963, pp. 169-184; M.T. BOLLINI, El tiempo y la eternidad en L. Lavelle, in «Cuadernos de Filosofia», 1970, pp. 113-120; E. RI-

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA VERA,

Dios presente in San Francisco: interpretación de L. Lavelle, in «Naturaleza y gracia», 1980, pp. 293391; K. ALBERT - K. JACOBS, Lavelles philosophische Selbstbezengung, in «Perspektiven der Philosophie», 1981, pp. 245-262; A. FOREST, La métaphysique et la vie spirituelle selon Lavelle, in «Archivio di Filosofia», 1983, pp. 27-42; R. LOSA, L. Lavelle. L’itinéraire d’un philosophe spiritualiste, in «Mélanges de Science Religieuse», 1983, pp. 185-205; M.E. SECCHI, L. Lavelle y la métafisica, «Doctor communis», 1985, pp. 103131; T.M .PADILHA, De la philosophie de l’être à la philosophie de l’amour, in «Presença filosofica», 1985, pp. 5-17; J. ECOLE, À propos des deux conceptions de l’être de Lavelle, in «Filosofia oggi», 1988, pp. 615-662; J. ECOLE, La doctrine lavellienne de la connaissance, in «Filosofia oggi», 1990, pp. 75-102; J. ECOLE, La religion et la théologie ou la philosophie de la religion chez Lavelle, in «Filosofia oggi», 1990, pp. 283-302; J. ECOLE, De l’univocité selon Lavelle, in «Filosofia oggi», 1991, pp. 545-557; J. ECOLE, La construction du temps, son sens et ses rapports avec l’éternité selon Lavelle, in «Les Études Philosophiques», 1992, pp. 217-228; J. ECOLE, La question du statut ontologique du monde dans la métaphysique lavellienne, in «Archivio di Philosofia», 1993, pp. 267-275; CH. BOUTON, Temps et esprit chez Hegel et L. Lavelle, in «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», 2001, pp. 81-104.

LA VIA, VINCENZO. – N. a Nicosia (Enna) il 28 La Via genn. 1895, m. a San Gregorio (Catania) nel 1980. Allievo di B. Varisco e di Gentile, dapprima titolare di Filosofia nei licei, poi libero docente e incaricato nelle università di Genova e di Urbino, fu titolare di Filosofia teoretica nell’università di Messina dal 1940. Opere principali: L’idealismo attuale di G. Gentile (Trani 1925); Il problema della fondazione della filosofia e l’oggettivismo antico (Varese 19402 [1936]); Idealismo e filosofia (Messina 1941; raccolta di saggi di notevole valore storiografico, alcuni dei quali già pubblicati); Dall’idealismo all’assoluto realismo (Firenze 1941), con cui si conclude una prima fase, prevalentemente critica, del suo pensiero, ed una seconda se ne apre, costruttiva e sistematica, ricchissima di una intensa produzione di saggi e articoli, apparsi periodicamente nella rivista «Teoresi», da La Via fondata a Messina nel 1946. Alla base dell’«assoluto realismo» sta la teoria del «conoscere» che non è il conoscere dell’intelletto scientifico (astrattivo e rappresentativo), il quale, accanto a sé, conserva un sentire e un volere, ma è quel conoscere che significa

La Via «aver consapevolezza di», cioè «essere coscienza di». È significativo che La Via abbia scelto proprio questo termine che tanto nel realismo classico quanto nell’attualismo voleva esprimere un significato insieme gnoseologico e metafisico: di qui nasce l’assoluto realismo, in questo approfondimento e svelamento dell’unica e totale esigenza filosofica che l’attualismo in quanto filosofia chiudeva in sé, ma che in quanto idealismo non poteva esprimere interamente. Nell’attualismo, infatti, il momento gnoseologico esprime l’atto del conoscere (p. es., io so di me), ma il momento metafisico (io so cosa sono) non si può mai attingere, in quanto il «sono» non può essere ontologicamente affermato (l’affermazione ontologica deve sempre poter enucleare l’in sé dell’affermato rispetto al fatto dell’affermare: è affermazione di trascendenza). Il «sono» può essere affermato solo immanentisticamente (io sono nel processo spirituale), ma così in verità l’attualismo non afferma né il sono né il processo, poiché per affermare il sono dovrebbe assolutizzare il processo, e per affermare il processo dovrebbe assolutizzare il sono: nel primo caso l’assolutizzazione del processo farebbe sparire ogni oggettività rispetto a cui soltanto ha significato e valore la soggettività e quindi il sono, nel secondo caso l’assolutizzazione del sono farebbe trascendere il processo dalla parte della soggettività, che invece solo nel processo è data in quanto al suo esserci e significare. La Via ha così svelato l’intimo dramma dell’attualismo: il continuo dibattersi fra un soggettivismo assoluto (acritico o dommatico in quanto presuppone il soggetto a ciò per cui è soggetto) ed un assoluto storicismo (egualmente acritico perché assolutizzando il processo sostanzializza il trascendentale, cioè, appunto, il conoscere). Tale impossibilità dell’affermazione ontologica o metafisica deriva, per La Via, dall’equivoco cartesiano e kantiano: aver posto il rapporto con la verità e con l’essere come quel rapporto che l’io istituisce o nel quale l’io può entrare: rapporto che quindi non condiziona le due realtà da unire (il soggetto e la verità), le quali, per sé, sono già ontologicamente affermate. È appunto questo dommatico metter fuori dal rapporto l’affermazione ontologica che genera lo «gnoseologismo», contro cui l’idealismo vuol reagire, in quanto se affermare è affermare l’essere, e se affermare è pensare, è chiaro che, essendo il 6247

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La Via pensare giudicare, ed essendo il giudicare nient’altro che quel processo in cui si esprime proprio il rapporto in questione, non si può mai uscire da tal processo, mai entrarvi, perché non si può fare a meno (se non astrattamente) di tal rapporto. Ma sanare l’abissale distacco fra gnoseologia e ontologia, per l’idealismo, vuol dire interiorizzare il soggetto e la verità nel processo, che viene così assolutizzato, col risultato di conservare l’equivoco che si voleva sanare, l’equivoco di vedere in sé quel processo, di vederlo come qualcosa di per sé significativo. All’abissale distacco s’è sostituita la loro identità, al trascendentismo s’è sostituito un immanentismo parimenti dommatico. Infatti, se tutto è nel processo, tutto è processo; se tutto è nella storia, tutto è storia; ma storia in atto, non storia già attuata, pensiero pensante, non pensiero pensato. Ma se tutto l’essere viene ridotto a concipi, può venir ridotto a concipi anche l’esse del «concipi»? Rispondere di sì significa annullare il «concipi» (e con ciò la storia umana); rispondere di no significa affermare la necessaria non identità di «esse» e di «concipi» e il loro necessario vincolo del tutto particolare. Il «concipi», cioè il processo e quindi il conoscere, non attesta altro che la pura relazione all’essere: cioè attesta, nell’essere, la relazione in virtù di cui gli esseri sono tali. Ma allora il processo che porta alla verità, cioè il conoscere, non è più un atto, perché la verità non sta alla fine del processo ma è tutta nel processo, è un fatto, anzi il fatto: il fatto della significazione ontologica; e la verità, cui il processo avrebbe dovuto portare, non è l’essere nella sua assoluta realtà, ma è la relatività stessa a tale assolutezza. Da questo si vede che per La Via non può esistere il «problema del conoscere»: il conoscere è intranscendibile, essendo ciò per cui l’essere è dato alla coscienza e come coscienza, ciò per cui il mondo o la natura è dato all’io e l’io (come mondo o natura) è dato a se stesso, ciò per cui l’io afferma, insieme, se stesso e la propria differenza o alterità dalla natura, ciò per cui, insomma, il soggetto affermando se stesso (la propria reale limitatezza) trascende idealmente il proprio limite perché per saperlo deve insieme rapportarlo all’assolutamente illimitato, del quale quindi la coscienza deve avere, anzi essere, l’idea o esigenza (e ciò è possibile in quanto è il conoscere o l’idealità pura dell’essere che la costituisce come coscienza). Quindi: 1) il co6248

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noscere, una volta enucleato dalla «riflessione filosofica», non attesta altro che l’idealità come contenuto di trascendenza; 2) tale idealità per cui v’è coscienza, o conoscenza in atto, non è l’io stesso a porla; 3) è dunque l’essere assoluto (il reale trascendente) che pone l’idealità; 4) la quale, infine, non altro significa che la trama delle reali relazioni che gli esseri sono ed esprimono all’essere. È importante osservare che quel trascendimento in atto dei dati molteplici che costituisce l’io, nell’esprimere l’ideale trascendere del soggetto rispetto alla natura, svela anche che la coscienza non può vivere la vita della natura: l’io è necessitato a vivere trascendendo sempre il proprio esistere, è necessitato a volere. Senza la volontà, infatti, non si ha la posizione totale dell’io, la soggettività non definendosi interamente nel puro conoscere ma nell’azione, poiché è nella volontà che l’io non solo conosce la trascendenza e l’alterità, ma anche praticamente le riconosce, cioè concretamente le determina, e, in ciò, si determina. In questo aver riscoperto il vincolo fra teoreticità e praticità, La Via può fondare i rapporti fra filosofia, morale, pedagogia e diritto: è la persona, appunto, così come era stato per Rosmini, il fondamento di questi vincoli che possono soltanto stabilire l’unità delle scienze e quindi dei costumi e della cultura. Non si può infatti dedurre l’educabilità prescindendo da concetti come relatività, trascendenza, molteplicità, precarietà o finitezza, libertà: tutti impliciti nella persona. Parimenti sulla persona può esser fondata quella società non più espressione di diritti o di doveri astrattamente contrapposti, ma espressione di «rapporti nell’essere e per l’essere». Così anche l’estetica: il sentire non potrà mai attestare il primo tralucere del conoscere, il cui inizio solo astrattamente può pensarsi, ma esprimerà la non assoluta riducibilità dell’essere al pensiero, del dato alla coscienza, irriducibilità necessaria perché costituisce la materia reale onde posso stabilire la coscienza e quindi la persona, la natura come reale limite che l’io deve superare (la «natura» come «essere non riducibile alla coscienza» attesta, insieme alla coscienza, la trascendenza reale dell’essere e l’alterità del dato – onde l’atteggiamento scientifico – alla coscienza). Come si vede, risulta inverso il problema kantiano e rosminiano: la sintesi è sempre fra un dato materiale e un dato ideale, ma il limite

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non sta nella ragione, non sta nella sintesi, che, per sé, è nulla, ma sta nella realtà (onde tormento e desiderio di realtà è il dramma umano), in quanto è proprio nella sintesi (oltre che per la sintesi) che ho consapevolezza della finitudine, e ciò grazie a quell’idea la quale, nonché esser limitata, è essa limitante in quanto è l’idea dell’illimitato in actu exercito. Questo tendere sempre al reale, mai all’ideale (che è sempre mezzo, mai oggetto), questo sperimentare l’essere nostro come finito o insufficiente, questo voler essere oltre tali limiti pur sempre risorgenti attestano nell’umana natura, e quindi nella struttura razionale stessa, l’esigenza del completamento religioso, come di quel completamento di cui allo stesso trascendente, con il suo rivelarsi, spetta l’iniziativa. M. Manno BIBL.: L’unità del filosofare e la persona, raccolta di lezioni accademiche curata da M. Manno, Messina 1953; La filosofia e l’idea di Dio, ed. a cura di G. Catalfamo, Messina 1954; Esigenza critica e oggettivismo antico, Catania 1960; Pedagogia attualistica e crisi dell’immanentismo, Catania 1962 (1958); La risoluzione dell’idealismo in assoluto realismo, Catania 1964; La problematica religiosa in A. Rosmini, Catania 1964; Blondel e la logica dell’azione, Catania 1964; L’idealismo e il conoscere fondante, Milano 1965; La restaurazione rosminiana della filosofia, Milano 1966. Su La Via: Autopresentazione, in M.F. SCIACCA (a cura di), Filosofi italiani contemporanei, Como 19462; G. BONTADINI, La dottrina ontologica di Vincenzo La Via, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 3-4 (1930); C. MANGIONE, Il contenuto del conoscere fondante nel realismo assoluto di Vincenzo La Via, in «Educare», 10 (1959), pp. 80-91, 130-138; F. BARTOLONE, Valenze e prospettive dell’«assoluto realismo» di Vincenzo La Via, in «Teoresi», 1966, pp. 23-40 (relazione al Congresso del 1964 su «La Via e la filosofia contemporanea»); M. DEL VESCOVO, Sul filosofo Vincenzo La Via. Note biografiche e documenti inediti, s. l. 1990; S. LO GIUDICE, I problemi dell’idealismo e del realismo nella prospettiva di Vincenzo La Via, Messina 1996.

LAVOISIER, ANTOINE-LAURENT. – Chimico Lavoisier ed economista francese, n. il 26 ag. 1743 a Parigi, m. l’8 magg. 1794 ivi ghigliottinato. Figlio di un ricco avvocato, studiò legge, ma presto si rivolse agli studi scientifici, soprattutto geologici, sotto la guida di J.-E. Guettard, che accompagnò nel periodo 1763-67 in varie missioni nel nord della Francia. Per imparare la mineralogia seguì le lezioni del chimico G.F. Rouelle. Per una serie di ricerche sulle acque minerali e sulla illuminazione stradale di

Lavoisier Parigi fu eletto all’Académie Royale des Sciences nel 1768. Nello stesso anno iniziò a lavorare come esattore delle tasse. Sposatosi nel 1771, dopo quattro anni divenne membro della Commissione nazionale per gli esplosivi e stabilì la propria residenza presso l’arsenale di Parigi, ove impiantò un laboratorio scientifico. Varie altre iniziative lo occuparono, dalla sperimentazione agricola, alla direzione della caisse d’escompte. Di idee politiche liberali, abbracciò molte delle opinioni dei filosofi illuministi e fu fermamente convinto della necessità di riforme sociali. Prese parte attiva nelle vicende politiche che precedettero la Rivoluzione Francese, lavorando in comitati che studiarono problematiche sociali e questioni dell’agricoltura. Nel 1791, durante la Rivoluzione, diede un importante contributo alla costituzione del sistema metrico di pesi e misure, pubblicò un rapporto sullo stato delle finanze francesi e uno sulle risorse economiche delle campagne. Nonostante i suoi meriti, fu il bersaglio di violenti attacchi di Jean Paul Marat e dei giornali radicali. Nel dicembre 1793 fu imprigionato insieme ad altri esattori e con loro fu giustiziato l’8 maggio 1794. L’opera scientifica di Lavoisier rappresenta una rivoluzione per la chimica che è giunta un secolo dopo quella avvenuta in fisica, d’altra parte essa si presentò strettamente associata alla fisica sperimentale, poiché questa era ancora largamente basata sul concetto aristotelico di elemento. Due classici elementi aristotelici ebbero una particolare rilevanza per la nascita della chimica moderna: l’aria e il fuoco. Nello studio delle proprietà del fuoco si distinse nel Settecento lo scozzese Black, il quale pose i fondamenti concettuali dello studio del calore: per primo distinse tra temperatura e quantità di calore e, osservando che la temperatura non cambia durante il processo di fusione del ghiaccio, avanzò il concetto di calore «latente» o nascosto, in quanto non influenza il termometro. Il calore fu pensato per tutto il secolo come un fluido sottile (il «calorico» di Stahl). L’aspetto fondamentale dei fenomeni termici appariva il processo di combustione, nel quale risultava evidentemente implicata anche l’aria, altro elemento aristotelico. Un passaggio cruciale della rivoluzione chimica fu la comprensione del fatto che l’aria non è un singolo elemento ma uno stato fisico che molte sostanze chimiche possono assumere e che l’aria atmosferica è una mescolanza di varie e 6249

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Lavoisier differenti sostanze, tutte allo stato aeriforme o «vaporoso». Questa nuova visione dell'antico elemento aristotelico fu dovuta alle ricerche di Hales, di Black, di A.R.J. Turgot. Grazie ad essi si fece strada la convinzione che differenti stati fisici della materia non sono associati con alcun specifico elemento chimico ma sono tutti possibili per ogni elemento chimico, se esso può essere portato alle temperature adatte. Con l’opera dello stesso Black, di Joseph Priestley e di altri vennero isolati e riconosciuti vari tipi di aria, ognuno con proprietà differenti, dall’«aria fissa» più densa dell'aria normale, incapace di alimentare la combustione e di mantenere la vita, all’«aria infiammabile», meno densa dell'aria comune ed esplosiva. Anche gli studi sull’aria, così come quelli sul calore, portarono a soffermare l’attenzione di moltissimi studiosi sul problema della combustione. Lavoisier cominciò a occuparsene almeno dal 1772, in relazione a due questioni: la distruzione del diamante mediante calore e la calcinazione dei metalli. Egli adottò tecniche di laboratorio rigorose che gli consentirono, tra l’altro, di chiarificare un punto controverso: tutti i metalli aumentano di peso durante la calcinazione, circostanza che la teoria del flogisto non spiegava facilmente. Il ruolo dell’aria nella combustione fu studiato contemporaneamente nel periodo 1772-75 da Lavoisier e da Priestley. Entrambi isolarono e riconobbero un’aria estremamente «buona» capace di mantenere la combustione con grande vivacità, superiore a quella che si ha in presenza dell’aria normale, e di facilitare la respirazione. Priestley, sostenitore della teoria del flogisto, pensò che quest’aria «buona» fosse aria comune priva di flogisto, e dunque particolarmente adatta ad assorbire il flogisto che viene espulso dal combustibile mentre questo brucia, e la chiamò «aria deflogistizzata». Lavoisier ritenne invece, non aderendo alla teoria del flogisto e sulla base delle proprie misure ponderali sui processi di calcinazione, che l’«aria eminentemente respirabile» fosse solo una parte dell’aria comune, quella parte che viene assorbita dai metalli durante la calcinazione e dai combustibili durante la combustione. In questo modo Lavoisier sostenne con decisione che l’aria atmosferica è un miscuglio di differenti sostanze chimiche allo stato «vaporoso» (che di là a poco avrebbe chiamato «gas») e che la combustione non è un proces6250

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so di separazione (del flogisto dal combustibile) ma una combinazione. Lavoisier applicò quest’idea alla spiegazione di altri fenomeni chimici, specialmente alla formazione degli acidi e alle loro proprietà. Le evidenze empiriche raccolte gli permisero di enunciare nel 1778 la tesi che l’aria «eminentemente respirabile» responsabile della combustione è anche la fonte dell’acidità. L’anno dopo propose per questa aria il nome di «ossigeno» o «generatore di acidi». Tra i problemi imbarazzanti per le idee di Lavoisier vi era quello rappresentato dalla combustione dell’«aria infiammabile», che bruciava violentemente nell’atmosfera senza apparentemente lasciare residui. Ciò non creava imbarazzo per la teoria del flogisto, che poteva considerare l’«aria infiammabile» come flogisto puro, che si dissipava completamente nell’aria bruciando, ma per Lavoisier essa doveva combinarsi con l’ossigeno, non poteva sparire. In soccorso di Lavoisier venne la scoperta, fatta da Cavendish nel 1781, che, facendo esplodere l’aria infiammabile in un contenitore di vetro, dentro quest’ultimo si formava della nebbia. Questo era il residuo della combustione cercato da Lavoisier: acqua, frutto della combinazione di «aria infiammabile» e ossigeno. Rapidamente Lavoisier realizzò la dimostrazione sperimentale che mescolando in opportune condizioni ossigeno e «aria infiammabile» si ottengono significative quantità d’acqua. In questa maniera non solo si confermava la teoria della combustione, ma si dimostrava anche che un altro elemento aristotelico, l’acqua, non è un elemento ma un composto. L’«aria infiammabile» divenne «idrogeno» o «generatore d’acqua». Negli anni seguenti Lavoisier, con l’aiuto di Louis Bernard Guyton de Morveau (17371816), Antoine-François de Fourcroy (17551809), Claude Louis Berthollet, scrisse testi che diedero una forma sistematica alle idee elaborate in precedenza e posero le fondamenta della nuova chimica. Nel Méthode de nomenclature chimique (Paris 1787) venne presentato il nuovo linguaggio della chimica, che doveva sostituire l’antica nomenclatura, caotico frutto di tradizioni multiple e a volte contrastanti, con una nuova, sistematica e razionale, basata sul presupposto che il nome di una sostanza debba descrivere la sua composizione chimica. Poiché le composizioni delle sostanze erano ottenute partendo dal fondamentale

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Lavoro

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ruolo assegnato da Lavoisier all’ossigeno, la nuova nomenclatura era indissolubilmente intrecciata alla teoria dell’ossigeno e, come osservò Black, l’accettazione della nomenclatura di Lavoisier significava l’accettazione della teoria dell’ossigeno. Nel Traité élémentaire de chimie (Paris 1789) la rivoluzione venne condotta a compimento. Distrutti ormai gli elementi aristotelici, Lavoisier propose una definizione relativistico-sperimentale di elemento chimico: «Ammettiamo col nome di elemento o di principio dei corpi l’idea dell’ultimo termine al quale arriva l’analisi; tutte le sostanze che non abbiamo ancora potuto decomporre con nessun mezzo sono per noi degli elementi». Sono una trentina gli elementi individuati da Lavoisier, ai quali si debbono aggiungere luce e calore (che Lavoisier concepiva come un fluido, il «calorico»). Le reazioni chimiche nel corso delle quali questi elementi si combinano e ricombinano sono soggette al principio di conservazione del peso dei reagenti, il quale consente lo studio quantitativo delle reazioni chimiche ed esprime in termini operativi il principio metafisico della conservazione della materia. La nuova chimica non recuperava affatto l’ipotesi newtoniana della omogeneità inerziale della materia. La rivoluzione di Lavoisier fece anzi esplodere la materia in una pluralità di materie qualitativamente differenziate con la sua teoria costruita sulla ammissione di una trentina di elementi. Pur non sfidando apertamente il programma newtoniano di misurazione delle forze di affinità chimica e pur non impegnandosi sulla questione della natura della materia, aggirandola con una definizione operativa di elemento chimico, Lavoisier lasciò di fatto cadere i due capisaldi del programma newtoniano per la chimica, forze di affinità e omogeneità della materia, per procedere attraverso una via di matematizzazione mediante la misura dei pesi dei reagenti che era differente da quella che era stata tentata dai newtoniani. R. Maiocchi BIBL.: gli scritti di Lavoisier sono raccolti nei 6 voll. delle Oeuvres (Paris 1864-93, ripr. New York 1966), che riportano nel primo volume il celebre Traité élémentaire de chimie (Paris 1789, ripr. Bruxelles 1965, 2 voll.). Su Lavoisier: M. DAUMAS, Lavoisier, théoricien et expérimentateur, Paris 1955; S.E. TOULMIN, Crucial Experiments: Priestley and Lavoisier, in «Journal of

the History of Ideas: an International Quarterly Devoted to Intellectual History», 18 (1957), pp. 205220; J.I. SOLOV’EV, L’evoluzione del pensiero chimico dal ‘600 ai giorni nostri, Milano 1976, cap. 5; B. BENSAUDE-VINCENT - F. ABBRI, Lavoisier in European Context, Canton 1995; A. DONOVAN, Antoine Lavoisier. Science, Administration and Revolution, Cambridge 1996; J.-P. POIRIER, Lavoisier chemist, biologist, economist, Philadelphia 1996; F.L. HOLMES, Antoine Lavoisier, the Next Crucial Years, Princeton (New Jersey) 1998; M. BERETTA, Imaging a Career in Science: the Iconography of Antoine Lavoisier, Canton 2002.

LAVORO (work; Arbeit; travail; trabajo). – SOMLavoro MARIO:

I. Considerazione storica. - II. Considerazione antropologica: 1. Genericità e specificità del lavoro. - 2. La divaricazione tra fine e mezzo e tra soggetto e oggetto. - 3. È possibile una ricomposizione? I. CONSIDERAZIONE STORICA. – Si definisce lavoro ogni attività, manuale o spirituale, con cui l’uomo produce un risultato utile. Il lavoro, nell’uomo come nell’animale, è in primo luogo un’attività volta a dare risposte alla lotta per la sopravvivenza: trovare il cibo, costruire un riparo, riscaldarsi dal freddo, difendersi dai pericoli. Nell’uomo, tuttavia, assume una diversa connotazione che corrisponde alla sua specifica natura, dato che non è solo «homo faber» (Bergson), ma anche «sapiens» (Linneo). L’etimologia della parola lavoro ne disvela il carattere faticoso e sgradevole che tutte le civiltà gli hanno attribuito: in gr. povno" dalla radice pen (tensione), la stessa della poena latina; nel lat. labor e nei derivati labour inglese e lavoro italiano, nel senso di «vacillare sotto il peso» (labare) e di «cadere» (lapsare); laborare significa faticare e anche lottare contro una malattia; chi è costretto a lavorare è un ponhrov", ossia un «uomo di pena», povero, sfortunato e cattivo. I termini francese travail e spagnolo trabajo sono collegati a trabs, enorme peso da portare, faticoso come il «travaglio». Il tedesco Arbeit è stato avvicinato ad Armut: povertà. Questo collegamento originario della fatica e della sgradevolezza al lavoro non esclude che in certe condizioni di vita il lavoro possa, almeno in parte e non di rado, perdere la sua negatività e divenire anche vocazione. All’inizio della civiltà occidentale vengono espresse due diverse e contrastanti concezioni del lavoro. Nella civiltà greco-romana prevalgono coloro che nel lavoro scorgono una attività coatta e indegna dell’uomo libero. 6251

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Lavoro Non mancano alcune voci in senso contrario: come Esiodo, in Opere e giorni, e come non pochi sofisti, che scorgono nel lavoro uno strumento di progresso e tendono al superamento della schiavitù (cfr. soprattutto l’Apologia di Palamede di Gorgia e l’Ercole al bivio di Prodico di Ceo). Ma la tendenza dominante rimane quella del disprezzo del lavoro come attività servile. Il solo dio che lavora manualmente, Efesto, è brutto e sciancato. Il primato è sempre della contemplazione e la stessa superiorità dell’uomo sull’animale deriva dall’intelligenza: ad Anassagora, per il quale l’uomo è l’animale più intelligente perché ha le mani, Aristotele oppone che ha ottenuto le mani solo in quanto è il più intelligente (cfr. Part. an., 687 a). I due principali filosofi greci sono uniti nell’affermazione del primato della contemplazione: Platone impone nella Repubblica una divisione del lavoro, ma esclude i lavoratori dal governo dello stato; Aristotele scorge nel lavoro qualcosa che avvilisce l’intelligenza: «c’è bisogno di ozio per sviluppare le virtù e le attività politiche» (Pol. 1329 a). Ne deriva, per entrambi, la necessità morale della schiavitù, che scarica su alcuni la fatica fisica per consentire ad altri di pensare. Inventori della scienza, i greci non la svolsero in quella tecnica adeguata, che il loro grado di cultura poteva avere, ma che essi non vollero avere. Anche una civiltà come quella romana, che ci ha lasciato grandiosi monumenti del lavoro e non di rado ha esaltato il progresso prodotto dal lavoro (cfr. soprattutto le Georgiche di Virgilio e il libro V del De natura rerum di Lucrezio), ritiene normale il non-lavoro (otium, parola che non ha alcun significato negativo), di cui il lavoro (negotium) è la negazione (nec-otium). Se Atene disprezza il lavoro, diverso è il sentire di Gerusalemme. Il dio biblico è un lavoratore, che crea il mondo in sei giorni e si riposa il settimo. L’uomo, creato e posto nel «giardino», vi deve lavorare per custodirlo e farlo produrre (Gn 2, 15: «Lo pose nel giardino dell’Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse»). La pena del lavoro non è originaria, ma la conseguenza del peccato: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Gn 3, 19). L’antropologia biblica collega lavoro e peccato proprio per riconoscere al lavoro un carattere non evitabile: il lavoro è insieme una fatica necessaria, produttiva di beni ed è anche una via di purificazione, a cui l’uomo non può sottrarsi (cfr. 2 Ts 3, 10: 6252

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«chi non vuol lavorare, neppure mangi»). Esso è mezzo di sussistenza e strumento di carità. La Regola di san Benedetto, con il suo «ora et labora», fisserà i termini del problema del lavoro nella civiltà cristiana: il lavoro è mezzo e non fine dell’esistenza, si lavora per vivere, non si vive per lavorare. Preghiera e lavoro sono due attività entrambe necessarie, ma non sullo stesso piano, data la superiorità qualitativa dell’orare sul laborare (non avrebbe senso dire «labora et ora»). Né l’ebraismo, né il cristianesimo (fondato dal figlio di un carpentiere) disprezzano il lavoro, anzi lo considerano necessario, utile e moralmente valido, sempre però secondo alla contemplazione nella gerarchia di valore: Lia e Marta sono necessarie quanto Rachele e Maria, ma queste ultime hanno scelto l’optima pars e l’unum necessarium. La vita contemplativa non esclude più la vita attiva, la garantisce e la orienta. Tommaso definirà con precisione la necessità, i limiti e le quattro finalità del lavoro nella Summa theologiae (IIa-IIae, q.187, art. 3): «ad victum quaerendum, ad tollendum otium, ad concupiscentiae refrenationem, ad eleemosynas faciendas». L’antropologia cristiana esclude ogni «civiltà del lavoro», anche se impone un «lavoro per l’uomo e per la civiltà». Quel lavoro che non esita a raffigurare nelle cattedrali, pur nella sua subalternazione al pensiero e alla santità. La concezione cristiana del lavoro si indebolisce nella civiltà moderna, che non vede più la prevalenza delle classi contemplativa e militare, ma di una lavorativa e produttiva: la borghesia, portata dal suo stesso attivismo mercantilistico a scorgere nel lavoro più un fine che un mezzo. Senza negare espressamente il riferimento al cristianesimo, il Rinascimento enuncia una visione centrata sull’uomo come «deus secundus», che di necessità riduce il valore della vita speculativa e accentua quello della vita lavorativa, non già negando il pensiero per l’azione, ma trovando nel primo il fondamento per la seconda. La realizzazione del regnum dei passa attraverso la costruzione del regnum hominis, il modo migliore di servire Dio è quello di trasformare il mondo. Gli autori del rinascimento italiano ironizzano sull’ozio contemplativo ed esaltano il lavoro come produttore di civiltà e progresso. Giannozzo Manetti si esalta dinnanzi al «dominari et imperari» (De dignitate et excellentia hominis); Matteo Palmieri, il teorico Della vita civile, esalta il lavoro e, più in generale, l’azione come la

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virtù massima dell’uomo, che supera l’egoismo e l’oziosità dei puri contemplativi, «solo intenti alla propria salute»; Pico della Mirandola vede nella sintesi di pensiero e azione la grandezza dell’uomo, «plastes et fictor sui ipsius», capace di uscire dalla sua «medietas» mediante una scelta figlia del pensiero e del lavoro (De dignitate hominis) che lo innanza sino al cielo. L’antiascetismo di Leon Battista Alberti propone nella famiglia e nel lavoro, col quale si acquista la «santa masserizia», gli strumenti del progresso; l’uomo attivo, che «si adopra in continuo», deve sostituire all’esame serale di coscienza («che cosa ho fatto oggi?») una progettazione mattutina: «oggi in che arò io da fare? [...] mai perdere una ora di tempo» (cfr. I libri della Famiglia, a cura di R. Romano A. Tenenti, Torino 1969, l. III, pp. 214-215). Marsilio Ficino, pur col suo ritorno al platonismo, scorge nell’uomo che, dopo aver pensato, agisce con il lavoro un «quidam deus», che fa le veci di Dio e, pur rimanendo in terra, non è lontano dal cielo (Theologia platonica). Tutta la trattatistica educativa del Rinascimento, da Pier Paolo Vergerio a Guarino Veronese, da Vittorino da Feltre a Maffeo Vegio propone un modello «umanistico», ma non perciò speculativo. La nuova classe dirigente, ch’essi educano, deve trovare un equilibrio tra contemplazione e azione, tra i santi e gli eroi, tra la Bibbia e i classici greco-latini. Nel loro progetto pedagogico, «umanistico» non significa «contemplativo»: vi rientra a pieno titolo anche il lavoro, come accade in Rabelais, che per mezzo del precettore Ponocrate prescrive a Gargantua anche umili lavori manuali, in modo che «non perdeva nessun’ora del giorno» (cfr. Gargantua et Pantagruel, l. I, cap. 23). Il motivo rinascimentale del primato dell’attività e del lavoro trova un suo entusiasta sostenitore in Giordano Bruno, che ha dedicato un dialogo alla critica dell’ozio e all’esaltazione del lavoro, fondato sulla sollecitudine e sulla fatica. Bruno nega il pensiero solo quando è fine a se stesso e diviene inattività: «Perché tanto ociamo e dormiamo vivi, se tanto doviamo ociar e dormire in morte?». L’uomo, questo «dio della terra», «non contemple senza azzione, e non opre senza contemplazione» (Spaccio de la bestia trionfante, dialogo III, in Opere italiane, testi critici e nota filologica di G. Aquilecchia, introduzione e coordinamento generale di N. Ordine, Torino 2002, vol. II, p. 324), deve operare con una «sollecita e curiosa Industria,

Lavoro Lavoro, Diligenza» (ibi, p. 319). Bruno esalta il lavoro e le mani che lo compiono: sta con Anassagora piuttosto che con Aristotele. Con esse, guidate dalla mente, l’uomo realizza «nuove e meravigliose invenzioni». L’età dell’oro non è all’inizio, ma alla fine della storia, che sarà sempre più caratterizzata da un progresso fatale e irreversibile. Questo spostamento dell’accento dai «magnalia dei» ai «magnalia hominis» appare evidente nella formazione di un nuovo genere letterario, quello di «utopia», progetto di un paradiso terrestre non più all’inizio, ma alla fine della storia. È vero che il modello dell’utopia è pur sempre la Repubblica di Platone, ma lo scopo dell’utopia è quello di proporre un «regnum hominis» dal quale i difetti e le colpe siano cancellate. Non è un caso che il Medioevo non abbia avuto l’utopia. Ora la molla principale del progetto utopico è appunto il lavoro, al quale gli utopiani sono tutti tenuti e che i supremi magistrati hanno il diritto di pretendere e il dovere di assicurare (si pensi a: Utopia di Tommaso Moro, Nova Atlantis di Francesco Bacone, e Città del sole di Tommaso Campanella, opere che tutte definiscono una società fondata sul lavoro; come, più tardi, Voyage en Icarie, 1840, di Étienne Cabet). E tuttavia, solo in quel secolo focale per la modernità che fu il Seicento, il lavoro diviene l’ideologia di una nuova società. Ciò accade perché in quel secolo (come ha mostrato Max Scheler nei suoi Versuche zu einer Soziologie des Wissens, München 1924) la scienza moderna si sposa con l’economia faustiana figlia delle riforme protestanti. Della prima precursore fu Francesco Bacone, «filosofo della civiltà industriale» (Farrigton). Egli propone di sviluppare al massimo il lavoro dell’uomo per trasformare la natura. I processi conoscitivi hanno un loro valore, ma appunto in vista del lavoro: dato che non si può dominare la natura se non conoscendone le leggi («Natura non nisi parendo vincitur»). Fiducioso del progresso ottenuto dal lavoro, Bacone afferma che «gli antichi siamo noi» e che «sapere è potere». Questa esaltazione del lavoro verrà continuata da tutta la filosofia inglese, da Hobbes a Locke, da Ferguson a Hume. Un tema, questo del lavoro, nel quale le differenze tra la scuola empirista e quella razionalista sono meno rilevanti delle convergenze. Anche Cartesio esalta il lavoro, che rende l’uomo «maître et possesseur de la nature», per mezzo dell’attività guidata dalla 6253

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Lavoro scienza. Al punto che il suo stesso Discours de la méthode ha come scopo non quello di fare una filosofia autonoma, bensì di guidare l’attività degli scienziati («pour bien conduire sa raison et chercher la verité dans les sciences»). Il cogito ergo sum introduce una distanza tra la spiritualità dell’anima e la meccanicità della natura, che l’uomo ha il compito di dominare e trasformare col lavoro. Il senso del lavoro, il suo valore e i suoi strumenti, cambiano radicalmente con la rivoluzione scientifica di Galileo, che apre la via della tecnica e del macchinismo. Alla vecchia scienza medievale e rinascimentale, finalistica, qualitativa e biomorfica, Galilei sostituisce le «sensate demonstrationi» di una metodologia meccanica, quantitativa e formalistica della ricerca scientifica. Cessa del tutto il collegamento tra macro- e micro-cosmo, viene meno la «fisica delle essenze» e prevale una concezione di dominio, in cui si esprime la volontà di conquista per mezzo del lavoro del nuovo ceto sociale borghese. L’amore per la natura cede il passo al suo dominio da parte del lavoratore: Galileo, dirà Husserl, è un genio che scopre e insieme ricopre («entdeckender und verdeckender Genius»: cfr. in Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, Den Haag 1954, 9 h). Il lavoro dell’uomo moderno, che ha sostituito la tradizione col progresso, non avviene più in un «mondo del pressappoco», ma in un «universo della precisione» (Koyré), dominato al suo esterno dalla meccanica e al suo interno dalla medicina, non più saggezza teorica, ma opera delle mani (chirurgia). Allo schema biologico del lavoro si è sostituito lo schema meccanico, all’adattamento alla natura lo sfruttamento della natura. Il lavoro tecnico non è più l’applicazione della scienza, è invece la scienza la semplice metodologia di una tecnica primaria: figlia della scienza, la tecnica ne è anche la madre. Se la rivoluzione scientifica getta le premesse metodologiche per una trasformazione della natura e per un’esaltazione del lavoro, non minore fu l’influenza dello spirito religioso riformato. La negazione radicale del valore delle opere per la salvezza, lungi dal produrre una società contemplativa, sposta i quanti di energia dalle attività per la salvezza alla produttività mondana. Il successo e anche il guadagno divengono la prova della salvezza predestinata. Già in Lutero e in Calvino, e ancor più in 6254

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John Bunyan (The Pilgrim’s Progress, London 1676) e in Richard Baxter (Christian Directory, London 16782), coincidono «professione» e «vocazione» (Beruf, Calling). Il lavoro perde così quel carattere strumentale che l’antropologia cristiana gli aveva attribuito e diviene fine a se stesso. Su questa esaltazione del lavoro come specchio della gloria di Dio si fonda quell’ethos, che nel 1905 Max Weber, nella sua opera più celebre: Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, chiama «capitalistico» e che Marx, in Das Kapital (Hamburg 1867), definirà come la sostituzione dello schema tipico delle economie naturali di sussistenza (merce-denaro-merce) con quello delle economie capitalistiche di sviluppo (denaro-merce-denaro). Il nuovo spirito capitalistico non usa i frutti del lavoro, ma li investe per produrre nuovo lavoro e quindi nuova ricchezza. Se, però, Weber lo derivava dal calvinismo predestinazionista, altri autori, come Georg Simmel, Philosophie des Geldes (Leipzig 1900), Ernst Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (Tübingen 1912), Werner Sombart, Der Bourgeois (München 1913), e Max Scheler, Vom Umsturz der Werte (Leipzig 1915), lo hanno collegato anche allo spirito rinascimentale e all’influenza dell’ebraismo. In ogni caso si tratta di uno spirito «ascetico», che spoglia il lavoro del suo abito strumentale e lo innalza a valore pressoché assoluto. Una nuova etica è nata: quella del lavoro come testimonianza di una vocazione soprannaturale, che consentirà di scrivere, anche sul dollaro, «In God we trust». Di questa civiltà del lavoro l’illuminismo sarà l’ideologia e la sua grande costruzione culturale, l’Encyclopédie (Paris 1751-80) di Diderot e d’Alembert, in quanto «dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri», sarà lo strumento di lotta. Al lavoro nessuno deve sfuggire, ciascuno deve «coltivare il proprio giardino» – come afferma Voltaire in Candide ou de l’optimisme (Amsterdam-Genève 1759). Lo stesso Rousseau, che mette in guardia contro il pericolo che la civiltà riduca la spontaneità del lavoro, non manca di riproporre il valore anche pedagogico di un lavoro artigianale: egli suggerisce a Emilio di imparare l’arte del falegname (cfr. Émile, Den Haag 1762). Benjamin Franklin creerà nel 1792, con la sua Autobiography, il nuovo «libro di ore» della civiltà del lavoro («Time is money»), con i suoi precetti ascetici: dormire poco, mangiare so-

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briamente, lavorare molto, astenersi il più possibile dai piaceri della carne, produrre ricchezza e insieme disprezzarla (ascetismo mondano). L’esaltazione del valore morale del lavoro accomuna le diverse tendenze dell’illuminismo, sia in coloro che, come i fisiocratici, esaltano il lavoro agricolo, sia nei teorici della produttività industriale: come Bernard de Mandeville, la cui Fable of the bees (London 1729), mostra che nel lavoro il vizio privato diviene beneficio pubblico; o come in Adam Smith (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, London 1776), che trova nel lavoro la causa della ricchezza delle nazioni. Non si sottraggono a questa esaltazione del lavoro i grandi filosofi del romanticismo. Già Goethe sostituisce quel «logos», che la civiltà cristiana aveva posto all’inizio (cfr. Gv 1, 1), con l’azione (die Tat) e con la tensione (das Streben; cfr. in Faust, 1224 ss.; 1742 ss.). Nella «rivoluzione copernicana» di Kant la conoscenza diviene lavoro: è l’io, in quanto attività sintetica, che detta le sue leggi al mondo della esperienza. Fichte, nel quale l’io legislatore diviene creatore, considera il lavoro un dirittodovere di ogni uomo, che lo stato «commerciale chiuso» deve pretendere e assicurare a tutti i cittadini (cfr. Der geschloßene Handelsstaat, Tübingen 1800). Hegel, che tanto lo esalta da ritenere superata la distinzione tra lavoro e festa, dato che ogni attività, materiale o spirituale che sia, è un lavoro (cfr. Enzyklopädie, Heidelberg 1817, §§ 524 ss.). È vero tuttavia che il romanticismo esprime sul lavoro anche la tendenza opposta, che ha trovato la sua più forte definizione nelle lettere Über die ästhetische Erziehung des Menschen (Tübingen 1795) di Schiller, nelle quali l’arte viene esaltata come nobile di fronte al lavoro per natura plebeo e l’educazione umanistica privilegiata rispetto a quella scientifica (posizione ripresa da poeti come Novalis e Hölderlin). Gli stessi grandi progressi materiali e sociali della rivoluzione borghese-industriale (che Marx esalta come la più grande nel Manifest der kommunistischen Partei, London 1848) sono spiegabili solo perché la classe che li produsse era animata da un attivismo eroico, da una religione del lavoro e del denaro, trasformati da mezzi in fini dell’esistenza. Se la concezione greca vedeva nel lavoro una sciagura e quella cristiana uno strumento di purificazione, la concezione borghese del lavoro vi scorge invece il fondamento di tutti i valori. Secondo

Lavoro l’economista David Ricardo (ripreso da Marx con la teoria del «plus-lavoro» o «plus-valore»), il valore di una merce dipende dalla quantità di lavoro necessaria alla sua produzione (cfr. On the Principles of Political Economy and Taxation, London 1817). Il Programma di Gotha della socialdemocrazia tedesca (1875) affermerà che «il lavoro è l’origine di ogni ricchezza e di ogni cultura», in anticipo sulla Costituzione della Repubblica italiana (1947), che si apre con «L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro». Ma si deve a Marx la più decisa identità di «umano» e «lavorativo» (cfr. la VI delle Thesen über Feuerbach redatte nel 1845 e più diffusamente gli Ökonomisch-philosophische Manuskripte del 1844), nel tentativo di mostrare come l’uomo sia in realtà un non-uomo in una società divisa in classi e nella subalternità delle classi. L’uomo potrà divenire uomo-totale solo quando la rivoluzione socialista libererà il lavoro dalla sua soggezione. Il totale immanentismo di Marx identifica uomo e lavoro; e, pertanto, lavoro-alienato e uomo-alienato, come anche, conseguentemente, lavoro-liberato e uomo-liberato. Una liberazione che non passa attraverso il pensiero, ma attraverso la prassi: il filosofo non deve conoscere il mondo, ma trasformarlo. L’influenza del socialismo, sia di quello marxiano sia di quello cooperativistico e fabiano, contribuirà in tutti i paesi industriali avanzati alla realizzazione di migliori condizioni nel lavoro, a una legislazione sul lavoro e sull’assistenza ai lavoratori, alla riduzione delle ore, dei giorni di lavoro e anche, grazie alle nuove tecnologie, della fatica, a un innalzamento delle retribuzioni, a un avvicinamento delle classi sociali, delle quali la più numerosa sarà propria quella «classe lavorativa media», di cui Marx aveva profetizzato la scomparsa. Il trionfo della rivoluzione comunista in Russia solleciterà l’approfondimento della concezione marxiana del lavoro, con un numero sterminato di autori, non sempre scientificamente attendibili e quasi dimenticati dopo la fine del comunismo europeo (ricordiamo soltanto: Antonio Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia, Roma 1898; Karl Korsch, Marxismus und Philosophie, Leipzig 1923; György Lukács, Geschichte und Klassenbewußtsein, Berlin 1923; Antonio Gramsci, Americanismo e fordismo, 1934, in Quaderni del carcere, Torino 1948-51, Quaderno 22; A. Schaff, Marxismus und das menschliche Individuum, tr. ted. di E. Reifer 6255

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Lavoro [dall’originale polacco: Marksizm a jednostka ludzka], Wien - Frankfurt am Main - Zürich 1965; L. Althusser, Lire le Capital, Paris 1965: K. Axelos, Marx penseur de la technique, Paris 1961). Il secolo XIX, che realizza la prima e più difficile tappa della rivoluzione industriale, può essere considerato l’epoca d’oro del lavoro, nella cui esaltazione concordano sia i capitalisti sia i lavoratori, che non a caso Claude-Henry de Saint-Simon chiama entrambi «industriali» e visualizza nelle «api» in contrasto con l’ozio antisociale dei «calabroni». La fede nella potenza del lavoro induce i discepoli di Saint-Simon a creare le «comuni» del lavoro, nelle quali le distinzione tra i sessi sono superate; così come induce Pierre-Joseph Proudhon a proporre un’organizzazione cooperativa del lavoro e Charles Fourier a progettare i falansteri, nei quali il lavoro diventa gioco in quanto i partecipanti vi alternano quelli pesanti con quelli leggeri; lo stesso Auguste Comte inventerà una religione del lavoro, che scandisce le tappe della vita umana con nove «sacramenti» basati sul lavoro. Sia per Claude-Henry de Saint-Simon sia per Comte, la società del lavoro rende inutile la vecchia politica gestita dagli ideologi, alla quale si sostituisce un potere puramente amministrativo («Consiglio di Newton» in Saint-Simon). E Giuseppe Mazzini, in conflitto con il socialismo, proporrà una liberazione del lavoro mediante l’estensione della proprietà ai lavoratori. L’Ottocento è anche il secolo in cui si accentuano la divisione del lavoro (indicata già dall’Encyclopédie e da Smith con la successione delle 18 operazioni necessarie per produrre gli spilli) e la sua meccanizzazione, studiate da nuove scienze «umane» come la psicologia, la sociologia e la ponologia, che cercano di far convergere aumento della produttività e organizzazione umana del lavoro. Le conseguenze della divisione del lavoro, del macchinismo e della «catena di montaggio», infatti, sono criticate già sul finire del secolo da autori come John Ruskin (Fors clavigera, Orpington 1871-84, 8 voll.) e William Morris (News from Nowhere, London 1891), i quali ripropongono, pur dentro l’esaltazione e l’obbligatorietà del lavoro, una sua strutturazione artigianale, che rifiuta tutte le macchine meno quelle mosse dal vento e dall’acqua (cfr. i romanzi utopici Erewhon ed Erewhon Revisited di Samuel Butler). Più tardi la critica dell’alienazione prodotta dal lavo6256

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ro costituirà un motivo comune agli autori del Kulturpessimismus: da Nietzsche a Spengler, da Bernanos a Simone Weil, da Musil a Gehlen, da Heidegger a Jünger (cfr. G. Morra, Breviario del pessimista, Soveria Mannelli 2001); e troverà un’efficace visualizzazione nel film di Charlie Chaplin Tempi moderni (1936). Saranno soprattutto gli autori del positivismo, da Comte a Spencer, da Moleschott a Büchner, da Cattaneo ad Ardigò, a fornire l’ideologia della società del lavoro, con un discorso insieme scientifico, morale e sociale. Il principale sociologo del positivismo, Émile Durkheim, collegherà i concetti di «lavoro sociale» e di «solidarietà», nel tentativo di riorganizzare organicamente, sulla base delle corporazioni professionali, la società anomica prodotta dalla grande rivoluzione (cfr. De la division du travail social, Paris 1893). E la stessa reazione al positivismo ne criticherà i caratteri materialistici e meccanicistici, ma non la valorizzazione del lavoro. Essa appare evidente sia nel pragmatismo individualistico di William James, sia in quello sociale di John Dewey, ma anche nella rinascita neohegeliana di Benedetto Croce (cfr. Lavoro e pena, in Etica e politica, Bari 1931, pp. 76-79) e Giovanni Gentile. Quest’ultimo giungerà nella sua ultima opera ad affermare che il lavoro supera le artificiose distinzioni tra cultura umanistica e scientifica, come pure tra individuo e stato; non più lo stato del cittadino della rivoluzione francese, ma uno stato del lavoratore: «All’umanesimo della cultura, che pure fu una tappa gloriosa della liberazione dell’uomo, succede oggi o succederà domani l’umanesimo del lavoro» (Genesi e struttura della società, Firenze 1946, p. 111). La civiltà moderna ha saputo collegare progresso sociale e innalzamento delle classi lavoratrici. Tanto che le utopie rivoluzionarie del lavoro paiono oggi prive di credito. Nel momento attuale, che è di crisi della modernità e della sua «metafisica del fare», si svolge una diversa critica del lavoro, che riprende, in tematiche postmoderne, la concezione greca del lavoro. Tematiche che furono anticipate da Giuseppe Rensi in Italia nell’opera L’irrazionale, il lavoro e l’amore (Milano 1923), in cui ripropone la tesi ellenica della indegnità del lavoro e del valore morale dell’ozio: «Il lavoro è contrario all’essenza spirituale dell’uomo, perché è schiavitù, e tale essenza esige solo la libertà del gioco e della contemplazione» (G. Rensi, op. cit., p. 211). Le stesse correnti della filosofia

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dell’esistenza, tutte tese alla valorizzazione dell’individuo, hanno progressivamente condotto a una svalorizzazione del lavoro. Esso appartiene alla vita inautentica, dato che i veri problemi dell’uomo sono altri (solitudine, alienazione, incomunicabilità, angoscia, morte, suicidio). La psicanalisi del Freud ha affrontato con realismo il tema del lavoro in Das Unbehagen in der Kultur (Wien 1930). Il lavoro rientra in quelle attività che spostano «una forte quantità di componenti libidiche, narcisistiche, aggressive e persino erotiche sul lavoro professionale». Come ogni altra istituzione della civiltà, il lavoro nasce con la sostituzione del Lustprinzip con il Realitätprinzip: in ciò la «naturale avversione degli uomini al lavoro» (S. Freud, op. cit., tr. it. di E. Sagittario, Il disagio della civiltà, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino 1971, nota 1, pp. 215-216), la sua sgradevolezza, tanto che deve essere imposto dal super-io. Freud sa bene che una piena liberazione-del-lavoro non è possibile, anche se del lavoro riconosce la funzione sociale e propone di realizzare le condizioni lavorative meno fastidiose possibili. Il tema della avversione per il lavoro verrà ripreso ed esasperato da Herbert Marcuse, nel suo Eros and Civilisation (Boston 1955): come nel rapporto erotico la società repressiva desessualizza, trasformando il gioco dell’ «eros perverso e polimorfo» in una «genitalizzazione secondo il principio lavorativo di prestazione», così anche il lavoro viene sottoposto al medesimo processo di alienazione della procreazione, nelle due istituzioni «repressive» della fabbrica e della famiglia. Paradossalmente Marcuse cerca la via della liberazione proprio per mezzo di quei progressi tecnologici che tanto deplora: essi consentiranno di lavorare sempre di meno e di evitare sempre di più la procreazione e di riscoprire il gioco. Non più il Prometeo, che Marx aveva santificato nel suo «calendario filosofico», ma Dioniso, Orfeo, Narciso, i quali tutti non lavorano, ma «il cui linguaggio è canto e la cui opera è gioco» (H. Marcuse, op. cit., tr. it. di L. Bassi, Eros e civiltà, Torino 1964, p. 137). Non più la moderna e marxiana «liberazione del lavoro», ma la postmoderna e narcisistica «liberazione dal lavoro». Non più l’imperativo di Carlyle: «Lavora e non disperarti!», ma l’esaltazione erotica del: «Chi vuol esser lieto, giochi». Anche il Novecento ha continuato a parlare di civiltà del lavoro, elemento comune, nono-

Lavoro stante le forti differenze, di tutte le progettazioni politiche: sia di quella comunista sia di quella fascista, tanto di quella nazista, opera di un partito che si definiva «nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi», quanto di quelle della cosiddetta «terza via» della socialdemocrazia, del «New Deal» roosveltiano o delle «democrazie cristiane». Il pensiero cristiano, in particolare quello cattolico, mentre esprime una piena valorizzazione del lavoro come strumento di progresso e benessere, ne chiede una emancipazione dall’economicismo sulla base della collaborazione delle classi per il bene comune. Anche la Chiesa cattolica non ha mancato di esprimere più volte la propria dottrina sul lavoro in numerose encicliche: Rerum Novarum (1891) di Leone XIII, Quadragesimo anno (1931) di Pio XI, Mater et magistra (1961) di Giovanni XXIII, Octogesima adveniens (1971) di Paolo VI, Laborem exercens (1981) e Centesimus annus (1991) di Giovanni Paolo II. Nel solco dell’ «aggiornamento» proposto dal Concilio Vaticano II, non pochi autori, come M.D. Chenu (Pour une théologie du travail, Paris 1955, tr. it. di G. Bertone, Per una teologia del lavoro, Torino 1964), J.-M. Aubert (Morale sociale pour notre temps, Paris 1970, tr. it. di L. Bacchiarello, Morale sociale, Assisi 1972), G. Gutierrez, (Teología de la liberación, Lima 1971, tr. it. di L. Bianchi, Teologia della liberazione, Brescia 1972), non insensibili al fascino del cristianesimo evoluzionistico di Pierre Teilhard de Chardin e al messaggio marxiano di liberazione, enunceranno, anche al fine di riportare il messaggio evangelico nelle tecnopoli industrializzate e secolarizzate, una «teologia del lavoro», che diverrà il riferimento ideologico dei «preti operai». Ma proprio la valorizzazione del lavoro, la sua riduzione quantitativa e l’aumento del salario dei lavoratori ottenuti soprattutto dai partiti socialisti e dai sindacati operai, insieme con il miglioramento delle condizioni di lavoro dovute ai progressi delle tecnologie elettroniche, hanno gettato le basi per un’importante trasformazione: la società attuale, non a caso definita anche postmoderna, postlavorativa e postmaterialistica, appare centrata meno sulla variabile lavoro che su quella del tempo libero. Ciò non significa che gli uomini non abbiano più bisogno di lavorare, ma che è avvenuto largamente quanto Adriano Tilgher profetizzava alla fine della sua storia del concetto di lavoro nella civiltà occidentale: una crisi 6257

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della «Religione del Lavoro e del Risparmio» e la nascita di una nuova religione «del comfort, del benessere, del comodo, della pulizia, una religione del Corpo, dello sport, dell’arte, del gioco e del lusso» (Homo faber, Roma 1929, pp. 128 ss.). Sempre nella vita dell’uomo lavoro e gioco, tempo profano e sacro, attività strumentale e azione libera sono destinati ad alternarsi e completarsi. Ma nessuna civiltà prima dell’attuale aveva visto una tale prevalenza ed estensione del gioco sul lavoro Se il primo uomo dell’ellenismo, homo sapiens, vedeva nel lavoro una maledizione, se il secondo uomo della Medioevo, homo religiosus, vi scorgeva anche una purificazione, se il terzo uomo della modernità, homo faber, lo considerava una creazione, il quarto uomo della postmodernità, homo ludens (Huizinga), lo considera una fastidiosa necessità, da limitare sempre più a vantaggio del gioco, in una civiltà del consumismo e del sesso, dei viaggi e dell’audiovisivo, della dieta e dello sport, del giovanilismo e del corpo. Non più quel pragmatismo attivistico, che conduceva Bergson in Les deux sources de la morale et de la religion (Paris 1932) a scorgere nel lavoro dell’uomo uno sforzo per «creare delle divinità» (Les deux sources..., cit., tr. it. di M. Vinciguerra, Le due fonti della morale e della religione, Milano 19502, p. 349), ma un narcisismo edonistico, che insieme con il lavoro ha messo in disparte gli altri grandi ideali della modernità: soggetto, verità, libertà, giustizia, progresso. Il pericolo dell’idolatria del lavoro, così diffuso nei secoli della storia moderna, è stato disvelato e rifiutato, ma anche sostituito da un altro pericolo, quello di una cultura «debole» a tal punto, da non saper superare la decadenza se non in un narcisismo ludico ed estetizzante. G. Morra

II. CONSIDERAZIONE ANTROPOLOGICA. – Ripercorrendo i profili storici, sopra delineati, sembrano ora opportune alcune considerazioni di carattere antropologico. La riflessione filosofica sul lavoro ha bisogno di un punto di vista che non lo consideri soltanto come un fatto dell’esperienza umana, ma istituisca l’interrogazione sul suo valore. A ben vedere, il punto di vista di tale interrogazione è costituito dalla persona, la quale è capace di guardare il lavoro in un rapporto che è sia di identità, sia di non identità. La persona, che pure senza il lavoro non sussisterebbe, è sempre più del lavoro e, 6258

grazie a questo scarto, può renderlo oggetto non solo di descrizione ma anche di valutazione. Nel suo dinamismo la persona procede lungo coordinate mobili: è in un mondo come corporeità e come coscienza, è interiorità che si esprime in esteriorità, è individualità che tende alla comunione. Non disponendo compiutamente di sé, la persona non è mai atto che raggiunge la propria perfezione ed è invece sempre in cammino, muovendo entro limiti che cerca di risolvere in opportunità. Tra i limiti e le opportunità della persona si colloca il lavoro, il quale è sforzo di trasformazione del semplice trovarsi situati nel mondo in disposizione del mondo. Più precisamente, grazie al lavoro il chaos in cui si è immersi inizialmente viene trasformato in un cosmos costituito da oggetti affidabili e ordinabili all’uso. Il lavoro è allora attività con cui si perviene a un mondo addomesticato (l’economia nasce appunto come governo della casa), suscettibile di organizzazione e di controllo, quindi prevedibile. Senza il lavoro non è insomma possibile parlare di un mondo di oggetti a portata di mano o potenzialmente tali. Il lavoro è la presa sul mondo nella molteplice articolazione degli oggetti che, letteralmente, man mano gli danno consistenza. 1. Genericità e specificità del lavoro. – Pertanto, per non tradire con una definizione rigida il carattere dinamico del lavoro, se ne può tentare un’approssimazione concettuale e intenderlo anzitutto come l’attività grazie alla quale giungiamo a disporre di qualcosa che inizialmente ci mancava o era da noi distante. Il lavoro, in questa prima configurazione, è l’insieme degli atti – pochi o molti che siano – protesi a porre capo a oggetti o, meglio, a oggettivazioni, cioè a risultati riconoscibili nella loro presenza. Questi risultati, proprio perché hanno una consistenza oggettiva che si rende indipendente da chi ne è stato l’autore, possono essere trasmessi ad altri, possono essere donati, scambiati ecc. In una visione così ampia, la nozione di lavoro può abbracciare anche le attività rivolte direttamente ad altre persone, poiché anche queste attività si concretizzano in processi oggettivi (il servizio alla persona è un’oggettivazione di «servizi»). Può ricomprendere anche l’attività intellettuale strettamente intesa, se essa è energia mentale che si esprime in modi oggettivi (per esempio, i caratteri della scrittura su una pagina, ai quali sono consegnate quelle che in precedenza erano

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pure idee) o dà luogo ad applicazioni oggettive. A questo livello, il lavoro sarebbe pure misurabile come quantità di energia cerebrale e di forza fisica impiegate per ottenere una qualsiasi variazione di stati di cose nel mondo: ogni impiego di potenziale energetico neuro-psicofisico per qualsiasi effetto sarebbe lavoro. Queste connotazioni generiche non sono però sufficienti a dar conto del lavoro come attività specifica, che non è semplice erogazione o impiego di energia per il passaggio dallo stato di mancanza o di assenza di qualcosa allo stato in cui ce la rendiamo disponibile o presente. Il lavoro come attività specifica non può essere equiparato a qualsivoglia sforzo di oggettivazione o tendente a porre capo a oggettivazioni, ma è connotato da un contesto di modalità esecutive che ne configurano la struttura peculiare. Riciclando la celebre definizione che Harold Lasswell dava degli elementi della comunicazione di massa, si potrebbe dire che, quando si parla di lavoro, si dovrebbero evocare sempre sia il soggetto che lo svolge e l’oggetto cui si applica, sia gli strumenti impiegati, sia gli scopi a cui serve e i destinatari che se ne servono. Cioè: chi lavora, a che cosa, mediante che cosa, per che cosa e per chi? La risposta a queste domande ci permette di osservare subito che non tutti lavorano, non tutti lavorano alle medesime cose, non tutti lavorano con gli stessi strumenti e per i medesimi risultati, non tutti godono dei suoi risultati. Inoltre ci induce a riflettere sul fatto che non tutto della persona che lavora si risolve nel lavoro e che insomma il lavoro non ricopre l’intero ambito dell’attività umana possibile. Il lavoro, sia sotto il profilo delle relazioni interpersonali sia per quanto riguarda la medesima persona, rivela un connotato di parzialità. 2. La divaricazione tra fine e mezzo e tra soggetto e oggetto. – A dar conto della natura di parzialità del lavoro, sul piano antropologico, intervengono anche concreti motivi inerenti alla sua vicenda temporale. Nei contesti storici nei quali la produzione e riproduzione delle condizioni di esistenza si è svolta, il lavoro ha sofferto di una duplice divaricazione. La prima è quella tra il momento strumentale e il momento finale dell’attività lavorativa. La seconda è quella tra il soggetto produttore e l’oggetto prodotto dal lavoro. A causa del primo tipo di divaricazione, all’attività lavorativa non è stata sempre riconosciuta una finalità intrinseca. Da Aristotele, che con la trattazione svol-

Lavoro ta nel primo libro della Politica è stato un pioniere della «filosofia del lavoro», l’attività lavorativa – è stato già ricordato sopra – venne anzi considerata la più distante dalla fruizione dei fini veramente umani, i quali risiedono nella sfera della prassi, ricomprensiva delle varie prestazioni degli appartenenti alla polis con capacità di governo, e nei godimenti derivanti dall’attività contemplativa propria della conoscenza. Nella prassi e nella contemplazione si esprime un’attività libera che in tanto è possibile in quanto non si è vincolati strettamente alla strumentalità. L’uomo che lavora si risolve invece in uno «stare presso i mezzi», al punto che colui il quale a essi è dedito in modo esclusivo, lo schiavo, è propriamente «strumento animato». Ma è la stessa attività di produzione nel suo insieme, sempre nella visione aristotelica a lungo egemone, a essere in sé priva di fine, poiché essa ha un senso finale solo come supporto dell’attività pratico-contemplativa, in cui si realizza veramente la vita buona. La cultura classica e premoderna, in Occidente, ha conosciuto anche apprezzamenti positivi del lavoro sia in ambito filosofico, sia, più marcatamente, in ambito religioso, lungo una tradizione che, dalla nota e già citata esortazione di Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi («chi non vuole lavorare, neppure mangi», 2 Ts 3, 10), attraverso le regole monastiche di ispirazione agostiniana (in cui il lavoro assurge a disciplina di vita per la salvezza), giunge con gli esponenti della Riforma protestante alla equiparazione delle opere mondane con quelle sacre. Il gap tra mezzo e fine nell’attività lavorativa perdura però fino a quando il lavoro non viene riconosciuto come proprietà essenziale dell’uomo e di ciascun uomo. Con il riconoscimento antropologicamente cospicuo del lavoro, che trova la sua netta formulazione nel secondo dei Two Treatises of Government (London 1690) di John Locke, avviene in linea di principio il superamento della discriminazione a priori tra uomini liberi affrancati dal lavoro e uomini non liberi sottomessi al lavoro. Si impone però la disuguaglianza di fatto tra i soggetti proprietari della sola forza-lavoro e i soggetti proprietari di capitale, il quale è legato al possesso dei mezzi per produrre e, in particolare, dello strumento di produzione per eccellenza che è lo stesso lavoro umano, fonte primaria di ogni ricchezza. L’analisi di Marx aiuta a comprendere la seconda divaricazione sofferta dal lavoro, quella 6259

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Lavoro tra soggetto produttore e oggetto prodotto. I detentori della semplice forza-lavoro non sono infatti nella condizione di rimanere proprietari della loro attività lavorativa, che cedono al capitalista in cambio di un salario, e di conseguenza nemmeno dell’oggetto che da essa viene prodotto. Il vizio di fondo, secondo la critica marxiana dell’economia capitalista, sta nel non rendere trasparente il carattere sociale dell’attività lavorativa e di produzione dei beni, relegando la socialità al momento successivo dello scambio dei beni prodotti. I rapporti tra gli uomini vengono perciò a dipendere dal rapporto tra le merci secondo il loro valore di scambio mediato dal denaro. Alla base dell’astrazione del sistema denaro-merce-denaro, capace di asservire l’intero delle relazioni umane, sta la stessa figura astratta del lavoro, separata dall’attività sociale e dalle relazioni vitali. La messa a nudo della scissione del lavoro dalla persona e dal rapporto sociale, e quindi la denuncia dell’alienazione patita nel lavoro, rimane l’aspetto più valido e sempre stimolante della riflessione marxiana. 3. È possibile una ricomposizione? – La duplice sofferenza del lavoro, come strumentalità separata dal fine e come oggettivazione separata dal soggetto, ne ha segnato la vicenda in modo intrecciato. La successiva organizzazione «scientifica» del lavoro, dovuta all’impostazione ford-taylorista, ha poi contribuito ad accentuare gli elementi esecutivi della produzione e la sua scomposizione in segmenti sottoposti a un rigoroso controllo tecnico ma non governati dal soggetto. Il modello organizzativo della «qualità totale», sostenendo una strategia di ricongiunzione dei momenti dell’ideazione e dell’esecuzione, ha cominciato a segnare una certa inversione di tendenza. La domanda che ora si pone, sulla scorta di una vicenda plurisecolare, è la seguente: è possibile la ricomposizione, nel lavoro, tra mezzo e fine e tra soggetto e oggetto? Ciò equivale a chiedersi se il lavoro, pur senza la pretesa di esaurirla, può entrare a costituire la persona a pieno titolo, sia in termini ideali sia a livello fattuale. Ma da dove il lavoro può attingere le risorse per realizzare la ricomposizione dei suoi elementi separati? Solo in virtù delle sue dinamiche endogene oppure aprendosi a una nuova e diversa connessione con gli aspetti dell’umano che non coincidono con l’attività lavorativa? Gli aspetti cui alludiamo sono quelle dimensioni dell’agire e del contemplare alle quali dappri6260

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ma – come si è visto – il lavoro è stato nettamente subordinato ma che, per una sorta di nemesi storica, con l’incalzare della modernità sono state a loro volta sottomesse all’attività lavorativa e agli imperativi della produzione quando questi hanno preso il sopravvento, acquisendo non soltanto la dignità di fini autonomi ma altresì lo statuto di fini prioritari ed egemonici per l’umano. Il mancato riferimento dell’homo laborans all’orizzonte antropologico complessivo conduce a un appiattimento sempre più incombente della persona e della relazione sociale sul registro della strumentalità e dell’oggettivazione senza misura. L’esigenza di legare i mezzi ai fini e i processi di oggettivazione al governo consapevole dei soggetti resta disattesa. Il suggerimento concettuale alternativo è che, invece, non può darsi valorizzazione del lavoro senza valorizzazione dell’intero della persona e cioè senza inserire la parzialità del lavoro in un contesto complessivo di senso. A questa meta possono essere convogliate le acquisizioni più alte della visione classica e della visione moderna, oltre i loro limiti rispettivi. Nel risvolto della visione aristotelica, al di là dell’inaccettabile dualismo tra liberi e schiavi, affiora infatti l’idea della insostenibilità umana del lavoro come attività che «prende» in modo totale ed esclusivo. Il lavoro diventa propriamente umano se è coordinato con gli altri elementi che, nel loro insieme, vengono a costituire la dignità dell’umano. Il frutto più cospicuo della visione moderna del lavoro, al di là dell’ipertrofia ideologica dovuta alla sua presunzione di totalità, sta nel riscatto irreversibile del lavoro stesso da uno statuto di inferiorità e nella sua elevazione a condizione trascendentale dell’esperienza umana. Si profila pertanto un compito di riequilibrio delle componenti antropologiche fondamentali, che potrebbe incontrare un terreno fertile nell’evoluzione più recente del lavoro verso la compenetrazione con la conoscenza, la comunicazione, l’affettività e, più in generale, con i mondi vitali sia a livello dell’individuo, sia a livello delle reti sociali. Il lavoro cosiddetto immateriale, che può esprimere una creatività finora impensata grazie all’impiego di beni dell’intelligenza facilmente condivisibili e incrementabili anche con l’uso intensivo delle nuove tecnologie, sarà però in grado di superare il divario tra mezzi e fini nonché quello tra soggetto e oggetto se non si subordinerà alla pretesa di esaurire la ricchezza della per-

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sona nella sua funzione produttiva. Diversamente esso aprirà le porte a forme inedite di prestazione strumentale, che si gioveranno subdolamente della propensione capillare all’autosfruttamento, cioè a uno sfruttamento consensuale. L’intera persona e la società nel suo insieme verrebbero messe al lavoro, ma si risolverebbero in mezzi di produzione. Si imporrebbe una pervasiva alienazione da lavoro, che farebbe poi circolo con l’alienazione da consumo. Un’antropologia non amputata, che dovrebbe presiedere specialmente alle strategie della formazione del lavoratore in quanto al tempo stesso persona e cittadino, potrebbe invece allontanare lo spettro vagante della cosiddetta società della tecnica ovvero della società ridotta a funzione tecnica, la cui denuncia rimane predicatoria se non se ne colgono le radici nella visione e nella pratica unilaterale del lavoro. F. Totaro BIBL.: storie del lavoro: R. MONDOLFO, Lavoro intellettuale e lavoro manuale dall’antichità al rinascimento, in Alle origini della filosofia della cultura, Bologna 1956; P. JACCARD, Histoire sociale du travail de l’antiquité à nos jours, Paris 1960, tr. it. di M. Massimi, Storia sociale del lavoro, Roma 1963; L. DAL PANE, La storia come storia del lavoro, Bologna 1968. Filosofia del lavoro: A. TILGHER, Homo faber. Storia del concetto di lavoro nella civiltà occidentale. Analisi dei concetti affini, Roma 1929 (rist. Bologna 1983); M.M. ROSSI, Il lavoratore nell’universo. Saggio di una filosofia del lavoro, Firenze 1947; F. BATTAGLIA, Filosofia del lavoro, Bologna 1951; L. BAGOLINI, Filosofia del lavoro, Milano 1971; A. NEGRI, Filosofia del lavoro. Storia antologica, Milano 1980-81, 7 voll. Per l’epoca greco-romana: G. GLOTZ, Le travail dans la Grèce ancienne, Paris 1920; M.I. ROSTOVZEV, The Social and Economic History of the Roman Empire, Oxford 1926, tr. it. di G. Sanna, Storia economica e sociale dell’impero romano, Firenze 1933 (rist. 1980); B. FARRINGTON, Head and Hand in Ancient Greece, London 1947, tr. it. di A. Rotondò - A. Omodeo, Lavoro intellettuale e lavoro manuale nell’antica Grecia, Milano 19824; C. MOSSÉ, Le travail en Grèce et à Rome, Paris 1966, tr. it. Il lavoro in Grecia e a Roma, ed. it. a cura di F. Giani Cecchini, Messina-Firenze 1973; P.M. SCHUHL, Perché l’antichità classica non ha conosciuto il macchinismo, in app. a A. KOIRÉ, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Torino 1967; J. VOGT, Sklaverei und Humanität im klassischen Griechenland, Mainz 1953, tr. it. di M. Sechi, L’uomo e lo schiavo nel mondo antico, Roma 1969; P. VERNANT, Mythe et pensée chez les Grecs, Paris 19662, tr. it. di M. Romano - B. Bravo, Mito e pensiero presso i Greci, To-

Lavoro rino 19822; E. MEIKSINS WOOD, Schiavitù e lavoro, in I Greci: storia, cultura, arte, società, vol. I: Noi e i Greci, Torino 1996. Per la concezione ebraico-cristiana: N. BERDIAEV, Il cristianesimo e la vita sociale, Bari 1936; J. HAESSLE, L’etica cristiana del lavoro, Milano 1949; G.B. GUZZETTI, Chiesa ed economia. Disegno storico, Torino 1972; K.V. TRUHLAR, Il lavoro cristiano. Per una teologia del lavoro, Roma 1966; M. BLOCH, Lavoro e tecnica nel medioevo, Bari 1969; J.L. ILLANES, La santificazione del lavoro, Milano 1981; R. SPIAZZI (a cura di), I documenti sociali della Chiesa da Pio IX a Giovanni Paolo II, Milano 1983; F. RIVA, La Bibbia e il lavoro: prospettive etiche e culturali, Roma 1987; M. NOVAK, L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo, Milano 1995; J. LE GOFF, Tempo della Chiesa e tempo del mercante; e altri saggi sul lavoro e la cultura del lavoro nel Medioevo, Torino 1997; G. MORRA, La dottrina sociale della Chiesa. Natura, finalità e princìpi essenziali, Roma 1998. Per l’epoca moderna: A. FANFANI, Le origini dello spirito capitalistico in Italia, Milano 1935; B. GROETHUYSEN, Origines de l’esprit bourgeois en France, Paris 19564, tr. it. di A. Forti, Origini dello spirito borghese in Francia, Torino 1977; L. DAL PANE, Storia del lavoro in Italia dagli inizi del sec. XVIII al 1815, Milano 1958; A. FANFANI, Storia del lavoro in Italia dalla fine del sec. XV agli inizi del XVIII, Milano 1959; B. NELSON, Usura e cristianesimo, Firenze 1967; A. POGGI, Calvinismo e spirito del capitalismo, Bologna 1984; J. HABERMAS, Lavoro e interazione, in Conoscenza e interesse, RomaBari 1990; M. SCHELER, Conoscenza e lavoro Uno studio sul valore e i limiti del motivo pragmatico nella conoscenza del mondo, Milano 1997. Per le problematiche attuali: H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Milano 1964; A. GORZ, Métamorphoses du travail, Paris 1988, tr. it. di S. Musso, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Torino 1992; P. KOSLOWSKI, La cultura postmoderna. Conseguenze socio-culturali dello sviluppo tecnico, Milano 1991; G. MORRA, Postmodernità e lavoro, ne Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità?, Roma 1992; D. MEDA, Società senza lavoro. Per una nuova filosofia dell’occupazione, Milano 1997; A. ACCORNERO, Era il secolo del Lavoro, Bologna 1997; M. REVELLI, La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro, Torino 1997; M. LAZZARATO, Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività, Verona 1997; F. TOTARO, Non di solo lavoro. Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio di civiltà, Milano 19992; R. SENNETT, The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, New York 1998, tr. it. di M. Tavosanis Shake, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano 1999; D. DE MASI, Il futuro del lavoro. Fatica e ozio nella società postindustriale, Milano 1999; U. BECK, Schöne neue Arbeitswelt. Vision: Welt-

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Lavoro bürgergesellschaft, Frankfurt am Main 1999, tr. it di H. Riediger, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro, Torino 2000; R. SENNETT, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale (1999), tr. it. di M. Tavosanis Shake, Milano 2001; P. BARCELLONA, Lavoro declino o metamorfosi?, Milano 2000; Ph. VAN PARIJS, What’s Wrong with a Free Lunch?, Boston 2001; L. GALLINO, Il costo umano della flessibilità, Roma-Bari 2001; Th.A. STEWART, The Wealth of Knowledge. Intellectual Capital in the Twenty-First Century Organization, New York 2001, tr. it. di M. Taborelli M.G. Galli, La ricchezza del sapere. L’organizzazione del capitale intellettuale nel XXI secolo, Milano 2002; D. VERDUCCI, Il segmento mancante. Percorsi di filosofia del lavoro, Roma 2003; S. LATOUCHE, Justice sans limites. Le défi de l’éthique dans une économie mondialisée, Paris 2003, tr. it. di A. Salsano, Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in una economia mondializzata, Torino 2003; F. ANDOLFI, Lavoro e libertà. Marx Marcuse Arendt, Reggio Emilia 2004; E. RULLANI, Economia della conoscenza. Creatività e valore nel capitalismo delle reti, Roma 2004; M. MIEGGE, Capitalismo e modernità. Una lettura protestante, Torino 2005. Per le problematiche sociologiche: G. FRIEDMANN - P. NAVILLE, Trattato di sociologia del lavoro, Milano 1963; C. CASEY, Work, Self, and Society. After Industrialism, London 1995; P. DONATI, Il lavoro che emerge. Prospettive del lavoro come relazione sociale in una economia post-moderna, Torino 2001. ➨ ALIENAZIONE; BENI; CAPITALE; CAPITALISMO; CONSUMO; DISTRIBUZIONE; ECONOMIA; FARE; GIUSTIZIA; GLOBALIZZAZIONE; MERCATO; MONDIALISMO; PRAXIS; UTILE; UTILITÀ; VALORE ECONOMICO.

LAVORO, PSICOLOGIA DEL (occupational Lavoro psychology; Arbeitspsychologie; psychologie du travail; psicología del trabajo). – La psicologia del lavoro è un settore della psicologia applicata che contribuisce al progresso delle discipline psicologiche e produce una conoscenza specialistica, scientificamente fondata e con valenza applicativa, sul comportamento lavorativo. Il compito della psicologia del lavoro è stato e continuerà a essere quello di condurre ricerca e di sostenere e orientare la pratica professionale traducendo i risultati delle indagini in applicazioni fruibili dalle organizzazioni. La storia della psicologia del lavoro può essere declinata in tre periodi. Nelle prime decadi del Novecento, sulla scia degli studi e dell’opera di F.W. Taylor, considerato il fondatore della disciplina, l’oggetto centrale di interesse e di ricerca è stato il lavoro in sé, assunto come dato da studiare nelle sue caratteristiche esterne, fisiche e strutturali, sulle quali si 6262

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riteneva di poter intervenire in termini trasformativi per motivi di efficienza, di migliore adattamento dell’uomo, di maggiore razionalità produttiva. Isolato come elemento assoluto, descrivibile con meticolosità e oggettività ed esclusa la possibilità di incentrare l’analisi sulle dimensioni di relazione – tra uomo e lavoro, tra uomo e organizzazione –, il lavoro era ridotto a «cosa» e l’organizzazione a un suo contenitore, perdendo in tal modo la ricchezza degli elementi di processualità che sono presenti nella storia lavorativa di ogni individuo e nell’evoluzione di ogni organizzazione. L’intervento psicologico, a quei tempi, non poteva che ridursi all’allestimento di tecniche in grado di soddisfare esigenze contingenti: selezione del personale, adattamento alla macchina, antinfortunistica. A partire dalla metà del XX secolo la tecnologia diveniva più complessa e richiedeva una forza lavoro più scolarizzata e specializzata; le grandi migrazioni internazionali e le migrazioni nazionali verso le aree degli insediamenti industriali creavano nuovi problemi di integrazione e di adattamento. Una maggiore consapevolezza dei lavoratori e la possibilità di potere agire, anche attraverso le organizzazioni sindacali, come un soggetto collettivo, rendevano espliciti contraddizioni e conflitti. A livello soggettivo, venivano ad allentarsi i vincoli di appartenenza ai gruppi primari tradizionali, aumentava il sentimento di insicurezza, ci si cominciava a interrogare sul significato del proprio apporto professionale e della propria collocazione organizzativa. Le organizzazioni alternavano posizioni di dirigismo autoritario con le prime aperture all’analisi del rapporto individuo-organizzazione. La psicologia del lavoro trovava un nuovo centro professionale nell’attività di formazione finalizzata a facilitare l’inserimento e l’adattamento nei gruppi e nell’organizzazione; a fondere e omogeneizzare credenze e valori; ad accrescere l’identificazione con l’organizzazione e il sentimento di appartenenza a un’entità superindividuale; a contenere il peso dell’identità personale e delle differenze individuali in nome dell’integrazione sociale. Nelle ultime due decadi del secolo scorso, il mondo dell’industria avvia una poderosa ristrutturazione: l’informatica trasforma l’organizzazione del lavoro; i mercati si allargano; la competizione è su base planetaria; le aziende sia di produzione che di servizi iniziano a ope-

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rare secondo una gestione per obiettivi, che richiede intraprendenza, elasticità mentale, creatività. Il governo di poche variabili non è più sufficiente per orientare i comportamenti organizzativi. Le organizzazioni sociali (ospedali, tribunali, scuole ecc.) iniziano a misurarsi con le problematiche dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità del servizio. Cambiano i temi di ricerca e d’intervento: l’efficacia organizzativa e il goal setting; le interazioni organizzazioneambiente e le scelte strategiche in campo ecologico; l’apprendimento organizzativo e le strategie di innovazione; l’analisi delle culture e lo sviluppo organizzativo; la dinamica del declino delle organizzazioni per atrofia e vulnerabilità. I contributi di ricerca sui temi tradizionali della performance di gruppo e della leadership, sui processi interpersonali e la comunicazione, sulla soddisfazione lavorativa e sullo stress, sulla motivazione al lavoro, sull’orientamento professionale e la selezione, diventano più rigorosi e sistematici e si affiancano a nuovi studi ed esperienze nel campo dell’assessment. Il terreno sul quale ormai da anni si esplica l’attività professionale riguarda, fondamentalmente: l’analisi organizzativa, che si attua secondo diversi approcci e metodologie; la valutazione delle posizioni, delle competenze, delle prestazioni e del potenziale; gli studi d’impatto ambientale e la gestione dei processi di innovazione tecnologica e organizzativa; gli interventi sulla sicurezza del lavoro e sul benessere psico-fisico degli operatori e la formazione. Le organizzazioni sono chiamate a misurarsi con la globalizzazione dei prodotti, dei capitali e del lavoro, con la qualità dei loro prodotti e servizi. Lo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche e telematiche ha ristretto i confini spaziali e temporali rendendo necessario ripensare la loro relazione con un nuovo contesto economico e multiculturale. Le operazioni di riduzionismo psicologico, la semplificazione della realtà e la sua riconduzione a categorie conosciute lasciano lo spazio a un lavoro di ricerca, di esplorazione, di conoscenza da realizzare assieme agli attori della scena organizzativa. Chi oggi si avvicina alla psicologia del lavoro deve, dunque, misurarsi con una complessa rete di aree e problemi che emergono nell’interazione degli individui con i diversi contesti – di gruppo, organizzativi, culturali e sociali – nei quali si svolge l’esperienza lavorativa. Il suo ambito privilegiato di ricerca e di

Lavoro intervento è lo sviluppo e il cambiamento organizzativo che, da un punto di vista psicologico, istituiscono un nuovo processo di produzione di conoscenza. Il professionista psicologo si prefigge di analizzare la relazione che individui, gruppi e organizzazioni hanno consolidato con il contesto a loro esterno, allo scopo di rendere consapevoli ed edotti quegli stessi soggetti su un nuovo o diverso modo di rapportarsi al mercato, alla tecnologia, alla cultura. Fare ricerca o intervenire professionalmente nel campo dello sviluppo e del cambiamento organizzativo significa, dunque, produrre nuova conoscenza sulla relazione tra soggetti e contesto, su come relazionarsi all’interno e all’esterno delle organizzazioni. Queste ultime, operano in un mondo globale, si trovano a dover ridefinire la loro relazione con il contesto e dovono fare i conti non con un sistema compatto e integrato di conoscenze uniformi in tutto il mondo, ma con un insieme differenziato e distribuito di saperi e competenze che sono radicati nella connessione transcontestuale. Le organizzazioni transnazionali possono rappresentare oggi il principale laboratorio di sperimentazione di nuove capacità manageriali attraverso continui processi di apprendimento a livello mondiale. La psicologia del lavoro fornisce oggi un importante contributo alla gestione delle organizzazioni, che fanno ampio ricorso all’apparato teorico, metodologico e tecnico proprio della disciplina. L’analisi della relazione tra soggetti e contesto e l’esplorazione di modi diversi di concepire detta relazione si riferiscono, fondamentalmente, a quattro ambiti fortemente interdipendenti: a) le strutture dell’organizzazione, che riguardano il grado di divisione o di differenziazione delle attività; il livello di standardizzazione del lavoro e delle procedure; il luogo in cui risiede l’autorità per la presa di decisione; b) i processi organizzativi implicati dal sistema operativo, dal sistema informativo e dal sistema del controllo di gestione; c) la tecnologia impiegata sia con riferimento all’hardware che al software; d) la cultura organizzativa, intesa come sistema di valori, norme e pratiche di comportamento condivisi. La psicologia del lavoro ha raggiunto una maggiore maturità e lucidità dal punto di vista metodologico. L’esigenza di descrivere e di documentare fatti complessi rapportabili a una pluralità di variabili fortemente interconnesse, di studiare le loro relazioni e di proce6263

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Lavrov dere alla loro interpretazione, si traduce in una molteplicità di modalità di ricerca riconducibili, fondamentalmente, a quattro classi: a) sperimentazioni in laboratorio e sul campo; b) indagini del tipo action-research e indagini cliniche; c) inchieste esplorative e di tipo survey; d) modalità psicometriche, dedicate allo sviluppo di strumenti. Esiste un netto spostamento d’interesse da costrutti e variabili individuali o legati al compito, a costrutti e variabili di natura organizzativa e sociale. Si manifesta, inoltre, negli ultimi anni, un crescente riconoscimento della complessità dei fenomeni oggetto di studio con la conseguente tendenza delle indagini empiriche a essere multivariate, a superare impostazioni di tipo riduzionistico o di semplificazione della realtà, a essere attente a spiegare i nessi di interdipendenza tra le variabili considerate e a integrare concezioni e approcci diversi. Un ulteriore spazio di ricerca e d’intervento riguarda non le grandi ma le piccole imprese chiamate ad affrontare problemi di cambiamento e di crescita: dalla cultura familiare alla cultura d’impresa; dalla cultura industriale alla cultura finanziaria; dalla cultura locale alla cultura globale. Anche le imprese della new economy stanno già incontrando problemi di cambiamento e di sviluppo. Inoltre, molte organizzazioni pubbliche (agenzie governative, uffici regionali e comunali, ospedali, scuole, tribunali) e molte organizzazioni private (organizzazioni non profit, fondazioni culturali) sono interessate ad avviare processi di cambiamento e di sviluppo organizzativo che spesso si pongono come elemento centrale per l’evoluzione della vita democratica, per la partecipazione dei cittadini alla vita sociale, per il miglioramento degli standard di vita e degli stili di convivenza. Attraverso i progetti di sviluppo e di cambiamento è in gioco un nuovo assetto delle organizzazioni con evidenti riflessi sugli equilibri politici e sociali del globo e sugli stili di convivenza interumana. F. Avallone BIBL.: F. AVALLONE, Psicologia del lavoro, Roma 1994; N. ANDERSON - D.S. ONES - H.K. SINANGIL - C. VISWESVARAN (a cura di), Handbook of Industrial, Work and Organizational Psychology, London 2001; F. AVALLONE (a cura di), Il lavoro nelle organizzazioni. Repertorio bibliografico di Psicologia del Lavoro, 1970-1999 (Quaderni di Psicologia del Lavoro, nn. 8-9), Milano 2001. ➨ PSICOLOGIA APPLICATA.

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LAVROV, PËTR LAVROVIC. – Pensatore russo, Lavrov n. a Melechovo (governatorato di Pskov) il 2 giu. 1823, m. a Parigi il 25 giu. 1900. Avviato alla carriera militare, abbandonò l’esercito per potersi dedicare liberamente alle sue ricerche. Fuggito all’estero per sottrarsi alla repressione politica, prese parte all’attività rivoluzionaria degli emigrati russi. In questo suo impegno politico riscosse un riconoscimento generale specialmente con le famose Istoriceskija pis’ma (Lettere storiche), Sankt Peterburg 1870. Il pensiero filosofico di Lavrov si svolse sullo sfondo di un positivismo scientifico che, sotto l’influenza di Kant e di Feuerbach, assunse presto la forma d’un particolare «antropologismo critico». In esso l’uomo risulta la sorgente sia della natura (che si attua nella totalità delle sue esperienze), sia della storia. Quindi tanto la natura, quanto quel «regno dei fini», che l’uomo cerca di raggiungere nella storia, esistono non in sé, ma soltanto per noi. Pertanto la coscienza si chiarisce in tre momenti successivi: conoscenza, creatività artistica e attività filosofica. Dal punto di vista morale all’uomo è connaturata soltanto la tendenza al godimento, ed è nel godimento del bene morale che l’uomo evoluto ripone lo scopo della sua vita. Così concepita la moralità apparve a Lavrov come pienamente autonoma rispetto alla natura, sebbene ciò non la liberi da un interiore determinismo. Questo determinismo è ben visibile nella filosofia della storia concepita come un continuo processo sempre ascendente, che dovrebbe portare infine alla trasfigurazione della realtà. La storia è impregnata della coscienza della responsabilità umana e, più specificamente, del senso dell’«indebitamento» dell’individuo dinanzi alla società. E, precisa Lavrov, per venire incontro a questa responsabilità bisogna che ognuno si adoperi per diminuire il male nel presente e nell’avvenire. Si precisano con ciò i termini di quel «socialismo umanitario», che Lavrov, sotto l’influenza di Marx, si sforzò di prospettare come scientifico. L. Gancikov BIBL.: Ocerki voprosov prakticeskoj filosofii (Saggi sui problemi della filosofia pratica), Sankt Peterburg 1860; L’idée du progrès dans l’anthropologie, Paris 1873; Opyt istorii mysli novago vremeni (Saggio della storia del pensiero del tempo moderno), Sankt Petersburg 1874.

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Su Lavrov: F. VENTURI, Il populismo russo, Torino 1952, vol. II, pp. 394-464; B.S. ITENBERG, Pëtr Lavrovic Lavrov v russkom revoljucionnom dvizenii (Pëtr Lavrovic Lavrov nello sviluppo della rivoluzione russa), Moskva 1988.

LAW, EDMUND. – N. a Cartmel (Lancashire) il Law 6 giu. 1703, m. a Rose Castle il 24 ag. 1787. Fu vescovo di Carlisle. Tradusse e commentò nel 1731 (ristampa New York 1978) il De origine mali di W. King. La sua prima ricerca speculativa fu l’Inquiry into the Ideas of Space, Time, Immensity and Eternity (Cambridge 1734), in cui, in polemica con Jackson, negava valore alle prove a priori dell’esistenza di Dio. La sua opera maggiore è tuttavia costituita dalle Considerations on the Theory of Religion (ivi 1745), accresciute nelle successive edizioni di alcune Reflections on the Life and Character of Christ e di una Appendix concerning the Use of the Words «Soul» and «Spirit» in the Holy Scripture. Le Considerations esprimono una profonda fiducia nel progresso dell’umanità in materia di educazione religiosa e di conoscenze scientifiche. Law si fece anche sostenitore della tolleranza religiosa in un pamphlet apparso anonimo nel 1774 col titolo Considerations on the Propriety of Requiring Subscription to Articles of Faith, che suscitò qualche polemica. Nel 1777 curò un’edizione, pubblicata a Londra, delle opere di Locke. V. Sainati BIBL.: The Collected Work of Edmund Law, a cura di V. NUOVO, Bristol 1995, 5 voll. Su Law: F.S. DE BEER, Bishop Law’s List of Books attributed to Locke, in «The Locke Newsletter», 7 (1976), pp. 11-39, 47-54.

LAW, WILLIAM. – Teologo e scrittore di spiriLaw tualità, n. a King’s Cliffe (presso Stanford, Northamptonshire) nel 1686, m. ivi il 7 apr. 1761. Studiò a Cambridge (1705-12), concludendo con una tesi su Malebranche; sacerdote anglicano, rimase a Cambridge come «fellow» fino all’ascesa al trono di Giorgio I, al quale rifiutò obbedienza; entrò poi nella famiglia Gibbon, come tutore di Edward, padre dello storico; in essa rimase fino al 1737; nel 1740 si ritirò definitivamente nella sua proprietà di King’s Cliffe, occupandosi di opere di carità e dei suoi studi. Cominciò la sua produzione letteraria con opere di polemica: di Mandeville (Remarks upon a Late Book, Entituled, The Fable of the Be-

Law es, London 1724) criticò con forza l’assunto che i vizi privati siano benefici pubblici, e che la virtù non sia che una moda contratta per vanità o per orgoglio; a Tindal (The Case of Reason, or, Natural Religion, Fairly and Fully Stated. In Answer to a Book, Entitul’d Christianity as Old as the Creation, ivi 1731) contestò l’eccessiva ed erronea confidenza nelle capacità della ragione a comprendere pienamente le leggi che regolano l’universo; al contrario, l’universo sarebbe vivente e impenetrabile alla sola ragione. Gli interessi più profondi portavano tuttavia Law piuttosto verso i problemi della spiritualità e della vita cristiana. I trattati ascetici A Practical Treatise upon Christian Perfection (ivi 1726), dotato di una sua peculiare grazia, e A Serious Call to a Devout and Holy Life. Adapted to the State and Condition of All Orders of Christians (ivi 1728), opera di straordinaria forza di pensiero e di espressione, divenuta immediatamente un classico della pietà anglicana per la decisa opposizione alle tendenze dell’epoca, esercitarono una grande influenza su Wesley e i wesleyani. Vi si afferma con particolare insistenza il principio che la sostanza della vita cristiana sta in un totale cambiamento di disposizione spirituale e di condotta di vita, piuttosto che in questo o quell’atto di devozione spirituale o di culto. Lettore assiduo di mistici fin dalla giovinezza, il suo pensiero in questo campo non si sviluppò pienamente se non dopo l’incontro con le opere di Böhme, tradotte per la maggior parte tra il 1644 e il 1662, e di cui Law stesso progettò di curare un’edizione (poi compiuta dai discepoli George Ward e Thomas Langcake, 4 voll., ivi 1764-82; la cosiddetta «Law Edition»). A tale periodo «böhmiano» appartengono numerose opere, tra cui più importanti: An Appeal to All that Doubt, or Disbelieve the Truths of the Gospel, ivi 1740; The Spirit of Prayer or, The Soul rising out of the Vanity of Time, into the Riches of Eternity, ivi 1749-1750, 2 parti; The Way to Divine Knowledge, ivi 1752; The Spirit of Love, ivi 1752-1754, 2 parti; A Short but Sufftcient Confutation of Warburton’s Projected Defence (as He Calls It) of Christianity, in His Divine Legation of Moses, ivi 1757; On Justification by Faith and Works. A Dialogue between a Methodist and a Churchman, ivi 1760. Gli scritti di Law, eccetto A Serious Call, non ebbero larga accoglienza da parte dei suoi contemporanei, anche se il vigore polemico, la poeticità dell’espressione e la sincerità 6265

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Lax

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dell’animo rendono Law non inferiore alla maggior parte degli autori suoi contemporanei. Acuto critico del razionalismo, che nel suo pensiero conduceva direttamente all’ateismo, cristiano coerente e rigoroso (tanto da far pensare ai suoi amici che propendesse per il puritanesimo), scrittore mistico equilibrato e tendenzialmente volto più alla pratica della vita cristiana che alle speculazioni esoteriche e teosofiche, Law occupa una posizione isolata nella storia del pensiero religioso inglese del Settecento. La sua opera contribuì all’assimilazione del misticismo eterodosso di Böhme nella tradizione anglicana. L. Obertello BIBL.: Works, London 1753-76, 9 voll.; ed. a cura di G.H. Morgan, Brockenhurst 1892-93 (ed. privata); Liberal and Mystical Writings, a cura di W.S. Palmer - W.P. Du Bose, London 1908; Selected Mystical Writings, a cura di S. Hobhouse (ad essa sono uniti 24 studi di Hobhouse sulla filosofia mistica di Law e di Böhme), London 1938 e 1948 (ultima ed., Whitefish 2003); The Pocket Law, a cura di A.W. Hopkinson, London 1950 (ed. ridotta di Christian Perfection, an Appeal, e The Spirit of Prayer). Su Law: J.H. OVERTON, William Law, Nonjuror and Mystic, London 1881 (ultima ed., Whitefish 2003); E. UNDERHILL, The Mystics of the Church, London 1925; J.B. GREEN, J. Wesley and Law, London 1945; E.W. BAKER, A Herald of the Evangelical Revival: a Critical Enquiry into the Relation of Law to J. Wesley, London 1948; A. WORMHOUDT, Newton’s Natural Philosophy in the Behmenistic Works of Law, in «Journal of History of Ideas», 10 (1949), pp. 411-429; G. BULLET, Law, in The English Mystics, London 1950; J. HUTIN, Les disciples anglais de Böhme, Paris 1960; G.R. CRAGG, Reason and Authority in the Eighteenth Century, Cambridge 1964; J. HOYLES, The Edges of Augustainism, the Aesthetics of Spirituality in Thomas Ken, John Byrom and William Law, The Haague 2001; M. ISRAEL - N. BROADBENT, The Devout Life: William Law’s Understanding of Divine Love, Mowbray 2002.

LAX, GASPAR. – Filosofo e teologo spagnolo, Lax n. a Cariñena (Aragona) nel 1487, m. a Saragozza il 23 febbr. 1560. Maestro in arti e dottore in teologia, ebbe la cattedra a Parigi (1507) e fu membro della Sorbona, passando poi a Saragozza, dove esercitò grande influsso su L. Vives. Nelle sue prime opere si mostra scolastico rigido e di un formalismo esagerato. Il suo merito è esclusivamente di carattere storico, come esponente acutissimo della dialettica della decadenza. A. Muñoz Alonso

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BIBL.: F. PICATOSTE, Apuntes para una biblioteca científica española del siglo XVI, Madrid 1891 (ripr. 1999); M. SOLANA, Historia de la filosofía española. Época del Renacimiento (siglo XVI), Madrid 1941, vol. III, pp. 19-33; F. BALAGUER, Gaspar Lax en la Universidad de Huesca, in «Argensola», 79-84 (1975-77), pp. 125134; A. ALONSO ARRIBAS, El «Tractatus obligationum» en algunos lógicos españoles del siglo XVI: Gaspar Lax (1487-1560), Juan de Celaya (1490-1558), Madrid 2001.

LAY, WILHELM AUGUST. – Pedagogista tedeLay sco, n. a Bötzingen (Brisgovia) il 30 lug. 1862, m. a Karlsruhe il 9 magg. 1926. Da Karlsruhe e dall’università di Halle egli diffuse i principi della scuola attiva (Lebensgemeinschaftsschule) e la pedagogia sperimentale. Sua tesi è che lo scolaro è membro di una comunità, la quale esercita influsso su di lui e che a sua volta ne è influenzata. II meccanismo di questo rapporto ha tre fasi: lo stimolo, l’elaborazione spirituale di esso, e la sua espressione. D. Morando BIBL.: Experimentelle Didaktik, Leipzig 19033; Experimentelle Pädagogik, Leipzig 1908; Die Tatschule, Leipzig 1911; Autopresentazione in E. HAHN (a cura di), Die Pädagogik der Gegenwart in Selbstdarstellungen, Leipzig 1927, vol. II. Su Lay: R. PAKULLA, Über Grundsätze und Methoden pädagogischer Forschung bei Ernst Meumann und Wilhelm August Lay, Rostock 1956; H. DEISSLER, s. v., in AA.VV., Dizionario enciclopedico di pedagogia, Torino 1964, vol. III, pp. 39 ss.

LAZARSFELD, PAUL. – Sociologo americano Lazarsfeld di origini austriache, n. a Vienna il 13 febbr. 1901, m. a New York il 30 ag. 1976. Immigrato negli Stati Uniti negli anni trenta, come molti studiosi europei, a causa del nazismo, Lazarsfeld ebbe grandissimo peso nello sviluppo della metodologia della ricerca sociale e nello studio di temi fondamentali legati ai media e ai processi elettorali. La prima opera internazionalmente famosa – in collaborazione con la collega Maria Jahoda – fu Die Arbeitslosen von Marienthal (Frankfurt am Main 199914, tr. it. di A. Rossi Doria, I disoccupati di Marienthal, Roma 1998 3 ), in cui gli autori smentivano l’ipotesi diffusa che la disoccupazione portasse alla radicalità politica, mostrando come conducesse invece all’apatia. Negli Stati Uniti coltivò i suoi interessi metodologici – sviluppando l’allora innovativa tecnica del panel – e l’attenzione verso i processi decisionali, occupandosi dei comportamenti

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di consumo nell’opera scritta con Elihu Katz (Personal Influence, New York 19663, tr. it. di G. Statera, L’influenza personale nelle comunicazioni di massa, Torino 1968) e dei comportamenti elettorali in The People’s Choice (New York 19683). Entrambi gli studi focalizzavano fortemente l’attenzione sui mass media, portando Lazarsfeld e il suo istituto – l’Office of Radio Research, fondato verso la fine degli anni trenta – a venir riconosciuti come leader nel campo della communication research. In particolare, i lavori di Lazarsfeld con Katz, e poi con Robert Merton, contribuirono a smantellare una teoria troppo semplicistica degli effetti dei media sul pubblico, evidenziando come vi sia uno stretto rapporto fra la ricezione dei mezzi di comunicazione e il contesto sociale, nonché l’esistenza di processi di mediazione da parte dei leader di opinione, che danno luogo a un processo di comunicazione articolato (twosteps flow of communication). M. de Benedittis BIBL.: V. CAPECCHI, Teoria e metodologia nell’opera di Paul Lazarsfeld, Bologna 1964.

LAZZARINI, RENATO. – Filosofo italiano, n. a Lazzarini Este (Padova) il 21 ott. 1891, m. a Lugo di Romagna l’8 dic. 1974. Insegnò nelle università di Cagliari, Bari e Bologna. Discepolo di A. Aliotta, risente dello spiritualismo francese da Pascal a Blondel. Di grande rilievo nel suo pensiero è la distinzione metodica tra ricerca teoretica e ricerca morale; questo motivo è chiaramente presente fin dal primo lavoro, Teoria della conoscenza e dell’azione morale (Savona 1925). Per Lazzarini filosofia è anzitutto interpretazione della vita morale, che acquista senso quando sia chiarita alla luce dei concetti di «finalità» e di «salvezza» (Saggio di una filosofia della salvezza, Roma 1926, riedizione Bologna 1966). La soluzione ultima dell’esistenza morale comporta un affrancamento radicale dal male morale, fisico e metafisico: Il male nel pensiero moderno. Le due vie deIla liberazione (Napoli 1936), dove le diverse dottrine sul male, da Tommaso e Sigieri di Brabante a Croce e Blondel, sono ridotte a due grandi teorie: la «teoria ciclica e dialettica del male» e quella «agonistica ed escatologica». Lazzarini vede nell’intenzionalità, intesa come riferimento continuo di sé ad altro e dell’altro a sé, l’elemento costruttivo della personalità (L’intenzione. Idee sul compimento della personalità e il concetto critico di perdizione, Roma 1940). Nella

Lebensphilosophie elaborazione di questa prospettiva (Intenzionalità e istanza metafisica, Roma 1956), l’autore si ispira sia al pensiero scolastico-tomistico, sia alla fenomenologia husserliana. A.M. Moschetti BIBL.: S. Bonaventura, Milano-Roma 1946; Situazione umana e il senso della storia e del tempo, Milano 1960; Valore e religione nell’orizzonte esistenziale, Padova 1965; Le forme del sapere e il messaggio dell’intenzione, Padova 1972. Su Lazzarini: C. ROSSI, Intenzione e intenzionalità nel pensiero R. Lazzarini, in «Filosofia», 12 (1961), pp. 109-116; F. POLATO, Il significato della storia nel pensero di R. Lazzarini, in «Filosofia», 1 (1962), pp. 643658; P. PANTALEO, La dialettica dell’intenzione e della situazione nel pensiero di R. Lazzarini, Bari 1963; C. ROSSI - A.M. MOSCHETTI - F. POLATO, R. Lazzarini, Torino 1963; G. GIANNI, Filosofia e salvezza nel pensiero di R. Lazzarini, in «Humanitas», (1966), pp. 993-998; F. POLATO, Metodo fenomenologico ed esperienza in Lazzarini, in «Studia Patavina», (1966), pp. 28-76; F. MODENATO, Intenzionalità e storia in R. Lazzarini, Bologna 1967; G. GIANNINI, La salvezza nel pensiero di R. Lazzarini, in «Incontri Culturali», (1975), pp. 329333; G. MORRA, R. Lazzarini (1891-1974), filosofo del nostro tempo, in « Incontri Culturali», (1975), pp. 338-346.

LEADBEATER, CHARLES WEBETER. – TeosoLeadbeater fo inglese, n. il 17 febbr. 1847, m. a Perth nel 1934; ex ecclesiastico, allievo di A. Besant. Nel 1916 divenne vescovo della chiesa cattolica liberale. Particolarmente attivo e noto come chiaroveggente, si dedicò particolarmente alla questione della vita post mortem. Tra i suoi libri ricordiamo, in traduzione italiana: Chiaroveggenza, Roma 1902; Cenni di teosofia, ivi 1903; La morte e gli stati che la seguono, Milano 1909; Come si sviluppa la chiaroveggenza, Genova 1911; Il lato nascosto delle cose, ivi 1911; Manuale di Teosofia, ivi 1914. Devachan, la vita continua, Trieste 1983; I sogni – natura e cause, ivi 1985; Gli Aiutatori Invisibili, Milano 1992. Altre numerose opere scrisse in collaborazione con A. Besant, per illustrare le loro ricerche extra-sensoriali. Red. BIBL.: H. SHEARMAN, Charles Webster Leadbeater - A Biography, Madras 1980; G. TILLETTS, The Elder Brother, London 1982; P. MICHEL, Charles W. Leadbeater. Mit den Augen des Geistes. Die Biographie eines grossen Eingeweihten, Grafing 1998.

LEBENSPHILOSOPHIE (filosofia della vita). Lebensphilosophie – L’espressione Lebensphilosophie indica la cor6267

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Lebensphilosophie rente di pensiero sorta in Germania negli ultimi decenni del XIX secolo avente come principale interesse speculativo il concetto di vita. L’influsso della filosofia della vita fu fondamentale per le scienze umane, dalla storiografia alla letteratura, dalla sociologia alla psicologia. La prima occorrenza del termine è da individuare nell’opera Über die moralische Schöneit und Philosophie des Lebens di G.B. Schirach del 1772 ed ebbe subito larga diffusione in autori con posizioni di pensiero molto diverse come K.P. Moritz, J.G. Herder e W.T. Krug. Le radici teoretiche della Lebensphilosophie tuttavia sono da ricondurre al romanticismo tedesco, soprattutto al pensiero di F. Schlegel. Nel saggio del 1827, intitolato Philosophie des Lebens, Schlegel afferma la necessità di dover uscire dallo schematismo e dalla sistematizzazione dell’idealismo per cogliere la pienezza della vita come fondamento della persona. Un nuovo impulso alla Lebensphilosophie sorse dalla diffusione delle opere filosofiche di A. Schopenhauer e dalle osservazioni scientifiche di C. Darwin. L’influenza della scoperta della volontà come principio costitutivo della realtà e del carattere selettivo dell’evoluzione fornirono l’adeguato contesto culturale per lo sviluppo dell’irrazionalismo filosofico di F. Nietzsche. Sin dai primi scritti giovanili Nietzsche ribalta la nozione antivitalistica schopenhaueriana di noluntas in una forza vitale istintiva, quella dionisiaca che sorge dall’accettazione del senso tragico della vita. La teoria dell’oltreuomo sviluppata nelle opere mature, fondata sul concetto di vitalismo e di affermazione disincantata della vita, amplifica il carattere relativistico e moralistico che l’indagine della Lebensphilosophie assumerà come paradigma nel periodo precedente alla prima guerra mondiale. Una nuova direzione nella corrente della filosofia della vita fu impressa da W. Dilthey che assunse l’Erlebnis come dato fondativo delle Geisteswissenschaften. La Lebensphilosophie si fonda sul principio che il vissuto individuale come struttura fondamentale della vita sia l’elemento distintivo della conoscenza umana. Tutta la realtà è data dalla vita che nella sua esperienza di resistenza verso il mondo esterno determina la formazione dell’io e delle connessioni oggettive fra le persone e le cose del mondo. L’esperienza originaria soggettiva della vita si esprime in forme oggettive culturali che sono espressioni del mondo storico. L’uo6268

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mo è sottoposto all’immediatezza dell’esperienza vitale congiuntamente alla determinatezza della storicità del mondo. Nonostante l’immediatezza della vita soggettiva e l’oggettività del mondo storico non esprimano in Dilthey una duplicità di elementi contraddittori, la Lebensphilosophie, sorta dal rifiuto degli esiti deterministici dello spirito positivista che riduceva il vivente a un mero dato oggettivo derivato dalle leggi fisiche, eleva l’antagonismo tra i dualismi, come spirito-anima, cultura-civiltà, irrazionalismo-razionalismo, a elemento centrale della discussione filosofica. Un contributo fondamentale allo sviluppo della filosofia della vita fu dato dall’opera di G. Simmel. La prima fase del pensiero di Simmel è caratterizzata dall’avvicinamento della filosofia di neokantiana, soprattutto con la scuola del Baden (W. Widelband, H. Rickert, E. Lask) indirizzata verso una filosofia dei valori, con il positivismo evoluzionista di Darwin, H. Spencer e G.T. Fechner. In Lebensanschauung del 1916, Simmel assume come problema centrale della filosofia della vita l’opposizione del vivente e delle sue cristallizzazioni. La rappresentazione della vita è quella di un fluire continuo che si individualizza in ogni uomo assumendo forme determinate rispetto al resto del mondo. La tragedia della civiltà, secondo Simmel, è proprio l’impossibilità di conciliare il flusso continuo della vita con le individualità determinate. La vita che sembra irrigidirsi nel suo perenne fluire rompe le determinazioni cristallizzate a cui era sottoposta in quanto è per essenza un continuo trascendersi, un continuo porre confini nell’atto stesso di superarli. L’opposizione tra la vita e le sue cristallizzazioni diventa nella filosofia di ispirazione nietzscheana di L. Klages (1872-1956) il dualismo fra lo spirito e l’anima, ovvero l’antagonismo fra un’astratta entità immateriale produttrice di finzioni e l’anima come espressione diretta del principio della vita. Nell’opera Der Geist als Widersacher der Seele (Leipzig 1929-32) la contrapposizione prende corpo in campo gnoseologico nella dicotomia fra intuizione ed esperienza vissuta: solo l’Erlebnis può attingere alla conoscenza intima della realtà, mentre l’Anschauung si arresta a produzioni astratte dell’intelletto e della ragione. In campo morale il dualismo è rappresentato per un verso dalla sfera degli impulsi originari e vitali e dalle motivazioni, e per altro verso dagli interessi elaborati dalla coscienza e dalla ragione. Una nuova opposizio-

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ne, quella tra Kultur e Zivilisation, emerge nella filosofia di O. Spengler. Essa sorge dalla trasposizione del principio vitalistico dell’uomo nella storia universale. Ogni grande civiltà storica, così come ogni individuo, nasce, cresce, entra in declino e muore. La morte della civiltà è data dalla stessa mano della Zivilisation che con il suo irrigidirsi, cristallizzarsi e nel suo essere artificiale depotenzia la dinamicità della Kultur. All’interno della filosofia della vita tedesca, derivate dalla corrente sociologica e storiografica, possono essere ricondotte le speculazioni di E. Krieck, A. Bäumler e E. Jünger. Nell’area tedesca pur non riconducendosi direttamente alla Lebensphilosophie, furono fondamentali gli apporti del pensiero di E. Husserl, M. Scheler, K. Jaspers e M. Heidegger. Husserl, rielaborando la via gnoseologica introdotta da Dilthey in chiave fenomenologica, ha il merito di valorizzare il concetto della vita da due aspetti. Il primo aspetto, eminentemente epistemologico, riguarda il dato fondativo dell’atto della coscienza che è il vissuto intenzionale, indicante che ogni atto psichico è dotato di intenzionalità. Il secondo aspetto concerne la critica verso l’oggettivazione delle visioni scientifiche del mondo che investendo la sfera totale dell’essere inibiscono l’esperienza vitale del soggetto e il suo significato. Husserl riscopre il mondo della vita come l’unico mondo dove ogni oggettività viene costituita e dove l’uomo ritrova se stesso nella sua pienezza. Scheler si ricollega alla filosofia della vita nella sua antropologia filosofica indicando la polarità che corre fra lo spirito e l’impulso vitale. La teoria scheleriana si fonda sul fatto che la vita come impulso affettivo creatore deve necessariamente, nello sviluppo umano, perdere le forze originarie e lasciar posto alle costruzioni complesse che lo spirito è in grado di fornire. Collegato con la filosofia della vita è l’esistenzialismo di Jaspers e Heidegger. Se le filosofie della vita proponevano antropologie e visioni del mondo esaltando il principio vitalistico, le dottrine dell’esistenzialismo esaltano il principio opposto ovvero quello dell’essere per la morte. La sostituzione del concetto di vita con quello di esistenza è un processo chiave in questa cambiamento di orizzonti. L’essere che è, è sempre affetto da una originaria condizione di angoscia o di dolore che orienta la costruzione dell’individuo non a favore della vita ma verso la morte.

Le Bon Imprescindibili per la comprensione dello sviluppo speculativo della Lebensphilosophie sono H. Bergson, M. de Unamuno e J. Ortega y Gasset. La teoria bergsoniana valorizza lo slancio vitale come spirito che è l’essenza di tutte le cose. La vita è impulso, è compenetrazione reciproca di migliaia di tendenze che si oggettivano solo nella relazione con la materia. Unamuno, nel solco della tradizione dell’irrazionalismo post-nietzscheano, propone nel Sentimento tragico della vita l’equazione fra ciò che è irrazionale e ciò che è vitale e viceversa fra ciò che è antivitale e ciò che è razionale. Ortega y Gasset sostiene che la vita è l’imperativo dell’uomo in quanto solo nella vita l’uomo può acquisire il proprio significato ed elaborare il proprio progetto d’azione. Nel contesto della rivalutazione della vita come azione, la Lebensphilosophie ha influito decisamente nel pragmatismo americano di J. Dewey e W. James. M. Sgarbi BIBL.: C. WANDREY, Ludwig Klages und seine Lebensphilosophie, Leipzig 1933; R. JUNGE, System der Lebensphilosophie. Eine Einheitswissenschaft als Grundlage aller spezifischen Lebenswissenschaften, Berlin 1937; C.T. GLOCK, Wilhelm Diltheys Grundlegung einer wissenschaftlichen Lebensphilosophie, Berlin 1939; H. MULLER, Lebensphilosophie und Religion bei Georg Simmel, Berlin 1960; F.O. BOLLNOW, Die Lebensphilosophie, Berlin 1958; H.J. LIEBER, Kulturkritik und Lebensphilosophie. Studien zur deutschen Philosophie der Jahrhundertwende, Darmstadt 1974; G. ANTONELLO, H. Rickert tra Philosophie des Lebens e Lebensphilosophie, Napoli 1988; F. FELLMANN, Lebensphilosophie. Elemente einer Theorie der Selbsterfahrung, Hamburg 1993; K. ALBERT, Philosophie als Form des Lebens. Zur ontologischen Erneuerung der Lebensphilosophie, München 2000.

LE BON, GUSTAVE. – N. a Nogent-le-Rotrou Le Bon (Eure-et-Loir) il 7 magg. 1841, m. a Marne la Coquette (Parigi), il 15 dic. 1931. Studioso estremamente produttivo e dai molteplici interessi, ma che non venne mai accettato nel mondo accademico, è oggi noto soprattutto per la sua Psychologie des foules (Paris 1895, trad. it. di G. Villa, Psicologia delle folle, Milano 19965), uno dei primi testi di psicologia collettiva. Dopo le prime pubblicazioni nel campo dell’anatomia, dell’igiene e della fisiologia, Le Bon spostò i suoi interessi verso l’antropologia e l’archeologia. Compì parecchi viaggi in Europa e in Africa e venne mandato dal governo francese in oriente come archeologo. Al ritorno scrisse vari libri (L’homme et les sociétés, 6269

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Le Bras Paris 1881; La civilisation des Arabes, Paris 1884; Les civilisations de l’Inde, Paris 1886) e articoli di carattere storico-etnologico che suscitarono molto interesse. Successivamente Le Bon pubblicò un volume, L’équitation actuelle et ses principes (Paris 1892), nel quale sostenne che l’educazione di qualsiasi essere vivente, cavallo o essere umano, doveva basarsi sugli stessi principi. Egli riprese e sviluppò questa tesi in un lavoro successivo, Psychologie de l’éducation (Paris 1902). La sua prima opera di carattere psicologico fu Les lois psychologiques de l’évolution des peuples (Paris 1894), a cui fecero seguito la Psychologie des foules e la Psychologie du socialisme (ivi 1898). In seguito si dedicò allo studio della fisica, producendo opere che suscitarono grandi polemiche in ambito scientifico sia in Francia che all’estero. Negli ultimi anni della sua vita Le Bon fu al centro della vita culturale e politica parigina pubblicando ogni anno, con grande successo, una nuova opera. La psicologia collettiva di Le Bon, e in particolare la sua psicologia delle folle, si colloca all’interno di un movimento di reazione alle teorie scientiste e razionaliste ed è notevolmente influenzata dalle scoperte avvenute in quegli anni in campo psichiatrico, in particolare dalle ricerche di Charcot sull’ipnotismo e sulla suggestionabilità. Le Bon pone l’accento sugli aspetti extrarazionali e irrazionali che sottostanno ai comportamenti umani individuando un’analogia tra il rapporto ipnotizzatore-ipnotizzato e il rapporto capo-gregario. Nella situazione di folla (con questo termine Le Bon definisce ogni tipo di aggregazione sociale) le persone subiscono una radicale trasformazione e perdono il controllo di se stesse, regredendo nella scala della civiltà. I sentimenti e pensieri di tutti si orientano in un’unica direzione («legge dell’unità mentale delle folle») e i ragionamenti diventano estremamente semplici, elementari. È questo il motivo per cui le folle diventano facilmente vittime di agitatori i quali, avvalendosi di affermazioni concise e ripetute, di simboli e di immagini, possono indurle a comportamenti violenti e distruttivi e, a volte, ad atti di straordinario eroismo. La semplicità con cui Le Bon ha esposto questi concetti, così come le sue indicazioni riguardo al modo di governare le folle, hanno contribuito a fare della sua Psychologie des foules un libro di straordinario successo, 6270

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noto a dittatori e capi di stato e ancora oggi ripubblicato in molte lingue. A. Mucchi Faina BIBL.: R.A. NYE, The Origins of Crowd Psychology, Abingdon 1975; C. ROUVIER, Les idées politiques de Gustave Le Bon, Paris 1986; J. VAN GINNEKEN, Crowd, Psychology and Politics, 1871-1899, Amsterdam 1989, tr. it di F. Russo, Folla, psicologia e politica, Roma 1991; A. MUCCHI FAINA, Psicologia collettiva. Storia e problemi, Roma 2002.

LE BRAS, GABRIEL. – Sociologo e giurista Le Bras francese, n. a Paimpol (Bretagna) il 23 lug. 1891, m. a Parigi il 18 febbr. 1970. Fu professore di sociologia religiosa alla Ecole pratique des hautes études e all’Institut d’études politiques di Parigi, oltre che all’università di Strasburgo. La sua importanza è legata soprattutto al campo della sociologia della religione, a cui ha offerto un contributo per lungo tempo esemplare. Fu il primo studioso a occuparsi dei fenomeni religiosi con approccio scientifico ed empirico, testimoniato in particolare dall’Introduction à l’histoire de la pratique religieuse en France (Paris 1942 e 1945, 2 voll.) e da innumerevoli saggi, raccolti in parte in Etudes de sociologie religieuse (Paris 1955-56, 2 voll., tr. it. parziale di G. Caputo e L. Pellegrini, Studi di sociologia religiosa, Milano 1969). In queste opere egli descrive in modo approfondito il fenomeno della scristianizzazione delle campagne francesi nel periodo dal 1920 al 1930. Al fine di sviluppare una cartografia religiosa della Francia, Le Bras incrocia tra loro dati demografici, geografici, storici e socioeconomici, indagando le correlazioni esistenti tra la pratica religiosa e altre variabili sociologiche, come la vita familiare, le convinzioni politiche, le condizioni socio-professionali e così via. Tra i principali risultati così ottenuti vi sono la dimostrazione della correlazione esistente tra pratica religiosa e opinioni politiche (le regioni francesi praticanti votano a destra), la descrizione di una correlazione – anche se meno netta – tra pratica religiosa e tasso di natalità, e la dimostrazione dell’esistenza di una tradizione gerarchica locale legata all’influenza del clero e dei notabili. Tra i poliedrici interessi di Le Bras ebbe infine un peso rilevante l’indagine storica, con particolare riferimento alla storia delle istituzioni di diritto ecclesiastico. F. Barbano

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BIBL.: AA.VV., Etudes d’histoire du droit canonique dédiées à G. Le Bras, Paris 1965, 2 voll. (con ampia bibliografia).

LEBRET, LOUIS-JOSEPH. – Frate domenicano, Lebret n. il 26 giu. 1897 a Le Minihic-sur-Ravec e m. il 20 lug. 1966 a Parigi. Inizialmente ufficiale di marina e impegnato nell’azione cattolica nell’ambiente di lavoro dei pescatori bretoni, fin dagli anni trenta si dedicò in parallelo agli studi teologici e a quelli economico-sociali. Per quanto riguarda i primi, radicandosi nella visione teologica intransigente di Emile Poulat, approfondì soprattutto la critica all’ateismo connaturato al sistema capitalistico; per quanto riguarda i secondi, Lebret fu attratto dalle analisi socialiste e anarchiche che restarono sempre per lui un punto di riferimento pur nel rifiuto della nozione di lotta di classe. Un primo filone della sua produzione è raccolto intorno al tema dell’umanesimo cristiano ed è rappresentato in primo luogo da Economie et humanisme (Lyon 1941), manifesto del movimento e della rivista omonimi che si proponevano di rappresentare un centro di ricerca sul rapporto tra umanesimo cristiano e modernità che portasse l’economia al centro dell’attenzione degli studiosi cattolici di etica e di dottrina sociale. Lebret prese le mosse dal pensiero di Jacques Maritain che intendeva fondare una società cristiana non sacrale per approdare poi a posizioni simili a quelle di Emmanuel Mounier che auspicavano una presenza non esplicita dei cristiani nella società pluralistica (cfr. Dimensions de la charité, Paris 1958, tr. it. di G. Albiero, Dimensioni della carità, Roma 1961; Manifeste pour une civilisation solidaire, Paris 1959; Suicide ou survie de l'Occident?, Paris 1958, tr. it. di F. Sebregondi, Suicidio o sopravvivenza dell’Occidente, Roma 1963). Per quanto riguarda il pensiero economico è evidente il suo legame con la prospettiva di François Perroux (cfr. L.-J. Lebret et al., Science économique et développement, Paris 1958). Il secondo filone è raccolto intorno al tema del sottosviluppo e ha prodotto studi sulle sue cause strutturali condotti attraverso la ricerca sociologica sul territorio; nei primi anni cinquanta Lebret partecipò a un gruppo di ricerca ONU sui livelli di sviluppo nel mondo che spinse in direzione di un’azione internazionale a favore di progetti di sviluppo solidale; ebbe grande influenza sull’elaborazione dell’enciclica di papa Paolo VI Populorum progressio (Ro-

Lecito / illecito ma 1967). Fra i prodotti di questo secondo filone vanno ricordati Dynamique concrète du developpement (Paris 1961) e Niveaux de vie besoins et civilisation (con F. Perroux et al., Paris 1956). D. Parisi BIBL.: P. HOUÉE, Louis Joseph Lebret. Un éveilleur d'humanité, Paris 1997; D. PARISI, Dalla povertà come situazione di vita del singolo alla povertà come condizione di vita dei popoli: La Populorum Progressio e il pensiero degli economisti, in R. PAPETTI (a cura di), Pablo VI y América Latina, Brescia 2002, pp. 101-122; H. PUEL, Economie et humanisme dans le mouvement de la modernité, Paris 2004.

LECITO / ILLECITO (lawful / unlawful; erLecito / illecito laubt / unerlaubt; licite / illicite; lícito / illícito). – Viene considerato lecito (dal lat. licere «essere permesso») il libero agire che si inscrive nell’ordine sancito dalla legge, dove la legge può essere intesa sia in senso giuridico che morale (cfr. Tommaso, Sum. theol., III, supplementum, q. 52, art. 1). La liceità si distingue dal dovere così come il «poter essere» si differenzia dal «dover essere»; ovvero, detto in altri termini: la liceità implica una semplice possibilità, giuridica o morale, che si apre di fronte alla volontà, mentre nel concetto di dovere si inscrive anche l’idea di un compito che viene prospettato al libero volere. La liceità è un concetto puramente negativo, che nega, appunto, l’esistenza di vincoli posti alla libera esplicazione della volontà, mentre il dovere include un momento positivo. La liceità si distingue anche dalla validità. Una tale distinzione gioca un ruolo decisivo all’interno della teologia sacramentale, perché un sacramento può essere valido, cioè esistere come sacramento, e tuttavia essere illecito, perché amministrato o ricevuto contro o fuori delle leggi canoniche, il che può costituire colpa più o meno grave, ma non annulla il valore del sacramento (cfr. F.M. Cappello, De sacramentis, vol. I, Torino 19536, pp. 32-71). Alcuni autori descrivono il rapporto tra lecito e illecito nei termini di una contrapposizione tra il diritto soggettivo, ovvero la libera attività dei soggetti, e il diritto oggettivo, ossia la legge. Da un lato starebbe dunque una sfera di possibilità a cui si contrapporrebbe, dall’altro lato, il muro dell’impossibilità o dell’illiceità giuridica e morale. Così si esprime, ad esempio, il filosofo del diritto F. Battaglia: «Il diritto soggettivo ci si presenta come un complesso di situazioni definite dal diritto oggettivo, co6271

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Le Clerc me facoltà o pretesa, come sfera di attività lecite e non impedibili» (Corso di filosofia del diritto, vol. II: Il concetto del diritto, Roma 19503, p. 153). Tra gli autori che, lungo la storia del pensiero, hanno maggiormente trattato il tema della liceità, un posto di primo piano è senza dubbio occupato da Immanuel Kant, che tematizza questa categoria sia sul piano giuridico che su quello etico. Ecco infatti cosa scrive il grande filosofo tedesco nella Metaphysik der Sitten: «È permessa (licitum) un’azione che non è contraria all’obbligazione; e questa libertà, che non è limitata da nessun imperativo opposto, si chiama facoltà (facultas moralis). Si comprende ora da sé che cosa è illecito (illicitum)» (Metafisica dei costumi, vol. I: La dottrina del diritto, tr. it. di G. Vidari, Milano 1916, p. 21). Nel pensiero di Kant il lecito costituisce inoltre una delle dodici categorie della ragion pratica, che Kant si sforza di individuare, in analogia alle categorie della ragion speculativa. Lecito e illecito rappresentano infatti la prima coppia delle categorie della modalità, la cui seconda coppia è rappresentata dal dovere e dal suo contrario. Kant sottolinea molto bene la differenza concettuale tra la prima e la seconda coppia delle categorie della modalità in una nota alla Prefazione della Kritik der praktischen Vernunft: «La prima categoria deve significare ciò che è in armonia o in contraddizione con un precetto pratico semplicemente possibile; la seconda ciò che si trova in tale relazione con una legge che è realmente nella ragione in genere» (Critica della ragion pratica, tr. it. di F. Capra, Bari 1909, p. 10, nota). Il contenuto concreto di questa sfera di liceità, in cui consiste il significato del lecito, non è determinabile se non mediante la legge, morale o giuridica, che, per la sua normatività, rende possibile la definizione di tale sfera. Molto complessa risulta la questione dei rapporti tra lecito giuridico e lecito morale, rapporti che, come si può facilmente immaginare, si inscrivono nel contesto più ampio dei rapporti tra il diritto e la morale intesi nel loro complesso. Se consideriamo la questione da un punto di vista storico-antropologico, possiamo dire che l’elaborazione concettuale della nozione di illecito giuridico precede e prepara quella di illecito morale. Il passaggio dalla nozione di illecito giuridico a quella di illecito morale dipende infatti da un processo di interiorizzazione, attraverso il quale si viene a considerare ciò che nell’uomo vi è di più inti6272

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mo, ovvero la coscienza, il tribunale (il foro) interiore, dove il soggetto si trova esposto alle rimostranze di un giudice che è a un tempo lui stesso e qualcun altro il cui sguardo lo insegue, la cui voce lo assilla. È la coscienza che mi dice che ogni altra vita è altrettanto importante della mia (T. Nagel, Equality and Partiality, New York - Oxford 1991). Le conseguenze di un illecito giuridico e di un illecito morale sono profondamente diverse: mentre l’illecito giuridico implica l’obbligo di sottoporsi alla pena prevista dalla società per un tale illecito, l’illecito morale provoca il sentimento, del tutto intimo e personale, di aver agito male. Questo senso di colpa, pur nella sua privatezza, appartiene in modo essenziale al fenomeno morale e ci permette di comprendere molto bene il salto compiuto attraverso il processo di interiorizzazione (P. Ricoeur, La conscience et la loi, in Le Juste, Paris 1995, p. 214). G. Morra - F. Turoldo BIBL.: L. GERNET, Recherches sur le développement de la pensée juridique et morale en Grèce. Etude sémantique, Paris 1917; J. DARBELLAY, Théorie générale de l'illicéité en droit civil et en droit pénal, Fribourg 1955; F. FORCHIELLI, Il rapporto di causalità nell’illecito, Padova 1960.

LE CLERC, JEAN. – N. a Ginevra il 19 mar. Le Clerc 1657; m. ad Amsterdam l’8 genn. 1736. Compì all’accademia di Ginevra gli studi di filosofia sotto la guida del cartesiano Jean-Robert Chouet e gli studi di teologia sotto la guida di Louis Tronchin, teologo moderato che, seguendo le tesi di Amyraut, si opponeva alla rigorosa ortodossia calvinistica di François Turrettini. I suoi soggiorni tra il 1678 e il 1683 a Grenoble, a Saumur, in Olanda e a Londra favorirono sia il confronto con alcuni sviluppi delle dottrine filosofiche cartesiane e il loro utilizzo in campo teologico, sia il ripensamento delle tesi della teologia calvinistica e l’avvicinamento alle posizioni arminiane di Episcopio. Nell’autunno del 1683 Le Clerc si trasferì ad Amsterdam, città che più di ogni altra garantiva libertà di espressione, e nella quale operava la comunità rimostrante, di cui egli condivideva le principali convinzioni teologiche. Accolto da Filippo da Limborch, divenne professore nel seminario dei Rimostranti, ove insegnò fino al 1731, tenendo i corsi di filosofia, di lettere e di lingua ebraica e, dal 1712, di storia ecclesiastica.

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Già nelle pagine del suo primo libro, pubblicato sotto lo pseudonimo Liberii de Sancto Amore Epistolae theologicae, in quibus Varii Scholasticorum errores castigantur (Saumur 1681), al fine di arginare le lotte tra le varie confessioni cristiane e di porre le basi per una reciproca tolleranza, Le Clerc ribadì la necessità di risalire all’originario insegnamento di Cristo e degli apostoli, un insegnamento che, nel corso dei secoli, interessati interventi di teologi e «vanae subtilitates» di filosofi avevano oscurato. Contro la pretesa sia dei filosofi scolastici, sia anche di alcuni filosofi cartesiani (Malebranche in particolare) di ricondurre la dottrina cristiana entro schemi filosofici, Le Clerc nella seconda parte degli Entretiens sur diverses matières de théologie (Amsterdam 1685) sentì il bisogno di indagare su «l’estensione delle nostre conoscenze metafisiche, e il loro uso in campo religioso», di mostrare come «numerosi articoli della religione siano stati resi oscuri dalle sottigliezze dei metafisici», di verificare la vera entità della «certezza dei lumi della ragione e del soccorso che la fede vi apporta», di svelare le infondate interpretazioni di «molti passaggi della S. Scrittura fatte dai metafisici moderni». La filosofia di John Locke, che Le Clerc conobbe ad Amsterdam negli anni del suo esilio olandese e col quale strinse una durevole amicizia, divenne un valido punto di riferimento per approfondire l’estensione della conoscenza umana e i rapporti tra ragione e fede. L’influenza delle dottrine lockiane si ritrova pure nei manuali di Logica (Amsterdam 1692), Ontologia et Pneumatologia (ivi 1692) e Physica (ivi 1696), che, confluiti negli Opera philosophica (ivi 1698), ebbero grande diffusione nelle scuole europee tra la fine del Seicento e il primo Settecento. Non bastava però liberare il messaggio rivelato dai vincoli dei sistemi filosofici e teologici: era necessario procedere alla comprensione di esso sulla base di una rigorosa indagine storico-critica, seguendo anche per il testo biblico i criteri della più avanzata ars critica. Buona era la preparazione di Le Clerc sia nel campo della filologia biblica (già dimostrata nell’edizione che egli curò delle Quaestiones sacrae del prozio David Le Clerc, professore di ebraico a Ginevra) sia in quello della filologia classica, come provano la sua celebre Ars critica (Amsterdam 1697) e le edizioni di alcuni autori latini e greci. Fu però determinante il confronto critico

Leclercq con gli apporti di Spinoza e di Richard Simon: lo testimoniano i Sentimens de quelques Théologiens de Hollande sur l’Histoire Critique du Vieux Testament, composée par le P. Richard Simon de l'Oratoire; Où en remarquant les Fautes de cet Auteur, on donne divers Principes utiles pour l'intelligence de l'Ecriture Sainte (Amsterdam 1685) e la Défense dell’anno seguente. Frutto principale di questo impegno resta la monumentale edizione della Sacra Scrittura con commentario, note e dissertazioni critiche da lui condotta tra il 1693, anno in cui pubblicò la Genesis, e il 1731, anno in cui videro finalmente la luce i Veteris Testamenti libri Hagiographi e i Prophetae. Da Amsterdam, crocevia della cultura europea, Le Clerc seppe pure svolgere una importante opera di orientamento e promozione culturale attraverso le sue «Bibliothèque universelle et historique» (1686-93), «Bibliothèque choisie» (1703-13), «Bibliothèque ancienne et moderne» (1714-1726). Queste riviste ebbero grande diffusione in tutta Europa e furono lette con vivo interesse per la cura e l’intelligenza con cui venivano scelti e recensiti libri provenienti da diverse aree geografiche e linguistiche. In particolare l’attenzione con la quale Le Clerc seguiva le pubblicazioni degli autori d’oltre Manica favorì la diffusione della filosofia e della cultura inglese nel Continente. Si pensi ad esempio all’Essay di Locke, il cui Extrait apparve sulla rivista di Le Clerc in lingua francese quasi due anni prima dell’edizione inglese dell’opera. Le Clerc tenne inoltre una fitta corrispondenza con i più celebri uomini di cultura, i quali apprezzando, come ebbe a scrivergli nel 1722 Vico, il suo «da per tutta Europa riverito giudizio», desideravano interpellarlo e confrontarsi con lui sui più dibattuti problemi. Le oltre ottocento lettere del suo Epistolario rimangono documento prezioso per meglio conoscere cinquant’anni di cultura europea. M. Sina BIBL.: per notizie sulla vita di Le Clerc cfr. l’autobiografia Joannis Clerici Vita et opera ad annum MDCCXI, Amstelodami 1711; J. LE CLERC, Epistolario, a cura di M.G. e M. Sina, Firenze 1987-97, 4 voll.; A. BARNES, Jean Le Clerc (1657-1736) et la République des Lettres, Paris 1938; M.C. PITASSI, Entre croire et savoir. Le problème de la méthode critique chez Jean Le Clerc, Leiden 1987.

LECLERCQ, JACQUES. – Moralista e socioloLeclercq go, n. a Bruxelles il 3 giu. 1891, m. il 17 lug. 6273

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Lecomte du Noüy 1971. Professore all'Università di Lovanio, emerito dal 1961; canonico; autore di numerose pubblicazioni di argomento religioso e di filosofia morale e sociale. Fondò nel 1926 La cité chrétienne, un periodico pubblicato fino al 1940, che tra le due guerre ebbe notevole influenza sulla gioventù intellettuale belga. Di Leclercq interessa particolarmente il tentativo di formulare un diritto naturale d'ispirazione tomistica ma adattato alla cultura contemporanea; egli pone l'accento soprattutto sulla natura sociale dell'uomo e sui dati di fatto sociali, per la cui conoscenza assume grande importanza la sociologia, e afferma che il diritto naturale «è una realtà, non è solamente un'idea perché, per loro natura, gli uomini devono tener conto di certe regole nei loro rapporti» (Leçons, I, 3ª ed., p. 54). Red. BIBL.: fra le opere più importanti: Leçons de droit naturel, 5 voll., Namur-Bruxelles 1927-37 (4ª ed. 195558; ed. it. a cura di G. Lucini, Lezioni di diritto naturale: I. Diritto e società, Roma 1964; II. La politica, Roma, 1965-66; III. La famiglia, Roma 1964; IV. I diritti e i doveri individuali, Roma 1967); Essais de morale catholique, 4 voll., Tournai 1931-38 (4ª ed. 1945-55; tr. it. Saggi di morale cattolica: I. Ritorno a Gesù, tr. it. di C. Amadei; II. Ascesi cristiana, tr. it. di L. Zardi; III. Vita interiore, tr. it. di F. del Rivo; IV. Vita nell’ordine, tr. it. di C. Amadei, Alba 1957-58); Dialogue de l'homme et de Dieu, Paris 1939 (4ª ed., Tournai-Paris 1955; Dialogo dell’uomo e di Dio, tr. it. di G. Barbero, Roma 1952); Les grandes lignes de la philosophie morale, Louvain-Paris 1947 (nuova ed. corrente 1966); Introduction à la sociologie, Louvain 1948 (3ª ed., LouvainParis 1963; Introduzione alla sociologia, tr. it. di V. Bo, Milano 1955); L'enseignement de la morale chrétienne, Parigi 1950 (2ª ed. 1992; L’insegnamento della morale, tr. it. di P. Tablino - A. Stella, Alba 1951); La philosophie morale de st. Thomas devant la pensée contemporaine, Louvain-Paris 1955; Du droit naturel à la sociologie, 2 voll., Paris 1960 (Dal diritto naturale alla sociologia, tr. it. delle Benedettine del Monastero di S. Maria di Rosano, Roma 1962); La révolution de l'homme au XXe siècle, Tournai-Paris 1963 (La rivoluzione dell’uomo nel XX secolo, ed. it. di A. Vesco, Torino 1967). Su Leclercq: G. MORIN, Introduction à l’étude de J. Leclercq, Gembloux 1973; E. DI ROBILANT, Significato del diritto naturale nell'ordinamento canonico, Torino 1954. pp. 75-84; AA.VV., J. Leclercq. L'homme, son oeuvre et ses amis, Tournai 1961, pp. 307-10 (bibliografia); L. GUISSARD, P. SAUVAGE, Jacques Leclercq 18911971. Un arbre en plein vent, Paris 1992.

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LECOMTE NOÜY, PIERRE. – Biologo Lecomte duDU Noüy francese, n. il 20 dic. 1883 a Parigi, m. il 22 sett. 1947 a New York. Consegue il dottorato in scienze all’università di Parigi; nel 1919 viene nominato membro associato dell’istituto Rockfeller di New York, nel 1925 diviene presidente di un comitato del National Research Council di Washington e nel 1927 torna in Francia come capo servizio dell’Institut Pasteur. Tra i suoi scritti: Surface equilibria of organic and biological colloids (New York 1926); Equilibres superficiels des solutions colloïdales (Paris 1929); Méthodes physiques en biologie et en médicine (Paris 1933); Biological time (London 1936); Le temps et la vie (Paris 1936, tr. it. di O.M. Olivo, Il tempo e la vita, Torino 1939); L’homme devant la science (Paris 1939); L’avenir de l’esprit (Paris 1941, tr. it. di A.C. Blanc, L’avvenire dello spirito, Torino 1948); Human destiny (New York 1947, tr. it. di B. Boffito Serra, L’uomo e il suo destino, Milano 1949); La dignité humaine (Paris 1949). Lecomte si è interessato degli aspetti fisico-chimici di numerosi fenomeni biologici: cicatrizzazione delle piaghe, immunità, proprietà del siero del sangue, equilibrio superficiale delle soluzioni colloidali; e ha elaborato in proposito originali tecniche sperimentali e strumenti, quali il tensiometro ad anello, per la misura delle tensioni superficiali. Nei suoi ultimi scritti di filosofia della scienza è giunto all’affermazione della irriducibilità dei fenomeni biologici e psicologici a pure formulazioni quantitative, mettendo l’accento sulla distinzione tra il tempo fisico e il tempo biologico, che è individuale e non uniforme, e rifacendosi espressamente alla concezione bergsoniana della durata, da lui considerata come un’ipotesi che non aveva ancora, in Bergson, la conferma sperimentale dei fatti biologici. F. Barone BIBL.: P. DE SAINT-SEINE, Le sillage de Pierre Lecomte, du Noüy, in «Études», (1947), pp. 374-381; A. BOUTARIC, Necrologio, in «Revista scientifica», 1 (1948); G. BOSIO, Il ritorno di uno scienziato alla causa del padre, in «Civiltà cattolica», 1 (1949), pp. 507-522; E. BESSIÈRES, La destinée humaine devant la science, Paris 1951 (con utilizzazione di inediti); M. LECOMTE DU NOÜY - P. LECOMTE, De l’agnosticisme à la foi, Paris 1955; M. LECOMTE DU NOÜY - P. LECOMTE, Road to Human Destiny. A Life of Pierre Lecomte, New York 1955; P. RONBLETTE, La preuve de Dieu par l’origine de la vie selon Pierre du Noüy, in «Collectanea Mechliniensia», (1955), pp. 677-690; H. KHATCHADOURIAN, Pro-

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teins and Probability : a Criticism of Mary Pierre Lecomte du Noüy’s Argument for Teleology Based on Some Probabilíty-Estimates, in «Philosophical and Phenomenological Research», (1955-56), pp. 223228; J. HUGUET, Rayonnement de Lecomte du Noüy, Paris 1957; H. MAVIT, Le sens de l’évolution d’après Lecomte du Noüy, in «Âge nouveau», (1959), pp. 85 ss.; H. JACK, A Recent Attempt to Prove God’s Existence, in «Philosophical and Phenomenological Research», 25 (1965), pp. 575-579.

sinteticamente il contenuto di un brano (sententia), lo spiega letteralmente (expositio litterae) e infine ne discute i problemi esegetici (dubia circa litteram). Quella straordinaria è tenuta da un baccelliere ed è rapida (cursoria) e introduttiva ad una ordinaria.

LECONTE, JOSEPH. – Evoluzionista americaLeconte no, n. a Liberty County nel 1823, m. a Yosemite Valley (California) nel 1901. Formatosi a Harvard sotto J.L.R. Agassiz, Leconte insegna all’università di California, dove ha tra i suoi allievi Royce. Noto geologo, in filosofia Leconte difende la teoria generale dell’evoluzione, intendendola non solo come un’ipotesi suggerita dalla geologia e dalla biologia, ma addirittura come un principio assiomatico, come legge della causazione nel tempo, ancora più certa della legge della causazione nello spazio, cioè della legge di gravitazione. L’evoluzione rappresenta l’individuazione dell’energia dalla materia bruta attraverso la vita, lo spirito e l’autocoscienza. Come l’individuazione della vita si compie nell’uomo, che è l’ideale di tutte le specie animali, così l’individuazione dello spirito si compie nel Cristo, che è l’ideale della specie umana, e nell’uomo rigenerato. Alla luce di questo «disegno generale» viene considerato giustificato e necessario ogni disegno particolare e anche il male. In Royce sono evidenti le tracce dell’idealismo «evoluzionista» di Leconte.

➨ METODO SCOLASTICO.

N. Bosco BIBL.: Religion and Science, New York 1874; Evolution: its Nature, its Evidence and its Relation to Religious Thought, New York 1888; The Conception of God, New York 1897; Autobiography, New York 1903. Su Leconte: C.P. PHILLIP, The Evolutionary Theology of Joseph Leconte, Ann Arbor 1981; L.D. STEPHENS, Joseph Leconte: Gentle Prophet of Evolution, Baton Rouge 1982.

LECTIO. – Una delle due forme (la seconda è Lectio la disputatio) del metodo didattico nelle università medievali. La lectio consiste nella lettura e nella spiegazione delle auctoritates. Essa può essere di due tipi. Quella ordinaria è un esame analitico di un testo, la cui conoscenza è prescritta dagli statuti, e viene tenuta da un maestro secondo una metodologia precisa: dopo un breve accessus ad auctorem, espone

G. Feltrin BIBL.: L. BIANCHI, Le università e il decollo scientifico dell’Occidente, in La filosofia nelle università: secoli XIII e XIV, Firenze 1997, pp. 25-62.

LE DANTEC, FÉLIX. – Biologo francese, n. il Le Dantec 16 genn. 1869 a Plougastel-Daoulas (Brest), m. il 7 giu. 1917 a Parigi. Compì studi di embriologia e fisiologia; dal 1885 al 1888 lavorò all’Institut Pasteur. Insegnò prima a Lione, e tenne poi, dal 1897, la cattedra di embriologia alla Sorbona. Lasciò importanti scritti scientifici e molte opere di carattere filosofico-divulgativo. Aderì al movimento dei neo-lamarckiani, in opposizione ai neo-darwinisti. Le sue opere filosofiche principali sono: L’individualité et l’erreur individualiste (Paris 1897); Le conflit (Paris 1901); Les lois naturelles (Paris 1902); L’unité dans l’être vivant (Paris 1902); Les limites du connaissable (Paris 1903); La lutte universelle (Paris 1906); L’athéisme (Paris 1907; tr. it. di P. Salusti, L’ateismo, Milano, 1925); Éléments de philosophie biologique, Paris 1906, tr. it. di G. Costantini, Elementi di filosofia biologica, Milano 1908. Tutta la sua opera di scienziato fu dedicata alla costruzione di una teoria chimica della vita, alla quale tentò poi di dare un significato filosofico. La vita viene considerata un puro fenomeno chimico, la cui origine è da ricercarsi nel campo dei fenomeni naturali del mondo inorganico: la biologia, con le sole leggi dell’assimilazione funzionale e della ereditarietà, è in grado di dare piena ragione della vita e della sua complessità; essa va posta perciò al centro di tutte le altre scienze. Di conseguenza, per Le Dantec la coscienza non è che la proprietà di essere al corrente della nostra struttura attuale, e indica una particolare congiuntura dei movimenti che si verificano nel nostro cervello in un dato momento, come la logica non è che la somma degli adattamenti comuni di tutta la specie tramandatisi per ereditarietà attraverso i secoli. Le Dantec stesso definì la propria concezione «ateismo scientifico» e ritenne che le credenze metafisiche morali e religiose non fossero altro che abitudini ereditarie, sorte 6275

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Le Doeuff dall’errore individuale, quando in qualche modo erano utili o per lo meno non nocive alla specie, sopravvissute poi alle condizioni da cui erano scaturite, ma destinate ad essere eliminate dal progresso scientifico. In campo morale fu determinista: l’idea del bene e del male non sarebbe che una deformazione sociale. A. Cardin BIBL.: E. RABAUD, Félix Le Dantec, in «Bulletin biologique», 25 (1917), pp. 73-78; C. PÉREZ, Félix Le Dantec, Paris 1918; G. BONNET, La morale de Félix Le Dantec, Poitiers 1930; A. ALIOTTA, Evoluzionismo e spiritualismo, Napoli 1948, pp. 72-81; R. HEIM, Félix Le Dantec, in Dictionary of Scientific Biography, vol. VIII, New York 1973, pp.124-125; A. DIARA, Sens et definition du mot espèce dans l’oeuvre biologique de Félix Le Dantec, in «Revue de Synthèse», 102 (1981), pp. 73-86.

LE DOEUFF, MICHÈLE. – N. in Francia nel Le Doeuff 1948. Agrégée in filosofia nel 1971, docteur nel 1980, è directrice de recherche al CNRS, maître de conférences alla ENS de Fontenay, tiene una cattedra di Studi femminili all’università di Ginevra. È una delle più note esponenti del pensiero femminista in ambito filosofico. Studiosa attenta del pensiero moderno, di cui denuncia i momenti di arresto occupati da un immaginario funzionale – in Th. More, F. Bacone, R. Descartes, ma anche in I. Kant – alla elaborazione, sul piano teorico, di un pensare esclusivamente maschile, e su quello politico, di progetti di asservimento di un sesso all’altro. Occorre, perciò, rifiutare la connotazione maschile del pensiero filosofico della modernità, rompere le paralizzanti incrostazioni che ne derivano sul piano socio-politico e anche accademico, recuperare la dimensione di un pensiero della differenza che lasci spazio alle alterità e ai movimenti di emancipazione. Queste idee, oltre che in numerosi saggi e in una intensa attività divulgativa, sono sostenute in: L’imaginaire philosophique, Paris 1980; L’étude et le rouet. Des femmes, de la philosophie, ivi 1989; Le sexe du savoir, ivi 1998. Occorre tuttavia ricordare che la pensatrice rifiuta le posizioni più oltranziste del pensiero femminista, quelle più riduttive sulla morte del soggetto filosofico, concedendo ancora uno spazio alla riflessione filosofica. C. Vinti BIBL.: J. NORDQUIST, French Feminist Theory, vol. II: Michèle Le Doeuff, Monique Wittig, Cathérine Clement. A Bibliography, Santa Cruz 1993; J. LECHTE, Fif-

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ty Key Contemporary Thinkers, London 1994; S. CRITCHLEY, A Companion to Continental Philosophy, Oxford 1998; K. OLIVER (a cura di), French Feminism Reader, New York 2000; AA.VV., Michèle Le Doeuff: Operative Philosophy and Imaginary Practice, Oxford 2001; M. KAIL, Michèle Le Doeuff. Une philosophie à l’œuvre, in «Temps modernes», 619 (2002); AA.VV., Autour de Michèle Le Doeuff, in «Australian Journal of French Studies» 40 (2003), 3, pp. 237-372.

LEE, Henry. – Dottore in teologia e fellow Lee dell’Emmanuel College di Cambridge, nel 1702 era parroco di Tichmarsh (Nortamptonshire). Contro Locke pubblicò l’Anti-scepticism: or, Notes upon each Chapter of Mr. Lock’s Essay Concerning Humane Understanding, London 1702 (da cui non è improbabile che Leibniz sia stato incoraggiato alla stesura dei Nouveaux essais). Inserendosi nella polemica antilockiana aperta da Stillingfleet, Lee esprime nella sua critica le preoccupazioni del tradizionalismo religioso per i possibili esiti scettici dell’empirismo lockiano e tenta di opporsi all’ideismo del Saggio, puntualmente contraddicendo ai punti essenziali (critica dell’innatismo, nozione di idea, idee semplici e complesse, sensazione e riflessione come fonti del conoscere, la conoscenza come rapporto tra idee ecc.). Locke rilevò l’inconsistenza delle critiche di Lee (e di Norris) in una lettera a Collins del 1704 (cfr. J. Locke, The Correspondance, a cura di E.S. de Beer, Oxford 1976- , vol. VII, pp. 654, 664, 684). V. Sainati BIBL.: R. WOOLHOUSE, Locke, Minneapolis 1983.

LEENHOF, FREDERIK VAN. – Teologo proteLeenhof stante olandese, n. a Middelburg nel 1647, m. a Zwolle nel 1712. Fu per due anni a Parigi, quale predicatore presso l’ambasciata alla corte di Luigi XIV. Tornò quindi in patria, ove dimorò a Bessen e a Zwolle. Fra le sue opere: De Keten der bybelsche Godgeleertheit (La Catena della teologia biblica), Middelburg 1678; De geest en conscientie des menschen in haar eigen wezen en werkingen eenvoudig verklaart (Lo spirito e la coscienza dell’uomo nel loro essere e operare esposti in modo semplice), Middelburg 16833; Der Hemel op aarden (Il cielo in terra), Zwolle 1703. Quest’ultimo scritto, nel quale van Leenhof polemizzava apertamente con quanti avevano una concezione cupa e melanconica del cristianesimo, sollevò scandalo: l’autore fu accusato di hatte-

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mismo e di spinozismo e subì censure ecclesiastiche. L. Cardin BIBL.: J. ISRAEL, Spinoza, King Salomon and Frederik van Leenhof’s Spinozistic Republicanism, in «Studia Spinozana», 11 (1995), pp. 303-317; J. ISRAEL, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity 1650-1750, Oxford 2001, pp. 406-435; M.R. WIELEMA, The March of the Libertines: Spinozists and the Dutch Reformed Church, Hilversum 2004.

LEEUW, GERARDUS VAN DER. – Teologo e stoLeeuw rico delle religioni olandese, n. all’Aia il 19 mar. 1890, m. a Utrecht il 18 nov. 1950. Studiò teologia a Leida, Berlino e Gottinga. Conseguito il dottorato a Leida nel 1916 con una tesi di egittologia, divenne pastore della chiesa riformata olandese. Dal 1918 fu professore di Storia della religione e Storia della dottrina di Dio (poi divenuta Fenomenologia della religione) all’università di Groninga, di cui fu rettore. Ministro dell’Educazione, dell’Arte e delle Scienze nel 1945-46, venne eletto presidente della International Association for the Study of History of Religions nel 1950. È tra i maggiori esponenti della Fenomenologia della religione. Il suo studio più noto è la Phänomenologie der Religion, Tübingen 1933 (tr. fr. di J. Marty, La religion dans son essence et ses manifestations: phénoménologie de la religion, Paris 1948; ed. ted. rivista, Tübingen 1956; tr. it. di V. Vacca, Fenomenologia della religione, Torino 1992), preceduta da una Inleiding (Introduzione) del 1924, rivista nel 1948. Le sue altre pubblicazioni principali riguardano il mondo classico (Goden en menschen in Hellas, Haarlem 1927), il rapporto fra arte e religione (Wegen en Grenzen: Studie over de verhouding van religie en kunst, Amsterdam 1932), le culture orali (De primitieve mensch en de religie: Anthropologische studie, Groningen 1937), l’antropologia religiosa (Der Mensch und die Religion. Ein anthropologischer Versuch, Basel 1941), la liturgia, i sacramenti. Van der Leeuw si colloca in maniera originale all’interno della tradizione olandese di studi rappresentata dai suoi maestri, Pierre Daniel Chantepie de la Saussaye e William Brede Kristensen (che avevano dedicato particolare attenzione al tema della classificazione delle forme religiose), richiamandosi agli studi di Wilhelm Dilthey intorno al metodo delle scienze dello spirito, alla psicologia di Franz Ernst Eduard Spranger, alle ricerche fenome-

Lefèvre d’Étaples nologiche di Edmund Husserl e di Max Scheler, sviluppate tenendo conto di Karl Jaspers, di Martin Heidegger, dell’analisi esistenziale di Ludwig Binswanger. Su di lui influisce anche la lettura di Rudolf Otto e di Nathan Söderblom. La fenomenologia, per van der Leeuw, non considera i problemi della storia e dell’origine della religione, ma ha per oggetto lo studio del fenomeno (ciò che si mostra), «un oggetto che si riferisce al soggetto, e un soggetto relativo all’oggetto» (Phänomenologie der Religion, tr. cit., p. 529). Il fenomeno è relativamente nascosto nell’esperienza; quindi si rivela progressivamente attraverso la comprensione, che giunge all’essenza dei fenomeni e ne visualizza le connessioni strutturali individuando «tipi ideali»; e infine diventa trasparente, dando luogo a quella che van der Leeuw chiama la «testimonianza». La religione, per la descrizione della quale è fondamentale l’uso della categoria di «mana» (potenza), risulta essere «l’esperienza vissuta di un limite, e d’altra parte [...] l’esperienza di essere afferrato» (ibi, p. 538). Il riferimento a Cristo come fonte primaria di significato mostra l’importanza che, nella prospettiva dello studioso, riveste la dimensione teologica. N. Spineto BIBL.: J. WAARDENBURG, Gerardus Van Der Leeuw as a Theologian and Phenomenologist, in J. WAARDENBURG, Reflections on the Study of Religion, Den Haag - Paris - New York 1978, pp. 186-253; H. HOFSTEE, Goden en Mensen. De godsdienstwetenschap van Gerardus van der Leeuw, 1890-1950, Kampen 1997.

LEFÈVRE D’ÉTAPLES, JACQUES (Faber StaLefèvre d’Étaples pulensis). – Umanista francese, filosofo e teologo, n. a Étaples, in Piccardia, tra il 1450 e il 1460, m. a Nérac nel 1536. Studia greco, matematica, astronomia, musica e teologia a Parigi; in seguito insegna filosofia al Collège Lemoine. Tra il 1491 e il 1492 è in Italia, a Padova, Venezia, Roma e Firenze; rientrato a Parigi, si adopera per la riforma dell’aristotelismo in senso umanistico. A partire dagli anni novanta cura le edizioni di numerosi testi di Aristotele, con introduzioni in forma di dialogo: una parafrasi sugli otto libri della Fisica, che nelle edizioni successive contiene anche un’introduzione alla Metafisica, poi i Magna moralia, l’Etica a Nicomaco, il De anima, i Meteorologica, le traduzioni boeziane della Logica e la Politica. È poi diffusore della pia philosophia 6277

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Lefort

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del Ficino (nel 1494 pubblica la versione ficiniana degli scritti ermetici); è editore (dal 1498) dello Pseudo-Dionigi, di Lullo, di Cusano e di alcuni padri della chiesa. Nel 1507 si trasferisce al monastero di Saint-Germaindes-Prés, ove si dedica all’esegesi scritturistica. Vicario generale a Meaux, nel 1525 è coinvolto dai fermenti riformatori e si rifugia a Strasburgo dopo la condanna delle sue traduzioni neotestamentarie; tuttavia, protetto da Francesco I di Blois, l’anno successivo è presso la famiglia reale; dal 1529 è alla corte di Margherita di Navarra a Nérac. La sua vasta attività di filologo e commentatore delle Scritture trova espressione nella Sainte Bible en françois (Anvers 1530). M. Laffranchi BIBL.: C.H. LOHR, Renaissance Latin Aristotle Commentaries, in «Renaissance Quarterly», 29 (1976), pp. 726-732; F.F. RICE, The «De magia naturali» of Jacques Lefèvre d’Étaples, in AA.VV., Philosophy and Humanism, Leiden 1976, pp. 9-29; G. BEDOUELLE, Lefèvre d’Étaples et l’intelligence des Écritures, Genève 1976; J.-F. PERNOT (a cura di), Jacques Lefèvre d’Étaples (1450?-1536), Paris 1995; G. BEDOUELLE, Lefèvre d’Étaples (Jacques) (1460-1536), in C. NATIVEL (a cura di), Centuriae latinae, Genève 1997, pp. 493-496; D.A. LINES, The Commentary Literature on Aristotle’s Nicomachean Ethics in Early Renaissance Italy: Preliminary Considerations, in «Traditio», 54 (1999), pp. 245-282 (pp. 257-267); L. BIANCHI, From Jacques Lefèvre d’Étaples to Giulio Landi: Uses of the Dialogue in Renaissance Aristotelism, in J. KRAYE et al. (a cura di), Humanism and Early Modern Philosophy, London 2000, pp. 41-58

LEFORT, CLAUDE DE LA MARINIÈRE. – FilosoLefort fo francese seguace di Malebranche, n. a Parigi nel 1693, m. ivi nel 1768. Pubblicò nel 1718 a Parigi l’opera De la science qui est en Dieu, la quale è insieme una volgarizzazione del pensiero di Malebranche e una polemica contro le dottrine di Leibniz, in particolare contro la teoria dell’armonia prestabilita. Red.

LE FRANÇOIS, LAURENT. – Controversista Le François francese, n. a Notre-Dame d’Arinthod (Besançon) nel 1698, m. a Parigi nel 1782. Entrò nella congregazione di San Lazzaro a Parigi nel 1715, ma ne uscì poco dopo. Opere principali: Preuves de la religion de Jésus-Christ contre les spinozistes et les déistes, Paris 1754 (di cui venne realizzata una traduzione italiana a Venezia nel 1768); Défense de la religion contre les difficultés 6278

des incrédules, ivi 1755; Réponse aux difficultés proposées contre la religion chrétienne par J.-J. Rousseau dans l’Émile et le Contract social, ivi 1765; Examen des faits qui servent de fondement à la religion chrétienne, précédé d’un court traité contre les athées, les matérialistes et les fatalistes, ivi 1767; Observations sur la philosophie de l’histoire et sur le dictionnaire philosophique portatif, avec des réponses à plusieurs difficultés, ivi 1770. Lasciò manoscritta la Confutazione del Sistema della Natura e del Libro dei tre impostori. In tutte queste opere Le François difende la religione cristiana contro il deismo, in uno stile non elegante ma non privo di calore. Parlando di lui, Voltaire scrisse nella sua Épître à d’Alembert: «L’abbé François écrit; le Léthé sur ses rives/reçoit avec plaisir ses feuilles fugitives». Q. Principe BIBL.: H. HURTER, Nomenclator literarius theologiae catholicae, Innsbruck 1903-19133, V, coll. 301-302.

LEGALITÀ (legality; Legalität, GesetzmässigLegalità keit; légalité; legalidad). – Il termine appartiene sia al linguaggio giuridico-politico, sia al linguaggio filosofico. Nel linguaggio giuridico-politico, esso indica la conformità del potere alla legge: un potere è considerato legale quando viene esercitato in conformità alla legge, illegale in caso contrario. In questo senso ampio, ha origini molto antiche: la contrapposizione tra governo delle leggi e governo degli uomini è, infatti, tema ricorrente nel pensiero filosofico-politico fin dall’antichità classica, da Aristotele in avanti. In senso più ristretto, dall’Ottocento in poi, esso, soprattutto nella locuzione «principio di legalità», fa riferimento al fondamento dello stato di diritto, in quanto stato, limitato dal diritto e sottoposto alle proprie leggi, in cui il diritto viene prodotto tramite leggi, ossia norme generali ed astratte, a garanzia della certezza, e viene applicato secondo le leggi, a salvaguardia dell’eguaglianza. Nel linguaggio filosofico, il termine interessa in relazione alla dottrina morale di Kant: è infatti usato da questo a significare la motivazione del volere dalla pura legge in quanto tale, dalla forma cioè della legge senza riferimento ad un suo contenuto determinato. La legalità (Gesetzmässigkeit, Legalität) è ciò che solo può servire di principio alla volontà, spogliata che si sia questa di tutti gli impulsi che in essa possono sorgere dalle conseguenze dell'adempimento di una legge determinata;

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ed il criterio distintivo della legalità in un'azione possibile è la non-contraddittorietà, che assicura l'universalità della massima dell'azione (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, I, in AA, vol. IV, Berlin 1911, pp. 402-403). Legalità tuttavia non è per Kant lo stesso che moralità: se la determinazione della volontà avviene conformemente alla legge morale, ma non per la legge, bensì per un sentimento sufficiente a determinare la volontà, l'azione avrà sì legalità ma non moralità. Ogni azione conforme alla legge, ma non compiuta per la legge, è buona soltanto secondo la lettera, non secondo lo spirito (KrV, parte I, l. I, cap. 3, in AA, vol. V, Berlin 1913, pp. 71-72). Il concetto del dovere richiede nell'azione l'accordo con la legge oggettivamente, ma esige, nella massima, il rispetto alla legge come solo modo di determinazione della volontà mediante la legge. In questo consiste la differenza fra la coscienza di aver agito conformemente al dovere (legalità) e quella di avere agito per il dovere (ibi, p. 81). G. Fassò - C. Faralli BIBL.: R. GUASTINI, Il giudice e la legge: lezioni di diritto costituzionale, Torino 1995; AA.VV., Principio di eguaglianza e principio di legalità nella pluralità degli ordinamenti giuridici, Padova 1999; L. TRIOLO, Legalismo e legalità, Torino 2000; M. MONETI CODIGNOLA - A. PINZANI, Diritto, politica e moralità in Kant, Milano 2004; C. LUZZATI, La politica della legalità, Bologna 2005. ➨ LECITO - ILLECITO; LEGGE; MORALITÀ; STATO; UGUAGLIANZA.

LEGAZ LACAMBRA, LUIS. – Filosofo del Legaz y YLacambra diritto, n. il 17 apr. 1906 a Saragozza, m. il 2 magg. 1980 a Madrid. Già professore di filosofia del diritto nell’università di Santiago de Compostela, della quale fu anche rettore, e in quella di Madrid. Come discepolo diretto del Kelsen, cominciò con uno studio sulla teoria pura del diritto, cercando di scindere il nucleo utilizzabile di esso – il rigore del metodo nella costruzione dei concetti giuridici e alcune impostazioni fondamentali (unità gerarchica dell’ordine giuridico, nozioni della personalità giuridica ecc.) – dai suoi presupposti filosofici (neokantismo e relativismo). La filosofia del diritto si può coltivare, secondo Legaz, come filosofia e come teoria della scienza giuridica, che è anche filosofica. Sotto il primo angolo visuale, si coltivano i temi tradizionali con criterio metafisico ed etico, mentre sotto il secondo punto di vista dominano le

Legaz y Lacambra indagini gnoseologiche (o, modernamente, ontologiche) e logiche. La filosofia del diritto è qualcosa di più della teoria della scienza giuridica, però non può disinteressarsi di questa. Il diritto è una forma di vita sociale, che incarna un sentimento di giustizia. Le norme sono strutture della vita sociale, in quanto alterano la vita umana, che di per sé tenderebbe a svolgersi solo nell’ambito dell’intimità personale. La realtà delle norme non è la realtà delle proposizioni normative che la scienza giuridica formula prendendole dalle prescrizioni autoritarie del legislatore o concettualizzando i comportamenti della pratica giudiziale e consuetudinaria. Sotto quest’aspetto, il diritto è sempre diritto positivo, però non è, ontologicamente, sempre diritto statale. Esiste un pluralismo di fonti giuridiche materiali, sebbene ogni gruppo sociale abbia una tendenza alla stabilità. Però, sebbene il diritto non sia sempre diritto statale, ciononostante lo stato realizza la perfezione attualizzatrice del diritto. Il diritto naturale è l’insieme dei criteri che giustificano, sotto il punto di vista di ciò che è retto e giusto, il diritto come realtà della vita umana. Questi criteri si incontrano nel diritto naturale cristiano. Vi sono anche i diritti naturali dell’uomo, i quali concernono il diritto all’intimità e il diritto ad essere considerato come persona giuridica. Da questi diritti derivano tutti gli altri. La dottrina di Legaz è personalista nel senso dell’umanesimo cristiano. Lo stato di diritto è lo stato che rispetta i valori della persona e, secondo Legaz, l’unica forma possibile dello stato etico, poiché il diritto naturale della persona è la base di ogni diritto positivo statuale. E. Galán y Gutiérrez BIBL.: Opere principali: Kelsen, Estudio crítico de la teoria pura del derecho y del Estado de la escuela de Viena, Barcelona 1933; Estudios de dottrina jurídica y social, Barcelona 1940; Introducción a la ciencia del derecho, Barcelona 1943; Horizontes del pensamiento jurídico, Barcelona 1947; Derecho y libertad, Barcelona 1952; La obligatoriedad jurídica, in «Anuario Filosófico. Derecho», Madrid 1953, p. 1 ss.; La función del derecho en la sociedad contemporánea, Barcelona 1955; Humanismo. Estado y derecho, Barcelona 1960; Filosofia del derecho, Barcelona 19612 (1953). Su Legaz y Lacambra: G. AMBROSETTI, Sulla concezione «sostanzialista» della scienza del diritto secondo L. Legaz y Lacambra (Spirito della filosofia classica e metodo giuridico), in «Justitia», 1958, pp. 130-148; AA.VV.,

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Legendre Estudios jurídico-sociales, Santiago de Compostela 1960, 2 voll.; AA.VV., Homenaje a Legaz y Lacambra, Madrid 1983, 2 voll.

LEGENDRE, ADRIEN-MARIE. – Matematico Legendre francese, n. il 18 sett. 1752 a Parigi, m. il 10 genn. 1833 ivi. Ancora giovanissimo attirò su di sé l’attenzione dell’Accademia delle Scienze di Parigi. Grazie all’appoggio di D’Alembert ottenne in seguito una cattedra di matematica alla scuola di guerra della capitale; passò poi ad altri importanti incarichi scientifici. Si occupò della teoria dei numeri in Théorie des nombres (Paris 1830). Per quanto non di rado si incontrino in Legendre risultati che, sebbene dedotti indipendentemente, risalgono nella loro prima formulazione ad altri matematici, va tuttavia riconosciuto a Legendre il merito di averli tratti dall’oblio e di averli presentati, perfezionati e coordinati, all’attenzione del mondo matematico. Nelle ricerche sul postulato delle parallele diede una sintesi dei risultati fino allora conseguiti, spianando la via alla costruzione delle geometrie non euclidee. M. Tarro-Ricca BIBL.: Traité des fonctions elliptiques et des intégrales euleriennes, avec des tables pour en faciliter le calcul numérique, Paris 1825-28, 3 voll.; Éléments de géometrie, Paris 1833; Réflexions sur différentes manières de démontrer la Théorie des parallèles ou le théorème sur la somme des trois angles d’un triangle, Paris 1833. Su Legendre: E. DE BEAUMONT, Eloge historique d’Adrien-Marie Legendre, in «Mémoires de l’Académie des Sciences», 32 (1864), pp. 37-44; I. GRATTANGUINNES, The Development of the Foundations of Mathematical Analysis from Euler to Riemann, Cambridge (Massachusetts) 1970, pp. 36-41; S. MARACCHIA, Legendre e l’incommensurabilità tra lato e diagonale di uno stesso quadrato, in «Archimede», 29 (1977), pp. 123-125; S.M. STIGLER, An Attack on Gauss, Published by Legendre in 1820, in «Historia Mathematica», 4 (1977), pp. 31-35; J. PINTZ, On Legendre’s Prime Number Formula, in «American Mathematical Monthly», 87 (1980), pp. 733-735; P. LAMANDÉ, Trois traités français de géométrie à l’orée de XIXe siècle: Legendre Peyrard et Lacroix, in «Physis», 30 (1993), pp. 243-302; J.B. PECOT, Le problème de l’ellipsoïde et l’analyse harmonique: la controverse entre Legendre et Laplace, in Analyse diophantienne et géométrie algébrique, Paris 1993, pp. 113-157.

LE GENDREdeDE SAINT AUBIN, GILBERTLe Gendre Saint Aubin CHARLES. – N. a St.-Aubin-sur-Loire nel 1688, m. a Parigi l’8 magg. 1746. 6280

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Di formazione giuridica, ricoprì alcune cariche amministrative, ritirandosi ben presto a una vita di studio. Accanto a indagini sulle origini della monarchia francese pubblicò un’opera a carattere polistorico: Traité de l’opinion, ou Mémoires pour servir à l’histoire de l’esprit humain (Paris 1733, 6 voll.), più volte riedita. Il titolo è tratto espressamente dalle Pensées di Pascal (ed. Brunschvicg, n. 82) e l’autore nella prefazione riporta parecchie sentenze di antichi filosofi (cui è aggiunto Cardano) sui limiti dell’umana conoscenza, rivendicando nel contempo l’originalità del proprio lavoro rispetto alle analoghe opere di G.F. Pico e di Cornelio Agrippa. In effetti il Traité si ispira, più che allo scetticismo, alla consapevolezza del carattere relativo di ogni dottrina: l’avvicendarsi di sempre nuove teorie scientifiche (il riferimento è alla fisica di Newton, che ha soppiantato quella di Cartesio, che a sua volta aveva reso antiquata la fisica di Aristotele) suona a conferma del «dominio dell’opinione», rendendo così meno netto lo stesso divario fra gli antichi e i moderni. L’opera è divisa in sei libri: l. I: Des belles lettres et de l’histoire; l. II: Histoire de la philosophie; l. III: Histoire de la métaphysique ; l. IV: Histoire des sciences qui ont des objets corporels; l. V: De la politique; l. VI: De la morale. G. Piaia BIBL.: G. PIAIA, Gilbert-Charles Le Gendre de Saint-Aubin (1688-1746), in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall’età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, pp. 187-198.

LEGGE (law; Gesetz; loi; ley). – Il termine latiLegge no lex è probabilmente connesso con la radice di lego, legere, equivalente al greco levgw, dire; è stata anche avanzata la proposta di far discendere il termine dalla radice indoeuropea legh, applicare, aderire, in relazione al carattere di positività, al fatto di esser posita, della legge; in alternativa, va ricordata la tesi (Tommaso, Summa theologiae, Ia-IIae, q. 90, art. 2) che fa discendere il termine da ligare, il quale meglio evidenzierebbe il carattere di vincolatività della medesima. Nell’accezione più generale legge indica una regolarità, che descrive un ordine fisico inviolabile da parte dell’uomo (in tal senso si parla appunto di «leggi naturalistiche»); in via derivata, e con evidente allusione all’auspicabilità del loro non dover essere mai violate, le «leggi etiche» o «giuridiche» fanno riferimento a un ordine umano, che viene regolato consuetudinariamente dalle pratiche

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sociali o formalmente da un legislatore. SOMMARIO: I. L’origine della legge. Dalla Grecia a Roma. - II. La legge di Dio. Israele e la Torah. III. Legge giuridica e legge naturalistica. - IV. I caratteri delle leggi prescrittive. I. L’ORIGINE DELLA LEGGE. DALLA GRECIA A ROMA. – La prima concezione greca della legge, risalente al periodo omerico e preomerico, si lega al concetto di qevmi", decreto di carattere sacrale, espressivo di una volontà superiore e obbligante, e costituivo di una sorta di codice sacro interno al gruppo gentilizio; è solo in un secondo momento che nell’orizzonte del diritto si affaccia l’idea di un novmo", una legge propriamente umana che nasce, inizialmente, dalla codificazione delle consuetudini. Con Anassimandro prima, e con Parmenide ed Eraclito poi, si percepisce una corrispondenza profonda, ontologica, tra l’ordine della natura e l’ordine giuridico della polis, con una trasposizione di quest’ultimo sul primo, attraverso la concezione mitico-metaforica di díke sovrana dell’essere, alla quale ogni ente deve conformarsi nell’ordine della temporalità. Con i sofisti il concetto di legge assume invece un carattere affatto «moderno»: da loro viene infatti problematizzato per la prima volta il possibile contrasto tra le leggi della natura e quelle della polis, e soprattutto si elabora l’idea di un fondamento puramente umano per il nómos. Peraltro all’interno della stessa sofistica non esiste un orientamento del tutto unitario: diversamente da Callicle, che nel Gorgia platonico si fa espressione di un giusnaturalismo naturalistico, in cui alle leggi naturali – riducibili al «diritto del più forte» – è riconosciuta una prevalenza sulle leggi civili (opera dei deboli), Trasimaco sostiene che la volontà del sovrano non è mai fallace, e «impone sempre ciò che per lui è meglio, ed è questo che deve fare chi gli è sottoposto» (Platone, Repubblica, I, 14, 341 a). Con la democrazia, e con la pubblicazione delle leggi, si afferma sempre più l’idea del valore intrinseco della legge, vero fondamento delle libertà dei cittadini e vincolo che, garantendo l’«isonomia», assicura l’equilibrio della polis e marca la differenza tra gli elleni e i persiani, sottoposti dal loro re a un dispotismo brutale. In questa prospettiva, Socrate afferma il precetto assoluto del mè antadikêin, cioè della necessità di rispettare in ogni caso la legge, anche se ingiusta, poiché è essa che permette all’individuo di vivere e svilupparsi, come una madre nei confronti del figlio; il cittadino, vi-

Legge vendo nella polis, ha accettato tacitamente le leggi di questa, ne ha tratto beneficio e ha contratto con esse un obbligo dal quale non può, coerentemente, sciogliersi. Il pensiero platonico, rispetto al tema in esame, conosce diverse scansioni. Nella Repubblica Platone ipotizza addirittura la possibilità di fare a meno delle leggi, posto che nello stato che egli progetta di esse non vi sarebbe alcun bisogno: da un lato i cittadini sarebbero naturalmente spinti ad agire conformemente al bene, in virtù dell’educazione loro impartita dalla polis e dall’altra non servirebbe alcuna tutela contro il potere pubblico, dato che esso concretizzerebbe storicamente il vero e il bene, e costituirebbe la realizzazione istituzionale della giustizia. È con il Politico che la legge torna ad avere un ruolo primario: la migliore forma di governo è difatti quella che assicura la sovranità della legge, contro il dispotismo di uno solo o della stessa maggioranza, pur se il valore della legge resta limitato alla sfera dell’utile, di ciò che serve alla sopravvivenza dello stato, e non a ciò che è buono in sé. Tanto che, nelle Leggi, Platone ribadisce l’utilità del diritto sul piano pedagogico, restando allo stato il potere di intervenire – legislativamente – in ogni ambito della vita dei cittadini: alla legge è dunque attribuito il compito di educare l’individuo, orientandolo verso un principio razionale, quell’orthòs lógos che è fondamento del diritto medesimo. Con Aristotele, infine, la legge si lega all’etica; più propriamente, la legge è l’etica munita di forza. La legge perde insomma il suo valore pedagogico per assumerne uno tecnico-politico: da un lato essa caratterizza ogni forma di governo buona e non dispotica, dall’altro essa è il mezzo per orientare i cittadini alla virtù, indipendentemente dalla nobiltà della loro natura (Etica nicomachea, X, 9, 1179 b 7-1180 a 24). A Roma, con Cicerone si afferma sul piano teoretico la concezione stoica della legge: torna dunque il motivo già visto della sostanziale unità di tutto l’universo, dell’ordine naturale e sociale, e si identifica nella legge il principio assoluto che domina ogni cosa, la ragione che sovrasta l’uomo e la natura. La legge non è più un mero comando, ma è la natura medesima nel suo logos profondo, insita nella ragione umana come parte dell’universo. Ma il riferimento allo stoicismo non è certo quanto di più significativo abbia espresso, in proposito, la cultura romana; ciò che è davvero 6281

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Legge significativo, per contro, è l’elaborazione progressiva di un’accezione propriamente tecnico-giuridica della legge. Per larga parte della storia romana, difatti, il termine lex indica specificamente la deliberazione delle assemblee popolari repubblicane, e ha un’estensione semantica tale da includere il concetto di norma, di obbligo, di statuizione cogente. Essa si pone sempre come innovazione rispetto allo ius preesistente, espressione della capacità normativa della popolazione, alla cui formazione concorre sì il magistrato, ma che ciononostante resta – in via affatto prevalente – uno iussum populi aut plebis (si veda la definizione di Gaio, Institutiones, I, 3: «lex est quod populus iubet atque constituit. Plebiscitum est quod plebs iubet atque constituit»). II. LA LEGGE DI DIO. ISRAELE E LA TORAH. – Nella prospettiva dell’ebraismo, il concetto di legge può essere avvicinato – pur se non ridotto – a quello di Torah (da jrh, «mostrare la via, indicare»); termine, questo, che può essere tradotto con «indicazione», «istruzione» e che si sostanzia nelle prescrizioni che Israele ha ricevuto da Dio con un atto di elezione e per la propria salvezza. Peraltro, la Torah stessa non va ridotta a un limitato corpus normativo, potendosi intendere con essa l’intera Scrittura e, più di tutto, dovendosi considerare la rilevanza della Torah orale; costituita, quest’ultima, dal sedimentarsi di una tradizione esegetica condotta da coloro che, nel tempo, sono apparsi i più idonei a svolgere un tale compito di interpretazione e chiarificazione della legge sinaitica. La legge è comunque, per Israele, non soltanto prescrizione divina, ma è nello stesso tempo il segno del patto con Dio, del dialogo che il signore sceglie di instaurare col suo popolo; ed è dunque manifestazione di grazia e di salvezza, è «in se stessa» grazia e «luogo» della rivelazione di Dio al popolo. Essa, rendendo esplicita la volontà di Dio, richiede all’uomo una santificazione del suo quotidiano, e proprio perciò lo sviluppo di un’interpretazione che ne renda percepibile caso per caso il senso effettivo. Ancora, la legge assume per Israele un significato eminentemente politico-istituzionale; al di là della sua portata normativa, essa istituisce una comunità donandole uno statuto comune: «solo in quanto popolo di Yhwh, scrive Buber, Israele può nascere ed esistere». III. LEGGE GIURIDICA E LEGGE NATURALISTICA. – Prima di soffermarci più specificamente sul sen6282

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so e sulla portata del concetto di legge, dobbiamo operare una più precisa distinzione tra il significato giuridico-morale e quello scientifico-naturalistico del termine. Nell’antichità la distinzione non è netta. La regolarità degli eventi naturali (e soprattutto di quelli astronomici) veniva spiegata nella medesima prospettiva «deontica» applicata all’agire umano, che veniva comunque ricondotto all’interno di un ordine cosmico, in cui tutto ciò che accade, deve accadere per necessità ineluttabile: di qui il rilievo posseduto nelle culture classiche dall’idea del «fato» o del «destino» e dalla «divinazione», quale forma di sapere chiamata a leggere anticipatamente i dettami. La tradizione ebraica e soprattutto quella cristiana introducono una frattura tra l’ordine fisico del cosmo, retto da leggi inderogabili, che chiedono solo di essere «scoperte» e l’ordine morale dell’esperienza umana, soggetto al libero arbitrio, retto da leggi etiche, religiose e giuridiche, che chiedono, oltre che di essere conosciute, di essere «ubbidite». Questa distinzione sembrerebbe essere entrata in crisi con l’avvento della scienza moderna, e con l’accettazione del carattere probabilistico o convenzionalistico delle leggi scientifiche; in realtà, l’inderogabilità di tali leggi è ancora un dato acquisito nella coscienza scientifica, semplicemente è mutato il paradigma di riferimento. Le leggi scientifiche, difatti, anche se non vengono più intese come l’espressione di una necessità assoluta dell’ordine cosmico, sono tuttavia percepite come espressione di una regolarità nel corso degli eventi altrettanto ferrea: tanto che, se una legge scientifica viene contraddetta, è semplicemente perché è inadeguata, in quel contesto, a spiegare la regolarità del fenomeno, la quale ciononostante resta tale; e richiede, semplicemente, di essere spiegata mediante una legge diversa. Le leggi scientifiche sono per definizione inviolabili, pur avendo perso, nella scienza moderna, il carattere di imperativi cui la realtà naturale «deve» conformarsi; hanno semmai assunto quello di «strutture» conoscitive del reale, finalizzate a rendere manifesta la regolarità e l’ordine del mondo. Per ciò che riguarda le caratteristiche delle leggi naturalistiche esse, in prima approssimazione, non sono del tutto differenti da quelle delle leggi giuridiche, riducendosi alla «generalità» e alla «necessità». In estrema sintesi, con la prima si richiede che il campo di rilevanza

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dell’asserzione sia «ontologicamente» infinito, nel senso che il rapporto espresso sia indipendente dalle condizioni accidentali, espressivo di una regolarità astratta dall’infinita molteplicità degli accadimenti specifici che lo caratterizzano concretamente. Il secondo requisito postula, in prima istanza, che la legge esprima un rapporto tra eventi non meramente accidentale. Il fatto è che il modo in cui vengono costruite le classi di eventi cui riferire l’asserzione, astraendo dalle loro irripetibili caratteristiche specifiche, dipende in misura notevole dal modo in cui intenzioniamo il mondo, ovvero da un’opzione ermeneutica di fondo che orienta l’opera di classificazione e selezione delle caratteristiche rilevanti; è questo il caso, ad esempio, delle leggi mediche sull’insorgenza di alcune malattie, le quali si fondano su una selezione dei dati rilevanti sulla base di un giudizio statistico, sperimentale ecc. Tale giudizio può però essere smentito dall’adozione di un nuovo paradigma epistemologico di riferimento – ed è una «rivoluzione scientifica» – o semplicemente può non esser condiviso in ragione di una diversa selezione e ricostruzione della classe di dati significativi – ed è ciò che giustifica una teoria concorrente – ovvero ancora può essere oggetto di una più generale e difforme articolazione del reale – ed è ciò che spiega la variopinta molteplicità di medicine «alternative». È dunque, il requisito della necessità, tale da lasciar spazio a molti dubbi. A fronte di queste pur sintetiche osservazioni, il nodo cruciale per comprendere la differenza tra leggi naturalistiche e leggi giuridiche non può essere rintracciato semplicemente nella maggiore o minore vincolatività, nel carattere necessario delle une e contingente delle altre; più convincente appare invece la prospettiva kantiana, per la quale le leggi giuridiche appartengono alla sfera della prassi, ed esprimono una volizione sul valore secondo una prospettiva oggettiva, sulla base di una determinazione della ragione pura, mentre le leggi naturali sono atti interni alla sfera epistemologica, espressive di una regolarità fenomenica. In questa prospettiva, si può affermare che entrambe le leggi, in quanto tali, esprimono un rapporto fra universale e particolare secondo un principio di regolarità, ma mentre le leggi naturalistiche si limitano a descrivere tale ordine, le leggi giuridiche (o morali) lo pongono

Legge come fine della volizione, e ad esso orientano l’azione individuale. Va segnalato, infine, l’uso del medesimo termine legge in settori come l’economia, la psicologia, la demografia, e in generale nelle scienze sociali; ogni scienza, infatti, cerca di organizzare i dati di realtà per prevedere, spiegare o comprendere i fenomeni che ne costituiscono l’oggetto principale, e tende naturalmente alla formulazione di leggi. In questa prospettiva, vanno peraltro distinte leggi di tipo «statistico», le quali organizzano i rapporti di causalità tra fenomeni sulla base di un’analisi empirica dei dati significativi, e di una conseguente previsione; e leggi di tipo «metaempirico», le quali strutturano la causalità del reale prescindendo dall’analisi di dati empirici, ma sulla base di una più generale articolazione di esso e – per così dire – di una metafisica di riferimento: un esempio può essere costituito dalla legge (storica) dell’«eterno ritorno» o da quella (religiosa) della «reincarnazione». IV. I CARATTERI DELLE LEGGI PRESCRITTIVE. – Volendo definire più specificamente il concetto di legge in senso prescrittivo, nel tentativo di offrirne una definizione più comprensiva possibile, deve essere evidenziata un’alternativa davvero radicale, la quale ha percorso pressoché l’intera storia del pensiero filosofico occidentale. Specificamente, si tratta dell’alternativa tra legge come «imperativo», e legge come «regola di ragione». In verità, comune a entrambe le prospettive è l’idea della legge come «prescrizione», come imposizione di un dover essere; e tuttavia, nella prima è predominante l’aspetto volontaristico, in virtù del quale la legge si identifica col voluto di colui che l’ha posta, nella seconda è in primo piano la razionalità intrinseca dell’ordine prescritto. Così, nel primo senso si orientano teorie tra loro diversissime, dal volontarismo medievale di Duns Scoto e Ockham, all’assolutismo hobbesiano, al giusnaturalismo di Pufendorf, fino ad arrivare al pensiero di Rousseau, al positivismo, a Carl Schmitt. Se difatti in Duns e Ockham la legge non è che pura espressione della volontà (divina, e sovrana in generale), in modo del tutto indipendente dal suo portato di razionalità, e in Hobbes è il sovrano che stabilisce, nelle leggi civili, il giusto e l’ingiusto, non essendo limitato né dalla ragione – che «in fatto» non è tenuto a osservare, obbligandolo solo in coscienza – né dalle leggi naturali – che anzi deve «determinare» e rendere coat6283

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Legge tive –, in Rousseau essa trova la sua fonte nella sola volontà generale, come statuizione di tutto il popolo su se stesso, e trova in sé la propria giustificazione; ancora, la concezione formalistica del diritto accolta dal positivismo riposa su una visione della norma come comando positivo o negativo, e precisamente come imperativo ipotetico il cui unico fondamento, da un punto di vista sostanziale, è riconosciuto nella volontà del legislatore. Notissima, infine, è la dottrina schmittiana, nella cui prospettiva la legge si riduce ultimativamente alla «decisione politica» che la sostanzia, la quale non trova il suo valore nella giustizia o nella razionalità ma nella volontà sovrana di cui è espressione. Sul fronte opposto si trovano tutte quelle dottrine che mettono in maggior rilievo il portato di razionalità intrinseco alla legge, pur non negandone allo stesso tempo la coattività e il carattere imperativo. In questa prospettiva, ad esempio, si muove Tommaso; legge è per l’Aquinate regola e misura dell’agire, secondo un principio di ragione, ovvero imprimendo l’orientamento verso lo scopo (che, nel caso delle leggi civili, è il bene comune): e se è vero che «ratio habet vim movendi a voluntate, ex hoc enim quod aliquis vult finem, ratio imperat de his quae sunt ad finem», è anche vero che «voluntas de his quae imperantur, ad hoc quod legis rationem habeat, oportet quod sit aliqua ratione regulata» (Summa theologiae, IaIIae, q. 90, art. 1). La prospettiva kantiana, pur lontana dal tomismo, riserva alla ragione un ruolo parimenti importante nella definizione del concetto di legge; questa si identifica con il principio oggettivo del volere, il cui valore dipende esclusivamente dal principio della volontà in base al quale è stata posta. La legge pratica è dunque un imperativo categorico, il cui contenuto è determinato sulla base di un principio a priori e in accordo con la ragion pratica universale; è dunque non una legislazione della volontà, ma del «volere di ogni essere ragionevole in quanto volontà universalmente legislatrice» (I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Riga 1785, tr. it. di P. Chiodi, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, Torino 1970, p. 90). Ancora, e proseguendo con un pensatore lontanissimo dai due precedenti, persino in Montesquieu può trovarsi una forte accentuazione del ruolo della ragione in rapporto alla legge; se da un lato questa è definita, con prevalente riguardo 6284

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alle leggi naturali, come rapporto necessario derivante dalla natura delle cose, espressione delle condizioni di natura della vita sociale, dall’altro le leggi civili sono precisamente il frutto di una ragione che, movendo dalla storia e dalle condizioni naturali dei popoli, sappia intendere i dettami di entrambe e adattarli alle necessità dell’uomo. Per ciò che attiene più specificamente ai caratteri della legge, questi vengono individuati tradizionalmente nella «generalità», nell’«astrattezza», nell’«imperatività» e nella «novità». In sintesi, può intendersi per generalità il riferimento della norma a una categoria di soggetti o di status, e mai dunque a un singolo individuo, mentre per astrattezza il fatto che l’oggetto di essa è un facere (o un non facere) tipizzato. Entrambi questi caratteri, presenti tanto nelle leggi giuridiche che in quelle morali e religiose, permettono alla legge di produrre una situazione di «eguaglianza formale» tra i soggetti cui si rivolge, intesa come eguale trattamento di individui appartenenti a una medesima categoria; non assicurano, tuttavia, l’eguaglianza «di fronte» alla legge, posto che la generalità e l’astrattezza sono logicamente compatibili tanto con le differenze di classe e di ceto, quanto con la parziale applicazione, in giudizio, della medesima legge. Generalità e astrattezza distinguono inoltre la legge dal comando personale del sovrano, potenzialmente caratterizzato dall’arbitrio del «sic volo sic iubeo», e fonda il tópos della superiorità del governo della legge sul governo degli uomini (secondo l’alternativa rex sub lege o lex sub rege). Il requisito dell’imperatività implica che la legge si risolva sostanzialmente in un comando per i destinatari; già per i giuristi romani la legge – secondo la definizione di Modestino (Digesto, I, 3, 7) – implica l’imperare e il vetare, oltre al permittere e al punire, e tale visione rimane sostanzialmente immutata finché resta indiscussa una concezione «verticale» del potere; in questo senso, a una visione del potere qual era quella che, da Machiavelli a Hobbes, a Hegel, fino a Weber e Kelsen, aveva segnato l’affermazione dello stato moderno, corrispondevano l’assoluta supremazia della legge tra le fonti del diritto e, per conseguenza, lo sviluppo delle grandi codificazioni. Al contrario, la moltiplicazione e la frammentazione dei gruppi di potere e delle rappresentanze di interessi collettivi, con il passaggio a una visione «orizzontale» del potere stesso, ha segnato il decli-

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no della legge come fonte suprema del diritto, e la conseguente – e ben nota – tendenza alla «decodificazione» del diritto. Il requisito della novità, infine, esprime l’esigenza che l’introduzione di una legge in un corpus normativo dato comporti delle modifiche di questo, con un’originalità tale da non essere ridotta a mera esecuzione di norme precedenti. F. Macioce BIBL.: trattazioni sul concetto di legge si possono trovare nella maggior parte dei testi e dei trattati di filosofia giuridica e politica; tra le opere a carattere monografico segnaliamo, nella dottrina italiana, W. CESARINI SFORZA, Lezioni di teoria generale del diritto, Padova 1929; S. FODERARO, Il concetto di legge, Milano 1948; L. BAGOLINI, Considerazioni intorno al concetto di legge nel pensiero di B. Croce, in «Studi senesi», 62 (1950), pp. 242-262; F. CARNELUTTI, Teoria generale del diritto, Roma 1951; G. FASSÒ, Legge naturalistica e legge pratica, in AA.VV., Studi parmensi, vol. III, Milano 1953, pp. 277-317; S. COTTA, Il concetto di legge nella Summa theologiae di San Tommaso d’Aquino, Torino 1955; N. BOBBIO, Teoria della norma giuridica, Torino 1958; P. PIOVANI, Ex legislatione philosophia, Torino 1960; G. DEL VECCHIO, Lo stato moderno e i suoi problemi, Torino 1967; V. FROSINI, La struttura del diritto, Milano 1968; AA.VV., Coscienza, legge, autorità, Brescia 1970; V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Padova 1970; N. IRTI, L’età della decodificazione, Milano 1979; G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Torino 1992; N. BOBBIO, Teoria generale del diritto, Torino 1993; V. FROSINI, La lettera e lo spirito della legge, Milano 1998; G. FASSÒ, La legge della ragione, Milano 1999; N. IRTI, Norma e luoghi: problemi di geo-diritto, Roma 2001.

LEGGE Legge di HumeDI HUME: V. LOGICA DEL DISCORSO ETICO. LEGGE LOGICA. – Una legge logica proposiLegge logica zionale incondizionata è uno schema che dà luogo a un enunciato logicamente vero per ogni sua esemplificazione – tramite sostituzione uniforme. Una legge logica inferenziale incondizionata è uno schema inferenziale che dà luogo a una inferenza logicamente valida per ogni sua esemplificazione. Accanto a leggi logiche incondizionate, ci sono anche leggi logiche condizionate. Una legge logica proposizionale condizionata è uno schema costituito da uno o più schemi enunciativi antecedenti e uno schema enunciativo conseguente, capace di preservare la verità logica per ogni sua esemplificazione – tramite sostituzione uniforme – cioè, se le esemplificazioni dello schema o degli schemi antecedenti sono

Legge logica logicamente veri, allora anche le esemplificazioni dello schema conseguente sono logicamente vere. Una legge logica inferenziale condizionata è uno schema consistente di uno o più schemi inferenziali antecedenti e uno schema inferenziale conseguente, capace di preservare la validità logica per ogni esemplificazione (cioè, se le esemplificazioni dello schema o degli schemi antecedenti sono logicamente validi, allora anche le esemplificazioni dello schema conseguente sono tali). Esempi per i quattro tipi di legge logica descritti sono i seguenti (tutti sono presi dalla logica dei predicati classica): Legge logica proposizionale incondizionata: ¬∃x∀y(R[y, x] ≡ ¬R[y, y]). Una esemplificazione formale di questa legge: ¬∃x∀y[(y ∋ x) ≡ ¬(y ∋ y)] . Una esemplificazione informale della medesima legge: «Non esiste nessuno che ama esattamente tutti coloro che non amano se stessi». Legge logica inferenziale incondizionata: ∀x(¬A[x] ⊃ ¬B[x], B[c] → A[c]. Una esemplificazione formale della legge: ∀x(¬F(x) ⊃ ¬F ’(x)), F ’(c) → F(c). Una esemplificazione informale della legge: «Tutti coloro che non sono mortali non sono uomini. Socrate è un uomo. Dunque: Socrate è mortale». Legge logica proposizionale condizionata: A(c)  ∀xA(x) (dove c non occorre in: ∀xA[x] ). Legge logica inferenziale condizionata: C, A(c) → B  C, ∃xA(x) → B (dove c non occorre in C, né in B né in ∃xA[x]). I vari tipi di legge logica non mancano di rapporti reciproci: (1) P1,..., Pn → C è una legge logica inferenziale incondizionata se e solo se (P1 ∧ ... ∧ Pn) ⊂ C è una legge logica proposizionale incondizionata. (2) P11,..., P1n → C1,..., Pk1,..., Pkm → Ck  P(k + 1)1,..., P(k + 1)q → Ck + 1 è una legge logica inferenziale condizionata se e solo se (P11 ∧ ... ∧ P1n ) ⊃ C1,...,(Pk1 ∧ ... ∧ Pkm ) ⊃ Ck  (P(k + 1)1 ∧ ... ∧ P(k + 1)q ) ⊃ Ck + 1 è una legge logica proposizionale condizionata. (3) Se P1,..., Pn → C è una legge logica inferenziale incondizionata, allora P1,..., Pn  C è una legge logica proposizionale condizionata. 6285

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Legge morale L’inverso di (3) non è vero, dal momento che, per esempio, A(c)  ∀xA(x) (dove c non occorre in ∀xA[x] ) è una legge logica proposizionale condizionata, ma A(c) → ∀xA(x) (dove c non occorre in ∀xA[x] ) non è, naturalmente, una legge logica inferenziale incondizionata. In un sistema logico proposizionale che è formulato attraverso schemi d’assioma e schemi di regole e che è adeguato per la nozione rilevante di verità logica, vale a dire corretto e completo rispetto a questa nozione, gli schemi d’assioma devono essere leggi logiche proposizionali incondizionate e gli schemi di regola devono essere leggi logiche proposizionali condizionate. Le leggi del sistema sono, inoltre, scelte in modo tale che tutte le proposizioni del linguaggio scelto che sono logicamente vere nel senso rilevante possano essere generate sulla base di queste leggi: o in quanto sono una esemplificazione di una legge incondizionata (uno schema d’assioma), o in quanto sono il conseguente di una esemplificazione di una legge condizionata (uno schema di regola), l’antecedente del quale è già stato generato sulla base delle leggi del sistema d’assiomi. Un sistema d’assiomi corretto e completo della logica classica dei predicati senza identità, per esempio, consiste nelle seguenti quattro leggi logiche proposizionali incondizionate come schemi d’assioma: A ⊃ (B ⊃ A), (A ⊃ [B ⊃ C]) ⊃ ([A ⊃ B] ⊃ [A ⊃ C]), (¬A ⊃ ¬B) ⊃ (B ⊃ A), ∀xA(x) → A(c), e le seguenti due leggi logiche proposizionali co n d i z i o n a t e c om e sc h e m i d i r e g ol a : A, A ⊃ B  B , e B ⊃ A(c)  B ⊃ ∀xA(x) (dove c non occorre in B né in ∀xA[X]). È da notare che la legge logica inferenziale incondizionata A, A ⊃ B → B (il cosiddetto modus ponens) corrisponde a (e implica) la legge logica proposizionale condizionata A, A ⊃ B  B, mentre non esiste un’analoga legge logica inferenziale incondizionata (risultante dalla sostituzione di « » con «→») per la legge logica proposizionale condizionata B ⊃ A(c)  B ⊃ ∀xA(x) (ove c non occorre in B né in ∀xA[X]]). Questa differenza si descrive, dal punto di vista di teoria della dimostrazione, dicendo che l’ultima legge condizionata è semplicemente una regola di dimostrazione del sistema assiomatico, laddove la prima legge condizionata è una regola 6286

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di deduzione del sistema assiomatico che è di applicazione più vasta: essa è applicabile anche in deduzioni che non sono dimostrazioni, ma usano assunzioni che non sono assiomi. U. Meixner

LEGGE MORALE (moralisches Gesetz). – SeLegge morale condo la definizione kantiana, mentre la massima è un principio soggettivo dell’agire, la legge morale è un principio oggettivo, valido per tutti i soggetti razionali. Il carattere della legge morale è costituito dalla possibilità di universalizzare la massima, il principio che determina la volontà del soggetto agente. «Massima – afferma Kant – è il principio soggettivo del volere; il principio (ossia quello che servirebbe anche oggettivamente da principio pratico a tutti gli esseri ragionevoli se la ragione avesse pieno potere sulla facoltà di desiderare) è la legge pratica» (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. in I. Kant, Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Torino 1970, p. 57). La legge morale è essenzialmente una legge che il soggetto razionale dà a se stesso, è quindi un principio di autodeterminazione. Dal momento che la volontà può essere determinata non soltanto dalla ragione, ma anche dalle inclinazioni e dagli impulsi, il principio dell’agire assume la forma di un comando o di un imperativo che può essere o ipotetico o categorico. Il principio morale si esprime in un imperativo categorico, in un dovere che si impone con evidenza alla coscienza e suscita un immediato rispetto da parte della volontà soggettiva. «Gli imperativi ipotetici presentano la necessità pratica di un’azione possibile quale mezzo per raggiungere qualche altra cosa che si vuole (oppure che è possibile volere). L’imperativo categorico è quello che rappresenta un’azione come necessaria per se stessa, senza relazione con nessun altro fine, come necessaria oggettivamente» (ibi, pp. 71-72). La formula più rilevante in cui si esprime la legge morale è: «Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale» (ibi, p. 79). La verifica della moralità di un’azione dipende quindi dalla possibilità di universalizzarla (test di universalizzazione). In vista di questo giudizio su comportamenti concreti, empirici, Kant introduce una «tipica» dei concetti morali, ovvero «lo schema di una legge», «il tipo della legge morale», un modello analogico, secondo la formula indicata magistralmente nella Critica del-

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la ragione pratica, per cui l’applicazione della legge di una pura ragion pratica esige che si faccia riferimento esemplificativo al tipo o al modello della legge naturale che è presente alla coscienza nella sua esperienza più immediata: «La regola del giudizio sottostante alle leggi della ragion pura pratica è la seguente: domandati se l’azione che intendi compiere potrebbe essere considerata come possibile mediante la tua volontà, se essa dovesse aver luogo secondo una legge della natura di cui tu facessi parte [...]. Se la massima dell’azione non è tale da sostenere il confronto con la forma di una legge naturale in generale, è moralmente impossibile. Anche l’intelletto più comune giudica a questo modo, perché la legge naturale fa sempre da fondamento a tutti i suoi giudizi più abituali, anche a quelli empirici. Di conseguenza, esso l’ha sempre alla mano; ma quando deve esser giudicata la causalità in base a libertà, fa di quella legge naturale semplicemente un tipo di legge della libertà, perché se non avesse sotto mano qualcosa che valga da esempio nel caso empirico, non potrebbe applicare, usandola, la legge di una ragion pura pratica» (I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it. in I. Kant, Scritti morali, cit., pp. 210-211). Come ha ben chiarito Fiche, l’oggetto della legge morale, l’azione o il risultato dell’azione in cui essa intende vedere realizzato il proprio fine, è «la ragione in generale», vale a dire la comunità degli esseri razionali costituenti l’io puro, dal quale si distingue l’io empirico, l’io individuale, la persona singola, che riconosce nella legge morale la presenza a sé della ragione pura pratica, della ideale comunità degli esseri razionali. Rispetto alla legge morale l’io individuale, la persona «è quello a cui essa si dirige e a cui essa affida la sua esecuzione» (cfr. J.G. Fichte, Il sistema della dottrina morale, tr. it. di R. Cantoni, Firenze 1957, pp. 295-296). Il fine della legge morale non coincide con la mia persona, ma la trascende, perché il suo fine è la comunità di tutti gli esseri razionali. Il fine a cui io devo tendere è l’altro essere razionale considerato appunto come fine in sé e rispetto al quale io devo sacrificare ogni fine semplicemente individuale. Altrettanto io devo essere considerato come fine in sé dall’altro, se egli agisce secondo la legge morale. «Ogni singolo – scrive Fichte – ha il compito, dinnanzi alla sua coscienza, di promuovere il raggiungimento del fine ultimo della ragione; l’intera comunità degli esseri razio-

Legge morale nali dipende dalla sua cura e dalle sue azioni ed egli soltanto non dipende da nulla. Ognuno diviene Dio, per quanto può, col dovuto riguardo cioè alla libertà di tutti gli individui. Ognuno, proprio per il fatto che la sua individualità tutta quanta svanisce e s’annulla, diviene pura rappresentazione della legge morale nel mondo sensibile; puro e autentico io, mediante libera scelta e autodeterminazione» (ibi, p. 297). Solo testimoniando nel mondo, nell’esperienza concreta, la propria natura razionale, è possibile vincere l’egoismo, il male radicale, e realizzarsi come uomini. «La vera virtù consiste nell’agire; nell’agire per la comunità in cui si dimentica completamente se stessi» (ibi, p. 298). L’idea del carattere trascendente della legge morale rispetto alla volontà libera, alla libertà soggettiva viene messo in rilievo in modo particolare da Maurice Blondel, in una prospettiva che intende integrare il punto di vista dell’individualità e quello dell’universalità e della società. La legge morale «esige dalla libertà più di quanto questa libertà non sia ancora in noi, un primo sforzo che assegna come oggetto alla nostra vita reale l’infinita virtualità del soggetto». Essendo la libertà essenzialmente slancio, trascendimento, la volontà libera vuole sempre qualcosa di altro da ciò che il soggetto è già, e avverte perciò un dovere, un’obbligazione incondizionata. La norma «diventa il fine trascendente della nostra libertà attuale, di questa libertà che non può considerarsi immediatamente come un assoluto, poiché in rapporto all’oggetto ideale su cui proietta tutto ciò che può e vuole essere, il soggetto non è più ai propri occhi che un divenire imperfetto» (M. Blondel, L’azione, tr. it. a cura di S. Sorrentino, Cinisello Balsamo 1993, p. 228). La libertà, vale a dire la natura più propria dell’uomo, si mantiene tale solo in quanto continuamente oltrepassa se stessa, ossia la propria attuale configurazione soggettiva. Il desiderio di essere ciò che non è ancora si traduce nel dovere morale che impone l’azione come sua realizzazione: «concependo la legge morale sorge la necessità di produrla nell’azione, per conoscerla e determinarla nella prassi» (ibi, p. 237). E l’azione non si restringe all’ambito della libertà individuale, della persona, ma nella sua essenza espansiva tende a farsi da azione individuale azione sociale. «Agendo, agiamo per tutti e in tutti. È questa la ragione per cui tutti noi siamo portati a massimizzare la nostra condotta [...]. Si riesce ad agire vo6287

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Legge naturale lontariamente nell’universo solo perché l’azione deve avere una portata virtualmente universale» (op. cit., pp. 326-327). G. Cantillo BIBL.: P. PAGANI, Schematismo trascendentale. Etica e intersoggettività in Kant, in AA.VV., Etica trascendentale e intersoggettività, a c. di C. Vigna, Milano 2002, pp. 305 -71; A. Masullo, Filosofia morale, Roma 2005, cap. IV. ➨ IMPERATIVO; INTERSOGGETTIVITÀ; LIBERTÀ; LOGICA DEL DISCORSO ETICO; MASSIMA.

LEGGE NATURALE. – Le leggi naturali, o Legge naturale leggi di natura, sono determinati stati di cose. In modo derivato, un enunciato che esprime uno stato di cose che è una legge naturale è anch’esso chiamato «legge naturale» o «legge di natura». L’espressione «legge naturale» può essere intesa in senso normativo o in un senso puramente descrittivo. Nel primo senso, una legge naturale è una legge normativa indipendente dalla volontà umana; nel secondo senso, una legge naturale rappresenta un fatto naturale (e quindi non normativo) universale e necessario. Qui si presta attenzione alle leggi naturali nel secondo senso. Poiché la natura è usualmente identificata con la natura fisica, le leggi naturali sono usualmente identificate con le leggi fisiche (nel senso lato di «leggi fisiche» secondo cui sono leggi fisiche non solo le leggi della fisica ma anche le leggi della chimica e della biologia). Talvolta le leggi psicofisiche sono considerate leggi di natura aggiuntive rispetto alle leggi fisiche. L’universalità è una caratteristica del concetto di legge naturale usualmente non controverso. Al contrario è stato (esplicitamente o implicitamente) negato dai filosofi empiristi nella tradizione di Hume (come Carl Gustav Hempel) che la necessità sia una caratteristica del concetto di legge naturale. Comunque, che le leggi naturali siano in un certo senso necessarie, in quanto leggi naturali, si può vedere nella maniera seguente. Le proposizioni «ogni palla esistente di Uranio 235 ha un diametro minore di 1 km» e «ogni palla esistente d’oro ha un diametro minore di 1 km» sono entrambe proposizioni generali vere di forma sintattica identica. Ciononostante, la prima è una legge di natura, la seconda no. Perché? La risposta è che la prima è in un certo senso necessariamente vera, cioè essa esprime uno stato di cose che in un certo senso ha luogo necessa6288

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riamente, mentre la seconda non esprime uno stato di cose che ha luogo necessariamente in quel senso o in un qualche senso (proprio) di necessità. Di conseguenza, il condizionale controfattuale «se la luna fosse una palla di uranio 235, allora essa avrebbe un diametro minore di un km» che corrisponde alla prima proposizione può essere validamente inferita da questa, mentre il condizionale controfattuale che corrisponde alla seconda proposizione, «se la luna fosse una palla d’oro, allora avrebbe un diametro minore di 1 km» non può essere validamente inferita da quella. La necessità in un certo senso – necessità nomologica – sembra inseparabile dal concetto di legge naturale e la chiarificazione della natura di tale necessità è il problema filosofico centrale connesso con le leggi di natura. L’universalità, d’altro lato, può apparire – almeno a prima vista – separabile dal concetto di legge naturale. Si consideri, ad esempio, la seguente asserzione: «c = 299.792.458 m/s». Questa asserzione, che stabilisce la misura della velocità della luce nel vuoto, è considerata al giorno d’oggi una legge di natura; ma essa ha le sembianze di una proposizione singolare, per cui sembra esprimere uno stato di cose singolare e non generale. Pertanto, pare, dopo tutto, convincente che le leggi naturali non debbano esprimere stati di cose universali. Tuttavia, una analisi più approfondita della proposizione «c = 299.792.458 m/s», che tenga conto del suo significato inteso, e non semplicemente della sua forma sintattica di superficie, rivela che essa è intesa come una proposizione generale – una proposizione generale che è logicamente equivalente alla seguente proposizione esplicitamente generale: «a ogni luogo spazio-temporale x: la misura in x della velocità della luce nel vuoto = 299.792.458 m/s.» (contrariamente a «c = 299.792.458 m/s», la proposizione «la temperatura al centro di Milano a mezzogiorno del 23 giugno 2003 = 33° Celsius» è veramente una proposizione singolare, esprimente uno stato di cose singolare). Comunque, la universalità delle leggi di natura può essere messa in dubbio anche per un’altra ragione – più forte – che presenteremo tra poco. Non soltanto l’universalità ma anche la verità può sembrare separabile dal concetto di legge di natura. È stato argomentato con forza da Nancy Cartwright che proposizioni generali vere in senso stretto sono senza utilità per la spie-

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gazione scientifica e che le proposizioni generali utili per la spiegazione scientifica che sono generalmente chiamate «leggi naturali» non sono in senso stretto vere. Ciò suggerisce l’idea di cancellare la verità come condizione necessaria per la legge di natura. La verità tuttavia appare come una caratteristica del concetto di legge naturale addirittura più centrale di quello di necessità. Si deve anche ricordare che le leggi di natura sono primariamente stati di cose e solo secondariamente proposizioni. Per questo, la indubbia difficoltà di formulare proposizioni che siano leggi naturali vere e utili non è di per sé indicativa della scarsità o addirittura della nonesistenza di leggi naturali in quanto fatti universali e necessari; è indicativa della difficoltà di esprimere stati di cose che siano leggi naturali tali che le proposizioni generate nel tentativo di esprimerle siano insieme utili e vere. Inoltre, proposizioni vere esprimenti leggi naturali si possono certamente trovare: «ogni palla esistente di uranio 235 ha un diametro minore di 1 km» e «per ogni punto spazio-temporale esistente x: la misura in x della velocità della luce nel vuoto = 299.792.458 m/s» esprimono entrambe una regolarità senza eccezioni – una regolarità priva di eccezioni che è un fatto (in certo senso, necessario). Per questo le due proposizioni citate sono proposizioni vere esprimenti leggi naturali e, pertanto, esse sono (in modo derivato) leggi naturali (di cui almeno una è altamente utile). Se le due proposizioni non fossero vere, esse non sarebbero leggi di natura. Ma si è argomentato che, per quanto le leggi naturali, considerate come enunciati, debbano essere vere, esse non esprimono fatti che sono regolarità senza eccezione. È stato argomentato (da David Armstrong e altri) che leggi naturali proposizionali – paradigmaticamente rappresentate da certe asserzioni di fisica matematica, molto diverse dalle asserzioni generali che i filosofi usualmente adducono come esempi di legge di natura – esprimono fatti consistenti in una relazione di necessitazione nomica tra proprietà. Questi fatti singolari di secondo ordine, è stato argomentato, non inducono necessariamente fatti generali di primo ordine (per quanto usualmente lo facciano): vale a dire, l’aver luogo delle corrispondenti regolarità senza eccezioni. Se un fatto di secondo ordine esprimente una relazione di necessitazione tra proprietà induce (in qualche modo) l’accadere

Legge naturale della corrispondente regolarità senza eccezioni, allora si può dire che la legge naturale proposizionale esprimente tale fatto di secondo ordine implica – ma certamente non che esprime – la corrispondente regolarità fattuale senza eccezioni. Nell’approccio descritto nel paragrafo precedente, la connessione tra universalità e nomologicità risulta piuttosto vaga. In quanto stati di cose, le leggi naturali sono considerate singolari e di secondo ordine, non generali e di primo ordine. E, sempre in conformità al medesimo approccio, le regolarità senza eccezioni risultanti sono considerate meri effetti (per così dire) delle leggi naturali, non costitutive di loro stesse. Può essere considerato un vantaggio della prospettiva descritta sulle leggi di natura la circostanza che essa rende ragione del fatto che l’asserzione di una legge naturale frequentemente non viene considerata falsificata anche se la corrispondente asserzione di regolarità senza eccezioni è stata falsificata. Ma certamente ci sono anche altri modi di rendere ragione di tale fatto. Per esempio, sostenendo che l’asserzione della legge naturale vada intesa tacitamente in modo opportunamente ristretto e non ritenendo, al contrario, che tale restrizione convenga all’asserzione della regolarità senza eccezioni che si ritiene le corrisponda. La concezione ortodossa è tuttavia che le leggi naturali sono regolarità naturali senza eccezioni, qualsiasi sia il modo in cui le leggi sono formulate (esse possono essere espresse attraverso proposizioni che sembrano o – addirittura – che sono singolari). Devono essere fatte alcune distinzioni. Si deve distinguere tra leggi naturali deterministiche e probabilistiche (cioè, non deterministiche). Entrambi i tipi di legge naturale, quelle deterministiche e quelle probabilistiche, sono regolarità necessarie prive di eccezioni. Ma le leggi deterministiche non riguardano le probabilità, mentre le leggi naturali probabilistiche sono essenzialmente e irreducibilmente su probabilità. Per questo, nella formulazione precisa di una legge probabilistica, si dovrà fare uso – esplicitamente o implicitamente (vale a dire, in forma nascosta in una espressione definita) della seguente forma di espressione: «la probabilità (oggettiva) (in t, per lo stato di cose) che A è r». Al contrario, quando si formula una 6289

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Legge naturale legge naturale deterministica, non c’è alcuna necessità di impiegare tale forma espressiva. Si deve anche fare distinzione tra leggi naturali modali e non modali. Leggi naturali probabilistiche appartengono al grande gruppo di leggi naturali modali, per il fatto che le leggi naturali non modali si possono formulare senza impiegare concetti probabilistici, disposizionali, causali o altri concetti in senso lato modali. Il problema concettuale generale sollevato dalle leggi di natura – il problema della chiarificazione del tipo di necessità in esse coinvolto – è ancora più grave per le leggi naturali modali. Poiché la necessità nomologica è inseparabile dal concetto di legge naturale, ogni legge naturale (proposizionale) è, per così dire, preceduta da un operatore invisibile di necessità nomologica. In altre parole: se L è una legge di natura, allora «L ≡ è nomologicamente necessario che L» è una verità concettuale. Per le leggi naturali non modali, l’operatore non manifesto posto all’inizio dell’enunciato costituisce il loro unico contatto con la modalità. Nelle leggi naturali modali, invece, altre modalità (altre forme di necessità: necessità graduale parziale, necessità condizionale, necessità causale e le corrispondenti forme di possibilità, definibili sulla base di tali necessità) sono essenzialmente coinvolte, ognuna delle quali reca in sé l’esigenza della relativa chiarificazione. Qual è la natura della necessità nomologica? È chiaro che la necessità nomologica non è la necessità concettuale o logica (in senso lato): per quanto una legge naturale sia nomologicamente necessaria, è logicamente contingente e di conseguenza non è necessaria concettualmente. Per il resto, la necessità nomologica non è un concetto chiaro. Il concetto di necessità nomologica si può trattare come prioritario rispetto alla nozione di legge naturale. Questa prospettiva ha il vantaggio che la necessità nomologica può essere usata per definire il concetto di legge naturale: x è una legge naturale =def. x è una regolarità senza eccezioni nomologicamente necessaria. Ma se il concetto di necessità nomologica viene considerato primario rispetto alla nozione di legge naturale, o si rimane con l’impegno di spiegare la nozione di necessità nomologica indipendentemente da quella di legge naturale o si deve accettare la nozione di necessità nomologica come primitiva. Entrambe le opzioni sono poco attraenti. 6290

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Il concetto di necessità nomologica può essere trattato come concettualmente secondario rispetto alla nozione di legge naturale. Questa prospettiva ha il vantaggio che il concetto di legge naturale può essere usato per definire quello di necessità nomologica: x è nomologicamente necessaria =def. x è conseguenza logica della congiunzione delle leggi di natura. Ma, anche qui, se la nozione di legge naturale è prioritaria rispetto a quella di necessità nomologica, o rimane l’impegno di spiegare il concetto di legge naturale indipendentemente da quello di necessità nomologica o si deve accettare la nozione di legge naturale come primitiva. Di nuovo, entrambe queste opzioni non sono attraenti, per quanto forse più attraenti delle due opzioni interne alla prospettiva precedentemente considerata nella trattazione del concetto di necessità nomologica. Le leggi di natura sono regolarità che hanno luogo senza eccezioni – questo è chiaro (per quanto certamente non indiscutibile). Ma non tutte le regolarità che hanno luogo senza eccezioni sono leggi di natura – anche questo è chiaro. Qual è la differenza specifica che distingue le leggi di natura dal resto delle regolarità che hanno luogo senza eccezioni, considerando il fatto che la necessità nomologica non può essere impiegata allo scopo di stabilire tale differenza (dal momento che essa deve essere definita solo dopo, sulla base del concetto di legge naturale)? La risposta a questa domanda è lungi dall’essere chiara. Sembra che non ci sia alcuna differenza specifica per le leggi naturali, che sia di natura puramente oggettiva, capace di distinguere queste dal resto delle regolarità che hanno luogo senza eccezioni. Sembra che le leggi di natura possano essere distinte in modo intelligibile, non misterioso, dalle altre regolarità che hanno luogo senza eccezioni solo facendo appello, almeno implicitamente, a criteri epistemici antropocentrici (si veda, per esempio, il concetto di legge naturale difeso da David Lewis). Se le esigenze epistemiche degli esseri umani servono per selezionare le leggi naturali dalle regolarità che hanno luogo senza eccezione, questo deve avere delle conseguenze profonde sul carattere di oggettività di tutte le asserzioni che fanno uso del concetto di legge di natura – e di queste asserzioni ce ne sono molte (riguardanti il rapporto causa-effetto e la necessità naturale, i generi naturali, la spiegazione, la conferma, la riduzione ecc.).

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D’altro lato, si può insistere sull’oggettività delle leggi di natura (e quindi anche della necessità a cui danno origine) al prezzo di rendere il concetto di legge di natura indefinibile, un concetto primitivo ineliminabile. Questa mossa è in accordo con il carattere di totale oggettività, con cui sono generalmente intese le asserzioni che fanno uso del concetto di legge di natura. Ma quali ragioni noi abbiamo di credere in leggi oggettive della natura che siano oggettivamente, anche se in maniera del tutto misteriosa, separate da altre regolarità occorrenti senza eccezioni o addirittura da tutte (come vorrebbe la prospettiva sulle leggi di natura di Armstrong)? Bas van Frassen ha argomentato che noi non abbiamo nessuna buona ragione in generale per credere in leggi di natura che siano concepite in questo modo. Una posizione scettica sulle leggi di natura non sembra, comunque, accettabile alla maggior parte dei filosofi. U. Meixner BIBL.: C.G. HEMPEL, Aspects of Scientific Explanation, New York 1965; D. LEWIS, Counterfactuals, Oxford 1973; F. DRETSKE, Laws of Nature, in «Philosophy of Science», 44 (1977), pp. 248-268; M. TOOLEY, The Nature of Laws, in «Canadian Journal of Philosophy», 4 (1977), pp. 667-698; D. ARMSTRONG, What is a Law of Nature?, Cambridge 1983; N. CARTWRIGHT, How the Laws of Physics Lie, Oxford 1983; C.G. HEMPEL, Aspetti della spiegazione scientifica, Introduzione di M.C. GALAVOTTI, Milano 1986; B.C. VAN FRAASSEN, Laws and Symmetry, Oxford 1989.

LEGGI ECONOMICHE (economic laws, lois Leggi economiche économiques, wirtschaftliche Gestetze, leyes económicas). – L’aspirazione a individuare leggi economiche aventi un grado di generalità e un carattere di necessità simili a quelli tradizionalmente riconosciuti alle cosiddette «leggi» delle scienze naturali è forse destinata, malgrado tutti gli insuccessi registrati in passato, a non venire mai definitivamente abbandonata, non foss’altro per il prestigio che – in caso di successo – ne deriverebbe per le discipline economiche. È però generalmente riconosciuto (cfr., p. es., S. Zamagni, Sullo statuto epistemologico delle leggi economiche, in AA.VV., Epistemologia ed economia, a cura di M.C. Galavotti e G. Gambetta, Bologna 1988, pp. 89-109) che al soddisfacimento di tale aspirazione si frappongono vari impedimenti di non poco conto, ovvero: 1) l’eterogeneità dei comportamenti individuali e delle loro determinanti dovrebbe potersi ri-

Leggi economiche conciliare con l’osservazione di esiti sistematici suscettibili di rappresentazione tramite enunciati di relazioni generali e permanenti fra le variabili rilevanti; 2) la costanza di tali relazioni – quand’anche queste potessero essere identificate – sarebbe inevitabilmente minacciata dal fatto che la ricerca economica contribuisce essa stessa a modificare il grado di conoscenza dei meccanismi economici da parte dei suoi stessi oggetti di studio; 3) l’impossibilità di condurre esperimenti controllati se non per una piccola parte di fenomeni economici e solitamente a livello microeconomico; 4) la costante presenza, negli enunciati teorici, di clausole ceteris paribus spesso non completamente specificate, contenenti ipotesi il cui realismo descrittivo è stato spesso criticato e la cui giustificazione spesso ricorre a considerazioni di carattere aprioristico e/o normativo. Se i primi tre motivi della difficoltà di individuare leggi economiche dotate dei requisiti di generalità e persistenza concernono la possibilità di identificare relazioni necessarie e costanti nel tempo, l’ultima riguarda piuttosto la possibilità di identificare relazioni sufficientemente generali dal punto di vista del loro ambito di applicabilità. Le clausole ceteris paribus contengono infatti ipotesi, o «assunzioni», di diversa natura. Secondo una classificazione proposta da Alan Musgrave («Unreal Assumptions» in Economic Theory: The F-Twist Untwisted, in «Kyklos», 34, 1981, pp. 377-387) possono essere individuati tre diversi tipi di ipotesi: 1) quelle relative ai fattori trascurabili, o assunzioni di «negligibilità», le quali asseriscono che gli effetti di alcuni fattori sul fenomeno studiato, che si potrebbero anche supporre rilevanti, sono al contrario trascurabili; 2) quelle relative al dominio della teoria, le quali specificano il corretto ambito di applicazione della teoria stessa, ovvero l’insieme di eventi che tale teoria si propone di spiegare; 3) quelle che permettono di semplificare lo sviluppo dell’apparato logico-matematico della teoria, consentendo di seguire il metodo delle approssimazioni successive (assunzioni «euristiche»). Secondo l’autore, vi è la possibilità che un’ipotesi inizialmente riferita ai fattori trascurabili, a fronte di critiche e/o a confutazioni nel senso di Popper, venga surrettiziamente trasformata in un’ipotesi relativa al dominio di una teoria, e infine in una ancor meno impegnativa assunzione euristica. Ma trasformare un’assunzione di negligibilità in una di domi6291

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Leggi economiche nio riduce comunque la generalità di qualsiasi proposizione teorica, mentre l’esplicito riconoscimento della natura euristica delle principali assunzioni sarebbe ancor più problematico: le ipotesi euristiche, in quanto tali, pongono infatti il problema di ricercare ipotesi ausiliarie in grado di rendere la teoria in questione suscettibile di controllo empirico, ipotesi che nella maggior parte dei casi non potrebbero che assumere la forma di assunzioni di negligibilità, così che il problema verrebbe a riproporsi in modo del tutto circolare. A ben vedere, se per leggi economiche si intendesse una proposizione così generale da poter servire da «legge di copertura» secondo il modello di spiegazione nomologico-deduttivo applicato secondo i canoni dell’individualismo metodologico, l’unico principio cui verrebbe riconosciuta valenza veramente universale sarebbe il cosiddetto «principio di razionalità». Secondo tale approccio, noto anche come «determinismo situazionale» (cfr. S.J. Latsis, Situational Determinism in Economics, in «British Journal for the Philosophy of Science», 23, 1972, pp. 207-245), i modelli (micro) economici fornirebbero «spiegazioni» articolate come segue:

Secondo Karl Popper «l’adozione del principio di razionalità può essere considerata quale 6292

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conseguenza di un postulato metodologico, il quale non riveste il ruolo di una spiegazione empirica o di un’ipotesi assoggettabile a controllo. In questo campo, infatti, le spiegazioni o ipotesi empiriche sono proprio i nostri diversi modelli, le nostre molteplici analisi situazionali. Sono queste ultime che possono rivelarsi più o meno empiricamente adeguate, che possono essere discusse e criticate e che possono in certi casi essere anche assoggettate a controllo. È la nostra analisi di concrete situazioni empiriche che può fallire rispetto a qualche test empirico, permettendoci così di imparare dai nostri errori» (cfr. K.R. Popper, Models, Instruments, and Truths. The Status of the Rationality Principle in Social Science, in The Myth of the Framework, New York 1994, pp.130-184, tr. it. Modelli, strumenti e verità. Lo status del principio di razionalità nelle scienze sociali, in Il mito della cornice, Bologna 1994, pp. 207-245, qui p. 210). In tal modo, se da un lato si abbandona ogni pretesa di difendere il principio di razionalità sul piano dell’adeguatezza descrittiva, dall’altro se ne riconosce l’utilità sul piano della costruzione dei modelli nel tentativo, evidente, di evitare le scomode giustificazioni aprioriste ma riconoscendo al tempo stesso – nel solco della tradizione milliana – quegli elementi di approssimazione e di inesattezza connessi all’adozione del principio di razionalità. In altri termini, se dopo aver cercato di specificare nel modo più rigoroso possibile la particolare situazione oggetto di analisi, non introducessimo il principio di un comportamento adeguato alla situazione da parte degli agenti, dovremmo conseguentemente ammettere anche la possibilità di comportamenti non adeguati. Ma questi ultimi, per loro stessa natura, potrebbero essere così numerosi e di natura così eterogenea da rendere impossibile ricavare dai nostri modelli un qualsiasi risultato minimamente significativo. A. Salanti BIBL.: C.P. KINDLEBERGER, Economic Laws and Economic History, Cambridge 1997; S.J. LATSIS, The Role and Status of the Rationality Principle in the Social Sciences, in AA.VV., Epistemology, Methodology, and the Social Sciences, a cura di R.S. Cohen e M.W. Wartowsky, Dordrecht 1983, pp. 123-151; TH.W. ADORNO et al., Der Positivismusstreit in der Deutschen Soziologie, München 199315 (1969), tr. it. Dialettica e positivismo in sociologia, Torino 19773 (vedi i due contributi di K.R. POPPER); A. ROSENBERG, Microeconomic Laws: A Philosophical Analysis, Pittsburg 1976; A. ROSEN-

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Economics – Mathematical Politics or Science of Diminishing Returns, Chicago 1992; S. ZAMAGNI, Economic Laws, in J. EATWELL - M.MILGATE - P. NEWMAN (a cura di), The New Palgrave. A Dictionary of Economics, London 1987, vol. II, pp. 52-54. ➨ APRIORISMO; CETERIS PARIBUS; ECONOMIA SPERIMENTALE; INDIVIDUALISMO METODOLOGICO; METODOLOGIA ECONOMICA; MODELLI, IN ECONOMIA; MODELLO NOMOLOGICO-DEDUTTIVO; MODELLO POPPER-HEMPEL; MICROECONOMIA; REALISMO DELLE ASSUNZIONI; SCELTA RAZIONALE, TEORIA DELLA; SPIEGAZIONE SCIENTIFICA.

LEGGI FISICHE (physical laws; Naturgesetze; Leggi fisiche lois naturelles [physiques]; leyes físicas). – In tutte le forme culturali, anche le più primitive, è presente la convinzione che alcuni fenomeni si verifichino con regolarità (il succedersi delle stagioni, i cicli vegetali, il movimento dei corpi celesti ecc.), che il mondo in cui viviamo non è un completo caos, che esiste un ordine cosmico che si manifesta sotto forma di leggi, di regolarità. Le leggi dicono ciò che deve accadere per necessità inevitabile e ciò che non deve accadere, se non per miracolo. In tutte le cosmologie antiche il concetto di legge esprime sia la necessità naturale sia gli obblighi, è sia descrittivo che prescrittivo, integra ordine naturale e ordine assiologico: la natura deve obbedire alle leggi naturali come gli uomini devono obbedire a quelle imposte dagli dèi o dai governanti. Nella cultura greca il concetto di legge di natura è derivato da quello di norma di comportamento, che può avere origini divine o umane. Anassimandro fu il primo a trasferire la nozione di divkh dal mondo umano alla natura, interpretando il legame nel nascere e nel perire delle cose come la legge che presiede a una contesa giudiziaria. I naturalisti ionici e, soprattutto, Democrito iniziarono a separare l’idea di legge naturale da quella di norma di comportamento sostenendo una visione della natura conforme a leggi che non possono essere violate e che, dunque, non contemplano alcun castigo. Esse, semplicemente, sono. In campo politico si continuerà comunque a parlare di «leggi di natura» con riferimento a norme di comportamento insite nella natura umana. La scuola di Mileto introdusse svariati principi metodologici nello studio delle leggi che regolano il mondo fisico, in primo luogo l’assioma secondo cui le spiegazioni dei fenomeni naturali non debbano ricorrere a elementi sovran-

Leggi fisiche naturali. Nella loro ricerca di un’unica sostanza fisica, una materia primordiale che sta alla base di ogni fenomeno (acqua, aria, o l’indeterminato) essi applicarono il principio secondo cui il massimo di fenomeni dovrebbe essere spiegato con il minimo delle ipotesi. I milesi legarono l’idea della materia primordiale con la legge di conservazione della materia, cui associarono un principio di conservazione del moto, moto che era accettato come esistente fin dall’antichità, un fatto basilare che non richiede spiegazioni. In questo modo la ricerca fisica si orientava alla ricerca di principi di costanza al di sotto del mutamento. Nella sua cosmologia Anassimandro fece per la prima volta uso di un modello meccanico per la spiegazione di un fenomeno fisico, come le apparenze dei corpi celesti, che costituì un enorme passo avanti rispetto alle allegorie e alle fantasie mitologiche sino ad allora in uso. Se il moto era per i naturalisti ionici un concetto primordiale, Empedocle distinse nel movimento la materia (elemento passivo che viene mosso) dalla forza (elemento attivo che muove). Si rese conto che è impossibile concepire il cosmo come controllato da un’unica forza e introdusse un principio attrattivo e uno repulsivo («amore» e «odio»), che predominano alternativamente causando il moto secondo un procedere necessario. La costruzione della prima formulazione di una legge fisica espressa matematicamente fu opera dei pitagorici. Costoro compirono varie esperienze con strumenti musicali con corde di diversa lunghezza e scoprirono tre accordi, l’ottava, la quinta e la quarta, cui corrispondevano rapporti tra le lunghezze delle corde pari, rispettivamente, a 1:2, 2:3 e 3:4. Si accorsero che con questi numeri si possono costruire due fondamentali proporzioni matematiche, la proporzione aritmetica e quella geometrica. Questa scoperta faceva dell’armonia musicale un’armonia numerica. Essi la estesero ai cieli, concependo il cosmo come un sistema ordinato esprimibile in rapporti numerici, e ipotizzarono che esistessero dei rapporti armonici anche tra i movimenti dei pianeti, i quali producono una musica celeste. L’idea che l’ordine del mondo sia di tipo matematico implicava l’attribuzione ai numeri della capacità di mettere a nudo uno strato della realtà molto più profondo di quello di cui parlavano le teorie della materia primordiale degli ionici, un mondo i cui componenti, appunto i numeri, non si 6293

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Leggi fisiche identificano con alcun elemento percepibile, sia esso aria, o acqua ecc. Gli elementi del mondo sono numeri e la legalità del mondo è una armonia matematica. Gli atomisti più di qualsiasi altra corrente di pensiero nell’antichità sottolinearono che la natura è nella sua generalità conforme a leggi, in particolare che vale una legge di conservazione della materia, increata ed eterna. La dottrina era completata con un secondo assioma, che afferma l’esistenza del vuoto, completamente separato dalla materia, che è considerato un requisito necessario al movimento. L’esistenza di un movimento perenne era accettata come un dato di fatto, di cui non occorreva indagare la causa. L’immagine del mondo composto da infiniti frammenti di materia continuamente in moto spinse gli atomisti (Lucrezio) a compiere il solo tentativo noto del pensiero antico di affrontare la determinazione di leggi di fenomeni ove sono implicati un numero molto grande di individui, leggi che oggi noi definiremmo statistiche. Essi per primi adottarono sistematicamente il metodo di inferire, con ampio impiego del ragionamento analogico, le proprietà del visibile dalle proprietà di un mondo invisibile, elaborando una visione materialistica dei fenomeni del vivente fondata sulla distinzione tra proprietà oggettive della materia (forma, dimensioni, movimenti ecc. degli atomi) e quelle che registriamo con i sensi. In questo gli atomisti rappresentarono una eccezione che li avvicina alla scienza moderna: questa, come gli atomisti, tende ad applicare all’uomo le leggi dell’universo fisico, allo scopo di spiegare il vivente mediante la fisica, mentre i greci si sforzavano invece di estendere le leggi dell’organismo umano a tutto il cosmo e consideravano quest’ultimo come un essere vivente. Le metafore biologiche, come «il respiro del cosmo» degli stoici, non sono soltanto allegorie, vogliono veramente dire che il cosmo ha fondamentalmente leggi organiche. Così è negli ionici, in Empedocle, Anassagora, negli stoici, ma anche nella teoria delle sfere dei pitagorici, in Platone, nel finalismo aristotelico. Qualsiasi tendenza che si allontanò dalla concezione del cosmo come un corpo vivente, come la teoria atomistica, non riuscì a mettere profonde radici nel mondo antico. La visione democritea fu duramente criticata da Platone, il quale, pur non negando l’esistenza in natura dell’operare di una legalità 6294

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necessitante, sostenne che le spiegazioni dei fenomeni che si fondano su tale idea non possano mettere in luce le vere cause dei fenomeni stessi, che sono di natura ideale, finalistica, e risiedono, in ultima analisi, nel piano intelligente del Dio creatore, piano che egli si sforzò di disegnare nel Timeo, in cui viene presentata una visione del cosmo basata sulla correlazione tra i quattro elementi di Empedocle e i poliedri regolari. Anche Aristotele attaccò l’atteggiamento di Democrito, affermando che una piena comprensione della realtà è ottenibile indagando, oltre che la causalità meccanica che si esprime nelle leggi fisiche, anche altri generi di cause, tra le quali predomina quella finale, che conferisce a tutto il suo sistema fisico una struttura teleologica. La complessa teoria della causalità di Aristotele si preoccupa anche di definire i concetti di «fortuna», di «fortuito» e di «caso». Egli arriva a sostenere che non si può dire di un evento che si debba necessariamente verificare che esso avverrà o che si debba necessariamente verificare che esso non avverrà. L’assoluta necessità si può predicare di eventi che fanno parte di serie ricorrenti o di serie esattamente circolari, come le orbite dei pianeti, o di serie metaforicamente ricorrenti come la successione delle stagioni. Nonostante queste critiche, non vi è dubbio che tanto Platone, quanto Aristotele, che pure usano solo raramente l’espressione «legge di natura», abbiano contribuito in modo decisivo a far prevalere nella filosofia a loro successiva l’idea che la natura sia razionale e che questa razionalità sia esprimibile in proposizioni universali e necessarie. Del resto fu proprio Aristotele a studiare con serietà le proprietà del movimento locale, cercando di individuare gli elementi determinanti il fenomeno (forza, resistenza del mezzo, peso del corpo, spazio percorso, tempo di percorrenza) e di stabilire delle relazioni matematiche tra di essi. Certo lo studio del movimento locale era da Aristotele subordinato a una teoria generale del movimento incentrata sulle forme di mutamento caratteristiche del mondo vivente, che faceva del movimento meccanico un aspetto decisamente secondario della conoscenza scientifica, ciò non toglie che la «dinamica» aristotelica dominerà per quasi due millenni lo studio del moto del mondo inanimato. Che le leggi naturali esprimano la razionalità della natura è convinzione che troviamo pre-

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sente nel concetto stoico di destino o provvidenza, o nell’ammissione di Plotino che le cose non si possano sottrarre a una legge (il destino) che deriva direttamente dall’intelletto divino. Gli stoici elaborarono una fisica per molti versi opposta a quella degli atomisti, fondata sulla nozione di continuo fisico. Il termine pneu'ma, «spirito» o «respiro» usato in precedenza come sinonimo di aria, fu usato dagli stoici per indicare un miscuglio di fuoco e aria che presenta una natura sostanzialmente attiva. Il pneu'ma è la sostanza attiva che regge tutti i fenomeni naturali dell’universo, inclusi quelli puramente fisici. Essi proiettarono sulla materia inorganica le funzioni degli elementi attivi nei corpi viventi, in primo luogo il calore. Il pneu'ma è la forza di coesione che tiene insieme la sostanza materiale e che, permeando tutti i corpi, fa dell’intero mondo una unità, un solo organismo. Esso conferisce anche alle diverse sostanze le loro qualità specifiche, dando ai corpi attributi fisici definiti in funzione della misura in cui il fuoco e l’aria sono mescolati nel pneu'ma. Gli stoici furono i primi a studiare attentamente la natura della propagazione di un fenomeno in un mezzo continuo, arrivando ad ammettere entro il pneu'ma la presenza di una tensione e a elaborare la nozione di moto tensionale (tonikh; kivnhsi"). Questa tensione divenne una forza cosmica che sta alla base del concetto di «simpatia» elaborato da Posidonio e da lui applicato alla spiegazione delle maree per mezzo del legame tra luna e masse d’acqua. Il maggior contributo medioevale alla elaborazione della nozione di legge fisica venne dai Calculatores della scuola di Oxford i quali, nel contesto delle loro ricerche miranti a elaborare un linguaggio adatto alla trattazione quantitativa delle variazioni delle qualità dei corpi (ivi compresa la qualità di essere in movimento) introdussero la distinzione tra aspetto intensivo e aspetto estensivo delle qualità, che applicata al movimento portò alla distinzione tra velocità media e velocità istantanea. La scienza antica non aveva preso in considerazione le descrizioni del cambiamento in atto in un dato istante, concentrandosi sui risultati finali del cambiamento, raggiunti in intervalli di tempo finiti. La scienza moderna del XVII secolo sceglierà un approccio «istantaneista» le cui premesse si trovano negli scritti dei calculatores.

Leggi fisiche Nella scienza di Galileo, Cartesio e Newton le leggi fisiche diventano relazioni tra valori istantanei di grandezze, la fisica descrive l’andamento del mondo in un dato istante mediante concetti dell’analisi infinitesimale, per poi calcolare gli effetti complessivi su periodi di tempo finiti applicando il calcolo differenziale. La fisica del XVII secolo abbandona il concetto di legge quale spiegazione causale (che richiede un antecedente e un conseguente, cosa impossibile nell’istante), tanto più se intesa teleologicamente, e assume quello di nesso funzionale espresso matematicamente tra grandezze. Lo studio del movimento locale, la meccanica, diviene il capitolo più importante dello studio della natura, tutte le leggi fisiche debbono essere ricondotte a leggi meccaniche (meccanicismo) nella convinzione che queste esprimano il livello più profondo della realtà. Il disvelamento di questa realtà meccanica che si nasconde dietro le apparenze non può più essere affidato alla semplice osservazione di quanto spontaneamente accade in natura, e neppure è sufficiente la moderna sperimentazione, che costruisce condizioni artificiali entro le quali la natura è costretta a fornire indicazioni che altrimenti non darebbe: la sperimentazione va compiuta alla luce di un modello meccanico, il quale assume il ruolo fondamentale di esplorare, con la forza del pensiero, il mondo inattingibile ai sensi. Una grande divergenza circa la natura del modello vi fu tra newtoniani e cartesiani. Per la tradizione cartesiana il modello deve essere di tipo geometrico, visualizzabile, in quanto la materia per Cartesio coincide con l’estensione. Da questo punto di vista la legge della gravitazione universale di Newton, che parlava di una forza attrattiva agente a distanza senza esplicitarne modellisticamente le modalità di azione, non appariva una genuina legge fisica, ma una semplice formula matematica che si limitava a esprimere «quanto» vale la forza attraente, senza darne un modello in termini geometrici e dunque senza rendere tale forza comprensibile. Anche Newton riteneva l’azione a distanza incomprensibile, ma, non riuscendo a darne un modello esplicativo formulabile matematicamente e sottoponibile al controllo empirico, preferì astenersi da ogni ipotesi. Con i Philosophiae naturalis principia mathematica (Londini 1687), Newton presentò una fisica ricalcata sul modello della geometria di Euclide, in cui ogni legge è parte di una teoria, è 6295

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Leggi fisiche un principio oppure è un teorema derivato rigorosamente dai principi. Il rapporto che intercorre con l’esperienza non è semplicemente rapporto tra ogni singola legge e l’osservazione, esistono leggi che non si possono confrontare direttamente con l’empiria (in primo luogo i principi della meccanica) ed è la teoria nel suo complesso che, grazie alla capacità provata di aderire ai dati empirici con alcuni dei propri teoremi, va giudicata più o meno adeguata alla spiegazione del mondo. La fisica newtoniana, passando nel continente, risentì dell’eredità razionalista cartesiana e a opera di Eulero, D’Alembert, Laplace, Lagrange nacque la «meccanica razionale», entro la quale la meccanica di Newton, che pur attraverso un rapporto tra teorizzazione ed esperienza complesso, intendeva essere una teoria empirica, divenne parte della matematica, disciplina da coltivarsi del tutto a priori, disponibile anche ad accettare conclusioni che dal punto di vista empirico appaiono paradossali. Le leggi fisiche divennero teoremi dedotti da principi ritenuti dimostrabili con la sola forza della ragione. Accanto alle leggi della meccanica razionale, le sole trasparenti alla razionalità e per questo sicure, rimanevano le leggi osservative (tra le quali molti erano disposti a inserire la stessa legge di gravitazione universale) opache alla ragione, contingenti. Con l’opera di Laplace queste due linee si ricongiunsero. Da un lato Laplace, studiando questioni astronomiche, mostrò che la soluzione di problemi puramente meccanici non può avvenire con i soli strumenti dell’analisi, ma richiede il ricorso a metodologie «impure», quali il calcolo approssimato e il calcolo delle probabilità, dunque la meccanica deve piegarsi alle esigenze dell’empiria ammettendo leggi che sono approssimate, probabili; solo una intelligenza divina potrebbe costruire una scienza composta di leggi che possiedono i requisiti di purezza imposti dalla meccanica razionale. Dall’altro lato, con la sua opera di fisica terrestre egli impose un modello di scientificità secondo il quale le leggi empiriche vanno completate mediante la loro deduzione a partire da modelli ipotetici sulla costituzione della materia, ricalcati sul grande esempio della legge di gravitazione universale. La fisica modellistica laplaciana rovesciava la critica cartesiana: se questa riteneva la forza di Newton agente a distanza necessitante di una spiegazione, Laplace ritiene che solo un modello fondato 6296

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sull’azione a distanza possa spiegare in modo soddisfacente una legge empirica. Nel corso dell’Ottocento Laplace fu attaccato secondo varie prospettive. Gli studi di termodinamica portarono in evidenza la presenza in tutte le trasformazioni naturali di una irreversibilità (entropia) che nessuna legge meccanica poteva esprimere: mentre le leggi meccaniche sono temporalmente reversibili, quelle che implicano il calore affermano una direzionalità temporale. La termodinamica ottocentesca si propose come alternativa al meccanicismo, abbandonando i modelli meccanici quali punto di partenza delle spiegazioni e strutturandosi in leggi simboliche, a volte prive di interpretazione empirica diretta, astratte, che hanno come scopo quello di consentire la costruzione di uno schema teorico avente come fine l’organizzazione del mondo fenomenico (cfr. Duhem). Gli studi di elettromagnetismo, soprattutto con l’opera di Maxwell, imposero una concezione del modello meccanico quale semplice strumento euristico, di aiuto alla costruzione di relazioni tra i fenomeni ma privo di valore conoscitivo o di pretese unificatrici. Grande peso ebbe in questo sviluppo la formulazione delle leggi della dinamica nella versione di Hamilton, la cosiddetta «dinamica astratta» che consente la trattazione di sistemi meccanici senza dover entrare in dettagli modellistici. Solo la teoria cinetica dei gas (cfr. Boltzmann) continuò a proporre un ideale scientifico meccanicista e modellista, al prezzo tuttavia di dovere ammettere una concezione probabilistica della natura. Questa teoria diede grandissimo impulso all’impiego in fisica di leggi statistiche. La discussione su questi settori innovatori della fisica sfociarono all’inizio del Novecento nell’affermazione del movimento convenzionalista, secondo cui leggi e teorie della fisica sono strumenti di organizzazione dell’esperienza scelti convenzionalmente dalla comunità scientifica per ragioni di comodità, semplicità, bellezza ecc., che non possono essere ritenute vere o false, ma vanno giudicate in base a criteri del campo della praticità. La teoria della relatività di Einstein, tanto quella ristretta che quella generale, impose all’attenzione dei fisici il concetto di legge quale proprietà invariante per tutti gli osservatori: l’oggettività è costituita da relazioni tra enti matematici, che rappresentano entità fisiche, che permangono costanti nelle trasforma-

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zioni naturali in modo indipendente dalle condizioni spazio-temporali di chi osserva il mondo. Se questa caratteristica, che nel corso del Novecento si è estesa a tutta la fisica teorica, culminando nella teoria dei campi quantizzati, indica una visione delle leggi fisiche fortemente astratta, va tenuto presente che del pensiero di Einstein è stato anche recepito ampiamente il messaggio rigorosamente empirista, operazionista, contenuto nella critica ai concetti di spazio e di tempo presente nella relatività speciale del 1905. Seguendo le indicazioni epistemologiche di questo scritto, molti (cfr. positivismo logico) hanno interpretato la fisica novecentesca come caratterizzata da un approccio alla natura di tipo fenomenico, anche perché in questa stessa direzione sembrò orientarsi anche la meccanica quantistica. La giustificazione che diede Heisenberg del principio di indeterminazione, si ispirava all’Einstein del 1905 e sosteneva che le leggi della meccanica quantistica dovevano lasciar cadere qualsiasi riferimento a concetti non suscettibili di alcuna rilevazione empirica, quali la nozione di «orbita di un elettrone», dovevano rinunciare a visualizzare gli oggetti atomici dandone raffigurazioni ricavate dall’esperienza macroscopica per configurarsi come strumenti per l’ordinamento dei dati sperimentali. Questa filosofia fenomenista accompagnò lo sviluppo di una teoria che assumeva sempre più i contorni di una teoria fortemente astratta, entro la quale molte espressioni simboliche non hanno alcuna interpretazione empirica diretta. R. Maiocchi BIBL.: M. CLAGETT, Studies in Medieval Physics and Mathematics, London 1979; C. TRUESDELL, The Tragicomical History of Thermodynamics 1822-1854, New York 1980; J.T. CUSHING, Philosophical Concepts in Physics. The Historical Relation between Philosophy and Scientific Theories, Cambridge 1998; H. KRAGH, Quantum Generations. A History of Physics in the Twentieth Century, Princeton (New Jersey) 1999; M.J. NYE, Before Big Science. The Pursuit of Modern Chemistry and Physic, 1800-1940, Cambridge (Massachusetts) - London 1999; S. D’AGOSTINO, A History of the Ideas of Theoretical Physics. Essays on the Nineteenth and Twentieth Century Physics, London 2000; W. LEFÈVRE, Between Leibniz, Newton, and Kant. Philosophy and Science in the Eighteenth Century, London 2001; F.D. PEAT, From Certainty to Uncertainty. The Story of Science and Ideas in the Twentieth Century, Washington 2002; H. KRAGH - G. VANPAEMEL et al., History of Modern Physics, Turnhout 2002; A. WARWICK, Masters

Leggi statistiche of Theory. Cambridge and the Rise of Mathematical Physics, Chicago 2003. ➨ ANALISI INFINITESIMALE; ENTROPIA; FORZA; INDETERMINISMO; LEGGI DELLA DINAMICA; MECCANICA; MECCANICISMO; MOVIMENTO CONVENZIONALISTA; OPERAZIONISMO; POSITIVISMO LOGICO; RELATIVITÀ; SCUOLA DI OXFORD; SIMPATIA; STOICI; TERMODINAMICA; TEORIA DEI QUANTI.

LEGGI STATISTICHE. – La persuasione Leggi statistiche che molti accadimenti siano casuali è vecchia quanto il pensiero occidentale; molto recente invece, dal momento che sostanzialmente si è andata facendo strada da un secolo a questa parte, è la convinzione che il caso abbia un ruolo non trascurabile anche nelle leggi naturali. La rivoluzione scientifica, iniziata nel XVI secolo, fu imperniata sull’idea che la natura fosse regolata da rigorose e inderogabili leggi, di cui solamente una piccola parte ci è nota, e che l’uomo con la sua libertà fosse responsabile dell’accidentalità con la quale siamo quotidianamente confrontati. Questa visione del mondo fu espressa nell’opera di Isaac Newton ed ebbe la sua rappresentazione più pregnante nell’Intelligenza, immaginata da Pierre Simon Laplace, in grado di conoscere lo stato attuale dell’universo e, a partire da questa conoscenza, di calcolare i suoi stati passati e futuri a guisa che niente sarebbe stato incerto per essa, né l’avvenire né il passato (cfr. P.S. Laplace, Opere, ed. a cura di O. Pesenti Cambursano, Torino 1967). Questa immagine fu posta dal suo ideatore all’inizio del primo trattato scientificamente soddisfacente di teoria delle probabilità, ma ciò non era contraddittorio: l’incertezza che grava su tutte le conoscenze umane era attribuita da Laplace alla nostra ignoranza, al non essere noi dotati delle qualità che lui aveva immaginato per la sua Intelligenza. La probabilità era quindi intesa come una nozione essenzialmente epistemica. Secondo Laplace, che grandemente contribuì a chiarire i fenomeni casuali, ad esempio quelli che regolano le vincite e le perdite nei giochi d’azzardo, questi fenomeni sono dovuti alla nostra ignoranza circa le caratteristiche fisiche dei meccanismi con cui si gioca, la quale, unitamente alla nostra incapacità di eseguire i calcoli necessari, ci impedisce di determinare con certezza quale sarà il risultato del gioco. Tuttavia questa visione del mondo fu posta in discussione nella seconda metà dell’Ottocento, sia in biologia da Charles Darwin e Gregor 6297

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Leggi statistiche Mendel, sia in fisica da James C. Maxwell (cfr. J.C. Maxwell, The Scientific Papers of J.C. Maxwell, Cambridge 1890) e Ludwig Boltzmann (cfr. L. Boltzmann, Vorlesungen über die Prinzipien der Mechanik, Leipzig 1904). Nel seguito punteremo principalmente la nostra attenzione sullo sviluppo della fisica in considerazione del fatto che in questa disciplina il procedere della nuova visione probabilistica del mondo è stato più chiaramente inteso e ha coinvolto i costituenti fondamentali della materia. SOMMARIO: I. La teoria cinetica dei gas. - II. L’equilibrio. - III. Le particelle elementari: 1. Distribuzioni di probabilità come leggi. I. LA TEORIA CINETICA DEI GAS. – Negli ultimi decenni del secolo XIX, si cominciarono ad affrontare, con strumenti matematici adeguati, i problemi posti dalla materia intesa come costituita da una miriade di particelle in perenne movimento. Stiamo riferendoci ai tentativi volti a spiegare i comportamenti macroscopici dei gas relativi alla temperatura, alla pressione e via di questo passo, come il risultato del comportamento microscopico delle molecole che li compongono. La temperatura di un gas è legata alla velocità media delle sue molecole mentre la pressione che il gas esercita sulle pareti del recipiente che lo contiene è connessa al numero delle sue molecole che mediamente vanno a urtare contro le pareti del recipiente. Le equazioni newtoniane del moto sono fondate sul presupposto che la conoscenza dello stato presente di un punto materiale, cioè la conoscenza della sua posizione e della sua velocità, consenta di determinare tanto il suo stato passato quanto quello futuro. Pertanto, in accordo con quelle equazioni, il comportamento macroscopico di un gas dovrebbe poter essere dedotto dal comportamento microscopico delle sue molecole. Ma a questa deduzione si frappongono due ostacoli insormontabili, legati entrambi all’enorme numero di molecole presenti anche in un solo centimetro cubo di gas: da un lato, l’impossibilità di misurare lo stato di tutte le molecole del gas, dall’altro, l’impossibilità di eseguire l’enorme numero di calcoli che comporta la determinazione degli stati passati e futuri di ciascuna molecola. Non si dimentichi, inoltre, che le molecole, nel loro perenne movimento all’interno del contenitore, oltre che con le sue pareti, collidono l’una con l’altra: ne risulta il perpetuo modificarsi delle loro traiettorie che rende i calcoli, se possibile, ancor più ardui. In 6298

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sostanza, solo l’Intelligenza di Laplace avrebbe potuto dedurre il comportamento macroscopico del gas da quello microscopico delle molecole che lo compongono. Dopo aver brevemente descritto il modo di intendere la microfisica tipico della fine dell’Ottocento, ricordiamo che nell’impossibilità di superare le difficoltà di cui abbiamo detto si fece ricorso alla statistica unitamente alla probabilità nel senso che si concentrò l’attenzione sul comportamento collettivo delle componenti del gas. Nonostante ciò la questione rimane molto complessa e, per non appesantire l’esposizione oltre il dovuto, limiteremo la nostra attenzione al caso più semplice, quello di un gas rarefatto di N molecole monoatomiche. Si pensò quindi di individuare lo stato di un gas siffatto classificando le sue molecole secondo le rispettive energie (cinetiche) in una sorta di tabella, detta vettore di occupazione, i cui elementi sono i numeri delle molecole la cui energia è interna a dati intervalli, detti celle (cfr. L. Boltzmann, Weitere Studien über das Wärmegleichgewicht unter Gasmolekülen, in Wissenschaftliche Abhandlungen von Ludwig Boltzmann, ed. a cura di F. Hasenöhrl, vol. I, Leipzig 1909, p. 316-402). Un siffatto vettore può quindi essere inteso come una d-upla di numeri del tipo N=(N1,...,Nj,...,Nd), ∑ j =1Nj = N, in cui ciascuno dei numeri interi Nj, per j da 1 a d, detti numeri di occupazioni, è il numero di molecole contenute nella j-esima cella-intervallo. In verità la questione è più complessa dal momento che oltre all’energia bisognerebbe tener conto anche dei livelli energetici – una stessa energia può essere dovuta a livelli energetici diversi – e ciò ci costringerebbe a considerare più vettori di occupazione ma, ancora una volta, ai nostri fini è sufficiente fissare l’attenzione su un unico vettore di occupazione e sulle sue componenti. Anche in questo modo tuttavia la questione non è risolta dal momento che nessuno è in grado di conoscere lo stato del sistema. Ovviamente il problema verte sullo stato delle molecole del sistema, il microstato, non sullo stato del gas nel recipiente perchè questo può essere rilevato mediante gli usuali strumenti di misura, ad esempio la sua temperatura può essere individuata per mezzo di un comune termometro. Si pensò, di risolvere il problema facendo riferimento alla probabilità, si pensò cioè che il vettore di occupazione da cui dipende lo stato macrod

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scopico del gas è quel vettore che, tra tutti i possibili, ha la massima probabilità di verificarsi (cfr. J.W. Gibbs, Elementary Principles in Statistical Mechanics, New York 1960). Ma per determinare la probabilità di un evento composto è necessario prendere le mosse da probabilità di eventi semplici o elementari che congiuntamente considerati determinano l’evento di cui interessa la probabilità. In questo caso l’evento composto è il vettore N, mentre gli eventi elementari sono tutte le possibili descrizioni individuali del gas che, per ogni molecola, specificano in quale cella essa è per così dire contenuta. Semplici considerazioni combinatorie assicurano che il numero di queste descrizioni è pari a dN. Si suppose poi che tutte queste descrizioni individuali avessero la stessa probabilità, pertanto che la probabilità di ciascuna di esse fosse d–N, e sulla base di questa ipotesi si cercò di individuare quale fra i vettori di occupazione avesse la massima probabilità. Il calcolo combinatorio permette di stabilire che il numero di descrizioni individuali contenute in un vettore di occupazione è pari a N! ∏ dj =1 Nj !, essendo x ! = 1× 2 × 3 × ... × x il fattoriale del numero intero x. Per inciso vale la pena di notare che il logaritmo di questo numero è proporzionale all’entropia (di Boltzmann o statistica) del sistema. Essendo equiprobabili tutte le descrizioni individuali, il vettore di occupazione che avrà la massima probabilità sarà quello in cui è massimo il numero N! ∏ dj =1 Nj !. Servendosi di calcoli che ora non mette conto descrivere, si stabilisce che lo stato con la massima probabilità è quello i cui numeri di occupazione di N hanno frequenze relative pari a 1 , j = 12 , ,..., d, exp α + βεj

(

)

ej è l’energia caratteristica della j-esima cella, a e b sono costanti legate al potenziale chimico e alla temperatura mentre la frequenza relativa del j-esimo numero di occupazione è NjN, vale a dire il numero di molecole nella cella diviso il numero totale di molecole del sistema. Questa ripartizione delle molecole sulle celle è nota come la distribuzione di Maxwell - Boltzmann perchè fu individuata dal primo mentre il secondo dimostrò il famoso teorema H, vale a dire che questo è il modo di ripartirsi delle sue molecole che un gas molto probabilmente raggiungerà qualunque sia lo stato da cui muove

Leggi statistiche purché sia lasciato a se stesso per un tempo sufficiente. In prima approssimazione – vedremo che la questione è più complessa – possiamo quindi dire che questa è la ripartizione delle molecole quando il gas abbia raggiunto lo stato d’equilibrio (cfr. R.C. Tolman, The Principles of Statistical Mechanics, Oxford 1938). II. L’EQUILIBRIO. – Al fine di enucleare il significato di legge statistica concentreremo la nostra attenzione sulla distribuzione di Maxwell Boltzmann occupandoci, innanzitutto, del significato del teorema H. Come abbiamo appena visto questo teorema non afferma che, trascorso un tempo opportuno, la distribuzione di Maxwell - Boltzmann sarà certamente raggiunta, bensì che questa distribuzione sarà molto probabilmente raggiunta. Quindi non si tratta di un teorema che afferma il verificarsi di un evento ma solo che un evento ha un’elevata probabilità di verificarsi; esiste quindi una piccola probabilità che esso non si verifichi. Bisogna immediatamente aggiungere che la prima probabilità è talmente elevata mentre quella di non raggiungere la distribuzione di Maxwell - Boltzmann è talmente piccola che tutto il tempo trascorso dall’inizio dell’universo non ha ancora consentito il verificarsi di questa eventualità (cfr. G. Toraldo di Francia, L’immagine del mondo fisico, Torino 1976). Comunque sia, resta grande la differenza fra le asserzioni della teoria cinetica dei gas e quelle tipiche della meccanica newtoniana: l’incolmabile differenza che corre tra un accadimento certo e un accadimento probabile. In breve, le teorie statistiche sono formulate in un ambito ontologicamente diverso da quello in cui si situano le teorie deterministiche. Dopo questa fondamentale distinzione, vediamo un poco più da vicino il significato della distribuzione di Maxwell - Boltzmann. Come abbiamo già visto, le molecole del gas sono in perenne vorticoso movimento, che le porta a urtare fra loro e con le pareti del recipiente – notiamo, di nuovo per inciso, che questo è il meccanismo che Boltzmann individuò essere all’origine della tendenza di ogni sistema all’equilibrio –, e questo movimento non cessa mai neppure quando questo stato sia stato raggiunto. Quindi essere per un gas nello stato d’equilibrio non significa che le sue molecole restano in una medesima cella, non significa cioè che all’equilibrio le molecole che si trovano in una cella permangano in questa cella per tutto il tempo in cui il gas è all’equilibrio. Al contrario, anche 6299

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Leggi statistiche all’equilibrio le collisioni per così dire spostano continuamente molecole da una cella all’altra ma questi continui mutamenti di cella, presi nella loro totalità, hanno la singolare caratteristica di compensarsi almeno mediamente. Non bisogna tuttavia dimenticare che quelli di cui abbiamo testé parlato sono fenomeni essenzialmente probabilistici; stiamo pertanto considerando probabilità di collisioni fra molecole quindi probabilità di cambiamento di cella; ne consegue il significato probabilistico d’equilibrio: la probabilità che un certo numero di molecole abbandoni una cella per raggiungerne altre è uguale a quella che un ugual numero di molecole provenienti da altre celle si situi in quella che si sta considerando (cfr. B. Touschek - G. Rossi, Meccanica statistica, Torino 1970). Ne consegue che la distribuzione di Maxwell - Boltzmann si riferisce al numero di molecole che mediamente, rispetto al tempo, si trovano in una data cella (cfr. D. Costantini, I fondamenti storico-filosofici delle discipline statistico-probabilistiche, Torino 2004). Ma dobbiamo tener conto delle nostre capacità di osservazione: la velocità con cui avvengono i cambiamenti dei numeri di occupazione è talmente elevata che non siamo in grado di cogliere le variazioni e, dal nostro punto di vista, percepiamo solo lo stato che ha la massima probabilità di verificarsi, lo stato d’equilibrio quindi che ci appare come uno stato in cui nulla muta col trascorrere del tempo. III. LE PARTICELLE ELEMENTARI. – La teoria cinetica che studia le proprietà di un gas considerato come costituito da molecole in perenne movimento fu sostanzialmente ideata nella seconda metà del secolo XIX. Il secolo scorso vide l’ampliarsi di considerazioni analoghe per altri tipi di componenti microscopici della materia. Si trovò che il comportamento dei bosoni, ad esempio i mesoni e i fotoni, per lo meno a grandi linee, diveniva comprensibile seguendo ragionamenti analoghi, ma non uguali, a quelli testé visti per le molecole. Vi è tuttavia una differenza fondamentale, si tratta del fatto che mentre le molecole hanno un comportamento stocasticamente indipendente, con ciò intendiamo che la probabilità che regola eventi coinvolgenti molecole non viene influenzata dall’accadere o meno di eventi coinvolgenti altre molecole, i bosoni, ad esempio i fotoni e gli atomi di elio, non presentano questo comportamento. Infatti queste particelle sono positivamente correlate, ciò significa che l’accadere 6300

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di un evento coinvolgente dei bosoni, avviene con probabilità maggiore se altri bosoni sono già stati coinvolti nell’evento in questione. Il risultato di questo comportamento è che all’equilibrio, per i bosoni, i numeri di occupazione di N hanno frequenze relative pari a 1 , j = 12 , ,..., d, exp α + βεj − 1

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nota come la distribuzione di Bose - Einstein. Considerazioni analoghe valgono anche per le particelle elementari dette fermioni, ad esempio gli elettroni, i muoni e i neutrini, che, sempre da un prospettiva statistica, sono caratterizzati da un comportamento negativamente correlato. Il risultato di questo diverso comportamento è che all’equilibrio, per i fermioni, i numeri di occupazione di N hanno frequenze relative pari a 1 , j = 12 , ,..., d, exp α + βεj + 1

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nota come la distribuzione di Fermi - Dirac. Quello che abbiamo detto per lo stato d’equilibrio delle molecole può essere ripetuto tale e quale per i bosoni e i fermioni: raggiungere l’equilibrio non significa che le particelle non mutano le celle in cui si trovano, bensì che le probabilità dei mutamenti di un segno sono uguali alle probabilità dei mutamenti di segno opposto, pertanto anche quelli dianzi visti rappresentano numeri di particelle che mediamente sono nelle celle (cfr. R.C. Tolman, The Principles of Statistical Mechanics, Oxford 1938). 1. Distribuzioni di probabilità come leggi. – Le tre distribuzioni che abbiamo visto sono leggi statistiche in un senso che diviene chiaro dopo una breve riflessione. Come abbiamo detto la probabilità è coinvolta nella derivazione delle leggi che abbiamo visto ma esse, in senso stretto, non sono probabilistiche dal momento che non individuano una distribuzione di probabilità, cioè una funzione che a ognuno dei suoi argomenti – le varie possibilità considerate – assegna un valore di probabilità in modo tale che la somma di tutti questi valori sia pari all’unità. Il vettore di occupazione individuato dalle leggi viste è solo una delle possibilità, anche se si tratta di quella su cui si concentra la massima probabilità; quelle leggi quindi fissano l’attenzione non già sull’intera distribuzione bensì su uno dei suoi possibili argomenti. Come abbiamo visto, le cose sono più complesse: si tratta di numeri medi di oc-

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cupazione e quindi la statistica interviene anche su quanto avviene a livello dei numeri di occupazione individuando ciò che mediamente si verifica pur nel perpetuo mutare dei numeri di occupazione. Vi sono però anche altre leggi, per così dire, statistiche in senso pieno; con ciò intendiamo dire che la legge non pertiene alla ripartizione media delle particelle sugli stati ma, e se si vuole in modo più astratto, stabilisce la distribuzione delle probabilità sui vari possibili stati del sistema. Di nuovo si tratta di una distribuzione d’equilibrio ma ora una siffatta legge afferma quale sia la probabilità dei vari possibili vettori di occupazione del sistema che si trova all’equilibrio. Riflettendo sui vettori di occupazione, che ora non intendiamo più come valori medi bensì come valori effettivi, tutto diviene più chiaro. A prescindere dalle considerazioni probabilistiche che consentono di pervenirvi e al suo significato statistico, l’equilibrio di cui abbiamo detto prima non considerava una distribuzione di probabilità ma il vettore di occupazione in corrispondenza del quale la distribuzione di probabilità raggiunge il massimo. Ora non è più così: lo stato d’equilibrio di un sistema è una distribuzione di probabilità, la chiameremo distribuzione di probabilità d’equilibrio, che non muta nel tempo ma che non indica mai un ben definito vettore di occupazione, anche se può privilegiarne alcuni nel senso di assegnare maggiore probabilità a certi vettori piuttosto che ad altri. La sostanza è però che l’equilibrio non concerne più uno stato del sistema o le probabilità con cui questo si mantiene ma le probabilità con le quali i possibili stati del sistema si presentano: la distribuzione di probabilità d’equilibrio è la legge statistica che regola il comportamento del sistema. Di queste distribuzioni di probabilità d’equilibrio daremo solo due esempi: il primo tratto dalla meccanica statistica, il secondo dalla genetica di popolazione, l’altro grande ambito di studi che massicciamente fa ricorso a leggi statistiche. Cominciando dalla meccanica statistica prendiamo in considerazione un oscillatore elettromagnetico che, ai nostri fini, può essere inteso come una cella contenente una data energia suddivisa in granuli, i quanti, quindi come una sorta di contenitore di quanti d’energia. Finché l’oscillatore non emette né assorbe energia, non cambia il suo stato (quantico) caratterizzato da un numero j, che

Leggi statistiche rappresenta il numero dei quanti che si trovano nella cella, la sua energia quindi. Ma, come abbiamo visto per le molecole, l’oscillatore, anche quando il sistema di cui fa parte è all’equilibrio, assorbe ed emette in continuazione quanti d’energia, così che il suo stato varia perennemente. La legge statistica che stabilisce la probabilità di un dato stato quantico dell’oscillatore è la distribuzione geometrica zj x j (1 − x ) = ∞ j , j = 0,12 , ,... j =0 z che stabilisce appunto la probabilità con la quale nella cella si trovano 0,1,2,... quanti ∞ d’energia; si noti che ∞j =0 z j ∑ j =0 z j = 1, vale a dire la somma delle probabilità di tutti gli stati possibili, è pari all’unità, come è stabilito dai principi della probabilità (cfr. B. Touschek - G. Rossi, op. cit.). L’esempio che abbiamo fornito è per tanti versi incompleto; nella sua semplicità tuttavia pone chiaramente in evidenza quale sia lo status di una legge statistica e il ruolo che siffatte leggi giocano nella costruzione di una teoria scientifica. Venendo ora alla genetica di popolazioni – e continuando a occuparci di esempi tutto sommato lontani dalle effettive difficoltà concettuali che pongono le leggi statistiche – consideriamo una popolazione, che supponiamo composta da un numero infinito di individui, relativamente a due tipi allelici A1 e A2 del medesimo loco, cioè una porzione di DNA (acido desossiribonucleico). Supponiamo poi che A1 possa mutare in A2 e, viceversa, che A2 possa a sua volta mutare in A1; non ci interessano i dettagli, ad esempio, le intensità con cui queste mutazioni avvengono. Evidentemente la composizione della popolazione espressa in termini dei due alleli varia col trascorrere del tempo ma, essendo le mutazioni fenomeni squisitamente casuali, non esiste alcuna legge (deterministica) in grado di stabilire la composizione della popolazione. Sappiamo che le mutazioni cambiano in continuazione la composizione della popolazione, ma non siamo in grado di conoscere, quando la popolazione avrà raggiunto l’equilibrio, quali siano le sue caratteristiche. Possiamo però calcolare le probabilità riguardo tutte le possibili composizioni, espresse come frequenze relative, diciamo dell’allele A1, rispetto al totale degli alleli della popolazione. Se denotiamo queste frequenze mediante il numero reale x – compreso fra 0 e 1 estremi inclusi, 6301

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Legittima difesa consequentemente la frequenza relativa di A2 sarà 1–x e anch’essa varierà in questo intervallo – la legge statistica che stabilisce la probabilità di una data composizione della popolazione è una distribuzione della famiglia beta, cioè ( a + b + 1)! x a 1 − x b , 0 ≤ x ≤ 1, a, b > −1 ( ) a!b! in cui a e b sono parametri che caratterizzano la distribuzione. Anche in questo caso quindi abbiamo una popolazione che cambia continuamente la sua composizione e la distribuzione d’equilibrio descrive le probabilità con cui si possono susseguire le varie possibili composizioni quando la popolazione sia lasciata a se stessa per un tempo sufficiente (cfr. F.P. Kelly, Reversibility and Stochastic Networks, New York 1976). Molte altre, anche di differenti discipline tra le quali l’economia, sono le leggi statistiche usate nella costruzione di teorie scientifiche ma crediamo di essere riusciti a fornire un’immagine – non lo si dimentichi, incompleta – di queste leggi. Terminiamo rilevando come questo modo di usare la statistica sia profondamente diverso da quello corrente. Infatti, mentre per certi aspetti questo uso fa pensare alla statistica descrittiva, dal momento che si tratta di descrivere una popolazione di molecole o di alleli, per altri ricorda la statistica inferenziale poiché nel momento in cui si assegnano delle probabilità si sta compiendo un’inferenza statistica. Si potrebbe quindi essere indotti a pensare che si tratti di una sorta di miscuglio tra l’uno e l’altro modo di intendere la statistica. Ma è necessario tener conto di un altro aspetto della questione, a nostro avviso, essenziale: il fatto che la statistica ora serve a descrivere il comportamento della realtà; detto con tutta chiarezza, non viene impiegata al fine di supplire alla nostra ignoranza bensì è un ingrediente fondamentale della descrizione del mondo che sta intorno a noi e, quel che più conta, questo uso della statistica consente di spiegare e prevedere ciò che accadrà. Ad esempio, ci assicura che somministrando calore a un gas aumentiamo le velocità delle sue molecole, irregolarmente per via della casualità delle collisioni, tuttavia in modo tale da aumentare la loro velocità media: il risultato è un aumento della sua temperatura. Dalla fine dell’Ottocento il ruolo della statistica nelle scienze è andato sempre crescendo; in fisica, 6302

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dalle molecole si è passati ai fotoni, agli atomi e ai loro componenti; in biologia, dai piselli dei primi studi sull’ereditarietà ai loci della moderna genetica di popolazioni. Nel tentativo di fornire un’immagine scientifica della realtà, le leggi statistiche occupano uno spazio crescente mentre la visione del mondo che oggi le scienze naturali ci forniscono è ormai indissolubilmente legata a queste leggi. D. Costantini

LEGITTIMA DIFESA (self-defence; Notwehr; Legittima difesa légitime défense; legítima defensa). – È prevista da tutti i sistemi giuridici moderni, oltre che dalla carta delle Nazioni Unite, e in particolare dall’art. 52 del codice penale italiano; con questa espressione s’intende la reazione violenta, ma necessaria e proporzionata, e quindi legalmente giustificata, che un soggetto pone in essere per respingere da sé o da altri il pericolo attuale di un’offesa ingiusta. Ove l’aggressione comporti un rischio mortale per la vittima, la legittima difesa può giustificare anche l’omicidio. Al di là di questi limiti, l’atto difensivo non è giustificabile, anzi viene considerato reato. Cicerone, nel De Legibus, considera la legittima difesa un principio di diritto naturale. In Es 22, 1 ss. risulta fondata su una naturalis ratio che la giustifica. Il cristianesimo (cfr. Mt 5, 38 ss. e l’esortazione ad essere «perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste») sottolinea piuttosto il dovere supererogatorio di non difendersi, di non resistere alle aggressioni, di non applicare la legge del taglione, di vincere con il bene il male (cfr. Rm 12, 21). Tommaso (Sum. theol., IIa-IIae, q. 64, art. 7) giustifica la legittima difesa in base al principio del duplice effetto: l’effetto lecito e intenzionale dell’atto difensivo (la protezione del proprio buon diritto) prevale moralmente e sana l’eventuale e non intenzionale effetto illecito del medesimo atto (la controaggressione, fino all’eventuale uccisione). Nella tradizione del diritto romano la legittima difesa è giustificata dalla protezione dei beni della vita, dalla conservazione dell’integrità corporale, dalla necessità di proteggere il pudore o la proprietà, se congiunta con la difesa della persona del proprietario. Dal diritto romano l’istituto è passato nel diritto canonico, con qualche variante (se ne esclude, ad es., l’applicazione nei casi di attentato all’onore): nella nuova legislazione penale canonica, la legittima difesa è considerata causa esimente solo se è diretta contro chi ingiustamente ag-

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gredisce un bene proprio o altrui e se vi è proporzione tra l’aggressione subita, il mezzo usato per respingerla e la rilevanza del diritto aggredito. Si noti che l’errore incolpevole in base al quale il soggetto crede di trovarsi in una situazione che giustifichi il ricorso alla legittima difesa è causa esimente dal delitto. Fondamentale, da un punto di vista morale, per giustificare la difesa di un diritto o di un bene proprio o altrui, e per distinguerla nettamente dalla vendetta, è che l’atto difensivo venga posto in essere prima che l’aggressore possa portare a compiuta realizzazione il suo progetto criminoso. Più ancora che dall’esigenza – in sé più che ragionevole, ma priva in quanto tale di contenuto morale – di tutelare un interesse, la legittima difesa si giustifica per il fatto che obiettivamente intercetta e previene il male e ne testimonia l’intollerabilità. M. Topa BIBL.: L. CICCONE, «Non uccidere». Questioni di morale della vita fisica, Milano 1988; S. COTTA, Diritto, persona, mondo umano, Torino 1989; G. CAMARDA, Legittima difesa collettiva, diritto umanitario e risoluzioni del Consiglio di sicurezza nel quadro del conflitto del Golfo, Palermo 1991; F. D’AGOSTINO, Omicidio e legittima difesa in La sanzione nell’esperienza giuridica, Torino 1995; G. GIACOBBE, Legittima difesa e stato di necessità nel sistema della responsabilità civile, Torino 2000; R.J. ERICKSON, Legitimate Use of Military Force Against State-sponsored International Terrorism, Washington 2002; R.V. FRIEDEBURG, Self Defence and Religious Strife in Early Modern Europe: Reformation Theories of Legitimate Resistance, Aldershot 2002; G. BROCCA - M. MINGRONE, La legittima difesa, Padova 2003; A. SZEGÖ, Ai confini della legittima difesa. Un’analisi comparata, Padova 2003. ➨ OMICIDIO; PROPRIETÀ; VENDETTA.

LEGITTIMITÀ, PRINCIPIO DI (principle of legitiLegittimità macy; Legitimitätsprinzip; principe de légitimité; principio de legitimidad). – Il principio di legittimità ha per oggetto la giustificazione dell’operato del potere e, in senso più generale, il titolo in base al quale un potere politico è accettato. Per quanto riguarda l’origine, il principio di legittimità, nelle sue differenti accezioni, va inserito nel contesto storico in cui il potere tende a trasformarsi in un ordinamento statale con un assetto giuridico-amministrativo, contemporaneamente al progetto illuminista della cosiddetta «codificazione». Muta il titolo di legittimità dell’operato del potere: si passa da

Legittimità un criterio di legittimazione morale, teocratico e consuetudinario, a un titolo di legittimità inteso formalisticamente, in cui l’ente statale è autorizzato a essere fonte della legge perché legittimato in ciò da un ipotetico accordo originario degli individui. Si passa da una concezione «cognitivista» dell’ordine politico-giuridico (giustizia) a una concezione «non-cognitivista» (validità) come nel contrattualismo di Hobbes. Da un criterio prudenziale e per precedenti si passa a una applicazione gerarchica, deduttiva e meccanica della norma. A seguito della Rivoluzione Francese, dell’impero napoleonico e della Restaurazione, nel XIX secolo si scontrano tra loro più principi di legittimità: 1) lo stato di diritto liberale, dal quale si sviluppa sia un modello parlamentare (ad es. Benjamin Constant) fondato sull’imperio della legge quale garanzia contro ogni dispotismo, sia un modello democratico, in cui l’accento è posto sulla sovranità della volontà popolare; 2) il principio di legittimità di tipo carismatico (che nasce proprio con la Rivoluzione, con Bonaparte e col «cesarismo»), in cui il capo è direttamente espressione della volontà della nazione, senza passare attraverso il medium degli organi rappresentativi; 3) il legittimismo tradizionalista, in cui il sovrano è tale per volontà divina, e su tale base si legittima il suo operato (Joseph de Maistre); 4) le classiche dottrine cattoliche (tomismo) basate sul concetto di bene comune e sui principi ideologici della chiesa; 5) infine, una legittimità del potere e del suo operato a partire da una rappresentatività organica («statalismo» di Hegel, Volksgeist della scuola storica, organicismo di Adam Müller ecc.). Tra Otto e Novecento, il sistema liberaldemocratico, nel frattempo affermatosi, si dimostra non più rappresentativo di tutti gli interessi presenti nella società industriale di massa. Nuovi ceti e nuove classi sociali sono alla ricerca di una rappresentanza politica. Si allarga la frattura tra una legittimità in senso giuridico-formale propria dello stato di diritto liberale e una legittimità «sostanziale»: si sviluppano dottrine materialistiche (marxismo), sociologiche (Max Weber), elitiste (Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca), «attualiste», in cui si identificano – da un punto di vista speculativo – individuo e stato (Giovanni Gentile). Di fronte a tutti questi attacchi, il pensiero liberale trova una propria compiuta sistemazione in Hans Kelsen, che edifica una dottrina pu6303

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Legrand ra del diritto in cui viene eliminata ogni dipendenza del sistema giuridico da elementi extragiuridici; lo stato è ridotto a un insieme di norme, la cui ultima fonte di validità è una norma fondamentale (Grundnorm). Kelsen si arrende a un modello solo funzionale di rappresentanza democratica. Contro un principio di legittimità inteso come mera legalità polemizza Carl Schmitt, che teorizza – invece – una legittimità «materiale» contrapposta a una solo «formale». Schmitt sarà anche il teorico di una legittimità carismatica in cui il capo politico, nei suoi atti, è immediatamente rappresentativo dell’intera comunità nazionale (Führerprinzip). Dopo la conflagrazione mondiale si assiste a un’opera di correzione e integrazione della legittimità formale. A seguito delle esperienze totalitarie, si torna a una momentanea rivalutazione di un principio di legittimità fondato moralmente (ad es.: la rinascita del diritto naturale: Gustav Radbruch, Hans Fritz Welzel). In seguito, le teorie politico-giuridiche tendono a mettere in evidenza i rischi di una legalità solo formale e la necessità di agganciarla a un sistema di valori condivisi, eventualmente recepiti nelle norme della costituzione. La legittimità delle decisioni pubbliche è affermata 1) in base al ritorno alle radici critico-razionali della modernità illuminista (Jürgen Habermas), oppure 2) – a diverso titolo – in base al modello contrattualista (John Rawls, Robert Nozick); 3) attraverso la sua integrazione con forme più ampie di partecipazione alla decisione politica (ad. es., Hannah Arendt: disobbedienza civile); 4) soprattutto nel mondo anglosassone si mettono in evidenza i limiti del principio di legittimità formale a partire dalla rivendicazione delle identità locali (Charles Taylor, Michael Walzer); 5) perdurano le critiche realiste, derivanti dal pensiero di Weber e Schmitt (ad es. Julien Freund). Di fatto, il sistema giuridico-formale ha continuato ad affermarsi rinunciando definitivamente a una legittimazione pre-giuridica: da Kelsen fino a Niklas Luhmann si è sviluppato in un sistema chiuso, autoreferenziale e meramente procedurale (teorie costruttiviste). Questo scenario si è complicato con la progressiva dissoluzione del centro tradizionale di imputazione del principio di legittimità (stato) verso centri di potere sia globali che locali. Il problema della legittimazione degli atti di un potere si è complicato, perché non si 6304

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hanno più né principi giuridici formali di carattere generale, né principi «materiali» (localmente radicati) come criteri di legittimità. Inoltre, ci si trova nella situazione in cui molti poteri sono in concorrenza tra loro sullo stesso piano. In questo contesto, troviamo: 1) teorie che traspongono su un piano sopranazionale il principio giuridico-formale della legittimità dell’operato un tempo dei singoli stati (Norberto Bobbio, Luigi Ferrajoli); 2) teorie critiche di un tale «universalismo» che propongono un modello di negoziazione continua tra stati e poteri. In questo caso, la legittimità viene a coincidere con una legalità stabilita pattiziamente di volta in volta (lex mercatoria). L’ultima e più recente sfida in un orizzonte planetario consiste nel confronto, nello scontro o nella convivenza del modello giuridicopolitico proceduralista occidentale con principi di legittimità che si fondano su un’autorità confessionale non negoziabile (ad es. Islam). G. Sorgi BIBL.: M. WEBER, Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie, Tübingen 1922, tr. it. di T. Bagiotti et al., Economia e società, Milano 1961; H. KELSEN, General Theory of Law and State, Cambridge (Massachusetts) 1945, tr. it. di S. Cotta - G. Treves, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano 1966; A. PASSERIN D’ENTRÈVES, La dottrina dello Stato, Torino 1967; C. SCHMITT, Legalität und Legitimität, Leipzig-München 1932, tr. it di P. Schiera, Legalità e legittimità, in Le categorie del politico, ed. it. a cura di G. Miglio - P. Schiera, Bologna 1972, pp. 209-244; G. SORGI, Potere tra paura e legittimità. Saggio su Guglielmo Ferrero, Milano 1981. ➨ CHIESA; CODIFICAZIONE; COMUNITARISMO; COSTITUZIONE; DEMOCRAZIA; DISPOTISMO; LEGALITÀ; LEGGE; NAZIONE.

LEGRAND, ANTOINE. – Cartesiano, franceLegrand scano, n. a Douai, m. a Oxford nel 1699. Dopo aver insegnato filosofia e teologia a Douai, fu inviato dal suo Ordine in Inghilterra, ove ebbe parte nella diffusione della dottrina cartesiana. Pubblicò a Londra nel 1671 la Philosophia vetus ex mente Renati des Cartes e, nel 1672, le Institutiones philosophiae secundum principia Renati Descartes nova methodo adornata, che ebbero grande fortuna e diverse ristampe. Difese il suo maestro nella Apologia pro Cartesio contra Samuelem Parkerum (Londini 1679). Legrand è autore di altre numerose opere, tra cui il Sage des Stoïciens, La Haye

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Leibniz

1662; l’Epicure spirituel, Douai 1669; Historia naturalis, Londini 1673.

auf das französische Denken der Gegenwart, ivi 1940; Kants Tugenden, Berlin 1980.

Red. BIBL.: A.G.A. BALZ, Cartesian Studies, New York 1951, p. 145.

Red. BIBL: Cfr. Die Schriften von Gerhard Lehmann, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 19 (1965), pp. 348-356; AA. VV., Gerhard Lehmann, zum 100. Geburtstag, numero mon. di «Der Einzige», 12 (2000).

LEGROS, C HARLES -F RANÇOIS . – Teologo Legros francese, n. a Parigi nel 1711, m. ivi nel 1790. Oltre ad alcuni scritti relativi alla disciplina ecclesiastica, pubblicò: Examen des systèmes de J.J. Rousseau, et de M. Court de Gébelin, pour servir de suite à L’Analyse de leurs ouvrages, Genève-Paris 1786 (di Rousseau considera i due Discorsi del 1750 e 1755); Analyse et examen du système des philosophes économistes, ivi 1787; Analyse de l’antiquité dévoilée, du despotisme oriental et du Christianisme dévoilé, ivi 1788. Una sua tesi, sostenuta all’università di Parigi il 4 settembre 1737, e contenente alcune affermazioni sulla dipendenza dell’autorità religiosa da quella civile, fu condannata dal parlamento. Le opere di Legros sono tutte di carattere polemico. Red. BIBL.: J. CARREYRE, s. v., in Dictionnaire de Théologie catholique, a cura di A. Vacant - E. Mangenot - E. Amann, Paris 1909-1947, vol. IX, coll. 168-169.

LEHMANN, GERHARD. – N. il 10 lug. 1900 a Lehmann Berlino, m. il 18 apr. 1987. Insegnante dal 1940 all’università di Berlino. Ha scritto: Über die Setzung Individualitätskonstante, Berlin 1922; Eros im modernen Denken, München-Berlin 1923; Psychologie des Selbstbewusstseins, ivi 1923; Das religiöse Erkennen, Karlsruhe 1926; Über Einzigkeit und Individualität, Leipzig 1926; Vorschule der Metaphysik, Berlin 1927; Das Kollektivbewusstsein, ivi 1928; Psychologie der Individualitäten, ivi 1928; Zur Grundlegung der Kulturpädagogik, ivi 1929; Geschichte der nachkantische Philosophie, ivi 1931; Die Ontologie der Gegenwart in ihren Grundgestalten, Halle 1933; Die deutsche Philosophie der Gegenwart, Stuttgart 1944. Lehmann curò inoltre per l’edizione kantiana dell’accademia delle scienze di Berlino i volumi XX (1931), XXI (1936), XXII (1938), di cui gli ultimi due contengono la prima edizione veramente integrale e filologicamente accurata, dopo quelle parziali di Reicke (1832), di Krause (1888) e di Adickes (1920), dell’Opus postumum. V. anche: Kants Nachlasswerk und die Kritik der Urteilskraft, Berlin 1939; Der Einfluss des Judentums

LEHMANN, J OHANNES EDVARD. – Storico Lehmann delle religioni, n. a Copenaghen il 19 ag. 1862, m. ivi nel 1930. Insegnò storia delle religioni nella sua città natale; nel 1910 fu inviato a iniziare tale insegnamento nell’università di Berlino; dal 1913 fino al suo ritiro coprì la stessa cattedra a Lund. Si rivolse particolarmente allo studio dei primitivi, del mazdeismo, del buddhismo e del cristianesimo in costante ricerca di nuove conclusioni dalla comparazione delle varie religioni. Favorì in modo speciale la divulgazione scientifica di questa disciplina curando con H. Haas un Text zur Religionsgeschichte (Leipzig 19222) e rifacendo completamente in collaborazione con A. Bertholet il Lehrbuch der Religionsgeschichte di P.D. Chantepie de la Saussaye (Tübingen 19254). V. Dellagiacoma

LEHMEN, ALFONS. – Filosofo tedesco, gesuLehmen ita, d’indirizzo neoscolastico, n. a Höxter (Vestfalia) nel 1847, m. ad Aalbeck (Olanda) nel 1910. Professore di filosofia nella scuola superiore dell’ordine a Valkenburg. Il suo Lehrbuch der Philosophie auf aristotelisch-scholastischer Grundlage (Freiburg im Breisgau 1899-1904; vol. I, 19236; vol. II, I-II, 1920-215; vol. III, 19235; vol. IV, 19193) è una delle opere più importanti della corrente neoscolastica in lingua tedesca. W. Schleicher

LEIBNIZ, GOTTFRIED WILHELM. – Filosofo, loLeibniz gico e matematico tedesco n. a Lipsia, da famiglia di antica origine slava, l’1 lug. (21 giu. del vecchio calendario) 1646, m. a Hannover il 14 nov. 1716. SOMMARIO: I. Biografia. - II. Logica. - III. Fisica. IV. L’armonia prestabilita. - V. Dio e i mondi. VI. La libertà. - VII. L’innatismo. - VIII. II sistema dell’universo. - IX. Conclusioni. I. BIOGRAFIA. – II padre, Federico, professore di diritto all’università, morì già nel 1652, e il piccolo Leibniz rimase affidato alle cure della ma6305

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Leibniz dre, Caterina Schmuck, dotata di forte senso religioso. Giovane precoce, Leibniz cominciò assai presto a leggere i classici filosofici della biblioteca paterna, e racconta che già a 15 anni andava meditando se si dovessero conservare o no le «forme sostanziali» degli scolastici. All’università frequentò i corsi di diritto e di filosofia: ottenne il baccellierato con una tesi De principio individui (Leipzig 1663) discussa sotto la presidenza del suo maestro J. Thomasius, e il dottorato con lo Specimen quaestionum philosophicarum ex jure collectarum (ivi 1664), cui seguirono una Disputatio juridica de conditionibus (ivi 1665), in due parti, e una Disputatio arithmetica de complexionibus (ivi 1666), primo nucleo della Dissertatio de arte combinatoria (ivi 1666). La laurea in giurisprudenza fu ottenuta ad Altdorf, nel 1666, con una Disputatio de casibus perplexis in jure (Nürnberg 1666). Facendosi passare per alchimista, a Norimberga Leibniz poté entrare come segretario nella società dei Rosacroce, dove conobbe il barone von Boineburg, che lo prese a benvolere e lo introdusse alla corte di Magonza. Per l’elettore Giovanni Filippo di Schönborn, scrisse la Nova methodus discendae docendaeque jurisprudentiae (Frankfurt am Main 1667) e, nel 1668, entrò al suo servizio con incarichi giuridici (riordinamento del diritto civile in collaborazione con Lasser) e diplomatici (cfr. lo Specimen demonstrationum politicarum pro eligendo rege Polonorum, Vilnae 1669, e gli scritti del 1670 sulla Securitas publica dell’impero e sulla questione dei tre vescovadi di Lorena; in Sämtliche Schriften und Briefe, a cura dell’Accademia prussiana delle scienze, Berlin 1923 ss., serie IV, vol. I). Nel 1672 Leibniz si recò a Parigi, con il proposito di sottoporre a Luigi XIV un progetto di spedizione in Egitto, concordato con il barone von Boineburg per distogliere il re dalla guerra d’Olanda. Il progetto, che in realtà non fu mai presentato, sarà riesumato dagli inglesi a Hannover al tempo della spedizione egiziana di Napoleone, che però non lo conobbe se non più tardi (cfr. P. Ritter nel fasc. I del «LeibnizArchiv», Darmstadt 1930). Gli anni del soggiorno a Parigi (1672-76), inframezzato da un viaggio in Inghilterra, furono decisivi nella formazione di Leibniz, che vi conobbe Arnauld e Malebranche e, sotto la guida di Huygens e di altri, poté perfezionare la propria preparazione matematica. Pervenne, in questo tempo, alla scoperta del calcolo infinitesimale, nella sua forma oggi universalmente adottata, diversa 6306

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da quella che Newton aveva precedentemente elaborata, ma non fatta conoscere. Nel 1672 von Boineburg era morto e Leibniz, che andava elaborando grandiosi progetti di riforma scientifico-politica, nel 1676 accettò, in mancanza di meglio, un posto di bibliotecario a Hannover offertogli dal duca Giovanni Federico. La sua attività, a partire da questo momento, si fa enormemente complessa. In campo politico sostiene le prerogative sovrane del suo principe con il Tractatus de jure suprematus (Amsterdam 1677) e l’Entretien de Philarète et d’Eugène (Duisburg 1677), attacca la politica aggressiva di Luigi XIV con il Mars Christianissimus (Colonia 1684) e si adopera attivamente per la riunione tra protestanti e cattolici, trattando da una parte con Molanus, dall’altra con Bossuet. In campo culturale cura pubblicazioni erudite, progetta la fondazione di accademie, mentre le linee del suo pensiero filosofico vanno trovando la loro prima definizione. Si occupa di chimica, di ingegneria mineraria, di statistica; la sua mente enciclopedica rifiuta di lasciarsi legare a un solo campo di studi, e la sua attività non conosce limiti di interesse. A ciò è dovuto il carattere quasi sempre frammentario e occasionale della sua produzione, che egli non ha il tempo di correggere e coordinare; e anche, in parte, il successo relativamente scarso delle sue iniziative pratiche, animate sempre da genialissime vedute teoriche, ma spesso incapaci di trovare i mezzi, la via per la realizzazione. La carriera alla corte di Hannover, dove Leibniz diviene consigliere segreto di giustizia e storiografo, riceve incarichi diplomatici, si adopera per la concessione del titolo elettorale al nuovo duca Ernesto Augusto (1692) e per la successione di Giorgio sul trono inglese (1714), non gli impedisce di offrire i suoi servigi ad altre corti: all’imperatore, appoggiato contro i francesi con vari scritti anonimi (Réponse de Léopold Empéreur, s. l. 1688; La justice encouragée contre les chicanes des Bourbons, s. l. 1701; Manifeste contenant les droits de Charles III roi d’Espagne, Den Haag 1703 ecc.); all’elettore di Brandeburgo, sostenuto nelle aspirazioni al titolo di re; a Pietro il Grande, incontrato a Torgau nel 1711 poi a Karlsbad nel 1712; ad Antonio Ulrico di Wolffenbüttel, per conto del quale Leibniz contrasta, a Vienna, Ia conclusione della pace di Utrecht. Più che da ambizione personale (Leibniz ebbe i titoli di consigliere di giustizia nel Brandeburgo e in

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Russia, e di consigliere aulico a Vienna, con buoni appannaggi; quasi certamente falsa è invece la tradizione che lo vuole creato barone dell’impero), Leibniz è mosso dal desiderio di stabilire un’organizzazione mondiale di accademie, necessarie alla fondazione del sapere, e di lavorare, per mezzo di essa, al miglioramento della vita umana. A Vienna promuove, con Ludolf, un «Collegium historicum» (1687-90) e si adopera per una Società delle scienze (cfr. O. Klopp, Leibniz’s Plan der Grundung einer Sozietät der Wissenschaften in Wien, Wien 1869). A Berlino (1700) induce Federico I a fondare l’Accademia prussiana delle scienze, di cui è eletto primo presidente a vita. Per Federico Augusto II di Sassonia forma progetti di un’accademia a Dresda (1703); e da ultimo, per Pietro il Grande, di un’accademia a Pietroburgo (1711): lo zar appare in questo momento a Leibniz il monarca capace di promuovere con mezzi giganteschi il progresso delle scienze, di riunire la chiesa greca alla latina e di diffondere il cristianesimo in Asia. Nei primi anni del 1700, tuttavia, la situazione di Leibniz peggiora rapidamente. Nel 1705 muore a Berlino la sua protettrice Sofia Carlotta; tra Hannover e Berlino i rapporti sono, ora, poco cordiali, e Ia posizione ambigua di Leibniz è vista con sospetto da entrambe le parti. Nel 1711 l’Accademia festeggerà il decennale della fondazione in assenza del suo presidente. A Hannover, Giorgio Ludovico non vede di buon occhio le continue assenze dello storiografo della sua famiglia, restio a dedicarsi tutto a un compito così ingrato; nel 1715, da Londra, farà rispondere duramente a Leibniz, che manifestava il desiderio di seguire il suo signore, divenuto re d’Inghilterra. La Royal Society, frattanto, chiamata a decidere sulla priorità dell’invenzione del calcolo infinitesimale, aveva, poco correttamente, condotto le cose in modo da far credere che vi fosse plagio da parte di Leibniz (1713). Né vanno a miglior fine i tentativi, a lungo protratti, per conciliare i protestanti con i cattolici. La fine di Leibniz, incatenato al suo lavoro di storiografo per cui mostrava notevoli attitudini critiche (cfr. le edizioni del Codex juris gentium diplomaticus, Hannover 1693-1700, 2 voll., degli Scriptores rerum brunsvicensium, ivi 1707, e varie dissertazioni) ma nessuna propensione, fu triste. Alle sue modestissime esequie non era presente che il segretario, Eckhard, e delle molte accademie

Leibniz di cui era membro solo una lo ricordò, quella di Parigi, per bocca di Fontenelle. L’erede, un lontano parente, si risparmiò la spesa di un monumento, e la tomba di Leibniz non fu ritrovata se non quasi due secoli dopo la sua morte, sotto la semplice iscrizione «ossa Leibnitii». II. LOGICA. – La logica di Leibniz, che gode di grande attualità da quando la corrente «logistica» ne riprese alcuni motivi fondamentali, è da taluni (Russell, Couturat) considerata come il fondamento di tutta la sua filosofia: da altri (Heimsoeth) come importante, sì, ma non tale da contenere in germe l’intero sistema. Essa è una logica, in senso lato, matematica, mirante a ridurre ogni ragionamento a una combinazione di segni, cioè a un calcolo. A questo scopo è necessario trovare, per ogni concetto semplice, un segno che lo rappresenti («caratteristica universale»), sì che, combinando variamente questi segni, si formi una specie di lingua universale (idea che sarà ripresa dal matematico Peano), la quale permetta di significare tutti i concetti complessi e tutte le relazioni. In tal modo Leibniz (che, con la sua Dissertatio del 1666, riprende le idee dell’Ars combinatoria di R. Lullo e di Kircher) spera di foggiare uno strumento universale, atto in primo luogo a produrre, per semplice combinazione di concetti, tutte le possibili scoperte e, in secondo luogo, a sedare tutte le dispute. Infatti quando due persone si trovino in disaccordo su un qualsiasi punto, esse, se dotate di un tale strumento, potranno sedersi a tavolino e, come quando si è in disaccordo sul risultato di un’operazione difficile, dire: «calcoliamo». È ben vero che non tutte le questioni si lasciano dirimere con un taglio netto: ma Leibniz, cultore del pascaliano calcolo delle probabilità, fa osservare che anche di ciò che è semplicemente probabile si dà una scienza che non è, a sua volta, probabile, eppure matematicamente certa. La principale integrazione che egli desidera portare alla logica aristotelica è appunto la logica delle probabilità. Tra le questioni che Leibniz spera di risolvere con la sua logica delle probabilità, vi sono, p. es., le controversie intorno ai deliberati del concilio di Trento, che egli si ripromette di dimostrare accettabili dai protestanti, salvo due o tre. Lo stesso programma leibniziano per la fondazione di accademie non è senza connessione con questa concezione, poiché le accademie hanno il 6307

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Leibniz compito di raccogliere un’enciclopedia di tutti i possibili concetti, che dovrà servire di base alla lingua logica universale. Questo sogno non fu mai abbandonato del tutto da Leibniz, anche se le difficoltà pratiche lo costrinsero a rimandarne continuamente l’attuazione, e ad accontentarsi, in mancanza della logica euristica, di compiere scoperte, in verità importantissime, senza una tecnica preordinata: come quella del calcolo differenziale (1676), pubblicata in forma definitiva nella Nova methodus pro maximis et minimis (in «Acta eruditorum», Leipzig, ott. 1684). A parte poche divergenze e innovazioni, Leibniz vuole rimaner fedele al modello logico dell’apodissi aristotelica, che permette di fornire dimostrazioni sicure, mentre il criterio cartesiano dell’evidenza gli appare troppo facilmente ingannevole. Tutte le «verità di ragione», cioè quelle verità a cui possiamo pervenire senza ricorrere all’esperienza, riposano per Leibniz sul principio logico d’identità: cioè, o consistono in proposizioni identiche, o si possono ridurre ad esse mediante il ragionamento. Il loro opposto, pertanto, implica contraddizione, e non può essere pensato, neppure da Dio, non essendo altro che un nulla. Esempio di tali verità di ragione sono i teoremi matematici. Anche il diritto è costituito da tali eterne verità di ragione, e non dipende punto, quindi, dalla volontà, né del legislatore umano, né di Dio. Gli scritti giuridici di Leibniz sono una continua polemica contro coloro che rendevano (o egli credeva che rendessero) il diritto arbitrario: arbitraria può essere solo, eventualmente, la legge umana, quando, appunto, si scosti dal diritto naturale. Vi sono, poi, «verità di fatto», il cui contrario, non può da noi essere dimostrato contraddittorio, ma di cui si deve sempre poter indicare una ragione: è, questo, il celebre principio di ragion sufficiente, formulato da Leibniz così: «Di ogni verità si può render ragione o, come si dice volgarmente, nulla accade senza causa» (cfr. Die philosophischen Schrifen, a cura di C.I. Gerhardt, Berlin 1875-90 [rist. Hildesheim 1960 ss.], vol. VII, p. 309). Esso corrisponde all’incirca al «principio di causa», che già Platone e Aristotele avevano distinto dal principio di contraddizione. Tuttavia un’analisi infinita, quale può essere compiuta non dalla mente umana, ma da quella divina, riuscirebbe a risolvere anche le verità di fatto, per noi contingenti, in verità necessarie: Dio, infatti, 6308

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conoscendo perfettamente la «nozione individuale» di ciascuno, vede l’intero svolgimento della sua vita contenuto in quella, come il predicato di un giudizio è contenuto nel soggetto. Questa concezione ha, come si vede, una rilevanza al tempo stesso logica e metafisica, per cui su di essa converrà ritornare. Ogni vicenda di una sostanza si sviluppa, dunque, da essa per pura analisi. L’analisi è ciò che permette di rendere distinta, oltre che chiara, una conoscenza (Leibniz evita di usare come sinonimi i due aggettivi, a differenza di Descartes); cioè, per Leibniz, di passare da una conoscenza sensibile, che non può essere trovata se non nell’esperienza, a una conoscenza intellettuale. La differenza puramente di grado stabilita così tra conoscenza intellettuale e sensibile sarà il punto più importante su cui la dottrina di Kant si opporrà a quella di Leibniz. Per Leibniz, questa gradualità non è che un caso particolare di quella legge di continuità che egli ritiene governi tutto il reale («natura non facit saltus»). Vi è, infine, ancora, un celebre principio logico-metafisico leibniziano, quello degli indiscernibili: secondo esso due enti che non si distinguano per nessuna, sia pur minima, differenza intrinseca, non possono essere due neppure numericamente (anche due gocce d’acqua presentano sempre qualche diversità ecc.). Leibniz cerca di fondare il principio degli indiscernibili sul principio di ragion sufficiente, osservando che non vi sarebbe ragione per cui, se due enti sono assolutamente identici, Dio situi l’uno in un posto e l’altro nell’altro. III. FISICA. – Se la struttura logica del reale forma una delle componenti della metafisica leibniziana, altri elementi vi confluiscono dall’indagine fisica. Anche in fisica Leibniz, in un primo tempo atomista, ama contrapporsi a Cartesio, negando che l’essenza dei corpi consista nell’estensione: questa, infatti, «non rende ragione dell’inerzia naturale per cui un corpo resiste al movimento» (Si l’essence du corps consiste dans l’étendue, in «Journal des Sçavans», 18 giu. 1691), e neppure della coesione (cfr. le Demonstrationes novae de resistentia solidorum, in «Acta eruditorum», luglio 1684). In una lettera a J. Thomasius dell’aprile 1669 l’essenza della materia è indicata nel movimento. Ma in seguito Leibniz scopre che l’«errore memorabile» di Cartesio, di ritenere che in natura si conservi costante la quantità di moto (massa x velocità), contraddice al principio dell’equiva-

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lenza tra causa ed effetto, e che ciò che si conserva effettivamente costante è la «forza viva» mv2 o, come noi diremmo, l’energia cinetica ( ) 2 (su ciò cfr. la Brevis demonstratio, in «Acta eruditorum», mar. 1686, e la sua tr. fr. nelle «Nouvelles de la République des Lettres», sett. 1686; poi, in risposta alle obiezioni di Papin, il De legibus naturae et vera aestimatione virium motricium contra Cartesianos, in «Acta eruditorum», sett.-ott. 1691). Ciò induce Leibniz a pensare che l’essenza della materia consista nella forza, e che alla radice delle forze che si manifestano nel mondo fisico vi sia una forza metafisica, a cui egli applica, in un primo tempo, il termine hobbesiano di conatus. Lo sforzo, di cui noi siamo coscienti, può, in sostanza, darci qualche idea di ciò di cui la natura fisica è manifestazione. Leibniz pone l’origine profonda di queste forze in «punti metafisici» inestesi, detti poi «monadi», a cui non si può mai arrivare dividendo semplicemente la materia, ma che si trovano, metafisicamente, su un piano più profondo di quello dei fenomeni fisici. Quei centri di forza danno luogo in qualche modo alla sostanza fisica, o composta, quando si consideri la loro azione nello spazio. La natura della materia è, dunque, in certo senso, mentale, fatta la riserva che la materia, mancando di memoria, non collega attualmente il passato con il futuro: «Corpus est mens momentanea, seu carens recordatione», diceva già la Theoria motus abstracti inviata all’Accademia di Parigi (MainzLondon 1671; cfr. in Die philophischen Schriften, vol. IV, p. 230). Cosi dal giovanile atomismo Leibniz passa gradatamente a una dottrina monadologica, intesa ad abbracciare, in una continuità di sviluppi, l’intero reale. Anche la vita animale (che negli anni di Magonza Leibniz, sulle orme di Cartesio, riteneva ancora puramente meccanica) trova il suo principio in una «monade dominante», la quale organizza sotto di sé le monadi subordinate che costituiscono il corpo. E il nascere e il perire degli individui non è altro che l’organizzarsi e il disorganizzarsi di tale struttura, le monadi componenti essendo imperiture: «Conservazione non soltanto dell’anima, ma dello stesso animale, di cui anche la generazione è apparente» (Système nouveau de la nature et de la communication des substances, in «Journal des Sçavans», 27 giu. 1695). A questi pensieri forniva un appoggio la teoria della «preformazione», accol-

Leibniz ta da Leibniz, e che, grazie alle osservazioni di Swammerdam, di Malpighi e, soprattutto alla scoperta degli spermatozoi compiuta da Leeuwenhoek e dalla sua scuola, prevaleva a quei tempi sulla opposta teoria della «epigenesi». IV. L’ARMONIA PRESTABILITA. – I motivi della logica e quelli della fisica confluiscono nella dottrina della monade come «specchio dell’universo». Il termine «monade» non è introdotto che a partire dal 1696, ma il suo concetto si affaccia già in uno scritto di dieci anni prima, che forma la base di una lunga corrispondenza di Leibniz con Arnauld e che Leibniz stesso, in una lettera al Langravio di Hesse (febbr. 1686), designa come un «piccolo Discorso di metafisica». Esso rappresenta la prima, sintetica formulazione della definitiva teoria leibniziana; la sua impronta teologica è in parte dovuta al fatto che Arnauld era stato sollecitato dal cattolico Langravio a discutere con Leibniz le questioni che dividevano i protestanti dai cattolici e, possibilmente, a convertirlo. Nel Discours de métaphysique la sostanza individuale è definita come un «essere completo, la cui nozione è sufficiente a comprendere e a far dedurre tutti i predicati dal soggetto a cui questa nozione è attribuita» (Discours de métaphysique, § 8): p. es., «poiché Cesare diverrà dittatore perpetuo e rovescerà la libertà dei romani, quest’azione è compresa nella sua nozione» (ibi, § 13). Come si vede, la nozione della sostanza è quella di un soggetto che contiene, analiticamente, i suoi predicati: il rapporto logico di implicanza diviene un rapporto reale per cui ogni individuo contiene in sé tutti i successivi avvenimenti della sua esistenza, la quale si realizza quando «Dio trova opportuno renderne il pensiero effettivo, e creare questa sostanza» (ibi, § 14). In questo modo «ciascuna sostanza è come un mondo a parte, indipendente da ogni altra cosa, fuorché da Dio» (ibid.), e in Dio si trova la ragione della sua coordinazione con le altre sostanze: le differenti sostanze sono prodotte da Dio secondo le differenti vedute possibili dell’universo, e queste vedute si integrano in lui in una veduta totale, come accade quando «molti spettatori credono di vedere la medesima cosa, e s’intendono, infatti, tra loro, sebbene ciascuno veda e parli secondo la misura della sua veduta» (ibid.). Questo sistema, che Leibniz chiamerà dell’«armonia prestabilita», permette di risolvere i problemi che la speculazione cartesiana aveva fatto nascere, o almeno, acuito, intorno 6309

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Leibniz alla comunicazione delle sostanze. «Stabilito il principio dei punti metafisici», racconta Leibniz (Système nouveau..., § 12), «credevo di essere entrato in porto, ma non appena cominciai a meditare sull’unione dell’anima e del corpo fui come respinto in alto mare». Ora, l’armonia prestabilita risolve il problema non solo del rapporto anima-corpo, ma delle relazioni tra sostanze in generale. «L’azione di una sostanza finita sull’altra non consiste che nell’accrescimento del grado della sua espressione, congiunto con la diminuzione di quella dell’altra, secondo che Dio le obbliga di accomodarsi insieme» (Discours..., § 15); l’agire e il subire non avvengono direttamente, ma sono mediati da una corrispondenza stabilita da Dio: «Dio solo è l’oggetto immediato delle nostre percezioni che esiste fuori di noi, e lui solo è il nostro lume» (ibi, § 18). La somiglianza di questa costruzione con l’occasionalismo di Malebranche è evidente; ma Leibniz rileva che l’occasionalismo è un continuo «ricorrere al miracolo» (Système nouveau..., § 13), mentre l’armonia prestabilita conferisce alle sostanze finite una loro autonomia naturale, data da Dio una volta per tutte: Dio non è più, allora, simile a un cattivo orologiaio, che abbia bisogno di intervenire continuamente per regolare i propri orologi. A detta di Leibniz, l’ipotesi dell’armonia prestabilita, che «è più che un’ipotesi, perché non v’è altra possibilità di spiegare le cose in modo intelligibile» (ibi, § 17), «presenta anche l’altro grande vantaggio che noi, invece di considerarci come liberi solo apparentemente [...] dobbiamo dire piuttosto di non essere necessitati se non in apparenza, mentre, a rigore, siamo del tutto indipendenti dall’influenza di tutte le altre creature» (ibi, § 16). Tuttavia, specialmente nella formulazione primitiva del Discorso di metafisica, l’ipotesi presenta l’evidente pericolo di fare, delle sostanze finite, semplici punti di vista particolari presi sulla sostanza infinita: un pericolo di spinozismo, a cui Leibniz cercherà di ovviare ammettendo una libera creazione divina, senza riuscire però mai a districarsi completamente dalle difficoltà che quell’impostazione comporta. V. DIO E I MONDI. – Per renderci conto del problema che la libertà costituisce nella filosofia di Leibniz, occorre esaminare iI rapporto che si stabilisce tra Dio e gli enti finiti, considerati sia come semplici possibili, sia come esistenti di fatto. Dio, che già in una lettera al duca Gio6310

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vanni Federico non posteriore al 1673 è chiamato «armonia universale» (Die philosophischen Schriften, vol. I, p. 63), può considerarsi come l’integrazione di tutti i punti di vista particolari rappresentati dagli enti finiti, senza che tuttavia Leibniz rinunci mai ad ammettere una sua trascendenza rispetto ad essi. Delle dimostrazioni classiche dell’esistenza di Dio Leibniz ne accetta due: quella ontologica corretta e quella cosmologica. La prima è esaminata nella formulazione cartesiana datane da Lami sui «Mémoires de Trévoux» del febbraio 1701. In una lettera alla rivista, uscita il mese successivo, Leibniz, riprendendo idee espresse fin dal 1678, dichiara la dimostrazione probativa, ma incompiuta, perché non dimostra preventivamente che l’essere perfetto è possibile. Tale pre-dimostrazione è offerta dalla considerazione che tutte le qualità semplici puramente positive possono coesistere senza contraddizione: perciò l’essere perfetto è possibile. Dunque essendo possibile, esiste; infatti «è questo il privilegio dell’essere perfettissimo: che, posto che sia possibile, senz’altro esiste» (Die philosophischen Schriften, vol. VII, p. 295); mentre, inversamente, se l’essere necessario non esistesse, non vi sarebbe alcun essere possibile, ovvero, come dice Leibniz, «l’essere necessario è esistentificante» (ibi, p. 289). La prova cosmologica si basa sulla constatazione che qualcosa esiste, e fa leva sul principio di ragion sufficiente, che provoca la domanda: «Perché vi è qualcosa piuttosto che niente? [...] La ragione sufficiente dell’universo non può trovarsi nella serie delle cose contingenti, essendo la materia indifferente al moto e alla quiete»; quindi deve trovarsi, fuori della serie, in un essere necessario (cfr. Principes de la nature et de la grâce fondés en raison [1714], stampati in «L’Europe savante», Paris 1718, §§ 7-8). Più che a queste prove classiche, però, Leibniz si affida alla prova dell’armonia prestabilita, che corrisponde per molti tratti all’argomento che Kant chiamerà «fisico-teologico». In una lettera ad Arnauld del 1687, Leibniz dichiara che «la corrispondenza delle sostanze è una delle più solide prove dell’esistenza di Dio, o d’una causa comune, che ciascun effetto deve sempre esprimere dal suo punto di vista». Dio non si trova soltanto in rapporto con i particolari esistenti, ma anche con i particolari che potrebbero esistere, ma che, di fatto, non esistono (sebbene esistano come possibilità): ciò

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complica singolarmente le cose. Leibniz definisce la possibilità come non contraddizione, e considera gli enti, possibili secondo tale definizione, come essenze, che «esistono in una certa regione delle idee, cioè nello stesso Dio, fonte di ogni essenza ed esistenza» (cfr. Opuscules et fragments inédits, a cura di L. Couturat, Paris 1903 [rist. Hildesheim 1966], p. 304). Di tutte queste essenze, secondo Leibniz, solo alcune possono passare all’esistenza di fatto, fuori della mente di Dio: poiché, sebbene tutte, prese per sé, siano non-contraddittorie, l’esistenza dell’una renderebbe contraddittoria l’esistenza dell’altra. Cesare poteva senza contraddizione, per quanto sappiamo noi, astenersi dal passare il Rubicone; ma il fatto che egli compia questo passaggio rende impossibile certe altre eventualità, che gli contraddicono (p. es., che egli, nella stessa occasione, ritorni in Gallia ecc.), con tutte le eventualità connesse. Le possibilità o essenze si organizzano quindi in sistemi, che Leibniz chiama mondi, ognuno dei quali si compone di tutte le eventualità che possono stare insieme senza contraddizione. Sulla composizione dei singoli mondi lo stesso volere divino non può avere alcuna influenza, poiché esso non ha alcuna influenza sul principio di non-contraddizione, da cui quella composizione dipende. Su ciò si basa la giustificazione di Dio per aver creato un mondo non esente da imperfezioni, ovvero, come dice il titolo dell’unica opera di metafisica pubblicata da Leibniz, la teodicea (Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal, Amsterdam 1710): le imperfezioni, infatti, sono inscindibilmente connesse con le perfezioni dei vari mondi, sulla cui composizione Dio non può influire, ma tra i quali può soltanto scegliere il migliore. L’affermazione che tra tutti i mondi possibili Dio abbia scelto il migliore costituisce l’ottimismo leibniziano (il termine stesso nacque, nel 1700, a proposito di questa dottrina); dove «ottimo» va inteso come un superlativo relativo, non assoluto, che non giustifica, dunque, le critiche basate sulla constatazione di imperfezioni, che Voltaire e altri gli vollero muovere. Già nel Discorso di metafisica Leibniz aveva affermato che «Dio fa tutto nella maniera più desiderabile» (§ 1) mostrando, «contro coloro che credono che Dio avrebbe potuto far meglio», che agire imperfettamente sarebbe solo

Leibniz «agire con meno perfezione di quanto si sarebbe potuto» (§ 3). Il criterio per cui un mondo va giudicato migliore di un altro è quello della quantità di essenza che il mondo contiene. Nessun finito, come tale, è esente dal «male metafisico» che consiste nella sua stessa limitazione, nella particolarità del suo punto di vista: ma ciascuno è bene nella misura in cui è, in proporzione, cioè, dell’essenza che contiene. Dunque, se Dio lo potesse, in omaggio al criterio del meglio creerebbe tutti i possibili. Ma, osserva Leibniz, non tutti i possibili possono coesistere, cioè essere «compossibili»: perciò Dio non può far di meglio che creare quel mondo che contiene il massimo di essenza, il migliore dei mondi possibili. Qui sorgono due questioni. Anzitutto, è vero che l’esistenza di un possibile rende impossibile, in quello stesso mondo, altre eventualità, che, in sé, non sarebbero contraddittorie; tuttavia non si vede perché debba rendere impossibile l’esistenza di dette eventualità anche in quell’altro mondo, a cui, come possibili, appartengono. Il passaggio del Rubicone, p. es., rende impossibile che il Cesare del nostro mondo si rechi, in quel momento, in Gallia; ma se (come Leibniz ammette) in un’altra serie di possibili, un altro Cesare si reca in Gallia, questa eventualità non può essere resa impossibile dal passaggio all’esistenza del nostro mondo. Nella sfera dei possibili un mondo non rende impossibile l’altro, perché tutti coesistono, in quanto possibili, nella mente divina: Leibniz dovrebbe dunque indicare qualche ragione per cui i mondi si rendano reciprocamente impossibili nell’esistenza di fatto. Ma questa ragione egli non la può indicare. A volte egli afferma che gli incompossibili sono tali perché dovrebbero occupare lo stesso luogo o lo stesso tempo: ma, dal suo punto di vista, ciò è inammissibile, perché spazio e tempo non sono altro che un ordine (di coesistenza e di successione) tra le sostanze, che non manca mai, già negli stessi possibili, e non sono recipienti dati che le sostanze debbano occupare. D’altro canto, se la mutua esclusione tra gli incompossibili fosse dovuta a una contraddizione, questa, come rapporto logico, si troverebbe già sul piano della possibilità dei vari mondi, e ne interesserebbe l’essenza, prima che l’esistenza; mentre se non è dovuta a una contraddizione, non si vede a che cosa sia dovuta, dal momento che Leibniz ritiene possibile tutto 6311

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Leibniz ciò che non è contraddittorio. E, infatti, in un breve scritto De veritatibus primis, Leibniz ammette che «illud tamen adhuc hominibus ignotum est, unde oriatur incompossibilitas diversorum» (ed. Erdmann, 99 b). Si potrebbe pensare, allora, che Dio scelga liberamente di creare uno solo dei mondi possibili; ma qui sorge una altra questione. Leibniz ha definito, come ottimo, l’esistente che realizza il massimo di essenze, e Dio non può non volere l’ottimo. Nondimeno, osserva Leibniz, la decisione di Dio è pur sempre libera, perché esente da ogni costrizione esterna, e perché la sua necessità è una necessità morale, non metafisica. Se la decisione fosse necessaria metafisicamente, il mondo che ne consegue sarebbe esso stesso necessario; esso è, invece, contingente perché la decisione che lo pone in atto è pur sempre libera, e necessaria solo moralmente, per l’infinita bontà divina. Nel primo caso si avrebbe una «necessitas consequentis»; nel secondo, si ha solo una «necessitas consequentiae», mentre l’oggetto che consegue, cioè il mondo, rimane contingente (lettera a Coste del 17 dicembre 1707, in Die philosophischen Schriften, vol. III, p. 400). Tuttavia, si può osservare, sarebbe contraddittorio che Dio, infinitamente buono, non scelga il meglio: quindi la distinzione tra necessità morale e metafisica giova a poco. La determinazione di quale dei mondi debba passare all’esistenza, più che alla libera decisione di Dio appare allora dovuta al «meccanismo metafisico» dei possibili, i quali «tendono tutti con pari diritto all’esistenza, ciascuno in proporzione della quantità di essenza che contiene» (De rerum originatione radicali [1697], in Die philosophischen Schriften, vol. VII, p. 303). In questa prospettiva, Dio si riduce al teatro della lotta tra i possibili che, secondo Leibniz, non possono esistere tutti; e non può, in ogni caso, che sanzionare l’inevitabile prevalere del più ricco di essenza. In realtà, tra la veduta deterministica e la sua opposta, Leibniz oscilla continuamente, senza poter escludere nessuna delle due. Queste aporie sono dovute, in buona parte, alla difficoltà di chiarire in che cosa consista per Leibniz la differenza tra il semplicemente possibile e il reale. Allorché ipotizza un mondo possibile di contenuto in tutto e per tutto identico a quello del mondo reale, Leibniz (come, con maggior consapevolezza, farà Kant) concepisce il reale come una posizione del possibile nell’esistenza, la quale «non aggiun6312

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ge nulla alla cosa posta, ma aggiunge soltanto un modo di essere affetta da altre cose» (Opuscules et fragments inédits, p. 9). Se, infatti, l’esistenza aggiungesse qualcosa al contenuto del possibile, come osserva il De veritatibus primis, questo qualcosa avrebbe, a sua volta, un’essenza corrispondente nella sfera del possibile; ma a questa essenza dovrebbe di nuovo aggiungersi qualcosa perché passi all’esistenza, e così di seguito. Qui, dunque, l’esistenza è intesa come posizione. Quando, invece, accetta la prova a priori dell’esistenza di Dio (o anche, implicitamente, quando pensa che i mondi, coesistenti allo stato di possibili, darebbero luogo a una «incompossibilità» nella sfera dell’esistente) Leibniz ammette che l’esistenza aggiunga una nuova determinazione all’essenza, che, senza di essa, sarebbe meno perfetta. Da un lato, Leibniz non é in grado di indicare tale determinazione; dall’altro, l’impostazione «panlogistica» del suo pensiero non gli permette di formulare senza riserve una dottrina dell’esistenza come posizione, per cui il rapporto tra possibile e reale rimane, nella sua filosofia, oscillante, con le difficoltà che si è detto. VI. LA LIBERTÀ. – Le difficoltà incontrate a proposito della libertà divina si ripercuotono anche sul problema della libertà umana, trattato particolarmente nei citati Saggi di teodicea. Quest’opera (l’unica di grossa mole che Leibniz abbia pubblicato) nacque da conversazioni tenute nel circolo della dotta regina di Prussia, Sofia Carlotta, protettrice di Leibniz. Ad esse aveva preso parte Bayle, che già nell’articolo Rorarius del suo Dictionnaire historique et critique (a proposito, cioè, di Gerolamo Rorario), aveva formulato alcune riflessioni sul sistema dell’armonia prestabilita, a cui Leibniz aveva dapprima risposto con una lettera aperta (in «Histoire des Ouvrages des Savants», lug. 1680), poi con una controreplica del 1702 (in «Histoire de la République des Lettres», 1716). Morto Bayle nel 1706, Leibniz continuò a sviluppare i suoi argomenti nella Teodicea, uscita nel 1710. Egli afferma che «la spontaneità delle nostre azioni non può essere posta in dubbio, nel modo come Aristotele l’ha definita, dicendo che un’azione è spontanea quando il suo principio è in colui che agisce» (Essais de Théodicée, § 301). Infatti, mancando l’influsso reciproco delle sostanze, il principio di un’azione non può mai trovarsi in altro che in ciò che agisce. Ciò non implica nessuna indeterminazione,

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perché ciascuna sostanza contiene in sé, allo stato virtuale, tutto il suo futuro sviluppo; «tutto è certo e predeterminato nell’uomo come in ogni dove, e l’anima umana è una specie di automa spirituale» (ibi, § 52). La sola differenza tra atti liberi ed eventi subiti si può, dunque, porre in ciò: che nei primi l’intelletto ha una rappresentazione chiara e distinta dei motivi, nei secondi no (con passaggio graduale dall’una condizione all’altra); il che si collega con la concezione leibniziana della passività e della materialità come coscienza oscura e confusa o insieme «sordo» di «piccole percezioni». L’indipendenza del volere rispetto ai motivi rappresentati nell’intelletto si ridurrebbe, dice Leibniz, a un arbitrio di indifferenza, o a un’assenza di ragion sufficiente, simile al clinamen di Epicuro. In una lettera a Clarke (lettera n. 5, 1716, § 15) Leibniz rileva che «volere che lo spirito preferisca talvolta i motivi più deboli ai più forti, o che sia indifferente ai motivi, significa separare lo spirito dai motivi, come i pesi sono distinti dalla bilancia. In realtà, i motivi comprendono tutte le disposizioni che lo spirito può avere per agire volontariamente, anche le inclinazioni»; sicché «se lo spirito preferisse l’inclinazione debole alla forte agirebbe contro se stesso». Nella Teodicea Leibniz afferma tuttavia che «qualunque percezione si abbia del bene, lo sforzo ad agire in seguito al giudizio, che costituisce Ia volontà, ne è distinto. [...] Ecco perché l’animo nostro ha tanti mezzi per resistere alla verità che conosce [...] specialmente quando l’intelletto procede in buona parte con pensieri sordi» (Essais de Théodicée, § 311). La libertà dell’uomo è necessaria a Leibniz per «giustificare» pienamente la creazione divina. Sì è visto, infatti, che l’impossibilità di rendere più perfetto il migliore dei mondi possibili scagiona Dio dal «male metafisico»: ma da questo Leibniz distingue, oltre che un «male fisico», che del primo è una semplice conseguenza, anche un «male morale» consistente nel peccato. Ora, quest’ultimo è interamente imputabile all’uomo, appunto perché l’uomo è libero, e non può essere fatto risalire a Dio come autore dell’essere, perché consiste non già in qualcosa di positivo, bensì in un’assenza o deficienza di essere. VII. L’INNATISMO. – Alla luce delle idee che abbiamo sommariamente esposte, Leibniz esamina il celebre Essay Concerning Human Understanding (1689) di Locke; e successivamen-

Leibniz te, seguendo la traduzione francese di Coste, mette per scritto una grande quantità di commenti e di osservazioni che formano il nucleo dei Nouveaux essais sur l’entendement humaine (1703-05). Quest’opera, uscita postuma nel 1765, risultò una delle più ricche e comprensive esposizioni fatte da Leibniz del proprio pensiero, sebbene anche una delle meno organiche, perché il suo sviluppo segue passo passo quello del saggio lockiano, citato per larghi tratti testualmente. Leibniz, trovandosi già in polemica con i newtoniani, non la diede alle stampe probabilmente per non inacerbire ulteriormente gli inglesi attaccando anche l’altro loro grande campione. La morte di Locke, avvenuta nel 1704, fornì a Leibniz il pretesto per non pubblicare le sue osservazioni, di cui aveva già dato notizia per lettera a Burnett (cfr. lettera del 22 novembre 1695, in Die philosophische Schriften, vol. III, p. 165; lettera del 3 dicembre 1703, in ibi, p. 291). I Nuovi saggi furono pubblicati poi da R.E. Raspe, con alcuni altri brevi lavori (in Oeuvres philosophiques, latines et françaises, de feu M. de Leibniz, Amsterdam-Leipzig 1764), ed esercitarono una notevole influenza sulla formazione della gnoseologia kantiana. Il punto fondamentale su cui Leibniz dissente da Locke è l’innatismo: «Io sono per i lumi innati contro la tabula rasa» dichiara a Burnett (lettera cit. del 1703). Non già nel senso, che Locke aveva dimostrato assurdo, di una presenza in atto di certe verità alla mente fin da principio, ma nel senso che la mente ha «una disposizione alla conoscenza da cui le nozioni innate possono essere tratte: infatti tutte le verità necessarie traggono la loro prova da questo lume interno, e non dalle esperienze dei sensi, le quali non fanno che dare occasione a pensare a quelle verità necessarie, e non potrebbero mai fornire la prova di una necessità universale» (ibid.). In realtà, come Locke non aveva reso sufficiente giustizia all’innatismo tradizionale, criticandolo come se avesse sostenuto l’inerenza alla mente di verità attualmente pensate, così Leibniz, a sua volta, non rende piena giustizia a Locke, che non aveva escluso una capacità della mente a formarsi idee. Ma ciò che vi è di fondamentale nell’opposizione leibniziana a Locke è l’affermazione che l’esperienza non può insegnarci le verità necessarie, ma solo fornirci l’occasione della loro 6313

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Leibniz scoperta: tale affermazione, mentre si allaccia, da un lato, alla dottrina platonica della «reminiscenza», prelude, dall’altro, all’esito che Kant darà alla problematica humiana. Anche Locke ammetteva, come fonte di conoscenza, oltre alla sensazione, una riflessione sull’attività del nostro spirito; nel quale però, se si astrae dalle idee fornite dall’esperienza, «non saprebbe dire quello che resta; come gli scolastici, che non lasciano nulla alla materia prima. Ora, la facoltà senza un qualche atto o, in altri termini, le pure potenze della scuola, non sono che finzioni, che la natura non conosce» (cfr. Nouveaux essais, l. II, cap. 1). L’intelletto ha dunque una sua virtualità, una sua natura determinata, per cui non potrà esperire se non in un certo modo. Ciò si esprime nella correzione leibniziana del noto aforisma «nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu»: praeter intellectus ipse. Questa virtualità dell’intelletto rischia, a volte, di svuotarsi delle sue implicanze più suggestive riducendosi al principio di identità che permette di stabilire le verità di ragione: in questo senso sarebbero innate le verità necessarie o, meglio, le prime e più semplici tra esse; poiché, a proposito delle cinque proposizioni ritenute innate da Herbert of Cherbury, Leibniz osserva che esse non si devono ritenere tali, poiché si possono dimostrare (ibi, l. I, cap. 2). Per un verso opposto, l’innatismo rischia di ridursi alla dottrina della sostanza individuale che contiene in sé tutto il proprio futuro; per cui tutto è innato, anche la stessa esperienza, dato che «tutte le nostre idee, anche quelle delle cose sensibili, vengono dal nostro proprio fondo» (cfr. Réflexions sur l’Essai de Locke, in J. Locke, Some Familiar Letters, London 1708; e in Die philosophischen Schriften, vol. V, p. 14). In entrambi i casi le «idee innate» leibniziane perderebbero proprio la loro funzione più caratteristica, che è quella di costituire il modo, proprio della nostra mente, di afferrare e organizzare il materiale empirico. Ma di ciò non ci si può meravigliare, perché questa maniera di intendere l’«innatismo» si affaccia sì, con Leibniz, ma non si consoliderà che con Kant, e, per di più, appare in contrasto con le premesse del sistema leibniziano e con la differenza di grado, anziché di natura, tra intelletto e sensibilità. VIII. IL SISTEMA DELL’UNIVERSO. – Quella sintesi panoramica del proprio pensiero che non ci aveva dato nelle opere maggiori, Leibniz ce la dà, al termine della sua vita, in un breve scritto 6314

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destinato al principe Eugenio di Savoia, che un piccolo numero di autori identifica giustamente con i Principes de la nature et de la grâce del 1714, ma che la tradizione suole ravvisare, invece, nella cosiddetta Monadologia. Di quest’ultima opera, scritta anch’essa nel 1714, e conosciuta dapprima in tedesco (con il titolo Lehrsätze über die Monadologie, Frankfurt am Main - Leipzig 1720), l’originale francese fu pubblicato assai tardi (Paris 1840). Sebbene espositivamente i Principes siano di gran lunga superiori, la Monadologia, secca e slegata, ebbe tuttavia fortuna grazie alla maggior completezza: poche opere contribuirono più della Monadologia a una cattiva e superficiale comprensione del leibnizismo. L’esposizione parte dalla monade, «sostanza semplice» (Monadologia, § 1), inestesa e indivisibile perché priva di parti (ibi, § 3) e, pertanto, incapace di dissoluzione, o di formazione naturale (ibi, §§ 4-6), nonché di subire un qualsiasi mutamento nella relazione tra le parti, il solo che si possa provocare dall’esterno: perciò «le monadi non hanno finestre» e non agiscono l’una sull’altra (ibi, § 7). Hanno, tuttavia, qualità (ibi, § 8) e subiscono mutamenti qualitativi; contengono, quindi, al loro interno, una pluralità di affezioni e di rapporti (ibi, § 13). «Lo stato passeggero che implica e rappresenta una pluralità nell’unità, o sostanza semplice», è la percezione (ibi, § 14), «inesplicabile mediante ragioni meccaniche», cioè mediante un qualsiasi gioco di parti, quale si ha, p. es., nei congegni di un mulino (ibi, § 17). La percezione, che è lo stato di una monade, non implica però necessariamente l’«appercezione», o coscienza (ibi, § 14): essa diviene tale solo quando si fa più distinta e si arricchisce della memoria; nel qual caso si può propriamente parlare di «anima», bastando i termini di «monade» o «entelechia» a indicare le sostanze semplici in generale (ibi, § 19). La ragione dinamica interna del passaggio della monade da uno stato all’altro, ossia da una percezione all’altra, è chiamata «appetizione» (ibi, § 15). La memoria fornisce alle anime «un certo concatenamento, che imita la ragione, ma che deve essere distinto» (ibi, § 26); ciò che rende capaci di ragione è solo «la conoscenza delle verità necessarie ed eterne» che ci fa edotti di noi stessi e di Dio, e per cui possiamo chiamarci spiriti (ibi, § 29): non solo «specchi dell’universo», ma «immagini viventi della stessa divinità» (ibi, § 83). In Dio, sostanza necessaria, è «la

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ragione ultima delle cose», e la fonte di tutti i mutamenti particolari (ibi, § 39). Dio è assolutamente perfetto, non avendo la sua realtà positiva alcun limite (ibi, § 41) ed è la fonte della perfezione delle creature, le cui imperfezioni derivano invece dalla loro natura, necessariamente limitata (ibi, § 42). Nella misura in cui è imperfetta, si può dire che una monade subisce; in quella in cui è perfetta, che agisce (ibi, § 49), non direttamente, ma «per l’intervento di Dio» (ibi, § 51). Questo adattamento reciproco delle cose create fa sì che ciascuna sostanza esprima tutte le altre, e sia «uno specchio vivente, perpetuo, dell’universo» (ibi, § 60): «Tutte mirano confusamente all’infinito, al tutto, ma sono limitate e diverse, a seconda dei gradi di distinzione delle percezioni» (ibi, § 60); e «i composti simboleggiano i più semplici», in quanto ogni corpo risente dell’influenza di tutto ciò che avviene nell’universo (ibi, § 61). C’è però una parte dell’universo che la monade «rappresenta più distintamente», il suo corpo (ibi, § 62), «macchina divina e automa naturale», che è «macchina ancora nelle sue minime parti, all’infinito» (ibi, § 64). Ogni anima finita ha, dunque, un corpo, che muta però, a poco a poco (ibi, § 72), perché non vi sono monadi destinate perpetuamente al servizio di un’altra (ibi, § 71). «L’anima e il corpo seguono ciascuno leggi proprie, e s’incontrano in virtù dell’armonia prestabilita» (ibi, § 78): «Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali, in forza di appetizioni, fini e mezzi; i corpi secondo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti» (ibi, § 79). Le une e gli altri costituiscono il «regno fisico della natura», mentre gli spiriti formano il «regno morale e della grazia», in quanto «capaci d’entrare in una specie di società con Dio, il quale è nei loro riguardi non solo ciò che è un inventore rispetto alla sua macchina (come è Dio in rapporto alle altre creature), ma anche ciò che è un principe verso i sudditi, anzi, un padre verso i figli» (ibi, § 84). Ora, «Dio come architetto accontenta in tutto Dio come legislatore», per cui «i peccati debbono portare con sé la propria pena a mezzo dell’ordine della natura, anzi, in virtù della struttura meccanica delle cose [...] benché ciò non possa e non debba avvenire sempre sul momento» (ibi, § 89), e noi non sappiamo esattamente come avvenga: ma «se noi potessimo intendere abbastanza l’ordine dell’universo, troveremmo che esso sorpassa i desideri dei più saggi, e che è

Leibniz impossibile renderlo migliore di quello che è, non solo riguarda al tutto, ma anche a noi in particolare» (ibi, § 90). La considerazione della bontà e della giustizia divina, come si vede, trasforma l’ottimismo leibniziano da relativo in assoluto. Dalla dottrina monadologica emerge inevitabilmente un problema: quello della mediazione, o del passaggio tra le sostanze prime, semplici, e le sostanze composte dell’esperienza. Il modo in cui queste si fondano su quelle è visto da Leibniz in più di una prospettiva, senza però che si riesca mai a trovare un ponte vero e proprio di passaggio. La materia è, per un verso, un aggregato infinito di monadi: «Ciascun frammento di materia può essere raffigurato come uno stagno pieno di pesci», in cui ciascuna parte è ancora «un simile stagno», e cosi via (ibi, § 67); e ciascuna monade ha sotto di sé, all’infinito, un aggregato di monadi che ne formano il corpo, tanto nel caso degli animali e delle piante come in quello della materia che chiamiamo inorganica, poiché in realtà «non c’è niente di sterile o di morto nell’universo» (ibi, § 69). Ma il concetto stesso di «aggregato di monadi» non può ritenersi definitivo, poiché esso stabilisce tra le monadi una relazione esteriore, che, come si è visto, è esclusa dalla natura della monade. «Le relazioni che uniscono due monadi», dice una lettera al padre Des Bosses del 29 maggio 1716 (cfr. in Die philosophische Schriften, vol. II, pp. 515 ss.) in cui questa problematica è trattata con piena consapevolezza, «non intercorrono tra le due monadi, ma sono nell’una e nell’altra al tempo stesso, cioè, a dire il vero, in nessuna, ma solo nelle menti» (ibi, p. 517). D’altro canto, come dividendo la materia sarebbe impossibile giungere al semplice (monade), così non si può con il semplice comporre la materia: la monade non si trova sullo stesso piano della sostanza composta, ma su un piano più profondo. Nella lettera citata Leibniz afferma esplicitamente che «la sostanza composta non consiste formalmente in monadi e nella loro subordinazione, ché altrimenti sarebbe un mero aggregato». «L’aggregato si risolve in parti, non già la sostanza composta»: questa dunque dovrà consistere «nella forza attiva e passiva primitiva, da cui sorgono le qualità e le azioni e passioni del composto apprese dai sensi, se si ammette che siano qualcosa di più di semplici fenomeni». 6315

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Leibniz E che i corpi siano puri fenomeni Leibniz non vuole ammettere, perché capisce che allora verrebbe a pensare come «quel tale che in Irlanda contesta la realtà dei corpi» (Berkeley), e che egli «sospetta appartenere a quel genere di persone che cercano di farsi conoscere con i paradossi» (lettera a Des Bosses, 15 marzo 1715, in Die philosophischen Schriften, vol. II, p. 492). Ma «se le sole monadi fossero sostanze, sarebbe necessario o che i corpi siano meri fenomeni o che il continuo nasca da punti, ciò che è palesemente assurdo»: perciò, su domanda di Des Bosses, Leibniz chiarisce distinguendo dalla monade l’entelechia, come «parte costitutiva della sostanza composta», che «differisce dalla monade in quanto dà realtà ai fenomeni, mentre le monadi potrebbero esistere anche se i corpi non fossero che puri fenomeni». «Del resto, l’entelechia della sostanza composta accompagna sempre naturalmente la sua monade dominante, per cui, se si prende la monade con l’entelechia, essa conterrà la forma sostanziale dell’animale» (lettera cit. del 1716, in ibi, p. 519). Questa entelechia (di cui, come si vede, nelle lettere a Des Bosses Leibniz parla diversamente che nella Monadologia) dà luogo al «vincolo sostanziale» della sostanza composta, grazie a cui questa è più che un semplice fenomeno; essa congiunge la «monade dominante» al proprio corpo, e fa sì che «la sostanza composta (p. es. dell’animale) rimanga la stessa, nonostante che gli ingredienti mutino continuamente e siano in perpetuo flusso» (ibid.). In altri termini, l’entelechia dà corpo alla monade: un corpo sempre organico, perché l’inorganico non è che mero aggregato. Che ciò si concili perfettamente con la «chiusura» in se stessa della monade è dubbio; ché, anzi, quest’ultima dottrina dell’entelechia parrebbe mettere la monade, in qualche modo, in rapporto diretto con l’esterno. Rimane, però, anche una prospettiva diversa: quella per cui il corpo della monade altro non è che la parte oscura e confusa della sua percezione. Solo nella monade divina l’universo è presente tutto in perfetta chiarezza e distinzione: le monadi finite sono tali appunto perché, pur rispecchiando sempre l’intero universo, ne rispecchiano chiaramente e distintamente una parte soltanto; pertanto non ci sono sostanze finite perfettamente incorporee, neppure tra gli angeli, e ciò, a volte, hanno ammesso anche i padri della chiesa (lettera a Jacquelot, 22 marzo 1703, in ibi, vol. III, p. 457). In questa 6316

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rappresentazione oscura si può ravvisare quella materia prima dell’entelechia che, contrariamente alla «materia seconda», non fluisce sotto la monade (sebbene, possiamo osservare, si sposti, col tempo, da un aspetto all’altro dell’universo rispecchiato, e diminuisca con il perfezionarsi della monade), e di cui «neppure Dio potrebbe privare la sostanza creata, poiché allora la renderebbe un atto puro, quale lui soltanto è» (lettera a Des Bosses, 16 ottobre 1706, in ibi, pp. 324-325). In tal modo l’attività e la passività vengono di nuovo chiuse interamente nel cerchio della monade, e qualsiasi reale composizione intermonadica ridiscende a semplice «fenomeno». Un aspetto particolare del problema delle relazioni tra sostanze può considerarsi il problema dello spazio e del tempo, che Leibniz tratta particolarmente nella corrispondenza con Samuel Clarke del 1715-16 (A Collection of Papers which Passed between the Late Learned Mr. Leibniz and Dr. Clark, London 1717). Clarke, newtoniano, difendeva lo spazio oggettivo e assoluto, non come sostanza, ma come attributo indivisibile della divinità. Per Leibniz, spazio e tempo non risultano che dall’ordine delle sostanze: ordine dei coesistenti quello, dei successivi questo. Il principio degli indiscernibili vieta di concepire uno spazio e un tempo a parte dalle sostanze, poiché i loro elementi non si potrebbero distinguere l’uno dall’altro; perciò «lo spazio in sé è una cosa ideale, come il tempo», e lo spazio vuoto è un’entità immaginaria (lettera n. 5, § 33). Leibniz ha buon gioco nel «criticare la fantasticheria di coloro che prendono lo spazio per una sostanza, o, almeno, per un essere assoluto» (lettera n. 3, § 5); si trova, tuttavia, in difficoltà se tenta di fondare lo spazio e il tempo oggettivamente, poiché le stesse difficoltà che insidiavano il concetto di «sostanza composta» tornano a riaffacciarsi nella costruzione dello spazio e del tempo, da un lato intesi come relazione tra sostanze, dall’altro costretti a chiudersi nella rappresentazione interna della monade, come ordine fenomenico delle sue percezioni. La stessa corrispondenza fra l’ordine interno a una monade e quello interno alle altre, che l’ipotesi dell’armonia prestabilita si sforza di assicurare, rimane inutile: perché, come già osservava a Leibniz il canonico digionese Foucher, quand’anche mancasse, non ci sarebbe modo di accorgersene.

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IX. CONCLUSIONI. – La filosofia leibniziana fallisce nel suo tentativo di dare una spiegazione perfettamente logica di due passaggi fondamentali: quello tra possibilità ed esistenza, ovvero tra le idee nella mente divina e il creato, e quello tra l’interno della rappresentazione e l’esterno dell’oggettività. Tuttavia non solo suggerisce intuizioni felicissime, su questi e altri punti, ma, nel suo stesso tentare una soluzione razionale, riesce a mettere in luce, con evidenza raramente raggiunta, la difficoltà dei diversi problemi. Quando Leibniz si compiace nell’illusione di poter sistemare pacificamente le cose, ci offre, come nella Monadologia, una costruzione apparentemente armonica, ma di cui non si capisce bene quale sia il fondamento nella realtà. Quando, invece, affronta i singoli problemi che la storia del pensiero o le sue stesse indagini particolari gli propongono, le sue soluzioni si fanno meno facili, si contraddicono spesso a vicenda, ma hanno mordente, presa sulla realtà o sul problema, capacità di collegare oggetti e punti di vista. Deve perciò ritenersi fortunato, in Leibniz, l’incontro tra un’aspirazione sistematica, comune al pensiero del suo tempo, e un temperamento portato continuamente a occuparsi, sia pure da un punto di vista sempre universale, di ciò che l’occasione a volta a volta gli offriva. Leibniz vorrebbe organizzare in sistema non solo la propria filosofia, ma l’intera vita umana: però non scrive mai il proprio sistema, accenna ad esso sempre da un punto di vista particolare, così come le monadi accennano all’universo. Nei rari momenti in cui monologa, appare troppo compiacente verso le proprie tendenze ireniche e panlogistiche; ma, fortunatamente, di solito dialoga, e scrive tutte le sue opere in forma di lettere o di discorsi che si rivolgono a un interlocutore: il quale, resistendogli, lo stimola a trarre il meglio del proprio pensiero. Si spiega, quindi, che il leibnizismo come sistema si sia esaurito storicamente nella scuola wolffiana, in grande favore nel 1700, ma destinata a sciogliersi senza tracce individuali nella nuova sintesi kantiana; ma che il leibnizismo come insieme di spunti non abbia mai cessato di operare nelle culture e nelle impostazioni mentali più diverse, e sia ancor oggi uno degli agenti più attivi nel pensiero scientifico e filosofico. V. Mathieu BIBL.: G.C. Leibnitii opera philosophica quae extant, a cura di J. Erdmann, Berlin 1840, 2 voll. (rist. Aalen

Leibniz 1958); Leibniz’s mathematische Schriften, a cura di C.I. Gerhardt, Berlin poi Halle 1849-63, 7 voll. in 8 tt. (rist. Hildesheim 1962); Die philosophischen Schriften von G.W. Leibniz, a cura di C.I. Gerhardt, Berlin 1875-90, 7 voll. (rist. Hildesheim 1960-61); Briefwechsel zwischen Leibniz und C. Wolff, a cura di C.I. Gerhardt, Halle 1860 (rist. Hildesheim 1963); Briefwechsel mit Mathematikern, a cura di C.I. Gerhardt, vol. I, Berlin 1899 (rist., Hildesheim 1962); Opuscules et fragments inédits, a cura di L. Couturat, Paris 1903 (rist. Hildesheim 1961); Textes inédits, a cura di G. Grua, Paris 1948, 2 voll.; Lettres de Leibniz à Arnauld, a cura di G. Lewis, Paris 1952; Malebranche et Leibniz Relations personnelles, a cura di A. Robinet, Paris 1955; Correspondance Leibniz-Clarke, a cura di A. Robinet, Paris 1957; Philosophische Schriften. Studienausgabe, a cura di H.H. Holz - W. von Engelhardt, con testi nelle versioni lat., ted. e fr., Darmstadt 1959-65; Confessio philosophi, a cura di J. Belaval, Darmstadt 1961; Thesaurus Leibnitianus, a cura di G. Martin, Hildesheim 1968 ss. Raccolte in lingua italiana: Scritti filosofici di Gottfried Wilhelm Leibniz, a cura di M. Mugnai ed E. Pasini, Torino 2000, 3 voll. Su Leibniz: per la bibliografia cfr. Leibniz-Bibliographie, vol. I: Die Literatur über Leibniz bis 1980, a cura di A. Heinekamp, Frankfurt am Main 19842; vol. II: Die Literatur über Leibniz 1981-1990, a cura di A. Heinekamp, con la collaborazione di M. Mertens, Frankfurt am Main 1995 (volumi pubblicati dal Leibniz-Archiv di Hannover contenenti un panorama sui testi di Leibniz editi e manoscritti, e sulla letteratura relativa in volumi e riviste). Per gli aggiornamenti bibliografici annuali rinviamo alla rivista internazionale «Studia Leibniziana», edita dalla Gottfried-Wilhelm-Leibniz-Gesellschaft, a cura di K. Müller e W. Totok, Wiesbaden 1969 ss. Per la biografia è ancora fondamentale G.E. GUHRAUER, G. W. Freiherr von Leibniz, Stuttgart 1964 (18462). Monografie principali: J. JALABERT, La théorie leibnizienne de la substance, Paris 1947; J.E. HOFFMAN, Die Entwicklungsgeschichte der Leibnizschen Mathematik, München 1949; I. PAPE, Leibniz Zugang und Deutung aus dem Wahrheitsbegriff, Stuttgart 1949; W. CONZE, Leibniz als Historiker, Berlin 1951; G. GRUA, Jurisprudence universale et théodicée selon Leibniz, Paris 1953; K. HILDEBRANDT, Leibniz und das Reich der Gnade, Den Haag 1953; G. PRETI, Il cristianesimo universale di G.G. Leibniz, Milano 1953; G. GRUA, La justice humaine selon Leibniz, Paris 1956; J. MOREAU, L’univers leibnizien, Paris 1956; V. MATHIEU, Leibniz e Des Bosses (1706-16), Torino 1960; Y. BELAVAL, La critique de Descartes, Paris 1960; P. COSTABEL, Leibniz et la dynamique, Paris 1960; J. JALABERT, Le Dieu de Leibniz, Paris 1960; E. NAERT, Mémoire et consience de soi selon Leibniz, Paris 1961; L. COUTURAT, La Logique de Leib-

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Leibniz review niz d’après des documents inédits, Hildesheim 1961 (Paris 1901); H. SCHNELLE, Zeichensystem zur wissenschaftlichen Darstellung, Stuttgart - Bad Cannstatt 1962; E. CASSIRER, Leibniz’ System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen, Hildesheim 1962 (Marburg 1902); W. JANKE, Leibniz. Die Emendation der Metaphysik, Frankfurt am Main 1963; E. CIONE, Leibniz, Napoli 1964; G.H.R. PARKINSON, Logik and Reality in Leibniz’ Metaphysics, Oxford 1965; G. MARTIN, Leibniz. Logik und Metaphysik, Berlin 19672 (Köln 1960); W. TOTOK - C. HAASE (a cura di), Leibniz, sein Leben, sein Wirken, seine Welt, Hannover 1966; M. GUEROULT, Leibniz: Dynamique et Métaphysique, Paris 1968; E. HOCHSTETTER (a cura di), Leibniz. Sein Bild im Wandel der Jahrhunderte, Hildesheim 1968; M. SERRES, Le système de Leibniz et ses modèles mathématiques, Paris 1968; A. HEINEKAMP, Das Problem des Guten bei Leibniz, Bonn 1969; K. MÜLLER - G. KRÖNERT (a cura di), Leben und Werk von G.W. Leibniz, Frankfurt am Main 1969; H. POSER, Zur Theorie der Modalbegriffe bei G.W. Leibniz, Wiesbaden 1969; H. SCHIEDERMAIR, Das Phänomen der Macht und die Idee des Rechts bei G.W. Leibniz, Wiesbaden 1970; J.C. HORN, Die Struktur des Grundes. Gesetz und Vermittlung des ontischen und logischen Selbst nach G.W. Leibniz, Ratingen 1971; H. ISHIGURO, Leibniz’s Philosophy of Logic and Language, Ithaca (New York) 1972; A. CHAUVE, Leibniz. Les deux labyrinthes, Paris 1973; M. MUGNAI (a cura di), Leibniz e la logica simbolica, Firenze 1973; O. RUF, Die Eins und die Einheit bei Leibniz, Meisenheim 1973; A. GURWITSCH, Leibniz. Philosophie des Panlogismus, Berlin - New York 1974; J.E. HOFMANN, Leibniz in Paris, 1672-1676, London New York 1974; J. DANEK, Les projets de Leibniz et de Bolzano, Quebec 1975; M. MUGNAI, Astrazione e realtà. Saggio su Leibniz, Milano 1976; K. MOLL, Der junge Leibniz, vol. II. Der Übergang von Atomismus zu einem mechanistischen Aristotelismus: des revidierte Anschluf an Pierre Gassendi, Stuttgart - Bad Cannstatt 1982; H.H. HOLZ, Gottfried Wilhelm Leibniz: eine Monographie, Leipzig 1983; G. MACDONALD ROSS., Leibniz, London - New York - Oxford 1984; S.C. BROWN, Leibniz, Brighton 1984; A. HEINEKAMP (a cura di), Beiträge zur Wirkungs- und Rezeptionsgeschichte von Gottfried Wilhelm Leibniz, in «Studia Leibnitiana», Supplementa, 26 (1986); A. HEINEKAMP - E. SCHUPP (a cura di), Leibniz’ Logik und Metaphysik, Darmstadt 1988; K.E. KAEHLER, Leibniz’ Position der Rationalität, Freiburg im Breisgau 1989; C.WILSON, Leibniz’s Metaphysics. A Historical and Comparative Study, Manchester-Princeton (New Jersey) 1989; R. FINSTER - G. VAN DEN HEUVEL, G.W. Leibniz in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Reinbek 1990; M. MUGNAI, Leibniz Theory of Relations, Stuttgart 1992; R.M. ADAMS, Leibniz. Determinist, Theist, Idealist, Oxford 1994; F. DUCHESNEAU, La Dynamique de Leibniz, Paris 1994; D. RUTHERFORD, Leibniz and the Rational Order of Nature,

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Cambridge - New York 1995; C. MERCER, Leibniz’s Metaphysics. Its Origins and Development, Cambridge 1998; M.R. ANTOGNAZZA, Trinità e Incarnazione. Il rapporto tra filosofia e teologia rivelata nel pensiero di Leibniz, Milano 1999; G. TORRESETTI, Crisi e rinascita del diritto naturale in Leibniz, Milano 2000; A. LAMARRA R. PALAIA (a cura di), Unità e molteplicità nel pensiero filosofico e scientifico di Leibniz, «Atti del Simposio internazionale (Roma, 3-5 ottobre 1996)», Firenze 2000; M. MUGNAI, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Torino 2001; M. MUGNAI, Leibniz: vita di un genio tra logica, matematica e filosofia, Milano 2002; G. MORMINO, Determinismo e utilitarismo nella teodicea di Leibniz, Milano 2005; S. GENSINI (a cura di), Linguaggio, mente, conoscenza. Intorno a Leibniz, Roma 2005.

LEIBNIZ REVIEW. – Espressione della LeibLeibniz review niz Society of North America, la rivista, a periodicità annuale, interpreta adeguatamente, con particolare attenzione ai temi logici e metafisici, il notevole fiorire degli studi leibniziani nel mondo anglosassone. Si è rapidamente affermata quale indiscutibile punto di riferimento per tutti gli studiosi del pensatore tedesco. Ne è direttore G.A. Hartz. Fondata nel 1991 come Leibniz Society Review (fino al 1998), oltre a pubblicare articoli e recensioni, si propone di fornire informazioni aggiornate, grazie alla sezione di segnalazioni, per lo più provenienti dalla Leibniz Gesellschaft, e al notiziario sulle opere recenti su Leibniz. Altresì vengono pubblicati inediti leibniziani e nuove traduzioni, rassegne critiche ecc. È possibile accedere a indici e testi completi nei Poesis On-line Serials forniti dal Philosophy Documentation Center. A. Allegra

LEIBOWITZ, JESHAJAHU. – Storico israeliano Leibowitz della scienza e filosofo del giudaismo, n. a Riga nel 1903, m. a Gerusalemme nel 1994, Leibowitz ha elaborato sulla «fede ebraica» una delle riflessioni più rigorose del Novecento e ha animato la società israeliana sia nell’ambito della ricerca biochimica che nell’ambito della politica (fu avvocato severo della separazione tra religione e stato). Pensatore non sistematico, ha lasciato numerosi scritti nati come lezioni o conversazioni sui temi fondamentali della ricerca religiosa e filosofica contemporanea. In particolare vanno ricordate le raccolte di saggi: Torah u-mitzwot ba-zman ha-zeh (Torah e precetti per questo tempo, Tel Aviv 1946 e 1954); Jahadut, ‘am jehudi u-Medinat Jisra’el (Tel Aviv 1975, ed. it. a cura di A. Rathaus, Ebraismo, popolo ebraico e Stato d’Israele, Roma

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1980); ’Emunato shel ha-Rambam (La fede di Maimonide, Tel Aviv 1980); ’Emunah, historijiah we-Ôarakim (Fede, storia e valori, Jerusalem 1982); Ben madaÔ le-filosofiah (Tra scienza e filosofia, Jerusalem 1987), cui si aggiungono i commenti ad alcuni testi biblici, ai Pirqè Avot (un trattato della Mishnah), alla Guida dei perplessi di Maimonide, al Sentiero dei giusti di Moshè Chajjim Luzzatto. Ha contribuito in modo determinante alla stesura dell’Encyclopaedia Judaica. Fondamentale nel suo pensiero è il concetto di ’emunah li-shmah (fede fine a se stessa) ovvero l’idea che il culto dell’ebreo religioso sia un servizio a Dio da svolgersi senz’altra finalità che il servizio stesso. Ogni intenzione altra, che sia la ricompensa dopo la morte o una finalità etica o un guadagno politico, rende tale servizio antropocentrico e in costante rischio di idolatria. Sostenendo che «l’etica è una categoria dell’ateismo» Leibowitz intendeva porre la fede ebraica al di là di ogni giustificazione razionalista e sottolineare la gratuità dell’obbedienza ai comandamenti. Il giudaismo, nell’accezione leibowitziana, è un «regime dell’halakhah», ovvero una prassi di osservanza rigorosa e disinteressata delle mitzwot o precetti, che come tale costituisce l’orizzonte ermeneutico nel quale trovano definizione sia il popolo ebraico che le sue scritture. Proprio la centralità valoriale della Torah orale rappresenta il punto di massima divergenza tra giudaismo e cristianesimo, essendo quest’ultimo, secondo lo studioso israeliano, una religione della negazione della Legge. Nessun conflitto invece trova la fede ebraica nel suo rapporto con l’indagine scientifica in quanto esplorazione empirica e conoscenza oggettiva della natura. Scienza e religione costituiscono due ambiti distinti che possono coabitare nella mente umana non meno che nella società, in quanto divergono per metodi e finalità: alla scienza spetta la conoscenza del mondo, alla religione il dovere di servire Dio con ’emunah li-shmah. Pertanto Leibowitz è stato sostenitore, entro lo stato d’Israele, della separazione tra stato e religione, vedendo nel sionismo esclusivamente un fatto umano e un movimento politico: egli critica, nei suoi interventi nell’attualità politica (Popolo, terra, stato, Gerusalemme 1991 [in ebr.]; Judaism, Human Values, and the Jewish State, Cambridge, Massachusetts 1992), l’inserimento dell’evento della fondazione del-

Leibowitz lo stato d’Israele in un disegno provvidenziale e l’attribuzione di un significato religioso allo stato, poiché ritiene che questo appartenga all’ordine della storia, non a quello della redenzione. Tale posizione, riguardo al sionismo, distingue Leibowitz tanto da altri pensatori ebrei ortodossi, quali Avraham Isaac Kook o David Hartman, quanto da pensatori ebrei non ortodossi, come Achad Ha-am, Martin Buber, o Emil L. Fackenheim. M. Giuliani - I Kajon BIBL.: Leibowitz, Jeshajahu in AA.VV., Encyclopaedia Judaica, Jerusalem 1971, vol 10, coll. 1587-1588; E. GOLDMAN, Introduction a Yehayahu Leibowitz, Judaism, Human Values, and the Jewish State, Cambridge 1992; E. ZAAROR, Yeshayahu Leibowitz, Jerusalem 2001 [in ebr.].

LEIBOWITZ, YESHAYAHU. – N. a Riga nel Leibowitz 1903, m. a Gerusalemme nel 1994, scienziato, filosofo della scienza, esponente del pensiero ebraico ortodosso. Compiuti gli studi di chimica, medicina, filosofia in Germania e Svizzera, si trasferisce in Palestina nel 1935. Fu professore di biochimica e neurofisiologia, storia e filosofia della scienza presso l’Università ebraica di Gerusalemme; diresse la pubblicazione dei volumi 10-13 e 16-20 della Encyclopedia Hebraica. Nei suoi studi sulla Bibbia (Sette anni di discorsi sulla lettura settimanale della Torah, Gerusalemme 2000 [in ebr.]; tr. ingl. Accepting the Yoke of Heaven: Commentary on the Weekly Torah Portion, Jerusalem 20022), sul trattato della Mishnah «Pirke Avot» e su Maimonide (The Faith of Maimonides, New York 1987; tr. it. Lezioni sulle Massime dei Padri e su Maimonide, Firenze 1999; Conversazioni sugli Otto Capitoli di Maimonide, Gerusalemme 1999 [in ebr.]), sull’esistenza ebraica e sull’anno liturgico ebraico (Torah e Mizvoth nel nostro tempo, Gerusalemme 1954 [in ebr.]; Discorsi sulle ricorrenze festive ebraiche, Gerusalemme 1999 [in ebr.]; tr. it. La fede ebraica, Firenze 2001), Leibowitz sostiene la tesi che l’essere ebreo si identifichi con l’essere osservante delle Mizvoth, ovvero compiere le azioni prescritte dalla Halachah, tradizione normativa costruita sulla Bibbia ebraica e sulla sua esegesi rabbinica. Egli distingue, infatti, tra il dominio oggettivo della scienza, la riflessione, la filosofia, e il dominio dell’azione e del rispetto della legge (Corpo e mente. Il problema psico-fisico, Gerusalemme 1998 [in ebr.]). 6319

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Leighton LEIGHTON, JOSEPH ALEXANDER. – Filosofo Leighton personalista americano, n. a Caledon (Canada) nel 1870, m. nel 1954. Studiò a Harvard e in Germania. Opere principali (tutte edite a New York): Typical Modern Conceptions of God: the Absolute of German Romantic Idealism and of English Evolutionary Agnosticism, 1902; Man and the Cosmos an Introduction to Metaphysics, 1922; Religion and The Mind of Today, 1924; The Individual and the Social Order: an Introduction to Ethics and Social Philosophy, 1926; Individuality and Education: a Democratic Philosophy of Education, 1928. In polemica con l’idealismo assoluto, l’idealismo di Leighton difende la realtà delle singole «persone» e il concetto di un Dio personale. Gli argomenti con cui egli sostiene tale personalismo sono di natura non cosmologica ma etica e assiologica. La persona o self è concepita come un centro di attività autocosciente, la cui forma tipica è la scelta, ossia il riconoscimento di valori; Dio è a un tempo la fonte, la sede e la garanzia di tutti i valori. Leighton stesso indica il nucleo del suo pensiero nell’affermazione che «la sola concezione del mondo in cui i valori e i significati possono avere uno stato permanente e reale, è quella in cui gli spiriti, le personalità e i loro valori sono la realtà suprema». N. Bosco BIBL.: Autopresentazione: My Development and Present Creed, in G.P. ADAMS - W.P. MONTAGUE (a cura di), Contemporary American Philosophy, vol. I, New York 1930, pp. 425-441; The Principle of Individuality and Value, in C. BARRET (a cura di), Contemporary Idealism in America, New York 1932, pp. 133-167 (rist. 1962 e 1964); J. HOWIE - TH. BURFORD, Contemporary Studies in Philosophical Idealism, Cape Cod 1975.

LEIPZIGER LITERATURZEITUNG. – RiLeipziger Literaturzeitung vista pubblicata dal 1803 al 1834 a Leipzig presso gli editori Breitkopf e Härtel, con il ritmo di sei mezzi quaderni settimanali; la spedizione poteva essere sia settimanale sia mensile. Veniva redatta da un collegio di docenti dell’università di Leipzig, ma con il criterio di un rigoroso anonimato (articoli e recensioni non erano pertanto mai firmati) al fine – come si può leggere nella presentazione del primo quaderno del 1803 – di «non compromettere la libertà dei giudizi e delle opinioni espresse». Di orientamento decisamente monarchico e conservatore, ricevette cospicue sovvenzioni (fino a mille talleri all’anno) dalla corona che, 6320

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particolarmente dopo la rifondazione nel 1812, si adoperò per favorirne la diffusione anche in Austria; e dopo il congresso di Vienna sostenne la politica della Santa Alleanza. Non a caso la sua chiusura fu ironicamente ricordata da Arnold Ruge nel 1837, sulle pagine dei «Blätter für literarische Unterhaltung», come la «fiacca fine del molle spirito dell’umanità di Lipsia e della sua sapienza universale», che in tale rivista avevano appunto trovato la loro più adeguata espressione e in cui essa aveva affondato le sue radici. M. Ravera BIBL.: S. OBENAUS, Die deutschen allgemeinen kritischen Zeitschriften in der ersten Hälfte des 19. Jahrhunderts, in «Archiv für Geschichte des Buchwesens», 14 (1974), pp. 33-34; D. DÖRING, Jacob Grimm und die Leipziger Literaturzeitung, in Leipzig: aus Vergangenheit in Gegenwart, Leipzig 1986, pp. 114-129.

LEISEGANG, HANS. – Filosofo e storico delLeisegang la filosofia tedesco, n. a Blankenburg (Turingia) il 13 mar. 1890, m. a Berlino il 5 apr. 1951. Si laureò in filosofia con C. Baeumker e Th. Ziegler a Strasburgo con la tesi Die Raumtheorie im späteren Platonismus, ins besondere bei Philon und den Neuplatonikern (1911). Ottenne la libera docenza a Lipsia nel 1920 e fu qui professore dal 1925. Chiamato a Jena nel 1930, fu condannato nel 1934 da un tribunale speciale nazista e privato della cattedra nel 1937. Laureatosi allora in fisica, lavorò come tecnico dal 1941 al 1945, anno in cui ritornò all’università di Jena, nuovamente abbandonata nel 1948 per la Libera Università di Berlino. Autore di studi fondamentali sulla filosofia antica, Leisegang si soffermò particolarmente sui motivi speculativi della filosofia ellenistica, motivi che la differenziano dal pensiero classico e la avvicinano al pensiero cristiano. Attraverso la distinzione di tipi irriducibili di concezioni speculative (nell’approfondimento di periodi diversi della storia filosofica), Leisegang giunse alla determinazione storico-teorica della filosofia come complesso di «forme di pensiero». In tal senso, l’espressione più completa della sua dottrina è data dall’opera Denkformen (Berlin 1928; ed. rielaborata 19512; cfr. anche Einführung in die Philosophie, ivi 1951; e la postuma Meine Weltanschauung, ivi 1952). La molteplicità delle forme di pensiero non significa per Leisegang una molteplicità di logiche, bensì l’importanza determinativa che hanno per il pensiero, accanto agli ele-

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Lemaître

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menti logici, i domini oggettivi a cui il pensiero si rivolge. Le diverse scelte e accentuazioni di questi domini oggettivi (da quello dei rapporti fisici a quello degli oggetti ideali, quali i numeri) costituiscono di volta in volta il mondo della realtà in cui vive il pensiero. Le concezioni del pensiero hanno validità quando corrispondono alle strutture dei domini oggettivi e non generalizzano la struttura di un dominio per un’artificiosa visione sistematica. La via per l’ontologia è aperta dalla fenomenologia non psicologica delle forme di pensiero. F. Barone BIBL.: Die Begriffe der Zeit und Ewigkeit im späteren Platonismus, Münster 1913; Der Heilige Geist. Das Wesen und Werden der mystisch-intuitiven Erkenntnis in der Philosophie und Religion der Griechen, LeipzigBerlin 1919; Pneu`ma a[gion, Der Ursprung des Geistbegriffs der synoptischen Evangelien aus der griechischen Mystik, Leipzig 1922; Griechische Philosophie von Thales bis Platon, Breslau 1922; Hellenistische Philosophie von Aristoteles bis Plotin, Breslau 1923; Die Gnosis, Leipzig 1924; Indices ad Philonis Alexandrini opera, Berlin 1926-30, 2 voll.; Lessings Weltanschauung, Leipzig 1931; Goethes Denken, Leipzig 1932; Luther als deutscher Christ, Berlin 1934; Dante und das christliche Weltbild, Weimar 1941; Hegel, Marx, Kierkegaard, Berlin 1948. Su Leisegang: G. BOTH, Leisegangs ‘Denkformen’ und die Weltanschauungstypologien, Berlin 1970; K. GLOY, Rationalitätstypen, Freiburg im Breisgau 1999; E. MESCH, Hans Leisegang. Leben und Werk, Erlangen 1999; K.M. KODALLE (a cura di), Philosophie eines Unangepassten: Hans Leisegang, Würzburg 2003 (bibliografia pp. 89-97).

LEISTUNGSPSYCHOLOGIE (psicologia del Leistungspsychologie lavoro). – Da Windelband Rickert ricava la distinzione tra scienze naturali e storiche, fondata sulla diversità di metodo. Ogni oggetto può essere considerato in modi diversi: o sotto l’aspetto della realtà naturale, o sotto quello di realtà storica; sia riguardo all’universale, sia riguardo al particolare e all’individuale. Ciò avviene anche per la psicologia, i cui problemi possono essere affrontati dalle due diverse prospettive. Se usa il metodo storico individualizzante essa deve essere considerata una scienza culturale e Rickert la chiama Leistungspsychologie; se usa il metodo generalizzante, che ha per fine la determinazione di leggi, deve essere considerata come una scienza naturale e in questo caso appartiene allo stesso tipo logico della fisica. Red.

LEKTON (gr. lektovn «esprimibile»). – EleLekton mento centrale della linguistica stoica, introdotto come mediazione tra ciò che è rappresentato mentalmente e l’oggetto cui la rappresentazione si riferisce (Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, VII, 63; Sesto Empirico, Contro i Dogmatici, VII, 70), o tra la voce articolata e l’oggetto cui la voce si riferisce (Sesto Empirico, op. cit., VII, 30-45). Il lekton è il «significato» ed è incorporeo, diversamente dalla voce e dall’oggetto. Il lekton è «completo» se costituito da una proposizione del tipo «Socrate scrive», di cui si può dire che è o vera o falsa, o «incompleto» se dato da un solo termine, come «scrive», di cui si intende il riferimento semantico generale senza che di esso si possa dire se è vero o falso. Ma i lekta completi includono anche espressioni non assiomatiche, come i comandi, le preghiere, le interrogazioni. F. Alesse BIBL.: H. VON ARNIM, Stoicorum veterum fragmenta, Lipsiae 1903-1905, vol. II, pp. 58-62; M. MIGNUCCI, La logica stoica, Bologna 1970, pp. 88-103; A.A. LONG D.N. SEDLEY, The Hellenistic Philosophers, Cambridge 1987, vol. II, 33, pp. 196-204; J. BARNES, Meaning, Saying, and Thinking, in K. DÖRING - TH. EBERT, Dialektiker und Stoiker, Stuttgart 1993, pp. 47-61; M. FREDE, The Stoic Notion of lektovn, in S. EVERSON, Language (Companions to Ancient Thought), Cambridge 1994, pp. 109-128; D. SCHENKEVELD - J. BARNES, Language, in The Cambridge History of Hellenistic Philosophy, Cambridge 1999, pp. 177-225; J.-B. GOURINAT, La dialectique des Stoïciens, Paris 2000, pp. 115-240.

LEMAÎTRE, Lemaître GEORGES. – Matematico e astronomo belga, n. a Charleroi il 17 lug. 1894, m. a Lovanio il 20 giu. 1966. Laureato in scienze fisiche e matematiche, sacerdote nel 1923, proseguì gli studi di fisica in Europa e in America. Docente a Lovanio, dal 1960 fu presidente della Pontificia Accademia delle scienze. Tra i suoi articoli ebbe risonanza Un univers homogène de masse constante et de rayon croissant, rendant compte de la vitesse radiale des Nébuleuses extra-galactiques, in «Annales de la Société Scientifique de Bruxelles», 47 (1927), pp. 49-59. Di divulgazione e di interesse filosofico sono gli scritti: L’hypothèse de l’atome primitif. Essai de cosmologie, Neuchâtel 1946; L’hypothèse de l’atome primitif, in «Acta Pontificae Academiae Scientiarum», 12 (1948), n. 6, pp. 25-40; Rayons cosmiques et cosmologie, Louvain 1949; L’univers, ivi 1950. Sono stati ripubblicati in «Revue des questions scientifi6321

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Lemaitre de Claville ques», 166 (1995), i seguenti contributi: L’expansion de l’universe, pp. 165-173; Pourquoi des nouveaux chiffres?, pp. 139-157; Le principe de la continuité d’après Jean-Victor Poncelet, pp. 175-188; Rencontres avec Einstein, pp. 159-163; La théorie de la relativité et de l’expérience, pp. 115-138. Secondo Lemaître l’origine dell’universo risiede nell’esplosione di un unico atomo primitivo, in cui era condensata tutta la materia dell’universo. Il modello di universo proposto da Einstein è una forma instabile di equilibrio, a partire dalla quale l’universo si va espandendo. F. Selvaggi BIBL.: C.W. BERENDA, Notes on Lemaître’s Cosmogony, in «Journal of Philosophy», 48 (1951), pp. 338-341; O. GODART- M. HELLER, Einstein - Lemaître. Rencontre d’idées, in «Revue des questions scientifiques», 150 (1979), pp. 23-43; O. GODART, Monseigneur Lemaître, sa vie, son oeuvre, in «Revue des questions scientifiques», 155 (1984), pp. 155-182; O. GODART, Georges Lemaître pionnier de la cosmologie, in «Revue des questions scientifiques», 164 (1993), pp. 351-379; J. DEMARET, Georges Lemaître, le Big Bang et la cosmologie moderne, in «Revue des questions scientifiques», 165 (1994), pp. 221-236; M. HELLER, Lemaître: Priest and Scientist, in «Revue des questions scientifiques», 165 (1994), pp. 237-242; AA.VV., Centième anniversaire de la naissance de Georges Lemaître, père du Big Bang, Namur 1994; D. LAMBERT, Un atome d’univers. La vie et l’oeuvre de Georges Lemaître, Bruxelles 2000.

LEMAITRE DE CLAVILLE, C HARLES Lemaitre de Claville FRANÇOIS-NICOLAS. – Moralista francese, n. a Rouen verso il 1670, m. nel 1740. Inviato in missione a Ratisbona, per incarico del re, scrisse il Traité du vrai mérite de l'homme considéré dans tous les âges et dans toutes les conditions (Paris 1735). In questo galateo per le varie età e stati di vita, specchio d'un mondo sorridente e sereno, si realizza un ottimistico accordo tra felicità e virtù, passioni e moralità. L’opera, che tocca i vari aspetti della vita, suggerendo le vie per la selezione e la moderazione dei piaceri, le norme di comportamento in società nelle più diverse occasioni, i mezzi per l’incremento della propria erudizione – in linea con l’ideale francese dell’honnêteté già affermatosi nel secolo precedente –, si diffuse come una sorta di breviario di quanti nel XVIII secolo optavano per la compossibilità del cristianesimo con la vita mondana, in opposizio6322

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ne al distacco dal mondo sostenuto dal cattolicesmo agostiniano e giansenista. C. Rosso - A. Peratoner BIBL.: C. LEROUX-CESBRON, Un moraliste pour gens du monde au XVIIIe siècle, in «Revue du XVIIIe siècle», 1914; C. ROSSO, Le Maitre de Claville et le debat sur l'honnête homme au 18. siecle, in Franzosische Literatur im Zeitalter der Aufklärung, Frankfurt am Main 1984, pp. 292-312.

LEMMA (gr. lh'mma - lemma, headword; LemLemma ma, Stichwort ; lemme, article; lema). – È in generale una proposizione assunta come vera di cui ci si vale come premessa per un ragionamento. Presso gli antichi indica in particolare o ambedue le premesse del sillogismo, come contrapposte alla conclusione, o la sola premessa maggiore, come distinta dalla minore (detta in questo caso dagli stoici provlhyi"); nei moderni invece (così p. es. in Kant) una proposizione che si assume da un’altra scienza, dalla quale si suppone dimostrata. In geometria è una proposizione che si pone in evidenza allo scopo di impiegarla come premessa per la dimostrazione di un particolare teorema. In senso linguistico più specifico è la voce di un dizionario nella quale si descrive il significato di un’unità lessicale. D. Pesce ➨ ARGOMENTAZIONE; ENCICLOPEDIA/DIZIONARIO; PAROLA; PREMESSA; PROPOSIZIONE; RAGIONAMENTO; SILLOGISMO.

LEMOS, MIGUEL. – Fondatore del positiviLemos smo brasiliano, n. a Niteroi nel 1854, m. a Rio de Janeiro nel 1917. Espulso per motivi politici dalla scuola politecnica di Rio, si reca a Parigi per completare gli studi superiori. Qui decide di dedicare la vita all’«apostolato» positivista. Ritornato a Rio de Janeiro, fonda la «Chiesa positivista» e l’«Apostolato positivista del Brasile». Non accetta l’atteggiamento di P. Laffitte di permettere agli «Apostoli» di partecipare alle cariche politiche, per cui il gruppo brasiliano si separa e si rende indipendente da quello francese (1883). Pur non pubblicando scritti importanti dal punto di vista filosofico, Lemos contribuisce alla diffusione del movimento positivista in Brasile tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Nel Tempio dell’Umanità, costruito con minuziosa fedeltà alle indicazioni di A. Comte e inaugurato il 15 agosto 1891 (festa positivista della donna), vengono introdotti atti di

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culto pubblico e l’amministrazione dei «sacramenti» del positivismo: «presentazione» (battesimo), «confirmazione», «costituzione della famiglia» (matrimonio), «trasformazione» (esequie). C. Beraldo BIBL.: Pequenos ensaios positivistas (Brevi saggi sul positivismo), Rio de Janeiro 1877; Luis de Camoens, Paris 1880; Augusto Comte e o positivismo (Auguste Comte e il positivismo), Rio de Janeiro 1881; Ortografia positivista, Rio de Janeiro 1888; Catecismo positivista, Rio de Janeiro 1889, (trad. del Catechismo positivista di A. Comte); Normas ortográficas tendentes a simplificar a ortografia de nossa língua (Norme d’ortografia per la semplificazione della nostra lingua), Rio de Janeiro 1901. Su Lemos: CRUZ COSTA, O positivismo na República, Sao Paulo 1956; L. FRANCA, Noções de história da filosofia, parte VII, a. 2, § 1, Rio de Janeiro 196417, pp. 276-279; A. PAIM, História das idéias filosoficas no Brasil, Sao Paulo 1976.

LENARD, PHILIPP EDUARD ANTON. – Fisico e Lenard filosofo tedesco, n. il 7 giu. 1862 a Preßburg (od. Bratislava), m. il 20 magg. 1947 a Heidelberg. Compiuti gli studi a Budapest, Vienna e Berlino, si laureò a Heidelberg e insegnò a Breslavia, Aquisgrana e a Kiel, prima di diventare professore e direttore presso l’istituto universitario di fisica a Heidelberg. Fra i suoi scritti: Über Relativitätsprinzip, Äther, Gravitation (Leipzig 1918); Über Äther und Uräter (Leipzig 1921). Premio Nobel per la fisica (1905) in seguito alla scoperta dei «raggi di Lenard», si occupò di elettricità atmosferica, di fisica atomica e della teoria della relatività, di cui fu un tenace avversario insieme a Johannes Stark; entrambi promotori, soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali, di una nazionalistica e persecutoria «fisica tedesca», da contrapporre alla dottrina einsteniana, chiamata con disprezzo «fisica ebrea». Più in generale Lenard teorizzò l’opposizione tra una fisica giudaica dogmatica, caratterizzata dall’astrattismo matematico, e una «fisica ariana» fondata sullo sperimentalismo; cfr. Deutsche Physik (München-Berlin 1937-38, 4 voll.). R. Maiocchi BIBL.: J. STARK, Philipp Lenard als deutsche Naturforscher. Sein Kampf um nordische Forschung..., in A. BECKER (a cura di), Naturforschung im Aufbruch, München 1936, pp. 10-15; C. RAMSANER, Zum zehnten Todestag. Philipp Lenard 1862-1947, in «Physikalische Blätter», 13 (1957), pp. 219-222; F. WOLF, Zur 100.

Lenin Wiederkehr des Geburtstages von Philipp Lenard, in «Naturwissenschaften», 49 (1962), pp. 245-247; E. BRÜCKE - H. MARX, Der Fall Philipp Lenard Mensch und Politiker, in «Physikalische Blätter», 23 (1967), pp. 262-267; A. HERMANN, Philipp Lenard, in Dictionary of Scientific Biography, vol. VIII, New York 1973, pp. 180-183.

LENIN (pseudonimo di ULJANOV), VLADIMIR Lenin ILJIC. – Rivoluzionario russo, teorico e fondatore del bolscevismo, n. a Simbirsk il 10 (22) apr. 1870, m. a Mosca il 21 genn. 1924. Fra gli episodi salienti della sua vita, va ricordata anche la vicenda del fratello maggiore Aleksandr, coinvolto nella preparazione di un attentato contro lo zar, scoperto e giustiziato nel 1887. Dopo la laurea in giurisprudenza, a partire dal 1894 si dedicò con impegno allo studio dei problemi economici della Russia, al quale abbinò una lettura analitica delle opere di Marx ed Engels. Questa ricerca si concluse con la pubblicazione del suo primo libro, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, redatto durante tre anni di deportazione in Siberia e apparso sotto falso nome nel 1899. Pochi mesi dopo il suo rientro nella Russia europea, riuscì a espatriare clandestinamente in Occidente, dove restò fino al 1905, dando vita all’organo ufficiale del partito socialdemocratico russo («Iskra», «La scintilla»). Rientrò dall’esilio nel 1905, quando ritornò a San Pietroburgo per partecipare attivamente al movimento rivoluzionario. Il fallimento della rivoluzione e la violenta reazione zarista, lo indussero ancora una volta a guadagnare la via dell’esilio. Dal punto di vista filosofico, il contributo teorico contenuto negli scritti di Lenin, e in particolare in Materializm i empiriokriticizm (1909), può essere individuato nel consolidamento di una complessiva «visione del mondo», che riprende e sviluppa l’impostazione della ricerca engelsiana, più che quella genuinamente marxiana, e si esprime in una vera e propria «dottrina», denominata materialismo dialettico. Nei primi anni del Novecento la scoperta della radioattività produsse un profondo rivolgimento nel concetto di materia. Contro la tesi di alcuni fisici, che parlavano di una «scomparsa della materia» (L. Houllevigue), di una «smaterializzazione dell’atomo» e della rovina degli antichi principi, Lenin volle mettere in salvo la realtà della materia e per questo salvare anche il materialismo filosofico marxista, cadendo però nell’altro estremo e dichiarando 6323

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Lenin la materia unica realtà. Il concetto di materialismo riceveva così, come già in Engels, spesso il significato di «realismo» gnoseologico. Per renderlo indipendente dagli sviluppi ulteriori delle scienze naturali, Lenin oppone il concetto filosofico della materia alle varie teorie scientifiche, protese verso una sempre più perfetta conoscenza della sua struttura fisica (la sua composizione di molecole, atomi, elettroni ecc.). Dal punto di vista filosofico Lenin intende infatti per «materia» «ciò che agendo sui nostri sensi, produce la sensazione [...] La realtà oggettiva dataci nella sensazione»; o «una categoria filosofica per designare la realtà oggettiva che è concessa all’uomo nelle sue sensazioni, [...] esistendo indipendentemente da esse» (Opere, 5a ed. russa, XVIII, pp. 131, 149). È vero che l’accento è posto da Lenin sulla tesi realista che la materia è realtà oggettiva, indipendente dal soggetto; affermando però, senza discussione o dimostrazione, che la materia è tutta la realtà e che, oltre ad essa, nulla esiste, egli assume anche una vera posizione materialistica. Lenin volle portare il materialismo dialettico all’altezza del suo tempo anche a proposito del problema della conoscenza. Con la «teoria della riflessione» (Abbildtheorie) credette di aver dato alla filosofia marxista (contro i vari tentativi dei revisionisti) una teoria della conoscenza confacente alle esigenze filosofiche moderne. Questa teoria consiste però nell’affermazione non ulteriormente giustificata che i nostri concetti e le nostre sensazioni sono «copie», «immagini» della realtà e l’unica giustificazione teorica che è possibile darne è quella offerta dalla pratica e dall’esperimento. Tale conferma però dimostra soltanto che in alcuni casi l’uomo ha avuto una conoscenza vera, ma non offre una teoria critica del perché e delle condizioni nelle quali la conoscenza è vera. Durante la prima guerra mondiale Lenin, che viveva allora come fuoruscito politico in Svizzera, ebbe abbastanza tempo libero per dedicarsi allo studio approfondito di Hegel. I riassunti e le note di questo lavoro, più tardi furono pubblicati sotto il titolo Filosofskie tetradi (Quaderni filosofici; in Opere, cit., XXIX) e costituiscono la seconda fonte principale per lo studio della sua filosofia. È in virtù di questo contatto immediato con Hegel, e non grazie a una ispirazione proveniente dagli scritti del giovane Marx, che il pensiero di Lenin qui si ri6324

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vela penetrato molto più profondamente di prima dall’elemento dialettico. Nella dottrina sulla materia, un accento speciale è posto sul suo moto spontaneo (Selbstbewegung), risultante dall’unità (ovvero dall’identità) degli opposti. Anche la «teoria della riflessione» viene completata da Lenin con l’elemento dialettico: la conoscenza umana è essenzialmente processo, cioè processo dialettico che conduce dalla non-scienza alla scienza, per mezzo del quale la «cosa in sé» si trasforma in una «cosa per noi». Nel marzo del 1917, scoppiata in Russia la cosiddetta «rivoluzione di febbraio», Lenin riuscì a rientrare in patria con una trentina di altri esiliati russi. Assunse la direzione della «Pravda», dove pubblicò le famose «Tesi di aprile» che espongono in maniera succinta ma estremamente incisiva il programma politico dei bolscevichi. Pochi mesi più tardi, a seguito di una violenta campagna di denigrazione, deve riparare in Finlandia, dove scrive una delle sue opere più importanti: Stato e rivoluzione (1917). Approfittando dell’ulteriore peggioramento della situazione bellica, riprese la guida del partito bolscevico, lanciando la parola d’ordine dell’insurrezione contro il governo per l’immediato passaggio di tutto il potere nelle mani del proletariato rivoluzionario. Dopo il 1917, e fino alla morte, si dedicò alla costruzione della struttura politica del nuovo stato, contro gli attacchi delle forze reazionarie armate da potenze straniere. Negli ultimi anni della sua vita, combinò l’attività di dirigente rivoluzionario con quella del teorico, scrivendo alcuni testi fondamentali (La dittatura del proletariato e il rinnegato Kautsky, 1919; L’estremismo malattia infantile comunismo, 1920). Nel campo della filosofia sociale («materialismo storico») Lenin ha accentuato soprattutto l’elemento volontaristico del marxismo, mitigandone il determinismo economico ancor più di Engels. Contro alcuni marxisti russi (l’«economicismo»), i quali avevano spinto all’estremo il determinismo storico e, perciò, aspettavano l’avvento del socialismo dalla sola azione necessaria delle forze elementari dell’evoluzione sociale, sosteneva con la massima energia che quelle «forze elementari» non escludono, anzi suppongono l’intervento cosciente dell’uomo, che deve condurre una lotta cosciente per la rivoluzione. Da questa concezione fondamentale di Lenin derivano tutte le altre tesi particolari, caratte-

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ristiche della sua concezione sociale: la dottrina sul Partito inteso come un’avanguardia ben disciplinata e centralizzata (Cto delat’ ? [Che fare?], 1902: in Opere, VI, pp. 1-192); la dottrina sulla necessità di un’alleanza del proletariato con i contadini poveri nella lotta contro l’autocrazia, anziché di un’alleanza con la borghesia liberale come volevano i menscevichi (K derevenskoj bednote [Ai contadini poveri], 1903: VII, pp. 129-203); la dottrina sull’imperialismo, che egli considerava come ultima fase di sviluppo del capitalismo, fase in cui maturano i tempi per la rivoluzione proletaria, la quale non scoppierà simultaneamente in tutto il mondo, ma, a causa dell’ineguale sviluppo del capitalismo nei vari paesi, romperà la catena dell’imperialismo nell’anello più debole; il socialismo è possibile anche in un solo paese, dal quale successivamente si estenderà in tutto il mondo (Imperializm, kak vyssaja stadija kapitalizma [L’imperialismo, fase suprema del capitalismo], 1917: XXVII, pp. 299-426); e infine la dottrina sullo Stato come mezzo di dominazione di una classe sulle altre, esposta in Gosudarstvo i revoljucija (Lo Stato e la rivoluzione, 1918, XXXIII), in cui si occupa anche dei primi compiti dello Stato proletario immediatamente dopo la conquista del potere, sviluppando la sua teoria della «dittatura del proletariato» come mezzo per la liquidazione della divisione della società in classi antagonistiche. G.A. Wetter - U. Curi BIBL.: ediz.: Polnae sobranie socinenij (Opere complete). 5a ed. russa, Mosca 1958-63, tr. it., Opere complete, sulla 4a ed. russa (45 voll., 1941-62), Roma 19551971; Opere scelte, 2 voll., Mosca 1946 (ed. it.); Opere scelte, Mosca 1971; Materialismo ed empiriocriticismo, Brescia 1946; Roma 1953; Quaderni filosofici, Milano 1958; Stato e rivoluzione, I, Roma 1966. Molto interessante: Aus dem philos. Nachlass. Exzerpte und Randglossen, Berlin 19542 (estratti e glosse marginali delle letture filosofiche di Lenin 1914-16). Anche: L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Roma 1948. Su Lenin: G. STALIN, Questioni del leninismo, Mosca 1946 (ed. it.); A. PASTORE, La filosofia di Lenin, Milano 1946; D. SHUB, Lenin, Milano 1949; C.J. GIANOUX, Lenin, Parigi 1952; S.W. MOORE, The Critique of Capitalist Democracy. An Introduction to the Theory of the State in Marx, Engels and Lenin, New York 1957: G.A. WETTER, Der dialektische Materialismus, Vienna 1960, pp. 127-147 (si veda anche la traduzione italiana, Il materialismo dialettico sovietico, Torino 1948, pp. 123-147); M. GORKI, Lenin, tr. it., Roma 1961; L. FISCHER, Vita di Lenin, 2 voll., tr. it., Milano 1966; A.B.

León ULAM, Lenin e il suo tempo, 2 voll., tr. it., Firenze 1967 (opera a carattere generale); L. ALTHUSSER, Lenin e la filosofia, tr. it. Milano 1969; V. SERGE, Lenin 1917, Bari 1969; G. HAUPT, Lenin e la Seconda Internazionale, Firenze 1969; M. LEVIN, L’ultima battaglia di Lenin, Bari 1969; L. GRUPPI, Il pensiero di Lenin, Roma 1970; A. CARLO, Lenin sul partito, Bari 1970; AA.VV., Lenin teorico e dirigente rivoluzionario, in «Quaderni di Critica marxista», 4, Roma 1970; T. PERLINI, Lenin, Firenze 1971; A. NEGRI, La fabbrica della strategia. 33 lezioni su Lenin, Padova 1977.

LENZEN, VICTOR. – Fisico, logico e filosofo Lenzen statunitense, n. il 14 dic. 1890 a San José (California), m. il 18 lug. 1975 a Oakland (California). Insegnò fisica sempre alla California University (Berkeley), fino a divenire professore emerito nel 1958. Pubblicò numerose ricerche di epistemologia, storia della fisica moderna ecc. con orientamento neopositivistico. Le principali sono: The Nature of Physical Theory (New York-London 1931); Procedures of Empirical Science (Chicago 1938); Causality in Natural Science (Springfield [Illinois»] 1954); inoltre molti studi in varie riviste e opere di collaborazione. Cfr. anche The Figure of Dionysos on the Siphnian Frieze (Berkeley - Los Angeles 1946). Red. BIBL.: J.L. HEILBRON, Victor Lenzen, in «Isis», 68 (1977), pp. 598-600; A.C. HELMHOLTZ - E.M. MCMILLAN - E.W. STRONG, In Memoriam, Berkeley 1978.

LEÓN, LUIS DE. – Poeta, filosofo e teologo León spagnolo, agostiniano, n. a Belmonte (Cuenca) il 15 ag. 1527, m. a Madrigal de las Altas Torres (Avila) il 23 ag. 1591. Discepolo di Melchor Cano e di Domingo de Soto, fu professore nell’università di Salamanca (1562), distinguendosi per la conoscenza della Scrittura; a causa tuttavia dei suoi criteri circa la Volgata (più tardi accettati come validi), ebbe a che fare con l’inquisizione di Valladolid che lo tenne in carcere dal 1572 al 1575. Riprendendo l’insegnamento a Salamanca, avrebbe pronunciato la frase, divenuta classica: «Dicebamus hesterna die...»; celebri anche le sue polemiche con alcuni illustri maestri della scuola domenicana. Oltre che uno dei prosatori più illustri del Rinascimento spagnolo, Luis de León è considerato il poeta più notevole della letteratura spagnola (Menéndez Pelayo). Nei Nombres de Cristo (Salamanca 1586) elaborò una dottrina filosofica e teologi6325

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Léon ca, impreziosendo l’idioma castigliano; è però nelle opere latine che più si rivela la sua acuta penetrazione filosofica. È merito di León inoltre l’aver proclamato il valore dello stile letterario e della santità di Teresa d’Avila. Egli considera il linguaggio come un’espressione spirituale feconda, di grande rilievo filosofico; la conoscenza è, in gran parte, intuizione poetica. Tale concezione viene applicata da León di preferenza allo studio e alla conoscenza di Dio, perfezionando gli studi patristici e medievali intorno ai «nomi divini» come espressione dell’essenza e degli attributi di Dio. Notevole è anche la sua ammirazione per la realtà naturale come manifestazione e svelamento della bellezza e dell’amore divini nella creazione e nella redenzione. I contributi filosofici più importanti e duraturi si trovano nelle sue analisi intorno alla pace e all’amore, che gli servirono le prime per uno studio sulla serenità e sull’ordine cosmico, umano e sociale, le seconde per penetrare i segreti della mistica. L’unità del mondo, derivata dalla presenza di Dio in esso, è uno dei motivi costanti del pensiero del León, d’ispirazione platonica e agostiniana, con evidenti reminiscenze pitagoriche e che rivela una conoscenza profonda dei classici latini. A. Muñoz Alonso BIBL.: Obras, ed. critica a cura di A. Merino, Madrid 1814-16, 6 voll. (con due riedizioni); Opera, ed. a cura di M. Gutiérrez, Salamanca 1891-95, 7 voll.; De legibus, ed. critica bilingue a cura di L. Pereña, Madrid 1963; De los nombres de Cristo, ed. a cura di C. Cuevas, Salamanca 1980, tr. it. di M. Di Pinto, I nomi di Cristo, Torino 1997; Obras completas castellanas, a cura di F. García, «Biblioteca de autores cristianos», vol. III, Madrid 19915 (con ampia bibl.); Exposición del Libro de Job, ed. a cura di J. San José Lera, Salamanca 1992, 2 voll.; Poesías completas, ed. a cura di C. Cuevas, Madrid 1998 (bibliografia ampia ed approfondita pp. 59-80). Cfr. AA.VV., Grande Antologia filosofica, Milano 1964, vol. VII, pp. 598-602; vol. IX, pp. 2417-2424. Su Luis de León: S. MUÑOZ IGLESIAS, Fray Luis de León, teólogo, Madrid 1950 (studio importante); Fray Luis de León 1591/1991: numero-homenaje IV centenario, n. mon. «La ciudad de Dios», 204 (1991); R. LAZCANO GONZÁLEZ, Fray Luis de León: bibliografía, Madrid 1994 (studio accurato su edizioni, traduzioni, critica e fortuna); D. FERRARO, Itinerari del volontarismo: teologia e politica al tempo di Luis de León, Milano 1995.

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LÉON, XAVIER. – N. a Parigi il 20 mag. 1868, Léon m. ivi il 21 ott. 1935. A soli ventiquattro anni, in reazione al positivismo della «Revue philosophique» di Ribot, fondò e poi animò fino alla morte la «Revue de Métaphysique et de Morale», destinata a divenire una delle più importanti riviste filosofiche del mondo in lingua francese. Organizzatore attivo e abile, ideò e aprì nel 1900 la serie dei «Congressi internazionali di filosofia»; l'anno successivo fondò, seguendo un’idea originale di Lalande, la «Societé française de Philosophie», che presto promosse il prestigioso Vocabulaire de la Philosophie. Nel 1902 pubblicò un ampio studio, divenuto classico, su La philosophie de Fichte (Paris), cui seguì una monumentale biografia dal titolo Fichte et son temps, in due parti (1922, 1927 Paris). Il segreto di Fichte è per Léon riposto nella sua estrinseca adesione al romanticismo filosofico-politico del suo tempo: il vero sistema di Fichte permane sempre uguale a se stesso ed è una filosofia comunque kantiana, cioè critica e razionalista, sempre repubblicana e giacobina. C. Rosso BIBL.: J. BENRURI, Les sources et les courants de la philosophie contemporaine en France, vol. II, Paris 1933, pp. 659 ss.; J. BENRURI, Xavier Léon, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1935; AA.VV., Xavier Léon, s. d. Paris, con artt. di E. Halévy, A. Lalande, T. Steeg, D. Bouglé, L. Lavelle, D. Halévy, J. Wahl, M. Blondel, D. Parodi e F. Pécaut; M. GUEROULT; Xavier Léon: vingt-cinq ans après, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1960, pp. 241-245; V. JANKÉLÉVITCH, Xavier Léon: souvenirs, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1960, p. 246; L. QUILICI, Il carteggio Xavier Léon: corrispondenti italiani, in «Giornale Critico della filosofia italiana», 1989, pp. 295-368.

LEONARDO DA PISTOIA (de Pistorio, PistoLeonardo riensis). – Teologo domenicano italiano, di cui si ignorano i dati biografici, vissuto, si pensa, verso l’inizio del 1300. Si conservano manoscritti: Tractatus de decem praeceptis decalogi (Plut. XXXI Sinist. Cod. 7 Laurenz.); De praescientia et praedestinatione divina (ibi; cfr. Sancti Thomae Aquinatis opera omnia, ed. a cura di R. Busa, vol. VII, Stuttgart 1980, pp. 345-349); Speculum christianae religionis (Cod. Vat. lat. 1028). Seguì strettamente le dottrine di Tommaso; anzi lo Speculum, che è l’opera sua maggiore, interrotta nel manoscritto, divisa in sei parti (perfezione divina; creazione; governo divino; incarnazione; provvi-

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denza; retribuzione divina), è una compilazione di testi tomistici (dalla C. Gent.), il che fa pensare ad uno scopo divulgativo dell’opera in rapporto al pensiero tomistico. Cfr. M. Grabmann, Mittelalterliches Geistesleben, vol. I: Abhandlungen zur Geschichte der Scholastik und Mistik, Hildesheim-Zürich-New York 1984 (München 1926), pp. 384-388. Red. BIBL.: G. ARRIGHI, L’«Arithmetica» di fra’ Leonardo da Pistoia O. P. (secc. XIII-XIV) del cod. 1169 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, Firenze 1977; TH. KÄPPELI - E. PANELLA, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, vol. III, Roma 1980, pp. 85-86; G. ARRIGHI, Fra’ Leonardo da Pistoia trattatista di «geometria pratica», Rastignano 1981; G. ARRIGHI, La «Cosmimetria» di fra Leonardo da Pistoia (s. XIII-XIV), in «Miscellanea Storica della Valdelsa», 88 (1982), pp. 9397; G. POMARO, Censimento dei manoscritti della biblioteca di Santa Maria Novella, in «Memorie Domenicane», 13 (1982), p. 347; TH. KÄPPELI - E. PANELLA, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, vol. IV, Roma 1993, p. 189; P. SCHULTHESS - R. IMBACH, Die Philosophie im lateinischen Mittelalter, Zürich-Düsselforf 1996, p. 511.

LEONARDO VINCI. – N. a Vinci (FirenLeonardo daDA Vinci ze) il 15 apr. 1452, figlio illegittimo di ser Piero da Vinci, notaio, e Caterina; m. il 2 magg. 1519 a Cloux, presso Amboise, in Francia. Dopo la prima formazione, probabilmente da autodidatta, fu messo a bottega a Firenze, forse già dal 1464, presso Andrea del Verrocchio, dove completò l’apprendistato artistico, esteso anche alla pratica dell’ingegneria, e alla frequentazione dell’ambiente culturale fiorentino, nella cerchia di Lorenzo il Magnifico. Passò a Milano nel 1482, dove rimase al servizio di Ludovico il Moro come ingegnere e architetto, oltre che pittore (soprattutto per il Cenacolo) e scultore (per il monumento equestre di Francesco Sforza): in questi anni sviluppò gli interessi scientifici e naturalistici, iniziando la scrittura di una serie di quaderni privati, finalizzati alla composizione di trattati, tra i quali avrebbe avuto un posto preminente il Libro di pittura. Alla caduta di Ludovico il Moro (1499) Leonardo tornò (tra una sosta a Venezia nel 1500 e un periodo al servizio di Cesare Borgia nel 1502-1503) a Firenze, dove fu incaricato della grande pittura murale della Battaglia di Anghiari, e dove iniziò la Gioconda. Rientrato a Milano nel 1506, continuò l’attività prodigiosa di indagine del reale e di scrittura, approfondendo in modo originale gli aspetti della mec-

Leonardo da Vinci canica (anche finalizzata al volo artificiale), dell’anatomia, dell’ottica, della geologia e dell’idraulica. Dopo un soggiorno romano, al servizio di Giuliano de’ Medici (1513-1516), accettò l’invito di Francesco I re di Francia, e si stabilì fino alla morte nel castello di Cloux presso Amboise, affidando all’ultimo allievo Francesco Melzi l’eredità dei suoi manoscritti. Scrive Baldassar Castiglione, nel Cortegiano, che «un altro de’ primi pittori del mondo sprezza quell’arte dove è rarissimo ed èssi posto ad imparar filosofia, nella quale ha così strani concetti e nove chimere, che esso con tutta la sua pittura non sapria depingerle». Evidente l’allusione a Leonardo, che negli ultimi anni della sua vita appariva già ai contemporanei come un sapiente, un filosofo antico, dedito all’indagine del reale più che all’operare artistico. Il pensiero vinciano, nella sua totalità, era però affidato ai manoscritti, ancora inediti alla morte del Maestro, e rimasti in larga parte inconosciuti nei secoli successivi, in cui videro la luce solo alcuni testi sulla pittura e sull’idrologia. La renaissance vinciana fu evento strettamente legato alla modernità, favorito dalla riscoperta dei manoscritti, dal progresso degli studi filologici e delle edizioni di testi, ma anche dall’orizzonte d’attesa degli intellettuali europei del XIX secolo, responsabili della metamorfosi moderna del mito di Leonardo, considerato genio universale, superuomo, precursore dell’età del predominio scientifico e tecnologico. Eppure, proprio Nietzsche coglieva acutamente in Leonardo gli elementi di superamento del paradigma europeo («etwas Über-Europäisches und Erschwiegenes»), mentre Paul Valéry riconosceva il «metodo» di Leonardo nella tensione irrisolta di osservazione-costruzione del reale, nella potenzialità più che nella perfezione. Il dibattito novecentesco, aperto con la revisione del mito da parte di Croce, scettico sulla possibilità di considerare Leonardo un «filosofo», giungeva al decisivo saggio di Luporini, che attribuiva a Leonardo un posto di rilievo nella storia del pensiero non per l’elaborazione di un «sistema» compiuto, ma per la rilevanza anche filosofica dei problemi affrontati, anche se non en philosophe. La comprensione di quei problemi era possibile solo attraverso l’attenta ricognizione delle cosiddette «fonti», gli auctores (o gli «altori», avrebbe detto Leonardo) antichi, medievali e umanistici, che Leonardo avrebbe potu6327

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Leonardo da Vinci to leggere: ricognizione avviata con risultati alterni da Duhem e Solmi, e poi perfezionata da Bongioanni, Marinoni, Garin, Pedretti, Vasoli. Ne risulta un quadro estremamente complesso, perché la formazione di Leonardo fu inizialmente quella di un autodidatta, e poi di apprendista della bottega di Verrocchio, estranea agli ambienti della scuola umanistica e dell’università, e priva della conoscenza dello strumento linguistico fondamentale per l’accesso alla litteratura scientifica e filosofica, il latino (o le litterae). Solo verso i quarant’anni Leonardo («omo sanza lettere») iniziò faticosamente lo studio del latino, e anche in seguito ebbe bisogno dell’aiuto di amici come Luca Pacioli (per lo studio di Euclide), o di volgarizzamenti. Eppure, le liste di libri che possedette e le citazioni presenti nei manoscritti rendono testimonianza di un orizzonte di interessi e di curiosità che mai nessun artista del Rinascimento ebbe così vasto. Di più, la condizione di marginalità rispetto alla cultura scolastica e umanistica era ribaltata orgogliosamente in un sentimento del primato della ricerca primaria, della «sperienzia», che interroga direttamente la natura, vera «maestra», piuttosto che i libri degli «altori»: una posizione che si riflette, nei manoscritti di Leonardo, nella frequente critica del principio di autorità. Gli anni della formazione fiorentina vedono probabilmente Leonardo in una posizione di consonanza con il neoplatonismo di Marsilio Ficino, ma anche con la tradizione ermetica, di cui conobbe il Pimander volgarizzato da Tommaso Benci. Come ha ben indicato Marinoni, dei testi platonici o neoplatonici (Plotino) e ficiniani, Leonardo ha una conoscenza in gran parte mediata e rielaborata in maniera originale. Ne deriva una visione della natura fondata sul sistema dei quattro elementi primordiali, cui si aggiunge la «quintessenza», elemento di mediazione tra anima e corpo secondo il De vita del Ficino; lo studio della natura (privo di preoccupazioni metafisiche, o magiche) si avvale dell’analisi delle analogie esistenti tra microcosmo e macrocosmo, e dei suoi fondamenti matematici, come si afferma nel commento ficiniano al Timeo. Inoltre Ficino trasmette a Leonardo il senso di una rivalutazione positiva delle arti figurative, e di un’estetica fondata su un concetto di bellezza legato non solo alla staticità quattrocentesca del canone proporzionale, ma anche all’actus vivacitatis, 6328

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elemento decisivo nella ricerca artistica vinciana di rappresentazione del movimento. L’interesse per la matematica sarà poi rinnovato dall’incontro a Milano con Luca Pacioli, e col suo sincretismo pragmatico, che univa l’aritmetica pratica dei mercanti e degli ingegneri (vicina al poco d’abaco imparato da Leonardo giovane) alla tradizione medievale araba e classica greca (Euclide e Archimede), e al neoplatonismo di fondo. In particolare, la matematica sarà posta a fondamento della «scienza della pittura», in testi destinati ad aprire il Libro di pittura, come nel De pictura di Leon Battista Alberti. Ed è probabilmente sempre la pittura (intesa come «filosofia», come strumento di conoscenza della realtà, originata non dal fare meccanico ma da un «discorso mentale», e collocata al vertice della gerarchia delle arti e delle discipline, in polemica con la concezione umanistica) che guida Leonardo allo sviluppo straordinario delle ricerche naturalistiche, che lo allontanano dal neoplatonismo iniziale, a partire dal periodo milanese. Tra i problemi centrali sembra esservi quello del moto, essenziale alla visione dinamica del reale. Leonardo approfondisce le letture di fisica e di meccanica, soprattutto tra autori dell’aristotelismo scolastico medievale, da Alberto Magno e Alberto di Sassonia (l’«Albertuccio») a Giordano Nemorario, che mediano le dottrine di Aristotele e Simplicio, e si avvicina a Biagio Pelacani, ai cosiddetti calculatores Guglielmo Heytesbury e Riccardo di Swineshead, e forse a Buridano. La riflessione si concentra sul concetto di «forza», potenza «spirituale», incorporea, invisibile, impalpabile: Leonardo segue la teoria medievale dell’impetus, opposta al concetto aristotelico di antiperistasis, ma giunge anche all’intuizione del principio di inerzia. Confronta costantemente lo studio teorico con i risultati di esperienze (anche solo virtuali), e progetta un grande libro di «elementi macchinali», corredato dei disegni dei modelli di macchine risultanti dall’applicazione di quei principi; e giunge, forte della «sperienzia», a confutare gli auctores, ad esempio nella verifica della proporzionalità dei moti rispetto alla resistenza, contro i filosofi cosiddetti «proporzionanti» (Aristotele, Alberto Magno, Alberto di Sassonia). Erano gli stessi filosofi di cui Leonardo possiede i testi consultati per altre questioni di fisica e filosofia naturale: di Aristotele, i Problemata,

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le Propositiones, il De incremento Nili, e i Meteora volgarizzati; di Alberto Magno e «Albertuccio» i commenti alla Fisica e al De coelo et mundo. Vi si accostano Plinio il Vecchio e Tolomeo, Pietro d’Abano, ma anche le conoscenze di filosofia greca e presocratica tramandate da Diogene Laerzio nella riduzione volgarizzata di Walter Burley (1480), i testi astronomico-astrologici dell’Alcabizio e dell’Albumasar, e le stesse letture di Dante (Commedia, Convivio, Questio de aqua et terra), Cecco d’Ascoli, Brunetto Latini. Nello studio degli elementi naturali risalta il primato dell’acqua, l’elemento mobile per eccellenza, in numerosi scritti vinciani in cui s’avverte anche l’influenza della fisica stoica, mediata da Seneca. Ma la visione neoplatonica e sostanzialmente ottimistica di Ficino era ormai incrinata dal sentimento di una natura sovrumana, il cui potere di distruzione va oltre la possibilità di comprensione da parte dell’uomo (si vedano i tardi scritti e disegni dei Diluvii), così come l’approfondimento della mathesis singularis toglie gradualmente spazio al metodo dell’analogia, alla fiducia nelle corrispondenze tra microcosmo e macrocosmo. Come s’è detto, Leonardo rivaluta, rispetto al platonismo, il valore della conoscenza sensoriale, e in questo riserva la massima attenzione allo studio dell’occhio, non solo dal punto di vista anatomico, ma anche interrogandosi sui processi di formazione della conoscenza a partire dal dato sensibile, su basi di partenza che si riconoscono nel De anima di Aristotele. L’analisi dei processi della visione, e la lettura di testi classici e medievali di ottica e di prospettiva (Euclide, Peckham, Ruggero Bacone, Alhazen, Witelo) lo porterà così ad una concezione dello spazio e della prospettiva diversa da quella degli artisti del Quattrocento, e dell’Alberti. La rappresentazione della figura umana, infine, darà l’avvio alle ricerche anatomiche di Leonardo, che poi diventeranno un campo d’indagine del tutto autonomo dall’applicazione artistica, a cui s’accosta anche l’indagine fisiognomica. C. Vecce BIBL.: i mss. di Leonardo sono leggibili nell’Edizione Nazionale curata dalla Commissione Vinciana: tra le ultime pubblicazioni, il Libro di pittura, ed. a cura di C. Pedretti e C. Vecce, Firenze 1995, e il Codice Arundel, Firenze 1998. Tra le antologie: Scritti scelti, ed. a cura di A.M. Brizio, Torino 1966; Scritti letterari, ed. a cura di A. Marinoni, Milano 1974; Scritti, ed. a cura di C. Vecce, Milano 1992; Scritti ar-

Leonardo Pisano tistici e tecnici, ed. a cura di B. Agosti, Milano 2002. Bibl. in M. GUERRINI, Bibliotheca Leonardiana, 14931989, Grandi opere, vol. III, Milano 1990, e nelle riviste «Achademia Leonardi Vinci», Firenze 1988-98, e «Raccolta Vinciana», Milano 1905-. Su Leonardo da Vinci: un profilo generale in M. KEMP, Leonardo da Vinci: The Marvellous Works of Nature and Man, London 1981, tr. it di F. Saba Sardi, Leonardo da Vinci: le mirabili operazioni della natura e dell’uomo, Milano 1982; C. VECCE, Leonardo, Roma 1998; F. FEHRENBACH, Licht und Wasser: zur Dinamik naturphilosophischer Leitbilder im Werke Leonardo da Vincis, Tübingen 1997; F. FROSINI, Pittura come filosofia: note su «spirito» e «spirituale» in Leonardo, in «Achademia Leonardi Vinci», 10 (1997), pp. 35-59; P.C. MARANI, Leonardo: una carriera di pittore, Milano 1999; D. LAURENZA, De figura umana: fisiognomica, anatomia e arte in Leonardo, Firenze 2001; C. VECCE (a cura di), I mondi di Leonardo: arte, scienza e filosofia, «Atti del convegno di studi, Milano 21-22 ottobre 2002», Milano 2003.

LEONARDO PISANO (detto Fibonacci). – Leonardo Pisano Matematico, n. a Pisa verso il 1170, m. verso il 1230. Grazie ai frequenti viaggi nel Mediterraneo ebbe modo di conoscere il pensiero matematico greco e arabo-indiano. Raccolse le nozioni apprese nel Liber Abbaci (1202), opera rivista nel 1228 su pressione di Michele Scoto; altri lavori sono il Flos; la Practica Geometriae (1220); il Liber quadratorum (1225). Con Fibonacci si riafferma in campo matematico l’esigenza razionale che si era smarrita nel lungo periodo di decadenza seguito al tramonto della scienza antica. Egli volle penetrare, con dimostrazioni rigorose, le nozioni apprese e permeò in tal modo il Liber Abbaci di uno spirito nuovo, grazie al quale quest’opera può essere letta non come un elenco di risultati altrui, ma come la sintesi delle matematiche ellenistica e indo-arabica. Fibonacci presentò in modo sistematico la numerazione posizionale indiana e il relativo modo di eseguire operazioni; trasmise la regula universalis del quarto proporzionale e pervenne, nello studio dei radicali quadratici e cubici, a risultati che aprirono la via alla risoluzione delle equazioni di terzo grado. Il suo nome è sicuramente noto ai più per la serie numerica, nella quale ciascun termine, dopo i primi due, è la somma dei due immediatamente precedenti (1,1,2,3,5,8...) e per la quale il limite del rapporto tra un termine e il successivo, con n tendente a +∞ , è il valore della sezione aurea. Tale serie ha interessanti 6329

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Leone Ebreo riscontri in questioni di sviluppo organico e di fillotassi. G. Feltrin BIBL.: R. RASHED, Fibonacci e la matematica araba, in P. TOUBERT - A. PARAVICINI BAGLIANI (a cura di), Federico II e le scienze, Palermo 1994, pp. 324-337; M. MORELLI - M. TANGHERONI (a cura di), Leonardo Fibonacci. Il tempo, le opere, l’eredità scientifica, Pisa 1995; M.T. RIVOLO - A. SIMI, Il calcolo delle radici quadrate e cubiche in Italia da Fibonacci a Bombelli, in «Archives Internationales d’Histoire des Sciences», 52 (1998), pp.161-193.

LEONE EBREO (Yehudah Abrabanel). – FiloLeone Ebreo sofo ebreo italiano n. a Lisbona nel 1460, m. a Napoli nel 1530. È possibile che abbia visitato Firenze e incontrato Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. Del primo aveva certamente letto le opere. Nel suo pensiero, decisamente neoplatonico, vi è l’influsso dei pensatori arabi medievali, della filosofia greca antica e della contemporanea cultura italiana. Nella sua formazione fu fondamentale l’insegnamento del padre Yishaq Abrabanel (14371508), commerciante, finanziere, ed esegetafilosofo, attivo a Napoli dal 1492, autore di diverse opere tra cui un noto commento al Pentateuco e ai libri profetici della Bibbia, un Commento alla Guida dei perplessi di Maimonide, e di un’opera dogmatica Ro’sh amanah (Il Principio della credenza). Le vicende politiche del padre e il recrudescente antisemitismo lo sospinsero molto presto di esilio in esilio: fu a Toledo, a Napoli, a Genova e nuovamente a Napoli, quasi sempre esercitando la sua professione di medico. Nella bellissima Elegia sul mutarsi dei tempi, Leone pianse la tristezza della sua vita errabonda e il dolore per la lontananza del primogenito, rimasto in Portogallo in mani straniere e strappato alla religione degli avi. Una compiuta intuizione del vario mondo dei pensieri e dei sentimenti rinascimentali Leone espresse nei Dialoghi d’amore, scritti, come sembra, prima in ebraico e poi volti in toscano: questi costituirono un testo fondamentale della cultura del XVI secolo, durante il quale ebbero numerosissime edizioni e traduzioni. Ne furono appassionati lettori, tra gli altri, Cervantes e Spinoza. I dialoghi si svolgono tra Filone (l’amante) e Sofia, e rappresentano uno dei momenti principali della filosofia dell’amore inaugurata dal Ficino commentatore della problematica platonica del Convito. 6330

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Leone nei Dialoghi associa il giudaismo al neoplatonismo e celebra l’amore come forza prima e fondamento del cosmo. Nel primo dialogo, D’amore et desiderio, si differenziano l’utile e il piacevole dal bene: solo il bene ha una realtà in sé, anzi è la radice medesima di ogni realtà. Dio è il principio del bene nel suo duplice aspetto, metafisico-cosmico e psicologico-umano: da una parte la realtà oggettiva, e quindi pure gli intelligibili e il nostro stesso intelletto sono prodotti divini, dall’altra parte è la luce divina che fa passare la mera potenza del nostro intelletto all’atto, riconducendo così, attraverso l’uomo, la natura al suo principio. Dio, che è l’intelletto attivo, è il vero e solo oggetto della nostra conoscenza e insieme del nostro amore. L’amore di Dio, che è l’amore stesso del bene, non soffre limitazioni a opera della ragione ordinaria, la quale serve a trattenere l’uomo dall’eccedere nell’amore dell’utile e del piacevole. Nel secondo dialogo, De la comunità d’amore, Leone esalta l’universalità dell’amore, il quale è conoscenza che, naturale o sensitiva o razionale, costituisce la forza motrice d’ogni cosa. Nel terzo dialogo, De l’origine de l’amore, Leone spiega come Dio, il quale nulla può desiderare perché tutto ha, pure ami, e quindi desideri, giacché egli desidera la perfezione non per se stesso, ma per le sue creature. Dio non solo ha prodotto tutte le cose, ma continuamente le sostiene nel loro essere. A. Masullo - L. Pepi BIBL.: l’ed. princeps dal titolo Dialoghi d’Amore di maestro Leone medico fu pubblicata a Roma nel 1535, a cura di M. Lenzi. Di essa C. Gebhardt pubblicò un’ottima ripr., seguita dalle poesie ebraiche di Leone, sotto gli auspici della Società spinoziana, Heidelberg-London 1929 (con un’ottima introduzione, poi in Léon Hebreo; su vida y su obra, in «Revista de Occidente», 12, 1934, pp. 113-161). Un’ed. critica dei dialoghi, a cura di S. Caramella, Bari 1929 (con nota finale sulla vita e le opere). Cfr. Grande antologia filosofica, Milano 1964, vol. VII, pp. 606-614; vol. XI, pp. 983-991; Storia antologica dei problemi filosofici, parte I: Teoretica, pp. 1015-1021. Fra le tr. è da menzionare quella sp. fatta nel 1590 da Garcilaso de la Vega (ripr. Madrid 1949, 2 voll.). Su Leone Ebreo: G. SAITTA, La filosofia di Leone Ebreo, in Filosofia italiana e umanesimo, Venezia 1928, pp. 83-157; J. KLAUSNER, Don Jehudah Abravanel e la sua filosofia dell’amore, in «La Rassegna Mensile di Israel», 7 (1932), pp. 22-41; L. TONELLI, L’amore nella poesia e nei trattati del Rinascimento, Firenze 1933; G.

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FONTANESI, Il problema dell’amore nell’opera di Leone Ebreo, Firenze 1934; I. SONNE, Intorno alla vita di Leone Ebreo, in «Civiltà Moderna», 2-3 (1934); N. IVANOFF, La beauté dans la philosophie de Marsile Ficin et de Léon Hébreux, in «Humanisme et Renaissance», 3 (1936), pp. 12-21; R. MARCEL, Le platonisme de Pétrarque à Léon l’Hébreux, in AA.VV., «Actes du Congrès de l’Association Guillaume Budé, Tours et Poitiers, 3-9 septembre 1953», Paris 1954, pp. 293319; J.CH. NELSON, Renaissance Theorie of Love, New York 1958; C. DIONISOTTI, Appunti su Leone Ebreo, in «Italia Medioevale e Umanistica», 2 (1959), pp. 409430; J.N. RODRIGUES, A filosofia de Leão Hebreu. O amor e a beleza, in «Revista Portuguesa de Filosofia», 15 (1959), pp. 349-386; G. ARCINIEGAS, El Inca Garcilaso y León Hebreo o cuatro Diálogos de amor, in «Cultura Peruana», 45 (1960), pp. 5-11; G. SAITTA, Il pensiero italiano nell’Umanesimo e nel Rinascimento, vol. II: Il Rinascimento, Firenze 19612, pp. 83-113; W. RAITH, Das Problem des Bildes, in «Zeitschrift für Philosophische Forschung», 19 (1965), pp. 510-528; E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Torino 19672 vol. II, pp. 596-600; S. DAMIENS, Amour et intellect chez Léon l’Hébreu, Toulouse 1971; S. PINES, Medieval Doctrines in Renaissance Garb? Some Jewish and Arabic Sources of Leone Ebreo’s Doctrines, in B.D. COOPERMAN (a cura di), Jewish Thought in the Sixteenth Century, Cambridge (Massachusetts) 1983, pp. 365-398.

LEONHARDI, HERMANN KARL VON. – N. a Leonhardi Francoforte sul Meno nel 1809, m. a Praga nel 1875. Nel 1849 diviene professore a Praga dove, nel 1868, riunisce il primo congresso filosofico (cfr. Der Philosophenkongress als Versöhnungsrath, Praha 1869). È un seguace di K.C.F. Krause, di cui pubblica diversi scritti (Karl Christian Friedrich Krause’s handschriftlicher Nachlass, Leipzig 1834). Di Leonhardi si ricorda anche Winke zur Kritik Hegels bei Gelegenheit der unwissenschaftlichen Anmaßungen des Herrn G...s in der Preußischen Staatszeitung (München 1832). In linea con la dottrina krausiana sono i Sätze aus der theoretischen und praktischen Philosophie. Erneute Vernunftkritik (Praha 1869), nonché la rivista da lui diretta tra il 1869 e il 1875, «Die neue Zeit. Freie Hefte für vereinte Höherbildung der Wissenschaft und des Lebens». Red. BIBL.: A. SCHNEIDER, Die Philosophie auf dem Kongress. Zur rhetorischen Legitimation der Philosophiekongresse im 19. Jahrhundert, in «Dialektik», 1 (2002), pp. 121140.

Leont’ev LEONT’EV, ALEKSEJ NIKOLAEVIC. – N. a MoLeont’ev sca il 5 (18) febbraio 1903, m. ivi il 21 gennaio 1979. Dopo aver studiato filosofia nell’università di Mosca (1921-23), nel 1924 cominciò a lavorare nell’Istituto di psicologia di Mosca formando con Lev S. Vygotskij, Aleksandr R. Lurija e altri giovani ricercatori il nucleo fondatore della scuola storico-culturale, una corrente psicologica ispirata al materialismo storico e dialettico. Le ricerche di Leont’ev culminarono nella monografia Razvitie pamjati (Lo sviluppo della memoria), Moskva 1931: nel bambino la memoria ha uno sviluppo «naturale» dovuto da una parte alla maturazione del suo cervello e dall’altra all’acquisizione di conoscenze e informazioni nell’ambiente scolastico; ma vi è anche uno sviluppo «mediato», un potenziamento della memoria dipendente da particolari procedure cognitive introdotte dall’adulto in specifici contesti storico-culturali. Nel 1931 Leont’ev si trasferì a Charkov in Ucraina dove costituì un nuovo gruppo di ricerca per lo studio del concetto di «attività», intesa come l’organizzazione interindividuale e sociale di azioni cognitive e motorie (la caccia e la catena di montaggio sono tipici esempi di attività umane cui concorrono più individui, ciascuno con le proprie competenze). La teoria dell’attività di Leont’ev fu esposta in varie opere, da Ocerk razvitija psichiki (Saggio sullo sviluppo della psiche), Moskva 1947, a Problemy razvitija psichiki, Moskva 1959, tr. it. di S.A. Borlone - V. Borlone, Problemi dello sviluppo psichico, Roma 1976 (opera che gli valse il premio Lenin nel 1963), fino a Dejatel’nost’, soznanie, licnost’, Moskva 1975, tr. it. di M.S. Veggetti - L. Piersanti, Attività, coscienza, personalità, Firenze 1977. Leont’ev, docente di psicologia nell’università di Mosca dal 1941, fu il maestro di numerosi psicologi russi. L. Mecacci BIBL.: J.V. WERTSCH (a cura di), A. N. Leont’ev and Modern Psychology, n. mon. «Soviet Psychology», 23 (1984), 1; L. MECACCI, Storia della psicologia del Novecento, Roma-Bari 1992, pp. 362-372.

LEONT’EV, KONSTANTIN NIKOLAEVIC. – FiloLeont’ev sofo, storico, scrittore e critico letterario russo, n. a Kudinovo (governatorato di Kaluga) il 25 genn. 1831, m. a Sergej Posad (oggi Zagorst) il 24 nov. 1891. Medico passato alla carriera diplomatica, Leont’ev esercitò per dieci anni funzioni consola6331

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Leontina

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ri in Turchia. Qui, per una serie di circostanze avverse (l’improvvisa follia della moglie, la morte della madre e un violento attacco di malaria), fu colto da una profonda crisi mistica. Ritiratosi sul Monte Athos, decise di convertirsi al cristianesimo che, accolto nella sua forma bizantina, è alla base della sua successiva riflessione ed esistenza, conclusasi nel monastero della Trinità di San Sergio a Sergej Posad con l’abito monacale e con l’assunzione del nome di Clemente. Agli scritti raccolti in Sobranije socinenij (Raccolta di opere, Moskva 1912-14, 9 voll.), si aggiunge la sua autobiografia Moja literaturnaja sud’ba (Il mio destino letterario, pubblicata postuma in «Literaturnoe nasledstvo», voll. XXII-XXIV, ivi 1935). Il pensiero religioso di Leont’ev si caratterizza per un profondo pessimismo storico, evidente in Vizantizm i slavjanstvo (ivi 1875, tr. it. di A. Ferrari, Bizantinismo e mondo slavo, Parma 1987). Secondo Leont’ev, che qui segue Nikolaj J. Danilevskij, le leggi di sviluppo e decadenza delle società rispondono a quelle degli organismi viventi: dalla «semplicità primaria» si passa «alla complessità fiorente» che, unificata da un interno principio dispotico, è destinata a passare alla «semplicità mista» (o «confusione eguagliatrice») e, infine, alla morte. Quest’ultima fase è rappresentata dal liberalismo ugualitario della borghesia europea, che condurrà l’Occidente alla sua dissoluzione. L’antidoto all’Europa è Bisanzio che, politicamente autocratico, religiosamente cristiano e moralmente disilluso su tutto ciò che è terreno, rappresenta l’idea cui la Russia deve la sua civiltà e cui deve rimanere fedele se vuole salvare dalla dissoluzione se stessa e, mediante sé, l’Occidente. Il mondo slavo infatti, se inteso come semplice unità linguistico-etnografica, non ha in sé una vera idea capace di determinare il quadro storico di una civiltà come cultura religiosa, giuridica e artistica. Leont’ev si distanzia così dal panslavismo di Danilevskij e, sebbene vicino agli slavofili nella sua critica all’Occidente, se ne allontana per il suo pessimismo. Nulla infatti garantisce che la Russia, così attratta dall’Europa, rimanga fedele a Bisanzio. Il bizantinismo di Leont’ev, politicamente reazionario e pessimistico nelle possibilità evolutive dell’umanità, s’ispira però alla più «ottimistica» sicurezza cristiana d’un rinnovamento escatologico della vita. C. Cantelli

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BIBL.: N. BERDJAEV, Konstantin Leont’ev. Ocerk iz istorii russkoj religioznoj mysli (Konstantin Leont’ev. Studio di storia del pensiero religioso russo), Paris 1926; E. GASPARINI, Previsioni di Costantino Leont’ev, Milano-Venezia 1947; L. GANCIKOV, Orientamenti dello spirito russo, Torino 1958, pp. 90 ss.; A. IVANOV, K.N. Leontev: il pensiero, l’uomo, il destino, Pisa 1973; J. IVASK, Konstantin Leont’ev: zizn’ i tvorcestvo (Konstantin Leont’ev: vita e creazione), Bern 1974; G. CRONIN, Konstantin Leont’ev: Creative Reaction, in R. Freeborn - J. Grayson (a cura di), Ideology in Russian Literature, London 1990.

LEONTINA (o Leonzia). – Vissuta nel IV secoLeontina lo a. C., cortigiana ateniese e compagna di Epicuro, ne condivise gioie e amarezze e partecipò attivamente alla vita della scuola da lui fondata. Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, X, 23. Red.

LEONZIO BISANZIO. – Monaco origiLeonzio diDI Bisanzio nario di Bisanzio, n. nel 485 ca., m. nel 543 ca.; celebre teologo, polemista contro i monofisiti. Le opere generalmente ritenute autentiche sono Libri III adversus Nestorianos Eutychianos, Solutio argumentorum Severi e Triginta capita adversus Severum. La cristologia di Leonzio si sviluppa in modo strettamente connesso con la sua antropologia. I suoi scritti dimostrano la notevole preparazione filosofica, che egli apprese dall’Isagoge di Porfirio e dalla dialettica aristotelica, mentre nella psicologia si ispirò piuttosto alle dottrine neoplatoniche. Leonzio ha portato nuova luce nella controversia cristologica precisando appunto il significato dei termini filosofici in essa adoperati. L’uomo, secondo Leonzio, è composto di corpo e di anima. L’anima viene definita «essere incorporeo automotore» dotato anche di incorruttibilità e immortalità, del tutto indipendente dal corpo. Corpo e anima sono sostanze perfette e complete, distinte anche dopo l’unione, unione che non è richiesta dalla natura, ma ottenuta mediante l’onnipotenza di Dio. Ousia o essenza significa tutto quello che è comune nella realtà o anche la natura specifica di ogni essere; in questo caso ousia è sinonimo di physis, natura. Natura dice diversità specifica, non numero di individui. Hypostasis significa l’individuo concreto che esiste autonomamente. Quindi ogni ipostasi comporta una natura, ma non viceversa. Ogni physis però, essendo concreta e reale, o ha la

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sua propria ipostasi o ha l’enhypostasia, ossia è inserita nell’ipostasi di un altro individuo. Analogamente al rapporto tra anima e corpo nell’individuo, nel Cristo il logos si lega a una natura umana singola e completa, formando un individuo unico, in cui non si perde la distinzione tra umano e divino. Il pensiero teologico di Leonzio è oggetto di letture diversificate. Per un’analisi dettagliata delle interpretazioni, cfr. C. Moreschini - E. Norelli, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, vol. II, t. 2: Dal concilio di Nicea agli inizi del Medioevo, Brescia 1995, p. 854. I. Ortiz de Urbina - A. Ghisalberti Colombo BIBL.: Libri III adversus Nestorianos Eutychianos, in J.P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series I: [Patres] Ecclesiae Grecae, Paris 1857-66, vol. LXXXVI, t. 1, coll. 1268-1396; Solutio argomentorum Severi, in J.P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series I: [Patres] Ecclesiae Grecae, Paris 1857-66, vol. LXXXVI, t. 2, coll. 1915-1945; Triginta capita adversus Severum, Patrologiae cursus completus, Series I: [Patres] Ecclesiae Grecae, Paris 1857-66, vol. LXXXVI, t. 2, coll. 1901-1916 e F. DIEKAMP, Doctrina Patrum de incarnatione Verbi, Aschendorff, Münster 19822, pp. 155164. Le altre opere sono in J.-P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series I: [Patres] Ecclesiae Grecae, Paris 1857-66, vol. LXXXVI, tt. 1-2. Su Leonzio di Bisanzio: I.P. JUNGLAS, Leontius von Byzanz. Studien zu seinen Schriften, Quellen und Anschauungen, Paderborn 1908; V. GRUMEL, s. v. in A. VACANT - E. MANGENOT - E AMANN (a cura di), Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1909-47, vol. IX, coll. 404-408; A. ORBE, La epinoia. Algunos preliminares históricos de la distinción kat´ ejpivnoian (En torno a la filosofía de Leoncio Bizantino), Roma 1955; E. HAMMERSCHMIDT, Einige philosophischtheologische Grundbegriffe bei Leontius von Byzanz, Johannes von Damaskus und Theodor Abû Qurra, in «Ostkirchliche Studien», 4 (1955), pp. 147-154; B. TATAKIS, La philosophie byzantine, Paris 19592, pp. 62-73; S. OTTO, Person und Subsistenz: Die philosophische Antropologie des Leontios von Byzanz, München 1968; D.B. EVANS, Leontius of Byzantium: An Origenist Christology, Washington 1970; L. PERRONE, Il «Dialogo contro gli aftartodoceti» di Leonzio di Bisanzio e Severo di Antiochia, in «Cristianesimo nella Storia», 1 (1980), pp. 411-442; M. VAN ESBROECK, La date et l’auteur du «De Sectis» attribué à Léonce de Byzance, in C. LAGA - J.A. MUNITIZ - L. VAN ROMPAY (a cura di), After Chalcedon: Studies in Theology and Church History, Louvain 1985, pp. 415-424; A. GRILLMEIER, Jesus der Christus im Glauben der Kirche, Freiburg-Basel-Wien 197990, vol. II, t. 2, pp.146-241, tr. it. a cura di E. Norelli e S. Olivieri, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, Brescia, pp. 245-301.

Leopardi LEOPARDI, GIACOMO. – Poeta e pensatore, Leopardi n. a Recanati il 29 giu. 1798, m. a Napoli il 14 giu. 1837. Fino al 1822 rimase nella casa paterna; in seguito alternò la dimora di Recanati con soggiorni a Roma, Milano, Bologna, Firenze, Pisa e ancora Roma. Fu sempre variamente afflitto dalla cattiva salute: nel luglio del 1832 era ridotto a non poter più leggere né scrivere né pensare, e per più di un anno nemmeno parlare. Nella speranza di trovare sollievo nel 1835 seguì a Napoli l’amico Antonio Ranieri, in casa del quale lo colse la morte. Le convinzioni dottrinali e filosofiche di Leopardi sono espresse principalmente nello Zibaldone, scritto tra il 1817 e il 1832, e nelle Operette morali, composte nel 1824 (meno il Copernico e il Dialogo di Plotino e di Porfirio, che sono del 1827). Sebbene, per rispetto verso le opinioni religiose del padre, Leopardi asserisse essere stata sua intenzione nelle Operette «di far poesia in prosa» (Epistolario, vol. VI, p. 84), è tuttavia indubitabile che questa scrittura, in cui raggiunse forma perfetta la sostanza di tutte le anteriori meditazioni, è lo specchio fedele della sua filosofia. La filosofia di Leopardi è incentrata nel problema del male. Questo, in un primo momento, viene concepito, conformemente alla metafisica tradizionale, come l’effetto di un passo che l’uomo fa liberamente, al di fuori dell’intento della natura. In un secondo momento, invece, questo passo è inteso come promosso e necessitato dalla natura stessa, sicché il male rimane iscritto nel disegno primitivo e assoluto del mondo. Nell’interpretare il dogma cattolico del peccato originale, Leopardi (Zibaldone di pensieri, a cura di F. Flora, Milano 1937-38, 2 voll., nn. 393-420) conviene con i teologi nel ritenere che la colpa sia puramente accidentale rispetto all’ordine, ma discorda da essi nel farla consistere non tanto nel disordine di desideri e inclinazioni ritenuto di per sé buono, ma nel desiderio stesso per cui l’uomo, che già possedeva per natura il suo bene, vuol saperlo e averlo anche con un atto proprio e individualistico. Quest’estensione della ragione, innalzantesi per proprio conto al di fuori dell’ordine naturale, è appunto il peccato: non dunque un oscuramento e un cedimento dello spirito, ma anzi un’illuminazione positiva di esso. Ma quel che più differenzia il sistema di Leopardi dal cristianesimo è che l’ordine primitivo si fonda per lui nell’illusione, laddove nel cristianesi6333

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Leopardi mo esso è un ordine reale che ha origine e culmina in un bene realissimo, e come è reale il bene così è reale anche la felicità, che si raggiunge nel bene metamondano e nella vita immortale. Ora, l’insufficienza del cristianesimo su questo punto, secondo Leopardi, si può ascrivere a due motivazioni fondamentali. Innanzitutto, la speranza dell’altra vita s’infrange contro la certa mortalità dell’anima, una delle verità ultime che gli uomini, per loro viltà, tendono a non credere mai completamente (ibi, nn. 602-606 e 4252-4253). In secondo luogo, secondo Leopardi, la traslazione del fine dell’uomo dall’esistenza terrena all’altra importa l’annichilazione dell’esistenza terrena e l’alienazione dell’uomo in un mondo eterogeneo, inintelligibile e inappetibile, in cui vivere sarebbe di fatto morire. La ragione ultima del pessimismo leopardiano perciò non deriva tanto dall’impossibilità di poter fruire, in un’altra vita, dell’essere totale e di un’esistenza piena e realizzata, quanto dall’impossibilità degli esseri finiti di poter godere dell’esistenza presente; essa deriva dunque non dall’impossibilità di trovar Dio nel mondo, bensì dall’impossibilità di realizzare nell’esperienza individuale una sintesi dei piaceri del mondo, di gustare il mondo come Dio, cioè come bene assoluto e attuale: la felicità che la vita può dare è sempre in fieri, sempre nel futuro e mai nel qui e ora del presente. Al di là del piacere e del dolore, il vacuum essenziale della vita emerge nel sentimento metafisico della noia, la quale è desiderio di felicità allo stato puro, cioè senza fatto che l’offende (dolore) e senza l’atto che lo delude (piacere); la noia è in certo modo il più sublime dei sentimenti umani. La noia non manifesta I’irraggiungibilità del bene, ma la stessa nullità intrinseca del bene e dell’esistenza fatta per quel bene stesso. Dalla proposizione: «la natura non avea fatto l’uomo infelice» (ibi., n. 2492), Leopardi perviene così all’affermazione antitetica: «la natura ci ha fatti infelici» (Plotino, in Operette morali, a cura di A. Donati, Bari 1928, p. 203). E la ragione di ciò è che la nostra esistenza è senza senso, essendo fondata su una realtà inespressiva e irrazionale, non essendo questa realtà il risultato e l’attuazione di un pensiero che le preesista; l’idea che ad essa si vorrebbe sottesa, ben diversamente, nasce ad un tempo col mondo stesso, sicché non c’è vero scarto, precedenza ontologica tra la ragione delle cose e le cose stesse, tra essenza e esistenza. Il mondo viene 6334

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da Leopardi concepito talvolta occamisticamente e cartesianamente come fattura della divina volontà (Zibaldone..., op. cit., n. 154); ma, più spesso, Leopardi non fa precedere al mondo né l’intelletto né l’arbitrio divino, negando ogni fondamento a priori della realtà e dell’intelligibilità: «le cose non sono quali sono, se non perché sono tali. Ragione preesistente o dell’esistenza o del suo modo, ragione anteriore e indipendente dall’essere e dal modo reale delle cose, questa ragione né v’è né si può immaginare» (ibi, n.1613). La negazione radicale nella realtà di un piano assiologico (l’idea) e del suo fondamento ontologico (Dio), costituisce così un elemento peculiare e costante della filosofia leopardiana. L’autore si rifiutò sempre di moderare o attenuare il carattere eversivo del proprio pensiero: «certo è che distrutte le forme platoniche preesistenti alle cose è distrutto Dio» (ibi, n.1342), sicché l’esistenza viene alla realtà dall’abisso di una cieca e inane onnipossibilità. Venuta meno la mediazione del logo tra il nulla e l’esistenza, questa si trasforma in un arcano sinistro, «un’irregolarità e una mostruosità» (ibi, n. 4171). E all’uomo, parte infinitesimale e souffrante di questo universo, non resta che «vivere eijkh/,' temere, au hasard, alla ventura» (ibi, n. 2524). Nello scambio epistolare con V. Gioberti emerge il dissidio tra i due autori proprio in relazione al tema del male, di una caduta originaria, e della speranza nella redenzione ultima. «La pittura così vera e così spaventevole della vanità e delle sciagure degli uomini» di Leopardi, scrive Gioberti, è tuttavia l’introduzione più eloquente allo studio del cristianesimo (V. Gioberti, Epistolario, a cura di G. Gentile - G. Balsamo-Crivelli, Firenze 1928, vol. II, p. 332). Basta dunque rigettare semplicemente le «conclusioni ultime» (ibi, vol. III, p. 144) della «sconsolata filosofia del Leopardi» (ibi, p. 103), dovute più all’indole dei suoi studi intorno al materialismo settecentesco che a profonda convinzione d’animo, per accedere alla speranza di una redenzione palingenesiaca. R. Amerio - G. Cuozzo BIBL.: P. GATTI, Esposizione del sistema filosofico di Giacomo Leopardi, Firenze 1906, 2 voll.; L. GLUSSO, Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Napoli 1932; L. GLUSSO, Leopardi e le sue ideologie, Firenze 1935; G. AMELOTTI, Filosofia di Leopardi, Genova 1937; G. GENTILE, Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi, Firenze 1939; G. CALÒ, Leopardi e l’educazione, in Dall’umanesimo alla scuola

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del lavoro, Firenze 1940; G. AMATO, Il pessimismo leopardiano, Palermo 1942; C. LUPORINI, Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947; C. NIFOSI, La filosofia di Giacomo Leopardi, Modica 1949; R. AMERIO, L’ultrafilosofia di Giacomo Leopardi, Torino 1953; G. GENTILE, Manzoni e Leopardi, Firenze 19602; AA.VV., Leopardi e il Settecento, «Atti del I Convegno internazionale di studi leopardiani, Recanati, settembre 1962», Firenze 1964; G. CALÓ, La pedagogia del Risorgimento, Firenze 1965; M.A. RIGONI, Saggi sul pensiero leopardiano, Napoli 19852; A. TILGHER, La filosofia di Leopardi e gli studi leopardiani, Bologna 19852; G. RENSI, Lo scetticismo estetico del Leopardi, Ferrara 1990; E. SEVERINO, Il Nulla e la poesia: alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano 1990; G. FICARA, Il punto di vista della natura: saggio su Leopardi, Genova 1996; C. GALIMBERTI, Leopardi: meditazione e canto, Milano 1997; A. NEGRI, Leopardi: un’esperienza cristiana, Padova 1997; E. SEVERINO, Cosa arcana e stupenda: l’Occidente e Leopardi, Milano 1998; S. NATOLI, Dialogo su Leopardi: natura, poesia, filosofia, Milano 1998; A. NEGRI, Leopardi e la scienza moderna: sott’altra luce che l’usata errando, Milano 1998.

LEOPOLD, CARL GUSTAF. – Poeta, critico e fiLeopold losofo svedese, n. a Linköping (Stoccolma) il 26 mar. 1756, m. a Stoccolma nel 1829. Legato alla persona e alla corte del re Gustavo III, di cui fu segretario di stato, durante gli studi a Upsala, attraverso D. Boëthius e F. Neikter, subì l’influsso della filosofia inglese del senso morale, che proprio allora aveva sostituito il wolffismo in quell’università, per essere a sua volta soppiantata più avanti dal kantismo. Ciononostante Leopold mantenne sempre una posizione critica nei confronti della filosofia del moral sense, in quanto era avverso a tutte le astrazioni e gli sembrava impossibile elevare l’intelletto a legislatore della natura. Seguendo Hume, egli assunse una posizione sempre più scettica, anche rispetto al suo maestro Boëthius, e divenne convinto della «completa insufficienza di ogni metafisica». Riguardo alla questione idealismo-realismo, Leopold è da considerare essenzialmente come un realista critico con tratti scettici, specialmente nello scritto postumo Stycken ur Doctor Godmans portfölj (Taccuino del dottor Godmans), dove vengono in primo piano le obiezioni scettiche e si sostiene che l’esistenza del mondo esterno non può essere dimostrata. In morale gli pare insoddisfacente un principio puramente formale: il comando del dovere deve tener conto anche del nostro bisogno di felicità, poiché tale bisogno è anzitutto il mo-

Leopold vente soggettivo materiale e profondo della nostra condotta morale; ma quel che regola le nostre azioni è in fondo il sentimento morale, che è comune a tutti gli uomini. A. Nyman BIBL.: Samlade Skrifter, Stockholm 1800-33, 6 voll.; Stockholm 1814-16, 3 voll.; edizione a cura di K. Fredlund, Stockholm 1911 ss. Su Leopold: J.T. SEGERSTEDT, Moral sense-skolan och dess inflytande på svensk filosofi (La scuola del senso morale e il suo influsso sulla filosofia svedese), Stockholm 1937.

LEOPOLD, RAND ALDO. – Il nome e la figura Leopold di Leopold sono legati alle origini della filosofia dell’ambiente contemporanea. Nato nel 1887 a Burlington, nell’Iowa, Leopold, dopo aver ottenuto un master in scienze forestali presso la Yale University nel 1909, lavorò per circa venti anni nel servizio forestale degli Stati Uniti. Nel 1933 divenne professore all’università del Wisconsin, dirigendo il Department of wildlife management fino al 1948, quando morì prendendo parte allo spegnimento di un incendio. Naturalista internazionalmente conosciuto e apprezzato, Leopold fu anche coinvolto direttamente nella formulazione di linee politiche per la preservazione di flora e fauna selvatiche. In molti scritti non tecnici, e in particolare nella sua opera più celebrata, A Sand County Almanac and Sketches Here and There (New York 1949, pubblicata postuma), Leopold ha proposto un mutamento radicale dell’etica in senso ecologico, una prospettiva da lui definita land ethic, etica della terra, la cui massima morale è così espressa: «Una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica; è ingiusta quando tende altrimenti». L’«etica della terra» consiste nell’acquisire consapevolezza del profondo rapporto che lega la specie umana alla natura: gli esseri umani sono parte della comunità biotica e, in virtù di ciò, devono rispetto ai singoli membri e alla comunità come tale. Il progresso morale umano, afferma Leopold, è andato e va in direzione di un ampliamento della sfera di rilevanza etica. La consapevolezza morale, che ha basi biologiche legate alla necessità di sopravvivenza, deve estendersi dagli esseri umani verso le altre specie e gli ecosistemi, attraverso l’esperimento mentale che Leopold chiama «thinking like a mountain» (pensare come una montagna). 6335

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Leopoli-Varsavia

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L’esaltazione della natura selvaggia e il mito di un ritorno a un rapporto con la natura primitivo e non contaminato dalla cultura erano stati temi già cari agli scrittori del trascendentalismo (David Henry Thoreau, Walt Whitman). Ma Leopold ha connotato in forma inedita l’amore per la natura: nel suo pensiero si trovano riuniti un approccio scientifico alla natura, un alto livello di sofisticazione ecologica e un’etica biocentrica e comunitaria che sfidavano l’atteggiamento dominante di uso economico della terra. M.C. Tallacchini BIBL.: D. WORSTER, Nature's Economy. A History of Ecological Ideas, San Francisco 1977; J. BAIRD CALLICOT (a cura di), Companion to A Sand County Almanac, Madison 1987; R.F. NASH, The Rights of Nature, Madison 1989.

LEOPOLI-VARSAVIA, Leopoli-Varsavia

SCUOLA DI: V. SCUOLA

DI LEOPOLI-VARSAVIA.

LEPIDI, ALBERTO. – Filosofo e teologo, doLepidi menicano, n. a Popoli (Abruzzo) nel 1838, m. a Roma nel 1922. Dopo aver studiato a Roma e a Viterbo, viene incaricato di riorganizzare gli studi teologici nella provincia francese. Da lì passa a Lovanio nel 1874 e nel 1885 viene richiamato a Roma a reggere il Collegio di San Tommaso. Occupa la cattedra di teologia esercitando una vasta influenza. Nel 1897 lascia l’insegnamento perché nominato maestro del Sacro Palazzo apostolico. Red. BIBL.: Examen philosophico-theologicum de ontologismo, Louvain 1874; Elementa philosophiae christianae, Paris-Louvain 1875-79, 3 voll.; La critica della ragion pura secondo Kant e la vera filosofia, Roma 1894. Su Lepidi: G. SESTILI, Il padre Alberto Lepidi e la sua filosofia, Torino-Roma 1930.

LE PLAY, PIERRE-GUILLAUME-FRÉDÉRIC. – SoLe Play ciologo e riformatore sociale francese, n. a La Rivière-St-Sauveur (Normandia) l’11 apr. 1806, m. a Parigi il 5 apr. 1882. La sua opera principale è Les ouvriers européens (1855). Nel 1856 fondò la Societé d’économie et de sciences sociales; a lui si ispirò l’Ecole de la paix sociale, fondata nel 1885. La visione sociale di Le Play è animata da un ideale di vita patriarcale, simile a quello da lui osservato nelle famiglie primitive in alcune parti dell’impero ottomano e della Russia: poiché è venuta meno l’autorità 6336

dei nobili, questa può essere sostituita dall’autorità dei padroni e dei proprietari, che redimono la tendenza al male insita nella natura umana. Il principio d’autorità si manifesta in «quatre éléments moraux» dell’edificio sociale: la famille con a capo il padre; l’atelier con a capo il padrone; le voisinage guidato dall’autorità del saggio; la souveraineté che con la forza accompagna e completa le autorità precedenti. Queste manifestazioni dell’autorità sono state, secondo Le Play, rappresentate nel decalogo ebraico, ma anche impresse in modo naturale in ogni coscienza. Dal punto di vista legale, Le Play è favorevole all’assoluta libertà testamentaria, che consentirebbe di formare e mantenere i grandi patrimoni in cui si attuerebbe l’autorità sociale auspicata. G. Quadri BIBL.: P. RONFANI, Alle origini della scienza sociale. Frédéric Le Play e la sua opera, Milano 1986; F. ARNAULT, Frédéric Le Play: de la métallurgie à la science sociale, Nancy 1993.

LEQUIER (L ÉQUYER e LECUYER ) , J OSEPH Lequier LOUIS-JULES. – N. a Quintin (Saint-Brieuc) nel 1814, m. nella baia di Rosaire, fra Plérin e Pordic (Saint-Brieuc), nel 1862. Studente del politecnico, subì una crisi per il contrasto che credette di vedere tra la scienza, che si pronunciava per il determinismo, e la fede che postula la libertà. Altra grave crisi religiosa ebbe nel 1846, quando era insegnante (dal 1843) all’Ecole Egyptienne; a questo tempo risale il suo incontro con C. Renouvier. Internato nel 1851, poté tornare a una cattedra di provincia (1853-55). Lequier visse in disperata, aspra solitudine, lontano da ogni pratico successo, per lo più ignorato dai suoi contemporanei. Nulla di suo venne pubblicato finché visse: fu Renouvier, il quale gli fu amico, a raccogliere una scelta dei suoi scritti e a darla alla luce (La recherche d’une première vérité, Paris 1865; rist. ivi 1985, 19932). Ma l’intervento di Renouvier, il quale ha interpretato Lequier alla luce del suo pensiero, ha proiettato qualche ombra sulla genuina fisionomia del filosofo bretone. Renouvier, che aveva curata un’edizione fuori commercio, inserì poi vari frammenti nella seconda edizione del Traité de psychologie rationelle (1875) e nei primi due volumi della «Critique philosophique». L’introduzione alla Recherche: La feuille de charmille fu pubblicata nella «Revue de Métaphysique et de Morale», 22 (1914), pp.

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153-173; altri inediti, col titolo La liberté, da J. Grenier (Paris 1936), che ha curato anche le Oeuvres complètes, Neuchâtel 1952 (con l’aggiunta cioè di Réflexions et pensées diverses ed epistolario). Antologia, a cura di J. Wahl, Paris 1948. In italiano: Opere, a cura di A. Del Noce, Bologna 1968. Il significato più importante della dottrina di Lequier è nella sua affermazione della libertà, in un momento in cui il determinismo conquistava gli spiriti e si diffondeva vittoriosamente ovunque. Questa veemente, appassionata affermazione di libertà si basa su di una concezione che nella storia del pensiero francese moderno è apparsa originale e nuova: Lequier introduce infatti la libertà come indispensabile condizione per la ricerca della verità. La dottrina di Lequier non si presenta conclusa e sistematica. Resta insoluto e perennemente drammatico il dialogo fra il Lequier che intende la coscienza come libero atto creatore dell’uomo e il Lequier fervente cristiano, lettore assiduo della Bibbia, fortemente impressionato dalla predestinazione e tutto impregnato di religiosità e di misticismo. Nella vita e nell’opera di Lequier, scomparso in circostanze misteriose al largo della costa bretone, forse suicida in seguito a una delusione sentimentale, si sono visti alcuni caratteri tipici della spiritualità celtica, ondeggiante fra un cupo misticismo e un’anarchia infinita. C. Rosso BIBL.: G. SÉAILLES, Un philosophe inconnu, Jules Lequier, in «Revue Philosophique», 1 (1898), pp. 120150; J. GRENIER, La philosophie de Jules Lequier, Paris 1936, rist. Paris 1983; X. TILLIETTE, Prédestination et liberté chez Jules Lequier, in «Recherche de Science religieuse», 49 (1961), pp. 5-36; E. CALLOT, Propos sur Jules Lequier, philosophe de la liberté, Paris 1962; J. GRENIER, Le centenaire de la mort de Jules Lequier, in «Revue Philosophique de la France et de l’Etranger», 88 (1963), pp. 269-292; D. LÉQUIER, Jules Lequier, Paris 1963; A. PASQUALI, Fundamentos gnoseológicos para una ciencia de la moral. Ensayo sobre la formación de una teoria especial del conocimiento moral en las filosofías de Kant, Lequier, Renouvier y Bergson, Caracas 1963; X. TILLIETTE, Jules Lequier ou le tourment de la liberté, Paris-Bruges 1964; G.A. ROGGERONE, La via nuova di Lequier, Milano 1968; A. PETTERLINI, Jules Lequier e il problema della libertà, Milano 1969. Cfr. la bibliografia nella cit. ed. delle Oeuvres, e in Opere, Bologna 1968. Ancora: G. PYGUILLEM, Renouvier et sa publication des fragments posthumes de Jules Lequier, in «Archives de Philosophie», 48 (1985), pp. 653-668; X. TILLIETTE, Jules Lequier: Il Cri-

Leroi-Gourhan sto fratello degli uomini, in Filosofi davanti a Cristo, Brescia 1989, pp. 371-378; V. PATERNOSTRO, Libertà e verità nella filosofia di Jules Lequier, in «Annali del Dipartimento di Filosofia», 6 (1990), pp. 111-138; A. VINSON, L’idée d’éternité chez Jules Lequier, in «Les Etudes Philosophiques», 47 (1992), 2, pp. 179-193; A. CLAIR, Lequier et les documents de la bibliothèque de Renouvier, in «Archives de Philosophie», 60 (1997), 1, pp. 123-128; D.W. VINEY, Jules Lequier and the Openness of God, in «Faith and Philosophy», 14 (1997), 2, pp. 212-235; P. ARMELLINI, Lequier. La solitudine di Dio (con scelta di testi), Roma 1998; P. PAGANI, Libertà e non-contraddizione in Jules Lequier, Milano 2000 (bibliografia pp. 350-357).

LEROI-GOURHAN, ANDRÉ GEORGES. – ArLeroi-Gourhan cheologo, etnologo e paleontologo francese, n. a Parigi il 25 agosto 1911, m. a Parigi l’1 febbraio 1986. Dottore in Lettere e in Scienze, fin da giovane fu appassionato di storia naturale. Diplomato in russo nel 1931 e in cinese nel 1933 all’Ecole nationale des Langues orientales vivantes, nel 1936 prese parte a una missione archeologica e etnologica in Estremo Oriente (Giappone e Pacifico del nord). Tornato in Francia allo scoppio della guerra, dal 1940 al 1945 lavorò come incaricato e poi «maître de recherche» al CNRS. Fu professore di etnologia e preistoria a Lione dal 1945 al 1955 e alla facoltà di Lettere e Scienze Umane di Parigi dal 1956 al 1968. Nell’anno successivo fu chiamato al Collège de France, dove rimase sino al 1982, per tenere la cattedra di preistoria che era stata occupata dall’abbé Breuil. Autore di un’opera immensa, ispirata alla ricerca di una visione dell’uomo nella sua totalità, Leroi-Gourhan ha rinnovato profondamente le prospettive e i metodi delle scienze preistoriche esplorando a tutto campo i problemi posti dallo studio del processo di ominazione in rapporto alle trasformazioni ambientali, all’invenzione e all’innovazione della tecnica, alla formazione del linguaggio e dei sistemi di comunicazione espressiva ed artistica. Dai tre anni trascorsi in Oriente – la «sua scappata filosofica» come ebbe a definirli – Leroi-Gourhan trasse, tra l’altro, materia per la sua tesi di dottorato, da cui presero forma i volumi dedicati a Documents pour l’art comparé d’Eurasie septentrionale (Paris 1943) e ad Archéologie du Pacifique Nord (Paris 1946). Al periodo trascorso tra il CNRS, Lione e i primi anni dell’insegnamento parigino appartengono le sue opere teoriche più celebri: Evolution et tech6337

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Leroux niques. L'homme et la matière (Paris 1943, tr. it. di R.E. Lenneberg Picotti, L'uomo e la materia, Milano 1993), Evolution et techniques. Milieu et techniques, (Paris 1945, tr. it. a cura di M. Fiorini, Ambiente e tecniche, Milano 1994), Le Geste et la Parole. I Technique et Langage, II. La Mémoire et les Rythmes (Paris 1964-65, tr. it. di F. Zannino, Il gesto e la parola. I. Tecnica e linguaggio, II. La memoria e i ritmi, Torino 1977). In esse Leroi-Gourhan intese ricomporre il quadro di una ontologia archetipica, come può essere quella che prende forma dall’architettura del corpo dei «Neantropi», centro di irradiazione di attività creatrici di socialità, di sistemi simbolici, di memoria e di immaginazione. Sviluppando in modo originale il circuito virtuoso di evoluzione cerebrale e liberazione della mano Leroi-Gourhan si trovò ad anticipare parti di quella visione nuova dell’umanità cui hanno concorso negli ultimi decenni le neuroscienze e che già da tempo avevano presagito diversamente pensatori come Hegel, Marx e Lévy-Strauss. Grande fu il suo impegno nella ricerca sul campo: diresse scavi in siti divenuti famosi per la ricostruzione della preistoria europea dal paleolitico sino all’età del bronzo, come ad es. i siti di Furtins, Arcy-sur-Cure e di Pincevent. Elaborò in quest’ambito un metodo d’indagine alternativo a quello stratigrafico improntato al principio di un’interpretazione «topografica» dei reperti finalizzata a definire il loro significato in rapporto al sistema di connessioni intercorrenti tra di essi e gli elementi di contesto, risultatagli particolarmente feconda per l’analisi strutturale della semantica insita nelle produzioni dell’arte rupestre. Benché la cronologia e le seriazioni stilistiche proposte da LeroiGourhan siano state ridiscusse dall’avanzamento delle ricerche, rimane fondamentale il lavoro che gli ha permesso di stabilire la presenza di una logica sottesa alle istoriazioni in caverna, che ne regola le composizioni, dense di dramma e di aura misterica, a partire da un dualismo fondamentale, riconducibile alle componenti maschili e femminili della società, opposte ma complementari, identificabili nel binomio bovide-cavallo e in tutta la serie delle rappresentazioni simboliche (segni vulvari e fallici, linee e frecce, tettiforme) e zoomorfe (mammut, cervidi, felidi, caprini) ad esse connesse. La ricchezza di informazioni e la costante preoccupazione interdisciplinare, atta a piegare l’archeologia, l’etnologia, la lin6338

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guistica e le scienze naturali ad un unico scopo, furono sempre vissute da Leroi-Gourhan come indispensabili strumenti per far rivivere entro i confini certi dello spazio e del tempo anch’essi da riscoprire le tracce iniziali dell’operare umano, l’economia di sopravvivenza, l’organizzazione sociale, le pratiche magico-religiose, la componente estetica delle religioni preistoriche (Les religions de la Préhistoire. Paléolitique 1964, tr. it. di E.K. Imberciadori, Le religioni della preistoria, Milano 1993). Curò l’edizione di grandi opere tra cui ultimo il Dictionnaire de la Préhistoire, (Paris 1988, ed. it. a cura di M. Piperno, Dizionario di Preistoria, Torino 1991-92). G. Camuri BIBL.: Bestiaire du Bronze chinois, Paris 1936; Les hommes de la Préhistoire: les chasseurs, Paris 1955, tr. it. di E. Spagnol Vaccari, Gli uomini della preistoria: l’arte, la tecnica, le cacce, la vita quotidiana nell’età della renna , Milano 19762; Préhistoire de l'Art occidental, Paris 1965; Fouilles de Pincevent: essai d’analyse ethnographique d’un habitat magdalénien, Paris 1972; I più antichi artisti d’Europa. Introduzione all’arte parietale paleolitica, Milano 1981; Les racines du monde, Paris 1982, tr. it. di C. Mattioli, Le radici del mondo: dalla ricerca preistorica uno sguardo alla totalità dell’uomo, Milano 1986; Mécanique vivante, Paris 1983, tr. it. di R.E. Lenneberg-Picotti, Meccanica vivente, Milano 1986; Le Fil du temps. Ethnologie et préhistoire, Paris 1983, ed. it. a cura di M. Piperno, Il filo del tempo. Etnologia e preistoria, Firenze 1983; L'art pariétal. Langage de la préhistoire, Grenoble 1992.

LEROUX, PIERRE. – Scrittore e uomo politiLeroux co, n. a Parigi il 17 apr. 1797, m. ivi l’11 apr. 1871. Dopo un’iniziale adesione al sansimonismo, nel 1831 uscì dal movimento, schierandosi contro il caposcuola B.-P. Enfantin e facendosi propugnatore di una «religione dell’umanità». Fra i suoi scritti ricordiamo: Réfutation de l’éclectisme, Paris 1839 (18412, ristampa ParisGenève 1979), contro V. Cousin; De l’humanité, de son principe et de son avenir, ivi 1840, 2 voll. (18452, tr. it. a cura di F. Fiorentino, Il filosofo e l’Umanità, Lecce 1990); Sept discours sur la situation actuelle de la société et de l’esprit humain, ivi 1840, 2 voll. (18472); Du christianisme et de ses origines, ivi 1848 (ristampa ivi 1982). Cfr. anche Aux philosophes, aux artistes, aux politiques. Trois discours et autres textes, a cura di P. Lacassagne, Paris 1994. Il pensiero di Leroux è un amalgama di motivi ereditati dalla filosofia illuministica e di nuovi temi che anticipano la

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posizione di Comte. Vi predomina l’idea di un continuo progresso dell’umanità verso un destino sociale, morale e religioso sempre più alto, nel quale è prospettata, tra l’altro, l’abolizione della proprietà, dell’eredità dei beni, del rapporto di sudditanza. Si tratta di una forma di socialismo mistico, che si atteggia a cristianesimo rinnovato e dal quale non sono estranee influenze pitagoriche e buddiste. B. Barillari - F. D’Alberto BIBL.: J.-J. GOBLOT, Aux origines du socialisme français: Pierre Leroux, Lyon 1977; J. VIARD, Pierre Leroux critique de Fourier et de Platon, in «Quaderno filosofico», 6 (1981), pp. 47-75; A.M. LATON, Leroux et l’illuminisme, in «Quaderno filosofico», 11 (1986), pp. 126144; F. FIORENTINO, Filosofia religiosa di Leroux ed eclettismo di Cousin, Lecce 1992; G. PIAIA, in G. PIAIA - G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. IV/2: L'età hegeliana. La storiografia filosofica nell'area neolatina, danubiana e russa, Padova 2004, pp. 105-106 e passim.

LEROY (LE ROY), CHARLES-GEORGES. – PenLeroy satore francese, n. a Parigi nel 1723, m. ivi nel 1789. Fu lieutenant des chasses di Luigi XV per i parchi di Versailles e di Marly, e amico degli enciclopedisti, specialmente di Diderot e d’Holbach. Egli stesso collaborò all’Encyclopédie con articoli concernenti la caccia, le scienze naturali, la psicologia (Instinct), l’economia rustica. Discepolo di Fr. Quesnay, ne condivise le idee fisiocratiche in economia. Amico di Helvétius, pubblicò a sua difesa un Examen des critiques du livre intitulé «De l’esprit» (Londres [Paris] 1760), eccellente sintesi dell’opera di Helvétius e fine apologia del suo pensiero. Nell’«Avertissement» Leroy protesta contro il discredito che si getta sulla filosofia e sui filosofi, rifiuta il principio di autorità nell’ordine naturale, rivendicando quello dell’evidenza razionale, e ritiene che «spetta ai filosofi condurci ai piedi degli altari, provarci con evidenza la necessità e la certezza della rivelazione, disporre con la ragione tutti gli uomini ragionevoli a sottomettersi ai dogmi della fede». Del libro di Helvétius dichiara che «non insegna il materialismo o il disprezzo della santa religione», ma aggiunge: «sono ben lontano dall’essere sempre d’accordo con l’autore. Forse un giorno entrerò in lizza con lui su parecchi punti trattati nella sua opera». Invece, con lo scritto Réflexions sur la jalousie (Amsterdam 1772), «entrò in lizza» per difenderlo ancora una vol-

Le Roy ta, e insieme con lui Montesquieu e Buffon, contro le critiche di Voltaire (cfr. la risposta di quest’ultimo intitolata Sur un écrit anonyme, datata 20 aprile 1772, fra i suoi Mélanges littéraires). Interessante per il tempo e originale è il pensiero di Leroy nel campo della psicologia comparata. Notevole il suo scritto Lettres sur les animaux (Nuremberg [Paris] 1768; 17813; edizione a cura di Roux-Fazillac, col titolo Lettres philosophiques sur l’intelligence et la perfectibilité des animaux e l’aggiunta di Lettres posthumes sur l’homme, Paris 18023; ristampa a cura di Robinet, 1862). F. Weber BIBL.: M. MARX, Charles Georges Leroy und seine «Lettres philosophiques», Strassburg 1898; A. KEIM, Helvétius, sa vie et son oeuvre, Paris 1907, pp. 419-421; J. PROUST, Diderot et l’Encyclopédie, Paris 1962, passim; M.T. MARCIALIS, Filosofia e psicologia animale da Rorario a Leroy, Cagliari 1982.

LE ROY, EDOUARD. – Filosofo e matematico, Le Roy n. a Parigi il 18 giu. 1870, m. ivi l’1 nov. 1954. Compiuti nel 1892 gli studi secondari, frequentò l’École normale supérieure di Parigi; qui, dopo l’insegnamento nei licei (1914-1920), diventò assistente di Bergson al Collège de France, succedendogli nella cattedra di filosofia moderna (1921-1941). Membro fin dal 1919 dell’Académie des Sciences Morales et Politiques, nel 1945 entrò a far parte dell’Académie Française, succedendo a Bergson, dell’opera del quale è stato il più fedele prosecutore. Di formazione scientifica, guarda con particolare interesse al rapporto tra scienza e fede, interpretato nel senso appreso dalla filosofia bergsoniana, sfociando nel modernismo per tentare, successivamente, di accordare il suo pensiero con le esigenze del dogma cattolico. Tra gli scritti principali: Dogme et critique, Paris 1906; La science positive et les philosophie de la liberté, in Actes du Congrès international de Philosophie, vol. I, A. Colin, ivi 1900, pp. 313-341; De la valeur objective des lois physiques, ivi 1901; Qu’est-ce qu’un dogme?, in «La Quinzaine», avril 1905; Fonction et nature de la science, ivi 1909; Une philosophie nouvelle: Henri Bergson, ivi 1912; L’exigence idéaliste et le fait de l’évolution, ivi 1927; Les origines humaines et l’évolution de l’intelligence, ivi 1928; Le problème de Dieu, ivi 1929; La pensée intuitive, 2 voll., ivi 1929-30; Introduction à l’étude du problème religieux, ivi 1944. 6339

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Lesage La filosofia di Le Roy condivide la concezione bergsoniana della realtà, intesa come slancio vitale ed evoluzione creatrice. Quest’ultima, in quanto movimento incessante, continuo e progressivo, si dispiega riducendo tutta la realtà a pensiero, poiché solo il pensiero è un divenire senza supporto. Il pensiero è l’essere stesso, il principio di ogni posizione. Nulla, perciò, può essergli presupposto: esso è «perenne creazione» ed «esigenza di slancio infinito al di là di ogni necessità fatta» che solo l’intuizione vitale ci fa conoscere. La scienza, al contrario, si limita a rispondere a un bisogno pratico, essendo un sistema di finzioni, di convenzioni arbitrarie, di schemi fissi che non riesce, però, a raggiungere il fondo delle cose. Oltre alla scienza, Le Roy critica anche la pretesa del pensiero speculativo di comprendere Dio. La religione è, al contrario, partecipazione vissuta a realtà spiritualizzanti e la questione di dio è implicita nel dinamismo morale e spirituale che spinge l’uomo verso la trascendenza. La critica al carattere speculativo della religione coinvolge anche i dogmi, che devono essere intesi non nel loro significato intellettuale, che anzi ne costituisce l’elemento antiquato e in contrasto con la coscienza moderna, ma nel loro valore di precetto pratico, di regola per la condotta del credente. C. Canullo BIBL.: L. DE GRANDMAISON, Le dogme chrétien, Paris 1928, pp. 275-329; F. OLGIATI, E. Le Roy e il problema di Dio, Milano 1929; CH. DE MOR - PONTGIBAUD, Une histoire de la pensée à travers les récents ouvrages de M.E. Le Roy, in «Recherches de Sciences religieuses», 1934, pp. 257-301; J. MARÉCHAL, Le problème de Dieu d’après M.E. Le Roy, in «Mélanges J. Maréchal», vol. I, Bruxelles 1950, pp. 207-259; P. DE LOCHT, Maurice Blondel et sa controverse au sujet du miracle, in «Ephemerides theologische Lovanienses», 1954, pp. 344-390 (pp. 359-368: M.E. Le Roy, e pp. 374-383: Explications ultérieures): J. LACROIX, E. Le Roy, philisophe de l’invention, in «Les études philosophiques», 29 (1955), pp. 189-205; H. DANIEL ROPS, E. Le Roy et son fauteuil, Paris 1956; M. TAVARES DE MIRANDA, Théorie de la vérité chez E. Le Roy, Paris 1957; F. POLATO, Il pragmatismo epistemologico e religioso di E. Le Roy, Padova 1959; G. BACHELARD, Notice sur la vie et les travaux de E. Le Roy, Padova 1960; E.P. LAMANNA, La filosofia del Novecento, I, Firenze 1963, pp. 143-153.

LESAGE, Lesage GEORGES-LOUIS. – Fisico e medico svizzero, n. il 13 giu. 1724 a Ginevra, m. il 9 nov. 1803 ivi. Insegnò matematica a Ginevra e fu 6340

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membro corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Parigi e socio della Royal Society di Londra. Solo poche delle sue numerosissime memorie di chimica e di fisica vennero da lui pubblicate. P. Prévost, in Notice sur la vie et les écrits de Georges-Louis Lesage de Genève (Genève 1805, pp. 1-184), ricorda manoscritti di fisica (egli pubblicò inoltre nel 1818, basandosi sulle note di Lesage, un Traité de physique mécanique, Genève 1818), di logica, di morale, di teleologia. In appendice alla Notice è inoltre pubblicato un opuscolo di Lesage, Sur les causes finales. Gli studi teleologici di Lesage, che tentò anche una «spiegazione» della gravitazione universale, sono un esempio tipico della tendenza, viva anche nel periodo illuministico, alla fondazione di una «teleologia fisica», mirante non solo alla prova dell’esistenza di cause finali, ma anche alla metodologia della loro ricerca. I manoscritti di Lesage sono conservati nella biblioteca di Ginevra. F. Barone BIBL.: J.B. GOUGH, Georges-Louis Lesage, in Dictionary of Scientific Biography, vol. VIII, New York 1973, pp. 259-260.

LE SENNE, RENÉ. – Filosofo e psicologo, n. Le Senne a Elbeuf-sur-Seine (Seine Inférieure) l’8 lug. 1882, m. a Parigi l’1 ott. 1954. Professore alla Sorbonne dal 1942 al 1952, in collaborazione con L. Lavelle fondò, nel 1934, la collana Philosophie de l’Esprit, pubblicata presso le edizioni Aubier-Montaigne. Dottore honoris causa dell’università di Louvain (1947), è stato membro di varie accademie straniere nonché presidente dell’Institut International de Philosophie (1952-53) e vicepresidente della Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie (1953). Tra le sue opere principali: Introduction à la philosophie, Paris 19584 (1925); Le Devoir (thèse principale di dottorato), ivi 1930; Le Mensonge et le Caractère (thèse complementare), ivi 1930; Obstacle et Valeur, Paris 19462 (1934, tr. it. di A. Guzzo - C. Guzzo, Ostacolo e valore: descrizione della coscienza, Brescia 1951); Sujet et personne, in «Annali della Scuola Normale di Pisa», 1936, pp. 85-95; Traité de morale générale, ivi 1942 (tr. it. di G. Morra, Trattato di morale generale, Milano 1969); Traité de caractérologie, ivi 198911 (1946, tr. it. di L. Rocco, Trattato di caratteriologia, Torino 1960); De la «philosophie de l’esprit», in M. Farber (a cura di), L’activité philosophique en France et aux EtatsUnis, ivi 1950, pp. 113-131. Opere pubblicate

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postume: La destinée personnelle, ivi 1957; La découverte de Dieu, ivi 1955. Allievo di F. Rauh e O. Hamelin, da quest’ultimo Le Senne riprende innanzitutto l’ambizione di costruire un’ampia sintesi nella quale le categorie del pensiero si intreccino mutuamente nella feconda reciprocità dei contrari. Di qui il suo interesse per l’idea di relazione: «unità di una coppia di contrari», essa è intesa da Hamelin come «relazione-norma», mentre è formulata da Le Senne nei termini di «relazione-anima», ossia come complessità vivente da lui nominata «esperienza» e intesa come «universalità astratta e concreta». Per la filosofia, ciò implica innanzitutto che non sia possibile un metodo che conosca a prescindere dall’oggetto, ma ogni conoscenza si nutre dell’esperienza (épreuve) che, in ogni istante, facciamo dell’oggetto stesso. Per ciò l’esperienza è unità ideo-esistenziale, ossia unità di «pensiero» ed «esistenza» che si articola, appunto, come relazione. Il nome di tale unità ideo-esistenziale è je (io), il quale è relazione in movimento, dinamicità vivente che connota innanzitutto la vita dello spirito. Fatto determinante in tale vita sono la contraddizione e l’ostacolo, ossia due determinazioni negative che arrestano il flusso dell’esperienza rendendolo alla sua concretezza. La frattura (fêlure) generata dall’ostacolo, frattura che è nel cuore stesso dell’esperienza come un «rosso segnale d’allarme che emerge tra le nebbie», non blocca, però, le energie e le iniziative umane condannandole al pessimismo; essa si limita a distruggere il mito di un idealismo costruttivo di cui l’uomo sarebbe l’unico protagonista, fissando i limiti umani e rendendoli, al contempo, limiti nei quali si affaccia quella presenza trascendente che non è altro dall’assoluto che anima l’esperienza stessa. Di qui l’asse portante dell’assiologia lesenniana, ossia la tesi che «l’assoluto è, nel suo fondo, valore infinito». L’assoluto sta al di là di ogni determinazione, ma, attraverso i valori determinati, la sua pienezza diventa un immanente patrimonio degli spiriti finiti. L’io fa esperienza, nel valore, di una singolare tensione. Da un lato, infatti, egli trova nel suo vivere «prove di valore» che gli testimoniano il valore del mondo, dall’altro lato, però, nessuna di queste prove genera in lui quel pieno soddisfacimento che lo dispensi dal cercare più avanti e più in alto. Ogni valore è, sì, determinato (il «particolare» è essenziale alla realtà dei valori, poiché senza di esso non

Le Senne si darebbe la sua costitutiva relazione con l’assoluto), ma tale «determinazione» è sui generis: il valore è «atmosferico», cioè non è composto di parti, non si racchiude entro contorni determinati, ma «impregna e si diffonde». E proprio perché la sorgente del valore è la relazione tra l’assoluto e l’uomo nella cui esperienza esso si incarna, questa assiologia è definita da Le Senne, psico-metafisica. Oltre al versante assiologico, l’interesse di Le Senne si è rivolto al «carattere», inteso come l’insieme delle disposizioni congenite da cui è costituito lo scheletro mentale di un uomo. Il carattere è il punto focale nel quale convergono, nell’uomo, l’organico e lo spirito, poiché esso sta all’intersezione tra la sfera «intima e mentale dell’uomo» e la sfera «dell’uomo manifesto»; perciò, e proprio in forza del suo «essere tra» le due sfere, il carattere fa conoscere l’unità permanente dell’io intimo, unità che, a sua volta, è la struttura che costituisce l’armatura dell’io manifesto. Esso gioca un ruolo decisivo nella «psicodialettica» dell’io, ossia nel cammino dell’io verso il farsi, da soggetto (sub-jectum), persona. Tale «psicodialettica» è una lettura dell’io alla luce della tensione posta in atto dal carattere e dalla libertà. Se, infatti, il carattere, da un lato, influenza le scelte della persona secondo un preciso orientamento, dall’altro lato, la libertà guida l’io verso il valore, facendolo diventare, da soggetto, persona. Le Senne contrappone i due termini, intendendo con il primo l’interruzione del movimento vitale della relazione ideo-esistenziale (ossia del je), interruzione che si fissa nell’ostacolo arrestandosi al suo livello negativo più basso, mentre il secondo termine, ossia la persona, sta a indicare lo spirito in quanto si riconosce come sorgente della determinazione e la comprende. Ora, l’io finito (moi) è il luogo nel quale tale «psicodialettica» accade grazie a un cammino tracciato dalla convergenza di carattere e libertà, i quali, insieme, scrivono la storia di un uomo. Da dove viene, tuttavia, all’uomo, la sua libertà? Chiedendosi, sulla scia di Descartes e Maine de Biran «qu’est-ce qu’un homme?», Le Senne risponde che l’uomo è un moi (io finito) nel quale convergono più determinazioni. L’io, innanzitutto, nasce dall’Io (je) come surgescenza (surgescence). In forza di tale distacco si produce la distinzione tra io e non-io, dove il secondo si distingue tra ciò che è effettivamente estrinseco all’io (ossia la realtà esterna tout 6341

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Lesevic court intesa) e ciò che, invece, contiene quei dati con i quali l’io stesso si confonde, ossia il nucleo della soggettività; specificando il significato di tali dati, Le Senne precisa, poi, che questi rappresentano «il mio», inseparabile da me stesso, senza il quale l’io (moi) non esisterebbe. A questo secondo nucleo di dati appartiene, oltre al carattere, il corpo, il quale non è semplicemente «l’ostacolo» che si contrappone all’esprit perché l’io (moi) senza il corpo non sorgerebbe. Ciò non accadrebbe perché l’io finito, distinto dal je, nasce in quanto determinazione dotata di corpo e carattere. Alla domanda: «Qu’est-ce qu’un homme?», Le Senne risponde, dunque, che l’uomo è corpo e carattere, io (moi) ancorato al mondo dalla permanenza originaria del corpo, ma al contempo aperto all’assoluto dalla libertà. Quest’ultima viene all’io dal rapporto che esso intrattiene con il je. La libertà è il punto focale, è centro di sintesi del corpo e del carattere; l’io, oltre ad essere incarnato, è centro attivo e libero, concreto, teso tra immanenza (mondo cui è ancorato dal corpo) e trascendenza (je assoluto cui si apre in forza della sua libertà). La libertà guida l’io alla ricerca del valore che gli è consustanziale e che media nella storia quella relazione ideo-esistenziale destinata, in caso contrario, a restare una vuota astrazione, priva di ogni riscontro esistenziale. Grazie all’apertura segnata dalla libertà, l’io vive in un continuo farsi e cercarsi, sempre in tensione e in cammino verso il proprio destino; tensione e cammino che non differiscono in nulla dal cammino che ciascuno, nella propria vita, compie verso il valore e nel quale risiede la vocazione di una filosofia che non è altro dal percorso verso quella spiritualizzazione concreta che coincide con il rendere possibile «l’epifania della trascendenza». C. Rosso - C. Canullo BIBL.: L. LAVELLE, II dovere e la grazia, in Studi sul pensiero contemporaneo, Milano 1943; J. PAUMEN, Le spiritualisme existentiel de R. Le Senne, Bruxelles 1949; AA.VV., R. Le Senne, Torino 1951; F.P. ALESSIO, Studi sul neospiritualismo, Milano-Roma 1953, pp. 89-129; E. CENTINEO, R. Le Senne: idealismo personalistico e metafisica assiologica, Palermo 1953; J. PIRLOT, Destinée et valeur. La philosophie de R. Le Senne, Namur 1953; J. PIRLOT, La philosophie de R. Le Senne, in «Revue philosophique de Louvain», 53 (1955), pp. 2839; E. CENTINEO, Caratterologia e vita morale. La caratterologia di Le Senne, Bologna 1955, n. mon. «Giornale di Metafisica» 10 (1955), pp. 361-540; n. mon.

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«Les études philosophiques», 29 (1955), pp. 361566; G. BERGER, Notice sur la vie et les travaux de R. Le Senne, Paris 1956; L. VAX, Pensée souffrante et pensée triomphante chez R. Le Senne, in «Critique», 1956, pp. 142-152; P. PRINI, Verso una nuova ontologia, Roma 1957, pp. 115-136; C. DOLLO, L’Assoluto come valore in R. Le Senne, in Momenti e problemi dello spiritualismo, Padova 1967; A.A. DEVAUX, Le Senne ou le combat de la spiritualisation, Paris 1968; L. RWABASHI, Dieu dans la philosophie de R. Le Senne, Fribourg 1968; G. MAGNANI, L’itinerario al valore di R. Le Senne, Roma 1971; F. LUNETTA, La caratterologia di R. Le Senne, Padova 1972; M. GIORDANO, Le Senne tra spiritualismo e caratterologia, Cassano 1975; A. SALIBA, Dieu dans la pensée de R. Le Senne, Paris 1975; C. CANULLO, Coscienza e libertà. Itinerario tra Maine de Biran, Lavelle, Le Senne, Napoli 2001.

LESEVIC, VLADIMIR VIKTOROVIC. – Pensatore Lesevic russo, positivista, n. a Denisovka, presso Poltava, nel 1837, m. a Kiev nel 1905. Lesevic lascia la carriera militare per dedicarsi all’attività sociale e filosofica; subisce anche la deportazione in Siberia, dalla quale torna solo nel 1888. Ideologicamente Lesevic è vicino a P. Lavrov e N. Michajlovskij, e cerca di chiarire le posizioni positivistiche in senso più critico e più rispondente alle sostanze del pensiero contemporaneo, specialmente quello neo-kantiano. Lesevic risente dell’influenza di R. Avenarius e pensa di allargare i limiti dello scientismo positivistico e di ricavare dall’analisi fenomenologica dell’«esperienza» le basi di un nuovo «realismo critico». Legato alle pregiudiziali empiristiche del positivismo, non riconosce nella struttura della conoscenza gli elementi aprioristici e perciò la sua «filosofia scientifica», anche senza risolversi in una semplice sintesi delle scienze positive, rimane subordinata all’esperienza e non acquista la funzione autonoma di fronte alla scienza; rivelatrice in questo senso è la critica di Lesevic alla prima dissertazione di V. Solov’ëv. L. Gancikov BIBL.: Opyt kriticheskago izslëiìedovan iëiìa osnovonachal pozitivnoæi filosofii (Saggio d’indagine critica dei primi principi della filosofia positiva), Sankt Petersburg 1877; Pis’ma o naucnoj filosofija (Lettere intorno alla filosofia scientifica), Sankt Petersburg 1878; Cto takoe naucnaja filosofija? (Che cosa è la filosofia scientifica?), Sankt Petersburg 1891. Su Lesevic: W. GOERDT, Russische Philosophie. Zugänge und Durchblicke, Freiburg-München 1984, pp. 356-376 passim.

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LEŠNIEWSKI, STANISLAW. – Filosofo e logico Lesniewski polacco, n. il 18 mar. 1886 a Serpuchov (Russia), m. il 13 magg. 1939 a Varsavia. Studiò a Lipsia, Monaco e Leopoli, ove si laureò nel 1912 con K. Twardowski. Fu professore all’università di Varsavia dal 1919. Lesniewski appartiene al gruppo di logici della scuola di Varsavia che sotto l’influsso di Twardowski sostenne una concezione scientifica della filosofia contro le costruzioni metafisiche e l’irrazionalismo romantico. La sua attività si svolse essenzialmente nel campo della logica simbolica e della metamatematica a cui diede notevoli contributi con numerosi saggi (in polacco) pubblicati sulla rivista «Przeglad Filozoficzny» (1912-14), e concernenti l’analisi delle proposizioni esistenziali, i principi di contraddizione e del terzo escluso, e l’antinomia delle classi. Sin dai primi corsi universitari del 1919, Lesniewski condusse ricerche sul concetto di verità nelle scienze deduttive e analizzò le antinomie semantiche (l’antinomia del mentitore), aprendo così la via alla costituzione della semantica logica operata da Tarski e sviluppata da Carnap. F. Barone BIBL.: Logiceskie rassuzdenija (Studi logici), St. Petersburg 1913; Podstawy ogólnei teorii mnogósci (Fondamenti della teoria generale degli insiemi), vol. I, Moscow 1916 (in polacco); Grundzüge eines neuen Systems der Grundlagen der Mathematik, in «Fundamenta Mathematicae», vol. XIV, Warszawa 19382 (1929), pp. 1-81; Über Funktionen deren Felder Gruppen mit Rücksicht auf diese Funktionen sind, in «Fundamenta Mathematicae», 13 (1929), pp. 319-332; Über die Grundlagen der Ontologie, in «ComptesRendus des séances de la Société des Sciences et des Lettres de Varsovie», classe 3, 23 (1930); Über Definitionen in der sogenannten Theorie der Deduktion, in «Comptes-Rendus des séances de la Société des Sciences et des Lettres de Varsovie», 24 (1931). Su Lesniewski: A. TARSKI, Der Warheitsbegrifj in den formalisierten Sprachen, in «Studia Philosophica», 1 (1935), pp. 281-305; B. SOBOCINSKI, L’analyse de l’antinomie russellienne par Lesniewski, in «Methodos», 1 (1949), pp. 94-107, 220-228, 308-316; 2 (1950), pp. 237-257; F. BARONE, Il neopositivismo logico, Torino 1952, pp. 307-308; J. SLUPECKI, Stanislaw Lesniewski’s Protothetics, in «Studia logica», 12 (1953), pp. 44111; J. SLUPECKI, Stanislaw Lesniewski’s Calculus of Names, in «Studia logica», 14 (1955), pp. 7-70; C. LEJSWSKI, On Lesniewski ‘s Ontology, in «Ratio», 1 (1958), pp. 150-176; C. LEJSWSKI, Zu Lesniewski’s Ontologie, in «Ratio», 2 (1958), pp. 50-78; W. TATARKIEWICZ, Historia filozofii (Storia della filosofia),

Lessing vol. III, Varszawa 1958, p. 371; E.C. LUSCHEI, The Logical System of Lesniewski, Amsterdam 1962; Z.A. JORDAN, Philosophy and Ideology, Dordrecht 1963, pp. 14-17 (con ampia bibliografia); B. IVANUS, On Lesniewski Elementary Ontology, in «Studia Logica», 31 (1973), pp. 73-119; M. MARSONET, Logica e impegno ontologico: saggio su Stanislaw Lesniewski, Milano 1981.

LESSING, GOTTHOLD EPHRAIM. – Pensatore Lessing illuminista e poeta tedesco, n. a Kamenz (Sassonia) il 22 genn. 1729, m. a Wolfenbüttel (Brunswick) il 15 febbr. 1781. Figlio d’un pastore protestante, fu inviato giovanissimo dal padre alla facoltà teologica di Lipsia, ma i suoi interessi si allargarono ben presto verso la filologia, la letteratura e soprattutto il teatro. Prima di abbandonare Lipsia a causa dei debiti, vi aveva fatto rappresentare nel 1748 la sua prima commedia, di sapore vagamente autobiografico, Der junge Gelehrte. Il teatro fu, in effetti, l’impegno di tutta la vita di Lessing; mentre svolgeva la funzione di direttore artistico del teatro nazionale di Amburgo, pubblicò anche la rivista «Hamburgische Dramaturgie» (1767-69), che indicava in Shakespeare e non nei modelli francesi la fonte di ispirazione del teatro tedesco, per il quale egli scrisse e fece rappresentare grandi capolavori: Miss Sara Sampson (1755), Minna von Barnhelm (1767), Emilia Galotti (1772), Nathan der Weise (1779). La sua produzione letteraria comprende anche poesie, favole e importanti saggi di estetica (Abhandlungen über die Fabeln, Berlin 1759, e Laokoon oder Ueber die Grenzen der Malerei und Poesie, ivi 1766), oltre a una serie interminabile di lavori eruditi e antiquari, recensioni e traduzioni. Lessing ebbe l’ambizione di vivere come libero scrittore, e la sua scarsa propensione per la vita professorale lo indusse a rifiutare la cattedra d’eloquenza offertagli dall’università di Königsberg: è considerato, quindi, il massimo esponente dell’«illuminismo mondano» tedesco, in contrapposizione all’illuminismo scolastico di Wolff. Tra il 1750 e il 1760 visse nella Berlino di Federico il Grande (in verità non troppo benigno verso la rinascente cultura tedesca), dove operò in stretta collaborazione con Sulzer, Ramler, von Kleist e si legò in profonda amicizia con Moses Mendelssohn, col quale pubblicò uno dei suoi primi saggi filosofici (Pope, ein Metaphysiker, Berlin 1755), dove è tematizzata la differenza tra poesia e filosofia. Dopo un pe6343

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Lessing riodo passato a servizio del generale prussiano Tauentzien nel corso della guerra dei sette anni, si stabilì dapprima ad Amburgo, dove frequentò la famiglia di H.S. Reimarus, legandosi in particolare alla figlia Elise, e infine, dopo il 1770, a Wolfenbüttel, quale bibliotecario ducale. L’ispirazione degli scritti di Lessing è prevalentemente religiosa, di una religiosità tutta illuministica, che diffida delle religioni positive e vorrebbe da esse depurare una religione naturale universale. In un frammento risalente agli anni sessanta, Über die Entstehung der geoffenbarten Religion (§ 11), egli dice: «La miglior religione rivelata è quella che contiene il minor numero di aggiunte alla religione naturale». Ma v’è sempre uno stacco tra il positivo e il naturale, poiché il primo è interpretazione del secondo sulla base di un suo adattamento a condizioni storiche concrete. Tutte le religioni positive sono, pertanto, vere e false nello stesso tempo: vere, in quanto necessarie per lo sviluppo della società civile, false in quanto implicano un’alterazione della religione naturale. Non sono tuttavia vere e false allo stesso modo e nello stesso grado; esiste un criterio per misurare il loro grado di verità, ed è analogo a quello che in Nathan il Saggio sarà illustrato con la parabola dei tre anelli, ovvero la maggiore o minore adeguazione al contenuto della religione naturale, soprattutto nei suoi esiti morali. Questo dualismo radicale conduce al dissolvimento di ogni religione rivelata sul piano dell’imperativo morale, sul piano cioè del messaggio più autentico della religione naturale, che nel frammento Die Religion Christi Lessing vede realizzato nella figura e nell’insegnamento di Cristo e non nella religione cristiana. In Lessing questa scissione di un cristianesimo «vero» del Cristo da un cristianesimo della tradizione ecclesiastica corrisponde anche alla convinzione secondo cui la verità della religione non può essere provata da un qualsiasi fatto storico come tale. Egli si vale della distinzione leibniziana tra verità di fatto e verità di ragione per ascrivere alle prime argomentazioni quali, per esempio, i miracoli, la cui notizia, anzitutto, non si sa se risponda a verità e, in secondo luogo, quand’anche rispondesse a verità, non proverebbe la verità di una religione, che appartiene all’altra categoria, quella delle verità di ragione (cfr. Über den Beweis des 6344

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Geistes und der Kraft, Brunswick 1777). È impossibile, infatti, «passare mediante quelle verità storiche a una classe totalmente diversa di verità, e pretendere poi che io modifichi in conformità a quest’ultima tutti i miei concetti metafisici e morali». La religione dei Vangeli non è vera perché gli apostoli l’hanno insegnata, ma, al contrario, questi l’hanno insegnata perché vera: la verità interna è prova della tradizione scritturale, non viceversa. Questa separazione, come dimostrano gli scritti di polemica religiosa (per esempio, l’Anti-Goeze, Brunswick 1778), avviene per Lessing all’interno della Bibbia medesima, la quale contiene molte parti che contrastano o, comunque, non hanno nulla che vedere con la religione. La Bibbia va interpretata secondo lo spirito, e non secondo la lettera: su questo tutti, o quasi, si trovano d’accordo, se non che si tratta di vedere appunto quale ne sia lo spirito. La posizione propria di Lessing si può cogliere nel commento all’edizione da lui curata (con il titolo Fragmente eines Ungenannten, nella collezione «Zur Geschichte und Literatur. Aus den Schätzen der herzoglichen Bibliothek zu Wolfenbüttel» , 1774-78) della Apologie, oder Schutzschrift für die vernünftigen Verehrer Gottes di H.S. Reimarus, in cui, a somiglianza di quanto sosteneva Voltaire, solo i principali canoni morali del Nuovo Testamento erano approvati e si conduceva una serrata critica storico-filologica di alcuni eventi raccontati dalla Bibbia e sui quali erano fatte poggiare la religione ebraica e la cristiana, come il passaggio del mar Rosso e la resurrezione di Cristo. Lessing non si allinea su una posizione così estrema; contro i suoi critici (i pastori Ress, Goetze, Schumann) non si accontenta di ripetere che la verità del cristianesimo non si fonda sull’autenticità storica degli scritti biblici, ma rivendica per sé, come propria missione, non già il possesso della verità bensì la ricerca della verità, come sostiene nella replica a Ress (Eine Duplik): «Se Dio tenesse chiusa nella sua mano destra tutta la verità, e nella sua sinistra unicamente il sempre vivo amore per la verità, benché con l’aggiunta di andar errando sempre e in eterno, e mi dicesse: scegli! Io mi precipiterei con umiltà alla sua sinistra e direi: Padre, dammi questo! La pura verità è serbata soltanto per te». Un aiuto decisivo per la soluzione del problema del rapporto tra religioni storiche e religio-

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ne naturale viene a Lessing dalla lettura di Spinoza e di Leibniz, due filosofi che gli sono particolarmente vicini nell’ultimo decennio della sua vita. Poco prima di morire, stando alla testimonianza di Jacobi in Über die Lehre des Spinoza in Briefen an Moses Mendelssohn (1785), Lessing avrebbe riconosciuto l’esito panteistico della sua concezione religiosa, dichiarando: «I concetti ortodossi della divinità non sono più per me: non riesco a gustarli. En kai pan! lo non so altro». In tutta la lettera del 4 novembre 1783 Jacobi insiste sul sostanziale spinozismo di Lessing. In realtà, Lessing aspira a una unione di Spinoza e di Leibniz, interpretando spinozisticamente l’armonia prestabilita come presenza del tutto in ogni parte; ma il suo contatto con Spinoza è abbastanza vago, perché non avviene sul piano di uno studio tecnico dello spinozismo, come accadrà per i filosofi della generazione successiva. In un breve saggio Über die Wirklichkeit der Dinge ausser Gott (1760-65) Lessing sostiene che, poiché i concetti delle cose sono in Dio, anche le cose stesse devono essere in lui, poiché altrimenti vi dovrebbe essere una distinzione tra la realtà (fuori di Dio) e il concetto di essa (in Dio). Ciò non significa, tuttavia, che le cose siano identiche con Dio; anzi, anche in Dio deve trovarsi il contingente, senza di che si dovrebbe ammettere che Dio non ne possegga il concetto. Il pensiero religioso di Lessing culmina nel breve saggio Die Erziehung des Menschengeschlechtes (Berlin 1780), secondo cui la rivelazione rappresenta per l’umanità ciò che l’educazione è per il singolo uomo. «La Rivelazione non dà all’uomo nulla ch’egli non possa trarre anche da se stesso; ciò che potrebbe trarre da se stesso, essa glielo offre soltanto con maggiore rapidità e facilità» (§ 4). Viene così, d’un tratto, eliminata l’antinomia tra ragione e fede che aveva caratterizzato gran parte della precedente riflessione lessinghiana. In effetti, la rivelazione non suggerisce o produce nulla che non possa essere ricavato mediante la sola ragione, ma offre le stesse cose in tempi più rapidi, in ogni caso adeguati alle diverse fasi di «crescita» del genere umano. Mediante l’accostamento all’idea di ragione il concetto di rivelazione subisce due ordini di mutamento: anzitutto acquisisce una connotazione positiva, sembrando persino evocare l’agostiniano credo ut intelligam, poiché la rivelazione s’impone quale guida per lo sviluppo corretto della ra-

Lessing zionalità umana; in secondo luogo essa è assunta in un significato solo apparentemente generico, non applicandosi a tutte le forme storiche di religione, tra le quali Lessing aveva dimostrato l’impossibilità di scegliere quella più vicina alla verità della religione naturale, mentre ora si riferisce in maniera precisa ed esplicita alla rivelazione propria della tradizione giudaico-cristiana. I dogmi della fede, in quanto sono al di sopra della ragione, non solo non si pongono contro di essa, secondo la nota tesi leibniziana, ma contengono le regole per lo sviluppo della razionalità umana. Leibniz aveva dichiarato, nei Saggi di Teodicea, l’interesse della ragione a trovare «spiegazioni» dei misteri, almeno fino al punto di dimostrare che non sono contraddittori, ma aveva evitato di spingersi sino al «comprendere» (comprendre), che non potrebbe essere completo e che tuttavia non è richiesto dalla fede. È precisamente questa «comprensione» che esige invece Lessing, non allo scopo di rafforzare la fede, come hanno ritenuto alcuni interpreti «di destra» (così li definisce N. Merker, del quale cfr. L’illuminismo tedesco. Età di Lessing, Bari 19742 [1968], nonché Introduzione a Lessing, Roma-Bari 1991) che hanno fatto di Lessing il promotore di una rinnovata apologetica del cristianesimo, bensì al fine di trovare quei germi di verità che costituiscono l’essenza stessa della ragione, ma che rimarrebbero in potenza oppure come possesso soltanto individuale senza l’opera educativa della rivelazione divina, che ne estende invece l’azione e l’efficacia a tutta la storia dell’umanità. Questa ripresa e, insieme, questo superamento del pensiero leibniziano rappresentano, secondo E. Cassirer, una vera e propria svolta nella filosofia dell’illuminismo, che si traduce in una nuova concezione della natura dei fatti storici, non più intesi nella loro antiteticità rispetto alla ragione ma come il campo di inveramento di essa. Proseguendo su questa linea interpretativa, a seconda che la «svolta» sia posta all’interno del movimento dell’Aufklärung oppure sia intesa come suo superamento, furono prospettate due diverse immagini di Lessing: da un lato egli fu considerato pienamente in sintonia con gli ideali del suo tempo, di cui rappresenterebbe semmai la «coscienza critica» (P. Hazard, La pensée européenne au XVIIIe siècle de Montesquieu à Lessing, Paris 19953 [1963]); sul versante opposto si è voluto sottolineare il distacco di Lessing 6345

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Lessing dalle tematiche dell’illuminismo sino a farne il precursore del pensiero postkantiano e romantico, secondo la linea inaugurata da F. Schlegel. La varietà e diversità di queste e di altre «leggende» (cfr. F. Mehring, La leggenda di Lessing. Per la storia e la critica del dispotismo prussiano e della letteratura classica, tr. it. di E. Cetrangolo, Roma 1952) non devono far dimenticare la profonda unità d’ispirazione dell’Erziehung des Menschengeschlechts e la sua sostanziale coerenza rispetto all’evoluzione dell’atteggiamento lessinghiano verso la religione. Non a caso la prima parte venne pubblicata nel 1777 in occasione e a commento dei Fragmente eines Ungenannten. Non serve inseguire Reimarus sul terreno storico e filologico; questa è la convinzione infine maturata da Lessing: la via percorribile è quella di una visione evolutiva e dinamica del cristianesimo e del suo contenuto dogmatico. Il cristianesimo rivela una verità storica «debole» (miracoli, profezie, lo stesso evento della resurrezione), ma una verità dogmatica «forte», in quanto i suoi «misteri» sono le indispensabili condizioni per lo sviluppo della ragione umana: non sono ancora verità di ragione, ma sono stati rivelati affinché lo diventino; sono come il risultato del problema di matematica che il maestro anticipa ai suoi allievi per suggerire loro la linea direttiva della dimostrazione (§ 76). La rivelazione, come l’educazione, è progressiva e si svolge nel tempo. Agli ebrei, a questo popolo rozzo cui gli egizi avevano perfino proibito di avere un Dio, Dio si fece dapprincipio annunziare solo «come il Dio dei loro padri, per comunicar loro e render loro familiare l’idea che anch’essi avevano un Dio» (§ 11); poi, a poco a poco, essi vengono abituati all’idea del Dio unico (§ 13) e a una «eroica obbedienza» (§ 33) verso di lui. Il Vecchio Testamento, con le sue allegorie, era come un libro elementare: «Un migliore pedagogo bisogna che venga e strappi di mano al fanciullo il libro elementare ormai superato: e venne il Cristo» (§ 53). «Cristo fu il primo attendibile maestro pratico dell’immortalità dell’anima» (§ 58), perché a tale dottrina insegnò a «conformare i propri atti interiori ed esteriori» (§ 60). Se non che, «come possiamo, ormai, per la dottrina dell’unità di Dio, fare a meno del Vecchio Testamento, come cominciamo, a poco a poco, per la dottrina dell’immortalità dell’anima, a poter fare a meno anche del Nuovo, non potrebbero esser fatte balenare, in quest’ultimo, 6346

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molte altre verità che ci tocca riguardare ammirati come rivelazioni finché la ragione non abbia imparato a dedurle dalle altre sue verità ritrovate e a collegarle ad esse?» (§ 72). «Procedi con il tuo impercettibile passo, Provvidenza eterna [...]. Non è vero che la linea più breve sia sempre la retta» (§ 91). II concetto di provvidenza è dunque fuso da Lessing con quello illuministico di «progresso» dell’umanità. Una volta concluso il ciclo dell’educazione, la ragione ormai matura non avrà più bisogno di essere guidata e l’uomo farà il bene «perché è il bene» (§ 85). Proseguendo su questa linea, si dovrebbe dire, anche se Lessing non lo afferma esplicitamente in quest’opera, che l’umanità matura non ha più bisogno della guida della rivelazione, la religione positiva perde il diritto all’esistenza e non resta all’uomo che seguire l’imperativo della sua ragione emancipata; allora cessa di valere il Vangelo di Giovanni («In principio era il Verbo»), mentre resta imperituro il suo Testamento («Figliuoli, amatevi l’un l’altro!»), come Lessing dichiara nel frammento Das Testament Johannis (1777). Considerevole importanza (come riconobbe già Goethe in Dichtung und Wahrheit, II, 8) ha Lessing per la storia dell’estetica, soprattutto grazie al già ricordato Laokoon, scritto in polemica con la Geschichte der Kunst des Altertums (1763) di Winckelmann. Lo spunto è offerto dalla statua del Laocoonte assalito dai serpenti, la quale mostra un atteggiamento sostanzialmente composto, non tradendo alcun segnale di pianto o di disperazione; questo, secondo Winckelmann, perché lo scultore ha inteso esprimere nella forma più chiara la forza morale del personaggio. In realtà, nota Lessing, vi sono ragioni interne alla rappresentazione artistica che hanno guidato la mano dello scultore: questi rappresenta corpi nello spazio, mentre il poeta descrive azioni che si susseguono nel tempo. Solo quest’ultimo, come dimostra il brano dell’Eneide dedicato all’episodio di Laocoonte, può descrivere azioni come quella del pianto. La poesia si serve delle azioni anche per rendere i corpi da cui le azioni scaturiscono; la pittura, invece, quando si trova alle prese con un’azione, ne identifica il momento culminante, concentrandosi su di esso per farlo durare in eterno. Ma in Lessing l’estetica e la poetica filosofica non sono fini a se stesse, e devono essere costantemente valutate in relazione all’attività di artista dello stesso Lessing: in una tradizione successiva certe di-

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stinzioni lessinghiane sono state canonizzate oppure rovesciate, ma comunque intese come canoni rigidi; invece Lessing, che si rendeva conto dei pericoli di un teorizzare astratto che perdesse i contatti con la realtà della produzione e della critica d’arte, cercava con tali distinzioni di esprimere la natura delle singole arti, o dei singoli generi considerati. In altre parole, alla regola come canone estrinseco Lessing tende a sostituire la legge come necessità immanente dell’opera, simile abbastanza a una legge organica di sviluppo. «Genio» è colui che porta in sé la suprema legge estetica, ma che, appunto perciò, la può vivificare e rinnovare dall’interno. V. Mathieu - M. Longo BIBL.: edizioni: Sämtliche Schriften, a cura di G.E. Lessing, poi di K.G. Lessing - J. Eschenburg - F. Nicolai, Berlin 1771-94, 31 voll.; Sämtliche Schriften, a cura di K. Lachmann - F. Muncker, Stuttgart-Leipzig-Berlin 1886-1924, 23 voll. (III edizione delle Sämmtliche Schriften, 1838-40, già a cura di K. Lachmann, che è sinora la più significativa edizione critica delle opere di Lessing); Werke, a cura di J. Petersen - W. v. Olshausen, 1925-35, 25 voll.; Gesammelte Werke, a cura di P. Rilla, Berlin 1954-57, 10 voll., riedita a cura di W. Albrecht, Berlin-Weimar 1981, 12 voll.; Werke und Briefe, a cura di W. Barner, Frankfurt am Main 1985 ss., 12 voll. Traduzioni italiane: L’educazione del genere umano, a cura di S. Caramella, Lanciano 1927; a cura di F. Canfora, Bari 1951; a cura di G. Formizzi, Verona 1987; La drammaturgia di Amburgo, a cura di P. Chiarini, Roma 19752 (Bari 1956); Laocoonte, a cura di M. Carpitella, Milano 1961; a cura di T. Zemella, Milano 1994; Ernst e Falk. Colloqui per massoni, a cura di L. Parinetto, MilanoRoma 1975; La religione dell’umanità, a cura di N. Merker, Roma-Bari 1991; Teatro, a cura di B. Allason, Torino 1981; Gli Ebrei, a cura di A. Jori, Milano 2002. Su Lessing: strumenti bibliografici: F. MUNCKER, Verzeichnis der Drucke von Lessings Schriften 17471919, in Sämtliche Schriften, a cura di K. Lachmann - F. Muncker, vol. XXII/2, pp. 315-807; R. BORCH, Lessing-Bibliographie für 1916-1920, in J. JELLINEK - P.A. MERBACH (a cura di), Lessing-Buch, Berlin 1926, pp. 67-85; K.S. GUTHKE, Der Stand der Lessing-Forschung. Ein Bericht über die Literatur von 1932-1962, Stuttgart 1965; S. SEIFERT, Lessing-Bibliographie, BerlinWeimar 1973; D. KUHLES, Lessing-Bibliographie, Berlin-Weimar 1988; K.S. GUTHKE, Aufgaben der LessingForschung heute, in G. GOEFERT (a cura di), Das Bild Lessings in der Geschichte, Heidelberg 1981, pp. 131160. Sul pensiero filosofico-teologico di Lessing: G. PONS, Gotthold Ephraim Lessing et le christianisme, Paris 1964; F. CANFORA, Lessing, Bari 1973; L.P. WES-

Lessing SEL, Gotthold Ephraim Lessing’s Theology. A Reinterpretation, The Hague-Paris 1977; M. BOLLACHER, Lessing: Vernunft und Geschichte, Tübingen 1978; A. SCHILSON, Lessings Christentum, Göttingen 1980; E. HEFTRICH, Lessings Aufklärung. Zu den theologischphilosophischen Spätschriften, Frankfurt am Main 1978; W. RITZEL, Lessing: Dichter, Kritiker, Philosoph, München 1978; L. PARINETTO, Alienazione e utopia in Lessing, Milano 1981; B. TESTA, Rivelazione e storia. Uno studio sulla filosofia della religione di Lessing, Roma 1981; G: SCHULZ, Lessing und der Kreis seiner Freunde, Heidelberg 1985; G. FREUND, Theologie im Widerspruch. Die Lessing-Goeze Kontroverse, Stuttgart 1989; S. ZAC, Spinoza en Allemagne. Mendelssohn, Lessing et Jacobi, Paris 1989; J. LUEPKE, Wege der Weisheit. Studien zu Lessings Theologiekritik, Göttingen 1989; E.M. BATLEY, Catalyst of Enlightenment. Gotthold Ephraim Lessing, Bern - Frankfurt am Main - New York 1990; J. STROHSCHNEIDER-KOHRS, Vernunft als Weisheit. Studien zum späten Lessing, Tübingen 1991; E. QUAPP, Lessings Theologie statt Jacobis «Spinozismus», Bern - Berlin - New York 1992; G. CUNICO, Da Lessing a Kant. La storia in prospettiva escatologica, Genova 1992; G. HOBELKA, Lessing: de la Révélation à l’âge adulte de la raison, Paris 1997; H. DRESCHER-OCHOA, Kultur der Freiheit. Ein Beitrag zu Lessings Kulturkritik und -philosophie, Berlin - Bern New York 1998; A. RIZZACASA, Il tema di Lessing: è possibile provare una verità eterna a partire da un fatto storico?, Cinisello Balsamo 1996; W. GOETSCHEL, Spinoza’s Modernity. Mendelssohn, Lessing and Herder, Madison (Wisconsin) 2004. Sulla storia della fortuna: H. STEINMETZ (a cura di), Lessing: ein unpoetischer Dichter. Dokumente aus drei Jahrhunderten zur Wirkungsgeschichte Lessings in Deutschland, Frankfurt am Main - Bonn 1969; E. DVORETZKY (a cura di), Lessing: Dokumente zur Wirkungsgeschichte, Göppingen 1971-72, 2 voll.; CHR. RASCHDAU, Die Aktualität der Vergangenheit. Zur gesellschaftlichen Relevanz der Lessing-Rezeption im 18. Jahrhundert und heute, Königstein 1979; H.-J. GAYCKEN, Gotthold Ephraim Lessing. Kritik seiner Werke in Aufklärung und Romantik, Frankfurt am Main - Bern 1980; E. DVORETZKY (a cura di), Lessing heute. Beiträge zur Wirkungsgeschichte, Stuttgart 1981; K. BOHNEN (a cura di), Lessing Nachruf auf einen Aufklärer. Sein Bild in der Presse der Jahre 1781, 1881 und 1981, München 1982; J.-O. HENRIKSEN, The Reconstruction of Religion. Lessing, Kierkegaard and Nietzsche, Grand Rapids (Michigan) 2001.

LESSING, THEODOR. – N. a Hannover l’8 febLessing br. 1872, m. a Marienbad il 30 ag. 1933. Il pensiero di Lessing come interpretazione dell’etica husserliana, afferma la necessità di costituire una scienza esatta della felicità. Ri6347

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Lessio prendendo la concezione nietzschiana della storia, Lessing è convinto che la cultura occidentale si potrà rinvigorire aprendosi all’Oriente. Red. BIBL.: Studien zur Wertaxiomatik, in «Archiv für systematische Philosophie», 12 (1908), successivamente Leipzig 19142; Philosophie als Tat, Leipzig 1909; Philosophie als Tat, Leipzig 1914; Die verfluchte Kultur. Gedanken über den Gegensatz von Liebe und Geist, München 1921; Geschichte als Sinngebung des Sinnlosen, München 19295; Gesammelte Schriften, vol. I, Praga 1935. Su Lessing: A. MESSER, Der Fall Lessing, Berlin 1926; W. GOETZE, Die Gegensätzlichkeit der Geschichtsphilosophie Oswald Spenglers und Theodor Lessings, Leipzig 1930.

LESSIO, LEONARDO (Lenaert Leys, Lessius). – Lessio Teologo gesuita, n. a Brecht (Anversa) nel 1554, m. a Lovanio nel 1623. Studia teologia a Roma (1581-1584), discepolo di F. Suárez e R. Bellarmino; in seguito insegna fino al 1600 nel collegio della Compagnia di Gesù a Lovanio, introducendo come testo per la scuola la Summa di Tommaso in luogo delle Sententiae di Pietro Lombardo. Con le università di Lovanio e di Douai sostiene, dal 1587, una vivace polemica per alcune tesi, censurate come semipelagiane, ma poi dichiarate ortodosse da Sisto V (più tardi i giansenisti si sarebbero sforzati, ma inutilmente, di ottenere una condanna dalla facoltà teologica di Parigi). Tra le opere interessano la filosofia il De iustitia et iure ceterisque virtutibus cardinalibus (Antverpiae 1621 [Lovanii 1605]), il De gratia efficaci, decretis divinis, libertate arbitrii et praescientia Dei conditionata (Antverpiae 1610), documento di rilievo nelle controversie legate al molinismo, il De providentia Numinis et animi immortalitate libri duo: adversus atheos et politicos (ivi 1613), prelezioni teologiche postume (Lovanii 1645) intorno ad alcune parti della Summa di Tommaso, fra cui De beatitudine e De actibus humanis. Occorre ricordare inoltre il De perfectionibus moribusque divinis (Antverpiae 1620) e il De summo bono et aeterna beatitudine hominis (ivi 1616), di interesse ascetico. Nel De gratia efficaci (ivi 1610) (accolto con sfavore dal generale dell’ordine, Claudio Acquaviva) Lessio si mostra propenso, quanto all’atto libero, al concorso simultaneo delle cause prima e seconda, cioè di Dio e della volontà 6348

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umana, con la sola differenza che la prima influisce in universale, la seconda particolarmente. Nella dissertazione aggiunta sulla predestinazione, sostiene che l’elezione alla gloria è operata da Dio post praevisa merita, tesi che deve proprio a lui la successiva fortuna; tuttavia, data la scarsa chiarezza circa l’efficacia della grazia, e in seguito a un’ordinazione del generale, prepara una seconda versione della tesi, pubblicata però postuma in una raccolta di Opuscula (Paris 1878-81 [Antverpiae 1626], 3 voll.). G. Bortolaso - S. Cavaciuti BIBL.: Responsio, in G. SCHNEEMANN, Controversiarum de divinae gratiae liberi arbitrii concordia initia et progressus, Freiburg i. B. 1881, pp. 369-462; Su Leonardo Lessio: C. SOMMERVOGEL, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Bruxelles-Paris 1890-1909, vol. IV, coll. 1726-1751, vol. IX, coll. 588-589, vol. XII, col. 320; C. VAN SULL, Léonard Lessius de la Compagnie de Jésus, Louvain 1930; X.-M. LE BACHELET, Prédestination et grâce efficace. Controverses dans la Compagine de Jésus au temps d’Aquaviva (1610-13), Louvain 1931, 2 voll. (con le censure e le risposte inedite di Lessio; cfr. anche «Recherches de Sciences Religieuses», 14 [1924], pp. 46-60, 134-159); C. CHAMBERLAIN, Leonard Lessius, in S.J. SMITH (a cura di), Jesuit Thinkers of the Renaissance, Milwaukee (Wisconsin) 1939, pp. 133-156; A.V. THIESEN, O fim da criação nos escritos de Leonardo Lessio, Pôrto Alegre 1950; F. DE RAEDEMAEKER, De «De perfectionibus moribusque divinis» van L. Lessius, in «Bijdragen. Uitgegeven door de Philosophische en Theologische Faculteiten der Noord-en Zuid-Nederlandse Jezuieten», 15 (1954), pp. 235-255; A. AMPE, Die mystieke diepgang van Lessius’ leven en leer, in «Bijdragen. Uitgegeven door de Philosophische en Theologische Faculteiten der Noord-en Zuid-Nederlandse Jezuieten», 15 (1954), pp. 272-310 (riassunti in francese); F. BELDA, Ética de la creación de créditos según la doctrina de Molina, Lessio y Lugo, in «Pensamiento», 19 (1963), pp. 53-92, 185-213; R. DE ROOVER, Leonardus Lessius als Economist, Brussel 1969; K. REDL, Spinoza und Lessius. Zum 350. Jahrestag von Spinozas Geburt, in «Annales Universitatis Scientiarum Budapestinensis de Rolando Eötvös nominatae», 17 (1983), pp. 327-345; E. RODRIGUEZ, Domingo de Soto: origen de las teorías de Leonardo Lessio sobre la inspiración, in «Ciencia Tomista», 123 (1996), pp. 467484; T. VAN HOUDT, Lessius’s Views on Taxation and Justice: Scholastic Background and Humanist Applications, in G.H. TUCKER (a cura di), Forms of the «Medieval» in the «Renaissance», Charlottesville (Virginia) 2000, pp. 91-117.

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LÉSVIOS, BENIAMINO. – Filosofo greco, n. a Lésvios Plotàrion (Lesbo) nel 1762, m. a Náuplion nel 1824. Dopo i primi studi nell’isola nativa (donde il nome di Lésvios, invece del cognome Gheorgandìs), andò al Monte Athos abbracciando la vita monastica. In seguito, studiò scienze e filosofia nelle università di Pisa e Parigi. Si stabilì successivamente a Kydónie (Asia Minore), reggendovi la locale accademia (1800-12), a Lesbo (1812-14) e poi a Costantinopoli. Nel 1818 fu chiamato a dirigere l’istituto della comunità greca di Bucarest e poi quello di Smirne. Scoppiata la rivoluzione greca contro il dominio turco (1821), Lésvios si trasferì in Grecia, rimanendovi fino alla morte. A parte una Metafisica (Wien 1820, in greco), gran parte dell’opera filosofica di Lésvios è ancora allo stato di manoscritto nelle biblioteche di Mitilene e di Potamós a Lesbo. Il successo e l’influsso derivanti dal suo insegnamento, si esaurirono con esso. È stato accusato di panteismo e ateismo, motivati forse dalla sua credenza in una sostanza primitiva, eterea e dinamica, da cui sarebbe originata ogni realtà, la vita e la coscienza comprese. Come Maine de Biran, al cartesiano cogito ergo sum oppone il volo ergo sum: non è l’intendere, è il volere che ci dà la certezza dell’esistere (Metafisica, §§ 207-213). F. Weber BIBL.: C. CAVARNOS, Modern Greek Philosophers on the Human Soul, Belmont (Massachusetts) 1967; R. ARGYROPOULOU, Benjamin of Lesvos and the European Thought of 18th Century, Atene 2003 (in greco).

LESZCZYNSKI, STANISLAW. – Principe di LoLeszczynski rena e re di Polonia, n. a Leopoli il 20 nov. 1677, m. a Lunéville il 23 febbr. 1766. Scrisse sotto lo pseudonimo del «Filosofo caritatevole». Nelle sue opere (Oeuvres du Philosophe bienfaisant, Paris 1763, 4 voll.; 17694) tentò di unire il metodo sperimentale delle ricerche scientifiche e le tendenze della filosofia contemporanea con il cristianesimo e con gli insegnamenti della Chiesa cattolica. Red. BIBL.: M. GARÇOT, Stanislas Leszczynski, 1677-1766, Paris 1953; A. BAR et al. (a cura di), Bibliografia Filozofii Polskiej (1750-1830), Warszawa 1955, vol. I, pp. 76-80; W. KRZYZANOWSKI, Stanislaus Leszczynski, Tübingen 1977; E. CIESLAK, Stanislaw Leszczynski, Wroclaw 1994; G. RUTTO, Il pensiero repubblicano di Stanislao Leszczynski re di Polonia, Torino s.d.

Letelier LETAMENDI Y MANJARRÉS, JOSÉ DE. – Letamendi y Manjarrés Filosofo e medico spagnolo, n. a Barcellona l’11 mar. 1828, m. a Madrid il 6 lug. 1897. Professore a Barcellona e poi alla facoltà di medicina dell’università di Madrid. È il prototipo dei medici filosofi dell’epoca, continuatore di una tradizione spagnola umanista che risale al secolo XVI e assume un carattere straordinario nei secoli XIX e XX. È stato denominato il «Don Chisciotte in lotta contro il positivismo». La sua opera non è solo negativa e polemica, ma presenta anche aspetti innovativi. Contro il dualismo cartesiano, il materialismo e lo stesso positivismo, Letamendi elabora una «antropologia integrale» (Obras completas, vol. IV, pp. 314-316) al fine di rendere conto dell’uomo nella sua unità psicosomatica. È nota la celebre equazione biodinamica di Letamendi secondo cui la vita è funzione di due variabili: l’energia individuale e il cosmo. Di qui la sua attitudine che può essere considerata un vitalismo spiritualista, precursore del neo-vitalismo contemporaneo. La sua concezione della biologia in senso olistico e umanista è connessa a una riforma della medicina in senso scientifico. A. Muñoz Alonso - A. Savignano BIBL.: Obras completas, Madrid 1899-1907, 5 voll. (ne mancano però alcune come la Patología general e la Clínica general). Su Letamendi y Manjarrés: J. DEL CASTILLO NICOLAU, Notas en torno a la «Biologia matemática» de don José de Letamendi, in «Archivo Iberoamericano de Historia de la Medicina y Antropologia Médica», 2 (1950), pp. 441-492; T. CARRERAS Y ARTAU, Médicos-filósofos españoles del siglo XIX, Barcelona 1952, pp. 131-369; S. PALAFOX MARQUÉS, La antropologia médica en la obra de José de Letamendi, in «Archivo Iberoamericano de Historia de la Medicina y Antropologia Médica», 6 (1954), pp. 211-281; R. SARRÓ, El sistema mecánico-antropológico de Letamendi, Barcelona 1963; A. GUY, Le génie de Letamendi et la philosophie catalane, in AA.VV., «Primer congreso de historia de la medicina catalana», Barcelona 1970, pp. 7-32.

LETELIER, VALENTÍN. – Sociologo, pedagoLetelier gista e filosofo positivista, cileno, n. a Linares il 16 dic. 1852, m. a Santiago del Cile il 20 giu. 1919. Fu professore e rettore nell’università statale di Santiago ed esercitò un considerevole influsso sullo sviluppo culturale cileno, specialmente nel settore dell’educazione statale. 6349

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Leto Iniziato al positivismo dai fratelli Lagarrigue, si discostò da loro quando essi seguirono il comtismo ortodosso accentuatamente religioso e aderì alla forma puramente scientifica di M.-P.-E. Littré; in seguito si ispirò pure, in punti particolari, a H. Spencer e E. Durkheim. Si occupò prevalentemente di elaborare una coerente concezione sociologica della quale sono da considerarsi applicazioni, anche se importanti e di interesse proprio, gli studi sulla filosofia dell'educazione, della storia e della vita politica. Poiché A. Comte ha fissato definitivamente «le basi della scienza della storia, con l’assoggettare gli eventi alla legge della causalità», Letelier indaga su tale causa, ritrovandola nella società con il suo ambiente, gli stati sociali (famiglia, proprietà, diritto ecc.) e i fatti sociali, allargando la nozione durkheimiana di fatto sociale a tutto ciò che avviene «in virtù di impulso spontaneo di qualsiasi porzione alquanto considerevole della società». Ne risulta, per il corso degli eventi storici, un determinismo che li rende prevedibili come qualunque altro fenomeno naturale. Letelier ammette tuttavia la libertà umana, anzi la possibilità che essa transitoriamente modifichi, ritardi o acceleri lo sviluppo degli eventi, che però a lunga scadenza seguono un’evoluzione necessaria, condizionandosi la dinamica sociale soltanto per la statica sociale; gli stessi grandi uomini della storia non sono che docili esecutori delle tendenze sociali. J. Jiménez B. BIBL.: ¿Por qué se rehace la historia?, Santiago 1886; Filosofía de la educación, Santiago 1892; La evolución de la historia, Santiago 1900; Génesis del Estado y de sus instituciones fundamentales, Santiago 1917; Génesis del derecho y de sus instituciones civiles fundamentales, Santiago 1919. Su Letelier: R. MUNIZAGA A., Algunos grandes temas de la filosofía educacional de don Valentin Letelier, Santiago 1942; L. FUENTEALBA H., Ensayo biográfico de Valentin Letelier, Santiago 1956; L. GALDAMES, Valentin Letelier y su obra, Santiago 1957; L. FUENTEALBA H., La filosofía de la historia en Valentin Letelier, Santiago 1961; L. FUENTEALBA H., Valentin Letelier y el pensamiento educativo en el Instituto Pedagógico, Santiago 1964; O. OLAVARRIA AQUEVEQUE, Semblanza de don Valentin Letelier, in «La semana juridica» ,92 (2002).

LETO, GIULIO POMPONIO. – Umanista, n. a Leto Teggiano (Salerno) nel 1428, m. a Roma nel 1497. Subentrato al Valla sulla cattedra romana di eloquenza, dà vita ad un’accademia. Cul6350

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tore degli studia humanitatis, mostra simpatie epicuree e coniuga il rifiuto della morale con l’avversione all’ascetismo. Sospettato di paganesimo e imprigionato nel 1468 sotto l’accusa di avere congiurato contro Paolo II, avrebbe sostenuto che l’anima perisce, che il fine della vita consiste nella ricerca del sapere e che le religioni sono imposture. Difesosi con un’Apologia, nel 1473 riprende l’attività alla Sapienza. È autore di un Romanae historiae compendium e un De romanorum magistratibus. Idem de romanorum sacerdotiis. Idem de legibus et de iuris peritis (Brixiae 1510), opuscoli topografici, storici, antiquari, opere grammaticali, carmi, epistole e brevi commentari dei suoi viaggi. M. Laffranchi BIBL.: V. ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto, Roma 190912, 2 voll.; P. MEDIOLI MASOTTI, L’Accademia Romana e la congiura del 1468, in «Italia Medioevale e Umanistica», 25 (1982), pp. 189-204; M. ACCAME LANZILLOTTA, L’insegnamento di Pomponio Leto nello «Studium Urbis», in L. CAPO - M.R. DI SIMONE (a cura di), Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia de «La Sapienza», Roma 2000.

LETTERATURA (literature; Literatur; littéraLetteratura ture; literatura). – SOMMARIO: I. Significato e applicazione del termine. - II. Letteratura e arte; atto e opera. - III. Letteratura ed essenza della poesia; la radice esistenziale della letteratura. - IV. Osservazioni conclusive. I. SIGNIFICATO E APPLICAZIONE DEL TERMINE. – Letteratura è parola di non facile utilizzazione, perché ha cambiato più volte significato, in rapporto con i mutamenti del concetto espresso. Certo, nel mondo classico humanae litterae indicava il complesso dei testi letterari e del loro studio. Ciò implica però che esistano criteri per la scelta dei testi da considerare letterari; che il loro studio sia considerato un’attività precisa e riconosciuta; inoltre, che esista una società che riconosca e organizzi le manifestazioni letterarie. Non sempre è stato così. Nel Medioevo, per esempio, i testi letterari non sono nettamente distinti da quelli religiosi o da quelli di intrattenimento, anche perché non esiste una categoria definita di letterati, esistono giullari, chierici versificatori, poeti di corte, e i destinatari sono eterogenei: aristocratici e principi (spesso promotori di letteratura), fedeli riuniti per manifestazioni religiose, pubblico delle piazze e dei mercati. Di letteratura nel senso moderno si può parlare pro-

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priamente solo dal Settecento, quando il letterato raggiunge una certa autonomia, e fa del suo lavoro un mestiere riconosciuto dalla collettività. Il concetto di letteratura (non lo si nota abbastanza) non è totalmente distaccato dalle concezioni classiche che lo hanno elaborato. Per tacito accordo, la letteratura riguarda testi scritti. Escludendo l’oralità, si sono perciò escluse dalla letteratura tutte le produzioni popolari, che di norma non ricorrono alla scrittura. Anche se con eccezioni gloriose: i poemi omerici hanno origine orale, e sono stati riconosciuti come letterari dopo la loro trascrizione interpretativa nel periodo alessandrino. L’origine classica del nostro termine implica pure il riconoscimento del problema dei generi letterari, varie volte caduti in discredito, ma sempre riaffioranti. Se non altro, i generi rappresentano un criterio per la tassonomia dei testi. Dovremo dunque affrontare questi problemi: definizione del testo letterario; funzionamento del sistema letterario. Sono state tentate delle definizioni intrinseche del testo letterario. Appare efficace quella espressa dalla Scuola di Praga nel 1929: «Il principio organizzatore dell’arte, in funzione del quale essa si distingue dalle altre strutture semiologiche, è che l’intenzione viene diretta non sul significato ma sul segno stesso». Poi R. Jakobson ha precisato ulteriormente, nel definire le varie funzioni che egli attribuisce alla lingua. Il testo letterario sarebbe quello in cui opera più diffusamente la funzione poetica: «la funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione a quello della combinazione». Insomma, mentre il discorso comune opera, per ogni elemento linguistico, una scelta tra i possibili equivalenti offerti dalla lingua (asse della selezione), il testo letterario tiene anche conto, in queste scelte, delle relazioni sintagmatiche (asse della combinazione), curando gli effetti di ricorrenza, correlazione, contrapposizione. La rete di questi effetti interessa ogni elemento del testo, che appunto perciò costituisce una «struttura funzionale». Bella rivendicazione della globalità dello stile, risultato d’un impegno formale che investe ogni parte del testo. Restano però dubbi sulla natura un po’ nominalistica di questa funzione poetica, e sulla difficoltà di misurare la «quantità» della sua presenza nei testi (tanto più che anche secondo Jakobson gli effetti della funzione poetica si

Letteratura fanno sentire pure in testi non letterari). Con ragionamento vagamente tomistico, si è anche cercato (Marghescou) di definire la letteratura in funzione del suo richiamarsi alla letterarietà. Per una definizione di carattere estrinseco, si deve precisare intanto chi è l’arbitro dell’inclusione di un testo fra quelli letterari. L’arbitro è la communis opinio degli addetti, elaborata via via dai maîtres à penser, dalle correnti e movimenti letterari, dalle università e dalle accademie, dai salotti (quando erano autorevoli), dalle tradizioni e convenzioni sociali. Tra i mezzi per affermare i valori letterari di un periodo si possono ricordare le poetiche e le écritures via via dominanti, naturalmente come epifenomeni di ideologie, politiche e no. Tutti questi centri di elaborazione delle idee continuano a mutare i parametri di scelta, perciò fanno evolvere i principi di base per l’inclusione o l’esclusione dal novero di letterario. La storia della letteratura potrebbe risolversi appunto nella storia di questi mutamenti, che è anche storia della società. Quanto all’ambito attuale della letteratura, si può partire da osservazioni ovvie. Oltre ai testi orali, il repertorio letterario esclude in genere i testi relativi ad attività diverse dalla letteratura: testi scientifici, giuridici, religiosi ecc. Esclude inoltre quella che chiamiamo ora Trivialliteratur o «letteratura di consumo», compresi i bestseller, i romanzi gialli, la fantascienza, la letteratura per i ragazzi ecc. È ovvio che inclusioni ed esclusioni dipendono soltanto da scelte tradizionali o di gusto; è inevitabile che esse mutino in avvenire. Il sistema letterario è insomma in continuo movimento, anche per l’inclusione di nuove opere e l’abbandono di opere non più apprezzate. Nella visione della culturologia, l’assieme dei testi di una letteratura è un tesoro, depositato nei libri e nella memoria collettiva. Si può adottare la descrizione della cultura data dalla Scuola di Tartu, che, riferita alla letteratura, è forse ancora più stringente: «Da un punto di vista semiotico, la cultura può essere considerata come una gerarchia di sistemi semiotici particolari, come una somma di testi cui è collegato un insieme di funzioni, ovvero come un congegno che genera questi testi. Considerando una collettività come un individuo costruito in modo più complesso, la cultura può essere interpretata, in analogia con il meccanismo individuale della memoria, come 6351

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Letteratura

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un congegno collettivo per conservare ed elaborare informazione». La letteratura così abbozzata può esser vista secondo due prospettive. Secondo la prima, essa costituisce un tesoro, nel quale tra l’altro la cultura si riconosce: ogni cultura, per esempio, ha i suoi «libri di testo», che vengono additati come modelli, o almeno come paradigmi. Si noti che l’appartenenza al sistema non è solo decretata per motivi letterari (stile, metrica ecc.), ma anche in base alla rappresentatività. Le opere letterarie, in misura molto varia, rappresentano il mondo, sono «modelli del mondo»: riferirsi a questi modelli, per imitarli e riprodurli o per contestarli e abbatterli, è inevitabile per tutti quanti si appellano alla stessa memoria collettiva e intendono collaborare alla corrispondente letteratura. Col mutare del gusto questi modelli vengono intesi in modo diverso, ma continuano ad essere operanti sinché la cultura non ne decide la decadenza. Esistono poi meccanismi che operano l’ingresso nella letteratura di nuovi testi: basta qui averli ricordati. Tra i criteri di ordinamento dei testi letterari hanno un loro posto i «generi», siano essi accettati o negati (quando sono negati, il quadro delle opere si configura in modo nuovo). Tynjanov ha mostrato come il panorama dei generi cambi per salti e spostamenti, attraverso una vera lotta, in rapporto con i mutamenti della società, delle idee e del gusto, dando di volta in volta a un genere o sottogenere la funzione di guida, salvo poi sottrargliela più tardi. Così ci sono epoche in cui la letteratura è dominata dalla poesia, altre in cui è il romanzo a essere portatore di significati più importanti, e così via. I mutamenti rientrano in uno sforzo di reagire alla canonizzazione e alla sclerosi di generi e tecniche, anche ricorrendo ad ambiti culturali sino allora considerati extraletterari. La vita letteraria si presenta pertanto come concorrenza tra i vari generi (e modi, e stili), come una rete di differenziazioni e di convergenze, di gerarchie continuamente mutate, in seguito alla dominanza acquisita dall’uno o dall’altro genere. C. Segre

II. LETTERATURA E ARTE; ATTO E OPERA. – È opportuno innanzitutto chiedersi se siano identificabili i concetti di poesia e arte e se l’«unificazione letteraria» di cui si è parlato si compia sul fondamento dell’arte o non anche su quello di ulteriori determinazioni o strutture 6352

ugualmente costitutive così della poesia come di modi o forme della coscienza altri dalla poesia. Ora l’arte è certamente necessaria per il realizzarsi pieno e per l’incarnarsi in opera della poesia, ma non è più legata alla poesia né più necessaria a questa di quel che non lo sia al pensare filosofico, storiografico, scientifico, al pregare, al comunicare intenzionale. L’arte è stata necessaria perché la catartica contemplazione dell’umana esistenza sotto il dominio del fato o nell’orizzonte dell’infinito si facesse la tragedia dell’Edipo a Colono o la lirica dell’Infinito; ma è stata necessaria anche perché, non una contemplazione poetica, bensì un messaggio etico si facesse vivente nella concretezza di una vicenda e, come tale, capace di operare, nel dramma Nathan der Weise di Lessing; perché l’essenza della paideia ateniese diventasse «acquisto per sempre» nell’orazione che Tucidide riferisce come pronunciata da Pericle per i primi caduti della guerra peloponnesiaca; perché l’invocazione religiosa si concretasse in preghiere e riti liturgici. L’arte è il complesso di attività necessarie perché un atto poetico, religioso, filosofico, scientifico, comunicativo trovi la pienezza della propria incarnazione, compiendosi come linguaggio, traducendosi da atto in opera. Perché tale processo avvenga, occorre avvertire il valore intrinseco all’atto e che nasca, così, la volontà di farlo essere nella pienezza della sua realtà, in una forma che sottraendolo per quanto possibile alla distruzione del tempo, lo faccia ritrovabile da noi e da altri. Il processo artistico implica perciò innanzitutto il perfezionarsi dell’atto come se stesso, un ripiegarsi di questo sopra di sé, in modo da potersi sapere riflessivamente e dire. Fin dall’inizio l’atto (è inutile avvertire che il termine ha qui significato diverso da quello gentiliano), in quanto è (seppure inizialmente), risulta già in qualche modo ri-flesso, con-saputo, incarnato, detto, ma nel e per il processo artistico tutte queste determinazioni acquistano consistenza e potenza nuove, sicché l’atto, facendosi opera, non semplicemente «si estrinseca», bensì si fa. Certo esso esce così anche dall’interiorità non attingibile né interpretabile dall’altro per farsi appunto, attraverso un’adeguata incarnazione (che è quanto dire autorealizzazione), attingibile e interpretabile. L’arte richiede un complesso di attitudini e di abilità che si sarebbe tentati di designare con una sola parola: capacità linguistica o linguaggio. Sennonché,

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il termine linguaggio può sì, se si vuole, unitariamente designare quel processo di incarnazione, ma solo quando esso sia accompagnato dalla piena consapevolezza che altra cosa è il linguaggio in cui s’incarna una contemplazione poetica, altra quello in cui vive una speculazione filosofica. Certo tanto la parola di un canto di Leopardi quanto la parola di un’opera di Hegel sono linguaggio (compimento di un atto in opera – conferimento allo stesso dei caratteri di attingibilità, di interpretabilità ecc.), ma altra è la sostanza della parola poetica, altra quella della parola filosofica. In realtà quali attitudini e abilità richieda in concreto l’arte o, se ora si vuole, il linguaggio, non è determinabile se si ometta di precisare in servizio di quale specifica attività s’intende porla (se della poesia, della filosofia, della storiografia, di questa o di quella scienza ecc.), non solo, ma se non si precisi l’atto o per lo meno il tipo di atti di questa specifica attività al quale ci si riferisce. La capacità linguistica richiesta dal processo artistico implica virtù concretamente rappresentative o raffigurative? Poche, pochissime è evidentemente la risposta, se si pensa alla filosofia, perché, tranne negli esempi, di rado uno scrittore di cose filosofiche ha occasione di delineare immagini concrete. Moltissime, parrebbe essere la risposta, se si ha in mente la poesia: ma anche qui ci si deve subito correggere e ci si trova costretti a distinguere a seconda che si tratti di poesia attuantesi in opere di letteratura, di pittura, di scultura o in opere di architettura e di musica, a seconda che si tratti di letteratura, pittura, scultura figurativa o astratta. Per virtù dell’arte si stabilisce dunque un’unità profonda in una distinzione decisa. Quale che sia la natura (cioè il modo o la forma coscienziale) dell’atto con cui si ha da fare, l’arte sempre rappresenta un compimento dell’atto secondo la specifica legge del modo coscienziale cui questo si riconduce, sempre significa opera, corpo filtrato di una significazione interpretabile, discorso avente senso compiuto (anche se mai esaustivo) e, come tale, dignità di organismo in qualche maniera autonomo. Esigendo d’altra parte l’arte che l’atto sia pienamente se stesso, essa comporta che tale atto, facendosi opera, si purifichi, esca dallo stato di passione o di mito (cioè di indistinzione, di caos originario) specificandosi formalmente, ma vuole che in questa specificazione formale realizzi insieme la sua integralità umana. L’atto

Letteratura filosofico che si fa opera filosofica si controlla e si purifica nella sua filosoficità, scartando tentazioni liriche, edificanti, politiche ecc., ma nello stesso tempo avverte di doversi dire in modo che l’interna implicita fantasticità, eticità, religiosità operi realmente nella formale purità filosofica. Ecco perché il linguaggio filosofico è anche fantastico, emotivo, etico, religioso; ed ecco perché il linguaggio poetico è pur esso anche mitico e filosofico. Se a questo punto ci chiediamo per quali ragioni la Metafisica di Aristotele non può figurare in una storia della letteratura greca con lo stesso onore del Fedro o del Simposio di Platone, la risposta suona: per il fatto che il pensiero di Aristotele, certo là non meno potente di quello platonico, e forse neppure meno – ma solo diversamente – esistenziale, non s’è fatto in quel complesso di scritti opera. Quello di cui lamentiamo «letterariamente» l’assenza nella Metafisica, così come ci è pervenuta, non è l’«eleganza stilistica»: è qualcosa di intrinseco, e va cercato nel fatto che essa non risulta l’incarnazione, cioè la realizzazione, del pensiero dell’autore proprio come pensiero filosofico, ma solo un complesso di annotazioni alle quali resta tutt’al più affidato il ricordo o l’intravedimento e l’indicazione dell’opera in cui solo quel pensiero era o sarebbe stato pienamente se stesso. III. LETTERATURA ED ESSENZA DELLA POESIA; LA RADICE ESISTENZIALE DELLA LETTERATURA. – Con il concetto di arte come incarnazione o linguaggio siamo dunque rimandati a una delle strutture costitutive del realizzarsi così della poesia come dei modi diversi dalla poesia, e, come costitutiva dell’una e degli altri, stabilente tra quella e questi un’affinità. Sennonché l’arte non è l’unica struttura o determinazione della poesia e dei modi diversi dalla poesia, sicché attraverso la chiarificazione di essa, lungi dall’avere esaurito il discorso, ne siamo piuttosto all’inizio. Del resto, se arte significa incarnazione o linguaggio, bisogna convenire che il corpo è corpo solo nello spirito che lo penetra, che la parola è parola solo nella significazione. Attraverso la corporeità e il linguaggio siamo dunque rimandati allo spirito e al significato. Se così è, attraverso l’arte come incarnazione o linguaggio della poesia, della filosofia ecc., siamo rimandati alla poesia, alla filosofia ecc. incarnantisi nell’arte. Pertanto, a questo punto, è sull’essenza della poesia che va portato il discorso per vedere se proprio nel 6353

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Letteratura soggetto, nel nucleo e nell’orizzonte che le sono costitutivi non vada cercato quel quid che stabilisce l’affinità tra opere di poesia e opere religiose, filosofiche, storiografiche. Non essendo qui possibile sviluppare un adeguato discorso sulla poesia limitiamoci a sottolineare tre punti che sembrano essenziali per la sua interpretazione: 1) Il soggetto dell’esperienza poetica, come di ogni altra integrale esperienza umana, è il singolo, non l’individuo solipsistico, ma colui che esiste in solidarietà col mondo come complesso di altri uguali a lui o di esseri comunque dotati di una forma di coscienza, e si apre a uno spazio metamondano. L’esperienza poetica ha dunque come protagonista il singolo e si differenzia dalla religione, dalla filosofia, dalla comunicazione intenzionale solo per un diverso rapportarsi del singolo stesso allo spazio della trascendenza e per una conseguente diversa relazione col mondo. 2) Il singolo nel suo aprirsi al mondo e il mondo come raccoglientesi nel singolo hanno rilievo, nella poesia, come volontà allo stato di passione o di mito. Ma la volontà non è una sfera particolare della coscienza del singolo, contrapponibile alla sfera della teoreticità; è un attributo della coscienza in tutti i possibili modi o forme del suo determinarsi, o, detto altrimenti, è la coscienza considerata in uno dei suoi aspetti costitutivi. La volontà interessa la poesia, non come desiderio che razionalmente ed eticamente si controlla, si discrimina, si vuole per farsi azione, ma come desiderio in generale, desiderio che può volgere verso lo storicamente possibile come verso lo storicamente impossibile, verso lo strutturalmente possibile come verso lo strutturalmente impossibile, verso il moralmente positivo come verso il moralmente negativo, quello che positivo o negativo si trova a essere in una situazione particolare e quello che tale è in sé. 3) Accanto al momento esistenziale e volontaristico un terzo pare imprescindibile per accostarsi all’essenza della poesia: il catartico. La poesia è l’armonia interiore che nasce nello spirito di un singolo, quando le passioni che egli vive e partecipa, o quando il mondo che si raccoglie per così dire nella sua anima come tensione volitiva, si compongono in una contemplazione che assume virtù catartica per la Stimmung generantesi da un’intuizione metafisica (si pensi al fato nell’Edipo a Colono, alla provvidenza in Manzoni, al nulla eterno di Fo6354

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scolo, all’infinito in Leopardi, al tempo in tanta parte della lirica o del romanzo moderno) o da una prospettiva avente qualche segreta affinità con questa. È questa armonia interiore che, dicendosi, genera il ritmo, quel ritmo giustamente riconosciuto come l’essenza dell’arte in quanto incarnazione di poesia. Noi possiamo pensare un’arte (intendasi qui il termine sempre come incarnazione di poesia) figurativa o possiamo pensarne una astratta, un’arte cioè in cui sia in qualche modo pensabile – anche se estremamente pericolosa – la possibilità di determinare le passioni che vi hanno trovato presenza e liberazione e il tema catartico, e un’arte in cui questa possibilità appare pressoché disperata: non ci è dato comunque immaginare un’arte senza ritmo, né pensare il ritmo se non come realizzazione di armonia spirituale. L’interpretazione qui proposta o riproposta della catarsi potrà apparire soddisfacente o meno; ma, anche quando tale non apparisse, il motivo ermeneutico della catarsi resta in ogni caso il più profondo e il meno rinunciabile tra quelli che la storia dell’estetica ci offre per la penetrazione del segreto della poesia. Tenendo presenti questi momenti della poesia, risultano comprensibili le affinità che – nella differenziazione formale – esistono tra poesia, filosofia, religione, comunicazione e, di conseguenza, tra le corrispettive opere. Il soggetto è sempre il singolo, che è individuo e persona, storicamente determinato e universalmente umano, aperto al mondo e a ciò che trascende il mondo. Nella religione il singolo si apre al mondo come alla ecclesia degli esseri al pari di lui bisognosi di salvezza, e allo spazio della trascendenza nella forma dell’invocazione soterica. Nella filosofia cerca se quel mondo con cui è solidale, che è a lui problema come egli è problema a se stesso – perché costituito da esseri aventi in comune con lui l’impossibilità di riconoscere (o che sia riconosciuta) nella vicenda del loro esistere l’identità di reale e razionale – cerca se quel mondo abbia, nello spazio cui si apre, possibilità di essere interpretato in un significato in cui trovi risposta la domanda perché l’essere piuttosto che il nulla. Nella comunicazione ancora l’uomo ha da fare con l’orizzonte metamondano, perché solo in quanto si rapporta ad esso e nel modo con cui si rapporta ad esso si determina ultimamente la realtà che l’altro rappresenta per lui, lo spirito e il fine del rapporto. Una religione e una filosofia è presente (se non altro nella

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forma dell’assenza avvertita come mancanza, inadeguatezza, rimorso) in ogni rapporto con l’altro: dal rapporto commerciale a quello donativo e parenetico, a quello dialogico. Poiché è sempre il singolo, nel suo con-essere col mondo e nel suo aprirsi allo spazio della trascendenza, il soggetto della poesia come della religione, della filosofia, della comunicazione (ogni altro modo di determinarsi operativo dell’uomo – matematico, scientifico, tecnico, politico – non è mai reale come puramente se stesso, ma solo in quanto integrato in un atto pienamente umano, perciò religiosamente, filosoficamente, eticamente filtrato); poiché una corrispondenza evidente intercorre tra catarsi poetica, invocazione religiosa e interpretazione filosofica, si capisce come un’affinità sostanziale sia stata sempre avvertita tra le opere poetiche, filosofiche, religiose. Per quanto visionaria o anacronistica oggi possa suonare l’affermazione in un clima di diffuso empirismo estetico, è nella radice esistenziale che va cercata la soluzione del problema della letteratura. Cercarla in quella radice vuol dire rendersi conto della «serietà» della poesia, salvaguardare la filosofia dell’arte e la critica dal cercarne e avvilirne la sostanza nei «pregi estetici» attraverso le «analisi estetiche»; significa, ricongiungersi non a un anacronistico romanticismo, ma ripensare pensieri fondamentali di Aristotele, di Vico, di Kant, di Hamann, di Schopenhauer, di Nietzsche, di Croce, di Heidegger. IV. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE. – Il termine letteratura, per i significati che è venuto assumendo, riporta non a uno, ma a più problemi. Il primo è innanzitutto quello dell’unità e della distinzione delle arti. Quantunque una consapevolezza di tale problema, e suggestioni per il suo approfondimento, siano rinvenibili già nei due primi classici dell’estetica, in Platone e in Aristotele, esso viene tematizzato con più esplicita consapevolezza nel Settecento, soprattutto nel Laokoon oder über die Grenzen der Malerei und Poesie (1766) di G.E. Lessing. Una trattazione non più incidentale o frammentaria se ne trova da allora pressoché in tutti i pensatori che hanno sistematicamente trattato dell’arte: in Kant, in Schelling, in Hegel, in Schleiermacher, in Schopenhauer, giù giù fino ai più recenti. Il secondo problema, quello di cui si è fondamentalmente trattato qui, ha trovato la sua formulazione più esplicita, in connessione con

Letteratura la parola letteratura, in B. Croce, soprattutto nel volume La poesia (1936). Esso è imprescindibile per ogni storiografia, non puramente empirica, ma metodologicamente consapevole, della letteratura e dell’arte in genere. È per questo che una trattazione se ne può trovare in opere metodologiche quali la Theory of Literature di R. Wellek e A. Warren o Das sprachliche Kunstwerk di W. Kayser. L’approfondimento filosofico, pur potendo prendere utilmente l’avvio da opere di questo tipo, non può non passare poi attraverso la meditazione dei testi fondamentali – da Platone a Schleiermacher, da Hegel a Croce e a Heidegger – nei quali si ragiona dell’arte e dei suoi rapporti con la filosofia, la religione, la storia. Non resta, bibliograficamente, che rimandare a una storia generale dell’estetica. A. Caracciolo BIBL.: J.N. TYNJANOV, Archaisty i novatory, Moskva 1929, tr. it. di S. Leone, Avanguardia e tradizione, Bari 1968; AA.VV., Thèses présentées au Premier Congrès des Philologues Slaves, Prague 1929, tr. it. di S. Pautasso, Tesi pubblicate sul primo numero dei “Travaux du Cercle linguistique de Prague” del 1929, ed. it. a cura di E. Garroni - S. Pautasso, Napoli 1979; s. v. Littera, in W. von WARTBURG, Französisches etymologisches Wörterbuch, vol. V, Basel 1950; s. v. Letteratura, letterato, letterario, in C. BATTISTI - G. ALESSIO, Dizionario etimologico italiano, Firenze 1952; M. FUBINI, Critica e poesia, Bari 1956; W. KAYSER, Das sprachliche Kunstwerk. Eine Einführung in die Literaturwissenschaft, Bern 19564 (con bibl.); H. OPPEL, Methodenlehre der Literaturwissenschaft, in Deutsche Philologie im Aufriss, a cura di W. Stammler, vol. I, Berlin 1957; s. v. Littérature, littérateur, littéraire, in P. ROBERT, Dictionnaire alphabétique et analogique de la langue française, vol. IV, Paris 1959; s. v. Literatur, in F. KLUGE, Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache, a cura di W. Mitzka, Berlin 196018; s. v. Literature, Literate, in The Oxford English Dictionary, Oxford 19612; W. BINNI, Poetica, critica e storia letteraria, Torino 1963; R. JAKOBSON, Essais de linguistique générale, Paris 1963, tr. it. di L. Heilmann - L. Grassi, Saggi di linguistica generale, a cura di L. Heilmann, Milano 1966; M. MARGHESCOU, Le concept de littérarité, Den Haag - Paris 1974; C. PREVIGNANO (a cura di), La semiotica nei Paesi slavi, Milano 1979 (in particolare il saggio di Ivanov, ibi, pp. 194-220). ➨ ARTE E LETTERATURA, SOCIOLOGIA DELLA; ESTETICA; FILOSOFIA, GENERE LETTERARIO DELLA; GENERI ARTISTICI E LETTERARI; LETTERATURA PER RAGAZZI; ORALITÀ ; PAROLA ; POESIA E PROSA ; RETORICA ; SCRITTURA; SEMIOTICA; SOCIOLOGIA DELL’ARTE E DELLA LETTERATURA; STILE; TESTO.

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Letteratura clandestina LETTERATURA CLANDESTINA. – Per letLetteratura clandestina teratura clandestina si intende quel corpus di scritti eterogenei (filosofici, licenziosi, ermetici), per lo più anonimi, che circolarono a partire XVI secolo fino alle Lumières, quando alcuni di essi furono pubblicati dai philosophes. Oggetto di studio dal 1912 con la scoperta da parte di G. Lanson di fondi di clandestina nelle biblioteche francesi, questo fiume sotterraneo scorre parallelo a quello della cultura ufficiale dell’Âge classique trasmettendo e rielaborando temi e motivi radicali di critica alle metafisiche spiritualistiche, alle credenze e ai dogmi religiosi in una sorta di fil rouge che, dal Rinascimento e attraverso il libertinage, approda all’Illuminismo. Fenomeno sfaccettato, la letteratura clandestina coinvolge al tempo stesso la filosofia, la storia delle idee, ma anche la storia dell’editoria e della circolazione dei testi. Spesso i documenti clandestini circolano in versione sia manoscritta sia a stampa, rendendo complesso lo studio della genesi dei testi: lungi dall’essere errori o infedeltà all’originale, le numerose varianti tra diverse copie riflettono il lavoro collettivo di un pensiero in continua evoluzione. A partire dal pioneristico studio di I.O. Wade del 1938, il lavoro di reperimento di tutti i manoscritti clandestini prosegue e si sono susseguiti nuovi inventari (i più recenti di M. Benítez nel 1996 e 2003) che mirano ad arricchire l’elenco dei trattati clandestini e a completare la localizzazione delle varie copie (a ora circa 200 testi, cui corrispondono quasi 2000 copie disseminate in biblioteche pubbliche e private). Caratterizzati dalla loro modalità di diffusione, questi scritti si contraddistinguono anche per un determinato stile di scrittura: anziché vere e proprie opere originali paiono piuttosto repertori di argomenti anti-cristiani, tratti da un fondo comune che viene riprodotto per assicurarne la divulgazione, attraverso una «riscrittura» del testo (secondo diverse modalità: per ricomposizione, per contrazione, per aggregazione...). Quanto ai contenuti la letteratura filosofica clandestina, pur nella sua varietà, ha vocazione essenzialmente polemica: ciò che accomuna i vari testi è, infatti, la critica delle dottrine e dei valori comunemente accettati e della religione cristiana in particolare. La portata anticristiana di tali scritti è evidente già nel Theophrastus Redivivus (1659; a cura di G. Canziani - G. Paganini, Firenze 1981-82, 2 voll.), ve6356

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ra e propria lezione antologica di ateismo e materialismo tratta dagli autori antichi e rinascimentali. Anche i Quatrains du déiste (il cui titolo originale è L’Anti-bigot ou le faux devotieux, in A. Adam, Les libertins au XVIIe siècle, Paris 1986, pp. 89-109) rappresentano un documento rilevante della circolazione di tesi clandestine nel Seicento: vi si trovano, infatti, la tesi della religione come «utile invenzione» e la confutazione dell’immagine tradizionale del Dio del «vulgaire ignorant», cui sostituire il Dio dei filosofi e un credo deista emendato dal culto e dalle credenze popolari. Tra la fine del XVII secolo e il XVIII (la maggior parte dei manoscritti circola tra il 1690 e il 1760), la letteratura clandestina rispecchia il clima intellettuale segnato dalla vivace discussione delle «nuove» filosofie di Hobbes, Descartes, Malebranche, Spinoza e Locke, oltre che dallo scetticismo di Bayle. I primi trattati clandestini del Settecento prendono a modello i sistemi costruiti dai grandi filosofi del grand siècle per piegarli in senso naturalistico e materialista. Un esempio di naturalismo filosofico si riscontra nei Doutes sur la religion proposés à Mrs les docteurs en Sorbonne di Bonaventure de Fourcroy (pubblicato in M. Benítez, L’oeuvre libertine de Bonaventure de Fourcroy, Paris 2005). Oltre a riproporre le argomentazioni tipiche dell’esame razionale delle credenze religiose, Fourcroy sostiene nella pars construens una concezione apertamente materialistica per approdare infine a una sorta di religione della natura, fondata sulla ragione. L’influsso della filosofia di Hobbes – mediato da temi propri del libertinage – emerge chiaramente nel breve De origine boni et mali ex doctrina Hobbesii (in G. Canziani - W. Schröder - F. Socas, Cymbalum mundi sive Symbolum sapientiae, Milano 2000). Come in Hobbes, la legge – e la correlata distinzione tra bene e male – ha origine a partire dal conflitto, tuttavia la ripresa dei motivi libertini della relatività dei valori e della positività della libertà naturale (di contro all’artificio delle leges) conduce l’autore del manoscritto a una visione pressoché anarchica, ben lontana dalle posizioni espresse dal Leviathan. Ancor più determinante è l’influenza di Spinoza – letto in senso radicale e antimetafisico – le cui opere divengono oggetto di parecchie traduzioni. La Religion du Chrétien conduit par la Raison Éternelle di Yves de Vallone ripropone, ad esempio, un panteismo naturalista

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d’ascendenza spinoziana, che si palesa nelle sezioni dedicate all’autorità divina e all’analisi delle Scritture. Dalla radicalizzazione delle tesi del Tractatus derivano la figura del profeta quale «oratore» – la cui visione antropomorfica produce l’immagine biblica di un Dio passionale – e la concezione della profezia come errore prodotto in forza dell’immaginazione. I testi più significativi dell’utilizzo combinato delle filosofie di Hobbes e Spinoza in direzione decisamente anticristiana sono L’Esprit de Monsieur Benoît de Spinoza e il Traité des trois imposteurs (a cura di F. Charles-Daubert, Oxford 1999). L’Esprit fonde abilmente le dottrine spinoziane e hobbesiane sul significato antropologico delle credenze religiose con quelle libertine sull’origine della religione in modo da escludere non solo la possibilità della rivelazione divina, ma anche quel valore morale e pedagogico che pur il Tractatus spinoziano concedeva all’insegnamento biblico. La concezione della divinità che soggiace all’Esprit si ispira all’Ethica di Spinoza, interpretata però alla luce della hobbesiana equivalenza di sostanza e corpo: il Deus sive Natura si fa così, nell’Esprit, materiale e corporeo. Notevole è inoltre la presenza del cartesianesimo nei clandestina e in particolar modo della filosofia di Malebranche, variamente trasfigurata fino a farne un temibile strumento di critica anticristiana. È il caso dell’opera di Robert Challe: le Difficultés sur la religion proposées au Père Malebranche (edizione critica di F. Deloffre e F. Moureau, Genève 2000, composta intorno al 1710 e pubblicata in versione ampiamente ridotta nel 1768 da d’Holbach e Naigeon col titolo di Le militaire philosophe). Mentre il principio malebranchiano, per cui la ragione divina è direttamente accessibile alla ragione umana, fonda un razionalismo dogmatico che svela le contraddizioni presenti nelle religioni rivelate, la tesi della semplicità delle vie con cui Dio opera induce a svilire tutte le religioni come «fattizie», fino alla demolizione completa della teologia cristiana. Di contro Challe propone una religione naturale metafisicamente fondata sulle «lumières naturelles». Dal concetto di ragione malebranchiano muove anche l’Examen de la religion di Du Marsais (circa 1705, ed. critica a cura di G. Mori, Oxford 1998). La necessità di un esame razionale delle molteplici religioni, al fine di individuare la vera, termina a un netto rifiuto di ogni religione rivelata e all’affermazione della religione

Letteratura clandestina naturale come la sola conforme alla ragione universale, la cui superiorità è stabilita attraverso i motivi del deismo radicale. A partire dall’occasionalismo di Malebranche, le Réflexions morales et métaphysiques sur les religions et sur les connoissances de l’homme (1715) di Jacques Delaube propongono invece un panteismo spiritualista. A una posizione atea approda il Mémoire di Jean Meslier (in J. Deprun - R. Desné - A. Soboul [a cura di], Oeuvres complètes, Paris 1971, vol. II), «malebranchiste d’“extrême gauche”», che dalla trasformazione degli argomenti della metafisica postcartesiana perviene a un materialismo ancora intriso di metafisica, attribuendo alla materia tutte le caratteristiche – semplicità, unità, infinità, perfezione – proprie della divinità. La letteratura clandestina settecentesca si nutre poi non solo delle opere dei deisti inglesi, ma anche del pensiero lockiano riletto in chiave deistica, facendo di Locke l’ispiratore di Toland, Collins e Tindal. Tradotti in francese, questi autori vengono ripensati in Francia e in Olanda alla luce del razionalismo bayliano che ne costituisce la griglia interpretativa. Tra i temi principali spiccano il richiamo al valore della ragione anche in ambito religioso, il rifiuto di ogni imposizione dottrinale, la giustificazione della tolleranza e la libertà religiosa. Se già le Réflexions di Delaube ripropongono la prova lockiana dell’esistenza di Dio, è però con la Lettre de Thrasybule à Leucippe (redatta tra il 1720-30 e attribuita a N. Fréret, ed. critica a cura di S. Landucci, Firenze 1986) che si assiste alla saldatura di empirismo e ateismo. Il confronto con la psicologia d’origine lockiana, ma anche con le impostazioni di Gassendi e Hobbes, fa da base all’aperta negazione dell’esistenza di Dio. Anziché proporre a sua volta delle «ipotesi» che vadano illusoriamente a colmare le lacune del sapere umano, Fréret rinuncia alla costruzione di un sistema, accettando così quell’«ignoranza modesta» che è propria di una ragione finita. A una ragione antidogmatica e conscia dei propri limiti fanno appello anche altri manoscritti clandestini che si richiamano a quella tradizione scettica che, da Montaigne a Bayle, era ancora ben presente agli inizi del XVIII secolo. Attraverso otto «dubbi» l’anonimo autore dei Doutes des pyrrhoniens (composti tra il 1696 e il 1711) riconduce le religioni positive a «invenzioni umane» per volgersi verso una religione civile in bilico tra deismo formale e ve6357

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Letteratura computazionale lato ateismo. Una sintesi ancor più marcata di scetticismo e spinozismo emerge nel Symbolum sapientiae (redatto tra il 1696 e il 1720), il cui autore professa l’epoché scettica per attenersi a una posizione di agnosticismo critico («né negare, né credere Dio») nella netta contrapposizione di sapientia e religio. Radicale è invece l’interpretazione del dubbio che compare nell’Ars nihil credendi (risalente probabilmente al primo decennio del Settecento). Oltre alla critica demistificante che rivolge all’idea di Dio – fino a farne una «produzione gonfiata della ragione» – l’anonimo autore, spingendosi oltre la semplice sospensione, rivendica il valore etico e razionale del dubbio contro il pari pascaliano. Dagli anni quaranta del Settecento, in pieno secolo dei Lumi, la letteratura clandestina conobbe infine una grande fioritura di edizioni – si pensi alle pubblicazioni da parte di Voltaire e D’Holbach nel decennio 1760-70 – segnando così il passaggio dal «secret des clandestins» alla «propagande voltairienne». E. Rapetti BIBL.: G. LANSON, Questions diverses sur l’histoire de l’esprit philosophique en France avant 1750, in «Révue d’Histoire Littéraire de la France», 19 (1912), pp. 129, 293-317; I.O. WADE, The Clandestine Organisation and Diffusion of Philosophic Ideas in France from 1700 to 1750, Princeton 1938, New York 1967; J.S. SPINK, French Free-Thought from Gassendi to Voltaire, London 1960; T. GREGORY - G. PAGANINI - G. CANZIANI - et al. (a cura di), Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, Firenze 1981; O. BLOCH, Le Matérialisme du XVIIIe siècle et la littérature clandestine, Paris 1982; R.H. POPKIN - A. VANDERJAGT (a cura di), Scepticism and Irreligion in the Seventeenth and Eighteenth Centuries, Leiden - New York - Köln 1993; G. CANZIANI (a cura di), Filosofia e religione nella letteratura clandestina (secoli XVII e XVIII), Milano 1994; M. BENÍTEZ, La Face cachée des Lumières. Recherches sur les manuscrits philosophiques clandestins de l’Âge classique, Oxford 1995 (edizione spagnola con l’aggiornamento dell’inventario dei manoscritti: La cara oculta de las Luces, Valencia 2003); R. DARNTON, The Corpus of Clandestine Literature in France, 1769-1789, New York - London 1995; A. MCKENNA, Les manuscrits philosophiques clandestins de l’Age classique: bilan et perspectives des recherches, in «XVIIe Siècle», 192 (1996), pp. 523-535; A. MCKENNA - A. MOTHU (a cura di), La Littérature clandestine. «Actes du colloque de Saint-Etienne, octobre 1993», Oxford-Paris 1997; M. BENÍTEZ - A. MCKENNA et al. (a cura di), Materia actuosa. Antiquité, Âge classique, Lumières, Paris 2000; G. ARTIGAS-MENANT, Re-

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cherches sur les manuscrits philosophiques clandestins. Du secret des clandestins à la propagande voltairienne, Paris 2001; G. PAGANINI - M. BENÍTEZ - J. DYBUKOWSKI (a cura di), Scepticisme, clandestinité et libre pensée, Paris 2002; S. CHARLES - M.-A. BERNIER (a cura di), Scepticisme et modernité, Saint-Étienne 2005; G. MORI - A. MOTHU (a cura di), Philosophes sans Dieu. Textes athées clandestins du XVIIIe siècle, Paris 2005; G. PAGANINI, Les philosophies clandestines à l’âge classique, Paris 2005; L. BOVE - T. DAGRON - C. SECRETAN (a cura di), La Transformation philosophique entre 1650-et 1750: les Lumières radicales, Saint-Étienne 2006. Si vedano inoltre la rivista «La Lettre clandestine: Bulletin d’information sur la littérature philosophique clandestine à l’âge classique», 1992 ss., diretta da O. Bloch - A. McKenna, e la serie «Libertinage et philosophie au XVIIe siècle», diretta da McKenna - P.F. Moreau. Vari sono i centri di studio che si occupano di letteratura clandestina: il «Centro Studi del Pensiero Filosofico del ‘500 e ‘600», che annovera tra i suoi progetti scientifici quello su I manoscritti clandestini e le loro fonti. Ricerche e edizioni di testi, e il «Centre d’étude de la langue et de la littérature françaises des XVIIe et XVIIIe siècles», con un’équipe diretta da G. Artigas-Menant e volta all’inventario dei manoscritti filosofici clandestini. Tra le collezioni specializzate si segnalano: «Libre pensée et littérature clandestine», diretta da A. McKenna, presso l’editore parigino Champion e «Philosophische Clandestina der deutschen Aufklärung», diretta da W. Schröder, presso l’editore Frommann di Stoccarda. ➨ LIBERTINI; LIBERTINISMO; THEOPHRASTUS REDIVIVUS.

LETTERATURA COMPUTAZIONALE. – Il Letteratura computazionale termine «letteratura» si riferisce, in questo caso, a quei testi che rappresentano direttamente o descrivono indirettamente il progresso della storia del pensiero linguistico computazionale contemporaneo e del trattamento del linguaggio naturale, a partire dal 1956, anno di fondazione della disciplina di «intelligenza artificiale». Per «letteratura computazionale» si intendono quei testi scientifici appartenenti a varie tipologie che, trattando temi congrui rispetto all’area computazionale, presentano comunque un valore aggiunto di natura artistica. Come genere letterario a sé, risulta fondamentale per la definizione evidenziare quelle specifiche tecniche compositive che caratterizzano i testi che ne fanno parte in modo da delineare un corpus sistematico che formi una vera e propria tradizione di letteratura computazionale. Ciò avviene sulla base dell’identifica-

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zione di caratteristiche stilistiche pregnanti e uniche, di principi lessicali distintivi rigorosissimi, algoritmicamente descrivibili e facilmente identificabili, ritrascrivibili e ricodificabili secondo processi di parafrasi. Si rileva innanzitutto un’estetica computazionale emergente nelle particolarità compositive, nel forte rapporto semantico stabilito fra contenitore, lineare o ipertestuale, e contenuto, multimediale o multimodale. L’esemplarità di un corpus sistematico di letteratura computazionale si fonda sul patrimonio degli scritti di Graziella Tonfoni, iniziatrice di un vero e proprio genere letterario computazionale italiano, ove il termine stesso «computazionale» si caratterizza per un rigore terminologico basato su scelte lessicali precise, parametrizzabili e quantificabili, per una precisione stilistica formalizzabile, per l’alta densità informativa, per la compressione, la complessità e la lunga tenuta garantita dalla possibilità di una continua reinterpretazione. Attraverso collegamenti non solo lineari o planari, ma n-dimensionali, su più livelli, diventa possibile scrivere in maniera olografica. Grazie alle competenze di linguista e di intelligenza artificiale, Tonfoni ha coniugato le risorse di metafore e analogie con quelle di una comunicazione multimediale, portando alle estreme conseguenze la sua metodologia, detta CPPTRS , ovvero Communicative Positioning Program-Text Representation Systems (1989-1994), che ha lo scopo di rendere possibile la rappresentazione visiva delle intenzioni comunicative e delle varianti tipologiche del testo mediante la proposta di schemi che rendono possibile il disegno tecnico di quelle interazioni e dinamiche comunicative che emergono fra scrittore e lettore di un dato testo. Da una prima teoria della compressione del testo è poi derivata una successiva teoria destinata agli operatori specializzati, i cui riferimenti teorici e metodologici sono quelli della fisica. La resa interpretativa totale di un testo avviene con realizzazioni grafiche che accompagnano la letteratura computazionale sul piano figurativo, dove si vengono a identificare molteplici linee interpretative parallelamente attive nello stesso testo visivo che presenta altrettanti punti di vista e percorsi interpretativi. Una caratteristica fondamentale della letteratura computazionale risulta ovviamente la sua intraducibilità automatica compensata dalla sua traducibilità incrementale ovvero per di-

Leucippo versi e successivi gradi di approssimazione, che implicano processi di chiosatura e di parafrasi del testo mediante la messa a punto di complessi apparati critici e paratestuali. Lo stile postmoderno di Tonfoni, definibile solo superficialmente come eclettico, costituisce un unicum nella linguistica postchomskiana e nella storia della letteratura italiana successiva a Gadda e a Calvino, in quanto risultante da una militanza scientifica e letteraria, e quindi definibile solo transdisciplinariamente. A. Battistini BIBL.: M. MINSKY, The Society of Mind, New York 198586; G. TONFONI, La Metodologia CPP-TRS per l’interazione uomo-macchina, in «Automazione Energia Informazione», 81 (1994), 6, pp. 69-74; G. TONFONI, Modelli di elaborazione dei testi e progettazione architettonica della struttura testuale, in AA.VV., Studi Orientali e Linguistici, vol. VI: Miscellanea in memoria di Luigi Rosiello, Bologna 1996, pp. 291-313; G. TONFONI, La traduzione come parafrasi testuale, Milano 2000; G. TONFONI, Visualization of Textual Structures, in M. YAZDANI - P. BARKER (a cura di), Iconic Communication, Bristol 2000, pp. 92-110; G. TONFONI, Dalla traduzione automatica alla info-mediazione morbida ed incrementale, in «Media 2000», 22 (2004), 219, pp. 44-45; G. TONFONI, CTML: A Mark Up Language for Holographic Representation of Document Based Knowledge, in «Chaos and Complexity Letters», 1 (2005), 1, pp. 93-118.

LEUCIPPO (Leuvkippo"). – Filosofo greco, seLeucippo condo la tradizione «il primo a porre come principi delle cose gli atomi» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 30; H. Diels - W. Kranz [a cura di], Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1961-64, 67 A 1). È una delle più oscure e incerte figure della filosofia greca; di lui infatti non solamente non si conoscono con sicurezza il luogo e l’anno della nascita, le vicende della vita e gli scritti, ma perfino l’esistenza ne è stata spesso posta in dubbio e, a volte, recisamente negata. Nacque probabilmente a Mileto, nella prima metà del V secolo a. C., sebbene le fonti dossografiche indichino anche Elea e Abdera come città d’origine (Diogene Laerzio, op. cit., IX, 30; Simplicio, Fisica, 28, 4; ma, si è osservato, che le località menzionate sono, verosimilmente, «simply projections from the philosophy» di Leucippo, tenuto conto dei suoi rapporti con il naturalismo milesio e l’eleatismo, e dell’influenza che esercitò su Democrito: W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy, vol. II, Cambridge 1980 [1965], p. 384). Lasciata Mile6359

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Leucippo to a causa dei rivolgimenti politici del 450-49, Leucippo si sarebbe trasferito a Elea e, infine, ad Abdera, in Tracia, dove conobbe ed ebbe come discepolo Democrito. Fonti antiche attestano che durante il soggiorno nella località della Magna Grecia fu alla scuola di Zenone, se non di Parmenide. Un’indicazione di qualche utilità per la cronologia di Leucippo si desume dal fatto che il pensiero di Diogene d’Apollonia, che accoglie il punto di vista dell’atomismo circa l’omogeneità materiale dei corpi e l’esistenza del vuoto (Simplicio, op. cit., 21, 5; cfr. W.K.C. Guthrie, op. cit., pp. 366-368), è oggetto di parodia nelle Nuvole di Aristofane, rappresentate nel 423. Prima di questa data, dunque, gli scritti di Leucippo dovevano essere già diffusi. Tali dati, tuttavia, acquistano significato a condizione che sia risolta positivamente la «questione» cruciale dell’esistenza o meno di Leucippo. Le ragioni avverse che la storiografia moderna ha avanzato in merito possono essere così riassunte: in primo luogo, le fonti antiche, spesso, non fanno distinzione fra il pensiero di Leucippo e le teorie «fisiche» di Democrito; d’altra parte, alcuni autori antichi, in modo esplicito e radicale, hanno negato l’esistenza del primo atomista: Diogene Laerzio, ad es., riporta la notizia che tanto Epicuro «quanto Ermarco affermano che non è mai esistito un Leucippo filosofo» (Vite dei filosofi, X, 13; H. Diels - W. Kranz [a cura di], op. cit., 67 A 2). A tali argomenti tentò di rispondere Hermann Diels, interpretando la mancata distinzione delle persone e delle dottrine come effetto dell’avvenuto allestimento, nel IV secolo, di un unico corpus democriteum, nel quale gli scritti di Leucippo si erano confusi con quelli dello scolaro più famoso. L’ipotesi spiegherebbe, per un verso, perché Aristotele e Teofrasto mantengano ancora separate le figure dei due filosofi, prima che la riunione degli scritti ne sfumasse i rispettivi profili; e, dall’altro, aiuta a capire il motivo per cui, nel «catalogo» di Trasillo, il Grande ordinamento del mondo (Mevga" diavkosmo") figuri quale opera di Democrito, mentre Teofrasto lo assegna a Leucippo (cfr. H. Diels, op. cit., 67 B 2 n.). Quanto all’affermazione di Epicuro, si è fatto presente che essa non pone affatto in questione l’esistenza del filosofo, ma piuttosto l’importanza del suo pensiero; tanto è vero che lo stesso Epicuro, polemizzando acremente con Nausifane e la sua scuola, ricorda coloro che studia6360

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no secondo i principi di Democrito e di Leucippo (H. Diels - W. Kranz [a cura di], op. cit., 75 A 7; V.E. Alfieri, Gli atomisti, Bari 1936, pp. 1-39, qui p. 9, n. 27; cfr. infine V.E. Alfieri, Atomos Idea, Galatina 19792 [Firenze 1953], che precisa le rispettive cronologie). Oltre al Grande ordinamento, Leucippo avrebbe scritto un’opera Sull’intelletto, da cui è tratto il frammento più noto: «Niente accade a caso, ma tutto secondo ragione e necessità» («oujde;n crh'ma mavthn givgnetai, ajlla; pavnta ejk lovgou te kai; uJp’ajnavgkh"»: Aezio, Placita, I, 25, 4; in H. Diels - W. Kranz [a cura di], op. cit., 67 B 2): in realtà, l’attribuzione non è sicura; anzi, per ragioni cronologiche, lo scritto Sull’intelletto va ascritto a Democrito, ed è probabile che contenesse una critica della dottrina di Anassagora sul principio ordinatore dell’universo. In ogni caso, pur ammessa l’esistenza effettiva di Leucippo, non riesce facile determinare quale ne sia stato il contributo all’elaborazione della teoria atomistica nel suo complesso; per quanto sia ragionevole congetturare che a lui risalgano le linee essenziali della cosmologia che Diogene Laerzio riferisce. Alla luce di quanto si può desumere dal Timeo platonico, infatti, essa pare riflettere motivi caratteristici della «scuola di Mileto»; per cui è probabile che vi si trovino tracce del momento originario dell’atomismo antico. Secondo l’interpretazione abituale, Leucippo, come i contemporanei Empedocle e Anassagora, avrebbe cercato di risolvere le obiezioni sollevate dall’eleatismo nei confronti della «scienza» della natura; senza utilizzare, peraltro, i dati qualitativi ricavabili dall’esperienza sensibile più immediata, al contrario di quanto avviene negli altri due sistemi «pluralisti». È vero, infatti, che l’atomismo affronta un comune problema di fondo, che consiste nel ricercare «la via di ragionamenti, i quali, dando una spiegazione in accordo con la percezione sensibile», non conducano «a negare né la generazione né la distruzione né il movimento né la molteplicità delle cose» (Aristotele, Gen. et corr., I, 8, 325 a 23; H. Diels - W. Kranz [a cura di], op. cit., 67 A 7); e, tuttavia, il modello atomistico ha profilo teorico peculiare perché, per un verso, una volta dismessa l’indistinzione semantica propria della concezione eleatica dell’essere, pretende di definire in modo più accurato la natura di «ciò che è» realmente; e, dall’altro, perché interpreta il concetto di «essere» come equivalente alla realtà fisica del «corpo» e del «pieno». Muo-

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vendo da tali premesse, l’atomismo conclude che il «non essere» esiste non meno dell’«essere»: quello che la Scuola di Elea considera il «nome» per eccellenza, non designa affatto l’essente in generale, ma solamente «ciò che è pieno»; in questo modo, l’espressione «non essere» non denota assurdamente il nulla, ma fa riferimento all’esistenza del «vuoto» (Aristotele, Metaph., I, 4, 985 b 4 ; Simplicio, Fisica, 28, 4; H. Diels - W. Kranz [a cura di], op. cit., 67 A 6, 8). In conclusione, «pieno» e «vuoto» sono i principi primi delle cose, a pari titolo necessari per spiegare razionalmente la molteplicità delle cose e il loro movimento. E la natura viene interpretata come insieme infinito di corpi solidi e indivisibili (a[tomoi, cfr. Simplicio, Fisica, 36, 1; H. Diels - W. Kranz [a cura di], op. cit., 67 A 14), che il vuoto mantiene separati. In questo senso, l’atomismo recupera il tema di fondo del pluralismo monadico dei pitagorici, ma evitando le assurdità che, secondo Zenone di Elea, discendono dall’ipotesi della divisibilità dell’essere; e senza che la rappresentazione dei «corpi primi» che si muovono nello spazio contraddica alle proprietà che li contraddistingue, l’indistruttibilità e l’inalterabilità. Gli atomi, infiniti di numero, lo sono anche per le variazioni di «forma», o «grandezza», che la materia assume indefinitamente (Aristotele, Metaph., I, 4, 985 b 4; H. Diels - W. Kranz [a cura di], op. cit., 67 A 6); e poiché il «vuoto» non fa parte della natura dell’atomo, la sua scomposizione non è logicamente pensabile, oltre che essere fisicamente esclusa a causa della piccolezza di ciascun corpo semplice (Aristotele, Gen. et corr., 1, 8, 325 a 23; H. Diels - W. Kranz [a cura di], op. cit., 67 A 7). Spostandosi continuamente nel «grande vuoto» che è lo spazio universo (Simplicio, In Aristotelis de caelo commentaria, Berolini 1894, p. 242, riga 15 ; Aristotele, De caelo, III, 2, 300 b 8; H. Diels - W. Kranz [a cura di], op. cit., 67 A 14, 16), gli atomi si scontrano e si connettono in infiniti modi, danno origine a una pluralità sterminata di mondi, senza che una legge diversa dalla quantitativa e meccanica presieda alla successione degli eventi: ogni altro modo di vedere le cose, sarebbe semplice «opinione» (dovxa), che in nessun modo può contrapporsi alla verità della spiegazione razionale e «scientifica» (Aezio, Placita, IV, 9, 8; H. Diels W. Kranz [a cura di], op. cit., 67 A 32;). Allorché

Leucippo un gran numero di corpi elementari si raduna «mediante una netta separazione dallo spazio infinito», dal loro urto reciproco scaturisce un movimento vorticoso che li coinvolge tutti: in tal modo, ha origine una delle infinite formazioni cosmiche che, in serie parallele e seguendo processi similari, si riproducono ciclicamente e senza limite di tempo nell’universo. Come effetto della separazione degli atomi che il vortice ha provocato, si forma, infatti, un «cosmo»: al centro del medesimo si muove circolarmente la terra che ha forma di cilindro ed è composta dagli elementi più pesanti; alla periferia, si distende «una specie di membrana che contiene entro di sé corpi d’ogni genere». Poiché anch’essa si muove in senso rotatorio, i corpi da essa trascinati e che dapprima sono umidi e melmosi, si disseccano e quindi si incendiano per la velocità del movimento. Così si formano gli astri; e «l’orbita del sole è la più esterna, quella della luna è la più vicina alla terra, mentre quelle dei rimanenti astri sono intermedie tra queste» (Diogene Laerzio, op. cit., IX, 33; H. Diels - W. Kranz [a cura di], op. cit., 67 A 1). G.F. Pagallo BIBL.: testi e testimonianze: H. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1961-64, 75, tr.it. di V.E. Alfieri, in AA.VV., I Presocratici, Frammenti e testimonianze, vol. II, Roma-Bari 1981, pp. 643-662, tr. ingl. e commento di C.C.W. Taylor, The Atomists Leucippus and Democritus. Fragments, Toronto-BuffaloLondon 1999; per la bibliografia cfr.: B. SIJAKOVIC, Bibliographia praesocratica, Paris 2001, p. 595. Su Leucippo: J. STENZEL, s.v., in A. PAULY - G. WISSOWA (a cura di), Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, vol. XXIV, Stuttgart 1925, coll. 2266-2277; E. ZELLER - R. MONDOLFO, La Filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, parte I, vol. V: Empedocle, Atomisti, Anassagora, a cura di A. Capizzi, Firenze 1969; D. O’BRIEN, La taille et la forme des atomes dans les systèmes de Démocrite et d’Épicure, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», 1982, pp. 187-203: M.J.-P. DUMONT, Les Abdéritains et le non-être, in «Bulletin de la Société francaise de philosophie», 77 (1983), pp. 4-76; J. BARNES, Reason and Necessity in Leucippus, in AA.VV., Proceedings of the First International Congress on Democritus, Xanthi 1984, pp. 141-158; A.-J. VOELKE, Vide et non-être chez Leucippe et Democrite, in «Revue de théologie et de philosophie», 1990, pp. 341-352; D. PANCHENKO, The Shape of the Earth in Archelaus, Democritus and Leucippus, in «Hyperboreus. Studia classica», 5 (1999), pp. 22-39.

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Lévêque LÉVÊQUE, J E A N -C H A R L E S . – T e o r i c o Lévêque dell’estetica, n. a Bordeaux il 7 ag. 1818 e m. a Bellevue nel 1900. Fu professore al Collège de France. L’opera principale è Science du Beau étudié dans ses principes, dans ses applications et dans son histoire, Paris 1861. La grandezza e l’ordine (costituiti da unità, varietà, armonia, proporzione, convenienza) sono i caratteri essenziali del bello, ricavabili dalla considerazione delle realtà belle (p. es., un giglio). Platonicamente Lévêque afferma che la bellezza ha un’esistenza oggettiva, indipendentemente dal soggetto che l’esperisce. Il bello ideale d’ogni specie di esseri esiste in modo oggettivo, eminente, effettivo, in Dio, quale eterno pensiero dell’eterna intelligenza. Il suo Le sens du beau chez les bêtes (Paris 2000 [1873]) è un contributo sia all’estetica sia al darwinismo, e s’inserisce in quella riflessione sull’istinto e l’intelligenza portata avanti da Bergson, che gli successe al Collège nel 1897. La dottrina di Lévêque, chiamata da lui metafisica del bello, suscitò vivaci critiche tra gli studiosi d’estetica della fine del sec. XIX: le si rimproverò la mancanza di osservazione psicologica e un falso atteggiamento metafisico-astratto. In tal modo fu pure giudicata da Croce. C. Rosso BIBL.: E. SAISSET, L’âme et la vie, suivi d’un examen critique de l’esthétique française, Paris 1864; T.-M. MOUSTOXIDI, Les systèmes esthétiques en France envisagés surtout au point de vue de leur caractère scientifique 1700-1890, Paris 1918, pp. 187 ss.; D. HUISMAN, L’estetica francese negli ultimi cento anni, in «Momenti e problemi di Storia dell’estetica», III (1961), spec. pp. 1081-1082; B. CROCE, Estetica, Bari 19652, pp. 426-427.

LEVER (LEAVER), RALPH. – Logico inglese del Lever XVI secolo, m. nel 1585. Studiò a Cambridge, fu master of arts nel 1551, quindi arcidiacono di Northumberland dal 1566 al 1573. Di Lever si ricorda l’opera The Art of Reason Rightly Termed Witcraft, Teaching a Perfect Way to Argue and Dispute (London 1573), storicamente importante perché, sull’esempio della Rule of Reason di Thomas Wilson, fece valere, contro l’uso corrente, la necessità della lingua inglese in luogo della latina anche per i trattati di logica. Soprattutto interessa in quello scritto di Lever l’ardita sostituzione della terminologia logica tradizionale con parole ed espressioni di diretta derivazione inglese (p. es.: witcraft, logica o 6362

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dialettica; foreset, soggetto; backset, predicato; inholder, sostanza; inbeer, accidente; saywaht, definizione ecc.). Dovette trascorrere lungo tempo (oltre un secolo, certamente) prima che il tentativo di Lever trovasse imitatori e prosecutori nel campo della logica: ma gioverà ricordare che, in altri settori della filosofia, già F. Bacone, all’inizio del Seicento, quasi a consacrare il suo programmatico rinnovamento della ricerca speculativa, farà largo uso della lingua inglese. V. Sainati BIBL.: C. DE RÉMUSAT, Histoire de la philosophie en Angleterre, vol. I, Paris 18782, pp. 187-189.

LÉVESQUE, PIERRE-CHARLES. – N. a Parigi Lévesque nel 1736, m. ivi il 12 magg. 1812. Uomo di lettere e philosophe, i suoi primi scritti furono apprezzati da Diderot, che lo fece chiamare quale professore di letteratura francese alla scuola dei cadetti nobili di San Pietroburgo. Rientrato in Francia nel 1780, divenne membro dell’Académie des inscriptions, docente al Collège royal e membro dell’Institut (1795). Noto per le sue opere storiche (Histoire de Russie, Paris 1782; La France sous les cinq premiers Valois, ivi 1788; Etudes de l’histoire ancienne et de celle de la Grèce, ivi 1811), fu traduttore di autori greci e latini, nonché del Petrarca. In campo filosofico, oltre a Les rêves d’Aristobule, philosophe grec, suivis d’un abrégé de la vie de Formose, philosophe français (ivi 1761), compose due opere complementari: L’Homme moral, ou l’Homme considéré tant dans l’état de pure nature que dans la société (Amsterdam 1775) e L’Homme pensant, ou Essai sur l’histoire de l’esprit humain (ivi 1779). Quest’ultima opera, in cui si colgono echi di Voltaire, Turgot, Condillac, è rivolta in buona parte al pensiero antico, valutato negativamente per la vanità dei suoi «romanzi intellettuali» e per la sua scarsa utilità sociale; assai critico è il giudizio su Platone e sullo stesso Socrate, accusato di orgoglio e di superstizione, e il cui metodo consiste nel porre «domande puerili». Tali critiche furono riprese nelle Considérations sur les obstacles que les anciens philosophes ont apporté au progrès de la saine philosophie («Mémoires de l’Institut de France», Thermidor an VI, pp. 247-284). G. Piaia BIBL.: J. DAGEN, L’histoire de l’esprit humain dans la pensée française de Fontenelle à Condorcet, Paris 1977, pp. 574-575; G. PIAIA, Storia della filosofia e «histoire de l'esprit humain» in Francia tra Enciclopedia e Rivolu-

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zione, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. III: Il secondo illuminismo e l'età kantiana, Padova 1988, pp. 77-78.

LÉVESQUE BURIGNY, JEAN. – Erudito Lévesque deDE Burigny francese, n. a Reims nel 1692, m. a Parigi l’8 ott. 1785. Collaboratore dell’«Europe sçavante» (171820), membro dell’Académie des inscriptions et belles-lettres (1756), Burigny compose parecchie opere, in cui profuse la sua vasta erudizione storica. In campo filosofico, oltre alla traduzione Traité de Porphyre touchant l’abstinence de la chair des animaux, avec la vie de Plotin (Paris 1740), pubblicò la Histoire de la philosophie païenne, ou Sentimens des philosophes et des peuples païens les plus célèbres sur Dieu, sur l’âme et sur les devoirs de l’homme (La Haye 1724; edizione accresciuta, con il titolo Théologie païenne, ou Sentimens des philosophes [...], Paris 1754), di impianto dossografico. A Burigny fu inoltre attribuito l’Examen critique des apologistes de la religion chrétienne, che circolò dapprima in forma clandestina e venne dato alle stampe solo nel 1767 sotto il nome di un altro celebre erudito, Nicolas Fréret. In tale opera si sostiene fra l’altro che l’avvento di Cristo non rese gli uomini più perfetti di quanto non lo fossero nel paganesimo antico. G. Piaia BIBL.: I.O. WADE, The Clandestine Organisation and Diffusion of Philosophical Ideas in France from 1700 to 1750, Princeton 1938, pp. 193-204; G. PIAIA, Jean Lévesque de Burigny (1692-1785), in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall'età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, pp. 177-187; S. LANDUCCI (a cura di), De l’Examen de la religion attribuable à Jean Lévesque de Burigny, ParisOxford 1996.

LÉVESQUE Lévesque de Pouilly (L E V Ê Q U E ) DE POUILLY, LOUIS-JEAN. – Matematico e moralista francese, n. nel 1691 a Reims, m. nel 1750 ivi. Giovanissimo, seppe interpretare i principi di Newton, esponendoli e chiarendoli ai più anziani colleghi parigini. Dedicatosi in seguito alle lettere compilò in collaborazione col fratello de Burigny una specie di giornale enciclopedico dal titolo L’Europe Savante, pubblicato all’Aia in 12 voll. a cominciare dal 1718. Accolto nell’accademia delle iscrizioni e delle belle lettere, presentò (15 dic. 1722) una memoria sull’incertezza dei primi secoli della storia ro-

Lévesque de Pouilly mana che suscitò vivo interesse, quasi scandalo: la sua critica severa fu tacciata di pirronismo storico. Godette dell’amicizia di amici insigni, come Voltaire, Fontenelle, Bolingbroke: fu appunto a quest’ultimo che Lévesque scrisse una lettera destinata ad avere un seguito non indifferente: da questa lettera è infatti nato il trattato dei «sentimenti gradevoli». La Théorie des sentiments agréables, où, après avoir indiqué les règles que la nature suit dans la distribution du plaisir, on établit les principes de la Théologie naturelle, et ceux de la Philosophie morale venne parecchie volte pubblicata, a cominciare dal 1736 (Paris, poi Montbrillant, Gèneve ecc., tr. it. a cura di D. Bosco, Teoria dei sentimenti piacevoli, Milano 1999). Il trattato si apre affermando l’esistenza di una scienza dei sentimenti, indipendente e distinta dalle altre scienze. La legge fondamentale dell’autore è la seguente: vi è un gradimento in tutto ciò che esercita gli organi del corpo senza indebolirli. L’esercizio moderato è la fonte dell’umana felicità. Accanto a questi temi fondamentali, vengono esaminati nelle pagine del trattato i più vari problemi della vita morale del secolo: particolarmente notevole è l’atteggiamento di Lèvesque nei riguardi del cristianesimo, interpretato, come già da Gassendi, quale dottrina di felicità. Verso il cristianesimo Lèvesque è sempre rispettoso, come verso le autorità del tempo. Lèvesque infatti appartiene a quella generazione souriante che non avrebbe saputo immaginare quale incendio si sarebbe acceso in Francia dopo di sé, a così breve distanza. Pure il suo trattato ebbe fortuna anche durante le burrasche dell’Enciclopedia, e Diderot lo riprodusse pressoché integralmente, nei suoi concetti principali, con l’articolo Plaisir dell’Enciclopedia medesima. Infatti il dinamismo implicito in una dottrina determinante la felicità come l’agire stesso rispondeva a talune fondamentali esigenze ottimistiche e costruttive del secolo, riverberando su di esse le virtù d’una più limpida coscienza. Così Lèvesque portava alla generazione tempestosa dell’Enciclopedia l’eredità sorridente della reggenza. C. Rosso BIBL.: C. ROSSO, Lévesque de Pouilly, teorico del «Bonheur», in «Filosofia», 3 (1952), pp. 125-158 (con bibl. ragionata); D. BOSCO, La leggerezza del piacevole: la Théorie des Sentiments Agréable di Lévesque de Pouilly, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 4 (1998), pp. 3-54.

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Levi LEVI, ADOLFO. – N. a Modena il 20 ag. 1878, Levi m. a Roma il 9 ag. 1948. Studiò presso il Collegio Spallanzani di Reggio Emilia alle Università di Pisa e Firenze e di Roma, dove si laureò; insegnò nei licei, poi all’università, occupando la cattedra di storia della filosofia a Pavia. Lasciata la cattedra nel 1938, in conseguenza delle leggi razziali fasciste, si ritirò a Roma dove continuò i suoi studi nelle biblioteche ecclesiastiche, a lui ancora accessibili. Se non è possibile ricordare la sua vastissima opera di storico della filosofia, che abbraccia ogni epoca del pensiero (cfr. Bibliografia filosofica italiana, vol. II, Roma 1952, pp. 273274), meritano di essere sottolineati i suoi contributi alla storia della filosofia antica, soprattutto gli studi sulla sofistica (parzialmente pubblicati su riviste, 1937-1941), e la Storia della filosofia romana (Firenze 1949). La sua attività teoretica si è concretata nella formulazione di una dottrina scettica, espressa principalmente nei volumi La fantasia estetica (Firenze 1913); Sceptica (Torino 1921; Firenze 1959); Storia della Sofistica (Napoli 1966), che raccoglie gli studi sulla sofistica non pubblicati per la morte prematura di Levi. Il punto di partenza della filosofia di Levi è l'impossibilità di raggiungere una certezza assoluta; ogni filosofia, egli dice, se vuole essere sincera non può non riconoscere la relatività di ogni proposizione, ivi comprese le proprie. Lo scetticismo di Levi, infatti, vuole distinguersi da quello dogmatico tradizionale: le teorie scettiche non pretendono di possedere la stessa assoluta verità delle teorie dogmatiche, ma sono invece scettiche anche riguardo a se stesse; lo scetticismo non è una teoria metafisica, ma semplicemente una critica del dogmatismo e delle sue pretese. A questo scetticismo, secondo Levi, conduce tutto lo svolgimento della filosofia moderna posteriore a Kant: l'idealismo, infatti, porta necessariamente al solipsismo, una volta che si mostri l'impossibilità di ammettere un soggetto o un Io trascendentale. L'empiricità di ogni io pensante non permette di sollevarsi al di sopra della mera particolarità; tra sogno e realtà non esiste alcuna differenza. Sul piano teorico il solipsismo scettico è l'unica filosofia plausibile. Ma caratteristica del pensiero di Levi è di non arrestarsi alla considerazione puramente teoretica del reale. Quello stesso scetticismo, infatti, confermato più volte dalla ragione teoretica, è poi dimostrato 6364

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falso dall’esigenza insoddisfatta della ragione pratica. Il solipsismo isola l'uomo dalla comunione con l'altro, pur essendo incapace di toglierne l'esigenza; anche gli altri uomini hanno diritto di essere riconosciuti come esseri simili a me, forniti della stessa personale dignità e valore. Questa esigenza morale, che, contrapponendosi alla riconosciuta razionalità del conoscere, non può essere definita che irrazionale, coincide con la piena condanna della ragione scettica. L'uomo deve fare quello che deve, avvenga poi ciò che può; deve agire, nonostante la ragione lo convinca del contrario, come se la vita avesse un significato. L'agire morale, per Levi, è valido solo se operato senza scopo. In tal modo, allo scetticismo o egoismo teoretico si contrappone il dogmatismo o altruismo etico, in una concezione che, non diversamente da quella kantiana, sancisce il primato della ragione pratica. È proprio questo dualismo, nonostante Levi stesso ne riconosca il limite e ne soffra l'antinomia, che ha sollecitato tutte le obiezioni dei critici. G. Morra BIBL.: G. ALLINEY, La filosofia di Adolfo Levi, in «Archivio Storico della Filosofia italliana», 1934, pp. 307333; M.F. SCIACCA, Il sec. XX, Milano 1947, pp. 529533; A. RAVÀ, Adolfo Levi, in «Rivista di Filosofia», 1948, pp. 386-395 (elenco completo degli scritti editi e inediti con Introduzione del curatore); DIOGENE, Adolfo Levi, in «Giornale di Metafisica», 1956, pp. 759-764; P. NESSI, Il solipsismo di Adolfo Levi, con Prefazione di D. Pesce, Milano 1957; G. REALE, Un libro inedito di Adolfo Levi su Platone, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 62 (1970), pp. 321-333.

LEVI, ALESSANDRO. – N. a Venezia nel 1881 e Levi m. a Parma nel 1953, filosofo del diritto e storico del pensiero politico. Levi, ispirandosi al positivismo filosofico di Ardigò e al metodo storico di Brugi, elabora nei suoi primi scritti una filosofia giuridica che, in alternativa allo spiritualismo e all’idealismo, assume come centrale il compito fenomenologico, adottando un metodo aperto all’empirismo e agli apporti della psicologia sociale. Questa attenzione al dato positivo non si risolve però nell’adesione ad un giuspositivismo formalistico, dal quale la filosofia di Levi si differenzia per l’attenzione alla produzione sociale del diritto e alle prospettive evoluzionistiche. È discusso dagli interpreti se questa ispirazione positivistica resti sempre centrale nel suo pensiero (come ritiene Bobbio) o se finiscano per preva-

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lere successivi apporti neokantiani e neoidealistici, specie crociani (Fassò). Di certo, Levi rielabora il suo iniziale approccio, sviluppando negli anni della maturità una teoria del diritto che, pur ribadendo costantemente la distanza dalle prospettive metafisiche e trascendenti, accentua l’interesse per gli elementi di carattere formale distintivi della giuridicità, approdando infine ad una compiuta «teoria relazionale» del diritto. Tale teoria, incentrata sul concetto di rapporto giuridico, rifiuta l’identificazione del diritto con il solo diritto statuale, valorizzando piuttosto gli aspetti intersoggettivi e orizzontali del fenomeno giuridico che quelli autoritativi e verticali: Levi perviene così ad una sostanziale risoluzione della sfera della giuridicità in quella della socialità. Quale storico del pensiero politico, Levi si dedicò alla rilettura degli aspetti democratici più avanzati della tradizione risorgimentale, con una particolare attenzione per le figure di Mazzini e di Cattaneo. Impegnato nel Partito Socialista Unitario, il suo insegnamento politico ebbe grande influenza sul pensiero e l’azione di Nello e Carlo Rosselli. A. Amendola BIBL.: Opere principali: Teoria generale del diritto, Padova 1953; Scritti minori di filosofia del diritto, Padova 1957, 2 voll.; La filosofia politica di Giuseppe Mazzini, Napoli 1967 (1922). Su Levi: N. BOBBIO, Alessandro Levi, premesso a A. Levi, Scritti minori di filosofia del diritto, Padova 1957, 2 voll., pp. XI-XXIX; G. FASSÒ, Il pensiero e l’opera di A. Levi, in «Studi parmensi», 1954, pp.1-20; L. ALOISI, A. Levi. La crisi del «sottosuolo» positivistico, Napoli 1982; A. CATANIA, Rapporto giuridico (Teoria generale), in Enciclopedia giuridica, vol. XXV, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1991.

LEVI BEN GERSHOM (Gersonide, Rabbi Levi Levi Ben Gershom). – Filosofo, scienziato ed esegeta ebreo provenzale, n. probabilmente a Orange nel 1288, m. a Perpignan nel 1344. Fu astronomo e astrologo alla corte papale di Avignone. In tale ambiente di corte ebbe contatti con filosofi e teologi cristiani che, certamente, influenzarono il suo pensiero. Esponente del razionalismo maimonideo e sostenitore dell’interpretazione averroistica di Aristotele. Per questo suo razionalismo fu molto criticato da rabbini e filosofi difensori della tradizione religiosa ebraica. I suoi scritti pervenutici possono essere suddivisi in: matematici, esegetici-religiosi, filosofi-

Levi ci. Tra questi ultimi sono da segnalare i Supercommentari sui commenti di Averroè ai diversi scritti di Aristotele, che, redatti tra il 1321 e il 1325, sono quasi completamente inediti; Il Libro del sillogismo corretto (Sefer ha-heqesh hayashar, tr. ingl. di C.H. Manekin, The Logic of Gersonides, Dordrecht-London 1992); Le guerre del Signore (Sefer milhamot ha-Shem, Leipzig 1866 [Riva di Trento 1560], tr. fr. parziale a cura di C. Touati, Paris 1968, tr. ingl. parziale a cura di S. Feldman, Philadelphia 1984). Quest’ultima è la sua opera maggiore e tratta dell’immortalità dell’anima, della profezia, dell’onniscienza di Dio, della provvidenza divina, della natura delle sfere celesti, sia dal punto di vista astronomico-matematico che da quello fisico e metafisico, dell’eternità del mondo. A differenza di Maimonide, Gersonide afferma che il mondo è creato e non è eterno, deducendo le due tesi dall’impossibilità di un tempo infinito. La materia prima, come substrato delle forme, preesiste al mondo (concezione già di Ibn Gebirol e Yehudah ha-Levi); essa è concepita come extratemporale, non essendo ancora cosa, né possedendo azione. La creazione è così un’azione complessa: è l’ordine che Dio ha dato alla materia caotica attraverso la produzione e imposizione delle forme. Il bene e il male, in senso metafisico, sono rispettivamente l’ordine da Dio dato alla materia e la resistenza che questa oppone ad esso. La provvidenza di Dio si manifesta dando l’istinto agli animali e accordando all’uomo un’intelligenza, la quale serve a proteggerlo dai mali che gli sopravvengono. E. Bertola - L. Pepi BIBL.: E. RENAN-NEUBAUER, Les écrivains juifs français du XIVe siècle, Paris 1893, pp. 240-298; I. HUSLX, Studies in Gersonides, in «The Jewish Quarterly Review», 8 (1917-18), pp. 113-156, pp. 231-268; J. TEICHER, Studi preliminari sulla dottrina della conoscenza di Gersonide, in «Atti dell’Accademia dei Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche», serie VI, 8 (1932), pp. 500-510; C. SIRAT, La philosophie juive au Moyen âge, Paris 1983, pp. 318-346, tr. it. di B. Chiesa, La filosofia ebraica medievale, Brescia 1990, pp. 575-576; C. TOUATI, La pensée philosophique et théologique de Gersonide, Paris 1988; G. FREUDENTHAL (a cura di), Studies on Gersonides, a Foureenth- Century Philosopher-Scientist, Leiden-New York-Köln 1992; R. GLASNER, Levi ben Gershom and the Study of Ibn Rushd in the Fourteenth Century, in «The Jewish Quarterly Review», 86 (1995), pp. 51-90; R. GLASNER, The Early Stages in the Evolution of Gersonides’ «The Wars of the Lord», in «The Jewish Quartely Review»,

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Levi 87 (1996), pp. 1-46; R. GLASNER, Gersonides’ Lost Commentary on the Metaphysics, in «Medieval Encounters», 4 (1998), pp. 130-157; M. ZONTA, La filosofia ebraica medievale. Storia e testi, Bari 2002, pp. 178206.

LEVI, BEPPO. – Matematico, logico, filosofo Levi della scienza, n. il 14 magg. 1875 a Torino, m. il 28 ag. 1961 a Rosario (Argentina). Allievo di Corrado Segre, si laureò in matematica nel 1896 a Torino. Titolare dal 1906 di Geometria analitica e Analisi algebrica all’università di Cagliari, fu successivamente professore a Parma (dal 1910) e a Bologna (1928-38). Allontanato dalla cattedra a causa delle leggi razziali, si trasferì in Argentina, dove ottenne l’incarico di direttore del nascente istituto matematico di Rosario e dove fondò alcune riviste matematiche. La sua attività scientifica riguarda diversi rami della matematica, pura e applicata, e i fondamenti della geometria, dell’analisi, della logica. Nel campo della geometria algebrica ricordiamo, ad esempio, la sua dimostrazione della trasformabilità birazionale di ogni superficie algebrica in un’altra priva di singolarità. Secondo le concezioni di Levi non esistono antinomie logiche: le apparenti antinomie nascondono in ogni caso qualche infrazione contro la logica tradizionale, la quale non necessita di correzioni, anche se la non contraddittorietà delle sue leggi è indimostrabile (Antinomie logiche?, in «Annali di Matematica Pura e Applicata», serie 3, 15, 1908, pp. 187-216; A propósito de la nota del Dr. Pi Calleja Sobre Paradojas Lógicas y Principio del Tertium non Datur, in «Journal of Symbolic Logic», vol. XVII, 3, 1952, pp. 200-201). Importante è anche il suo contributo all’unificazione del simbolismo della logica matematica, adottando nelle stesse formule le notazioni di Peano per le operazioni sulle classi, e le notazioni di Hilbert per le operazioni sulle proposizioni (cfr. Correría en la lógica, in «Revista Universidad Nacional de Tucumán», serie A, giugno 1942). Ricordiamo infine le sue interessanti considerazioni sul postulato di Zermelo, e la teoria del dominio deduttivo, introdotta da Levi stesso. E. Carruccio BIBL.: A. TERRACINI, Commemorazione del corrispondente Beppo Levi, in «Rendiconto dell’Accademia Nazionale dei Lincei», serie 8, vol. XXXIV, fasc. 5, maggio 1961 (con elenco delle pubblicazioni di Beppo

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Levi); T. VIOLA, Beppo Levi, in «Bollettino dell’Unione matematica italiana», (dicembre 1961), pp. 513516; C.F. MANARA, Un teorema di Beppo Levi riguardante la logica formale, in «Periodico di Matematica», 32 (1965), pp. 177-183; R. MAIOCCHI, Non solo Fermi. I fondamenti della meccanica quantistica nella cultura italiana tra le due guerre, Firenze 1991, pp. 8088; S. COEN, Beppo Levi, Seminari di geometria 19911993, Bologna 1994, pp. 193-232.

LEVIATHAN. – Immagine biblica (cfr. Gb, XL, Leviathan 25; XLI; Ez, XXIX, 3; XXXII, 2 ecc.), assunta da T. Hobbes come simbolo dello stato assoluto. Red.

LEVI-CIVITA, TULLIO. – Matematico, n. il 29 mar. 1873 a Padova, m. il 29 dic. 1941 a Roma. Studiò all’università di Padova, dove ebbe come maestri G. Veronese e G. Ricci-Curbastro. Fu professore per un ventennio presso la stessa università e quindi presso quella di Roma, fino a quando fu allontanato dall’insegnamento per motivi razziali. Membro di molte accademie, italiane e straniere, inclusa l’accademia pontificia, il suo nome è legato alle ricerche compiute nei campi del calcolo differenziale assoluto, della meccanica classica, della teoria della relatività, con numerose opere, tra le quali: Lezioni di calcolo differenziale assoluto (Roma 1925); Fondamenti di meccanica relativistica (Bologna 1928). Notevoli sono pure gli studi sull’elettromagnetismo, l’idromeccanica, l’elasticità. Levi-Civita rivide dai fondamenti, rendendone più agili i metodi, il calcolo differenziale assoluto (detto poi calcolo tensoriale), uno strumento di applicazione molto generale fondato da Ricci-Curbastro negli ultimi anni dell’Ottocento, che però non aveva incontrato grande fortuna. Einstein attorno al 1914 scoprì nel calcolo di Ricci e Levi-Civita lo strumento matematico che andava cercando per elaborare la teoria della relatività generale. Prese avvio un importante carteggio tra LeviCivita e il fisico tedesco (interrotto dallo scoppio della guerra) nel corso del quale il matematico italiano fornì un importante contributo chiarificatore. Da quel momento Levi-Civita, che in precedenza era stato un avversario della teoria relativistica, ne divenne un grande sostenitore ed è grazie alla sua opera che il pensiero einsteiniano nel dopoguerra poté affermarsi anche in Italia. Levi-Civita conservò comunque un punto di vista critico e indipendente, elaborando una versione della teoria di

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Einstein che egli stesso definiva adatta a un pensiero «conservatore», cioè attenta a ricercare il massimo di continuità possibile tra i concetti della nuova fisica e quelli della fisica classica. Analogo atteggiamento Levi-Civita assunse nei confronti della teoria quantistica. Ancora in campo geometrico, va ricordato uno studio compiuto sulle geometrie non archimedee. Le sue Opere matematiche sono edite a cura dell’Accademia Nazionale dei Lincei (Bologna 1954-73, 6 voll.). M. Tarro-Ricca - R. Maiocchi BIBL.: U. AMALDI, Commemorazione, in «Rendiconto dell’Accademia Nazionale dei Lincei», serie 8, 1 (1946), pp. 1130-1155; D. GALLETTO, Tullio Levi-Civita, in «Bollettino dell’Unione Matematica Italiana», serie 3, 8 (1973), pp. 373-390; AA.VV., Tullio Levi-Civita. Convegno internazionale celebrativo del centenario della nascita, «Atti Accademia Nazionale dei Lincei», 8 (1975); R. MAIOCCHI, Einstein in Italia. La scienza e la filosofia italiane di fronte alla teoria della relatività, Milano 1985, pp. 22-26, 35-45; R. MAIOCCHI, Non solo Fermi. I fondamenti della meccanica quantistica nella cultura italiana tra le due guerre, Firenze 1991, pp. 85-90; F. TOSCANO, Il genio e il gentiluomo. Einstein e il matematico italiano che salvò la teoria della relatività generale, Milano 2004.

LEVINAS, EMMANUEL. – Filosofo francese di Levinas origine lituana, n. a Kaunas il 12 genn. 1906, m. a Parigi il 25 dic. 1995. SOMMARIO: I. Vita e scritti. - II. Il pensiero: 1. Oltre Husserl e Heidegger, il problema dell’esistente e la natura relazionale del tempo. - 2. Idea dell’infinito, fenomenologia del «volto» e desiderio metafisico. - 3. «Altrimenti che essere» e soggettività come trascendenza. - 4. La natura etica della religione e della teologia. I. VITA E SCRITTI. – Di famiglia ebraica, venne educato alla scuola del Talmud, che rimarrà una delle fonti d’ispirazione principali del suo pensiero. Nel 1923 si recò a Strasburgo, per frequentare i corsi di filosofia: finì per rimanere definitivamente in Francia. Durante gli studi universitari, decisivi furono gli incontri con E. Husserl e M. Heidegger, che ascoltò nella vicina Freiburg im Breisgau (1928-29). A Husserl ha dedicato la tesi di laurea, La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl (Paris 1930, tr. it. di R. Perego, La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl, Milano 2002), cui viene riconosciuto il merito di aver introdotto la fenomenologia nella cultura filosofica francese. Oltre a Husserl, contribuì a far conoscere

Levinas in Francia anche Heidegger. Una serie di saggi sui due filosofi confluirà nella raccolta En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger (Paris 19672, tr. it. di F. Sossi, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Milano 1998). Dopo la laurea trovò un impiego a Parigi presso la Scuola normale israelita orientale e nel 1932 si sposò con Raïssa Lévi. Nel 1934 fece uscire sulla rivista «Esprit» un articolo fortemente critico contro il nazismo, Quelques réflexions sur la philosophie de l’hitlérisme (tr. it. di A. Cavalletti, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Macerata 1996). Con il saggio De l’évasion, del 1935-36 (tr. it. di G. Ceccon e G. Francis, Dell’evasione, Reggio Emilia 1983), si distaccò decisamente da Heidegger: la sua adesione al nazismo (1933) fu infatti vista da Levinas come strettamente connessa con la sua ontologia. Nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, fu chiamato alle armi. Fatto prigioniero e internato in Germania, si salvò dallo sterminio nazista, ma perdette tutta la famiglia d’origine, mentre la moglie e la figlia riuscirono a salvarsi grazie all’aiuto delle suore di san Vincenzo de’ Paoli. La tragedia dell’«olocausto» diverrà una delle esperienze fondamentali per la maturazione del suo pensiero. Rientrato a Parigi, dal 1946 lavorò come direttore della Scuola normale israelita orientale. Oltre alla filosofia, si dedicò attivamente alla ricostruzione dell’ebraismo dal punto di vista spirituale e culturale, con una serie di articoli, che raccoglierà in Difficile Liberté (Paris 1963, tr. it. di S. Facioni, La difficile libertà, Milano 2004). Con lo studio approfondito del Talmud, Levinas diverrà anche un valente commentatore dei testi della tradizione ebraica: Quatre Lecture Talmudiques (Paris 1968, tr. it. di A. Moscato, Quattro letture talmudiche, Genova 1982); Du Sacré au Saint (Paris 1977, tr. it. di O.M. Nobile Ventura, Dal Sacro al Santo, Roma 1985); L’au-delà du verset (Paris 1982, tr. it. di G. Lissa, L’aldilà del versetto, Napoli 1986); A l’heure des nations (Paris 1988, tr. it. di S. Facioni, Nell’ora delle nazioni, Milano 2000); Nouvelles lectures talmudiques (Paris 1996, tr. it. di B. Caimi, Nuove letture talmudiche, Milano 2004). Pur convinto dell’importanza dell’apporto dell’ispirazione religiosa per la filosofia, manterrà sempre ben distinti i suoi scritti di carattere religioso da quelli di carattere filosofico. La filosofia, a suo avviso, ha infatti un proprio linguaggio, quello «greco», e un proprio meto6367

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Levinas do, quello fenomenologico, con i quali deve saper non solo «tradurre» ma anche «riscattare» il sapere pre-filosofico in cui si radica. Per quanto riguarda la produzione filosofica degli anni immediatamente successivi alla guerra, vanno ricordate l’opera De l’existence à l’existant (Paris 1947, tr. it. di F. Sossi, Dall’esistenza all’esistente, Casale Monferrato 1986), nonché le quattro conferenze dal titolo Le Temps et l’Autre (Paris-Grenoble 1947, tr. it. di F.P. Ciglia, Il Tempo e l’Altro, Genova 1987). In tali scritti già si delinea l’indirizzo di fondo del progetto filosofico che troverà la prima formulazione organica nel libro-capolavoro Totalité et Infini (La Haye 1961, tr. it. di A. Dall’Asta, Totalità e Infinito, Milano 19902). L’opera, presentata quale tesi di dottorato di stato in lettere alla Sorbona, gli otterrà il titolo accademico per insegnare filosofia all’università; prima a Poitiers, poi a Paris-Nanterre e, infine, alla Sorbona. La seconda grande opera di Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence (La Haye 1974, tr. it. di M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano 1983) è a un tempo una ripresa, un ampliamento e una radicalizzazione dei temi di Totalità e Infinito. Levinas è alla ricerca di un «linguaggio» e di una «scrittura» più adeguati a ciò che intende esprimere: l’apertura di un orizzonte etico di trascendenza rispetto all’orizzonte dell’essere. Con l’uscita di quest’opera, la fama di Levinas si diffonde rapidamente, fino ad essere riconosciuto tra i filosofi più eminenti del sec. XX. Oltre le opere menzionate, la produzione di Levinas consta di una lunga serie di saggi e conferenze, confluiti o nella seconda edizione di En découvrant l’existence (cit.) o in volumi come: Humanisme de l’autre homme (Montpellier 1972, tr. it. di A. Moscato, Umanesimo dell’altro uomo, Genova 1985); Nomes propres (Paris 1976, tr. it. di F.P. Ciglia, Nomi propri, Casale Monferrato 1984); De Dieu qui vient à l’idée (Paris 1982, tr. it. di G. Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Milano 1983); Transcendence et intelligibilité (Genève 1984, tr. it. di F. Camera, Trascendenza e intelligibilità, Genova 1990); Hors Sujet, Montpellier 1987 (tr. it. di F.P. Ciglia, Fuori dal Soggetto, Genova 1992); Entre nous (Paris 1991, tr. it. di E. Baccarini, Tra noi, Milano 1998); Les imprévus de l’histoire (Paris 1994). Importanti il libro-intervista Ethique et Infini. Dialogues avec Philippe Nemo (Paris 1982, tr. it. di E. Baccarini, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, Ro6368

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ma 1984), forse tra le migliori introduzioni al suo pensiero, nonché le pubblicazioni, a cura di J. Rolland, dei due ultimi corsi universitari col titolo Dieu, la Mort e le Temps (ivi 1993, tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Dio, la morte e il tempo, Milano 1996) e di alcuni scritti minori in Positivité et transcendance (Paris 2000). II. IL PENSIERO. – 1. Oltre Husserl e Heidegger: il problema dell’esistente e la natura relazionale del tempo. – Il pensiero filosofico di Levinas nasce dal confronto critico con Husserl e Heidegger, considerati al culmine della filosofia occidentale. Interpretando l’uno alla luce dell’altro e viceversa, Levinas intravede in Husserl l’emergere di una fenomenologia ontologica in cui l’essere è caratterizzato dalla «visione» intenzionale, cioè dalla trasparenza della coscienza all’essere e dell’essere alla coscienza; ma tale ontologia ha una cadenza finale di tipo idealistico, sfociante nell’affermazione dell’assolutezza e dell’autosufficienza della coscienza. Heidegger ha dato concretizzazione esistenziale alla coscienza intenzionale husserliana e ha avuto il merito di far nuovamente risuonare la «verbalità» dell’essere; ma ha accentuato il primato dell’essere rispetto all’ente e ha dato dell’essere un’interpretazione finitistica e nichilistica. Entrambi non rendono ragione né della dignità del soggetto umano concreto né della sua relazione con altri e con Dio. Con i primi scritti autonomi, oltre al saggio De l’évasion, in particolare le opere De l’existence à l’existant e Le Temps et l’Autre, Levinas intende aprire una via alternativa. Nella prima, l’«evasione» dall’essere viene presentata come passaggio dall’esistenza anonima, immersa nell’impersonalità radicale dell’essere quale neutro il y a, all’esistente quale sostantivo, cioè all’avvenimento del soggetto, «io» o «ipostasi», che si pone in relazione con l’essere e, assumendolo, diviene «un essere», capace di confermare la sua consistenza costituendo attorno a sé un proprio «mondo». L’io finirebbe però per chiudersi nella solitudine più assoluta se non riuscisse a porsi in relazione con altri. Donde la necessità di individuare la via per instaurare tale relazione. Levinas giudica impercorribili, a tal fine, sia la via tentata da Husserl a partire dalla coscienza egologica, sia ogni altra via che rimanga sul piano dell’essere. La giusta via può essere imboccata solo affrontando il problema del «Bene», cioè il problema della «relazione con altri come movimento verso il Bene», alla luce della formula

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platonica che pone «il Bene al di là dell’essere» (De l’existence à l’existant, p. 9, tr. cit., p. 3). In tale direzione si muove Le Temps et l’Autre. Ciò che ci porta oltre l’essere, oltre lo stesso attaccamento egoistico al nostro proprio essere, non è la conoscenza ma solo la relazione con altri, la socialità. Il tempo, quale effettiva trascendenza verso la novità del futuro, è la molla che ci apre alla relazione con altri. Donde l’originale concezione del tempo che Levinas propone: non più in riferimento al movimento fisico oggettivo o in riferimento alla distensione della coscienza, bensì come scaturente dalla relazione con altri. 2. Idea dell’Infinito, fenomenologia del «volto» e desiderio metafisico. – Il tema della «relazione con altri», con cui si chiudeva Il Tempo e l’Altro, è l’argomento centrale di Totalité et Infini (1961). Rispetto agli scritti precedenti, due sono le novità fondamentali che l’opera presenta. La prima è l’individuazione della natura essenzialmente etica, e in qualche misura eticoreligiosa, della «relazione con altri». La seconda è la portata metafisica, sia pure in senso profondamente rinnovato, che a tale «relazione etica» viene attribuita. La relazione etica non solo apre alla «trascendenza assoluta» dell’altro, ma costituisce la stessa «struttura ultima dell’essere» (Totalité et Infini, p. 247, tr. cit., p. 277). In virtù di tale relazione, l’essere si presenta infatti come originariamente scisso in «medesimo» e «altro». Il che equivale a dire che «l’essere si produce come bontà», «come essere per altri» (ibi, pp. 281-282, tr. cit., pp. 313-314). Conseguentemente, Levinas potrà affermare che «la morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima» (ibi, p. 281, tr. cit., p. 313). Affermazione che mentre riassume la tesi centrale dell’opera, ne indica al tempo stesso la trama di fondo. In concreto, l’opera procede in contrappunto critico con l’ontologia predominante della filosofia occidentale. Il termine «totalità», che compare nel titolo, rimanda, infatti, alla tendenza ontologica di fondo di tale filosofia, che racchiuderebbe l’essere nella luce dell’unico e totalizzante abbraccio della conoscenza, eleverebbe la storia a giudizio inappellabile dell’operato dei singoli, considererebbe la guerra come strumento risolutivo del confronto politico, giungendo a giustificare gli stessi regimi totalitari. Quanto al termine «infinito», che Levinas assume nell’accezione datane da Cartesio – quale relazione tensionale con

Levinas un’idea che ritroviamo in noi senza però poterla contenere in noi –, esso rimanda a ciò che opera la «rottura della totalità», cioè l’irrompere della relazione etico-metafisica; per un verso tramite l’appello che ci viene dal «volto» (visage) dell’altro uomo; e, per altro verso, tramite il «desiderio metafisico» che altri suscita in noi. Fenomenologia del «volto» e fenomenologia del «desiderio» costituiscono così i due poli attorno a cui l’opera si costruisce. Il «volto», lungi dall’essere l’insieme delle fattezze esteriori altrui riportabili a nostre precomprensioni, è per Levinas la «rivelazione» originaria dell’alterità d’altri (Autrui), che parla e comanda di non ucciderlo. «Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me [...]. Il volto è presenza viva, è espressione. [...] Il volto parla. La manifestazione del volto è già discorso [...] è l’espressione originaria, è la prima parola: “non uccidere”» (ibi, passim). Il «desiderio metafisico», che Levinas contrappone al «bisogno» in quanto, contrariamente a questo, né sorge da noi né può in alcun modo essere saziato da qualsivoglia oggetto, è desiderio dell’«invisibile», dell’«infinito», dell’«assolutamente altro»; «desidera ciò che sta al di là di tutto quello che potrebbe completarlo. È come la bontà – il Desiderato non lo compie, ma lo scava» (ibi, p. 4, tr. cit., p. 32). Volto e desiderio sono così la paradossale misura dell’infinito, della sua assoluta trascendenza (cfr. ibi, p. 33, tr. cit., p. 60). L’originaria relazione etico-metafisica con altri e a partire da altri, pur decentrando il soggetto verso l’esteriorità, non ne annulla però in alcun modo la consistenza. I termini di tale relazione, infatti, non si risolvono nella relazione stessa, ma la vivono permanendo nella loro positiva «separatezza». L’altro resterà quindi l’altissimo, l’infinito, il trascendente; mai diverrà il «sacro» con cui il soggetto andrebbe misticamente a fondersi. E il soggetto non perderà mai la sua consistenza separata, perché positivamente dotato di «interiorità», capace di raccogliersi nell’«intimità» della propria «casa», in grado di «godere» delle cose di cui con il lavoro si è appropriato. Ma questa «separatezza» ha il suo senso ultimo in quanto condizione di possibilità di un’effettiva relazione con altri, nello spossessamento di sé e nell’accoglienza d’altri. Per questo Levinas può dire: «Questo libro presenterà la soggettività come ciò che accoglie Altri, come ospitali6369

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Levinas tà. In essa giunge a compimento l’idea dell’infinito» (ibi, p. XV, tr. cit., p. 25). 3. «Altrimenti che essere» e soggettività come trascendenza. – Il passaggio da Totalità e infinito alla seconda grande opera di Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, è preparato da importanti saggi come La traccia dell’altro, del 1963, ed Enigma e fenomeno, del 1965, entrambi impegnati a salvaguardare la trascendenza dell’alterità altrui, e quindi dell’infinito, da ogni irretimento nell’immanenza, per il fatto di rivelarsi, visitarci, entrare in relazione con noi, lasciarsi «dire» nel nostro linguaggio. La radicalizzazione del tema della trascendenza e la ricerca di un linguaggio più adeguato per dirla sono peraltro le principali novità di questa seconda opera rispetto alla prima; novità elaborate anche sotto il pungolo dell’obiezione, rivoltagli da Jacques Derrida nel saggio Violenza e metafisica del 1964, di criticare l’ontologia pur essendo costretto a usarne il linguaggio. La radicalizzazione del tema della trascendenza avviene in due direzioni: 1) quella della soggettività responsabile, che si rivela in se stessa come trascendenza rispetto a ogni tematizzazione ontologica come pure a ogni cura interessata del proprio essere; e 2) quella della trascendenza di Dio, che viene pensata sia all’origine della trascendenza del volto d’altri, sia come il «donde» e l’«a cui» della stessa trascendenza del soggetto. Di fatto, le due direzioni procedono di pari passo: «Il problema della trascendenza e di Dio e il problema della soggettività irriducibile all’essenza, irriducibile all’immanenza essenziale, procedono insieme» (Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, p. 20, tr. it. p. 22). Come risulta dal titolo stesso dell’opera, la radicalizzazione del tema della trascendenza esige la presa di distanza da ogni «filosofia dell’essere», che Levinas ora considera indissolubilmente legata all’immanenza della coscienza e viceversa. Poiché però i termini e i concetti con cui noi possiamo filosoficamente esprimerci sono tutti e sempre termini e concetti ontologici, il problema centrale dell’opera sarà proprio quello di trovare il linguaggio adeguato per «dire la trascendenza» (ibi, p. 23, tr. it. p. 25). La soluzione del problema è cercata da Levinas con vari metodi convergenti: il ricorso al linguaggio dell’etica, l’uso del procedimento dialettico del «disdire» sempre di nuovo il «detto» del linguaggio ontologico, la via «retorica» della esagerazione iperbolica ecc. Ma tut6370

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ti questi metodi sembrano fare da supporto a quell’originale interpretazione, che Levinas qui ci offre, della «riduzione fenomenologica» husserliana come risalita dal «detto al dire». A quel «Dire» originario e originale che è condizione di ogni tematizzazione ontologica e di ogni comunicazione di contenuti significativi e in cui consiste, in ultima analisi, la soggettività stessa del soggetto, in quanto «esposizione» o comunicazione originaria di sé ad altri. Non stupisce, quindi, che la maggior parte dei capitoli di Altrimenti che essere non si concentrino più, come in Totalità e infinito, sul tema dell’alterità altrui, bensì siano dedicati al tema della soggettività, analizzata con progressive radicalizzazioni e/o «esagerazioni»: 1) come sensibilità (capitolo II, «Dall’intenzionalità al sentire»); 2) come prossimità (capitolo III, «Sensibilità e prossimità»); 3) come sostituzione (capitolo IV, «La sostituzione»), e infine nelle sue relazioni con l’infinito (capitolo V, «Soggettività e Infinito»). Il filo rosso che lega tutta l’indagine è il tema della «passività» del soggetto. Levinas lo modula in più modi, ricorrendo anche a termini iperbolici come «vulnerabilità», «ostaggio», «ossessione», «persecuzione», «espiazione», «sostituzione», «trauma» ecc., tutti tesi a far emergere come la vera soggettività del soggetto, quella che lo costituisce e lo individua nella sua ipseità unica, non sia la sua attività di soggetto costituente che autonomamente si pone e pone il mondo, bensì la sua passività o «soggezione» di «soggetto» originariamente colpito da un’ingiunzione che gli viene dall’altro e dall’alto e che lo individua come responsabile d’altri prima ancora che egli possa prender posizione con un atto libero o con un atto di coscienza. Fin dall’inizio, «malgrado sé», il soggetto è, infatti, stato scelto dal bene come responsabile per altri e di altri. E Levinas ricorre anche al termine di «creatura» e di “creazione ex-nihilo” per esprimere nella massima radicalità questa straordinaria «passività» costitutiva del soggetto umano (cfr. ibi, pp. 144-145, tr. it. p. 142). La passività del soggetto, nonostante sia espressa con termini così iperbolici, non deve però far pensare in alcun modo a un’imposizione dall’esterno che violenti o schiavizzi la libertà; essa infatti non è il frutto di un intervento eteronomo che sovraggiunge a un soggetto libero già costituito, ma costituisce lo stesso soggetto umano come tale, cioè come dotato di una libertà originariamente o anarchica-

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mente «investita» dal bene, già «eletta» dal bene prima ancora di potersi scegliere per il bene o poter prendere coscienza di sé. «Il Bene investe la libertà - mi ama prima che io l’ami. Grazie a questa anteriorità l’amore è amore» (ibi, p. 13, tr. it. p. 15, n. 7). La libertà del soggetto responsabile è quindi bensì una «libertà finita», ma non per questo una libertà schiavizzata, «perché se nessuno è buono volontariamente, nessuno è schiavo del Bene» (ibi, p. 176, tr. it. p. 173). Senza contare che, come Levinas osserva, «“Grazie a Dio” io sono altri per gli altri» (ibi, p. 201, tr. it. p. 198) e quindi anch’io sono termine dell’amore disinteressato altrui. 4. La natura etica della religione e della teologia. – Fin da Totalità e infinito Levinas sceglie il termine «religione» per designare la natura della relazione etico-metafisica con altri. «Noi proponiamo di chiamare religione il legame che si stabilisce tra il medesimo e l’altro, senza costituire una totalità» (Totalité et Infini, p. 10, tr. it. p. 38). La scelta sottende un’interpretazione della religione in chiave esclusivamente etica. «La trascendenza è etica» (De Dieu qui vient à l’idée, p. 112, tr. it. p. 91). Di qui l’impegno per la purificazione della religione dal «mito», cioè da quella che egli chiama la «violenza del sacro» (Totalité et Infini, p. 49, tr. it. p. 75). Ma anche un progressivo prendere le distanze da tutto ciò che, nella religione, sembra andare oltre il rapporto etico disinteressato e gratuito, comprese la speranza di ricompensa o riconoscimento escatologico della bontà, di cui pur aveva parlato in Totalità e infinito (cfr. Totalité et Infini, p. 261, tr. it. pp. 294-295); essa fa parte delle «consolazioni» della religione o della sua funzione pedagogica, ma non è essenziale alla filosofia. Ciò non riporta la filosofia nell’orizzonte finito dell’«essere-per-la-morte» heideggeriano, poiché l’etica è in grado di prospettare, nell’«opera della bontà», un senso che neppure la morte può abolire, un «essere-per-l’al-di-là-della-mia-morte», capace di aprire un varco verso «il tempo dell’Altro» che forse solo ciò che si chiama «eternità» può rendere possibile (cfr. En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, p. 191, tr. it. p. 30). Temi questi, della morte e del tempo, su cui Levinas ritornerà con insistenza negli ultimi suoi lavori, in particolare nei corsi universitari Dieu, la Mort e le Temps. La concezione etica della religione ha il suo corrispettivo nella concezione etica della teo-

Levinas logia. Levinas ritiene, infatti, che per salvaguardare la trascendenza di Dio, propria della religione biblica, sia necessario svincolarne l’idea dallo sfondo ontologico in cui la tradizione occidentale l’ha pensata, per intenderla sullo sfondo della trascendenza etica di altri e del soggetto responsabile. «Intendere un Dio non contaminato dall’essere è una possibilità umana non meno importante e non meno precaria di quella di trarre l’essere dall’oblio in cui sarebbe caduto nella metafisica e nell’ontoteologia» (Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, p. X, tr. it. p. 2), osserva Levinas all’inizio di Altrimenti che essere. E già in Totalità e infinito diceva: «Senza il loro significato tratto dall’etica, i concetti teologici rimangono dei quadri vuoti e formali» (Totalité et Infini, p. 51, tr. it. p. 77). Nell’opera Di Dio che viene all’idea, Levinas riprende ampiamente il tema, sostenendo che la trascendenza etica di altri e quella del soggetto responsabile sono il «luogo» in cui «Dio può venire all’idea», il «tempio» ove la trascendenza divina può significare «positivamente» per noi senza contaminarsi con la trascendenza dell’ontoteologia e senza restare misticamente muta come nella teologia apofatica. Dio non può certo farsi presente come un fenomeno o come un tema del nostro discorso o come il «tu» di un nostro dialogo; Egli viene però all’idea indirettamente, nell’«eccomi» della mia disponibilità per altri. «L’infinito non è “davanti” a me; sono io che lo esprimo [...] La frase in cui Dio viene a mescolarsi con le parole non è “io credo in Dio” [...] È l’“eccomi” detto al prossimo» (De Dieu qui vient à l’idée, p. 123, tr. it. p. 98). Modificando la concezione platonica di Dio come bene, termine finale di un desiderio umano interessato, Levinas dirà che il bene è tale non perché mi attrae a sé per soddisfare il mio desiderio, ma perché, mantenendosi nella sua trascendenza, rivolge il mio desiderio verso l’assunzione di responsabilità per altri (cfr. ibi, p. 113, tr. it. p. 91). Questo modo essenzialmente etico e indiretto che ha Dio di venire all’idea non ha nulla di violento, né permette alcuna dimostrazione rigorosa della sua esistenza. Della sua «visitazione» egli lascia infatti solo della «tracce» di natura enigmatica nella trascendenza etica del soggetto e del linguaggio umani. Tutta la filosofia di Levinas è in fondo indirizzata a rendere attenti alla voce enigmatica di tale trascendenza, a quel «Dire» innominabile di Dio che parla solo nel dire di altri nei nostri confronti 6371

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Lévi-Strauss e nel nostro stesso dire nei riguardi altrui e che solo «se si vuole» si può udire. Ma proprio l’accoglienza di tale voce è ciò che permette di riscoprire il senso più profondo della dignità di ogni uomo; esso non emerge infatti né sul piano dell’essere, né su quello della soggettività trascendentale, bensì solo nella relazione etica con il «volto» altrui. Per questo la filosofia di Levinas si qualifica anche come «umanesimo dell’altro uomo». G. Ferretti BIBL.: per gli scritti di e su Levinas cfr. R. BURGGRAEVE, Emmanuel Levinas. Une bibliographie primaire et secondaire (1929-1989), Louven 1990. Tra le principali monografie, specialmente successive: S. STRASSER, Jenseits von Sein und Zeit, Den Haag 1978; S. PETROSINO - J. ROLLAND, La vérité nomade, Paris 1984; E. FERON, De l’idée de transcendance à la question du langage, Grenoble 1992; S. PETROSINO, Fondamento ed esasperazione, Genova 1992; C. CHALIER, Levinas. L’utopie de l’humain, Paris 1993; A. PEPERZAK, To the Other, West Lafayette (Indiana) 1993; G. FERRETTI, La filosofia di Levinas, Torino 1996; S. LABATE, La sapienza dell’amore, Assisi 2000. S. MALKA, Emmanuel Levinas: la vie et la trace, Paris 2002, tr. it. di C. Polledri, Emmanuel Levinas: la vita e la traccia, Milano 2003; C. CHALIER, La trace de l’infini. E. Levinas et la source hebraïque, Paris 2002; E. BONAN, Soggetto ed essere. Indagini sul pensiero di E. Levinas, Silea (TV) 2002; M.-A. LESCOURRET, Emmanuel Levinas, Paris 2006. Menzioniamo inoltre, per la loro importanza critico-teoretica, i saggi di J. DERRIDA, Violence et métaphysique, in L’écriture et la différence, Paris 1967, pp. 117-228, tr. it. di G. Pozzi, Violenza e metafisica, in La scrittura e la differenza, Torino 1971; J. DERRIDA, Adieu à E. Levinas, Paris 1997, tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Addio a E. Levinas, Milano 1998.

LÉVI-STRAUSS, CLAUDE. – Antropologo ed Lévi-Strauss etnologo, nato a Bruxelles il 28 nov. 1908. Dopo essersi laureato in filosofia, Lévi-Strauss si dedicò a studi di sociologia. Insegnò all’università di S. Paolo del Brasile, dove condusse ricerche etnografiche fra gli indigeni dell’Amazzonia e del Mato Grosso. Fuggito dalle persecuzioni razziali nella Francia di Vichy, lavorò negli Stati Uniti. Al ritorno in Francia, insegnò presso l’Ecole pratique des Hautes Etudes e successivamente assunse la cattedra di Antropologia presso il Collège de France. Al soggiorno statunitense risale l’incontro con lo strutturalismo linguistico di Roman Jakobson, in seguito al quale Lévi-Strauss perviene all’idea di una comprensione strutturale delle culture, divenendo il fondatore della cosiddet6372

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ta «antropologia strutturale». Il primo testo in questa direzione è Le structures élémentaires de la parenté (Paris 1949), con il quale LéviStrauss perviene alla notorietà come etnologo: Lévi-Strauss dimostra l’esistenza di due diverse tipologie di struttura parentale, che egli deduce da due diversi modelli di scambio delle donne, sufficienti a spiegare la struttura realizzata in ogni società umana. Ogni società si reggerebbe, infatti, su uno scambio fondamentale per tutte, quello delle donne, in virtù del quale all’ordine biologico della consanguineità viene sostituito quello culturale della parentela: ogni regola sociale, anzi, secondo Lévi-Strauss è riconducibile alle regole che definiscono questo scambio, cioè a regole e tabù che definiscono i matrimoni. Il presupposto dello strutturalismo antropologico di LéviStrauss è costituito dalla tesi secondo la quale esiste un livello fenomenico di superficie, determinato da una struttura di fondo che è espressione dell’inconscio umano, struttura che si qualifica così, nei confronti del livello empirico, come una sorta di «a priori» materiale. In questa prospettiva, lo schema strutturale inconscio costituisce il fondamento sul quale le singole culture, quali variazioni più o meno consce, si innestano. Nella concezione epistemologica di Lévi-Strauss il modello del sapere riflette quello del reale: così come la società è formata da un insieme di strutture, così anche la teoria che la indaga deve articolarsi come un sistema di categorie connesse l’una all’altra. I fondamenti teorici dell’antropologia strutturale, esposti in Anthropologie structurale (Paris 1958), sono mutuati dallo strutturalismo linguistico: l’analisi etnologica procede secondo il metodo semiologico, interpretando le diverse forme culturali come sistemi di segni costruiti dallo spirito umano, a livello inconscio, sulla base di coppie di opposizioni. In virtù della corrispondenza, sostenuta da Lévi-Strauss, fra articolazione della realtà e articolazione del sapere che la esprime, il parallelismo fra linguistica e antropologia non riguarda soltanto il metodo del sapere, ma anche il suo oggetto: le società, in altri termini, sono strutturate come un linguaggio. I principi dello strutturalismo antropologico sono applicati da Lévi-Strauss a circa 800 miti del continente americano, analizzati nei quattro volumi di Mythologiques (Paris 1964-1971): in quanto strumento di quella forma di pensiero che è il «pensiero selvaggio» specifica e pe-

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Lévy-Bruhl

culiare rispetto alla forma di conoscenza che si è imposta nelle società progredite, il mito costituisce una modalità di accesso al reale che è espressione del medesimo spirito inconscio che dà luogo alle strutture sociali e che perciò può essere studiato con gli stessi metodi.

libertà come spontaneità, analista lucido e pessimista della condizione umana, ma militante nelle file del comunismo negli anni cinquanta, nel contesto dell’ambiente politico e culturale francese e delle complesse vicende del Novecento.

S. Borutti BIBL.: Tristes tropiques, Paris 1955; Le totémisme aujourd’hui, Paris 1962; La pensée sauvage, Paris 1962; Mythologiques, Vol. I: Le cru et le cuit, Paris 1964; vol. II: Du miel aux cendres, Paris 1966; vol. III: L’origine des manières de table, Paris 1968; vol. IV: L’homme nu, Paris 1971; Anthropologie structurale deux, Paris 1973. Su Lévi-Strauss: J. DERRIDA, La violence de la lettre de Lévi-Strauss à Rousseau, in De la grammatologie, Paris 1967, tr. it. a cura di G. Dalmasso, La violenza della lettera da Lévi-Strauss a Rousseau, in Della grammatologia, Milano 1969; S. MORAVIA, La ragione nascosta. Scienza e filosofia nel pensiero di Claude LéviStrauss, Firenze 1969; F. REMOTTI, Claude LéviStrauss. Struttura e storia, Torino 1971; F.H. LAPOINTE - C.C. LAPOINTE, Claude Lévi-Strauss and His Critics. An International Bibliography of Criticism (19501976). Followed by a Bibliography of the Writings of Claude Lévi-Strauss, New York - London 1976; S. NANNINI, Il pensiero simbolico. Saggio su Lévi-Strauss, Bologna 1981.

I. Kajon

LEVY, BERNHARD HENRY. – N. a Parigi nel Levy 1948, saggista e scrittore. È un esponente della «nouvelle philosophie», corrente affermatasi in Francia alla fine degli anni settanta in funzione critica delle idee espresse dai movimenti politici di ispirazione marxista degli anni sessanta. Dedica i suoi primi scritti (La barbarie à visage humain, Paris 1977; L’idéologie française, Paris 1981) a una critica degli ideali umanistici e universalistici del razionalismo moderno, studiando gli effetti delle ideologie di emancipazione politica e sociale nella storia del Novecento. Nelle opere seguenti mette in rilievo l’importanza dei miti, delle religioni, dell’arte nell’esperienza umana (Impressions d’Asie, Paris 1985; Les derniers jours de Charles Baudelaire, Paris 1988; Piero Della Francesca, Paris 1992; Piet Mondrian, Paris 1992), e indaga il ruolo degli intellettuali in rapporto alla società e alla politica (Eloge des intellectuels, Paris 1987; Les aventures de la liberté, Une histoire subjective des intellectuels, Paris 1991). In Le siècle de Sartre. Enquête philosophique, Paris 2000 (tr. it. Il secolo di Sartre, Milano 2004) mostra l’ambiguità della figura e dell’opera di Sartre, difensore della

LÉVY-BRUHL, LUCIEN. – Filosofo e socioloLévy-Bruhl go, n. a Parigi il 10 aprile 1857, m. ivi il 13 marzo 1939. Prima di dedicare allo studio delle mentalità primitive trent’anni di attività e di ricerche, Lévy-Bruhl ebbe un’ evoluzione filosofica che perseguì orientamenti diversi. In gioventù fu kantiano e discusse una tesi sull’idea di responsabilità; ottenne, in seguito, la cattedra di Storia delle idee politiche e dello spirito pubblico in Germania all’Ecole des Sciences politiques. Chiamato alla Sorbona a succedere a Boutroux, si avvicinò alla filosofia del sentimento di Jacobi; pur vedendo in essa la possibilità di superare il razionalismo aprioristico e di comprendere la sfera extrarazionale dell’uomo, non vi aderì mai completamente, perché finiva, secondo Lévy-Bruhl, per abdicare al compito valutativo della ragione. Lévy-Bruhl si volse successivamente, nell’intento di rielaborare il rapporto tra filosofia e scienza, al positivismo e a Comte, da un lato negando la possibilità di una morale fondata su elementi di carattere meramente teorico-normativo, dall’altro proponendone una di tipo sociologico: secondo Lévy-Bruhl, a uno stato sociale interamente definito corrisponde un sistema, più o meno armonico, di regole morali interamente definite. Il relativismo morale di Lévy-Bruhl ha la sua corrispondenza e sviluppo in quel relativismo gnoseologico che appare pienamente nei suoi studi sulla mentalità primitiva, che negano l’unicità, nel tempo e nello spazio, delle forme di pensiero dell’uomo. Mentre l’uomo moderno giudica attraverso il principio d’identità, il primitivo, dominato da una mentalità prelogica che si manifesta nelle rappresentazioni collettive, realizza una «partecipazione» di carattere mistico con l’oggetto della sua conoscenza. Il dualismo di pensiero logico e pensiero prelogico, corrispondente a quello fra «pensiero primitivo» e «pensiero sviluppato», oggetto di critica, per esempio, da parte di Claude Levi-Strauss, fu rivisto dallo stesso LévyBruhl (cfr. i Cahiers, postumi), ma non compiutamente rielaborato, a seguito della scompar6373

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Lewes sa dell’autore. Secondo l’ultimo Lévy-Bruhl, non si verificherebbe tanto la contrapposizione storica di due logiche diverse, quanto la coesistenza, nell’uomo, di due diverse forme di esperienze, una naturalistica e una mistica. Nel primitivo prevale la mentalità mistica, per cui determinate compatibilità, che l’esperienza naturalistica respinge come impossibilità logiche, non risultano essere tali: lo stregone può essere, al contempo, sia un uomo, cioè un essere naturale, sia un essere soprannaturale, oppure, anche, un animale, per cui egli può esercitare la sua azione in modi e tempi che il pensiero moderno giudicherebbe incompatibili l’un l’altro. N. Matteucci BIBL.: La philosophie de Jacobi, Paris 1894; La philosophie de A. Comte, Paris 1900; La morale et la science des mœurs, Paris 1903; Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures, Paris 1910, tr. it. di S. Lener, Psiche e società primitive, Roma 1970; La mentalité primitive, Paris 1921, tr. it. di D. Cocchiara, La mentalità primitiva, Torino 1982; L’âme primitive, Paris 1927, tr. it. di A. Macchioro, L’ anima primitiva, Torino 1990; Le surnaturel et la nature dans la mentalité primitive, Paris 1931, tr. it. di S. Lener, Sovrannaturale e natura nella mentalita primitiva, Roma 1973; La mythologie primitive. Le monde mythique des Australiens et des Papous, Paris 1935; L’expérience mystique et les symboles chez les primitifs, Paris 1938; Les carnets de Lucien Lévy-Bruhl, a cura di M. Leenhardt, Paris 1949, tr. it. di A. Macchioro de Martino, I Quaderni, Torino 1952. Su Lévy-Bruhl: E. DE MARTINO, Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Bari 1941; M. LEENHARDT, Les carnets de Lucien Lévy-Bruhl, in «Cahiers internationale de sociologie», 1 (1949), pp. 28-42; É. BRÉHIER, Originalité de Lévy-Bruhl, in «Revue philosophique de France et de l’étranger», 3 (1949), pp. 385-388; W. KOPPERS, Lévy-Bruhl und das «prälogische Denken» der Primitiven, in «Hochland», 1 (1951-52), pp. 6972; Centenaire de Lucien Lévy-Bruhl, n. mon. «Revue philosophique de France et de l’étranger», 4 (1957); J. CAZENEUVE, Lucien Lévy-Bruhl. Sa vie, son oeuvre avec un exposé de sa philosophie, Paris 1963; E. EVANSPRITCHARD, Theory of Primitive Religion, Oxford 1965; S. MANCINI, Da Lévy-Bruhl all’antropologia cognitiva. Lineamenti di un teoria della mentalità primitiva, Bari 1989.

LEWES, GEORGE HENRY. – Positivista ingleLewes se, n. a Londra nel 1817, m. ivi nel 1878. In gioventù, conquistato dal positivismo di A. Comte, scrive A Biographical History of Philosophy (London 1845-46); The History of Philo6374

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sophy from Thales to Comte, ivi 18785, 2 voll., una delle prime opere in lingua inglese che si propone di mostrare l’inefficacia dei tentativi di pensiero anteriori al Cours de philosophie comtiano. Il pensiero di Comte viene esposto anche in Comte’s Philosophy of Science (ivi 1853). Oltre alla storia della filosofia, Lewes raggiunge fama europea con i due volumi di The Life and Works of Goethe (ivi 1855), mentre poca fortuna ha il saggio Aristoteles (ivi 1864). Le concezioni teoriche di Lewes, che – partito da Comte – si va accostando a Spencer, sono esposte in Physiology of Common Life (ivi 185960, 2 voll.) e soprattutto nei cinque volumi dei Problems of Life and Mind (ivi 1874-79), di cui l’ultimo incompleto. Lewes distingue dall’empirico un «metaempirico» (termine da lui stesso foggiato) che talvolta sembra interpretato come qualcosa di esistente, ma inconoscibile, alla maniera di H. Spencer, a volte come inesistente, altre volte, infine, non solo come esistente, ma anche, in qualche misura, conoscibile. Per Lewes, la filosofia è la suprema astrazione e generalizzazione dei dati scientifici; ma si ammette anche l’esistenza di problemi metafisici quali oggetto proprio della filosofia, che deve trattarli sempre con metodo scientifico. Le idee più interessanti di Lewes si trovano nella dottrina dell’evoluzione, dove egli, precorrendo Lloyd Morgan, distingue tra fattori «emergenti», non riducibili a qualcosa di preesistente, e fattori «risultanti». V. Mathieu BIBL.: J. KAMINSKY, The Empirical Metaphysics of George Henry Lewes, in «Journal of the History of Ideas», 13 (1952), pp. 314-332; H.G. TJOA, George Henry Lewes: a Victorian Mind, Cambridge (Massachusetts) 1977; J.M. ROBICHEAU, George Henry Lewes, George Eliot and Anthony Trollope: Experiments in Realism, Toronto 1986; R. DE SAILLY, George Eliot, George Henry Lewes and the Logic of Signs, in «Literature and Aesthetics», 7 (1997), pp. 115-124.

LEWIN, KURT. – Psicologo, n. a Mogilno (PoLewin snania) il 9 nov. 1890, m. a Newton (Massachusetts) il 12 febbr.1947, tra i massimi rappresentanti della psicologia della forma. Si distingue dagli altri gestaltisti, che privilegiavano temi di psicologia cognitiva, per le ricerche sulla motivazione, sulle emozioni, sui gruppi, costruendo una psicologia dinamica e una sociale di orientamento gestaltista. Studia a Berlino, seguendo pure lezioni di Cassirer, per lau-

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rearsi con Stumpf nel 1916. Privatdozent dal 1921, entra all’Istituto di psicologia di Berlino, dove collabora con Köhler e Wertheimer. Nel frattempo forma un gruppo di promettenti allievi (tra cui Bluma Zeigarnik e Tamara Dembo). Trasferitosi negli USA nel 1933, dove peraltro era già noto e apprezzato, insegna in diverse università, per approdare nel 1945 al prestigioso MIT. Qui fonda il Research Center for Group Dynamics; la collaborazione di questo Centro col Tavistock Institute di Londra, di orientamento psicoanalitico, porterà alla fondazione dell’importante rivista «Human Relations». L’articolo a carattere epistemologico The Conflict between Aristotelian and Galileian Modes of Thought in Contemporary Psychology (in «Journal of General Psychology», 5 [1931], pp. 141177, poi confluito in K. Lewin, A Dynamic Theory of Personality, New York 1935, tr. it. di G. Petter, Teoria dinamica della personalità, Firenze 1965) – nel quale si ravvisa l’influenza del Cassirer di Substanzbegriff und Funktionsbegriff. Untersuchungen über die Grundfragen der Erkenntniskritik (Berlin 1910, tr. it di E. Arnaud - G.A. De Toni, Sostanza e funzione. Sulla teoria della relatività in Einstein, Firenze 1973) – appare come il manifesto programmatico dell’orientamento di Lewin. La concezione «sostanzialistica» di Aristotele sarebbe paradigmatica della psicologia scientifica contemporanea, in quanto quest’ultima mira a cogliere, sia pure per via statistica, i caratteri universali della persona, approdando a una visione statica e classificatoria che elude la singolarità del caso individuale. Di contro, la psicologia che Lewin intende costruire prende a modello la concezione «funzionale» della scienza, che con Galilei mira a identificare non già le essenze, bensì le correlazioni tra variabili, studiando le relazioni del caso singolo con i fattori circostanziali: «la dinamica dei processi deve essere sempre derivata dalle relazioni tra l’individuo concreto e la situazione concreta e, nella misura in cui tali processi riguardano forze di origine interiore, dalle mutue relazioni tra i vari sistemi funzionali che compongono l’individuo» (K. Lewin, The Conflict between..., tr. cit., p. 48). Il programma della costruzione di una psicologia dinamica vede, invero, il concorso di concetti sia fenomenologici sia meccanici. Per il primo aspetto, che gli viene dalla formazione con Stumpf, rilevante è la nozione di spazio di vita (Lebensraum), cioè quel «campo» entro il

Lewin quale sono definite esaustivamente le condizioni, interne ed esterne, del comportamento del singolo; tale spazio è tutt’uno con la persona (Person) e assume cangiante valore in funzione dei bisogni e interessi della persona al momento vigenti. Questa lezione – per la quale il mondo fisico va distinto dal mondo «oggettivo» o psichico – è illustrata in un precorritore articolo dedicato al paesaggio di guerra (Kriegslandschaft, in «Zeitschrift für angewandte Psychologie», 12 [1917], pp. 440-447): rilevante è la metamorfosi della percezione del paesaggio in funzione dell’avvicinamento al territorio nemico. La raccolta di articoli A Dynamic Theory of Personality esplicita i principi della nuova psicologia incentrata sul campo come spazio interattivo, piuttosto che sul singolo e sulle sue interne motivazioni. In sintesi, il comportamento è funzione del rapporto di interdipendenza tra la persona e l’ambiente; con una formula: C=f(P, A). L’aspetto meccanico dell’impianto di Lewin, dal canto suo, consiste nell’uso sistematico delle nozioni di energia, di forza e di vettore: le tensioni (Spannungen), generate da bisogni e intenzioni interni alla persona, al pari di forze-vettori, premono per scaricarsi, promuovendo qualche azione; mentre le valenze (Valenzen, termine assunto dalla chimica), quali sorte di forze attrattive – o al contrario repulsive – di cui sono dotate le entità presenti nel campo (naturalmente dal punto di vista della persona), sollecitano l’azione nel loro verso – o nel verso opposto. La conoscenza dell’entità di queste forze, nonché delle forze (ostacoli, proibizioni) che nel campo si oppongono alle prime, permetterebbe di prevedere univocamente l’effettivo comportamento di una «persona concreta in una situazione concreta». Il modello si complica, dovendo tener conto che l’interno stesso della persona è un insieme di «regioni», tanto più articolate in funzione dell’età della persona, dove si giocano bisogni e aspirazioni anche in reciproca opposizione. Al fine di realizzare tale programma Lewin, come preannuncia nel lavoro epistemologico menzionato, pensa di doversi appoggiare alla topologia (già analysis situs) – disciplina che, divenuta fondativa della geometria, studia le mere relazioni spaziali a prescindere dalla metrica, focalizzando tra l’altro le relazione di interno/esterno, le condizioni di passaggio del confine ecc. Gli ambiti cui si volge l’interesse della persona vengono assimilati, attraverso le 6375

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Lewis

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raffigurazioni grafiche di cui abbonda l’opera di Lewin, a spazi topologici, mentre la nozione fisico-geometrica di vettore è utilizzata per illustrare gli spostamenti che la persona compie da una regione all’altra del suo spazio di vita (Principles of Topological Psychology, New York 1936, tr. it. di A. Ossicini, Principi di psicologia topologica, Firenze 1961). Lewin approda così alla costruzione dell’«odologia», lo studio delle vie attraverso cui avvengono detti passaggi, sia che si tratti di movimento fisico, o «locomozione», sia di mero cambiamento di interesse mentale. La psicologia dinamica di Lewin intende essere più rigorosa sotto il profilo scientifico di quella freudiana, introducendo metodicamente la sperimentazione e lavorando inoltre sulle relazioni presenti e non sulla storia passata. Essa, facendo leva sulla nozione di campo come area psichica sovraordinata al singolo individuo e a un tempo con lui solidale, è di per sé aperta pure a intendere i fenomeni di gruppo. La struttura complessiva del gruppo e i conseguenti comportamenti dei membri non dipendono dalla sommatoria delle caratteristiche dei singoli, bensì dalle interazioni complessive vigenti tra gli stessi; il gruppo va dunque concepito come una «totalità dinamica» caratterizzata dalla sistematica interdipendenza dei membri (Field Theory in Social Science, Chicago 1951, tr. it. di M. Baccianini, Teoria e sperimentazione in psicologia sociale, Bologna 1972). Esemplari in questo senso sono le sperimentazioni sulle reazioni aggressive in gruppi di adolescenti: i pregressi caratteri della personalità di ciascuno si subordinano alla complessiva atmosfera (climate) del gruppo, instauratasi a seguito del differente stile di conduzione del leader (cfr. l’articolo scritto con R. Lippitt e R. White, Patterns of Aggressive Behavior in Experimentally Created «Social Climates», in «Journal of Social Psychology», 10 [1939], pp. 271-299). Da notare infine le ricerche e applicazioni volte a elaborare strategie di intervento sociale (la cosiddetta action research); a proposito si segnalano l’istituzione di T-groups (gruppi di training), per la formazione di leader in vista della soluzione di conflitti in un clima di cooperazione, nonché gli interventi operativi in contesti di fabbrica (Lewin fu consulente alla Harwood Manufacturing Corporation).

LEWIS, CLARENCE IRVING. – Filosofo americaLewis no, n. a Stoneham (Massachusetts) il 12 apr. 1883, m. a Menlo Park (California) il 4 febbr. 1964. Insegnò all’università della California e a Harvard. Prendendo le distanze dai Principia di Russell e Whitehead, propose una logica modale intensionale in grado di esprimere sia l'implicazione materiale che quella logica (Survey of Symbolic Logic, Gloucester 19612 [Berkeley Los Angeles 1918]; Symbolic Logic, con C.H. Langford, New York 19592 [1932]). In seguito sviluppò il «pragmatismo concettualistico» (Mind and the World Order, New York 1929, tr. it. a cura di S. Cremaschi, Pensiero e l’ordine del mondo, Torino 1977), in cui coniuga idealismo (Royce), logica simbolica e pragmatismo. La conoscenza empirica dipende da un «dato» sensibile certo (immune da errore e giustificato: fondazionalismo) e con un carattere qualitativo riconoscibile (qualia), e da un «apriori variabile» (concetti e idee prodotti dall’eredità sociale e dall’interesse cognitivo dell’agente) in relazione all’estendersi della conoscenza. Ogni forma di conoscenza è comunque sempre e solo di natura ipotetica. Successivamente affinò la sua dottrina, sviluppando il modello psico-biologico di ricerca, con cui realizza una precisa teoria del significato (una posizione intermedia tra le interpretazioni estreme della verificabilità e le tesi convenzionalistiche). L’etica (teorie del valore), come l’epistemologia (antipsicologistica) e la logica, è una forma di ragione pratica (An Analysis of Knowledge and Valutation, New York 1957, [La Salle, Illinois 1946]). Alla sua fondazione dedicò gli ultimi venti anni di vita.

M. Fornaro

G. Bastianoni

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BIBL.: Kurt Lewin Werkausgabe, a cura di C.E. Graumann, Bern-Stuttgart 1981-1983, 6 voll. Su Lewin: E. MELANDRI, Kurt Lewin: la psicologia come scienza galileiana, in «Rivista di Filosofia», 58 (1967), pp. 31-64; A. MARROW,The Practical Theorist: The Life and Work of Kurt Lewin, New York 1969, tr. it. di G. Rossetti Pepe, Kurt Lewin: fra teoria e pratica, Firenze 1977; A. OSSICINI, Kurt Lewin e la psicologia moderna, Roma 19813; W. SCHÖNPFLUG (a cura di), Kurt Lewin: Person, Werk, Umfeld. Historische Rekonstruktionen und aktuelle Wertungen aus Anlass seines hundersten Geburtstags, Frankfurt a.M. 1992; G. CONTESSA (a cura di), Attualità di Kurt Lewin, Torino 1998; C. TROMBETTA - L. ROSIELLO, La ricerca-azione. Il modello di Kurt Lewin e le sue applicazioni, Trento 2000.

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

BIBL.: The Pragmatic Element in Knowledge, Berkeley - Los Angeles 1926; Our Social Inheritance, Bloomington 1957; Autopresentazione: Logic and Pragmatism, in J. DEWEY et al. (a cura di), Contemporary American Philosophy, New York 1962 (1930), vol. II, pp. 33-51; The Ground and Nature of the Right, New York 1965; Values and Imperatives: Studies in Ethics, a cura di J. Lange, Stanford 1969; J. GOHEEN - J. MOTHERSHEAD (a cura di), Collected Papers of C.I. Lewis, Stanford 1970; Undeceptions: Essays on Theology and Ethics, London 1971. Su Lewis: P.A. SCHILPP (a cura di), The Philosophy of C.I. Lewis, La Salle 1968; J.R. SAYDAH, The Ethical Theory of C.I. Lewis, Athens 1969; S.B. ROSENTHAL,The Pragmatic a priori: Study in The Epistemology of C.I. Lewis, St. Louis 1976; E. FLOWER - M.G.A. MURPHEY, A History of Philosophy in America, New York 1977, pp. 892-958; B. KUKLICK, The Rise of American Philosophy, New Haven 1977, pp. 533-562; S. HAACK, C.I. Lewis, in AA.VV., American Philosophy, Cambridge 1986, pp. 215-238; CH.W. GOWANS, Two Concepts of the Given in C.I. Lewis, in «Journal of the History of Philosophy», 27 (1989), pp. 573-590; E.P. COLELLA, C.I. Lewis and the Social Theory of Conceptualistic Pragmatism, New York 1992; E. DAYTON, C.I. Lewis and the Given, in «Transactions of the Charles S. Pierce Society», 31 (1995), pp. 254-284; P.K. MOSER (a cura di), Human Knowledge, Oxford 2002; A. MARSOOBIAN - J. RYDER (a cura di), The Blackwell Guide to American Philosophy, Oxford 2004.

LEWIS, DAVID. – Filosofo e logico statunitenLewis se, n. a Oberlin (Ohio) il 28 sett. 1941, m. a Princeton il 14 ott. 2001. Professore all’università di Princeton. Lewis ha contribuito in maniera efficace e originale al dibattito contemporaneo in logica, filosofia del linguaggio, filosofia della logica e ontologia. I suoi primi lavori analizzano il fenomeno della convenzione linguistica e della possibilità di trattare questa nozione in maniera rigorosa al fine di specificare la nozione stessa di linguaggio. Particolarmente interessante è la sua indagine sugli enunciati controfattuali («se Carlo avesse studiato, avrebbe superato l’esame»). Un enunciato controfattuale del tipo «se A, B» può essere esplicitato mediante la parafrasi «esiste un mondo possibile m in cui A e B sono veri, tale che nessun mondo in cui sono veri A e nonB è più simile a m del mondo reale». Utilizzando proprio questa interpretazione dei controfattuali, Lewis ha messo a punto una particolare teoria della causalità. La posizione di Lewis riguardo i mondi possibili è chiamata spesso di «iper realismo». I mondi possibili

Lewis sono reali esattamente come il mondo attuale; semplicemente non sono a noi accessibili perché situati su altri piani spazio-temporali. Le alternative all’individuo Socrate non sono pertanto individui «possibili» ma «controparti» del Socrate attuale. In effetti, lo stesso concetto di attualità si riduce a un indicale; siamo noi che chiamiamo il nostro mondo «attuale» esattamente come le nostre controparti chiamano il loro mondo «attuale». A questa visione di realismo modale estremo si oppone un approccio più moderato, che vede tra i suoi sostenitori Alvin Plantinga, secondo cui esiste una reale differenza ontologica tra attualità e possibilità. Lewis ha utilizzato la semantica dei mondi possibili per interpretare enunciati e contesti finzionali ovvero per rendere significative espressioni in cui compaiono personaggi mitologici o letterari. Infine, Lewis ha tentato una riformulazione della teoria degli insiemi nei termini della mereologia, ovvero della teoria delle parti. C. De Florio BIBL.: opere principali: Convention: A Philosophical Study, Cambridge (Massachusetts) 1969; Counterfactuals, Oxford 1973 (rist. 1986); Philosophical Papers, vol. I, New York 1983; New Work for a Theory of Universal, in «Australasian Journal of Philosophy», 61 (1983), pp. 343-347; Philosophical Papers, vol. II, New York 1987; Parts of Classes, Oxford 1991.

LEWIS, HYWEL DAVID. – Filosofo inglese, n. il Lewis 21 magg. 1910 e m. il 6 apr. 1992. Studiò nell’università del Galles, a Bangor e a Oxford. Insegnò filosofia a Bangor dal 1935 al 1955, anno in cui divenne professore di storia e di filosofia della religione al King’s College di Londra. La filosofia della religione di Lewis è incentrata sui temi della libertà e della responsabilità dinanzi alla rivelazione, sul problema dell’esistenza di Dio e dei rapporti mente-corpo e ragione-esperienza. Sottolinea la relazione tra l’esperienza religiosa e la teologia non soltanto metafisica, ma anche rivelata, e critica duramente la filosofia analitica del linguaggio, accusata di non cogliere le peculiarità del discorso religioso. Dopo la morte di J.H. Muirhead è stato direttore della Muirhead Library of Philosophy. F.C. Copleston - M. Bastianelli BIBL.: Morals and the New Theology, London 1947; Morals and Revelation, London 1950; Worship and Idolatry, in Contemporary British Philosophy. Personal

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Liard Statements. 3rd Series, London - New York 1956, pp. 263-286; Our Experience of God, London 1959; Freedom and History, London 1962; Clarity is not Enough: Essays in Criticism of Linguistic Philosophy, a cura di H.D. Lewis, London 1963; Philosophy of Religion, London 1965; The Self and Immortality, London 1973; Editor’s Preface in Contemporary British Philosophy. Personal Statements. 4th Series, London 1976; Persons and Life after Death, London 1978; The Elusive Self Based on «The Gifford Lectures» Delivered in the University of Edinburgh 1966-68, London 1982. Su Lewis: AA.VV., Religion, Reason and the Self. Essays in Honour of H.D. Lewis, Cardiff 1989.

LIARD, LOUIS. – Pensatore francese, n. a FaLiard laisie (Calvados) nel 1846, m. a Parigi nel 1917. Professore a Bordeaux e membro dell’accademia delle scienze morali e politiche, collabora all’organizzazione dell’insegnamento universitario francese. Nell’opera La science positive et la métaphysique (Paris 1879) afferma che la metafisica non è una scienza; tuttavia l’assoluto esiste, anche se il concetto non può essere determinato scientificamente. Liard abbozza una metafisica morale, del tutto separata dalla scienza. Nell’opera, che esprime le esigenze di un’epoca, vengono distinti il rispetto per la scienza e le aspirazioni morali soddisfatte in senso kantiano in una metafisica dei valori. C. Rosso BIBL.: Les définitions géométriques et les définitions empiriques, Paris 1874 (tesi di dottorato); Les logiciens anglais contemporains, Paris 1878; Descartes, Paris 1881, 19032; Logique, Paris 1884. Su Liard: L. DAURIAC, Louis Liard, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 33 (1926), pp. 379423; J. BENRUBI, Les sources et les courants de la philosophie contemporaine en France, Paris 1933, vol. I, pp. 468-471; J.-P. MARGOT, Fisica y metafisica, in «Ideas y Valores», 112 (2000), pp. 25-35.

LIBANIO (Libavnio"). – Retore platoneggianLibanio te, nato ad Antiochia nel 314, morto ivi verso il 393. Collaborò al vano tentativo compiuto da Giuliano l’Apostata di restaurare il paganesimo. La sua opera comprende 34 orazioni, spesso violentemente anticristiane, una cinquantina di declamazioni (meritatamente famosa la prima: Apologia di Socrate), le esercitazioni e le lettere (più di 1500). Fu suo discepolo Giovanni Crisostomo. G. Faggin BIBL.: ed. R. FÖRSTER (a cura di), Leipzig 1903-27, 12 voll., ripr. Hildesheim 1963; O. SEECK (a cura di), Die

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Briefe des Libanius, Leipzig 1906, ripr. Hildesheim 1966; Discours sur le patronage, tr. fr. a cura di L. Armand, Paris 1955; Oration in Praise of Antioch, tr. ingl. di G. Downey, in «Proceedings of the American Philosophical Society», 103 (1959), pp. 652-686 (orazione XI); B. SCHOULER, Libanios, Discours Moraux, Introduction, texte et traduction, Paris 1973 (discorsi VI, Vll, VIII e XXV). Su Libanio: H. MARKOWSKI, De Libanio Socratis defensore, Breslau 1910, rist. Hildesheim 1970; E. RICHTSTEIG, Libanius qua ratione Platonis operibus usus sit, Breslau 1918; R. PACK, Two Sophists and Two Emperors (Aristides and Libanius, M. Aurelius and Julianus), in «Classical Philology», 52 (1947), pp. 17-20; P. PETIT, Libanius et la vie municipale à Antioche au IVe siècle après Jean Chrysostome, Paris 1955; P. PETIT, Les étudiants de Libanius, un professeur de Faculté et ses élèves au Bas Empire, Paris 1956; A.-J. FESTUGIÈRE, Antioche païenne et chrétienne. Libanius, Chrysostome et les moines de Syrie, Paris 1959; G. FATOUROS - T. KRISCHER - D. NAJOCK, Concordantiae in Libanium, Hildesheim 1987-2000, 2 tt. in 5 voll.; H.U. WIEMER, Libanios und Julian, München 1995.

LIBELT, KAROL. – Filosofo e uomo politico Libelt polacco, n. a Poznan nel 1807, m. a Brdowo nel 1875. Studiò a Berlino e alimentò le sue convinzioni liberali con un soggiorno a Parigi; partecipò alla rivoluzione polacca del 1831, alle agitazioni in Posnania, al parlamento tedesco di Francoforte. Nell’ambito del «messianismo polacco» Libelt sviluppò un sistema che si oppose a quello di Hegel. Secondo Libelt la ragione è di natura critica, perciò distruttiva; la forza spirituale che ci può dare una visione costruttiva e sintetica del mondo è l’immaginazione. Essa ha tre gradi: è forza creativa e assoluta (Dio); forza soggettiva condizionata (uomo); forza oggettiva (natura). La molla interna dell’evoluzione storica è la tendenza dell’umanità alla perfezione, che si consegue realizzando gli ideali supremi del bene, del vero e del bello. Protagonista di questa evoluzione è il popolo o la nazione, unità fondata sull’intimo vincolo della tradizione e della religione. Le due categorie supreme del divenire storico sono per Libelt gli «statuti», cioè l’esistenza obiettiva del diritto, le istituzioni, e l’«atto», cioè l’azione conforme all’intima legge di sviluppo dello spirito. Libelt denominò il suo sistema «morfologia», sistema tutto dominato da una profonda ispirazione estetica. G. Warszawski

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Liberalismo

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BIBL.: O odwadze cywilnej (Del coraggio civile), in «Rok» (Anno), 1843, II, pp. 8-73; Filozofía i krytyka (Filosofia e critica), Poznan 1845-50 Pisma pomniejsze (Opere filosofiche minori), Poznan 1849-51, 6 voll. Su Libelt: Z. KACZMAREK, Zródla pogladów estetycznych Libelta (Fonti per I’estetica di Libelt), Poznan 1930; Z. GROT, Zycie i dzialalno’s’c Karol Libelta, Poznan 1977.

versali da Platone alla fine del Medioevo, Firenze 1999; Eckhart, Suso, Tauler et la divinisation de l’homme, Paris 1996, tr. it. di P. Brugnoli, Eckhart, Suso, Taulero e la divinizzazione dell’uomo, Roma 1999; Archéologie et reconstruction. Sur la méthode en histoire de la philosophie médiévale, in K.-O. APEL - J. BARNES - A. DE LIBERA - K. MULLIGAN, Un siècle de philosophie (19002000), Paris 2000, pp. 552-587.

LIBERA, ALAIN DE. – Filosofo e storico della Libera

LIBERALE.

filosofia medioevale francese, n. a Neully sur Seine il 27 sett. 1948. Ricercatore del CNRS (1975), dal 1985 è stato direttore della quinta sezione dell’Ecole Pratique des Hautes Etudes (Sciences religieuses), occupandosi della storia delle teologie nell’Occidente medievale. Attualmente è professore ordinario di storia della filosofia medioevale all’università di Ginevra. I suoi scavi più espansi di ricerca comprendono una rinnovata lettura dei testi della logica e della metafisica medioevali, dei principali maestri della mistica renana e della storia delle tradizioni testuali dei filosofi (greci, arabi e latini) dalla tarda antichità sino al Rinascimento. Libera definisce la propria ricerca come una «archeologia filosofica pratica sulla lunga durata», in cui il compito dello storico della filosofia medioevale punta a comprendere la genesi di una tesi filosofica all’interno del campo degli enunciati al quale essa appartiene; l’attenzione alla lunga durata fa emergere la persistenza di problemi e concetti in più tempi e in più spazi: accade così, per esempio, che il pensiero neoplatonico (Proclo) riaffiori nell’Islam, in Alberto Magno e in Tommaso d’Aquino con diversità di assunzioni prospettiche e con diversi idiomi. Libera ha curato l’edizione di scritti di Ruggero Bacone, Ulrico di Strasburgo, Averroè, Tommaso d’Aquino, Teodorico di Freiberg e Porfirio; è altresì autore di molte opere di alta divulgazione, soprattutto sulla mistica medioevale e su vari aspetti del pensiero islamico. A. Ghisalberti BIBL.: La philosophie médiévale, Paris 1989, 20015 (rist. 2004), tr. it. di E. Bassato, La filosofia medievale, Bologna 1991, tr. it. di F. Ferri, Storia della filosofia medievale, Milano 1995; La mystique rhénane: d’Albert le Grand à Maître Eckhart, Paris 1994, tr. it. di A. Granata, Introduzione alla mistica renana: da Alberto Magno a Meister Eckhart, Milano 1998; La querelle des universaux de Platon à la fin du moyen âge, Paris 1996, tr. it. di R. Chiaradonna, Il problema degli uni-

LIBERALE, Liberale

CATTOLICESIMO: V. CATTOLICESIMO

LIBERALISMO (liberalism; Liberalismus; liLiberalismo béralisme; liberalismo). – SOMMARIO: I. Definizione e cenni storici. - II. Mandeville e i moralisti scozzesi. - III. L’origine inintenzionale delle norme e delle istituzioni sociali. - IV. Giustizia e ordine sociale. - V. Il problema dei beni pubblici. - VI. Diritti naturali e separazione dei poteri. I. DEFINIZIONE E CENNI STORICI. – Il liberalismo è l’idea della libertà individuale di scelta, conseguita tramite la limitazione e il controllo del potere politico. Esso affonda le sue radici nell’antichità classica, ma ha assunto la sua forma moderna a partire dalla metà del Seicento e dal secolo successivo come insieme dei principi politici dei whigs inglesi. Stando a Benjamin Constant (De la liberté des anciens comparée a celle des modernes, Paris 1819, tr. it. di L. Nutrimento, La libertà degli antichi paragonata a quella dei posteri, Treviso 1966), ci fu un unico stato che nell’antichità praticò l’idea liberale. E fu Atene. Una tesi, questa, che in tempi più recenti è stata condivisa da ben qualificati studiosi. Gustave Glotz (La cité greque, Paris 1968, p. 150) è giunto ad affermare che Atene è da considerarsi la «terra classica della libertà», il luogo in cui «lo Stato doveva mettere tutta la sua potenza al servizio degli individui»; e ha aggiunto che l’uguaglianza dinanzi alla legge fu per gli ateniesi «la condizione di libertà». Da parte sua, Max Pohlenz (Der hellenische Mensch, Göttingen 1947, tr. it. di B. Proto, L’uomo greco, Firenze 1995, p. 215) ha sostenuto che ad Atene fece la sua comparsa «il principio fondamentale del liberalismo moderno», secondo cui ciascun cittadino «deve conservare la libertà di pensiero, di agire autonomamente e di manifestare la propria opinione, mentre lo Stato ha da immischiarsi quanto meno possibile nella vita privata dei singoli». 6379

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Liberalismo Perché le pubbliche autorità devono interferire il meno possibile con le attività volontariamente svolte dai cittadini? Il liberalismo muove da una premessa gnoseologica che accompagna tutta la sua storia e che tuttavia viene molto sovente trascurata. Tale premessa consiste nel riconoscimento dell’ignoranza e della fallibilità dell’essere umano. Lord Acton (Essays in the History of Liberty, Bridgnorth s.d., tr. it. di E. Capozzi, Storia della libertà, Roma 1999, p. 54) ha considerato Solone come il «più profondo genio politico dell’antichità», per il fatto che questi fu esemplarmente consapevole del problema dei limiti della conoscenza umana. E, a causa di ciò, respinse l’idea di mettere la vita collettiva nelle mani di un unico legislatore, ritenuto portatore di una sorta di onniscienza. Se tutti siamo ignoranti e fallibili, nessuno può ergersi a depositario di un «punto di vista privilegiato sul mondo». Dobbiamo tutti poter esercitare la nostra libertà di scelta, avere la possibilità di proporre i nostri progetti, per poter così «scoprire» le migliori soluzioni o, semplicemente, chi di noi sa far meglio. Il che può essere prioritariamente garantito solo tramite l’adozione del principio di uguaglianza dinanzi alla legge (e, come si vedrà, il tutelato riconoscimento della proprietà privata). Il liberalismo è perciò la lotta contro la presunzione che ci possa essere una fonte privilegiata della conoscenza e contro la conseguente assunzione che tale fonte possa legittimare un potere politico illimitato, repressore dell’autonomia individuale. Tutto ciò emerge con particolare chiarezza dalle vicende del Seicento inglese: dalla lunga contrapposizione fra monarchia e parlamento, dalla guerra civile, dall’emanazione dell’Habeas corpus (1679) e dalla Gloriosa Rivoluzione (1688). Eventi dentro cui hanno pure svolto una funzione decisiva libertà già conquistate nel periodo medievale. Si pensi a Carlo I, costretto a convocare il parlamento per la votazione delle imposte necessarie al finanziamento bellico. Si tratta di un processo che ha portato al potere il partito whig, i cui principi trovano la loro classica formulazione nel Second Treatise on Civil Government di John Locke. II. MANDEVILLE E I MORALISTI SCOZZESI. – Locke ha tuttavia dato una spiegazione delle istituzioni molto più razionalistica di quella che sarebbe stata fornita nel Settecento. Soprattutto, come esito della sua credenza in una legge di natura di per sé «evidente e intelligibile», egli ha la6380

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sciato alla politica la possibilità di una sovranità che, sia pure controllata e limitata, è in contrasto con le sue stesse premesse. Per vulnerare definitivamente il mito del Grande legislatore e della sua onniscienza, sarebbe stato necessario attendere l’opera di Bernard de Mandeville, di David Hume e di Adam Smith. Quella che è nota come legge di Hume, stando alla quale non è possibile derivare proposizioni prescrittive da proposizioni descrittive, è una teoria presente già in Mandeville e condivisa da Smith. E sta a significare che non ci può essere una fondazione razionale ultima dei valori. Detto con le parole di Hume (Treatise of Human Nature, London 1739-40, tr. it. di A. Carlini - E. Lecaldano - E. Mistretta, Trattato sulla natura umana, Roma-Bari 1982, vol. 2, p. 495), «la moralità non consiste in alcun dato di fatto che si possa scoprire con l’intelletto [...] la morale non è oggetto della ragione [...]. Il vizio sfuggirà completamente fino a quando considerate l’oggetto. Non potete mai scoprirlo fino a che non volgerete la vostra riflessione al vostro cuore, in cui troverete che è sorto un sentimento di disapprovazione nei confronti di questa azione. Ecco allora un dato di fatto, ma oggetto del sentimento e non della ragione». La legge di Hume è ritenuta un’invalicabile barriera per la libertà di coscienza, una pietra tombale sull’idea di uno stato confessionale e una base per la convivenza fra soggetti portatori di differenziate concezioni filosofiche e religiose del mondo. Non è però solamente tramite la legge di Hume che il liberalismo vulnera il mito del Grande legislatore. Adam Smith ha marcatamente sottolineato l’esistenza del problema della dispersione delle conoscenze di tempo e di luogo. Egli ha così espresso la questione (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, London 17895, tr. it. di A. e T. Bagiotti, La ricchezza delle nazioni, Torino 1975, p. 584): «È evidente che ognuno, nella sua condizione locale, può giudicare meglio di qualsiasi uomo di Stato o legislatore quale sia la specie di industria interna che il suo capitale può impiegare [...]. L’uomo di Stato che dovesse cercare di indirizzare i privati relativamente al modo in cui dovrebbero impiegare i loro capitali, non soltanto si addosserebbe una cura non necessaria, ma assumerebbe un’autorità che non solo non si potrebbe affidare tranquillamente a nessuna persona singola, ma nemmeno a nessun Consiglio o Senato, e che in nessun luogo potrebbe esse-

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re più pericolosa che nelle mani di un uomo abbastanza folle da ritenersi capace di esercitarla». L’obiezione gnoseologica che Smith muove all’interventismo economico del legislatore, e della politica in genere, vale anche nei confronti dell’interventismo legislativo (sarà poi usata da Constant nella sua critica alla Scienza della legislazione di Gaetano Filangieri e si ritroverà anche in François Guizot e in Alexis de Tocqueville). Una volta colpita la funzione del grande legislatore (sia attraverso il rifiuto della fondazione razionale ultima dei valori, sia mediante la teoria della dispersione della conoscenza), occorre vedere che cosa dev’essere collocato al suo posto. E qui, fermo restando l’anteriorità delle elaborazioni di Mandeville, vengono in primo piano, sulla questione giuridico-normativa, i contributi di Hume e, sulla questione più specificamente economica, le indicazioni di Smith. III. L’ORIGINE ININTENZIONALE DELLE NORME E DELLE ISTITUZIONI SOCIALI. – Hume (Treatise, p. 557) ha in particolare richiamato l’attenzione sul fatto che le tre «leggi fondamentali» della convivenza (la stabilità del possesso, la trasferibilità per consenso e il mantenimento delle promesse, di cui l’intero sistema giuridico è semplicemente un’elaborazione) non sono state intenzionalmente create dagli uomini. Il diritto e la morale, come il linguaggio e la moneta, non sono prodotti programmati della mente umana, ma istituzioni o «formazioni» nate, senza una previa progettazione, dall’interazione fra i soggetti. Hume ha inoltre sostenuto che solo regole generali e inflessibili possono assicurare l’ordine sociale e che qualunque violazione di tali regole, pur consentendo la realizzazione di un qualche vantaggio a beneficio di qualcuno, costituisce una violazione dalle conseguenze disastrose per la convivenza. C’è qui tutta la lezione della tradizione di common law, del diritto cioè non come prodotto intenzionale del legislatore, ma come risultato di una lunga elaborazione giurisprudenziale. È l’idea della permanente ricerca di una giustizia impersonale e della «sovranità della legge», del diritto cioè come esito complessivo di una estesa interazione sociale. Anche Smith aveva programmato di scrivere una sua teoria del diritto. Il che fa parte dei propositi non realizzati. Importante è comunque rammentare che, ogni volta che ha affron-

Liberalismo tato problemi giuridici, Smith ha condiviso gli stessi principi di Hume. Ed è ancora più importante rilevare che il suo maggior contributo consiste nella spiegazione del processo di mercato, dove egli ha utilizzato la nota metafora della «mano invisibile», cioè quella teoria delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali, di cui aveva fatto largo uso Mandeville e che Hume aveva già applicato, come si è detto, al problema della morale e del diritto. Smith ha diviso in due parti l’azione umana: in quel che facciamo per realizzare i nostri progetti e in quel che dobbiamo fare per ottenere la cooperazione altrui. Ciascuno è mosso dall’esigenza di perseguire i propri fini. Tuttavia, poiché ogni attore ha bisogno della cooperazione di altri, deve fornire a questi i servizi che essi richiedono in cambio. Ognuno è chiaramente interessato ai propri scopi; per raggiungerli, deve però cooperare con le controparti. E così favorisce, sia pure inintenzionalmente, il benessere altrui. La prosperità pubblica è quindi il risultato non programmato delle azioni che ciascuno pone in essere per conseguire, tramite la libera cooperazione, le proprie finalità. Il che, nel campo squisitamente economico, su cui Smith si è prevalentemente soffermato, è facilitato dal fatto che la proprietà privata, l’autonomia individuale e la conseguente trama interattiva danno vita al sistema dei prezzi monetari. La moneta permette infatti il conseguimento di un duplice risultato. Consente ovviamente il calcolo dei costi. E rende possibile, essendo essa il «mezzo per eccellenza» (G. Simmel, Philosophie des Geldes, Leipzig 19072, tr. it. di A. Cavalli - R. Liebhart L. Perucchi, Filosofia del denaro, Torino 1984, p. 310) la cooperazione per finalità che non devono ottenere l’accettazione altrui. Accade cioè che normalmente forniamo agli altri (e gli altri forniscono a noi) i mezzi necessari per il raggiungimento di scopi che non conosciamo e che, se conoscessimo, potremmo non condividere. Non ci sono pertanto problemi di reciproca accettazione delle finalità perseguite. E ciò conduce a una straordinaria crescita degli scambi e a un contemporaneo allargamento del perimetro della cooperazione sociale. IV. GIUSTIZIA E ORDINE SOCIALE. – Sulla scorta di quanto suggerito da Mandeville, Hume e Smith, si può delineare il funzionamento di una «società liberale». Poiché non è possibile, secondo questi autori, una fondazione razio6381

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Liberalismo nale ultima dei valori, non c’è una gerarchia obbligatoria di fini. La cooperazione è scambio di mezzi. Come dire che il concetto di giustizia non è espresso in termini positivi, ma solamente in forma negativa. Non a caso Smith ha affermato (Theory of Moral Sentiments, London 17906, tr. it. di C. Cozzo, Teoria dei sentimenti morali, Roma 1991, p. 109): «La mera giustizia è solo una virtù negativa, che ci impedisce di danneggiare il prossimo. Chi semplicemente si astiene dal violare la persona, la proprietà o la reputazione dei propri simili ha di certo assai poco merito effettivo. E tuttavia egli obbedisce a tutte le regole di ciò che è propriamente chiamato giustizia e fa tutto quello a cui i suoi pari potrebbero con appropriatezza costringerlo o per la cui omissione potrebbero punirlo. Spesso si può obbedire a tutte le regole di giustizia standosene fermi a sedere senza far nulla». Non solo. L’assenza di una gerarchia obbligatoria di fini affida alla scelta individuale il contenuto delle azioni. Ne discende che le regole che «canalizzano» la convivenza sono generali, astratte e vuote. Valgono per tutti, per tutte le situazioni e non impongono, se non in termini negativi, il contenuto dell’agire. Esse servono soprattutto a definire i confini fra le azioni. E danno perciò vita a un ordine astratto, che lascia indeterminato l’ordine che in concreto si realizzerà. Ossia: le norme generali e astratte garantiscono che ci sarà una compatibilità fra le azioni. Ma non è possibile sapere in anticipo il contenuto dell’ordine. Che l’ordine concreto non possa essere conosciuto in anticipo sta a significare che lo sviluppo sociale è da Mandeville, Hume e Smith concepito come ateleologico. È per tale ragione che essi sono stati definiti «darwiniani prima di Darwin» (F.A. von Hayek, Studies in Philosophy, Politics and Economics, London 1967, tr. it. di M. Vitale - S. Fallocco - F. Grasso, Studi di filosofia, politica ed economia, Soveria Mannelli 1998, pp. 201-202, nota 21). Tutto ciò è stato ben analizzato da Max Weber (Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen 1922, tr. it. di T. Bagiotti et al., Economia e società, Milano 1961, vol. II, p. 18, corsivo aggiunto), che si è espresso nei seguenti termini: «Dal punto di vista tecnico-giuridico, il diritto moderno è formato di “princìpi giuridici”, cioè di norme astratte le quali stabiliscono che una determinata situazione deve produrre determinate conseguenze giuridiche». Lo stesso Weber ha anche affermato che «ogni decisione giuridica 6382

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concreta è l’applicazione di un principio giuridico astratto a una “fattispecie” concreta» (ibi, p. 17). Ma qui sarebbe forse più corretto dire che «ogni nostra decisione concreta» si inserisce all’interno di un «principio giuridico astratto». Il che fa comprendere come in ogni atto di scambio ci sia, oltre che un contenuto economico, uno schema normativo dentro cui quel contenuto viene «inglobato». E si può capire che il «principio giuridico astratto», non diversamente dalla prestazione economica e dalla sua controprestazione, è il punto di mediazione di interessi tipici che si confrontano e che in quel principio trovano «composizione» e tutela. V. IL PROBLEMA DEI BENI PUBBLICI. – Considerare il diritto come il prodotto del processo interattivo che si svolge all’interno della società e attribuire a ciascun individuo, nella sua «condizione locale», una conoscenza superiore a quella di qualunque autorità non sopprime però la funzione del legislatore e della politica. La relega solamente in posizione residuale. Nella classica formulazione di Adam Smith (Inquiry, cit., p. 852), il «sovrano è completamente dispensato da un dovere nel cui adempimento è sempre esposto a innumerevoli delusioni e per il cui giusto svolgimento nessuna saggezza o conoscenza umana può mai essere sufficiente: il dovere di sovraintendere alle attività dei privati e di dirigerla verso occupazioni più idonee all’interesse della società». Lo stato deve solamente a) «proteggere la società dalla violenza e dall’invasione di altre società indipendenti»; b) «proteggere per quanto possibile ogni membro della società dall’ingiustizia od oppressione di ogni altro membro, ossia [... deve] instaurare un’equa amministrazione della giustizia»; c) «creare e mantenere certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche, che non potranno mai essere create e mantenute dall’interesse di un individuo o di un piccolo numero di individui, perché il profitto non potrebbe mai ripagarli del costo» (ibidem). Pronunziando tali parole, Smith era convinto di poter demarcare con rigore l’area di intervento delle pubbliche autorità. Lo stato restava competente nell’ambito della fornitura dei cosiddetti «beni pubblici», nella realizzazione cioè di finalità che i privati non avrebbero potuto perseguire o non avrebbero potuto farlo con profitto. E tale confine è sembrato sicuro sin quasi alla fine dell’Ottocento. Ma nel secolo successivo si è verificato lo scardinamento

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di quella frontiera. È vero: il ceto politico ha sempre interesse ad allargare la sfera dell’intervento pubblico. E tuttavia ciò si è realizzato solo quando alla «sovranità della legge», del diritto cioè inteso come complesso di norme generali e astratte, si è sostituita l’idea della sovranità popolare e il suo corollario: che cioè il parlamento eletto dal popolo potesse, sulla base di quella investitura, interferire con tutto e far coincidere il diritto con la propria legislazione. Processo che è stato poi facilitato da quelle teorie economiche (in particolare, quelle di ispirazione keynesiana), che hanno posto in discussione la regola del bilancio pubblico in pareggio. Si sono in tal modo create le condizioni perché la classe politica potesse «pagare» il consenso mediante la continua dilatazione del territorio dei beni pubblici, di finalità cioè perseguibili attraverso la «mano visibile» dello stato. È così che, dopo la metà del Novecento, Bruno Leoni (Freedom and the Law, Princeton 1961, tr. it. di M.C. Pievatolo, La libertà e la legge, Macerata 1994, p. 145) ha scritto: «Nel nostro tempo, l’estensione dell’area in cui sono divenute necessarie, o anche convenienti, le decisioni collettive è stata grossolanamente sovrastimata, e l’area in cui gli adattamenti individuali spontanei sono ritenuti necessari, o convenienti, è stata circoscritta ben più severamente di quanto non sia consigliabile». Ciò ha condotto, dal punto di vista giuridico, al restringimento del territorio delle norme generali e astratte e all’affermarsi di provvedimenti legislativi che, violando il principio dell’uguaglianza dinanzi alla legge, hanno privilegiato gruppi particolari di interesse, le cui «acquisizioni» politiche sono state invocate da altri gruppi per ottenere a loro volta altre «acquisizioni». E, dal punto di vista strettamente economico, si è determinato un rapido e continuo aumento della spesa pubblica, con l’instaurazione di quella che James M. Buchanan e Richard E. Wagner hanno chiamato «democrazia in deficit» (Democracy in Deficit, London 1977, tr. it. di E. Galli - F. Padovano, La democrazia in deficit, Roma 1997). La rincorsa ai «privilegi» politici colpisce quindi il principio della «sovranità del diritto» e l’intera concezione liberale della società. Ecco perché Bruno Leoni e Friedrich A. von Hayek hanno posto in evidenza i pericoli che l’estensione dell’attività ridistributiva dello Stato comporta in termini di libertà e di sviluppo sociale. James M. Buchanan si è spinto a invoca-

Liberalismo re l’introduzione di una «costituzione economica», capace di vincolare il ceto politico a regole di condotta, soprattutto a quella del pareggio di bilancio. E Murray N. Rothbard (Man, Economy and the State, Los Angeles 19702, pp. 883-890), esponente dell’anarcocapitalismo americano, ha giudicato molto dubbia la categoria del beni pubblici, aggiungendo che in ogni caso non è detto che debba essere lo stato a fornire quel determinato bene. Il fatto è che gli scambi di voti in parlamento fra gruppi di interesse e la mancanza di adeguate regole economiche hanno trasformato i beni pubblici in una sorta di «cavallo di Troia» dell’interventismo legislativo ed economico. E ciò ha dato forza a una diversa tradizione liberale: quella che discende dai filosofi dell’illuminismo francese (Voltaire, Rousseau, Helvetius) e che ha avuto in Inghilterra i suoi continuatori in Jeremy Bentham, John Austin, James e John Stuart Mill (con l’eccezione di alcune parti di On Liberty). Alla base di tale tradizione, c’è un atteggiamento squisitamente razionalistico, che assume la forma dell’assolutismo gnoseologico. I suoi esponenti presumono di poter conoscere i «dati rilevanti» di ogni situazione; ritengono che le istituzioni possano essere intenzionalmente create e modificate; affidano al potere politico una funzione ridistributiva e un’estensione incompatibili con la concezione whig. È significativo che Alexis de Tocqueville (L’Ancien Régime et la Révolution, Paris 18664, tr. it. di N. Matteucci, in Scritti politici, vol. I, Torino 1969, p. 748) sia giunto ad accusare Voltaire di non avere saputo individuare i presupposti della libertà politica e di non avere compreso la funzione svolta dal parlamento e dalle altre istituzioni politiche della società inglese. E non sorprende che dalle posizioni dei philosophes e dei rappresentanti del «radicalismo filosofico» (i seguaci di Bentham) siano nate varie correnti politiche di ispirazione socialista e anche l’idea della possibile coniugabilità fra liberalismo e socialismo. VI. DIRITTI NATURALI E SEPARAZIONE DEI POTERI. – Ciò che è contemplato dalla tradizione whig viene raramente affermato in modo esplicito. Quel che di solito viene connesso al liberalismo è l’idea dei diritti naturali e quella della separazione dei poteri. Stando alla formula della «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» del 1789, «ogni società, nella quale non sia assicurata la garanzia dei diritti e determi6383

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Liberalismo nata la separazione dei poteri, non ha Costituzione». Conferire però una speciale rilevanza o garanzia a certi diritti è solo un’applicazione particolare del principio generale secondo cui la coercizione dev’essere limitata all’imposizione di norme generali e astratte, di norme cioè che, definendo solo i confini fra le azioni e formulando unicamente in termini negativi il concetto di giustizia, lasciano uno sconfinato campo ai diritti individuali. Ciò significa che qualunque statuizione relativa a un particolare diritto non è fondativa di quel diritto, ma è solamente un posterius rispetto a una situazione di «sovranità della legge». Quanto poi alla separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), anche questa può essere vista come un’applicazione della stessa concezione del diritto come insieme di norme generali e astratte. Locke riteneva che il corpo legislativo potesse emanare solamente norme di tal fatta: perché queste, non imponendo un contenuto specifico che non sia solamente procedurale, fanno salva l’autonomia individuale. Se cade tuttavia l’idea che il parlamento debba produrre o riconoscere solo norme generali e astratte, qualunque provvedimento voluto dalla sovranità popolare può vedere la luce. E nulla, pure se i poteri sono formalmente separati, garantisce la libertà individuale. Vale qui, mutatis mutandis, quel che è stato detto a proposito dei cosiddetti diritti naturali. Non è pertanto la separazione dei poteri a tutelare l’autonomia dei soggetti, ma è la «sovranità della legge» a consentire la separazione dei poteri e la libertà individuale. Ecco perché Friedrich A. von Hayek (Law, Legislation and Liberty, London 1982, tr. it. di P.G. Monateri, Legge, legislazione e libertà, Milano 1986, p. 110) si è spinto a scrivere che la «libertà degli inglesi», diversamente da quel che gli stessi inglesi pensavano e da quanto «Montesquieu insegnò al mondo», non fu un «prodotto della separazione dei poteri tra il legislativo e l’esecutivo, ma piuttosto un risultato del fatto che il diritto che governava le decisioni dei tribunali era il common law, un diritto la cui esistenza era indipendente dalla volontà di chiunque». VIII. LIBERALISMO E LIBERISMO. – È questa una distinzione che si è fatta strada in Italia nella seconda metà del diciannovesimo secolo, come risultato dell’importazione di idee di origine tedesca e del conseguente fiorire di ciò che Francesco Ferrara ha icasticamente denomi6384

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nato «germanesimo economico» (Il germanesimo economico in Italia, in «Nuova Antologia», agosto 1874, ora in Opere complete, Roma 1972, vol. X, p. 566). Si tratta di un fenomeno o, più esattamente, dell’affermazione di un clima culturale che rompe il legame fra libertà economica e libertà politica: una cesura che ha come base la vecchia e «aristocratica» sottovalutazione della funzione svolta dal «momento» economico e l’erroneo convincimento che la libertà politica possa esistere senza libertà economica. Benedetto Croce è stato erede di tale concezione, su cui ha riversato la «credibilità» derivante dal ruolo da lui svolto nella cultura italiana e nell’opposizione al fascismo. È così accaduto che un’idea, confutata sul piano delle scienze sociali teoriche e sul piano delle vicende storiche, abbia potuto avere una non trascurabile accoglienza e abbia «ipotecato» la crescita del liberalismo italiano. Croce (Tema per gli storici dell’economia: dell’anacoretismo economico, in «Rivista di storia economica», giugno 1937, ora in B. Croce - L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, Milano-Napoli 1988, p. 134) non ha esitato a sostenere che «l’idea liberale può avere un legame contingente e transitorio, ma non ha nessun legame necessario e perpetuo, con la proprietà privata della terra e delle industrie». E ha ancora precisato che l’«ordinamento economico» del comunismo «potrebbe ben coesistere con la più completa libertà di discussione, di deliberazione e di determinazione nell’indirizzo morale, intellettuale e politico della vita e col pieno svolgimento individuale e umano» (ibi, p. 139). Luigi Einaudi ha ripetutamente sentito la necessità di contrapporsi a Croce, non mancando di sottolineare, con diretto riferimento all’Unione Sovietica, il nesso esistente fra l’abolizione della proprietà privata e la soppressione della libertà politica. Ma le obiezioni mosse da Einaudi a Croce, pur se ragionevoli, non hanno ampiezza teorica. Ed è forse questa la ragione per cui la posizione crociana ha continuato ad avere accoglienza all’interno del debole liberalismo italiano e nel più esteso campo della cultura italiana. Critiche ben più profonde di quelle formulate da Einaudi si sarebbero potute rivolgere a Croce. Già James Harrington (The Commonwealth of Oceana, London 1656, tr. it. di G. Schiavone, Repubblica di Oceana, Napoli 1985, p. 102) aveva affermato: «Se un uomo è il solo signore di un territorio,

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o supera il popolo, possedendone tre parti su quattro, egli è il gran signore. Per questo il turco è chiamato così, per la sua proprietà». Poi, nel 1670, è cominciata la pubblicazione dei Voyages di François Bernier. Questi aveva visitato la Turchia, la Persia e l’Indostan. E su tali paesi aveva scritto (Suite des mémories du Sieur Bernier sur l’Empire du Grand Mogol, Paris 1671, tr. it. di C. Mascheroni, Viaggio negli stati del Gran Mogol, Pavia, 1991, p. 173): «Hanno abolito la proprietà privata su fondi e possedimenti, principio alla base di tutto quanto di buono c’è a questo mondo, [e] finiscono per somigliarsi assai strettamente; hanno gli stessi difetti ed è logico che, prima o poi, debbano far fronte agli stessi inconvenienti che ne sono le inevitabili conseguenze, nella tirannia, nella rovina e nella desolazione». Le opere di Harrington e di Bernier erano ben presenti ai moralisti scozzesi. Occorre inoltre precisare che quelle stesse opere fanno da premessa alla teoria della «società asiatica», su cui s’incentra il poderoso lavoro di Karl A. Wittfogel (Oriental Despotism. A Comparative Study of Total Power, New Haven 1957, tr. it. di R. Pavetto, Il dispotismo orientale, Milano 1980). La questione si chiarisce comunque se, come hanno messo in evidenza gli esponenti della scuola austriaca di economia (in particolare, Ludwig von Mises e Friedrich A. von Hayek), si rammenta che i mezzi economici servono tutti i fini e che perciò nessuna libertà di scelta da parte dei cittadini può realizzarsi laddove gli stessi mezzi siano detenuti monopolisticamente dalle autorità politiche. Non si può avere libertà individuale senza proprietà privata e libertà economica. L. Infantino BIBL.: A. SCHATZ, L’individualisme économique et social, Paris 1907; L. VON MISES, Liberalismus, Jena 1927, tr. it. di E. Grillo, Liberalismo, Soveria Mannelli 1997; J.S. SHAPIRO, Liberalism: its Meaning and History, Princeton 1958; F.A. VON HAYEK, The Constitution of Liberty, Chicago-London 1960, tr. it.di M. Bianchi di Lavagna Malagodi, La società libera, Firenze 1969; L. PELLICANI, Saggio sulla genesi del capitalismo, Milano 1988; J. GRAY, Liberalismus, London - New York 1989; N. MATTEUCCI, Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Bologna 1992; D. ANTISERI, Liberi perché fallibili, Soveria Mannelli 1995; R. CUBEDDU, Atlante del liberalismo, Roma 1997; L. INFANTINO, Ignoranza e libertà, Soveria Mannelli 1999. ➨ ANARCOCAPITALISMO; BENESSERE; COOPERAZIONE; COSTITUZIONALISMO; COSTITUZIONE; DENARO; DI-

Liberalità RITTI UMANI; FALLACIA NATURALISTICA; GIUSTIZIA; LEGGE ; LIBERISMO ; LIBERTÀ ; ORDINE ; POTERE ; UGUAGLIANZA; PROCESSO DI MERCATO; SOCIALI SMO; SVILUPPO, ETICA DELLO.

LIBERALITÀ (liberality; Freigebigkeit; liberaliLiberalità té; liberalidad). – Il termine gr. ejleuqeriovth", derivato a sua volta da *leudh(e)ro, «popolare, appartenente al popolo», e sul quale è ricalcato il lat. liberalitas, indica «generosità in rapporto al popolo» in senso generico, e più spesso con riferimento specifico alla ricchezza spirituale e al denaro. In filosofia ricorre già in Democrito, con pieno riferimento al popolo (H. Diels - W. Kranz [a cura di], Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1951-526 [rist. Zürich 1996], 68 B 282) e, con importanza maggiore, in Platone, nel cui sistema la liberalità, con un significato che trascende il concetto di denaro, è catalogata tra le virtù che debbono conoscere e avere i «custodi» della città (Resp., III, 402 c). Nell’etica aristotelica la liberalità è classificata come mesovth", come espressione di medietà, sia in rapporto al «dare moneta» che in rapporto al «prendere moneta»: nel primo caso l’eccesso è la prodigalità (ajswtiva) e il difetto l’avarizia (ajneleuqeriva), nel secondo caso è l’inverso. Essa riguarda solo il denaro, quindi è estranea alle altre attività (Et. Nic., IV, 1119 b), ma la sua funzione, come tutte le azioni secondo virtù, è guidata verso uno scopo di bene (ibi, 1120) e regolata da un attento esame della necessità e convenienza (ibid.); ne deriva quindi anche per la liberalità la posposizione del proprio bene al bene altrui e una valutazione che raffronta ciò che si dà a ciò che si possiede. Diversa dalla liberalità è la magnificenza (megaloprevpeia), essa pure virtù riguardante il denaro, ma quantitativamente superiore alla prima, in quanto si riferisce solo alle grandi spese (ibi, 1122 a); quindi la liberalità è inclusa nella magnificenza, ma non viceversa (ibid.). La definizione aristotelica è ripresa dallo stoicismo, ma questa virtù ha scarso rilievo in confronto ai vincoli di vasta umanità postulati dallo stoicismo. Una grande importanza ha la liberalità nel mondo romano, poiché fin dalle guerre puniche c’è in politica una liberalitas come elargizione di grandi benefici al popolo per scopi politici, secondo l’esempio delle corti ellenistiche; a questa liberalità, interessata, si oppone però una liberalità retta e onesta, inizial6385

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Liberalsocialismo mente formulata da Panezio secondo i principi stoici, accademici e peripatetici della ejleuqeriovth", e da lui posta come virtù primordiale dell’uomo di stato. I suoi attributi sono descritti nel De officiis di Cicerone (I, 15, 42 ss.; II, 15, 52 ss.); essa non deve trattare beni ingiustamente tolti ad altri, non deve esser guidata da ostentazione, ma deve aver riguardo anche della dignità del beneficato. Questa nuova concezione, che dava una norma etica alla munificenza tradizionale, fu alla base del governo di Giulio Cesare e, dopo la parentesi di Augusto e Tiberio che ne ricusarono il nome indicante «grazia sovrana» perché contrario alla tradizione, da Claudio in poi il termine mantenne il significato di «generosità privata dell’imperatore». Nella filosofia postciceroniana Seneca parla del dovere di estendere la liberalità anche ai servi (De vita beata, 24, 3) e della disposizione d’animo necessaria (De beneficiis, I, 6, I ss.). Nell’etica medievale l’indagine intorno alla liberalità come virtù riprende la definizione e la classificazione aristotelica; essa viene pertanto distinta dalla giustizia, dalla misericordia, dalla beneficenza e dalla magnificenza. Tommaso (Sum. theol., Ia-IIae, q. 60, art. 5) cosi scrive: «Circa bonum igitur pecuniae absolute sumptum, secundum quod est obiectum concupiscentiae vel delectationis aut amoris, est liberalitas». Come espressione di somma generosità verso le creature, la liberalità viene anzi attribuita a Dio stesso. Il tema della liberalità risulta poco presente nello sviluppo dell’etica moderna e contemporanea se non in alcuni significativi momenti di recupero della filosofia pratica aristotelica, come è avvenuto nell’ultimo trentennio in Germania, ma anche in Italia. Un certo legame, sia pure indiretto, è possibile ritrovare tra l’idea di liberalitas e la tradizione moderna della Liberalität, del pensiero religioso liberale (da Kant a Schleiermacher e oltre). G. Garuti - F. Miano BIBL.: per la liberalità in Aristotele: H. SCHILLING, Das Ethos der Mesotes, Tübingen 1930, pp. 54 ss.; su Panezio e la liberalità in Roma: K. BORSANYI, A liberalitas-eszme torténete, in «Egyetemes Philologiai Közltöny», 1938, pp. 1 ss. (riassunto fr., L’histoire de l’idée de «liberalitas», pp. 39 ss.); per la filosofia medievale: A.D. SERTILLANGES, La philosophie morale de st. Thomas d’Aquin, Paris 1942, pp. 232-239; per il recupero della filosofia pratica aristotelica: C. NATALI, Aristotele e l’origine della filosofia pratica, in AA.VV., Filosofia

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pratica e scienza politica, Abano Terme 1980; A. DA RE, Figure dell’etica, in C. VIGNA (a cura di), Introduzione all’etica, Milano 2001, pp. 8-34; su Liberalität e libertà religiosa: A. CARACCIOLO, Liberalität e religione biblica, in Studi jaspersiani, ed. a cura di R. Celada Ballanti, Alessandria 2006, pp. 147-162.

LIBERALSOCIALISMO (socialismo liberale). Liberalsocialismo – Con questo termine venne indicata l’ideologia dei gruppi democratici che, proprio per la loro intransigenza nel combattere il regime fascista, si ponevano in radicale rottura con gli uomini e le idee dell’Italia prefascista. Oltre che come tentativo di fondere il meglio della tradizione socialista con quello della tradizione liberale, il liberalsocialismo si configura come un tentativo di elaborare una moderna teoria politica democratica in antitesi alle ideologie totalitarie e alla tradizione liberale classica. Le sedi culturali nelle quali viene elaborata tale teoria – che per certi versi può ricordare quella, coeva, del new deal – sono le pubblicazioni periodiche «Rivoluzione liberale», «Non mollare!», «Quarto stato»; ma essa è organicamente sviluppata nel saggio, scritto al confino a Lipari, da Carlo Rosselli, Socialismo liberale (Paris 1930). Rosselli critica recisamente il determinismo marxista che non consente una funzione autonoma dell’uomo nella storia: al fatalismo ivi implicito egli sostituisce un volontarismo nutrito di una «fede virile» nelle capacità umane. Alla fede messianica e finalistica si devono perciò sostituire i problemi concreti dell’emancipazione delle classi subalterne. Onde inserire l’ideale e le forze socialiste nella tradizione democratico-liberale, viene respinta anche la tesi della necessità della dittatura del proletariato. L’ideale della libertà viene così visto coincidere con l’emancipazione dell’uomo e col rinnovamento sociale, cioè con l’ideale della giustizia. In tal modo si vuole promuovere nell’ambito delle istituzioni democratiche un programma di profonde e strutturali riforme di stampo dirigistico, socializzando le grandi imprese economiche, ma mantenendo la piccola proprietà e la piccola industria, intese come garanzia dai pericoli di un eccessivo statalismo. In armonia con tale programma Rosselli fondò a Parigi nel 1929 il movimento «giustizia e libertà», con il fine politico di realizzare in Italia «la libertà, la repubblica, la giustizia sociale». Il movimento agì in

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Italia e all’estero, esercitando una funzione di punta nello schieramento dei partiti antifascisti; venne poi fondendosi con altri gruppi che si erano formati in Italia, soprattutto per l’iniziativa di Guido Calogero e Aldo Capitini, dando vita al Partito d’azione (convegno di Assisi, marzo 1940). Dopo la liberazione il liberalsocialismo incontrò la ferma opposizione di Croce, il quale ribadì che, da un punto di vista filosofico, la libertà, o moralità, è l’istanza suprema, che contiene in sé la giustizia, quale è storicamente possibile nell’incessante progresso della civiltà (cfr. Scritti e discorsi politici, Bari 1963). Il Partito d’azione, diviso fra la sua anima socialista e la sua vocazione democratica, fra chi poneva in primo piano il problema dell’ideologia del partito e chi sottolineava i problemi concreti che la società italiana doveva affrontare, non resse alla prova della competizione politica democratica e, dopo la scissione avvenuta al primo congresso nazionale (febbraio 1946), si fuse in parte col Partito repubblicano e in parte col Partito socialista italiano. In anni più recenti, il liberalsocialismo è tornato all’attenzione, sia in seguito alla crisi del socialismo marxistico, sia per il rilievo assunto dal pensiero di Norberto Bobbio, che viene identificato come il suo più importante esponente contemporaneo, sia perché se ne sono ravvisate radici e tipologie comuni anche ad altri paesi europei. Il suo tentativo di conciliare libertà e giustizia, mercato e azione pubblica, etica e democrazia si configura così come una risposta alla crisi dell’ideologia socialdemocratica e ha ben presenti le acquisizioni della tradizione liberal americana. N. Matteucci - R. Cubeddu BIBL.: A. GAROSCI, Vita di Carlo Rosselli, Roma 1945; A. MONTI, Realtà del Partito d'Azione, Torino 1945; C. ROSSELLI, Socialismo liberale, Firenze 1945; G. CALOGERO, Difesa del liberalsocialismo, Milano 1972; Il liberalsocialismo dalla lotta antifascista alla resistenza, n. mon. «Il Ponte», 1 (1986); F. SBARBERI - V. MURA - M. BOVERO (a cura di), I dilemmi del liberalsocialismo, Roma 1994; N. URBINATI - M. CANTO-SPERBER (a cura di), Liberal-socialisti. Il futuro di una tradizione, Venezia 1994; A. CAPITINI, Liberalsocialismo, Roma 1999. ➨ DEMOCRAZIA; GIUSTIZIA; LIBERALISMO; PROLETARIATO; SOCIALISMO.

LIBERATORE, MATTEO. – Gesuita, n. a SaLiberatore lerno nel 1810, m. a Roma nel 1892. A 26 anni entrò nella Compagnia di Gesù a Napoli, dove

Liberi pensatori compì gli studi filosofici e teologici. Ordinato sacerdote, fu applicato all’insegnamento prima della filosofia (1837-48), poi della teologia. Nel 1850 fu, coi padri C.M. Curci, L. Taparelli e A. Bresciani, tra i fondatori di «Civiltà cattolica», alla cui redazione rimase fino alla morte. Fu uno dei più validi restauratori in Italia del tomismo, che egli seppe rendere vivo e battagliero nella cultura dell’Ottocento. Suscitò molto rumore la sua polemica con A. Rosmini, di cui dimostrò l’incompatibilità col tomismo genuino e il pericolo dell’ontologismo derivante dalla logica del sistema. Più volte ristampate furono le Institutiones philosophicae (Napoli 1840-42, 2 voll.). Si nota nelle varie edizioni un costante progressivo avvicinamento al tomismo. Nelle prime edizioni, infatti, Liberatore sembra ignorare e in qualche caso schierarsi persino contro la dottrina di Tommaso. Opere filosofiche in italiano: Della conoscenza intellettuale (Roma 1857-58, 2 voll.; 18732), che confuta gli errori del lamennesismo, tradizionalismo e ontologismo; Dell’uomo (ivi 1874-75, 2 voll.); Degli universali (ivi 1883); Commedie filosofiche (ivi 1884), e numerosi opuscoli. Scrisse pure, esponendo la dottrina tradizionale del diritto naturale nei confronti del giusnaturalismo: La Chiesa e lo Stato, Napoli 1871; Del diritto pubblico ecclesiastico, Prato 1887; Principî di economia politica, Roma 1889. G. Bortolaso BIBL.: edizione totalmente rifatta delle Institutiones philosophicae, a cura di M. Corsi, Napoli 1937, 7 voll.; passi scelti delle opere in P. DEZZA, I neotomisti italiani del XIX secolo, Milano 1942, 2 voll. Su Liberatore: C. SOMMERVOGEL, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Bruxelles-Paris 1890-1909, ripr. Louvain 1960, vol. IV, coll. 1774-1803; [F. S. RONDINA], Necrologio, in «Civiltà cattolica», 1892, vol. IV, pp. 352-360; A. DEVIZZI, La critica di Matteo Liberatore all’ontologismo, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 32 (1940), 5, pp. 483-485; P. DEZZA, Alle origini del neotomismo, Milano 1940, pp. 65-73; G. VAN RIET, L’épistémologie thomiste, Louvain 1946, pp. 32-56; T. MIRARELLA, II pensiero politico del p. Matteo Liberatore, Milano 1956; P. ORLANDO, Il neotomismo a Napoli e G. Sanseverino, in «Asprenas», 9 (1962), pp. 277-303.

LIBERI PENSATORI (freethinkers; FreiLiberi pensatori denker; libres penseurs). – Per quanto l’espressione “liberi pensatori” evochi nella nostra lingua il libero pensiero (come nella formula «martiri del libero pensiero», dalla caratura «risor6387

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Liberi pensatori gimentale» e positivistica) né manchi di suggerire, come nelle ottocentesche (francesi) «unioni razionalistiche», il piglio antidogmatico e spesso anticlericale che ne caratterizza gli esponenti nella loro irrinunciabile battaglia per il «progresso», da un punto di vista più puntualmente storico con tale denominazione vengono intesi alcuni pensatori del XVII e XVIII secolo che, in un clima storicamente problematico a effetto delle vicende politiche inglesi (la «grande rivoluzione») e filosoficamente «post-cartesiano», fanno come propria bandiera l’esplicito rifiuto del «dogmatismo» religioso delle chiese (sia cattolica sia della riforma), mentre conducono una battaglia a favore di una ragione che è, insieme, lo strumento per vincere entusiasmi e irrazionalità e per costruire una morale di piglio universalistico. Un contesto, quest’ultimo, illuminato dalle polemiche cui danno esemplarmente voce, oltre che l’Alcifrone di Berkeley, anche celebri apologeti newtoniani quali Bentley e Clarke. Nel novero di tali liberi pensatori si ritrovano personaggi come John Toland, le cui opere furono recepite nei Lumi francesi dall’«officina» del barone d’Holbach, e Matthew Tindal, che unisce la polemica politica alla Cristianity as old as the creation (1730), in cui i temi della «religione naturale» divengono oppositivi rispetto alla «religione positiva», cristianesimo incluso. Ma si ricorderà anche Antony Collins, a cui è dovuta nel Discourse of Freethinking una descrizione del libero pensiero che richiama egualmente l’orizzonte in cui si dispiega la polemica, dove tutto si gioca in termini di «evidenza»: «Per libero pensiero intendo l’uso dell’intelletto nella ricerca del significato di qualsiasi proposizione, nella considerazione dell’evidenza a favore o contro di essa e nella formulazione di un giudizio su di essa in base alla forza o alla debolezza dell’evidenza che essa manifesta» (ibi, p. 5). Un paesaggio che non diremmo disomogeneo rispetto a quello illustrato, dentro altri contesti, da Badaloni a proposito dell’abate Antonio Conti, «libero pensatore tra Newton e Voltaire», oppure ad alcune linee percorse da R. Koselleck e M.C. Jacob a proposito degli orientamenti massonici che stanno allo sfondo di tanto libero pensiero settecentesco, conferendo ad esso maggior determinatezza ed estensione. D. Bosco BIBL.: B. WILLEY, The Seventeenth-Century Background, Harmondsworth 1962; B. WILLEY, The Eigh-

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teenth-Century Background, Harmondsworth 1962, tr. it. di A. Dal Farra, La cultura inglese del Seicento e del Settecento, Bologna 1975; I.O. WADE, The Clandestine Organization and Diffusion of Philosophical Ideas in France from 1700 to 1750, Princeton 1938 (ristampa New York 1967); E. GARIN, L’illuminismo inglese. I moralisti, Milano 1942; F. MANUEL, The Eighteenth Century confronts the Gods, Cambridge 1959; R. KOSELLECK, Kritik und Krise, Alber 1959, tr. it. di G. Panzieri, Critica illuministica e società borghese, Bologna 1972; J.S. SPINK, French Free-Thought from Gassendi to Voltaire, London 1960, tr. it. a cura di L. Roberti Sacerdote, Il libero pensiero in Francia da Gassendi a Voltaire, Firenze 1974; N. BADALONI, Antonio Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire, Milano 1968; C. GIUNTINI, Toland e i liberi pensatori del ’700, Firenze 1974 (con antologia); C. GIUNTINI, Panteismo ed ideologia repubblicana: J. Toland (16701722), Bologna 1979; G. CARABELLI, Tolandiana. Materiali bibliografici per lo studio dell’opera e della fortuna di Toland (1670-1722), Firenze 1975; M. SINA, L’avvento della ragione. «Reason» e «above reason» dal razionalismo teologico, Milano 1976; M.C. JACOB, The radical enlightenment: Pantheists, Freemasons and Republicans, London 1981, tr. it. di R. Falcioni, Illuminismo radicale. Panteisti, massoni e repubblicani, Bologna 1983; M. IOFRIDA, La filosofia di John Toland. Spinozismo, scienza e religione nella cultura europea fra ’600 e ’700, Milano 1983; M. BENITEZ, Matériaux pour un inventare des manuscrits philosophiques clandestins des XVIIe e XVIIIe siècles, in «Rivista di Storia della Filosofia», 43 (1988), pp. 501-531; B. COTTRET, Le Christ des Lumières, Jésus de Newton à Voltaire, Paris 1990, tr. it. di I. Pampanaro, Il Cristo dei Lumi: Gesù da Newton a Voltaire, Brescia 1992; M.C. JACOB, Living the Enlightenment. Freemasonry and Politics in Eighteenth-Century Europe, Oxford 1991, tr. it. di P. Arlorio, Massoneria illuminata: politica e cultura nell'Europa del Settecento, Torino 1995; Trattato dei tre impostori. La vita e lo spirito del Signor Benedetto Spinoza, a cura di S. BERTI, trad. it. a fronte, Torino 1994; Heterodoxy, Spinozism, and Free Thought in Early-Eighteenth-Century-Europe. Studies on the «Traité des trois imposteurs», a cura di S. BERTI - F. CHARLES-DAUBERT - R.H. POPKIN, Dordrecht 1996; C. CHESNEAU DU MARSAIS, Examen de la religion ou Doutes sur la religion dont on cherche l’éclaircissement de bonne foi, ed. critica a cura di G. MORI, Oxford 1998; F. CHARLES-DAUBERT, Le Traité des trois imposteurs et L’Esprit de Spinoza. Philosophie clandestine entre 1678 et 1768, Oxford 1999; R. CHALLE, Difficultés sur la religion proposées au P. Malebranche, ed. critica a cura di F. DELOFFRE e F. MOUREAU, Genève 2000; M. MUSLOW, Moderne aus dem Untergrund. Radikale Frühaufklärung in Deutschland, 1680-1720, Hamburg 2002; Philosophes sans Dieu. Textes athées clandestins du XVIIe siècle, a cura di G. MORI e A.

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MOTHU, Paris 2005; G. PAGANINI, Les philosophies clandestines à l’âge classique, Paris 2005.

LIBERISMO. – Termine che non ha esatti Liberismo corrispondenti nel lessico politico-economico occidentale e che è presente nella letteratura economica e politica italiana fin dalla prima metà dell’Ottocento per designare i teorici del «libero scambio» in contrapposizione ai teorici del «protezionismo». S’impose nel dibattito politico con la polemica tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi che iniziò nel 1927. I suoi echi traversano e dividono la storia della cultura politica italiana fino a oggi. Influenzata dalla teoria economica classica, dal laissez faire nella formulazione della Scuola di Manchester e dell’economista francese Frédéric Bastiat, gran parte della scuola economica italiana dell’Ottocento (da Francesco Ferrara a Vilfredo Pareto e Maffeo Pantaleoni) fu, anche se talora per ispirazioni scientifiche e motivazioni politico-economiche diverse, sostenitrice dei vantaggi del libero scambio e dello stato liberale inteso come garante dei diritti individuali e della libertà economica. Anche se non espresse un organico e originale pensiero politico di stampo liberale, nel campo della teoria economica tale scuola godette di notevole prestigio internazionale e alla fine del secolo alcuni dei suoi esponenti, come Pantaleoni e Pareto, si allontanarono dalla teoria del «valore-lavoro» dell’economia classica recependo i temi della «rivoluzione marginalistica» nella versione di William S. Jevons e di Léon Walras. L’altra tradizione marginalistica, quella della scuola austriaca, venne sovente sottovalutata e confusa con le altre due. Tanto che si comprendeva il tutto nelle espressioni «economia pura» ed «economia edonistica». Tale legame con una concezione utilitaristicoedonistica e matematizzante della scienza economica fu presa di mira da Croce già alla fine dell’Ottocento. Il fine di Croce, la cui formazione risentiva della cultura filosofico-politica tedesca, era di distinguere la concezione utilitaristica dell’attività economica e politica dal liberalismo «vero e proprio». Tuttavia, la sua concezione del liberalismo, per lo meno in quegli anni, era singolare anche per la scarsa attenzione prestata alla teoria dei diritti naturali e alle istituzioni come strumenti di garanzia delle libertà individuali. Nel saggio Liberismo e liberalismo (Napoli 1927), che nel 1927

Libero amore apre il dibattito, Croce riconosce la comune origine dei due concetti nell’illuminismo «inglese», ma intende l’economia fondata su una filosofia e su un’etica di stampo utilitaristico. La sua idea di fondo era che, così intesa, l’attività economica non è propriamente una «scienza» ma una «pratica» delle cose umane che deve essere subordinata alla politica tramite il riconoscimento del «primato non all’economico liberismo ma all’etico liberalismo». Di conseguenza si sarebbe potuto, «con la più sincera e vivida coscienza liberale, sostenere provvedimenti e ordinamenti che i teorici della astratta economia classificano socialisti, e, con paradosso di espressione, parlare finanche di un “socialismo liberale”»; teorizzare «l’indifferenza del principio della libertà verso la particolarità degli ordinamenti economici». In tal modo Croce nega il nesso tra libertà economica e libertà politica che caratterizza da sempre la filosofia politica liberale, che diviene così indistinguibile da quella democratica, e, secondo Carlo Antoni, favorì la confluenza di molti giovani intellettuali nei partiti di sinistra. Per quanto la risposta di Einaudi non sia stata particolarmente incisiva, la controversia tra liberisti e liberali ha condizionato a lungo il mondo liberale consumandolo in una polemica con gli anni sempre più sterile, che a lungo l’ha portata a dare poco rilievo agli sviluppi della teoria liberale del mercato e alla funzione delle istituzioni nella garanzia delle libertà individuali. R. Cubeddu BIBL.: B. CROCE, Materialismo storico ed economia marxistica, Palermo 1900; C. ANTONI, La restaurazione del diritto di natura, Venezia 1959; B. CROCE - L. EINAUDI, Liberismo e liberalismo, ed. a cura di P. Solari, Milano-Napoli 1988; S. RICOSSA, Socialismo, liberalismo e liberismo, in B. JOSSA (a cura di), Teoria dei sistemi economici, Torino 1989; R. FAUCCI, L’economia politica in Italia, Torino 2000; R. CUBEDDU, Croce, gli Austriaci e il liberalismo, in «MondOperaio», 6 (2003), pp. 114-125.

LIBERO AMORE (free love; freie Liebe; amour Libero amore libre; amor libre). – Libertà del rapporto sessuale dai vincoli delle leggi dello Stato sul matrimonio e sulla famiglia, ma anche dalle convinzioni morali e religiose che sono viste come repressive del desiderio amoroso. Il libero amore nasce in connessione con il libertinismo, cioè con un’idea di «morale natu6389

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Libero arbitrio rale» che significava libertà dei singoli antecedente a ogni costrizione o legge collettiva. In questo modo l’individualismo moderno ricostruiva ideologicamente le sue aspirazioni, facendole risalire a condizioni di vita supposte originarie. Versioni molto distanti fra loro di questo atteggiamento si possono ritrovare in Giacomo Casanova, in una sorta di celebrazione del gioco della seduzione, della conquista e della separazione, o nel marchese De Sade, nel quale la legge naturale della ricerca del piacere diventa liberazione di ogni desiderio distruttivo e perverso, trasformando in puro oggetto, a disposizione del più forte, ogni persona e valore. Paradossalmente in Sade la libertà diventa l’ingranaggio della sussunzione degli uomini sotto la più spietata e impersonale delle leggi. Un’altra versione del libero amore nacque nell’ambito del socialismo utopistico ispirato alle teorie di Charles Fourier. Secondo Fourier la passione travalica il singolo e lo porta a cercare nell’altro il suo completamento, quindi il movimento amoroso è alla base della formazione di gruppi umani che si diversificano per poter soddisfare, secondo una logica di combinazioni complementari, ogni tipo di desiderio sessuale. Uniteismo è il nome che Fourier dà a questa spinta passionale che risolve l’egoismo in relazione amorosa e armonica di un insieme sociale. Così l’orgia diventa il superamento della monogamia egoista e il compimento della «abnegazione societaria»: la «coppia angelica» è quella che soddisfa anche i desideri degli svantaggiati. Diversamente dal fourierismo, e nonostante qualche spinta isolata nel senso del liberi amori, i movimenti socialisti e comunisti che si sono ispirati a Marx hanno di regola respinto l’idea del libero amore come utopia anarchica, o residuo del libertinaggio borghese – sul quale ricadeva, secondo Marx, in quanto uso strumentale e oppressivo della donna, divisa fra moglie e prostituta, l’accusa, rivolta spesso ai socialisti e ai comunisti, di essere a favore della comunanza delle donne. Gli sviluppi della valorizzazione dell’individuo giungono, in Stirner e Nietzsche, a vedere come frutto del risentimento dei deboli i legami sociali e i valori morali comuni, in questo senso la tematica del libero amore trova in questi pensatori una radice filosofica cui appellarsi. Il problema non può venire dissociato dall’evoluzione della società borghese e dalla creazione di strati sociali metropolitani, di giovani 6390

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con prospettive economiche incerte, in difficoltà nel crearsi una famiglia stabile e affascinati dallo spirito del tempo, negatore di ogni valore tradizionale e incline alla sperimentazione in ogni campo della vita. Elementi questi rafforzati dalla graduale emancipazione di una parte del mondo femminile, desideroso di liberarsi da vincoli familiari e sociali spesso oppressivi e quindi soggetto, e potenziale oggetto, della libertà sessuale. Ma il libero amore come ideologia o utopia, con la sua richiesta di una sorta di libertà sessuale limitata dal solo consenso e priva di istituzioni stabili, non è mai stato un modo di vivere capace di attirare altro che gruppi del tutto minoritari, in genere dissolti dai conflitti generati dalla stessa dinamica del libero amore, come ha mostrato la sua ripresa nei movimenti di contestazione giovanile europei e nordamericani negli anni sessanta e settanta del XX secolo. L’idea del libero amore è stata fatta propria da isolati rappresentanti del pensiero politico radicale: Bertrand Russell lo considera un elemento di progresso possibile e una condizione favorevole allo sviluppo di una società civile e non conformista. R. Madera BIBL.: F.-M. CH. FOURIER, Teorie des quatre mouvements, Paris 1808, tr. it. di E. Basevi, Teoria dei quattro movimenti, in Scritti politici e sociali, vol. I, Torino 1973; F.-M. CH. FOURIER, Le nouveau monde amoureux, 1816 (prima pubblicazione nel 1967), tr. it. di P. Cambioli - P. Caruso, Il nuovo mondo amoroso, Milano 1972; L. ROUSSEL, La famille incertaine, Paris 1989; D. DUHM, Der unerlöste Eros, Berlin 1991.

LIBERO ARBITRIO (lat. liberum arbitrium Libero arbitrio free will; freie Willkür; libre arbitre; libre albedrìo). – La qualifica «libero» toglie al termine «arbitrio» l’ambiguità, per cui esso viene a denotare arbitrarietà, impulsività, sconsideratezza e accidentalità, e lo introduce nell’ambito della libertà, a cui in ultima analisi si identifica e di cui, distinguendosi, esprime un momento della realizzazione: il suo atto concreto o il suo concreto compimento. Quindi il libero arbitrio indica l’atto della libertà, ossia il momento in cui l’uomo si decide ad agire e decide il suo agire come sua propria iniziativa e come potestativa signoria di sé. Per questo, rispetto alla libertà assoluta della volontà come dimensione in correlazione trascendentale con il bene o con il fine, sia inteso in senso generale sia inteso definitivamente come bene o fine assolu-

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to (Dio), la libertà dell’arbitrio riguarda un certo suo determinato atto. Ciò significa che il libero arbitrio non è una facoltà diversa dalla volontà come tale, ma è una sua funzione, che si esplica in riferimento ai beni o ai fini subordinati, chiamati anche «mezzi», da intendersi però nel senso di ea quae sunt ad finem. Il determinato atto del libero arbitrio viene chiamato da Tommaso «giudizio» o «elezione», in cui confluiscono, ciascuna a suo modo, la ragione e la volontà; per cui si può dire che il Iibero arbitrio è a un tempo giudizio o elezione proveniente dalla ragione e proveniente dalla volontà. La difficoltà insita in questi termini – che per Tommaso volevano sottolineare la libertà del libero arbitrio –, è quella del significato da dare alla elezione. Di fatto la scolastica posteriore ha inteso l’elezione come scelta e ha definito il libero arbitrio come scelta o come potere di scelta. Questa intelligenza ha deviato l’attenzione dalla libertà del libero arbitrio ai motivi o alle ragioni del volere, pervenendo così al concetto di libertà di indifferenza (noto anche come aequillbrium indifferentiae), criticato e respinto dai moderni come Cartesio, Spinoza e Leibniz in favore della determinatezza spontanea dell’atto. A. Molinaro BIBL.: TOMMASO D’AQUINO, II Sent., q. 24; TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 83; TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 24; TOMMASO D’AQUINO, De Malo, q. 6; Y. SIMON, Traíté du libre arbitre, Liège 1951; P. VALORI, Il libero arbitrio. Dio, I'uomo, la libertà, Milano 1987. ➨ AZIONE; LIBERTÀ; SCELTA; VOLONTÀ.

LIBERO ESAME (private interpretation; freie Libero esame Prüfung; libre examen; libre examen). – Principio secondo il quale l’interpretazione della sacra scrittura non deve sottostare al Magistero della chiesa, ma tutti possono leggere e interpretare il testo sacro, assistiti dallo Spirito santo. Il luteranesimo affermò che Cristo non fondò nessuna chiesa visibile né una gerarchia infallibile a cui affidare il deposito della rivelazione divina. Tra Dio e l’uomo non vi devono essere intermediari. Come unica autorità il luteranesimo pose la sacra scrittura, nella quale il credente trova l’unica fonte e norma della sua fede. Ogni fedele legge i libri sacri, li esamina liberamente e ne trae le verità da credere e il codice morale da osservare. Lo Spirito santo lo accompagna in questo itinerario di fede e di vita spirituale e lo illumina.

Libero esame Lutero sostiene tale concezione nella sua opera De servo arbitrio, del 1525, scrivendo che ogni uomo, illuminato dallo Spirito santo, giudica e discerne con certezza le dottrine rivelate. Anche più esplicite le affermazioni di Calvino, nella Institutio Christianae Religionis, sulla testimonianza interiore dello Spirito santo che produce la fede nel cuore di ogni uomo: una fede, non va dimenticato, fondata sulla parola di Dio contenuta nella sacra scrittura. Il credente esamina non la Scrittura, ma le interpretazioni che gliene vengono proposte. Affermazioni analoghe si trovano in Zwingli: non è la sapienza umana né l’autorità della gerarchia ecclesiastica che dà accesso alla parola di Dio, ma la luce dello Spirito santo, e Dio concede il suo Spirito a tutto il popolo. Ben presto però i riformatori si accorsero delle conseguenze che potevano derivare da una ambigua interpretazione del principio, passando dal rifiuto del ruolo della gerarchia a una forma di libero esame inteso come abbandono dell’interpretazione della sacra scrittura all’arbitrio dei singoli (sulla evoluzione del concetto di libero esame e l’erronea attribuzione ai riformatori di una lettura della Bibbia in chiave solo soggettiva si veda l’ottimo studio di A. Erba). Si correva il rischio di una anarchia dottrinale che poteva portare, e in certi casi di fatto avvenne, alla frantumazione della Riforma stessa in troppi rivoli e chiese. Un esempio di interpretazione letterale della norma furono i quaccheri, che giunsero a forme di forte soggettività, fino ad affermare che la luce interiore data dallo Spirito può stare al di sopra della Scrittura stessa, che viene quindi non solo letta, ma anche interpretata da quella luce interiore che è data a ogni credente. Per ovviare a questo rischio gli stessi riformatori cercarono di dare un senso meno soggettivo al concetto di libero esame, opponendosi a quanti ne desumevano comportamenti inaccettabili: così Lutero si oppose a Müntzer e Carlostadio, Calvino a Serveto e Castellione. Man mano si sarebbero formate delle vere e proprie confessioni di fede, che diventano punti di riferimento per tutti; oppure si affermava l’autorità delle dottrine elaborate dai sinodi. Si formeranno comunque due linee interpretative, quella ortodossa e quella più aperta. Contro quest’ultima si opporrà ad esempio l’anglicanesimo, nella lotta contro quanti volevano tornare alla pura parola di Dio (i puritani). Si 6391

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Libero spirito riaffermerà il ruolo della istituzione ecclesiale, soprattutto in ambito liturgico, dove diventerà determinante il riferimento alla raccolta liturgica contenuta in The Book of Common Prayer. Con il passare degli anni, la dottrina del libero esame, sotto l’influsso del razionalismo cartesiano, dell’individualismo liberale e del positivismo, tra il XVII e il XIX secolo sarebbe diventata la premessa di concezioni lontane dall’idea dei riformatori: si pensi ad es. all’emergere nel mondo protestante di forme di vero e proprio razionalismo, o al formarsi del protestantesimo liberale. In alcuni casi, il libero esame non giustifica solo una lettura soggettiva della Bibbia, ma addirittura fonda l’esperienza soggettiva del divino, che diventa creatrice dello stesso oggetto di fede, come avviene in certe forme di deismo. Negli ultimi decenni, l’evoluzione della riflessione teologica in ambito cattolico e protestante ha fatto emergere posizioni più sfumate e superare certe controversie. I documenti redatti dalle assemblee mondiali dell’associazione «Fede e Costituzione», tenutesi a Montréal nel 1963 e a Louvain nel 1971, espressione del consiglio ecumenico delle chiese, interpretano in modo meno radicale il sola scriptura dei riformatori, recuperando il valore della Tradizione correttamente interpretata all’interno e grazie alla comunità dei credenti (senza con questo escludere il ruolo del libero esame); mentre la costituzione Dei Verbum, promulgata dal concilio vaticano II nel novembre 1965, rimette al centro la Scrittura e nello stesso tempo recupera un concetto di Tradizione meno lontano da quanto affermato dai documenti del consiglio ecumenico delle chiese. Tutte le chiese poi affermano la necessità del lavoro di ricerca e di esegesi, che permette di superare le conseguenze di un’interpretazione troppo soggettiva insita nel libero esame. S. Offelli - M. Guasco BIBL.: V. CARRÈRE, Libre examen et tradition chez les exégètes de la préréforme (1517-1521), in «Revue d’Histoire de l’Église de France», 30 (1944), pp. 3953; A. ERBA, Esame protestante e libero esame. Evoluzione storica di un tema, in «Rivista di Storia e Letteratura Religiosa», 3 (1967), pp. 386-472; F. FROST, Libre examen, in Catholicisme. Hier-Aujourd’hui-Demain, Paris 1975, vol VII, coll. 710-719; F. FERRARIO, La «Sacra Ancora». Il principio scritturale nella Riforma zwingliana (1522-1525), Torino 1993. ➨ CALVINISMO; LUTERANESIMO; QUACCHERI.

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LIBERO SPIRITO. – Tendenza spirituale e Libero spirito mistica rilevata in Europa a partire dal XII secolo, i cui aderenti sono convinti di trovarsi innalzati con la propria anima in Dio e posti nella condizione esaltata da san Paolo in 2 Cor 3, 17 («Dov’è lo Spirito, lì vi è la libertà»). Numerose fonti inquisitoriali accusano pertanto gli adepti del Libero spirito di ricercare una via personale di deificazione, alternativa a quella dispensata dalla chiesa attraverso i sacramenti. La questione di fondo riguarda l’esistenza stessa di un movimento o setta del Libero spirito. Allo stato attuale prevale la convinzione che ci si trovi davanti a efflorescenze affioranti in luoghi e tempi differenti, unificate dal punto di vista della polemica eresiologica. Le più significative esperienze sono segnalate nella prima metà del Trecento. Fra il 1306 e il 1307 viene denunciata l’esistenza di una «setta dello Spirito di libertà» operante in Umbria in ambienti minoritici e agostiniani; i cui aderenti sono accusati da Chiara di Montefalco di perseguire una falsa quiete dell’anima, comportante quietismo e presunzione di impeccabilità e sfociante in comportamenti moralmente illeciti. Un paio di anni più tardi a Parigi viene arrestata Margherita Porete, per aver prodotto la seconda stesura di uno scritto già precedentemente condannato dall’autorità ecclesiastica, Il Mirouer des simples ames (Lo specchio delle anime semplici), un dialogo a tre voci (composto in lingua piccarda; la redazione originaria è andata perduta, sono sopravvissute traduzioni in mediofrancese, medioinglese, volgare italiano – due, una tardotrecentesca e l’altra del primo Quattrocento – e latina) fra ragione e amore, che si contendono l’anima. Per chi si ponga alla ricerca del «vero cristianesimo» il testo propone una dottrina i cui capisaldi sono costituiti da annichilimento, rinuncia a ogni volontà, impeccabilità, quiete, assoluta libertà interiore. Sottoposta al giudizio e alla censura di una commissione di teologi (apr. 1310), Margherita venne condannata come eretica relapsa e messa al rogo. A seguito di queste vicende ereticali il concilio di Vienna espresse nel decreto Ad nostrum (1312) una risoluta condanna di tali orientamenti spirituali e delle implicazioni morali. Nei decenni successivi lo spettro semantico dei termini Libero spirito si amplia, tendendo a coincidere con i termini beghini e begardi, indicanti precedentemente forme devote di religiosità laicali e successivamente designanti

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esperienze sospette dai caratteri disparati. In questo clima lo stesso teologo e maestro domenicano Eckhart (1260-1328) giunse ad essere implicato nell’accusa di Libero spirito. Nel suo più antico e più diffuso scritto in volgare, le Istruzioni spirituali (1294-1298), Eckhart enuncia una teoria della vita cristiana culminante nel «distacco», ovvero nella rinuncia alla «volontà propria». Avendo dimorato a Parigi negli anni in cui vi era detenuta la Porete, conobbe il Mirouer e ne riportò le affermazioni decisive nel proprio quadro teologico. Se Margherita aveva esaltato l’anima annientata, che vivendo nella sostanza di Dio è diventata tutto, Eckhart teorizza l’«uscire da se stessi», lo svuotamento dell’anima e l’abbandono dell’io, la rinuncia a tutto ciò che è creaturale per raggiungere Dio nel modo più alto. Fra il 1317 e il 1318 il vescovo di Strasburgo assunse disposizioni disciplinari contro Beghardi e Swestriones (che si definivano «fratelli e sorelle del Libero spirito e della povertà volontaria») e successivamente contro beghine. Indirettamente venivano colpiti i membri degli ordini mendicanti vicini a tali esperienze laicali, fra cui lo stesso Eckhart. Come risulta dal sermone Beati i poveri di spirito, questi invitava i suoi fedeli a praticare non tanto la povertà esteriore, quanto la vera povertà del non volere, non sapere e non avere. Dopo che nel 1325 a Colonia un notevole numero di begardi era stato condannato, bruciato e affogato nel Reno, l’anno successivo l’arcivescovo di Colonia aprì contro Eckhart un processo inquisitoriale, che si concluse, quando già il maestro era morto, con la condanna formale di 17 sue proposizioni ritenute eretiche (bolla di Giovanni XXII In agro dominico, 27 mar. 1329). G.L. Potestà BIBL.: L. OLIGER, De secta Spiritus libertatis in Umbria saec. XIV. Disquisitio et documenta, Romae 1943; R. GUARNIERI, Il movimento del Libero spirito dalle origini al secolo XVI, in «Archivio Italiano per la Storia della Pietà», 4 (1965), pp. 351-708; R.E. LERNER, The Heresy of the Free Spirit in the Later Middle Ages, BerkeleyLos Angeles-London 1972; K. RUH, Meister Eckhart: Theologe, Prediger, Mystiker, München 19892, tr. it. di M. Vannini, Meister Eckhart, teologo predicatore, mistico, Brescia 1989; A. PATSCHOVSKY, Freiheit der Ketzer, in J. FRIED (a cura di), Die abendländische Freiheit vom 10. Zum 14. Jahrhundert, Sigmaringen 1991, pp. 265-286; R.E. LERNER, New Evidence for the Condemnation of Meister Eckhart, in «Speculum», 72 (1997), pp. 347-366.

Libertà LIBERTÀ (gr. ejleuqeriva; lat. libertas - freedom, Libertà liberty; Freiheit; liberté; libertad). – La nozione di libertà è complessa, come attesta la sua storia. La prima suddivisione semantica è tra significato negativo e significato positivo della libertà. Per libertà negativa, o libertà da coazione o da costrizione, si intende la mancanza di costrizione esterna o interna subita dalla capacità di operare appartenente a un soggetto umano. Tale significato della libertà trova la sua tipica affermazione come libertà di azione e si specifica, secondo la diversa natura dei livelli antropologici e il campo di operazione, in libertà di coscienza, di pensiero, di parola, di culto, di iniziativa, di aggregazione ecc., e quindi nelle forme sociali della libertà religiosa, economica, civile, giuridica, politica ecc. La libertà positiva, invece, comprende il significato più comune e insieme più tipico di libertà, la libertà di scelta o libero arbitrio. Essa riguarda la condizione interiore di autonomia dell’agente, in forza della quale egli stesso è principio d’iniziativa e di elezione tra contenuti diversi (anche senza espressione esteriore, per es. tra un atteggiamento di odio e uno di amore) ed eventualmente tra percorsi alternativi di azione esterna. La discussione filosofica sulla libertà verte principalmente sull’esistenza di un tale spazio di libertà all’origine dell’agire umano, come capacità radicale di autodeterminazione, pur entro i limiti delle condizioni eterodeterminate d’ordine fisico, psichico e sociale. La questione cruciale è dunque relativa alle condizioni ultime di possibilità dell’autodeterminazione. In questa prospettiva, alla libertà positiva può essere riconosciuta un’ulteriore profondità, come automotivazione a fondamento dell’autodeterminazione della scelta. Nella misura in cui si concepisce la libertà come strutturalmente relazionata al bene umano, essa assume anche il significato di liberazione, in quanto nel suo esercizio ideale è attuazione dell’umano. Infine, l’affermazione della libertà solleva il problema della sua origine, trovandosi essa nella paradossale condizione di esserci senza essersi posta liberamente. Per le filosofie che giungono a questo interrogativo, la risposta è unanime: la libertà non può avere origine che dalla libertà e la libertà finita non può provenire che dalla libertà infinita, cui anzi spetta in senso proprio e pieno l’attributo della libertà. Le diverse filosofie della libertà privilegiano l’uno e l’altro dei significati della libertà in di6393

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Libertà pendenza dalla loro impostazione teoretica. Ogni filosofia della libertà ha comunque dinanzi a sé il compito di giungere a una determinazione a riguardo dell’esistenza della liberta e, quindi, delle sue forme, della sua natura e della sua origine. SOMMARIO: I. Filosofia antica: 1. Necessità e libertà. - 2. La dottrina socratica e Platone. - 3. Aristotele. - 4. Atomismo e stoicismo. - 5. Filone di Alessandria. - 6. Plotino. - II. Filosofia medievale: 1. Il cristianesimo come avvento della perfetta libertà mediante la grazia. - 2. I Padri e Agostino. - 3. Libero arbitrio e razionalità del volere prima della scolastica: Boezio, Anselmo, Bernardo. - 4. Tommaso d’Aquino. - 5. L’orientamento «volontarista». - III. Filosofia moderna: 1. La libertà dei moderni: dispute teologiche e dispute scientifiche. 2. La libertà dei moderni: razionalismo ed empirismo. - 3. Kant e la libertà formale. - 4. L’idealismo e la libertà assoluta. - 5. Risoluzioni della modernità non idealista: Maine de Biran e lo spiritualismo francese, Lequier, Rosmini, Kierkegaard. - 6. La libertà come energia metarazionale: Schopenhauer e Nietzsche. - IV. Filosofia contemporanea: 1. Bergson, lo spiritualismo francese, Blondel e il personalismo cristiano. - 2. Gli esistenzialismi. - 3. Forme del realismo ontologico della libertà. - 4. Filosofie angloamericane della libertà: pragmatismo e filosofia analitica. - V. Considerazioni conclusive. I. FILOSOFIA ANTICA. – 1. Necessità e libertà. – Il concetto di libertà appare nel mondo greco nel V secolo a. C. sul terreno politico, e dunque in ambito morale. La parola stessa ejleuqeriva indica nella sua radice indoeuropea (leudh-ero-s; cfr. E. Boisacq, Dictionnaire étymologique de la langue grècque: étudiée dans ses rapports avec les autres langues indo-européennes, Heidelberg 19504) l’appartenenza a un popolo. La concezione della città-stato come comunità politica, che vive delle sue leggi, dei suoi costumi e onora i suoi dèi, dà al greco il senso della sua appartenenza come cittadino, entro la quale si apprezza e si sviluppa il valore della ejleuqeriva. Il territorio stesso della polis è libero, e così colui che può vivere su di esso, dove domina il Novmo" nel quale si compongono forza e diritto; in rapporto a tale statuto della libertà non-libero non è più solo lo schiavo, ma lo stesso non-greco, in quanto barbaro che non sa parlare il linguaggio del Novmo". Tale senso della libertà cresce al tempo delle guerre persiane. È la concezione espressa da Eschilo, con la famosa immagine delle due donne aggiogate al 6394

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carro del re di Persia, delle quali l’una accetta il giogo e ne va superba, a differenza dell’altra, la Grecia, che scalcia, lacera i finimenti, travolge il carro del re despota e ne spezza il giogo (Eschilo, I persiani, I episodio). Analogamente, a Roma la libertas coincide con il fatto di non essere schiavo e, positivamente, con l’appartenenza alla propria gens. Liberi, nella lingua latina, sono figli di coloro che appartengono a una gens alla quale spetta un nomen. La libertas coincide perciò con un’appartenenza alla stirpe e quindi alla civitas, che ha negli dèi, cui è dovuta la pietas, i propri protettori. La problematica psicologica e metafisica della libertà è tematizzata in filosofia relativamente tardi. L’elemento rispetto a cui nel pensiero arcaico l’uomo pone il problema della sua libertà è il pensiero della necessità (ajnavgkh), del destino (moi'ra, eiJmarmevnh, peprwmevnh), del fato (tuvch), di fronte ai quali l’uomo condivide con le divinità stesse la medesima impotenza. A questo livello, la libertà non può consistere nella possibilità di mutare l’ordine di svolgimento delle cose, ma solo nel riconoscerlo e nell’accettarlo. L’uomo libero è l’individuo in armonia con il tutto: colui che, appunto perché si rende conto dell’ordine cosmico e si sente in accordo con esso, non tenta di contrastarvi, e perciò non ne subisce la costrizione. D’altra parte, la concezione del destino come disposizione di un giusto potere divino (la Moi'r a come Divkh, la concezione dell’heimarmene come provnoia, provvidenza) a cui si contrappone nell’esistenza umana un’ingiustizia che chiede espiazione (cfr. Anassimandro, fr. 1, in H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, ed. a cura di W. Kranz, Berlin 1961-6411, vol. I, 89 B 1), apre all’idea che l’agire dell’uomo è comunque imputabile a quest’ultimo. Vi sono dunque delle fratture nella necessità che drammatizzano la sorte dell’uomo aprendo la problematica della libertà. Tali fratture sono messe a frutto dalla tragedia. Le analisi che i grandi tragici, e particolarmente Euripide, faranno di tali situazioni sono in parte condizionate, per il loro aspetto filosofico, dalla sofistica, la quale, sia per il suo interesse verso gli aspetti psicologici delle questioni, sia per il suo atteggiamento dialettico, è portata a discutere sotto una luce già in qualche modo soggettiva i problemi della libertà. La questione se un atto sia o non sia stato compiuto volontariamente è, infatti, di capitale importanza per l’eventuale difesa di chi sia incolpato di

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quell’atto. Così noi troviamo che Gorgia, quando vuole difendere Elena dalle accuse di cui il mito la gravava, fa leva appunto su tutti gli elementi che possono aver coartato la sua volontà; tra essi pone, oltre alla violenza fisica vera e propria, la forza dell’amore e la suggestione irresistibile della parola. Ciò permette a Gorgia di concludere che Elena, «in ogni caso è esente da colpa» (in H. Diels, op. cit., vol. I, 288-294 B 11, tr. it. di M. Timpanaro Cardini, Encomio di Elena, in G. Giannantoni [a cura di], I Presocratici. Testimonianze e frammenti, RomaBari 19752, vol. II, pp. 927-933). In modo simile cerca di scolparsi Elena nelle Troiane di Euripide (vv. 929 ss.). D’altra parte è proprio con la sofistica che il termine ejleuvqero" entra nel vocabolario filosofico, in forza della contrapposizione tra natura (fuvsi") e legge (novmo") tipica della corrente naturalistica di Ippia e Antifonte. Il modello della natura dei sofisti è ricavato dall’arte medica, che riconosce lo spontaneo sviluppo di ciò che non ha costrizione. Ma la natura è competente a riguardo di ciò che è conveniente (ta; sumfevronta), perciò essere liberi corrisponde a obbedire alla natura: «Quanto all’utile, ciò che è prescritto dalla legge è un inciampo per la natura, ciò che è prescritto da natura è libero» (H. Diels, op. cit., vol. II, 346-352 B 44, tr. it. di M. Timpanaro Cardini, in G. Giannantoni [a cura di], I Presocratici, cit., vol. II, p. 996). La natura è perciò la vera norma a cui l’uomo deve conformare la sua scelta per ottenere ciò che è conveniente ed evitare il contrario. Questa configura anche un senso morale della virtù (ajrethv), che ha qualcosa di divino, come la natura stessa. 2. La dottrina socratica e Platone. – L’orientamento sofistico non è estraneo alla dottrina socratica della libertà come azione secondo il meglio. Li accomuna il modello della spontaneità naturale, che non può che perseguire ciò che le si confà. La novità socratica consiste nell’attribuire tale naturale inclinazione alla conoscenza, cui consegue che nessuno fa il male volontariamente, perché si agisce sulla base della conoscenza, e questa è orientata al bene. L’anima è dotata di una naturale «arte della misura» (Prot., 356 e) per la conoscenza del meglio, che, ostacolata dalla spontanea tendenza al più piacevole, può restare limitata a un bene minore, cattivo solo rispetto al meglio. Ma in ogni caso, l’uomo agisce esclusivamente in virtù della sua effettiva conoscenza del bene, che non può conoscere senza farlo,

Libertà mentre il male non è propriamente opera volontaria. La libertà perciò coincide con il dominio razionale di sé, sugli impulsi, le passioni, gli stati di piacere e di dolore, esercizio del primato dell’anima sul corpo, che rende possibile all’uomo la conoscenza del bene. L’idea dell’ejgkravteia identifica così la libertà (cfr. Senofonte, Memorabilia, IV, 5, 2 ss.), che si realizza pienamente come aujtavrkeia, autosufficienza della virtù e dell’uomo virtuoso: «Non aver bisogno di niente è divino, di pochissimo è vicinissimo al divino: ora il divino è la perfezione stessa e quel che è più vicino al divino è più vicino alla perfezione», afferma il Socrate senofonteo (ibi, I, 6, 10). Dunque l’autodominio, come dominio della ragione e della conoscenza sugli impulsi sensibili, costituisce la libertà del logos umano, condizione in cui esso raggiunge l’autosufficienza (che sarà esaltata come criterio di vita da Antistene e dai cinici). Se poi il sapere più alto concesso al logos umano è il sapere del «non sapere», allora la conoscenza-libertà ha come sua suprema regola etica quella di farsi istruire dalla divinità (Apol. Socr., 31 c), che conduce la conoscenza a riconoscere il supremo bene delle leggi e della città. In Platone, il concetto di responsabilità morale, presente in tutta la sua opera, e particolarmente nel Fedone e nella Repubblica, rinvia, necessariamente, al presupposto della libertà dell’uomo. Platone eredita il senso politico della libertà e insieme l’idea dell’autosufficienza socratica dell’anima, ma li trasforma in forza di una nuova analisi delle parti dell’anima (razionale e irrazionale, il concupiscibile e l’irascibile) e della dottrina metafisica del bene. La libertà, infatti, si fonda nel bene ed è essa stessa una partecipazione al bene, che è «modello» e «paradigma» della vita dell’individuo e dello stato, e dunque fondamento insieme della libertà dell’anima e della libertà della città. C’è «analogia fra la città e l’individuo» (Resp., IX, 577 c): come è libera la città in cui domina la virtù, così lo è l’anima in cui il sapere sul bene domina le potenze inferiori; come la città ha il suo ordine e la sua libertà nella «vita comunitaria in concordia e amicizia» (Pol., 311 c), altrettanto l’anima li ottiene con il dominio di sé e la saggia riflessione (Phaed., 108 a-b). E, viceversa, «l’anima sottoposta a tirannia non è minimamente libera di fare quello che vuole», perché è turbata e agitata dalle passioni, e così anche la città (Resp., 6395

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Libertà IX, 577 e). Per questo la libertà è tale perché condivide a diversi livelli l’autosufficienza del bene. La libertà non significa indipendenza, ma autarchia, ovvero consistenza e sufficienza della città e dell’anima fondate nell’ordine, perché partecipi della perfezione autarchica del bene stesso (cfr. Phil., 67 a). In tal modo lo statuto della libertà assume una nuova struttura circolare, secondo cui la libera decisione è necessaria alla partecipazione al bene, che però non sarebbe possibile se l’anima non fosse già in comunicazione con il bene, in quanto ingenerata e immortale (Phaedr., 245 c-e). Il mito della reincarnazione nel Fedone e quello di Er nella Repubblica palesano la preoccupazione di porre una radicale libertà a fondamento della situazione particolare in cui ciascuno si trova a vivere, facendola dipendere da una libera scelta compiuta dall’individuo in un’esistenza precedente. Il mito di Er esprime in modo icastico questa condizione originaria dell’esistenza: l’anima preesistente alla sua unione con un corpo sceglie responsabilmente il genere di vita che avrà nella sua esistenza temporale, cui sarà vincolato con il suo demone in modo irreversibile. Platone cerca in tal modo una soluzione al grave problema della compresenza di libertà e necessità, senza negare né l’una, né l’altra, svincolando però l’esistenza umana dalla sorte di un destino cieco e facendo invece della libertà il modo inevitabile ma responsabile di assumere la necessità: «La virtù non ha padrone: secondo che ciascuno la onora o la dispregia, avrà più o meno di lei. La colpa è di chi sceglie: dio non ne ha colpa» (Resp., X, 617 e). Entro questa nuova figura s’inserisce anche il problema socratico della conoscenza, il cui intellettualismo Platone da una parte approfondisce, facendo della conoscenza e della filosofia la condizione di una scelta felice (cfr. Resp., X, 619 d-e), dall’altra, invece, attenua attraverso il gioco dell’oblio e della reminiscenza nella conoscenza umana. Il mito di Er si conclude con l’immagine della dimenticanza indotta dall’assunzione dell’acqua del fiume Amelete nella pianura di Lete (Resp., X, 621 a-b): la conoscenza del bene, e quindi la libertà dell’anima, deve superare la condizione dell’oblio e della distanza. 3. Aristotele. – L’approfondimento aristotelico dell’idea di libertà passa attraverso un’inedita analisi dell’atto umano come atto volontario, intrapresa nell’Etica Nicomachea che vi dedica tutto il cap. 1 del libro III. Volontarie sono le 6396

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azioni «il cui principio risiede in colui che agisce, se conosce le circostanze particolari in cui si svolge l’azione» (Et. Nic., 1111 a 23). Involontarie (ajkouvsia) sono definite, invece, le operazioni «che avvengono per costrizione» (Biva) o «per ignoranza» (div´ a[gnoian); la costrizione ha luogo ogni volta che «il principio dell’azione sia esteriore, di modo che l’agente, o paziente, non vi contribuisca per nulla», come quando un vento violento ci trasporti dove non volevamo andare (ibi, 1110 a 3). Il problema si fa difficile nei casi di costrizione morale, come in quello del ricatto da parte di un tiranno. Allora la nostra azione sarà, considerata in se stessa, involontaria, perché nessuno sceglierebbe di compiere tali atti per se stessi (ibi, 1110 a 13); ma volontaria rispetto alle circostanze particolari in cui è compiuta, perché implica in ogni modo il libero intervento della scelta. Tali azioni si avvicinano, dunque, alle azioni volontarie, come quando si getta a mare la mercanzia per salvare la nave (ibi, 1110 a 8). Quanto alle azioni commesse per ignoranza, esse sono tutte involontarie (ibi, 1110 b 18), se, però, l’ignoranza concerne i particolari dell’azione, cioè le circostanze e gli oggetti, non ciò che si è tenuti moralmente a fare; infatti, «ogni malvagio ignora ciò che si deve fare e ciò da cui ci si deve astenere» (ibi, 1110 b 28), ma questo non gli toglie il biasimo, che gli sarebbe risparmiato solo qualora non sapesse che cosa veramente stia facendo. Aristotele si propone, in tal modo, di correggere il paradosso socratico del rapporto tra libertà e conoscenza. Aristotele anzitutto rende più complesso il modello, distinguendo tra la spontaneità volontaria e la scelta (proaivresi") e tra questa e la deliberazione (bouvleusi"), il ragionamento sui mezzi per raggiungere il fine; in secondo luogo fa della scelta il luogo di intreccio di ragione e appetizione: l’oggetto della scelta è una cosa che dipende da noi, desiderata in base a una deliberazione, la scelta è dunque «un desiderio deliberato di cose che dipendono da noi» (ibi, VI, 3, 1113 a 10); più precisamente è «intelletto che desidera» (ojrektikov" nou'"), o «desiderio che ragiona» (o[rexi" dianoetikhv), e questo è principio di valore antropologico definitorio: «kai; toiauvt h ajr ch; a[nqrwpo"» (ibi, VI, 2, 1139 b 4-5). La scelta dunque si connette con il momento razionale della deliberazione ed è di natura razionale anch’essa, però non è pura ragione, ma anche tendenza (cfr. anche l’affermazione di De motu

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animalium, 700 b 22, secondo cui la scelta è comunanza di ragionamento e di tendenza, «koino;n dianoiva" kai; ojrevxew"»). In questo modo Aristotele si porta al di là dell’intellettualismo socratico-platonico, facendo intervenire la componente della tendenza come elemento positivo e compositivo della scelta. Tale mossa speculativa apre naturalmente ulteriori e radicali problemi, primo tra tutti quello della compossibilità di tale unione della tendenza, che è passiva e indirizzata ad unum, e del pensiero, che è attivo e può dirigersi ad multa. In sostanza, manca in Aristotele la figura speculativa della volontà come unità di ragione e di appetizione, per cui la questione della libertà di scelta, nella sua natura e nella sua possibilità, rimane impregiudicata, quanto al fondamento. La libertà non è attribuibile alla volontà come bouvlhsi", perché Aristotele nega che essa abbia libera disposizione dei possibili. Mentre la scelta, infatti, riguarda le cose che dipendono da noi e perciò si volge ai mezzi per conseguirle, la volontà può volere anche ciò che non è in nostro potere e ha a oggetto il fine (Et. Nic., III, 2, 1111 b 21 ss.). Perciò di per sé la volontà è tendenza necessaria o al bene reale (oggettivo) oppure al bene apparente (soggettivo); in ogni caso la volontà non appare come la sede della scelta. D’altra parte, la problematica aristotelica della libertà non si limita all’ambito della scelta, ma riprende anch’essa il tema tradizionale dell’autarchia, che si realizza per Aristotele al livello metaetico dell’eujdaimoniva e del bivo" qewrhtikov", dove l’autarchia della vita politica fondata sull’ordine del Novmo" trova il suo senso compiuto ed è insieme trascesa. 4. Atomismo e stoicismo. – Non c’è invece alcuno spazio per qualche forma di libertà nel rigido determinismo dell’atomismo democriteo. Neppure c’è possibilità di libertà nella riforma epicurea della «declinazione» (parevgklisi"), il lucreziano clinamen degli atomi, essendo lo spostamento della traiettoria dell’atomo effetto solo del caso. Il senso della libertà come autarchia emerge invece nell’intenzione morale della filosofia di Epicuro, che ripropone l’ideale dell’autarchia come frutto dell’esercizio della ragione filosofica nell’ambito dei piaceri. La libertà è l’effetto di liberazione che produce la limitazione posta alle sollecitazioni della sensibilità, che ci sgrava dall’urgenza dei piaceri naturali, ma non necessari, e ancor più, da quelli non naturali e non necessari (cfr. Massi-

Libertà me capitali, 29). Il controlllo dei desideri e la loro riduzione all’essenziale, quelli relativi ai piaceri naturali e necessari, rende autosufficienti, che è la condizione in cui si danno la massima ricchezza e felicità: «L’autosufficienza – afferma Epicuro – è la ricchezza più grande» (Clemente Alessandrino, Stromata, VI, 2, in Epicurea. Testi di Epicuro e testimonianze epicuree nella raccolta di H. Usener, a cura di I. Ramelli, Milano 2002, fr. 476, p. 651). Simmetrica difficoltà per un pensiero della libertà si trova nel necessitarismo metafisico degli stoici. Un primo tentativo di affermare la libertà è fatto in ambito cognitivo, come libertà di assenso all’evidenza oggettiva della rappresentazione e, corrispettivamente, come sua negazione al non evidente. Come spiega Sesto Empirico, per gli stoici, da una parte vi è la rappresentazione catalettica dotata della sua forza d’evidenza (quella che Diogene Laerzio chiama fantasiva katalhptikhv) e questo è fenomeno involontario; dall’altra, vi è l’assenso volontario, che dipende dal nostro giudizio (Adversus Mathematicos, VII, 151, in H. von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, Lipsiae 1903-24, vol. II, fr. [b. l] 91 [1], ed. it. a cura di R. Radice, Stoici antichi: tutti i frammenti, Milano 1998, p. 337). La difficoltà maggiore discende dal contesto fatalistico stoico, dalle catene della eiJmarmevnh, che sembra necessitare ogni atto, anche quello interiore dell’assenso. Crisippo cerca di difendere la dottrina con una teoria delle cause, che distingue quelle ausiliarie ed esterne, su cui regna la necessità, e quelle invece perfette, capaci di produrre da sé l’effetto, e quindi indipendenti, secondo il noto esempio del cilindro che rotola sul piano inclinato, in realtà non per effetto della spinta esterna, ma per la causa interna della sua natura (cfr. Cicerone, De fato, 39, in H. von Armin, op. cit., vol. II, fr. [B.f.] 974, ed. it. cit., pp. 840843); così anche l’assenso, in quanto generato da una causa interna perfetta, dovrebbe sfuggire alla necessità. Ma la dottrina stoica rimane palesemente difficoltosa, perché impotente rispetto al presupposto del pervasivo universale logos necessitante. Non si può negare, tuttavia, che il caso dell’assenso costituisca in se stesso l’abbozzo di un tentativo di trovare un principio metacognitivo, al di fuori del consueto orizzonte intellettualistico, come causa d’azione indipendente. La figura fondamentale della libertà stoica consiste però nell’idea dell’atto di saggezza 6397

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Libertà che aderisce alla necessità. Di libertà è possibile parlare solo in stretta unità con la necessità, cioè come razionale accettazione del fato e assecondamento della sua necessità; secondo l’immagine diffusa nella letteratura stoica, la vera libertà del saggio sta nel seguire volontariamente ciò che altrimenti trascinerebbe al suo destino: «Ducunt volentem fata, nolentem trahunt» (Seneca, Epistulae, 107, 10). L’essenza della libertà stoica sta dunque nel razionale riconoscimento della partecipazione del logos umano al logos divino. Nel nuovo contesto dello stoicismo del I secolo d. C., caratterizzato da interessi più antropologici e morali che fisici e metafisici, l’idea di libertà di Epitteto poggia sulla capacità di orientare la vita distinguendo (secondo una certa ispirazione crisippea) tra le cose che sono «in nostro potere» e quelle che non lo sono. Distinzione che permette l’esercizio della capacità proairetica (proairetikh; duvnami"), facoltà dell’orientamento morale con cui l’uomo configura la propria impostazione di vita. È infatti con la proaivresi" (non in senso aristotelico di scelta dei mezzi) che l’uomo apprezza moralmente la realtà ed esprime la disposizione fondamentale della sua esistenza; modernamente potremmo parlare di un’«opzione fondamentale», non però come opera di volontà, ma come giudizio intellettuale, da cui discendono comportamenti e scelte. Spazio dunque di natura intellettuale e di orientamento pratico-morale, in cui l’uomo fa l’esperienza dell’indipendenza, autentico potere e reale rischio della sua esistenza: «Che cosa può per sua natura porre ostacoli alla proaivresi"? Niente di ciò che non dipende da lei, ma essa solo, quand’è pervertita. Perciò, essa sola diventa vizio, essa sola virtù» (Epitteto, Diatribe, II, 23, 19). Solo Seneca in ambito stoico, ma con novità anche rispetto all’intera tradizione morale greca, inaugura un discorso sulla volontà, in modo distinto dalla facoltà conoscitiva; tratto speculativo «romano, introdotto da Seneca nella stoa» (cfr. M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, Göttingen 19592, vol. II, tr. it. di O. De Gregorio - B. Proto, La Stoa, Firenze 1967, vol. II, pp. 89 ss.). Il significato della voluntas senecana è più morale che antropologico: «Quid tibi opus est, ut bonus sis? Velle!» (Seneca, Epistulae, 80, 4); ma già introduce un principio dell’agire che trasgredi6398

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sce l’intellettualismo e predispone un nuovo alveo per l’idea della libertà. 5. Filone di Alessandria. – Un discorso a parte, ma non avulso dalla storia del pensiero greco su questo argomento, merita Filone di Alessandria, eminente rappresentante del giudaismo alessandrino e primo filosofo che visse in maniera consapevole e matura il problema del rapporto fra fede (giudaica) e ragione (filosofica): in questo senso egli fu l’anello di congiunzione fra il pensiero greco e il primo pensiero cristiano. Il concetto filoniano di libertà non è molto distante da quello stoico, per il quale la libertà coincide con la virtù e in ultima analisi con il grado di accettazione del destino. Solo che nell’alessandrino il destino altro non è che la volontà divina (la sua provvidenza), che l’uomo può accettare o rifiutare. Tuttavia, a differenza degli stoici, per Filone la libertà è un dono (grazia) di Dio e non un carattere strutturale dell’uomo. Esiste poi un particolare stato di libertà che è tipico del sapiente e che consiste nella parrhsiva, cioè nella libertà di parola di fronte a Dio. «L’uomo virtuoso – scrive Filone – ha una così grande libertà di parola, che non solo ha il coraggio di parlare e di gridare, ma anche di alzare un grido di rimprovero dal profondo della sua fede sincera e dei suoi sentimenti puri» (Quis rerum divinarum heres sit, 19, ed. it. a cura di R. Radice, L’erede delle cose divine, Milano 1981, p. 130). Esempi di questa superiore libertà sono le figure di Abramo e di Mosè, che possono parlar franco con Dio in ragione della loro familiarità e amicizia con lui. Senza dubbio un concetto di libertà e di amicizia che eccede la mentalità greca. 6. Plotino. – Il prevalente senso morale della libertà, soprattutto nella forma dell’ideale autarchia, consegnato dal percorso della speculazione greca, è radicalmente superato nella straordinaria riflessione metafisica e antropologica che Plotino conduce nelle Enneadi (VI, 8). La forza e la novità del discorso plotiniano consistono nel portare il discorso della libertà su dio (cioè sull’uno); nel predicare per la prima volta la libertà di Dio identificando la piena libertà con l’uno stesso. L’andamento del capitolo dedicato al tema, infatti, benché inizi trattando della predicabilità della libertà a riguardo dell’anima umana, mostra nel suo sviluppo di trarre la definizione dell’essere libero dalla libertà predicabile dell’uno, che come tale implica una semantica nuova e innovativa della libertà stessa. È significativo il fatto che

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Plotino riprenda da Epitteto la definizione di libertà come di «ciò che dipende da noi», to; ejf´ hJmi'n, che però nella sua accezione originaria sta a significare una limitazione di campo quanto all’azione e alla disposizione umana, mentre in Plotino assume il significato fondativo e intensivo dell’autopossesso e dell’automotivazione, esemplato nell’originaria e perfetta unità dell’uno. Nell’unicità, non in senso limitativo ed estrinseco, ma in senso intrinseco e ontologico, sta dunque la radice della libertà. Dove vi è identità di essere (uJpovstasi"), essenza (oujsiva) e attività (ejnevrgeia), lì vi è libertà nella sua pienezza (ibi, VI, 7, 47-54, tr. it. di R. Radice, Enneadi, Milano 2002, p. 1785). La libertà è nome dell’uno, non come proprietà rivolta all’esterno, ma come suo essere (per quanto si possa usare questo termine per lui che è al di là dell’essere): egli infatti è di per sé e al di là dell’essenza, è «al fondo della sua intimità (ejn bavqei)» (ibi, VI, 18, 4) e perciò ogni predicazione che lo riguarda deve essere fatta «per così dire» (ibi, VI, 13, 50), con la consapevolezza dell’insuperabile sproporzione concettuale all’uno. Per questa unità assoluta l’uno è «come un re che esiste davvero, un autentico principio e un autentico bene: vale a dire, non come qualcosa che agisca in conformità del bene» (ibi, VI, 9, 21-23). Egli «dispone del suo essere» (ibi, VI, 12, 15) in quanto esente da ogni dualità; anzi, non essendoci rapporto d’alterità tra «essenza» e «attività», egli è di là del suo stesso autodominio, e la stessa espressione «padrone di sé» risulta impropria e «fuorviante» se suggerisce la dualità dell’essere oggetto di se stesso (ibi, VI, 12, 30 ss.). Piuttosto «l’uno sarà esattamente quello che ha voluto essere e l’affermare che egli vuole e agisce conformemente alla sua natura equivale ad affermare che la sua essenza è come lui vuole e come agisce» (ibi, VI, 13, 9-10). Essere se stesso per lui «indica quello che egli ha sempre voluto essere e tuttora vuole»: «La natura del bene è incontaminata volontà di se stesso, non ridotta al traino della propria natura, ma frutto della propria scelta» (ibi, VI, 13, 38-40). Infine, ovvero fin dall’inizio e da sempre, egli è causa di sé ed è da sé e attraverso sé: «Insomma, egli è, primariamente se stesso e al di sopra dell’essere» (ibi, VI, 14, 44) ed è parimenti «amabile», «amore e amore di sé» (ibi, VI, 15, 1). Egli dunque «è creatore di se stesso», ma non nel senso che sia prima di esistere e che

Libertà sia un’attività volta a produrre qualcosa d’altro, ma in quello secondo cui il suo produrre coincide con il suo essere. Egli è attività perfetta perché non sottomessa alla sua essenza ed è perciò «attività puramente libera» (ejnevrgeia [...] kaqarw'" ejstin ejleuqevra, ibi, VI, 20, 17-18). Da questa concezione metafisica della libertà come autopossesso indipendente e autogenerante discende la visione della libertà antropologica, che non potrà essere che una partecipazione imperfetta della perfetta unità libera. Tale libertà dovrà trascendere il «volontario» aristotelico (eJkouvsion), che è ciò che si dà senza costrizione con consapevolezza, e identificarsi invece con «ciò che dipende da noi» (ejf´hJmi'n), che noi siamo padroni di fare. Questa libertà è possibile all’anima come partecipazione e imitazione dell’intelligenza (Nou'"), quale sua mediazione per dirigersi al bene con la volontà, il logo, il logo retto e la scienza. Unita e guidata dall’intelligenza l’anima si distacca dal molteplice materiale e dalle passioni, cioè dal regno dell’alterità, e si esercita nella conoscenza e nella contemplazione, attuando quella semplificazione (a{plwsi") che la libera. Una natura semplice, infatti, in quanto non suddivisa tra atto e potenza, come potrebbe non essere libera? (pw'" oujk ejleuqevra) (ibi, VI, 4, 25-26). La libertà, dunque, non sta nell’agire rivolto all’esterno, ma nell’atto interiore e immateriale del pensiero e della contemplazione (ibi, VI, 6, 19-22). In conclusione, «l’anima è libera, quando aspira al bene attraverso l’intelligenza, e in questa sua aspirazione non trova ostacoli» (ibi, VI, 7, 1-2). Plotino porta la teoria della libertà a un livello, inedito nel pensiero greco e in certo senso insuperato nella storia della filosofia, che recupera e trascende le precedenti concezioni della libertà. Il riempimento metafisico dell’idea di autarchia ne trasfigura il senso come radicale autopossesso. In tal modo l’essenza della libertà è nettamente svincolata sia dall’ontologia del caso (come quello dell’atomismo e dell’epicureismo; il bene, invece, è «il modello delle realtà che non hanno nulla a che fare con la sorte», ibi, VI, 14, 35), sia da quella della necessità (in polemica con lo stoicismo; cfr. ibi, III, 1, 7). L’essere libero appartiene a un ordine di realtà irriducibile a «caso» e a «necessità» e indeducibile da essi, per cui è insensato cercare la libertà nelle pieghe della casualità fisica o della necessità metafisica, che piuttosto derivano dal bene, che è libero proprio perché ha 6399

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Libertà in sé la propria causa ed è «causa di sé, in sé e per sé» (ibi, VI, 8, 15, 41-42). La chiarificazione plotiniana dell’essenza della libertà, invece, recupera a un livello superiore l’idea platonica della libertà come liberazione dell’anima e mostra, rispetto alla linea aristotelica (e al prevalente futuro dibattito medievale), che il significato primo della libertà è da cercare su un piano più originario della libertà di scelta. II. FILOSOFIA MEDIEVALE. – 1. Il cristianesimo come avvento della perfetta libertà mediante la grazia. – Con il cristianesimo l’idea della libertà, interpretata nella tradizione biblica anzitutto come liberazione, si rinnova e si approfondisce come dono di Dio all’uomo e nell’uomo. L’idea di libertà presente nell’Antico Testamento, infatti, si riferisce basilarmente all’azione storica del Dio liberatore, non all’essere di Dio e neppure, direttamente, all’essere umano. La liberazione è azione propria di Dio, che si rivela in modo paradigmatico nella fuoriuscita d’Israele dall’Egitto («Io sono JHWH, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù», Es 20, 2), in cui si manifesta il bisogno che ha l’uomo, come popolo e poi sempre più anche come singolo, di essere liberato dalla schiavitù esteriore dei nemici e da quella interiore dell’idolatria. Il dono della Legge (Torah) crea una stabile tensione, che attraversa tutta la storia di Israele, tra il comando divino e la responsabilità (benché per lo più fallimentare) dell’uomo, in rapporto alla quale il ministero dei profeti costituisce denuncia, ammaestramento e anche prospettazione di una liberazione finale, in cui il dono divino della libertà abbia finalmente compimento e soddisfazione (cfr. G. von Rad, Theologie des Altes Testaments, München 1965-66, 2 voll., tr .it. a cura di M. Bellincioni, Teologia dell’Antico Testamento, Brescia 1972-74, 2 voll., passim). In questa grande tensione religiosa, morale ed escatologica, i temi del peccato e del pentimento, del castigo e del perdono, della caduta e della redenzione ecc. rinviano anche all’idea della scelta affidata all’uomo e al gioco della libertà creatrice e redentrice e della libertà creata e redenta come tessuto dell’intera storia umana. Nel Nuovo Testamento la liberazione di Dio si concentra e si compie nella persona, vicenda, parole e opere, di Gesù di Nazareth, riconosciuto come Cristo e figlio di Dio. Il maggior sviluppo della teologia cristiana della libertà è nel corpo delle lettere paoline, incentrate non 6400

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sull’autodisposizione dell’uomo, ma sul dono di liberazione offerto da Dio in Cristo all’uomo, la cui libertà ha bisogno di essere liberata: «Cristo ci ha liberati, perché restassimo liberi» (Gal 5, 1) e «il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2 Cor 3, 17). La liberazione, che è donata nella comunione con Cristo tramite la fede e il battesimo, rivolta contro la forza schiavizzante del peccato, della legge e della morte e della loro connessione dialettica, consiste nell’instaurazione della vita nuova secondo lo Spirito, la cui «legge» è l’amore, misura della vera libertà (cfr. Rm 13, 8 ss.). In consonanza con san Paolo, l’evangelista Giovanni afferma il nuovo nesso che Cristo istituisce tra verità e libertà: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32). La libertà cristiana è data dunque in connessione con la verità, non intesa però come frutto dello sforzo teoretico dell’uomo, ma identificata con Cristo, che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6), così che essere liberi significa ormai diventare liberi della libertà stessa del figlio di Dio. La prospettiva della liberazione, in quanto donata dall’alto, apre una prospettiva assolutamente nuova, d’ordine teologico, sulla libertà umana. L’orizzonte teologico non riduce la portata della libertà umana, bensì conduce a una nuova interpretazione anche speculativa della libertà di Dio e della libertà dell’uomo e del loro rapporto. L’idea di liberazione, infatti, porta implicito in sé un intero organismo di idee metafisiche, antropologiche e morali: la persona umana creata e redenta dal Dio personale; l’uomo fatto essere e posto responsabilmente in rapporto al suo Dio; l’uomo fatto rinascere e reso responsabile del dono ricevuto. Il tema del peccato esprime tutto ciò in negativo, essendo esso non la condizione dipendente dalla dispersione ontologica nel molteplice oppure conseguente a un’originaria colpa anonima, ma il male spirituale e morale dipendente dalla capacità di scelta nella creatura. A maggior ragione il dono della liberazione implica la libertà come capacità di scelta, di adesione al bene e anche di rapporto ad altra libertà. Infatti, facendo della libertà umana l’interlocutrice dell’assoluta gratuità divina, il vangelo suppone una natura a sua volta capace di gratuità. Come afferma Paolo, «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma [tutti] sono giustificati gratuitamente per la

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sua grazia» (Rm 3, 23-24) e dunque si implica di necessità teologica che tutti debbano essere in grado di rispondere con gratuita libertà al dono di Dio. 2. I Padri e Agostino. – Costante è negli apologisti, come Giustino nei confronti dello stoicismo, o dei padri della chiesa, come Ireneo nei confronti della gnosi, la rivendicazione della libertà dell’uomo. Nelle grandi costruzioni teologiche di Clemente alessandrino, di Origene, di Metodio di Olimpo, di Gregorio di Nissa, di Massimo il Confessore la preoccupazione di salvaguardare la libertà del volere, insieme con la riflessione sul problema del rapporto tra libertà umana e libertà divina, costituisce un impegno fondamentale. È però nell’opera di Agostino che è contenuta l’elaborazione speculativamente più creativa e di più profonda influenza filosofica del tema della libertà. Agostino tratta in molti luoghi del problema, ma principalmente nel De libero arbitrio (388-395) e nel De natura boni (399), nel De gratia et libero arbitrio e nel De correptione et gratia (427): le prime due nella prospettiva della polemica contro i manichei, che toglievano all’uomo la responsabilità della colpa, facendo di lui il teatro passivo della lotta tra il principio del bene e quello del male, e quindi con riferimento al problema dell’origine e della natura del male; le seconde due nella prospettiva della polemica contro Pelagio, che negava la necessità della grazia per avere la perfetta libertà spirituale, e quindi con riferimento al problema della realizzazione storica della libertà. Agostino affronta dunque la questione della libertà a partire dal problema del male, giungendo alla conclusione che esso, anziché smentire la libertà umana, piuttosto la afferma, potendo esso derivare esclusivamente dal libero arbitrio della volontà stessa (libera voluntas, liberum arbitrium). L’idea ebraico-cristiana di peccato, entrando nel lessico della riflessione filosofica, testimonia a favore della libertà: «Peccatum autem, caveri igitur potest» (De lib. arb., III, 18, 50): se c’è peccato, c’è libertà. Proprio perché tale, la libertà appare in Agostino dotata di un’inedita profondità, in grado di superare il limite intellettualistico delle acquisizioni platoniche e aristoteliche, e insieme gravata anche di nuovi problemi teoretici. Se peccato, infatti, significa disordine nel rapporto tra la mens e gli altri elementi antropologici, che cosa può essere origine del di-

Libertà sordine? Non un essere inferiore ad essa, che non sarebbe in grado di determinarla; non l’essere superiore, Dio, che non può essere malvagio (salvo accettare la contraddittoria metafisica manichea). Solo la voluntas stessa e il suo liberum arbitrium possono introdurre il disordine: «Nulla res alia mentem cupiditas comitem faciat, quam propria voluntas et liberum arbitrium»; la voluntas infatti «quia est in nostra potestate, libera est nobis» (ibi, I, 11, 21; III, 3, 8). Non dunque un errore intellettuale sta alla base del peccato, ma la libera autodisposizione della volontà. Come afferma il De civitate Dei, la volontà cattiva non ha causa efficiente, «nulla produce una volontà cattiva, poiché è la stessa volontà cattiva a produrre un’azione cattiva» (De civ. D., XII, 6). Dunque, contro il determinismo negativo dei manichei, ma anche al di là dell’intellettualismo greco, Agostino approfondisce l’idea plotiniana del to; ejf´hJmi'n, e con essa quella della proaivresi" di Epitteto e della voluntas di Seneca, e sviluppa l’idea del to; auj t exouv s ion, dell’autodisposizione come liberum arbitrium, capacità di scelta. A fondamento sta quella che John M. Rist chiama la «straordinaria e innovativa tesi di Agostino», cioè la «quasi-identificazione della volontà con l’amore», così che «determiniamo il fare cose come risultato di ciò che noi siamo, e ciò che noi siamo è ciò che amiamo» (J.M. Rist, Augustine. Ancient Thought Baptized, Cambridge 1994, tr. it. di E. Alberti, Agostino. Il battesimo del pensiero antico, Milano 1997, p. 239). Di conseguenza, l’autopossesso della volontà non è più plotinianamente d’ordine intellettuale, ma è amore misurato dal bene, che nel suo esercizio come libero arbitrio definisce la fisionomia spirituale e morale dell’uomo. In tal modo Agostino consegna all’età successiva gran parte del patrimonio classico sulla libertà trasformato attraverso la nuova figura della voluntas intesa come amore che muove se stesso (cfr. De diversis quaestionibus octoginta tribus, q. 8), come «animi motus, cogente nullo, ad aliquid vel non admittendum, vel adipiscendum» (De duabus animabus contra Manichaeos, X, 13), e come liberum arbitrium capace di scelta tra il bene e il male. In tal modo Agostino è in grado di rispondere al necessitarismo della concatenazione delle cause efficienti (cfr. Cicerone, De fato, capp. 10 ss.). L’esistenza del moto interiore della voluntas significa che l’ordine delle cause non si limita a quelle fisico-naturali, ma si estende anche 6401

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Libertà alle «cause volontarie» proprie di Dio, degli angeli e anche dell’uomo, che sono le cause efficienti delle azioni libere; e questo è l’ordine causale principale, perché al principio sta, come causa efficiente di ogni cosa, una causa volontaria, la libera disposizione di Dio (cfr. De civ. D., V, 9, 4). La polemica pelagiana sul rapporto tra libertà umana e grazia divina condiziona il secondo momento del pensiero di Agostino sulla libertà, provocandone un approfondimento quanto al potere effettivo della libera volontà. Pareva ai pelagiani che riconoscere che dopo la caduta, senza l’intervento della grazia, l’uomo non fosse più in grado di volere il bene, ne diminuisse la dignità e la responsabilità. Di fronte al naturalismo pelagiano Agostino accentua, fino a estremizzare, il peso del condizionamento del peccato originale sulla libertà, il cui potere effettivo d’adesione al bene egli vede drasticamente ridotto. Il libero arbitrio non è tolto dal peccato, ma è ormai impotente a realizzare da se stesso la vera libertà. Il libero arbitrio è per la sua finitezza creaturale aperto al bene e al male, è solo «bonum medium», è «libertas minor» rispetto alla «libertas maior» costituita dalla voluntas che si unisce amorosamente al bene. La libertà è posta perciò nel dramma di raggiungere, attraverso l’esercizio della libertas minor dell’arbitrio, la libertas maior della volontà buona. Ma tale realizzazione, a causa della ferita del peccato originale, non le è possibile senza l’aiuto che le viene dalla grazia divina. In Adamo la libertà si trovava nella condizione di «poter non peccare», dopo la caduta dei progenitori, viene a trovarsi nella condizione attuale di «non poter non peccare», mentre solo nella condizione di libertà salvata dalla grazia essa sarà nella condizione di «non poter peccare». Nella sua condizione storica, dunque, il libero arbitrio, benché «congenitum et omnino inamissibile», è impotente da solo a realizzare la piena libertà (cfr. Contra Iulianum opus imperfectum, VI, 11). Alla radicalizzazione agostiniana del male corrisponde l’efficacia esclusiva della grazia, che ha il potere di ricondurre l’uomo a Dio; la grazia ha il primato sulla libertà: la volontà «non consegue la grazia con la libertà, ma piuttosto la libertà con la grazia» (De correptione et gratia, 8, 17). L’insegnamento agostiniano conclude dunque con l’apertura del formidabile problema metafisico e teologico della relazione tra la li6402

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bertà della persona umana e quella della persona divina. Sul piano antropologico Agostino acquisisce l’idea della libertà come articolazione della volontà libera, quale capacità automotivantesi d’amore al bene, chiamata a realizzarsi come amore vero, e del libero arbitrio, quale capacità di scelta e principio della vicenda storico-esistenziale della volontà. Una libertà, dunque, irriducibile alla mera capacità dei contrari e quindi indefinibile come «boni malique possibilitas» (come sostenevano invece i pelagiani, cfr. Contra Iulianum...); ma, nello stesso tempo, non plotinianamente evasiva dalla storia, bensì impegnata a realizzarsi in essa. Infine una libertà segnata dalla debolezza, ma che nel suo dramma ha nella grazia il dono della relazione con un’altra libertà o con la libertà altra, quella divina. In tal modo la problematica teologica della grazia non prospetta l’intrusione di un elemento estrinseco nella vita della libertà, bensì la apre dall’interno alla prospettiva di una sua strutturale relazionalità. 3. Libero arbitrio e razionalità del volere prima della scolastica: Boezio, Anselmo, Bernardo. – Se tipico della posizione agostiniana è collocare il libero arbitrio nella volontà, Severino Boezio rappresenta la tendenza, che avrà anch’essa sviluppo nella filosofia medievale, a ricondurre il libero arbitrio piuttosto alla ragione. Boezio affronta la questione nel contesto teologico della relazione tra libertà umana e prescienza divina. Al problema aveva prestato attenzione già Agostino in vari luoghi. Nel De libero arbitrio Agostino mostra che la libertà non è in contrasto con la prescienza che Dio ha delle nostre azioni. La difficoltà di tale questione sta nel fatto che l’infallibile prescienza divina sembra rendere impossibile il non verificarsi di ciò che egli prevede. La soluzione proposta da Agostino consiste nel chiarire che Dio preconosce le azioni proprio come saranno compiute, cioè liberamente: «Dio, senza costringere nessuno al peccato, prevede tuttavia in precedenza coloro che di propria volontà peccheranno» (De lib. arb., III, 4, 10). Boezio si muove in questa linea, argomentando più tecnicamente che la necessità che è implicata nella previsone di Dio non è una necessità assoluta (simplex), ma solo condizionale (condicionis), è cioè quella necessità che è insita nel fatto stesso che un evento accada, in quanto accadendo è necessario che accada. La prescienza di Dio, dunque, non fa accadere necessaria-

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mente le cose, ma ha presente ciò che accade con il grado di necessità che è loro propria (cfr. De consolatione philosophiae, V, prosa 6). È rilevante in questa trattazione lo stabilimento da parte di Boezio del nesso tra libertà e ragione che egli fa valere: non è possibile non rivendicare la libertà degli agenti, se questi sono razionali, perché non si dà rationalis natura senza libertas arbitrii. Come Agostino, anche Boezio distingue due livelli della libertà come liberum arbitrium, costitutivo e inamissibile da parte dell’uomo, e come libertas, realizzazione diversamente graduata della libertà morale e spirituale. Caratteristico di Boezio è però affermare una triplice componente della libertà considerata per intero: iudicium, voluntas, potestas. Il giudizio si aggiunge così al modello agostiniano, come elemento essenziale dello statuto della libertà. Boezio si riferisce all’Aristotele allora conosciuto per sostenere la coimplicazione di volontà e giudizio nella libertà. Nel suo commento al De interpretatione egli accentua la funzione del giudizio, che valuta i contenuti della volontà, come essenziale all’esercizio del libero arbitrio come scelta: «Ipsa voluntas ex nobis est et secundum animalis naturam. Nos autem liberum voluntatis arbitrium non id dicimus quod quisque voluerit, sed quod quisque judicio et examinatione collegerit. Alioquin multa quoque animalia habebunt liberum voluntatis arbitrium. [...] Ideo non in voluntate, sed in judicatione voluntatis liberum constat arbitrium». La libertà della volontà è dunque fondata sul giudizio della ragione nei confronti delle tendenze naturali; è il giudizio che rende libero l’arbitrio: «Liberum nobis de voluntate iudicium» (In librum Aristotelis de Interpretatione, editio secunda, in J.-P. Migne [a cura di], Patrologiae Cursus Completus, vol. LXIV, Parisiis 1891, l. III, coll. 492-493). In Anselmo d’Aosta la tradizione agostiniana e boeziana è creativamente ripresa, in un tentativo d’argomentazione speculativa, che lascerà un segno indelebile, in cui la riflessione sulla libertà guadagna spazi d’autonomia metodologica dal teologico. Significativamente il tema del libero arbitrio e quelli della grazia, della prescienza divina e della predestinazione sono trattati in due opere distinte e distanti nel tempo, come il De libertate arbitrii (1080-85) e il De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio (1107-08). La libertà umana diventa oggetto di una riflessione

Libertà antropologica, morale e metafisica metodologicamente autosufficiente rispetto alle questioni di fede in essa implicate, senza contraddire l’ultima funzionalità teologica del discorso, anzi potendo offrire così un più robusto contributo, secondo uno stile che già introduce al pensiero scolastico. Centrale per l’analisi anselmiana della libertà è il concetto di rectitudo, elaborato in sede gnoseologica dove il termine è attribuito alla veritas: questa è «una rettitudine che si può percepire solo con lo spirito» (De veritate, XII, tr. it. di S. Vanni Rovighi, La verità, in Opere filosofiche, Bari 1969, p. 177). Retto è ciò che è come deve essere e quindi ogni cosa (pensiero, linguaggio, volontà, agire) ha la propria rettitudine. Veritas e rectitudo sono perciò strettamente connesse a iustitia, la rettitudine della voluntas, che è retta quando vuole ciò che deve volere e giusta quando conserva la sua rettitudine per se stessa. Nella rettitudine apprezzata per se stessa sta il principio costitutivo del libero arbitrio. Afferma, infatti, Anselmo, in una definizione che resterà come autorevole riferimento in tutta la restante età medievale, che «poiché ogni libertà è potere (potestas), la libertà di arbitrio (libertas arbitrii) è il potere di serbare la rettitudine della volontà per la rettitudine stessa» (De libertate arbitrii, III). La definizione include due termini essenziali alla comprensione del gioco interno della libertà, la potestas servandi rectitudinem e la rectitudo. La loro articolazione permette di pensare la libertà nel suo concreto esercizio. La potestas, infatti, costituisce il nucleo originario, intrinseco alla natura umana e inestirpabile, del libero arbitrio, che non viene intaccato neppure quando, con il peccato, la rectitudo viene persa, e con essa la giustizia della volontà stessa. Il potere di serbare la rettitudine della volontà è congenito alla natura razionale, ma quando la volontà si allontana dalla sua rettitudine, è essa stessa che pecca, in virtù della sua stessa libertà, benché non in virtù di ciò per cui essa è libera (cfr. De libertate arbitrii, II; De concordia, I, 6). Questa situazione, apparentemente contraddittoria della libertà, è chiarita dalla distinzione tra «strumento» e «uso» della libertà. Allo stesso modo – afferma Anselmo – in cui abbiamo la vista come strumento, per vedere, anche quando attualmente non vediamo, mentre abbiamo la vista come «atto» solo nel momento in cui vediamo, così «la volontà come strumento per volere c’è sempre 6403

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Libertà nell’anima», «mentre la volontà come uso e attività dello strumento non c’è se non quando vogliamo qualcosa». Lo «strumento» è la potestas, la capacità del volere che non va mai persa, anche quando l’«uso», il suo esercizio, non essendo secondo rettitudine, è negativo. Vi sono dunque «due volontà», cioè due livelli dell’unica volontà, che spiegano come il peccato sia una possibilità della libertà che non la definisce ontologicamente, benché la qualifichi diversamente dal punto di vista morale (cfr. De libertate arbitrii, VII, tr. it. di S. Vanni Rovighi, in Opere filosofiche, cit., pp. 201-203). Mentre la definizione della libertà come potestas peccandi et non peccandi, d’origine pelagiana (benché Pelagio e Giuliano parlassero piuttosto di possibilitas), non è attribuibile a Dio e annienta l’intrinseca relazione della voluntas umana al bene, la distinzione proposta da Anselmo ha, invece, lo scopo di chiarire il costitutivo della libertà del libero arbitrio, senza confonderlo con il suo modo d’essere concreto. Così l’identica essenza, la potestas servandi (che è, diversamente, di Dio e della creatura), ha differenti condizioni di esercizio secondo il suo rapporto con la rectitudo (inseparabile in Dio, separabile nella creatura; recuperabile con la grazia, irrecuperabile senza grazia; cfr. De libertate arbitrii, XIV). Con la dottrina dell’essenza inammissibile e intangibile del libero arbitrio Anselmo accentua, rispetto ad Agostino, la natura sempre attiva della libertà, anche nella sua condizione di peccato; benché non contraddica in nulla l’indispensabilità della grazia per recuperare la sua rettitudine e la pienezza del suo esercizio. Come, infatti, la volontà non avrebbe potuto inizialmente avere la rettitudine, se Dio non gliela avesse donata, così una volta abbandonatala colpevolmente, può riacquistarla solo se Dio gliela ridona. Tuttavia, è sempre in suo potere serbare la rettitudine che ha ed è solo da sé che può privarsene; mentre della sua libertà non può essere privata né da sé, né da altri (cfr. ibi, VIII, XI). L’idea dell’intangibilità del libero arbitrio regola anche i rapporti con la prescienza divina. Questa, di principio, non può essere pensata come una minaccia per la libertà umana, dal momento che Dio non potrebbe toglierci il libero arbitrio se non contraddicendosi, poiché smentirebbe con ciò la sua stessa volontà: se la pienezza della libertà è la volontà retta («nihil liberius recta voluntate», ibi, IX) e la volontà retta segue il volere divino, Dio che ci to6404

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gliesse la libertà andrebbe contro la sua stessa volontà. Che l’essere conosciuti infallibilmente da Dio non comporti necessità ontologica, lo si può comprendere attraverso la distinzione (che richiama quella boeziana di necessitas simplex e necessitas condicionis) tra «necessità precedente» e «necessità conseguente», cioè tra la necessità ontologica e quella logica. La conoscenza infallibile delle cose future che ha Dio non rende necessario il loro essere, ma ne riconosce solo la necessità che esse hanno in quanto sono quello che sono; non può essere, infatti, che quello che accade non sia e non sia quello che è. Così, «sebbene [Dio] preveda tutto ciò che sarà, egli non prevede tutto ciò che sarà come necessario, ma prevede che alcuni eventi saranno per una libera volontà della creatura razionale» (De concordia, I, 3, tr. it. di S. Vanni Rovighi, in Opere filosofiche, cit., p. 270). Un altro grande spirituale ha segnato la storia della riflessione medievale sulla libertà con un’opera, che recuperando il patrimonio di Agostino, Boezio, Anselmo, ne fa una sintesi influente. Con il suo De gratia et libero arbitrio Bernardo di Clairvaux riprende la problematica agostiniana, inserendovi una sensibilità anselmiana, nel senso che recuperando il plesso di volontà, libero arbitrio e grazia, è attento a sottolineare in esso, contro un certo estremismo agostiniano, l’intervento dell’attività umana: se è la grazia che ci libera, sta però al libero arbitrio accoglierla. Il consensus diventa così figura centrale della dottrina della libertà, come elemento costitutivo del libero arbitrio: «Ubi consensus, ibi voluntas [...], ubi voluntas, ibi libertas. Et hoc est liberum arbitrium» (De gratia et libero arbitrio, I, 2). Ancora una volta il libero arbitrio viene definito non come capacità di scelta tra il bene e il male, ma come ciò che rende libera la scelta. Nel consenso Bernardo concentra il problema del rapporto tra ragione e volontà. Pur con orientamento prevalentemente agostiniano, egli vede nel consenso un intreccio nuovo di libertà della volontà e di giudizio della ragione: la libertà è della volontà, ma essa opera con il sostegno della ragione; il consensus è «liber sui propter voluntatem» e «iudex sui propter rationem», esso è liber in forza della volontà e arbitrium in forza della ragione. In tal modo Bernardo pone con vigore il problema di un rapporto fondamentale, senza peraltro definire i criteri della gerarchia tra i due termini.

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Anche Bernardo come Agostino insiste sulla condizione concreta della libertà, bisognosa della grazia per essere ristabilita nella sua interezza e per raggiungere la sua perfezione. Ma con minor intransigenza sottolinea non l’irresistibilità della grazia, ma la sinergia tra grazia e libero arbitrio, non però come contributi separati e convergenti (come si dirà nel molinismo del XVII secolo), ma come unica operazione condivisa: tutto il bene è compiuto dalla grazia e tutto è accolto nel libero arbitrio, «totum in illo totum ex illa» (ibi, XIV, 47). 4. Tommaso d’Aquino. – La riflessione di Tommaso d’Aquino sulla libertà suppone la nuova acquisizione della filosofia aristotelica e, in particolare, della sua psicologia della scelta, la cui ricezione muta in profondità il quadro del dibattito filosofico e teologico. Quanto alla problematica speculativa della libertà, Aristotele rafforza con la sua dottrina teleologica l’idea della finalità del bene e suggerisce l’approfondimento del rapporto tra il volontario e il noetico nella teoria dell’azione. In Tommaso la riflessione sulla libertà è sostenuta da un approfondimento inedito della natura dell’intelligenza e della volontà e del loro rapporto. La distinzione delle facoltà conoscitiva e appetitiva si accompagna, infatti, all’affermazione della loro unità sinergica sulla base della comune natura spirituale. Non solo la voluntas è appetitus rationalis, cioè tendenza specificata dagli oggetti presentati dalla conoscenza intellettuale, ma le due potenze stesse sono nel loro esercizio compresenti e influenti l’una sull’altra. Nella Quaestio de Veritate Tommaso afferma l’immanenza riflessiva delle due potentiae, per cui «tanto la volontà quanto l’intelletto riflettono entrambi su se stessi e l’uno sull’altra e anche sull’essenza dell’anima e su tutte le sue potenze», così che c’è tra esse una «quaedam similitudo motus circularis», secondo cui si determinano reciprocamente (come causa finale da parte dell’intelletto, come causa efficiente da parte della volontà), dando luogo alla composizione unitaria dell’agire e dell’esperienza (Quaestiones disputatae de Veritate, q. 22, art. 12 c e ad 1um, tr. it. di F. Fiorentino, Sulla verità, Milano 2005, p. 1499). La riflessività delle facoltà su se stesse e tra loro diventa così la condizione antropologica dell’essere libero, così come, a livello epistemologico, la libertà è fondata sulla loro apertura alla dimensione trascendentale del bene.

Libertà La libertà è presentata anzitutto, da Tommaso, con riferimento al boeziano «liberum de voluntate iudicium», come autonomia del iudicium electionis, in forza della quale la volontà muove se stessa: infatti lo «iudicium est in potestate iudicantis», perché la ratio «super actum suum reflectitur»; in tal modo la libertà risulta fondata sulla ragione: «Totius libertatis radix est in ratione costituta» (Quaestiones disputatae de Veritate, q. 24, art. 2; analogamente in Summa contra Gentiles, II, 48). Nella Summa theologiae, dove più ampia è la teoria delle facoltà, risulta con chiarezza il doppio radicamento della libertà nell’intelligenza e nella volontà, mentre è escluso che la libertà, diversamente da quanto sostenuto anche da Bonaventura, sia una facoltà a se stante: «Radix libertatis est voluntas sicut subiectum; sed sicut causa, est ratio. Ex hoc enim voluntas libere potest ad diversa ferri, quia ratio potest habere diversas conceptiones boni» (Sum. theol., Ia-IIae, q. 17, art. 1 ad 2um). Con una distinzione, che è fondamentale anche per la trattazione della libertà in De malo (q. 6), Tommaso attribuisce alla ragione la specificatio dell’atto della volontà e alla volontà il suo exercitium: dal giudizio della ragione la scelta riceve il suo oggetto specificante e con esso il suo fine movente, mentre sta alla volontà il compimento dell’atto, la cui mozione avviene in forza della strutturale attrazione che il bene esercita sulla volontà. Di conseguenza, lo spazio della libertà è considerato da Tommaso «sia in ordine all’esercizio dell’atto, sia in ordine alla specificazione dell’atto, che dipende dall’oggetto» (De malo, q. 6, tr. it. di F. Fiorentino, Il male, Milano 1999, p. 629). Dal punto di vista della specificazione l’appetizione razionale è fondata nella necessaria attrazione da parte del bene, al quale la volontà non potrebbe non aderire qualora si manifestasse nella sua piena perfezione. Questa necessitazione da parte del bene perfetto è la condizione stessa della libertà di scelta, che a causa sua viene a trovarsi in rapporto ai beni finiti in una condizione di indeterminazione (ma non d’indifferenza, come sarà in Ockham) e dunque nella possibilità della comparazione e della elezione tra beni differenti. In ordine all’esercizio dell’atto, invece, la libertà consiste nel fatto che la volontà muove se stessa, in quanto principio motore di se stessa, come anche di tutte le altre facoltà; essa sola, dunque, ha il potere d’attuazione del suo atto 6405

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Libertà (avendo solo in Dio il primo motore, che comunque ne attua la potenzialità di creatura secondo la sua stessa natura di facoltà libera). La volontà è, dunque, dotata del potere d’autodeterminazione, che le impedisce di essere mossa con necessità da qualunque oggetto. Essa può sempre decidere di non volgersi a un oggetto di possibile scelta e non volerlo; anche il bene, in quanto si presenta a noi esseri finiti in modo finito (come contenuto di beatitudine), può volontariamente non essere considerato (cfr. Sum. theol., Ia-IIae, q. 10, artt. 2, 4; De malo, q. 6 c e ad 7um). Quanto alla teoria della scelta si può dire, dunque, che Tommaso non sia né volontarista, né intellettualista. Riprendendo la concezione aristotelica della scelta e talune suggestioni di Nemesio di Emesa e di Giovanni Damasceno, Tommaso pensa gli atti costituenti il processo che conduce alla sintesi dell’azione libera (p. es. l’intentio o tensione al fine, il consilium o deliberazione, la electio o scelta; cfr. Sum. theol., Ia-IIae, qq. 12, 13, 14), come risultanti dal costante intreccio della facoltà intellettuale e di quella appetitiva. Questa prospettazione unitaria del processo elettivo non evita il problema del passaggio tra la deliberazione e la scelta, se cioè l’opera conclusiva del volere sia in ultima istanza esecutiva di ciò che la deliberazione ha stabilito (il «giudizio ultimo pratico» o «pratico pratico») oppure se la libertà della volontà consista in un’ultima indipendenza rispetto al giudizio razionale (come ritenevano i teorici francescani); prospettandosi, in un caso, una dipendenza necessitante la volontà e, nell’altro, una decisione senza ragione. In Tommaso vi è sia la soluzione esecutiva (ibi, Ia-IIae, q. 13, art. 3), sia l’idea dell’influenza della volontà sulla deliberazione stessa, per cui il motivo deliberato, da cui la volontà si fa determinare, sarebbe già sotto l’influsso della volontà (cfr. ibi, I, q. 19, art. 3; Ia-IIae, q. 13, art. 6). In ogni caso, la libertà umana per Tommaso è essenzialmente orientata al bene come tale, che dà alla volontà umana sia di essere libera nei confronti dei beni finiti, sia di essere capace di radicale autoriflessione (in quanto natura spirituale ordinata all’essere, al vero e al bene) e dunque di disporre in linea di principio del suo atto, sia di non essere indifferente tra bene e male, perché scegliere tra diverse cose secondo l’ordine del fine «pertinet ad perfectionem libertatis», mentre scegliere derogan6406

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do da tale ordine «pertinet ad defectum libertatis»; vi è dunque (con Agostino) maggiore libertà nel non poter peccare (ibi, I, q. 62, art. 8 ad 3um; cfr. In II Sent., distinctio 25, q. 1, art. 1). In sintesi, la libertà della volontà va considerata in tre modi: «In rapporto all’atto (quantum ad actum), in quanto può volere e non volere; in rapporto all’oggetto (quantum ad obiectum), in quanto può volere questa o quella cosa e anche il suo opposto; e in rapporto all’ordine al fine (quantum ad ordinem finis), in quanto può volere il bene o il male» (Quaestiones disputatae de Veritate, q. 22, art. 6 c, tr. it. di F. Fiorentino, Sulla verità, Milano 2005, p. 1469). 5. L’orientamento «volontarista». – Nella scuola francescana coeva e successiva a Tommaso d’Aquino va accentuandosi l’attenzione all’indipendenza decisionale della volontà. Nel timore che la specificazione razionale della volontà e il legame della volontà con i suoi stessi motivi abbiano un potere causale deterministico nei confronti della volontà stessa, sembra che la libertà sia veramente garantita solo riconoscendone la trascendenza rispetto all’intelletto e, poi, anche l’indifferenza rispetto ai suoi stessi motivi. In Bonaventura da Bagnoregio il quadro di riferimento antropologico resta tradizionale. In un tentativo di sintesi di Anselmo e di Bernardo, egli concepisce il libero arbitrio distribuito su tre livelli: l’assenza di coazione («a coatione immunitas»), la dignità spirituale della non costrizione («excellentiae dignitas»), il potere di conservare la rettitudine («potestas sive facultas») (cfr. In II Sententiarum, distinctio 25, pars 2, art. unicus, q. 1 c), che sono attuati dall’uso positivo della libertà nell’equilibrata collaborazione di ragione e volontà; volontà, che riceve dalla ragione di non essere tendenza cieca, e ragione, che riceve dalla volontà la capacità di dominio sulle azioni (cfr. ibi, distinctio 25, pars 1, art. unicus, q. 5 c). Bonaventura però non recepisce la definizione della libertà come liberum de voluntate iudicium, perché, a suo avviso, non è la ragione l’elemento formale del libero arbitrio (ibi, distinctio 25, pars 1, dubium 1), ma il comando autonomo della volontà. Ma la sua concezione della volontà è quella di una potenza attiva, che, diversamente da quanto si ravvisa in Tommaso d’Aquino, è capace come tale di esercitare il dominium, non in forza di ciò che riceve dalla ragione. Il libero arbitrio è un originario potere di autodeterminazione, in cui l’anima esprime se stessa

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nella condizione concreta del suo essere incarnata. Il fondamento del libero arbitrio è anche per Bonaventura l’apertura della volontà al bene infinito, ma tale apertura non dipende dalla conoscenza intellettuale, bensì è intrinseca alla volontà stessa. Nel suo concreto esercizio la volontà richiede la conoscenza dei beni finiti, ma l’ampiezza trascendentale del volere è la sua dotazione originale; la volontà infatti «nata est omnia appetibilia appetere», sicché si deve dire che il libero arbitrio consiste principaliter nella volontà, ove si realizza compiutamente, benché abbia nella ragione il suo inizio: «Liberum arbitrium inchoatur in ratione et consummatur in voluntate; ideo libertas arbitrii principaliter consistit in voluntate» (ibi, distinctio 25, pars I, art. unicus, q. 6). Sulla definizione dei rapporti tra ragione e volontà si delinea alla fine del XIII secolo un dibattito tra «intellettualisti» come Goffredo di Fontaines e Tommaso di Sutton e «volontaristi» come Enrico di Gand, che divergono non sul riconoscimento di una certa dipendenza della volontà dalla ragione, ma sulla soluzione del problema già notato a proposito di Tommaso, cioè sulla causalità intellettuale della volizione ovvero sulla misura dell’indipendenza della volontà dalle conclusioni pratiche della ragione. Secondo Enrico di Gand il principio esplicativo del divenire («omne quod movetur ab alio movetur»), valido per i corpi e le sostanze materiali, non è applicabile alle sostanze spirituali; la volontà, infatti, in quanto spirituale ha in se stessa la causa del suo agire, ha in sé la forza per produrre le sue volizioni e, dunque, nulla può necessitarla: «Nulla s’imprime sulla potenza volitiva in modo da darle forma e da muoverla» (Quodlibet I, q. 17). Il pieno sviluppo della concezione della volontà come potenza attiva è opera di Pier di Giovanni Olivi. Secondo Olivi non si dà dimostrazione della libertà, ma indizi rilevanti entro l’esperienza, quale il potere della volontà di muovere ogni altra potenza e di amare un bene infinito trascendendo atti e oggetti limitati; quale la capacità di «sentimenti spirituali», come amicizia e inimicizia, gratitudine e ingratitudine, misericordia e orgoglio, che mostrano la responsabilità dell’agire umano. La volontà dunque opera «non quasi ab alio applicata et mota, sed potius ipsa se ipsam applicat ad opus»; essa appare essenzialmente dotata della potestas sui propri atti e del potere di scelta (In II Sententiarum, q. 57, ad 17um). Il li-

Libertà bero arbitrio consiste dunque in tale potere, in cui non è in gioco la ragione e che, quindi, non è vincolato da nessun oggetto, neppure dal bene infinito. Olivi non nega il rapporto tra le facoltà, ma che la volizione sia totalmente dipendente dalla deliberazione, secondo la lettura che egli dà di Tommaso, e che anche per la volontà, come afferma effettivamente Tommaso (Sum. theol., Ia-IIae, q. 9, art. 4), valga il principio «omne quod movetur ab alio movetur» (Olivi, In II Sententiarum, q. 57, ad 1um). Le tesi di Olivi influenzano in profondità la riflessione di Giovanni Duns Scoto, che ne riprende e ne argomenta ulteriormente le posizioni. Secondo Scoto la libertà va concepita come l’opposto di ogni movimento naturale, tra cui è da annoverare anche quello dell’intelletto. Diversamente da ogni moto naturale, infatti, la volontà è in grado di autodeterminarsi e non è determinata ad unum, ma è capace di più effetti. Certamente anche per Scoto la libertà è fondata in Dio, che fa essere la libertà umana, ma considerata in se stessa la volontà finita è assolutamente libera, essendo la sua libertà a elevarla di là di tutte le altre forme di tendenza. Di conseguenza, è da escludere del tutto la tesi secondo cui l’intelletto conoscitivo sia causa totale o parziale dell’atto della volontà libera. Per il «volontarismo» scotistico, la volontà è libera, in quanto il suo assenso non dipende dai motivi della ragione: non una qualche bontà dell’oggetto causa necessariamente l’assenso della volontà, ma questa assente liberamente a qualsiasi bene (In I Sententiarum, distinctio I, q. 4, a. 16: «Utrum fine apprehenso per intellectum necessario voluntas eo fruat»). Secondo la sua natura propria la volontà è voler volere, così che per essa non vi è in ogni caso assenza di attività, essendo anche l’assenza di volizione a suo modo un atto positivo di volontà: «Nihil aliud a voluntate est causa totalis volitionis in voluntate» (Additio magna, in C. Balic [a cura di], Les Commentaires de Jean Duns Scot, Louvain 1929, p. 299). Neppure l’atto beatificante, che per Scoto è atto della volontà, può essere reso necessario dalla conoscenza di visione del bene perfetto: di fronte al fine ultimo la volontà non ha libertà di scelta, ma conserva sempre la libertà radicale di rifiutarsi di volere (non velle). Al sommo bene tende necessariamente la voluntas naturalis, o desiderio, che appartiene appunto alla necessità della natura, ma non la voluntas libera, in cui si trova propriamente la libertà. 6407

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Libertà Contro Tommaso, secondo cui la volontà è determinata, in relazione al sommo bene, dalla necessitas finis, Scoto afferma che ciò vale per la volontà ut natura, ma non per la volontà ut libera. In questo senso, egli ripete spesso la tesi di Agostino, nel De libero arbitrio, che «nulla è tanto in potere della volontà quanto la volontà stessa», ma attribuendo una capacità di spontaneità e di autodeterminazione alla volontà libera che va ben oltre il semplice libero arbitrio, ma prefigura piuttosto significati che troveranno piena esplicazione solo in alcuni tratti del pensiero moderno. Ma è Guglielmo di Ockham che, radicalizzando la concezione di Duns Scoto intorno alla libertà come autodeterminazione della volontà, sviluppa le tesi del volontarismo, portandole a un punto di rottura con la tradizione. Anche per Ockham la libertà coincide con la volontà, che è una potenza attiva, opposta all’inclinazione naturale, perché caratterizzata dal potere d’autodeterminazione a opposti effetti. La novità di Ockham consiste nel porre quale condizione per l’assoluta indipendenza della libertà la trasformazione dell’indeterminazione della volontà in indifferenza nei confronti dei motivi. La libertà diventa così la potenza di produrre indifferentemente effetti differenti, così che essa possa causare o non causare un effetto senza cambiamento esterno alla potenza stessa (cfr. Quodlibet I, q. 16). La libertà «est quaedam indifferentia et contingentia» (In I Sententiarum, distinctio 1, q. 6). La volontà libera è perciò un principio causale da nulla preceduto, radicalmente contingente, sul piano ontologico (per essa non vale il principio dell’«omne quod movetur») e sul piano psicologico (essa è indifferente a ogni motivo). Ockham interpreta la definizione ormai classica della libertà di Pier Lombardo, «liberum arbitrium est facultas rationis et voluntatis», facendo propria una spiegazione ricordata già da Bonaventura, secondo cui la libertà non procederebbe dalla ragione e dalla volontà, secondo la concezione tomista, ma li precederebbe come motivo dei loro atti. In questa prospettiva l’atto libero scaturisce all’istante, come decisione la cui unica causa è il potere di autodeterminazione della volontà a prescindere da ogni connessione con l’agire passato e con quello futuro, che costituirebbe un legame limitativo la sua assoluta contingenza. In questo contesto il finalismo perde rilevanza. Ockham non ritiene che la volontà 6408

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tenda naturalmente al bene infinito, non essendoci argomenti apodittici per provare l’esistenza di tale bene e non essendo il finalismo dell’universo filosoficamente dimostrabile. Così, mentre per Tommaso l’inclinazione al bene è il presupposto ontologico e il fondamento epistemologico della libertà, per Ockham la libertà si afferma al di fuori dell’ordine dell’inclinazione alla felicità, perché la sua libertà implica come presupposto l’indifferenza rispetto al bene sommo e alla felicità: nell’attuale condizione umana «voluntas [...] potest nolle finem ultimum sive ostendatur in generali sive in particolari». Anche se l’intelletto propone il fine ultimo, «voluntas tamquam potentia libera est receptiva nolle et velle respectu cuiuscumque objecti, igitur si potest in velle respectu Dei, eadem ratione potest in nolle respectu Dei [...]» (In IV Sententiarum, q. 16). Il senso più profondo della libertà umana, per il venerabilis inceptor, non consiste quindi nel solo potere di scelta tra due contrari, ma soprattutto nella radicale capacità di autodeterminazione che le consente di volere o non volere qualsiasi cosa, compreso il sommo bene. In questo senso la concezione di Ockham, che identifica libertà e contingenza, segna l’esito estremo di un percorso che, iniziato con la scoperta agostiniana del liberum arbitrium, giunge all’interpretazione della sua autodeterminazione come autonomia rispetto al bene stesso. Il volontarismo estremo di Ockham e dei suoi discepoli oxoniensi trova un’immediata e dura opposizione in Thomas Bradwardine, in termini che però denunciano nel fervore delle polemiche la perdita irrimediabile di un equilibrio speculativo. Nel De causa Dei contra Pelagium et de virtute causarum Bradwardine ritiene di fronteggiare il volontarismo e la dottrina dell’indifferenza affermando una concezione dell’«onnicausalità» di Dio, che rischia di configurare un sostanziale determinismo metafisico. Dio è causa diretta e sorgente istantanea e contingente d’ogni movimento e poiché nulla è fuori della sua volontà, la libertà umana è libera solo nella misura che le è concesso dalla volontà divina. In concreto, la non necessitazione umana è limitata al rapporto della volontà con le cose o con le realtà ad essa inferiori, perché è secondo l’ordine naturale che il materiale e irrazionale sia subordinato all’immateriale e razionale. In definitiva, in rapporto a Dio, la creatura razionale non può fare nulla

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in proprio, perché è Dio la causa produttrice delle sue volizioni. Di conseguenza, quella che i volontaristi realizzano con la loro concezione della volontà autodeterminantesi deve essere considerata una nuova forma di pelagianesimo (cfr. De causa Dei..., l. II, capp. XXIX e XXX). La dottrina di Bradwardine ebbe diretta influenza sul riformatore religioso John Wyclif e indirettamente sui riformatori boemi Jan Hus e Girolamo da Praga. III. FILOSOFIA MODERNA. – La riflessione medievale sulla libertà nasce con i Padri e con Agostino in particolare come interrogativo sul significato antropologico della grazia soprannaturale e del suo rapporto con il peccato dell’uomo. La libertà coincide in questo quadro teologico con la capacità dell’uomo di scegliere il vero bene. La successiva dottrina si concentra specialmente sulla condizione di possibilità del libero arbitrio, il cui approfondimento giunge a porre la questione radicale del potere di autodeterminazione o, meglio, di automozione della volontà. A questo punto però la svolta del volontarismo mette in discussione la struttura fondamentale del dibattito medievale, facendolo fuoriuscire dal quadro della relazione teologico-metafisica tradizionale. L’aporetica situazione cui conclude il dibattito del basso Medioevo costituisce un’obiettiva premessa alla negazione protestante della libertà e alla rielaborazione del problema della libertà nel contesto del nuovo sapere scientifico moderno. 1. La libertà dei moderni: dispute teologiche e dispute scientifiche. – Le dispute teologiche sulla libertà umana e la grazia divina si prolungarono oltre la scolastica medievale in conseguenza dell’attacco del protestantesimo contro il libero arbitrio. L’umanesimo era, nel complesso, un’esaltazione della libertà dell’uomo artefice del suo destino e dominatore del mondo. La tradizione astrologica tendeva bensì a ridurre e, talora, a sopprimere tale libertà, ma, appunto per questo, veniva ripudiata da molti umanisti, come Pico della Mirandola. Lo scontro tra la mentalità umanistica e quella protestante intorno alla natura e alla possibilità del libero arbitrio ha il suo episodio culminante nella polemica tra Lutero ed Erasmo. Nel De libertate christiana (1520), Lutero contrappone l’uomo carnale, «omnium servus, omnibus subiectus», all’uomo spirituale «omnium dominus liberissimus». L’uomo spirituale è per lui l’uomo rigenerato dalla grazia divina, a cui rimane indifferente «qualsiasi opera

Libertà carnale o per mezzo della carne: ben altro occorre per dare all’anima giustizia e libertà» (Werke, Weimar 1883 ss., vol. VI, p. 51). Solo la fede gratuitamente donata può produrre opere che siano frutto della libertà e servizi liberamente prestati al prossimo («opus servitutis liberrimae, qua alteri sponte servit», ibi, vol. VI, p. 64). Erasmo non può raccogliere il messaggio di una libertà siffatta, che scinde violentemente l’uomo in due parti, e fa sorgere l’uomo nuovo per una grazia divina intesa non più come restaurazione di un ordine naturale ferito ma ancora orientato al bene, ma come salvezza di un uomo totalmente corrotto e quindi radicalmente schiavo. Partendo dalla luterana Assertio omnium articulorum del 1520 (in Werke, cit., vol. VI, pp. 11 ss.), Erasmo oppone a Lutero che nessuno, all’infuori di Mani e di Wyclif, ha privato totalmente l’uomo naturale della libertà. Dopo il peccato, l’uomo non ha più una libertà perfetta, ma ha ancora una libertà relativa, che gli permette di acquistare, non un meritum de condigno, ma almeno un meritum de congruo, per usare un’espressione scolastica. Per conciliare tale libertà relativa con la grazia, Erasmo distingue (con Agostino) tre specie di grazie: la prima data con la creazione, e indebolita, ma non del tutto estinta, col peccato; la seconda, che aiuta l’uomo a risollevarsi; la terza, che toglie definitivamente il peccato; di queste, la seconda richiede il concorso dell’iniziativa umana. Nella visione di Erasmo, nella condizione storica postlapsaria dell’umanità, tre sono i momenti dell’azione, l’inizio, lo sviluppo e il compimento. La grazia dà «il primo impulso che viene a eccitare l’anima» e dà compimento perfettivo all’azione; il momento intermedio dello «sviluppo» è affidato invece alla volontà libera; così «la grazia è la causa principale, la volontà è la causa secondaria», ma impotente senza la grazia, che è invece «autosufficiente» (cfr. De libero arbitrio diatribé sive collatio, parte IV, §§ 8-10). Dottrina chiaramente insufficiente, in cui grazia e libertà si sommano, ma non si compenetrano, che Lutero non potrà accettare. La difesa erasmiana della libertà, più che da interessi genuinamente teologici, era dettata infatti da un rispetto umanistico per la dignità dell’uomo come tale. La risposta di Lutero (De servo arbitrio, Wittembergae 1525) è tutta duramente protesa a dimostrare esegeticamente l’assoluta necessitazione della volontà umana da 6409

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Libertà parte della grazia divina, fino all’estrema conseguenza dell’imperscrutabile predestinazione degli uomini a ricevere la misericordiosa grazia divina. Sulle orme di Lutero, anche Zwingli, Calvino e gli altri riformatori negarono la libertà del volere, pur non mancando difensori della libertà in ambito riformato, come gli arminiani. Per l’influsso dei temi della predestinazione e della grazia agitati dal protestantesimo, in ambito cattolico si ebbe una rinnovata e approfondita analisi della libertà. In che modo si accordino i due dogmi dell’efficacia della grazia divina che salva infallibilmente gli eletti e della libera corrispondenza di questi, è un problema centrale della famosa controversia fra banesianesimo e molinismo. Il domenicano Domingo Bañez ripropone un’interpretazione della tesi tomista della mozione divina della volontà umana, nella formula della «praemotio physica», secondo la quale la libertà non consiste nell’assenza di determinazione prima della scelta, bensì solo nell’assenza di costrizione nella scelta stessa (cfr. Commentaria in divum Thomam, Romae 1586). Al contrario, il gesuita Luis de Molina, in opposizione all’insegnamento riformato, propone una teoria indeterministica della libertà, una riformulazione della «libertas indifferentiae», secondo la quale è libero chi, «positis omnibus requisitis ad agendum, potest agere et non agere, aut ita agere unum ut contrarium etiam agere possit». A fondamento sta il rapporto metafisico della libertà divina e della libertà umana, il loro «concorso simultaneo» concepito come composizione di iniziative, il cui esito – secondo un modello assimilabile a quello fisico del parallelogrammo delle forze – è l’azione singola concreta (cfr. Liberi arbitrii concordia, Olyssipone 1588). Francisco Suárez, grande sistematizzatore del pensiero della seconda scolastica (cfr. Disputationes metaphysicae, Salamanca 1597), assume la posizione molinista sul tema della libertà (cfr. Disputatio XIX, sezione IV, in Disputationes metaphysicae, Hildesheim 1965, pp. 706-711), attribuendole la fondazione classicamente tomistica della «perfectio» e «amplitudo» della ragione quale principio di indeterminazione, interpretata come indifferenza e posta a sostegno di una «libertas formalis» della volontà. Un momento importante del dibattito teologico sulla libertà è costituito dall’intervento di Giansenio (C. Jansenius), che nel suo Augusti6410

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nus (Löwen 1640), divenuto presto celebre, porta un duro attacco contro il molinismo, accusato di porre in alternativa la libertà e l’adesione al bene e di fare della libertà il sinonimo della consapevolezza soggettiva piuttosto che la proprietà della volontà. D’altra parte Giansenio, nella sua polemica contro il formalismo della libertà, finisce per interpretare l’insegnamento di Agostino in un modo che inclina al determinismo. Egli, infatti, accentua la dottrina agostiniana della «delectatio victrix» che il bene esercita nei confronti della libertà, attribuendo quest’effetto alla grazia divina operante indipendentemente dall’iniziativa dell’uomo. In tal modo Giansenio introduce nel dibattito il modello del «motivo più forte» come teoria sulla libertà, che avrà un ruolo rilevante nelle dottrine del determinismo fisiologico e psicologico del XVII e del XVIII secolo. 2. La libertà dei moderni: razionalismo ed empirismo. – Mentre l’orizzonte teologico è ancora determinante nella discussione sulla libertà agli inizi dell’età moderna e, drammaticamente, nei dibattiti tra le confessioni cristiane e in quelli interni a ciascuna di esse, nella filosofia cartesiana e postcartesiana l’interesse per la questione della libertà muta in modo rilevante, benché non immediatamente evidente. La filosofia «nuova», infatti, si misura con la problematica scientifica, interrogandosi sulla compatibilità della libertà umana con l’inedita visione del mondo che quella comporta. La scienza infatti si interessa principalmente delle connessioni tra i fenomeni, cercando in essi la concatenazione intelligibile esplicativa; essa quindi pone in modo nuovo il problema della compatibilità della libertà con lo stato e il divenire causale del mondo. La filosofia della libertà di René Descartes, che ha il suo luogo principale nella IV delle Meditazioni metafisiche, testimonia il passaggio dall’orizzonte problematico teologico-filosofico a quello filosofico-scientifico. Come Agostino, Cartesio affronta il problema della verità come risposta al problema del negativo. Ma se per Agostino il male da considerare è quello morale, per Cartesio è l’errore gnoseologico. La questione fondamentale, per Cartesio, è la verità della conoscenza (e quindi anche della scienza), rispetto a cui la questione della libertà significa che all’errore l’uomo non è disposto da una facoltà innata e che, quindi, Dio non è responsabile dell’errore umano (Meditatio IV: De vero & falso, in Meditationes de Prima

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Philosophia, Paris 1641, tr. it. di A. Tilgher, Quarta Meditazione del vero e del falso, in Opere, Bari 1967, vol. I, p. 233). La libertà umana è dunque rilevante per la conoscenza e con essa strettamente implicata e Dio è posto a garanzia del plesso umano di conoscenza della verità e libertà. Se e come si dia compatibilità tra libertà divina e libertà umana è argomento su cui Cartesio oscilla, concludendo nei Principia philosophiae a una impossibile «comprensione» della cosa (Principia philosophiae, Amsterdam 1644, tr. it. di A. Tilgher, I principi della filosofia, in Opere, cit., vol. II, parte I, § 41, p. 46). La libertà non è oggetto di argomentazione, ma di introspezione da cui consta il possesso della «voluntas sive arbitrii libertas», oltre che il suo non essere circoscritta da limite. Questa è la sua peculiarità eccellente rispetto alla «facultas intelligendi», che in ogni sua espressione mostra invece d’essere limitata. La libertà (formalmente considerata) è perciò la ragione dell’immagine e della somiglianza dell’uomo con Dio. Essa consiste, in prima istanza, nel potere di fare o non fare identicamente, «idem vel facere vel non facere» (affermare o negare, perseguire o fuggire); ma, in seconda istanza, consiste nel fatto che «per affermare o negare, seguire o fuggire le cose che l’intelletto ci propone, noi agiamo in modo che non ci sentiamo costretti da nessuna forza esteriore». Ancor più, l’essere libero non consiste nel potersi rivolgere indifferentemente da una parte o dall’altra, bensì nel propendere verso ciò in cui «conosca evidentemente che il vero e il buono vi si trovano» oppure verso ciò cui Dio orienta l’intimo del mio pensiero. E in questo «la grazia divina e la conoscenza naturale» non diminuiscono la libertà, «ma l’aumentano e la fortificano» (ibi, pp. 235-236). Da tutto ciò risulta una definizione complessa della libertà, che si distribuisce su tre piani: «Il grado più basso» è quello negativo dalla coazione e quello positivo di indifferenza, il poter fare e non fare senza costrizione e ad arbitrio – che è, invece, massima perfezione per l’onnipotenza divina, assolutamente indipendente da ogni altra perfezione – (cfr. anche Responsiones ad sextas objectiones, tr. it. di A. Tilgher, Risposte alle seste obiezioni, in Opere, cit., vol. I, VI risposta, pp. 581-582); a un livello più elevato sta invece la libertà come adesione al vero e al bene indicato dall’intelligenza o cui Dio per natura o per grazia inclini; ma a un terzo livello – che in realtà costituisce il fondamento

Libertà dell’edificio della libertà cartesiana – sta la libertà come spontaneità assoluta, che trascende la misura sempre limitata della ragione umana, e che non coincide però con l’indifferenza, essendo invece vertice della perfezione umana e sigillo della sua somiglianza con Dio. Tale livello della libertà, per la sua eccedenza rispetto alla ragione, costituisce anche il principio del possibile errore gnoseologico, qualora la volontà assenta a un «giudizio sopra una cosa, quando non la concepisco con sufficiente chiarezza e distinzione» intellettuali (Meditatio IV: De vero & falso, tr. cit., p. 237). Non solo, ma è anche condizione per la formulazione dello stesso dubbio metodico, che, a sua volta, ci fa fare esperienza di «una libertà sì grande» che ci permette di sospendere il giudizio (Principia philosophiae, tr. cit., vol. II, parte I, § 39, p. 45). La libertà è dunque la massima e fondamentale condizione del primato della res cogitans nei confronti della res extensa, ma è allo stesso tempo il punto critico assoluto del dualismo cartesiano delle sostanze, che finisce per esporre la libertà che lo sostiene o all’isolamento spiritualistico dalla corporeità oppure al suo condizionamento meccanicistico. La sorte del cartesianesimo è legata a quella del suo dualismo delle sostanze, che lo sviluppo della dottrina «occasionalista» cerca di salvare, mentre è contestato e abbandonato dalle altre forme del razionalismo. L’occasionalismo di Nicole Malebranche è il tentativo più sistematico di salvare la filosofia cartesiana, valorizzando la sua componente agostiniana e riavvicinandola alla tradizione classica. Anche la concezione della libertà, «potenza di volere o non volere, o volere il contrario», è fondata da Malebranche metafisicamente nell’unione della mente con l’infinito. La volontà è riaffermata come «il movimento naturale che ci porta verso il bene indeterminato e in generale» (Recherche de la Vérité, l. I, cap. I, § 2) e la libertà è identificata con il potere di dominare i fattori determinanti le nostre volizioni, cioè le idee attraverso la nostra «attenzione» e i sentimenti «indeliberati» attraverso il nostro consenso. Al di fuori della soluzione occasionalista, la trascendenza cartesiana della libertà è messa radicalmente in crisi sul presupposto antidualista dell’impossibilità di sottrarre qualcosa alla concatenazione universale delle cause efficienti e dunque al nesso deterministico. 6411

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Libertà La cartesiana testimonianza della coscienza è radicalmente criticata da Baruch de Spinoza: «Sbagliano gli uomini che credono di esser liberi: tale opinione è dovuta unicamente all’esser consci delle loro azioni, e non delle cause che le determinano; tale, dunque, è la loro idea della libertà, il non conoscere alcuna causa delle loro azioni» (Ethica, II, prop. 35, scolio). Al contrario «nella mente non c’è alcuna volontà assoluta o libera, ma la mente è determinata a volere questo o quello da una causa che è pure determinata da un’altra, e questa a sua volta da un’altra, e così via all’infinito» (ibi, II, prop. 48); perciò anche la volontà, «come tutto il resto, richiede una causa che la determini a esistere e ad agire in un dato modo» (ibi, I, prop. 32, corollario z). Libero, piuttosto, può essere solo ciò che esiste in forza della sua intrinseca necessità «ea res libera dicitur, quae ex sola suae naturae necessitate existit, et a se sola ad agendum determinatur» e non subisce coazione nell’esistere e nell’agire da nulla (ibi, I, definizione 7). Tale definizione rinvia a quella della sostanza, come di «ciò che è in sé e viene concepito per sé» (ibi, I, definizione 3), che unicamente è (come l’uno plotiniano) «causa sui». Libera è dunque la sostanza divina, ed essa soltanto: non perché «operi per la libertà del volere» (ibi, I, prop. 32, corollario 1), ma perché non trova nulla fuori di sé che la possa costringere: «Dio è la sola causa libera», perché «agisce per le sole leggi della sua natura, da nessuno costretto» (ibi, I, prop. 17). La sua è una Iibertà identica con l’assoluta necessità: una «libera necessità». La libertà umana, cui è dedicata la parte V dell’Ethica, si dà solo come partecipazione consapevole alla necessità divina. Schiavo è l’uomo in quanto «modo», modificazione parziale della sostanza, che trova fuori di sé la propria ragione ed è condotto da idee inadeguate o, ciò che è lo stesso, trascinato dalle passioni. Ma in quanto la sua conoscenza giunga a comprendere la necessità universale, le sue idee si adeguino e, di conseguenza, venga meno la passività dell’affezione e si trasformi in razionale amore divino, l’uomo è libero. Così, come nello stoicismo antico, la libertà si identifica con il riconoscimento e l’acconsentimento alla divina necessità. Nel rigoroso meccanicismo di Thomas Hobbes la libertà non trova nessuno spazio né ontologico, né antropologico. Il rigido nesso causalistico della materia in movimento, di cui è 6412

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costituita la realtà, è lo schema esplicativo che Hobbes pratica con sistematica coerenza. Così gli oggetti esterni agiscono sui nostri organi di senso, che registrano il movimento impresso e lo comunicano al cervello, che, a sua volta, reagisce producendo immagini e concetti delle cose. Di lì il movimento prosegue fino al cuore, generando reazioni meccaniche d’attrazione o repulsione, a seconda che il movimento sia in armonia o in contrasto con le esigenze vitali del corpo (cfr. Elements of Law Natural and Politic, 1640, parte I, cap. XII; Leviathan, London 1651, parte I, cap. VI). L’agire umano può seguire immediatamente come reazione finale al processo oppure può essere accompagnato da immagini ulteriori relative al bene o al male futuro immaginato, sicché viene a formarsi una catena di pensieri che chiamiamo «deliberazione», «un’immaginazione alternata delle buone e cattive conseguenze di un’azione», cioè degli appetiti della speranza e del timore suscitati dall’azione immaginata, fino all’ultimo appetito che «noi chiamiamo volontà». Dunque, deliberativo, volontario e libero vengono a identificarsi nell’idea di spontaneità meccanicisticamente determinata, così che «uomo libero» è colui che, nelle cose che è capace di fare, «non è impedito di fare ciò che ha la volontà di fare» (Leviathan, tr. it. a cura di A. Pacchi, Leviatano, Roma-Bari 1992, p. 175) e la libertà è definibile come libertà d’azione, come «l’assenza di tutti gli impedimenti all’azione, che non siano contenuti nella natura e nella qualità intrinseca dell’agente» (Of Liberty and Necessity, London 1654, tr. it. di A. Langega, Libertà e necessità, in Libertà e necessità e questioni relative a libertà, necessità e caso, Milano 2000, p. 111). Nel medesimo contesto Hobbes spiega con precisione il presupposto epistemologico della sua concezione. Anzitutto il nesso causale è costitutivo di ogni evento, perché nulla trae inizio da se stesso, ma dall’azione di qualche agente immediato esterno; di conseguenza, «la causa della volontà non è la volontà stessa, ma qualcos’altro che non è in suo proprio potere», così che le azioni sono «volontarie» e insieme «necessitate». In secondo luogo, ogni causa è necessariamente causante, perché «causa sufficiente» è quella «a cui non manca nulla di ciò che è necessario alla produzione dell’effetto»: se una causa è sufficiente all’effetto, è una causa reale che non può non produrre l’effetto ed è dunque causa necessaria. In conclusione,

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l’idea di libero agente che, potendolo, non produce l’effetto, è un’idea «priva di senso». (ibi, p. 113). Hobbes, dunque, pone il libero arbitrio nell’alternativa dissolutrice o d’essere l’effetto di una causa necessitante la volontà oppure d’essere un evento senza causa, perciò irrazionale e inintelligibile. In tal modo egli riduce la libertà al solo significato negativo di assenza di coazione e a quello esteriore di sola libertà d’azione (gli uomini «hanno la facoltà, non di volere liberamente, ma di fare ciò che vogliono», De corpore, cap. 25, 12) e stabilisce un paradigma riduzionista nuovo, che sarà riproposto con accentazione fisiologistica (J.O. de Lamettrie, Anti-Sénèque ou discours sur le bonheur, Potsdam 1750) o sociale (C.A. Helvétius, De l’esprit, Amsterdam-Paris 1758) nel materialismo filosofico del XVIII secolo, nelle diverse forme del positivismo del XIX secolo e in tutte le filosofie che fanno riferimento a un’ontologia naturalista o fisicalista; ma con il quale, direttamente o indirettamente, fa i conti tutta la successiva filosofia della libertà. L’identificazione della libertà con la libertà d’azione e l’idea esecutiva della libertà sono caratteristiche anche del pensiero di John Locke, in cui però la concezione deterministica non è formulata in termini meccanicistici, ma psicologici. Per Locke la libertà è «l’idea del potere che un agente ha di fare o tralasciare qualunque azione particolare secondo la determinazione o pensiero della sua mente, la quale preferisce l’una cosa o l’altra» (An Essay Concerning Human Understanding, London 1690, tr. it. di C. Pellizzi, Saggio sull’intelligenza umana, Roma-Bari 1999, vol. I, l. II, cap. XXI, § 8, p. 256); ancora, la libertà consiste «nel fatto che si sia in grado di agire o non agire, secondo che si scelga o si voglia» (ibi, § 27, p. 268). La libertà non riguarda come tale la volontà, perché ciò che noi vogliamo è la preferenza attuale che succede immediatamente a un pensiero. La volontà, infatti, dipende da «un pensiero o preferenza della mente stessa che ordina o, per così dire, comanda che la tale e tal’altra azione particolare venga compiuta o non compiuta» (ibi, § 5, p. 254). Dunque, la libertà è dell’azione, che esegue ciò che la volontà preferisce sulla base dell’indicazione della mente. Il punto focale è che la volontà è il potere di produrre o meno l’azione, ma non propriamente di sceglierla, perché non c’è libertà a livello della «preferenza»: «La libertà consi-

Libertà ste nel fatto che l’esistenza o la non esistenza di una qualunque azione dipenda dalla nostra volizione di essa e non dal fatto che una qualunque azione, o il suo contrario, dipendano dalla nostra preferenza» (ibi, § 27, p. 267). È ribadita così l’idea che la volontà ha ragione di moto non in se stessa, ma secondo una causalità esterna motrice. Questo impianto stabile è diversamente orientato nel mutare della teoria lockiana della motivazione. In una prima fase, infatti, la necessitazione della volontà è attribuita, classicamente, all’attrazione della felicità e perciò al bene di volta in volta ritenuto maggiormente felicitante. Il volere, infatti, è preferenza e questa «non è nient’altro che l’essere più soddisfatti dell’una cosa che dell’altra»; ciò che «determina» la volontà, perché più l’«accontenta», è perciò la «felicità» e ogni «bene» che ne faccia parte. Del bene e del male, poi, se ne giudica sempre in un «raffronto», in cui il bene che appare maggiore determina la volontà. La seconda edizione dell’Essay (London 1694) apporta una revisione al cap. XXI quanto alla teoria della motivazione. Con più analitico realismo psicologico, Locke accentua, rispetto alla diretta motivazione dell’attrazione del bene (maggiore), l’incidenza del «disagio», provocato da insoddisfazione e bisogno, cui si accompagna il desiderio per il bene mancante: «Ciò che determina immediatamente la volontà, volta per volta, a ogni azione volontaria è il disagio del desiderio, fisso in qualche bene mancante» (An Essay Concerning..., tr. cit., § 33, p. 271; cfr. §§ 35-37). A questo proposito Locke aggiunge un’analisi significativa del raffronto tra i numerosi disagi che sollecitano la nostra volontà, rilevando l’esistenza di una capacità di «tenere in sospeso l’esecuzione di un atto» per un attento esame valutativo, che ricorda l’analogo tema cartesiano e che apre uno spiraglio su un eventuale potere attivo della volontà, potere di autodominio, che sarebbe sovversivo del determinismo psicologico. Anche Gottfried Wilhelm Leibniz ritiene impossibile la «libertas indifferentiae», perché negatrice di un principio causale che renda ragione dell’atto libero stesso. In tal senso la libertà non coincide con il libero arbitrio. La libertà è piuttosto spontaneità, che è compatibile con un certo determinismo psicologico. L’analisi del nostro agire rivela che «c’è sempre stata una qualche causa o ragione che ci ha inclinati verso il partito che abbiamo preso, 6413

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Libertà anche se molte volte non ci si accorge di ciò che ci muove» (Teodicea, § 35). La filosofia della libertà proposta da Leibniz deriva così dalla combinazione di due figure speculative. In primo luogo, la dottrina metafisica della monade, sostanza individuale e centro di forza, che non subisce influsso esterno, ma sviluppa la propria esistenza dall’interno e che nel caso della sostanza spirituale è «una specie di automaton spirituale» (ibi, § 52), dotato di intrinseca spontaneità espressiva; in secondo luogo, la dottrina ontologica ed epistemologica del principio di «ragion sufficiente», che permette di coniugare la libertà di spontaneità con il determinismo, ma separandolo dal necessitarismo (in polemica con Hobbes). Nulla avviene senza che vi sia una causa, ma ciò che avviene mantiene la sua contingenza metafisica: è determinato dalla sua ragion sufficiente, ma non è necessitato ad accadere; in base alla sua ragion sufficiente non potrebbe essere diversamente, ma non sarebbe contraddittorio che non fosse. ll principio vale anche per Dio, così che il mondo potrebbe non essere creato, ma, una volta creato, è posto nella condizione di una concatenazione determinata, secondo un criterio di perfezione, il migliore dei mondi (com)possibili, che vincola l’azione divina stessa. Nella Teodicea Leibniz riprende e reinterpreta tutti gli argomenti tradizionali per conciliare la libertà umana con la prescienza divina e per attribuire all’uomo la responsabilità morale delle sue azioni. D’altra parte, però, presuppone un universo concatenato e predeterminato, a causa del quale la creazione stessa è scelta tra possibili pre-stabiliti e l’atto umano è sviluppo di qualcosa già preformato in tutte le sue determinazioni. Leibniz, dunque, va in cerca di un compromesso fruttuoso tra salvaguardia della libertà e dottrina della causa, come risulta dal suo rifiuto di ridurre la libertà a sola libertà d’azione, come afferma (in polemica con Locke) nei Nuovi saggi: «Quando si discute intorno alla libertà del volere o al libero arbitrio, non si domanda se l’uomo possa far ciò che vuole, sibbene se nella sua volontà abbia in ciò sufficiente indipendenza. Non si domanda se egli abbia le gambe sciolte o le braccia non impedite, sibbene se abbia lo spirito libero, e in che cosa ciò consista» (Nouveaux essais sur l’entendement humain, Amsterdam-Leipzig 1765, tr. it. di E. Cecchi, Bari 1925, II, 21, § 21, pp. 153-154). Tuttavia, Leibniz torna in defini6414

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tiva sulla traccia lockiana, in quanto ne accetta l’obiezione all’autodeterminazione della volontà, al «voler volere» della volontà, che, come aveva già affermato Locke, implicherebbe un processo all’infinito verso il primo principio volente. Così anche per Leibniz, in ultima istanza, la libertà è capacità di «fare» ciò che si vuole (cfr. ibi, § 21, p. 153), essendo la volontà in se stessa determinata e resa esecutiva dallo «spirito», mosso da soddisfazione e insoddisfazione (ibi, § 29, p. 156). David Hume svolge con coerente metodo empirista la riflessione lockiana, a cui sottrae ogni incertezza a riguardo del determinismo psicologico. Anche per Hume la libertà non è che «un potere di agire o di non agire, secondo la determinazione della volontà» (Enquiries Concerning Human Understanding and Concerning the Principles of Morals, London 1751, tr. it. dall’ed. del 1777, Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale, in Opere filosofiche, a cura di E. Lecaldano - E. Mistretta, Bari 1971, vol. II, p. 95), la cui interpretazione, però, è radicalizzata in senso empirista; la volontà humiana non è «nient’altro che quell’impressione interna che noi avvertiamo e di cui diveniamo consapevoli, quando coscientemente diamo origine a qualche nuovo movimento del nostro corpo o a qualche nuova percezione della mente» (Treatise of Human Nature, London 1739-40, tr. it. Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche, cit., vol. II, p. 419). Di conseguenza l’esercizio della volontà, perfettamente determinata dai suoi motivi, diventa assimilabile a un «processo naturale», come quello che si svolge «nelle operazioni del Sole e del clima», che rende possibile «una conclusione relativa alle azioni degli uomini derivata dall’esame dei loro motivi, caratteri e situazioni» con la stessa precisione dell’analisi di una necessità fisica (ibi, pp. 423, 425). Non si tratta in ogni caso di necessità metafisica, ma di uniformità naturalistica e quindi di prevedibilità statistica che sono garanzia d’intelligibilità del volere e dell’agire, altrimenti preda di una casualità caotica. Le costanti dei rapporti tra azione e moventi e tra questi e il carattere, e tra il carattere e le circostanze, permettono processi di inferenza sulla base del criterio gnoseologico della «consuetudine». Per questo nesso ai motivi e al carattere il determinismo è interpretato da Hume come compatibile con l’attribuzione soggettiva dell’azione e con l’imputazione della sua responsabilità.

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Questo tratto della filosofia moderna della libertà conclude dunque a un compatibilismo tra necessità della scelta e libertà dell’azione sulla base di una presupposta causazione estrinseca della volontà, cui non vi è alternativa possibile, se non nell’irrazionalismo casualistico dell’assenza della causa. L’idea della libertà come libertà d’azione ebbe grande fortuna anche fuori dell’Inghilterra. In Francia fu condivisa, tra l’altro, da Condillac (Dissertation sur la liberté, London-Paris 1754, § 18) e da Voltaire, che dichiara: «Essere veramente liberi, è potere. Quando posso fare ciò che voglio, ecco la libertà: ma ciò che voglio lo voglio necessariamente» (Le philosophe ignorant, Genève 1766, p. 70). Per certi aspetti, la condivide Charles Bonnet, che afferma: «La libertà è, in generale, la facoltà per cui l’anima esegue la volontà» (Essay analytique, Kopenhagen 1759, p. 149), quella «forza motrice che l’anima sviluppa, conformemente alla volontà, sugli organi del corpo e attraverso questi sugli altri oggetti» (ibi, p. 150). Non molto dissimili le vedute manifestate da Vauvenargues nel Traité sur le libre arbitre e nel Discours sur la liberté (in Oeuvres Morales, Paris 1874, vol. I, pp. 311-316 e 317-339). E Destutt de Tracy nei suoi Eléments d’idéologie (vol. IV, Paris 1815, p. 108) definirà la libertà come «la potenza di eseguire il proprio volere, di agire conformemente al proprio desiderio». In parallelo con la negazione meccanicistica hobbesiana o psicologistica lockiana e humiana della libertà di scelta, nella filosofia anglosassone Ralph Cudworth e Thomas Reid affermano l’esistenza di un potere attivo dell’anima, irriducibile all’automatismo dei motivi. Cudworth, esponente di prestigio del neoplatonismo di Cambridge, sostiene la capacità di autodominio originario dell’anima e dunque la sua capacità di distanza e di trascendenza rispetto all’agire. Il suo scritto A Treatise of Freewill (London 1838) fu però pubblicato postumo nell’Ottocento e non ebbe influsso sul dibattito intorno ai temi dell’indeterminismo. Influenza ebbe, invece, l’opera Essays on the Active Power of Man (Edinburgh 1785) di Reid, esponente di primo piano della scuola scozzese del senso comune. Reid contrasta apertamente l’empirismo di Locke e di Hume con due serie di argomenti, l’uno d’ordine psicologico e l’altro d’ordine ontologico. Reid, teorico del senso comune, porta ad argomento la precoce e universale convinzione a riguardo della

Libertà libertà, la sua necessità per la ragionevolezza della maggior parte delle nostre operazioni, l’esperienza degli sforzi che compiamo per la deliberazione sui fini, la consuetudine della promessa e del biasimo; tutti elementi che suppongono che la libertà faccia «parte della nostra costituzione» (Essays..., IV: Of the Liberty of Moral Agents, in Philosophical Works of Th. Reid, ed. a cura di W. Hamilton, Hildesheim 1967, vol. II, p. 618). Il secondo ordine di argomenti a favore della libertà di scelta va direttamente contro il modello, d’origine hobbesiana, della scelta come risultato della prevalenza del più forte nel conflitto tra i motivi. La strategia argomentativa di Reid consiste nel mettere in discussione anzitutto lo statuto ontologico del motivo. I motivi non sono «né cause né agenti» e quindi non hanno la natura della causa efficiente. Il motivo è piuttosto un ens rationis, che come tale non agisce, né patisce, ma può solo «influire» sull’azione, come un consiglio o un’esortazione, che presuppongono la libertà di un agente superiore (cfr. ibi, pp. 608-609). Inoltre, in caso di conflitto tra i motivi eterogenei, non è affatto chiaro quale possa essere la regola del confronto e il ricorrere al criterio della prevalenza del più forte presuppone senza prove che «l’agente non agisca, ma patisca» l’azione dei motivi «come la bilancia patisce quella dei pesi», che è come dare per scontato che l’uomo sia una macchina, che è invece «il punto in questione» (ibi, pp. 610 ss.). 3. Kant e la libertà formale. – L’intervento di Immanuel Kant nel dibattito moderno chiarisce l’equivoco che nasce dal voler affermare la libertà senza affermarne insieme l’essenziale condizione di possibilità, cioè una realtà soggettiva che si sottragga di principio al determinismo delle cause. È «una contraddizione – afferma Kant in La religione entro i limiti della semplice ragione [Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, Königsberg 1793] – cercare l’origine temporale delle azioni libere in quanto libere (come se si trattasse di effetti di carattere fisico)»; «infatti, se è libera, l’azione dell’uomo è sottratta per definizione alla concatenazione delle cause antecedenti e delle cause naturali, interne ed esterne, che influiscono su di lei» (tr. it. di M. Roncoroni, Milano 1996, pp. 117, 119). In una famosa pagina della Delucidazione critica della Critica della ragion pratica, riassumendo con precisione il punto d’arrivo del dibattito moderno post-cartesia6415

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Libertà no, Kant ironizza sulla «libertà di un girarrosto»: nella questione della libertà non fa differenza «sapere se la causalità [del volere] sia determinata secondo leggi di natura da fondamenti che si trovano nel soggetto o fuori di esso; e, nel primo caso, se sia necessaria per motivi istintivi, o pensati dalla ragione». Non fa differenza, cioè, se il determinismo sia di ordine meccanicistico secondo la figura dell’«automaton materiale» (Hobbes) o di ordine psicologico secondo la figura dell’«automaton spirituale» (Leibniz). L’alternativa che conta è invece quella tra la «necessità della connessione degli accadimenti» (in una serie solo temporale psichica o anche spaziale fisica) e la «libertà trascendentale» in quanto indipendente «da tutto ciò che è empirico» (Kritik der praktischen Vernunft, Riga 1788, tr. it. a cura di V. Mathieu, Critica della ragion pratica, in Fondazione della metafisica dei costumi; Critica della ragion pratica, Milano 1988 2 , pp. 303-304). Il nucleo dell’insegnamento kantiano sta dunque nell’affermare che se si dà libertà, questa ha la sua esclusiva condizione di possibilità a livello trascendentale, come capacità causale di una ragione che è «facoltà dell’incondizionato» e «pura attività spontanea», indipendente dalla sensibilità e regola dell’intelletto. L’idea della libertà trova il suo primo luogo di trattazione sistematica nella discussione kantiana dell’idea razionale del «mondo», «la totalità assoluta nella sintesi dei fenomeni» (Kritik der reinen Vernunft, Riga 1781, tr. it. di G. Gentile - G. Lombardo-Radice, Critica della ragion pura, Bari 1966, l. II, cap. II, p. 341). La libertà è collocata anzitutto tra le idee cosmologiche, che la ragione formula pensando la categoria di causa come «principio» correlato all’idea di «mondo». A questo livello l’idea della libertà è oggetto di un’antinomia insolubile (la «terza antinomia della ragion pura»), la cui tesi recita: «La causalità secondo le leggi della natura non è la sola da cui possono essere derivati tutti i fenomeni del mondo. È necessario ammettere per la spiegazione di essi anche una causalità per libertà (Causalität durch Freiheit)»; e la cui antitesi è: «Non c’è nessuna libertà ma tutto nel mondo accade unicamente secondo leggi della natura» (ibi, Dialettica trascendentale, l. II, cap. II, sezione II, pp. 368369). Secondo la tesi, se la legge della natura è che nulla accada senza una determinata causa e a priori sufficiente, l’ipotesi di un rinvio all’infinito nella catena delle cause causate ge6416

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nererebbe la contraddizione dell’assenza di una ragion sufficiente dell’intera catena causale. È necessario perciò riconoscere all’origine dei fenomeni una «spontaneità assoluta», causante ma non causata; una facoltà di cominciare da se stesso una serie di cose o di stati successivi, che è l’idea trascendentale della libertà. Secondo l’antitesi, se si desse una libertà trascendentale, si avrebbe un arresto della catena causale, un evento che contraddice la legge causale, cioè un cominciamento da niente (cfr. ibi, Nota alla terza antinomia, pp. 370-374). La soluzione kantiana consiste nell’affermare che «non si può pensare se non una doppia specie di causalità rispetto a ciò che avviene, o secondo la natura o per libertà» (ibi, Dialettica trascendentale, l. II, cap. II, sezione IX, p. 428): il nesso causale deterministico vale senza eccezioni per l’intero mondo fenomenico e la libertà non può costituire principio che salvi tale serie indefinita dal suo «regressum in indefinitum»; d’altra parte, ciò non è obiezione al fatto che del «mondo» come idea della ragione (non oggetto di esperienza) si pensi la sua ultima condizione di possibilità come libera. Con ciò Kant non intende dimostrare la realtà e neppure la possibilità reale della libertà, ma solo la sua possibilità logica, nel senso che l’antinomia conclude all’indimostrabilità dell’impossibilità della libertà e quindi alla dimostrazione della non contraddittorietà dell’idea di libertà, nel senso che «la natura per lo meno non contraddice alla causalità per libertà» (ibi, p. 445). Di conseguenza, mentre non si dà alcuna conoscenza della libertà a livello dell’esperienza, è possibile «pensare» una causalità libera compatibile con le leggi della natura. Questa «idea cosmologica della libertà» è un’idea solo negativa. All’idea positiva si può accedere solo attraverso il «concetto pratico» della libertà. Nella Fondazione della metafisica dei costumi Kant tenta un primo passaggio dalla possibilità logica alla realtà della libertà attraverso l’affermazione della noumenicità della ragione umana: «Come essere razionale [...] l’uomo non può pensare la causalità del suo volere se non sotto l’idea della libertà», appunto come «indipendenza delle cause determinanti del mondo sensibile» (Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Riga 1785, tr. it. a cura di V. Mathieu, Fondazione della metafisica dei costumi, in Fondazione della metafisica dei costumi; Critica

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della ragion pratica, Milano 19882, p. 156), e d’altra parte un essere «che crede di essere consapevole di una facoltà diversa dalla facoltà di desiderare», cioè di «determinarsi ad agire come intelligenza», non può non avere la libertà «come presupposto necessario alla ragione» (ibi, p. 165). La libertà, dunque, che come realtà noumenica è indimostrabile, può essere solo presupposta come implicazione della stessa razionalità trascendentale. Di tale libertà noi possiamo farci un duplice concetto, anzitutto come «libertà negativa» rispetto al mondo sensibile, come «modo di causare [...] indipendente da cause esterne», cioè come libertà «eslege» rispetto alla casualità naturale deterministica (ibi, p. 148); in secondo luogo, come concetto «positivo» in quanto legata con la capacità causativa della ragione, cioè la volontà (cfr. ibi, pp. 163-164), e quindi come «autonomia» ovvero come «la proprietà del volere di essere legge a se stesso» (ibi, p. 149), per cui la volontà libera e la legge morale sono indissolubilmente congiunte: «Una volontà libera e una volontà sottoposta alla legge morale sono la stessa cosa» (ibid.), poiché libertà e autolegislazione della volontà «sono entrambe autonomia», sono cioè «concetti reciproci» (ibi, p. 153; cfr. ibi, p. 157). Nella Critica della ragion pratica Kant opera un certo rovesciamento della prospettiva argomentativa, alla ricerca di un fondamento più forte dell’autoevidenza della razionalità trascendentale del soggetto pratico. Kant ritiene di trovarlo in una fattualità che coincide con l’attestazione di un assoluto incondizionato, il «Faktum der Vernunft» costituito dalla legge morale, che già la Fondazione aveva affermato essere implicata dall’affermazione della volontà libera, ma che ora diviene il fatto epistemologicamente fondamentale, «di cui siamo coscienti a priori e che è apoditticamente certo» (Kritik der praktischen Vernunft, tr. cit., p. 237); fatto «assolutamente inspiegabile» dal punto di vista empirico, che «ci segnala un puro mondo intelligibile» (ibi, p. 231). In tal modo si approfondisce e si chiarisce il nesso tra libertà e legge morale, che solo apparentemente formano il circolo vizioso della loro reciproca giustificazione: in realtà, mentre la legge morale, come «ciò di cui noi acquistiamo coscienza immediatamente» (ibi, p. 211), giustifica la facoltà della libertà, cioè ne «dimostra [...] la realtà» (ibi, p. 237) come sua implicazione e ne è quindi la «ratio cognoscendi» (ibi, p. 176, nota

Libertà a), la libertà è invece la «condizione della legge morale», la sua «ratio essendi» (ibi, p. 176). A questo punto la libertà come autonomia è perfettamente semantizzata attraverso la sua intrinseca relazione con la volontà e con la legge, che dicono a loro volta autonomia ed esprimono tra loro una relazione assolutamente incondizionata. Infatti, «solo il concetto della libertà – afferma Kant – ci permette di non uscire da noi medesimi per trovare l’incondizionato e l’intelligibile» (ibi, p. 315). Per questo «il concetto della libertà [...] costituisce la chiave di volta dell’intero edificio di un sistema della ragion pura, anche della ragion speculativa» (ibi, p. 176). La libertà è, dunque, un «postulato della ragion pura pratica», ossia un postulato in base a cui devo determinare la volontà per obbedire alla legge morale. In tal senso agire moralmente e agire liberamente non possono essere due cose diverse. Ora, proprio perché indipendente dall’inclinazione sensibile, la ragion pura pratica non può determinare la volontà che «per se stessa», secondo la pura forma universale della legge; perciò la libertà trascendentale coincide con la volontà (Wille) e questa, a sua volta, con la ragion pratica moralmente imperativa. In rapporto all’agire, invece, il Wille si può dire che non sia né libero, né non libero, essendo la libertà dell’agire propria del libero arbitrio (Willkür), cui spetta la scelta determinata tra bene e male. Mentre la libertà della volontà è autonoma automotivazione, che si esprime nella forma immutabile dell’imperativo categorico nei confronti della libertà d’arbitrio, questo, al contrario, può fare o non fare ciò che deve (cfr. Die Metaphysik der Sitten, Königsberg 1797, tr. it. di G. Vidari, La metafisica dei costumi, Bari 1973, pp. 29-30). Il libero arbitrio non è in nessun caso libertà di indifferenza, ma è la facoltà posta tra il bene e il male, tra l’elevazione dell’azione all’universale e il suo abbassamento all’individuale. Qui la libertà si apre al problema del «male radicale». 4. L’idealismo e la libertà assoluta. – Tipico di Kant è il carattere rigorosamente formale della libertà, che non ha un contenuto speculativamente oggettivo, comunque riscontrabile nell’esperienza, ma è oggettiva solo come principio pratico di determinazione della volontà secondo il dovere. Questo carattere non viene conservato dalla speculazione romantica, che, al contrario, vuole attingere direttamente l’essenza della libertà. 6417

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Libertà Se in Cartesio e Kant, due estremi ideali della prima filosofia moderna della libertà, lo spazio di quest’ultima è preservato entro uno schema dualistico (dualismo delle sostanze cartesiane e del fenomenico e noumenico kantiani), con l’idealismo, invece, la libertà acquista un significato metafisico entro un modello speculativo di tipo monistico. La critica del dualismo gnoseologico presupposto di Kant, come teoria che in modo contraddittorio afferma la pensabilità razionale di ciò che (il noumeno) è intellettualmente inintelligibile, conduce al riempimento ontologico dell’autonomia e alla sua reinterpretazione in senso metafisico. In tal modo è aperta la via per sottoporre alla logica della libertà non più solo il mondo interiore del soggetto, ma anche il mondo esteriore della natura, cioè per fare della libertà la logica ultima della realtà e l’essenza della totalità. «Sistema della libertà» (cfr. L. Pareyson, La seconda dottrina della scienza di G.A. Fichte, in «Rivista di Filosofia», 41, 1950, 2, p. 193) è stata opportunamente definita la filosofia fichtiana del System der Sittlichkeit nach den Prinzipien der Wissenschaftslehre (Jena-Leipzig 1798, tr. it. di R. Cantoni, Sistema della dottrina morale secondo i principi della Dottrina della scienza, ed. a cura di C. De Pascale, Bari 1994). Johann G. Fichte deduce il concetto dell’eticità dalla forma dell’«egoità» (Ichheit), la possibilità della cui coscienza è la «scissione». Per il solo fatto di poter dire «io» è posta la scissione, mentre l’«unità» che viene scissa e che sta alla base di ogni coscienza, «è assolutamente» e nell’indivisione non può in alcun modo pervenire alla coscienza (ibi, Introduzione, § 5, p. 7). In questa derivazione dell’oggettivo dal soggettivo è posto «il principio di tutta quanta la filosofia pratica», che proviene dal fatto che «io devo pormi assolutamente come attivo» e tale attività assoluta secondo le leggi della coscienza si chiama anche libertà, che è «la rappresentazione sensibile dell’attività spontanea (Selbstthätigkeit)» (ibi, Introduzione, § 7, p. 10). In tal senso «l’unico assoluto, su cui si fonda ogni coscienza e ogni essere, è pura attività» e «l’unica cosa vera in modo puro è la mia autonomia» (ibi, Introduzione, § 9, p. 13). La libertà ha dunque il valore di principio assoluto, di principio cioè che si pone per se stesso, non più come formale auto-nomia, quale era la libertà kantiana, bensì come pura attività soggettiva, quale auto-posizione metafisica, in cui 6418

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la distinzione di libertà e necessità perde la sua ragion d’essere, perché l’attività assoluta è come tale libertà assoluta e attività necessaria. L’io, dunque, non è originariamente «né soggettivo, né oggettivo, ma l’una e l’altra cosa» (ibi, l. II, § 5, p. 79), mentre la libertà appare solo con la percezione del nostro reale agire nel mondo sensibile, che implica insieme determinazione dell’attività da parte del suo opposto e posizione dell’io come originariamente attivo. Perciò il non-io c’è per l’io solo a condizione che questo operi, senta resistenza in questo operare e insieme la superi; la causalità è tutta dal lato dell’io: «Tutto ha il suo punto di partenza nell’agire e nell’agire dell’io, il non-io opponendo resistenza solo all’iniziativa dell’io» (ibi, § 6, p. 85). Di conseguenza, ciò che avviene nell’io non è determinato in precedenza ed è assolutamente indeterminabile: «Non vi è alcuna legge secondo la quale si svolgano libere autodeterminazioni»; infatti, «una serie naturale è continua», mentre «una serie di determinazioni di libertà consiste in salti e procede, per così dire, a sbalzi» (ibi, §10, p. 123). Questo non significa – afferma Fichte portandosi al di là del dualismo kantiano – che non si operi con un «impulso», una «forza» che proviene dalla natura, ma che questa opera sotto il dominio di un principio al di là di ogni natura, il dominio del «concetto». È questa la «libertà formale», che dà nuova forma all’impulso naturale (ibi, pp. 123-124). Il porsi come libero per il soggetto significa divenir cosciente del proprio passaggio dall’indeterminatezza alla determinazione della scelta e dell’azione. L’io determinante è, infatti, l’unico io in cui sono uniti il «riflettente» indeterminato e il «riflettuto» determinato, così che la libertà è «soggetto-oggetto della coscienza». Ma, se si ammette un impulso a determinarsi che proceda dall’io stesso, il processo di determinazione non subisce l’influsso dell’impulso naturale, risultando così eterodiretto come vorrebbero i teorici della motivazione deterministica; l’impulso è infatti un «impulso alla libertà per amore della libertà» a trarre il «materiale dell’azione» non dall’impulso naturale ma da se stessi. È questa la «libertà materiale», che non si limita a compiere liberamente ciò che la natura già farebbe deterministicamente, ma che compie opere che la natura non compirebbe affatto (cfr. ibi, pp. 125-126, 127-128). A questo livello la libertà appare nella sua realtà attraverso la riflessione intrinseca

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all’agire «puro», che prescinde dall’impulso naturale, ma riflette sulla sua «pura assoluta attività», che è «il vero e proprio io». A partire da questa riflessione, interviene una nuova forza, «strappata al potere dell’impulso» naturale, che può resistere a questo, elevando l’agente sopra la natura e infondedogli il «rispetto» dovuto a ciò che ha la «dignità» dell’«assoluta autonomia e autosufficienza» (cfr. ibi, pp. 128-130). Qui la libertà rivela la sua identità d’essere «il punto d’unione» tra il mondo intelligibile, retto dalla legge morale, e il mondo sensibile, in cui si svolge l’azione reale (ibi, § 6, p. 84). La Wissenschaftslehre del 1801-02 documenta una svolta del pensiero fichtiano in senso metafisico, in cui la libertà trascende il significato dell’assoluta autonoma attività dell’io trascendentale e del principio della sua destinazione morale per divenire identità dell’assoluto come assoluto. L’assoluto io si può pensare «soltanto sotto le due caratteristiche seguenti: da un lato esso è assolutamente ciò che è, pertanto riposa su se stesso e in se stesso senza mutare e oscillare [...]; dall’altro lato che è ciò che è assolutamente perché io è, da se stesso e mediante se stesso [...]. Possiamo chiamare la prima caratteristica consistenza assoluta, essere riposante e così via, l’altra divenire assoluto ovvero libertà [...]» (Esposizione della dottrina della scienza degli anni 1801-02, in Scritti sulla Dottrina della Scienza 1794-1802, a cura di M. Sacchetto, Torino 1999, § 8, pp. 594-595). Nel sapere assoluto dell’assoluto, i due caratteri devono coincidere: «Il quieto essere non è il sapere e perciò tanto meno lo è la libertà [...]; il sapere invece è l’assoluto compenetrarsi e fondersi di entrambi» (ibi, § 9, p. 597). «Nel sapere stesso [...] c’è perciò di necessità un punto di unione della duplicità della sua assolutezza. [...] Pertanto il più elevato punto di unità [...] si fonda sull’assoluta libertà del sapere stesso, la presuppone ed è possibile solo a seguito di questa presupposizione. Già per questo stesso motivo esso è un prodotto dell’assoluta libertà, non si può dedurre da qualche cos’altro, ma è posto solo assolutamente [...]» (ibi, § 12, p. 602). La prospettiva metafisica guida anche la riflessione fichtiana di filosofia della storia, consegnata nei Grundzüge des gegenwärtigen Zeitalters (Berlin 1806, tr. it. di A. Carrano, Tratti fondamentali dell’epoca presente, Milano 1999), in cui la ragione assoluta è vista come «legge

Libertà fondamentale della vita dell’umanità, come di ogni vita spirituale» (ibi, p. 86) e il senso della storia è identificato con lo sviluppo della coscienza umana della presenza attiva dell’assoluto. In questo senso la libertà sintetizza il significato della storia, quale facoltà di compiere consapevolmente il disegno razionale che è l’accadere storico, il quale dunque è retto da un fine finale necessario, cui la libertà deve identificarsi: «È la necessità a guidare noi e il nostro genere [...], la necessità interna, perfettamente chiara e trasparente a se stessa, dell’essere divino»; solo postisi sotto questa delicata guida, «si è divenuti veramente liberi e si è penetrati nell’essere, perché al di fuori di essa non v’è che illusione e inganno» (ibi, p. 242). Nel superamento dell’idealismo soggettivo fichtiano Friedrich W.J. Schelling pone la libertà a fondamento metafisico del sistema idealistico. Nel System des transzendentalen Idealismus (Tübingen 1800, tr. it. di G. Boffi, Sistema dell’idealismo trascendentale, Milano 1997) «per mezzo della libertà all’io ideale si schiude immediatamente l’infinità», il cui limite, proveniente dal mondo oggettivo che gli si contrappone, è in ogni momento superato dallo sforzo della libertà stessa (System des transzendentalen Idealismus, tr. cit., p. 455). Infatti, mentre la volontà assoluta (Wille) non ha altro oggetto che il «puro autodeterminare se medesima» e perciò non è né liberà, né non libera, ma è «al disopra della libertà» ovvero è libera di una libertà che coincide con la sua stessa necessità, l’opposizione costituisce il volere assoluto in «libero arbitrio» (Willkür), che è la «resa fenomenica di quell’assoluto volere». Ora, però, il volere assoluto appare come assoluto solo attraverso il libero arbitrio e questo, a sua volta, può pensarsi solo come manifestazione ricorrente del volere assoluto: questo è il senso «trascendentale» della libertà (ibi, pp. 481, 483). La libertà è dunque attributo del soggetto che «oscilla tra il momento soggettivo e il momento oggettivo» e che quindi «determina se stesso alla seconda potenza». Di conseguenza, se ci si arresta al solo lato di limite oggettivo si nega la libertà (cfr. la prospettiva meccanicistica della filosofia postcartesiana), se si riflette solo sul lato soggettivo s’identifica la libertà con la pura attività ideale dell’autodeterminare (cfr. Fichte); la libertà invece spetta a «un’attività che oltrepassa entrambe, l’attività ideale e quella oggettiva» (ibi, p. 485). 6419

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Libertà Il rapporto tra libertà e necessità o, meglio, il trascendimento nella libertà dell’oggettivo e del soggettivo sono approfonditi in una serie di scritti che ruotano intorno al tema della libertà: Philosophie und Religion (Tübingen 1804), Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit zusammenhängen Gegenstände (Landshut 1809, tr. it. di M. Losacco, Ricerche filosofiche sulla essenza della libertà umana e gli oggetti che vi si collegano, Lanciano 19742) e Stuttgarter Privatvorlesungen (Stuttgart 1810), nei quali il problema centrale comune è costituito dal rapporto tra finito e infinito nella libertà e tra libertà finita e libertà infinita. È possibile salvare la libertà – si domanda Schelling – in una concezione sistematica, che non si limiti cioè a pensare l’«unità» nella «forma povera di un ordinamento morale del mondo», come avviene nella dottrina del primo Fichte, ma che la fondi nella «dottrina dell’immanenza di tutte le cose in Dio» (Philosophische Untersuchungen über..., tr. cit., p. 47)? Tale dottrina dell’immanenza coincide con il panteismo, che però – aveva obiettato Friedrich Schlegel – è un sistema che nega la libertà del finito, il cui paradigma di immanentismo deterministico appare essere il sistema spinoziano. In realtà, l’errore di Spinoza secondo Schelling non sta nel porre «le cose in Dio», bensì nel porre in Dio solo «cose» e quindi nel poterle trattare in modo deterministico (ibi, p. 60). Con «tutta la nuova filosofia europea» postcartesiana Spinoza condivide, infatti, il difetto di non dare un «vivo fondamento» alla natura (ibi, p. 68), a causa di un pregiudizio meccanicistico, che ha poi caratterizzato la storia dell’interpretazione spinoziana. Non il panteismo, dunque, ma un’errata concezione della legge d’identità (intesa in senso univoco) sottrae la libertà agli esseri che sono in Dio. L’idealismo, invece, trasforma il senso dell’immanenza e quindi della natura stessa, perché in esso «il volere è l’essere originario» e «in massima e ultima istanza non v’è altro essere che il volere» (ibi, p. 61). Per l’idealismo le singole cose stanno nella sostanza assoluta non come cose morte, ma come «altrettanti singoli voleri compresi in un volere originario» (ibi, p. 63): il provenire delle cose da Dio è «un’autorivelazione di Dio» e «Dio può rivelarsi unicamente in ciò che gli è simile» e dunque in esseri liberi e operanti di per sé. La dipendenza perciò non sopprime l’autonomia e la libertà, perché se il dipendente non fosse autonomo non sarebbe 6420

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il dipendente della divina libertà assoluta. Piuttosto, «si contraddicono così poco l’immanenza in Dio e la libertà che proprio il libero, e in quanto è libero, è in Dio», portando in sé l’assolutezza stessa di Dio stesso (ibi, pp. 57-58). L’autentica difficoltà deriva dal fatto che, se la libertà degli esseri finiti è in Dio e la libertà «reale e vivente» è «facoltà del bene e del male» (ibi, p. 45), si è stretti nell’alternativa o di collocare il male nel volere originario oppure di negare la realtà stessa del male (ibi, p. 64). Il male diventa pensabile, invece, solo se si pone in Dio non il male, ma la sua condizione metafisica, cioè la distinzione tra la sua esistenza e il fondamento di essa (ibi, p. 57), tra l’essere divino e la «natura» divina, oscuro fondamento, che è «brama» e «desiderio» (Sehnsucht), che è volere senza intelligenza e inconscia tendenza ad essa, in cui Dio contempla se stesso. Tutti gli esseri sorti dalla natura portano perciò in sé il doppio principio della loro origine. ll principio tenebroso del volere individuale cieco e volere universale penetrato dalla luce dell’intelletto sono così anche in ogni essere naturale; ma, mentre questo costituisce un’identità indissolubile in Dio, negli enti finiti costituisce invece una polarità dissonante e un’unità separabile: in questa separabilità sta per l’uomo la possibilità del bene e del male, nella forma della conservazione dell’unità oppure in quella della prevaricazione della brama individuale sulla luce del volere universale. Come si dia poi l’apparire del male nella creatura è per Schelling legato alla logica della rivelazione, cui tende il fondamento metafisico. Per l’uomo in ogni caso bene e male sono oggetto del suo atto libero, immediata conseguenza della sua parte intelligibile, non dunque in situazione d’irrazionale indifferenza e neppure di predeterminazione fisica o psichica, ma come espressione della propria intima natura, in cui necessità e libertà sono due lati della medesima essenza: «La singola azione segue dall’intima necessità dell’essere libero» (ibi, pp. 101-102). Questo scaturire dell’azione libera dall’intima natura dell’agente presuppone, come spiegazione del suo stesso determinarsi – secondo Schelling – che l’intelligibile nell’uomo abbia già determinato se stesso in un atto fuori del tempo, ab aeterno quindi, come orientamento secondo il bene o secondo il male, senza che con ciò sia tolta la respon-

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sabilità delle scelte operate nel tempo. Per questo «l’uomo è posto su una vetta dove ha in sé ugualmente la possibilità di muoversi verso il bene e verso il male: in lui il vincolo dei principi non è necessario, ma libero» (ibi, p. 91). La filosofia hegeliana della libertà riceve la sua fisionomia dalla dialettizzazione del sistema idealista. Nella Phänomenologie des Geistes (Bamberg-Würzburg 1807, tr. it. di V. Cicero, Fenomenologia dello spirito, Milano 1995) il soggetto della dialettica non è l’assoluto, ma la coscienza finita (Bewusstsein) e il suo cammino d’autorealizzazione nelle diverse figure speculative, che la progressiva elevazione (Aufhebung) al punto di vista superiore dell’«in séper sé», della composizione di certezza soggett i va (Gewissheit ) e d i v e r i t à o g g e t t iv a (Wahrheit), viene infine a identificare con il punto di vista dell’assoluto stesso. Nel suo incessante cammino dialettico la coscienza incontra l’alterità libera dell’altra coscienza come luogo di resistenza e come capacità di autoaffermazione e di autonegazione. L’incontro, in cui appare la figura della negazione (Negation) quale condizione della soggettività libera, inaugura il nuovo piano dialettico delle autocoscienze, che sperimentano l’alterità come irriducibile e inassimilabile e insieme come indispensabile. La certezza di sé che l’autocoscienza acquista nel rapporto d’assimilazione con l’oggetto, la semplice «riflessione entro sé», si duplica nel divenire l’autocoscienza «un oggetto» per altra coscienza. Solo in tale «reduplicazione dell’autocoscienza» (Verdopplung des Selbstbewusstsein) l’autocoscienza compie l’intero circolo autoriflessivo che la riconduce a sé, autocoscienza piena nella forma dell’«unità di se stessa nel suo essere-altro» (Phänomenologie des Geistes, tr. cit., parte IV: La verità della certezza di se stesso). Il discorso sulla libertà si approfondisce a questo livello nell’ulteriore dialettica delle autocoscienze, colte nella condizione d’asimmetria (Ungleichheit) della coscienza signorile e di quella servile. Nel confronto tra le autocoscienze, infatti, signorile è quella capace di sostenere la verifica della sua certezza d’autocoscienza, come indifferenza rispetto alla propria esistenza determinata e, dunque, come capacità di «dar prova di sé, a se stesso e all’altro, mediante la lotta per la vita e per la morte»; infatti, «è solo rischiando la vita che si mette alla prova la libertà». L’autocoscienza servile, al contrario, è tale perché privilegia il preservare

Libertà la vita rispetto al rischiarla per essere riconosciuta come autentica autocoscienza, come libero essente per sé (Phänomenologie des Geistes, tr. cit., parte IV, A: Autonomia e non-autonomia dell’autocoscienza. Signoria e servitù). Nella successiva speculazione sistematica il primo luogo in cui emerge la libertà è il «concetto» (Begriff), sintesi dell’essenza e del suo esserci, «sostanza» dunque, ma come «regno della soggettività o della libertà» (Wissenschaft der Logik, Nürnberg 1812, tr. it. di A. Moni, Scienza della logica, Bari 1925, vol. II, l. II, sezione III, cap. 3, p. 244). Il «concetto», infatti, nella triade dialettica del «soggettivo», dell’«oggettivo» e dell’«idea» è «l’esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito» e, dunque, è libertà come assenza di presupposto, essendo esso stesso l’origine, e come indipendenza assoluta che si fa da sé; ma non come autodeterminazione del volere, essendo la primordiale dialettica del concetto inconscia (cfr. ibi, vol. I, Introduzione, p. 32). La Logica è il sistema categoriale della libertà, in cui è sancito il superamento del residuo sostanzialistico moderno con l’attribuzione della libertà a una soggettività identificata col movimento del processo logico-metafisico. L’idea non resta in se stessa, ma con la libertà di un’assoluta necessaria spontaneità s’estrania da sé come natura: «L’esteriorità costituisce la determinazione nella quale l’idea è come natura» (Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaft, Berlin 1830, tr. it. di V. Cicero, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Roma-Bari 1989, § 247, p. 421), che è, a sua volta, l’idea nella forma di quell’alterità, di cui l’idea ha bisogno per poter giungere a comprendere se stessa. Nella natura, infatti, opera la contraddizione del particolare e dell’universale e perciò vige la legge della morte dell’individuo, in cui l’universale si riconcilia con se stesso e l’idea, tornando a se stessa, inaugura una forma superiore dell’assoluto e della sua libertà come spirito (Geist). Lo spirito è «l’idea in sé e per sé», realizzatasi nella natura e ritornata presso di sé, è la natura negata (nella morte degli individui) come esteriorità che riafferma l’idea «pervenuta al suo essere-per-sé». Lo spirito «è formalmente la libertà», è per essenza libero, perché è «presso di sé» e in qualunque suo contenuto trova se stesso. In tal senso la libertà, che è lo spirito, è anche «negatività assoluta», capaci6421

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Libertà tà di negare ogni determinatezza, ogni essenza e permanenza, salvo il proprio essere attività, ed è quindi anche capacità di trovare se stesso in ogni negazione (ibi, §§ 381-382). La vita dello spirito si sviluppa a sua volta in tre forme, soggettiva, oggettiva e assoluta. Lo spirito soggettivo è lo spirito «nella forma della relazione a se stesso» (ibi, § 385), come «anima», che si fa «coscienza» come io, e che diviene «ragione» come sapere della propria verità. Qui lo spirito soggettivo raggiunge la sua pienezza, che trascorre come attività teoretica, attività pratica e come loro sintesi, che è la libertà soggettiva (ibi, § 443). In questa sintesi la libertà ha una sua realizzazione di ulteriore pienezza, trascendente il solo «arbitrio» (Willkür), che ne è solo la manifestazione astratta. Infatti, la libertà d’arbitrio ha come contenuto determinate inclinazioni ed è privilegiamento di una tendenza rispetto a un’altra; esso è perciò «il processo della dispersione e rimozione di un’inclinazione o di un godimento mediante un altro», secondo connessioni che vanno all’infinito (ibi, § 478). Perciò – come era già scritto nei Grundlinien der Philosophie des Rechts (Berlin 1821, tr. it. di G. Marini, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 1987) – vi è qui solo «l’elemento formale del libero determinarsi», vi è solo «l’astratta certezza della volontà intorno alla sua libertà, ma non ancora la verità della libertà, perché [l’autocoscienza] non ha ancora se stessa per contenuto e fine» (ibi, §§ 14-15). La verità dell’«arbitrio» è invece la «libertà» (Freiheit), che non è più appagamento particolare, ma «appagamento universale» della volontà, che è la «felicità» (Glückseligkeit): «La verità della determinatezza particolare [...] dell’arbitrio [...] è la determinatezza universale della volontà in se stessa», cioè «l’autodeterminazione (Selbstbestimmung) s t e s s a d e l la v o l o n t à: l a l i b er t à » (E nzyclopädie..., tr. cit., §§ 478, 480), in cui vi è identità di forma e di contenuto del volere. In questo vertice della soggettività si annuncia lo «spirito oggettivo», in cui la libertà ha la sua realizzazione nel mondo. La libertà, infatti, ha come destino di realizzare se stessa in forme di mondo a sé appropriate, in un mondo creato dalla stessa libertà, il mondo dello spirito oggettivo. La libertà dello spirito è piena solo nella sua realizzazione storica. Qui l’ontologia fa circolo con l’accadere storico e la libertà moderna viene definitivamente sottratta alla limitazione individuale e interiore. Lo spirito 6422

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oggettivo si realizza come «diritto» (Recht), attuazione spontanea della volontà libera dei singoli io che entrano in rapporto tra loro; come «moralità» (Moralität) o interiorizzazione della giustizia come legge morale, avvertita da una «coscienza morale» (Gewissen) e vissuta come esperienza di libertà morale; infine, come «eticità» (Sittlichkeit), sintesi di diritto esteriore e moralità interiore e quindi concretezza della vita morale nella forma dell’appartenenza alle comunità e alle loro istituzioni: famiglia, società, stato. Dunque, «l’eticità è l’idea della libertà, idea intesa come il bene vivente [...] il concetto della libertà divenuto mondo sussistente e natura dell’autocoscienza» (Grundlinien der Philosophie des Rechts, tr. cit., § 142). La libertà concreta, infatti, è appartenenza a ciò che ci dà vita ed è il senso dello stesso libero arbitrio (libertà astratta) come capacità di adesione al bene. Pertanto la libertà è radicata nell’ethos, inteso (differentemente da Aristotele) come realizzazione storica dell’universale saputo, in cui l’uomo trova dimora. La pienezza della libertà, però, non avviene nella storia, ma è solo dello spirito assoluto, libero in-sé e per-sé, in cui la libertà dello spirito soggettivo, che è libero «per sé», e quella dello spirito oggettivo che è libero «in sé» (nelle forme storiche e istituzionali) si sintetizzano. Libertà, dunque, che è al di là della spontaneità soggettiva e delle regole oggettive, libertà appunto ab-soluta, che intuisce se stessa (artisticamente), che rappresenta se stessa (religiosamente), che pensa se stessa (filosoficamente). 5. Risoluzioni della modernità non idealista: Maine de Biran e lo spiritualismo francese, Lequier, Rosmini, Kierkegaard. – Il possente lavoro teorico di Kant e degli idealisti segna irreversibilmente il corso del pensiero moderno della libertà che, pur allontanandosi dai suoi presupposti teoretici, mantiene con quello un costante confronto critico. Nuove interpretazioni vengono offerte, che traggono alimento dalla tradizione spiritualistica francese; oppure, che recuperano la tradizione metafisica classica, sia agostiniana, sia tomista, in un confronto serrato con l’illuminismo e in particolare con Kant, come avviene in Rosmini; oppure, ancora, che affrontano con radicalità teoretica il nodo della libertà-necessità idealista e hegeliana in specie, come in Kierkegaard.

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Queste voci costituiscono, fuori e dopo l’ambito criticista e idealista, le forme del rilancio della questione della libertà nel contesto della prima metà dell’Ottocento, in cui venivano elaborate anche rinnovate negazioni della libertà o, per lo meno, della sua radice individuale. Materialismo, positivismo, evoluzionismo, marxismo e utilitarismo in diverso grado concepiscono la realtà dotata di una legalità che elimina o subordina o marginalizza la libertà umana. La realtà è il regno della necessità, il rispetto delle cui leggi costituisce lo spazio morale umano, cui spetta assecondare attivamente gli inesorabili processi naturali o quelli socio-storici ad essi assimilati. Il positivismo di Auguste Comte è propugnatore del determinismo sociale, secondo cui la vita sociale è necessitata allo stesso titolo di qualunque altro essere naturale. E, se è vero che la complessità delle serie causali, che costituiscono la realtà sociale, lascia un certo spazio all’iniziativa umana, questa però si realizza sensatamente non come arbitrio, ma solo come conformità alle leggi dell’ordine sociale e cosmico. Analogamente, ma con più stretto determinismo, l’evoluzionismo di Charles Darwin e di Herbert Spencer afferma il necessitarismo del processo evolutivo, rispetto al quale la libertà è solo il nome del caso risultante da combinazioni causali (Darwin) oppure della funzione di adattamento dell’uomo alla società e all’ambiente naturale. Il materialismo di un Jakob Moleschott, un Ludwig Büchner, un Carl Vogt porta agli estremi le posizioni dell’ultimo Feuerbach, con un riduzionismo naturalistico che subordina integralmente l’uomo e ogni sua facoltà alle leggi della necessità materiale. Contro tale materialismo, chiamato «volgare», passando attraverso una critica a Ludwig Feuerbach, Karl Marx e Friedrich Engels affermano un determinismo di tipo storico e dialettico, in cui la prassi umana non ha la libertà dell’indipendenza, essendo anzi essa stessa prodotto dello sviluppo storico, ma solo quella dell’iniziativa conforme delle leggi dialettiche della storia e della liberazione rivoluzionaria. Con John Stuart Mill l’utilitarismo sociale mette a tema della sua riflessione la libertà, in cui con ispirazione humeana la negazione del libero arbitrio, secondo lo schema della causalità deterministica del motivo sulla volontà, si coniuga con l’affermazione della responsabilità soggettiva dell’azione

Libertà e quindi della sua rilevanza sociale (teoria degli incentivi delle punizioni). François Pierre Maine de Biran parte da una critica dell’antropologia sensista, in particolare di Condillac, al quale rimprovera di non aver colto la distinzione tra la semplice affezione e la percezione, cioè tra il sentire e il sentire di sentire. Alle carenze del sensismo Maine de Biran risponde attraverso un’indagine di psicologia filosofica che parte da un «fatto primitivo», evidente e dotato di unità non scomponibile, attestato dal «sentimento della nostra esistenza» come «sentimento di un’attività». Il fatto primitivo è l’«effort», o sforzo, che è volizione e iniziativa, forza applicata e causa attiva, che si dà sempre in una relazione con una passività limitatrice. L’effort è rivelativo dell’io, entro il quale stanno i termini della relazione primitiva in cui si concreta lo sforzo stesso, essendo non l’«universo esterno», ma il corpo la prima condizione di possibilità della resistenza interiore (Essai sur les fondements de la psychologie et sur ses rapports avec l’étude de la nature, in Oeuvres, a cura di F. Tisserand, t. VIII, Paris 1932, sezione II). Al pari delle altre idee, anche quella della libertà non esprime il predicato di un’ipotetica sostanza, bensì il riflesso della consapevolezza immediata che l’io ha di sé come attività spontanea. «Porre in discussione la libertà – afferma Biran – significa mettere in dubbio il sentimento dell’esistenza dell’io, che da essa non si differenzia [...]. La libertà, o l’idea della libertà, [...] non è altro che il sentimento della nostra attività e del nostro potere di agire e di produrre lo sforzo costitutivo dell’io» (ibi, p. 250). Dunque, non qualunque reattività costituisce libertà, ma solo lo sforzo avvertito dalla coscienza come attività esercitata e non subita. L’effort è dunque coscienza dell’attività e della sua resistenza, in cui l’io si conosce e la «personalità» umana prende avvio. In una seconda fase del suo pensiero, iniziata con Rapports des sciences naturelles avec la psychologie (Paris 1814-15), Biran svolge il tema della polarità intrinseca all’effort in chiave di «anima» e «corpo», intese come due sostanze distinte e relate, con cui si profila un dualismo fra un principio di attività e di libertà e uno di resistenza e di determinismo, e, quindi, fra un «uomo interiore», centro del mondo intellettuale e morale e un «uomo esteriore» al centro del mondo della necessità (cfr. Oeuvres, cit., t. X, Paris 1937). Nell’ulteriore evoluzione in sen6423

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Libertà so religioso del pensiero biraniano la libertà è esaltata e insieme risolta nella «vita dello spirito», in cui l’anima nell’esperienza del «sentimento religioso» esce dal regime dell’effort per entrare in quello della «visione» e del «sentimento passivo» (cfr. Nouveaux essais d’anthropologie, in Oeuvres, cit., vol. XIV, Paris 1949, parte III; Journal, a cura di H. Gouhier, Neuchâtel 1954-57, vol. I, p. 227), in cui l’opera della libertà termina con il suo atto di acconsentimento alla «grazia» divina che sola può donare tale nuova condizione. L’identificazione di libertà e spontaneità come proprietà della coscienza è pensiero anche di Félix Ravaisson, che riprende l’idea dell’effort biraniano, come il fatto capitale che ci rivela ai noi stessi come un’esistenza situata al di fuori del corso della natura. Ravaisson è però anche preoccupato di evitare la polarizzazione di libertà e natura, di attività e passività. Dall’istinto alle abitudini fisiche più semplici, alla virtù in senso morale, l’«abitudine» – figura speculativa, ripresa da Aristotele – costituisce il modo della convergenza tra natura e spirito, la mediazione progressiva tra spontaneità e necessità e la manifestazione della libertà che anima la natura stessa. Non senza influssi della filosofia idealista della natura, Ravaisson afferma che «l’abitudine è la differenziale infinitesimale o, ancora, il fluire dinamico della volontà della natura. La natura è il limite del movimento di decrescenza dell’abitudine» e l’abitudine è «come una serie convergente infinita per l’avvicinamento del rapporto, reale in sé, ma incommensurabile dall’intelletto tra la natura e la volontà» (De l’habitude [Paris 1838], Paris 1957, tr. it. in Grande Antologia Filosofica, vol. XXII, a cura di M.A. Raschini, Milano 1975, p. 876). L’«abitudine» dimostra, dunque, che lo spirito può farsi natura e la natura può farsi spirito. Un allievo di Ravaisson, Jules Lachelier, in polemica con John Stuart Mill, rivendica il ruolo indispensabile della causalità finale anche nell’induzione scientifica. Questo lo conduce ad affermare la compatibilità di necessità e contingenza sia in natura, sia nell’agire umano e, quindi, a concepire la libertà non come libero arbitrio, ma come «potere di variazione» e fattore di novità (cfr. Du fondement de l’induction [Paris 1871], in Oeuvres, Paris 1933, vol. I, pp. 19-92). In Psychologie et métaphysique ([Paris 1885], in Oeuvres, cit., vol. I, pp. 167-219) l’analisi epistemologica e psicologica di La6424

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chelier si risolve in una riconsiderazione metafisica, prossima all’idealismo, secondo cui la libertà del pensiero e della volontà coincide con la «spontaneità infinita», con la libertà dell’assoluto che pone se stesso, in cui la libertà dell’uomo è solo l’ideale asintotico che presiede ai suoi atti (cfr. Sur la notion de la liberté morale [1903], in Oeuvres, cit., vol. II, pp. 121-123). Di immediata impostazione metafisica, con ascendenza schellinghiana, è infine la tesi di Charles Secrétan sulla natura infinita della libertà, che è tale solo in quanto coincide con quella dell’incondizionato, di colui cioè che ha in sé le condizioni della sua esistenza e, come pura attività senza limite, può dire «io sono ciò che voglio» (La philosophie de la liberté, Paris 18793 [1849], p. 364). Ma, «se l’essenza dell’essere esistente per sé è la volontà libera, è chiaro che la volontà è il principio di ogni essere, la sostanza delle sostanze e l’essenza universale» e ogni ordine del reale è un grado diverso di essa: in generale, «essere significa volere la propria esistenza» (ibi, p. 388), la creazione tutta è libertà che pone la libertà e il suo senso è l’amore che attende l’amore. All’uomo spetta perciò il compito di una progressiva ascesa individuale e collettiva verso la stessa libertà divina. Con il filosofo bretone Jules Lequier, formatosi da autodidatta sui testi di Aristotele, di Cartesio, di Kant e di Fichte, il problema della libertà riceve un’esasperata problematizzazione logico-antropologica, esterna a un quadro metafisico sistematico, che riafferma una nuova sensibilità incentrata sull’individuo e la sua indipendenza. Anzitutto è vero per Lequier che la libertà di scelta non è una qualità del fatto, bensì dell’atto. Contro Cartesio e contro il Bossuet del Traité du libre arbitre, Lequier afferma che non si dà esperienza della libertà. Il darsi, in situazioni indiscernibili, di accadimenti tra loro alternativi o di scelte alternative da parte di un medesimo soggetto, non prova nulla quanto alla qualità contingente dell’accadere o alla qualità libera dello scegliere, mancando inevitabilmente la condizione del darsi simultaneo delle alternative e quindi dell’irripetibilità delle circostanze e dell’unicità della scelta. (cfr. La recherche d’une première vérité, et autres textes, ed. a cura di A. Clair, Paris 1993, tr. it. La ricerca di una prima verità. Frammenti postumi raccolti da C. Renouvier, in Opere, a cura di A. Del Noce,

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Bologna 1968, p. 175). D’altra parte, secondo Lequier, neppure il senso intimo dell’effort proposto da Maine de Biran come fatto primitivo è evidente attestazione della libertà, bensì è solo testimonianza di spontaneità dell’agire. L’introduzione critica della libertà dovrà passare invece attraverso la considerazione della vita razionale, perché, secondo Lequier, «la libertà è l’essenza della ragione». Infatti, per poter comprendere gli stessi primi principi logici, occorre poter considerare come possibili a realizzarsi due situazioni alternative, secondo un’oscillazione formalistica che è propria del soggetto libero. Anche il giudizio implica una mossa della libertà, che afferma o nega il contenuto proposizionale: al pensiero umano, cui venisse per ipotesi sottratta la libertà, non resterebbe che una passiva «percezione di rapporti». Per questo Lequier parla della libertà come di un «postulato», non in senso esigenziale, ma piuttosto euclideo, come condizione di senso. A partire da Charles Renouvier, gli interpreti di Lequier sono soliti attribuirgli un’argomentazione sulla libertà in forma di dilemma, ricostruibile come segue. Chi afferma la libertà si trova di fronte a due ipotesi tra loro alternative: (a) egli afferma la libertà e la libertà c’è realmente; (b) egli afferma la libertà e la libertà non c’è. Se è vera l’ipotesi (a), allora si realizza questa situazione: (c) affermando la libertà, egli afferma il vero; se invece è vera l’ipotesi (b), ugualmente si realizza la situazione (c): infatti, il presunto errore di chi afferma la libertà, per ipotesi non potrà avere alternative perché tutto è necessario, e dunque coinciderà col vero. Dunque, chi afferma la libertà è comunque nel vero. Insomma, la libertà è per Lequier una sorta di trascendentale inaggirabile, sia come condizione pragmatica d’esercizio del giudizio, sia come contenuto semantico proposizionale. Quanto alla struttura interna della libertà, Lequier evidenzia dapprima l’aspetto dell’arbitrarietà, che si rivela come un’enigmatica capacità di produrre atti contingenti, senza esser costretti a sottostare ad alcuna norma assiologica; ma approfondisce poi l’abissalità dell’arbitrario, trovandone la ragione ultima nella misteriosa «responsabilità» che il soggetto libero si trova originariamente a vivere nei confronti dell’ideale regolativo del «meglio», rispetto al quale sono relativizzabili (e quindi sottoponibili ad arbitrio) tutti i contenuti d’azione di fatto praticabili. Nella prospettiva

Libertà di Lequier, non solo l’introduzione critica della libertà non presuppone l’attestazione di una metafisica della trascendenza, ma la negazione di metafisiche incompatibili con l’attestazione della libertà, come il panteismo (diversamente dalla tesi di Schelling), che sottrarrebbe al soggetto umano la possibilità di fare qualcosa che Dio non stia già facendo al suo medesimo livello. Piuttosto Lequier ha forte il senso del cominciamento, come creatività assoluta (cfr. La recherche..., tr. cit., p. 189), e dell’indipendenza, che la libertà umana possiede in rapporto a Dio stesso, pur nella sua dipendenza creaturale: «L’uomo autore delle sue azioni, a cagione della libertà non lo è della sua libertà» (ibi, p. 191); così «io sono libero; io sono al di là della mia dipendenza indipendente e dipendente al di là della mia indipendenza; io sono un’indipendenza dipendente» (ibi, p. 189). Ma, soprattutto, «io sono una persona responsabile di me, che sono la mia opera, a Dio che mi ha creato creatore di me stesso» (ibid.); «la persona umana! Un essere che può qualcosa senza Dio! Che può, se le piace, preferirsi a Dio, che può volere quel che Dio non vuole» e viceversa. «Prodigio che fa tremare: l’uomo delibera e Dio attende» (ibi, p. 190). Antonio Rosmini, appoggiandosi sull’oggettività dell’essere ideale, intende rifondare quei caratteri di imperatività e di universalità pratica che l’utilitarismo degli idéologues aveva di fatto eliminato come criteri di giudizio morale. In questa direzione va interpretata la teoria dell’intrinseca conoscibilità e amabilità dell’essere, a partire dall’ordine con cui si manifesta nei «reali presenti». Tale esigenza di fondare l’imperativo morale sul lume oggettivo della ragione, che «riconosce» l’essere nel suo preciso «ordine», costituisce il lato pratico della distanza di Rosmini da Kant. La critica di Rosmini al filosofo di Königsberg riguarda, infatti, l’idea di autonomia morale come obbligazione che il soggetto stabilisce con se stesso. In tale idea di autonomia ragione e libertà vengono a identificarsi, producendo un doppio errore, quello per cui alla ragione, cui spetta solo la conoscenza della legge, viene attribuita anche la sua statuizione oggettiva, e quello per cui la libertà, che per il primo Rosmini è solo fonte dell’esecuzione o non esecuzione della legge, diventa fonte della legge che la obbliga. 6425

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Libertà Sulla base delle posizioni teoretico-gnoseologiche del Nuovo saggio sull’origine delle idee (Roma 1830), nei Principi della scienza morale (Milano 1831) il problema morale viene ripensato in una nuova e più autentica formulazione dell’ imperativo categorico: «Ama gli essenti tutti» (Principi della scienza morale, in Opere edite ed inedite, vol. XXIII, a cura di U. Muratore, Roma 1990, p. 107). È in quest’opera che Rosmini pone con chiarezza il problema della compossibilità dell’«amor pratico» prevalente che spinge all’azione e la libertà, proponendo una teoria della libertà dell’amore in opposizione alla tradizionale limitazione moderna della libertà all’azione. La libertà, infatti, opera nel formare e determinare l’amore, poiché essa consiste nell’amare o non amare le azioni, nell’accrescere o diminuire l’amore o l’odio verso di esse: «Questa nostra potenza che si chiama libertà, si esercita adunque prima sugli affetti poi in sulle azioni stesse [...], in somma le azioni sono libere, ma della libertà degli affetti» (ibi, p. 125). Come sia possibile la «libertà degli affetti» è questione che Rosmini risolve rielaborando una dottrina di stampo tommasiano sulla sinergia di affetti e ragione nel giudizio pratico: l’affetto di cui si parla è affetto di un essere intelligente, che implica la «stima» di ciò che è amato sulla base di un giudizio. «L’oggetto primo, immediato e proprio» della libertà è dunque «la stima o il giudizio pratico che l’uomo porta sugli oggetti contemplati dalla sua mente». Giudizio che è un «atto di riflessione», un «vagheggiamento» dei loro pregi, una sorta di attenzione riflessiva, «atto volontario dello spirito» che impregna di libertà gli «affetti» (ibi, pp. 126-127). Infatti, scrive nella Filosofia del diritto, «la volontà e la libertà o ha luogo nel giudizio, o non ha più luogo nessuno nella natura umana. [...] Il giudizio adunque della bontà delle cose, quel giudizio che precede e informa gli affetti e le operazioni che volontarie si chiamano, è desso quello, in cui la volontà spiega da prima la sua forza, e in cui ella risiede come in trono, dominatrice delle potenze inferiori. I molti errori contro la libertà nacquero dalla falsa supposizione che tutti i giudizj sieno necessari, e che l’uomo non abbia mai in suo libero potere il giudizio delle cose» (Filosofia del diritto, vol. I, in Opere edite e inedite, vol. XXXV, a cura di R. Orecchia, Padova 1967, pp. 57-58). L’ulteriore riflessione morale di Rosmini, avviata con l’Antropologia in servizio della scienza 6426

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morale (Milano 1838), si pone il problema di come l’ordine ontologico possa costituire un criterio universalmente obbligante per una libertà operante secondo un motivo che determini la volontà (Antropologia in servizio della scienza morale, in Opere edite e inedite, vol. XXIV, a cura di F. Evain, Roma 1981, n. 606). Rosmini distingue tra «volizione» ed «elezione», facendo della causalità intrinseca e originaria di quest’ultima l’atto proprio della libertà: «Perocché la causa sua è una speciale attività dello spirito», che è in ciò «essenzialmente signore, dominatore, causa» (ibi, n. 639). Questo ruolo attivo e produttivo della libertà assume la sua figura definitiva negli ultimi scritti. Soprattutto nella Teosofia (Torino 1859-74), la moralità viene concepita come progressivo perfezionarsi della relazione con Dio, in uno spazio metafisico di dipendenza ontologica, che è insieme il luogo concreto delle libere risposte all’appello della libertà divina. La moralità si chiarisce sempre meglio come rapporto dinamico fra due libertà e sempre meno come rispecchiamento di una coerenza ontologica già data (cfr. Teosofia, in Opere edite e inedite, vol. XIV, a cura di M.A. Raschini - P.P. Ottonello, Roma 1999, n. 1392). La morale diventa quell’atto che, entro la stessa amabilità ordinata della realtà, scorge l’intenzione di un esistente sovranamente personale e ne cerca liberamente l’accordo. Se Rosmini ha come referente privilegiato l’inizio del processo di pensiero che da Kant va all’idealismo, Søren Kierkegaard ripensa ab imis la libertà, come alternativa all’idealismo, hegeliano in specie. Come nell’idealismo, la libertà non è in Kierkegaard un tema specializzato, ma coincide con la questione della natura del fondamento. Fondamento che non è posto da Kierkegaard in termini di «essere» ed «essenza», ma in termini di «esistenza». Mentre l’essere – nella sua accezione idealistica, ma condivisa già da Parmenide secondo Kierkegaard – è eguagliabile dal pensiero, cioè dal «pensiero oggettivo», l’esistenza è esattamente ciò che esso non può pensare. ll pensiero oggettivo è pensiero dell’essere come necessità, è pensiero della logica necessitante e della dialettica che cerca di dare movimento e divenire al necessario. L’esistenza è invece libertà e libera attività, trascendenza e storia, che non possono essere oggettivate in nessun sapere, bensì piuttosto credute.

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A fondamento di questa critica sta l’interpretazione kierkegaardiana del divenire e la dottrina del primato ontologico del possibile. «La mutazione del divenire è il passaggio dalla possibilità alla realtà» (Philosophiske Smuler eller En smule Philosophie, København 1844, tr. it. a cura di C. Fabro, Briciole di filosofia. Ovvero una filosofia in briciole, Firenze 1972, p. 238), la realtà è sempre preceduta dalla possibilità, che non è hegelianamente (ma anche già hobbesianamente) ciò che possiede tutte le condizioni per divenir reale, e che quindi lo diviene necessariamente, ma è ciò che potrebbe non essere o essere diversamente. Per Hegel, infatti, il necessario è la sintesi di possibile e reale e dunque ne è la verità, così che il necessario sta a fondamento e dunque in essenza tutto è necessario. Per Kierkegaard, al contrario, se c’è divenire, c’è possibilità e se c’è possibilità, a fondamento non sta la necessità, che «non può affatto cambiare», ma la libertà; perciò libertà e necessità non sono affatto convertibili, ma irriducibili. «Ogni divenire – afferma Kierkegaard – si compie con libertà, non per necessità: nulla diviene in virtù di una ragione (necessaria), ma tutto dipende da una causa», che in ultima istanza non può essere che una causa libera (ibi, pp. 238-239). Se ogni divenire ha dunque a suo fondamento la libertà (divina), l’esistente umano non solo diviene, ma è attiva capacità di far accadere, è esso stesso esistenza libera e perciò non solo dipendente, ma in relazione libera alla libertà divina. Perciò il rapporto dell’esistente libero alla realtà diveniente e divenuta, che ha origine dalla libertà, non può esercitarsi adeguatamente nella forma della conoscenza oggettiva, ma solo in quella della «fede», cioè di un atto di conoscenza che è insieme un «atto di volontà», in cui la soggettività è implicata nella verità che afferma: la verità si manifesta solo «soggettivamente», perché in generale solo la libertà può entrare in autentico rapporto con la libertà. Libertà significa che ciò che accade non è deducibile da ciò che precede, che non si dà spiegazione in forza di ciò che antecede; per questo l’esistenza sfugge al sapere oggettivo e di essa è impossibile dare un sistema. Il pensiero oggettivo fa della libertà qualcosa d’inesplicabile e non può concludere che alla necessità e, da questo punto di vista, Spinoza è l’esito coerente e insuperabile. La libertà, invece, è inoggettivabile e, presupponendo solo

Libertà se stessa, è in certo senso infinita. Per questo l’esercizio della libertà, quanto più è consapevole, tanto più è colto da «vertigine» e fa esperienza dell’«angoscia»; anzi, «l’angoscia è la possibilità della libertà», perché è nello spazio vuoto dell’angoscia che la libertà può esercitarsi secondo la sua illimitata portata e nell’infinità della sua ultima implicazione, che è il rapporto con la libertà infinita di Dio: solo «colui che è formato dall’angoscia, è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità» (Begrebet Angest, København 1844, tr. it. di C. Fabro, Il concetto dell’angoscia, Firenze 1953, p. 194). Nella vertigine dell’angoscia l’uomo scopre d’essere libero, ma anche cade – come ne ha fatto esperienza Adamo – e così esperimenta la colpa che, diversamente dalla necessità, è il vero «opposto della libertà», perché l’uomo colpevole è privato della libertà (ibi, p. 167). L’esistenza-libertà, dunque, è strutturata secondo il rapporto di finito e infinito, perché l’uomo è «una sintesi d’infinito e di finito, di tempo e d’eternità, di possibilità e necessità, insomma una sintesi». Ma «l’uomo è spirito» e lo spirito «è un rapporto che si rapporta a se stesso» e che, essendo finito, è dato a se stesso, è un rapporto «posto da un altro». L’«io dell’uomo» è allora tale rapporto posto, un rapporto cioè che «mettendosi in rapporto con se stesso, si mette [anche] in rapporto con un altro». (Sygdommen til Döden, København 1849, tr. it. a cura di C. Fabro, La malattia mortale, in Opere, vol. III, Casale Monferrato 1995, p. 22). Le diverse forme d’esistenza, estetica, etica o religiosa, sono diverse modalità secondo cui la libertà può decidere di sé, ma in cui anche la libertà deve scegliere a riguardo del rapporto di finito e infinito in cui l’io umano è posto. La colpa consiste nell’incapacità di reggerne l’abisso, disperando dell’infinito nell’attaccamento edonico del momento, in cui la libertà si vive come ripetizione dell’identico finito (don Giovanni); disperando del finito, la vita etica che è libertà di ripresa fedele del valore ideale (il marito), nella cui riaffermazione però l’infinito non è mai raggiunto. Solo nella scelta per Dio, come quella di Abramo, la libertà coincide con la fede e «la disperazione è completamente estirpata», perché qui «mettendosi in rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l’io si fonda in trasparenza nella potenza che l’ha posto» (ibi, p. 626). 6427

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Libertà L’essenza della libertà, dunque, non è il libero arbitrio, che è solo l’inizio della libertà e la sua «determinazione formale», ma la dedizione per Dio e l’eccesso dell’obbedienza a Lui di là dalle giustificazioni razionali che se ne possano dare. Più della scelta è «il contenuto della libertà» ad essere «decisivo a tal punto [...], che la verità della libertà di scelta è appunto di ammettere che qui [nell’orientamento fondamentale della libertà] non ci deve essere scelta, benché sia una scelta», per cui per «salvare e conservare» la libertà e la sua scelta «non c’è che una via, quella [...] di renderla a Dio e te in essa» (Diario, tr. it. di C. Fabro, vol. II, Brescia 1963, pp. 34-35, n. 2148). Unicamente la fede rispetta la vera natura del rapporto tra libertà finita e libertà infinita, in cui solo questa è in grado di donare l’indipendenza, perché solo «l’onnipotenza può riprendere se stessa mentre si dona» e costituire «l’indipendenza di colui che riceve». Solo Dio, in altri termini, è «buono»: solo Dio onnipotente può produrre «la cosa più fragile di tutte», una natura indipendente rispetto all’onnipotenza. «La creazione dal nulla esprime [...] che l’onnipotenza può rendere liberi» (ibi, vol. I, Brescia 1962, pp. 512-513, n. 1017). 6. La libertà come energia metarazionale: Schopenhauer e Nietzsche. – La figura idealista dell’«inconscio» introduce un elemento fortemente innovativo anche per la filosofia della libertà, che mostra tutta la sua portata quando entra in crisi il principio (attivo, dialettico, rivelativo) della possibile e necessaria razionalizzazione dell’inconscio stesso. In Arthur Schopenhauer lo schema del dualismo kantiano funziona precisamente come impedimento alla razionalizzazione idealista dell’inconscio, che quindi conduce alla riproposizione dell’idea di libertà trascendentale in chiave irrazionalistica. Per Schopenhauer le forme a priori della conoscenza si riducono a tre, spazio e tempo a livello sensibile, causa a livello intellettuale, così la realtà tutta è appresa necessariamente secondo le dimensioni della posizione, della successione e dell’attività causale (cfr. Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, 1813). Nel mondo della rappresentazione – e «il mondo è la mia rappresentazione» – la libertà è perciò radicalmente esclusa. Diverse sono le forme della causalità a livello dell’inorganico, del vivente, dell’uomo, ma anche là dove la causalità passa attraverso la cono6428

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scenza nella forma del «motivo», in quanto si dà rapporto di causa, si dà determinismo. Per questo anche la conoscenza umana, benché possa essere svincolata dalla motivazione immediata in forza di rappresentazioni di cose lontane nel tempo o nello spazio o di cose astratte, resta comunque dipendente dalla causazione motivazionale e dunque necessitata; in ogni caso vi è necessitazione motivazionale e perciò rispetto all’immediatismo della conoscenza animale, nella conoscenza umana cambia solo «la lunghezza del filo conduttore» che collega la causa all’effetto (Preisschrift über die Freiheit des Willens, in Die Beiden Grundprobleme der Ethik, Frankfurt a.M. 1841, tr. it. a cura di C. Calabi, La libertà del volere umano, Milano 1998, p. 84). Nonostante la sua somiglianza con il meccanicismo secentesco e il materialismo ottocentesco, il determinismo schopenhaueriano non è ad essi assimilabile per la sua componente vitalistica (influenzata dalle dottrine goethiane), che integra la sua dottrina della causa. Ogni causazione, infatti, ha per Schopenhauer due coefficienti, uno esterno e uno interno, rispetto a cui la causa determinata ha solo la funzione esterna di provocazione e di innesco del mutamento, che però ha bisogno di un’energia interna per accadere, allo stesso modo per cui il magnetismo presuppone l’energia dell’elettricità e il chimismo le «affinità elettive» per render conto dell’efficienza dei loro nessi causali particolari. Nel caso dell’uomo, la causalità della motivazione presuppone una forza originaria interna: questa è la «volontà», che coincide in ogni agente con il suo «carattere» particolare, che dà energia attuativa (la produzione del singolo atto) al fattore esterno costituito dal motivo. L’identico e stabile carattere d’ogni uomo è così alla base dell’intera concatenazione causale provocata dai motivi, come una forza interna, inspiegabile e irrappresentabile, motrice totale e autonoma dell’agire umano. Nessuno perciò può sottrarsi all’orientamento prestabilito del proprio carattere e alla causazione necessaria dei motivi, per cui la libertà attestataci dall’autocoscienza è illusoria in riferimento alla scelta e ha valore solo in rapporto – come già affermato dalla filosofia postcartesiana – alla libertà d’azione. Il processo deliberativo, infatti, non è esercizio del libero arbitrio, ma è solo l’ambito del confronto dei motivi, che, numerosi nell’uomo, si scontrano tra loro, finché quello più forte de-

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termina necessariamente la volontà dell’agente. In tale campo di battaglia la ragione non ha modo di intervenire, potendo essa entrare in azione solo come successiva valutazione dei mezzi attuativi della determinazione arazionale della volontà; per cui si deve dire non che l’uomo vuole ciò che conosce, ma che conosce ciò che vuole: «La volontà è la vera essenza dell’uomo, mentre l’intelletto è secondario, è uno strumento, un’attrezzatura» (Die Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig 1819, tr. it. a cura di A. Vigliani, Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano 19995, p. 1034; cfr. ibi, Supplementi al secondo libro, cap. 19: Del primato della volontà nell’autocoscienza, pp. 992-1053). Il determinismo non è però l’ultima parola; al contrario, se la necessità riguarda l’ambito fenomenico, al di là di esso si estende illimitatamente l’ambito irrappresentabile della libertà, come libertà, in questo nuovo senso, «trascendentale». Fuori del mondo della rappresentazione c’è la «cosa in sé», per la quale non valgono le forme a priori della sensibilità e della ragione, né il conseguente principium individuationis. La cosa in sé è metarappresentativa e metaindividuale: può essere nominata solo come «Wille». Volontà, di cui l’uomo fa oscura esperienza nel suo «carattere» e che sente nel corpo proprio, non come fenomeno oggetto di rappresentazione, ma come energia e forza vitali. Volontà che, al di la delle forme individuate del corpo e del carattere, è in se stessa forza assolutamente unitaria, onnipresente, ma non plurale; «cieco irresistibile impeto»; «volontà di vivere» senza tempo e senza motivazione, quindi perfettamente autonoma; è essa, dunque, «essenza interna dell’uomo in sé», la libertà «trascendentale» e «assoluta». Dunque l’«errore fondamentale [...] di tutti i tempi» è stato «quello di attribuire la necessità all’esse e la libertà all’operari», mentre è vero l’esatto contrario, che la libertà cioè non sta nell’operazione fenomenica, ma nell’essere noumenico. In questo senso è attribuibile una verità al senso di autonomia e di responsabilità che accompagna l’agire umano, purché se ne riponga la sorgente nell’«inaccessibile» «regione superiore [...] trascendentale», in cui sta la «libertà morale» dell’uomo (Preisschrift über die Freiheit des Willens, tr. cit., pp. 156-158). La libertà trascendentale può divenire esperienza per l’uomo, se, per un evento di «grazia», giunge – attraverso i gradi esperienziali del bello estetico e della compassione etica –

Libertà al pensiero dell’essenziale unità del tutto penetrato dall’identica volontà di vivere. A questo livello è possibile trascendere il principio di individuazione e negarsi come fenomeno tra i fenomeni, negando la volontà di vivere e di individuazione possessiva e capovolgendo la «voluntas» nella «noluntas», energia e forza allo stato puro, sottratta alla costrizione della brama di ciò che deve continuamente misurarsi con la condizione limitativa e competitiva dell’individuazione. È questo l’autentico «unico atto di libertà possibile nel fenomeno» (Die Welt als Wille und Vorstellung, tr. cit., p. 519). Anche per Friedrich Nietzsche la negazione della libertà è funzione dell’affermazione d’una libertà superiore e diversa, di un’«oltrelibertà», si potrebbe dire, quale modo d’essere dell’annunciato «oltreuomo». Ma, contro Schopenhauer, ciò è affermato in opposizione a ogni visione dualista della vita. «La storia dei sentimenti umani – scrive Nietzsche in Umano troppo umano – è la storia di un errore, dell’errore della responsabilità: il quale riposa sull’errore della libertà del volere» (Menschliches, Allzumenschliches, Chemnitz 1878, tr. it. di S. Giametta - M. Montanari, Umano troppo umano, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. IV, t. II, Milano 1965, § 39, pp. 4950). Tale negazione della libertà non avviene in nome di un ormai classico determinismo (i cui accenti peraltro non mancano in Nietzsche), ma come esito del superamento della questione stessa della libertà, intesa come indipendenza del soggetto dal mondo. «Il desiderio del libero volere», afferma in Al di là del bene e del male, coincide con «il desiderio di portare in se stessi l’intera e ultima responsabilità per le proprie azioni e di esimere da essa Dio, mondo, progenitori, caso, società», presumendosi «causa sui» (Jenseits von Gut und Böse, Leipzig 1886, tr. it. di F. Masini, Al di là del bene e del male, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, t. II, Milano 1968, § 21, pp. 25-26). La premessa dell’affermazione della libertà è dunque l’isolamento (con la complicità della parcellizzazione e oggettivazione del mondo operata dal linguaggio) della volontà umana dal corso dell’universo e della sua unitaria concatenazione, come se la decisione umana non facesse parte della vicenda dell’universo; la credenza nella libertà del volere è inconciliabile infatti con l’idea di un fluire costante e omogeneo, ma presuppone l’isolamento di ogni singola azione (cfr. Menschliches, Allzumenschliches, tr. 6429

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Libertà cit., § 11). Ma anche la negazione della volontà, da parte dei deterministi, segue la stessa logica, in prospettiva rovesciata, di considerare l’uomo come determinato da cause affatto separate. Per il determinismo (il «fatalismo turco», come lo chiama Nietzsche; cfr. Menschliches, Allzumenschliches, tr. cit., § 61) il mondo è concepito come un incombente fato separato e contrapposto all’uomo, così come per i «credenti nel libero arbitrio» l’uomo è pensato a parte dal mondo. In entrambi i casi non è possibile l’unica autentica libertà, che consiste nella piena adesione dell’uomo al cosmo, nella totale concordia con il mondo, in una nuova e completa «fedeltà alla terra» (cfr. Also sprach Zarathustra, Chemnitz 1883, tr. it. di M. Montanari, Così parlò Zarathustra, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, t. I, Milano 19732, Prefazione, § 3). La questione della libertà si riconduce così a quella della relazione con il mondo e all’alternativa tra la sua accettazione e il «risentimento» contro di esso. In realtà, la libertà è ciò di cui è capace solo l’oltreuomo, colui che ha abbandonato sia la passività nei confronti del mondo, sia la reattività ribelle della volontà «contro». C’è libertà solo per chi è nella posizione del «fanciullo», raffigurato nel discorso Delle tre metamorfosi (cfr. Also sprach Zarathustra, tr. cit.), in opposizione al passivo «cammello» e al reattivo «leone», come colui che è capace di dire «un sacro sì» alla vita, in intimo concorde rapporto con l’universo, considerato non come ciò che è altro e opposto, ma come ciò in virtù di cui egli è ciò che è. La dottrina dell’«eterno ritorno» s’inscrive in questa prospettiva, come tentativo di rimuovere il fondamentale ostacolo alla messa in equazione di universo e volontà, quello costituito dalla datità del passato, rispetto a cui l’impotenza e la passività sembrano insuperabili. L’eterno ritorno comporta una trasvalutazione (Umwertung) del tempo, assimilandone il corso all’istante e riconducendo il passato e il futuro alla disponibilità del presente e alla potenza della decisione in esso giocata. Se tutto è posto nella ripetizione del ritorno, nulla è irreversibile e tutto è disponibile alla volontà, che a questa condizione può redimere se stessa, conciliandosi con il tempo e con ciò che sta oltre ogni «conciliazione»: «Ogni “così fu” è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica: “Ma così volli che fosse!”» (ibi, Della reden6430

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zione, p. 172). La volontà così redenta può stare nella realtà come il «fanciullo», che gioca con essa, cioè agisce non per un utile servile, ma con sovrana libertà, che sa assumere su di sé anche la necessità e la sofferenza. Questa libertà è esercizio della «volontà di potenza», cioè della potenza che unica veramente vuole, perché né si difende dalla realtà, né l’aggredisce, ma vuole come suo tutto ciò che accade e dunque vuole la potenza di cui è fatto il mondo nel suo flusso dionisiaco. La libertà è allora impulso alla generazione, alla realizzazione, a ciò che è superiore, ma senza ordine e senza scopo prestabiliti; anzi, la libertà stessa infrange l’«antica e folle illusione, che si chiama bene e male» e, rovesciando la posizione di Kierkegaard, apre lo spazio della possibilità: «Tutto è libertà: tu puoi, perché vuoi!» (ibi, Di antiche tavole e nuove, p. 246). IV. FILOSOFIA CONTEMPORANEA. – La variegata e complessa vicenda della filosofia del Novecento ha una sua chiave di lettura, in negativo, nella crisi della metafisica, intesa come pensiero dell’intero dato a priori e come fondazione dotata di pretesa deduttiva. Quale espressione di tale crisi è possibile interpretare il rilievo che nell’ambito della filosofia contemporanea ha la riflessione sulla ragion pratica, intesa come forma primaria dell’esperienza e della razionalità. Si pensi alle varie forme del pragmatismo; all’idea di «azione» come cardine dell’antropologia dinamica della filosofia spiritualista; al prassismo neostoricista e neomarxista; al neopositivismo con il suo criterio epistemologico della verificazione empirica; alla «teoria dell’azione» ovvero della scelta razionale con la sua rilevanza in rapporto alle contemporanee scienze umane o scienze pratiche; all’agire linguistico come criterio di senso nel secondo Wittgenstein; al primato del pratico nel primo Heidegger; alla cosiddetta «riabilitazione della filosofia pratica» di orientamento kantiano e aristotelico e di ambito ermeneutico e politico; al rilievo della pragmatica linguistica e dell’agire comunicativo per le varie forme dell’etica del discorso; all’idea dell’etica come «filosofia prima» in Lévinas; all’idea di «pratica» nella riorganizzazione dell’esistenza proposta dal comunitarismo; alle forme del convenzionalismo neoliberale ecc. In tale contesto la questione della libertà non è una tra le molte problematiche, bensì è universalmente sottesa, in senso affermativo o negativo. D’altra parte, l’interesse prevalente-

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mente antropologico (psicologico e storicosociale) mette in secondo piano l’aspetto fondativo del problema della libertà, a favore di un’ampia e quasi illimitata fenomenologia. Per questo la libertà diventa anche un tema più difficilmente definibile, in sé e nel suo confronto con l’ormai più che millenaria storia della sua trattazione. Diventa perciò inevitabile trattarne attraverso una forte e consapevole selezione, che può evidenziare solo le tematizzazioni maggiori che si stagliano in modo paradigmatico sull’orizzonte di una diffusa interrogazione sull’esperienza e la natura della libertà. 1. Bergson, lo spiritualismo francese, Blondel e il personalismo cristiano. – La figura più rilevante e di maggior influsso nel passaggio di secolo è sicuramente Henri Bergson, nel quale i temi tipici della tradizione spiritualista (coscienza e libertà in opposizione a oggettivismo e necessità) trovano un’elaborazione peculiare a partire anche da un’aggiornata competenza in ambito scientifico. Già l’Essai sur les données immédiates de la conscience (Paris 1889, tr. it. di G. Cavallaro, Saggio sui dati immediati della coscienza, Roma 1957), che si presenta come una trattazione del problema della libertà, contiene le posizioni bergsoniane fondamentali. Le obiezioni all’esistenza della libertà dipendono dalla concezione della coscienza come somma di atti successivi secondo un tempo omogeneo, concepito sul modello dello spazio. Noi pensiamo per lo più nello spazio, sostenuti in ciò dal linguaggio e dalle sue partizioni, a cui corrisponde la funzionalità pratica del pensiero concettuale, volto a dominare e a manipolare la realtà. Così anche l’esperienza interiore del tempo, la «durata reale», che è un processo di organizzazione e di mutua penetrazione degli elementi, è proiettata esteriormente e la sua successione senza esteriorità reciproca viene sostituita con l’esteriorità reciproca senza successione dello spazio. Di qui l’idea erronea di considerare «la pura durata come qualcosa di analogo allo spazio, ma di natura più semplice» (Essai sur les données immédiates de la conscience, tr. cit., p. 63). La concezione deterministica procede a sua volta da un’«illegittima traduzione dell’inesteso in esteso, della qualità in quantità» (ibi, Prefazione, p. 37), cioè da un’acritica spazializzazione dell’esperienza e quindi dal suo trattamento secondo l’ordine meramente quantitativo inapplicabile alla coscienza interiore. L’associazionismo psicologi-

Libertà co, per esempio, presuppone l’esistenza di rappresentazioni separate che si rapportino secondo leggi di aggregazione, mentre in realtà in ogni momento della durata essa è presente nella sua totalità che si va facendo unitariamente e non per associazione di parti. Analoga critica è possibile rivolgere alla concezione della libertà come libero arbitrio, che Bergson identifica con la libertà di indifferenza della tradizione volontarista, perché si rappresenta la libertà come alternativa tra momenti separati e contrapposti della vita interiore. Piuttosto la libertà consiste nell’autodeterminazione della totalità spirituale, nell’«evoluzione sui generis» della durata, nella quale ogni azione scaturisce dai suoi antecedenti e insieme aggiunge qualcosa di nuovo (cfr. Matière et mémoire, Paris 1896, tr. it. di A. Pessina, RomaBari 1996, in particolare il cap. III: La sopravvivenza delle immagini. La memoria e lo spirito). In questo senso, come aveva scritto nell’Essai (tr. cit., p.78), «siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra personalità intera, quando la esprimono». Proprio per questo, secondo Bergson, gli atti veramente liberi, veramente espressivi della durata interiore, in cui la coscienza è totalmente impegnata, sono rari. Così come la libertà quanto più è se stessa, tanto più sfugge alla presa intellettuale e tanto meno è concettualizzabile e definibile. Con L’évolution créatrice (Paris 1907) Bergson imprime una svolta in senso cosmico-metafisico alla sua filosofia, in cui anche la libertà è dilatata a esprimere l’energia produttiva di novità interna all’evoluzione cosmica. La coscienza e la sua libertà pervadono così l’universo in una gradualità di espressioni, in cui il modello emanazionistico neoplatonico e quello della filosofia idealista della natura fanno sentire il loro influsso. Lo spiritualismo francese prosegue la sua corsa anche nel Novecento, aggiornando il suo programma umanistico e filosofico con forme filosofiche diverse. Lo spiritualismo si oppone allo scientismo, rivendicando l’irriducibilità della coscienza e quindi il primato dell’interiorità dell’uomo. Quanto scrive Louis Lavelle, «la filosofia francese è per eccellenza la filosofia della coscienza» (La philosophie française entre les deux guerres, Paris 1942, p. 7), può essere preso come insegna dell’impresa che nel 1934 con René Le Senne e altri aveva avviato come collana editoriale intitolata appunto «Philosophie de l’Esprit». L’interiorità della coscien6431

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Libertà za è il luogo del raccoglimento e dell’iniziativa, della memoria e del cominciamento, è il luogo della libertà. Interiorità e libertà costituiscono la persona, cioè il soggetto nella pienezza del suo significato, irrisolvibile nei determinismi della materia, ma anche in totalità metafisiche sovrapersonali o impersonali. Di conseguenza, nell’orientamento filosofico spiritualistico ha un significato peculiare l’«esperienza», non intesa come esperienza d’oggetto, bensì come modo di attestazione della realtà spirituale e della sua autopercezione; quale realtà che sussiste sempre e solo in forza della sua stessa attività, come cominciamento di sé e intrinseca libertà, che solo in un secondo momento può essere pensata e rischiosamente oggettivata. Per Lavelle la vita spirituale inizia con la presa di coscienza dell’attività che ci costituisce, essendo, anzi, «l’attività sperimentata nel suo esercizio» la coscienza stessa (De l’âme humaine, Paris 1951, p. 30), e culmina con il continuo trascendere la propria passività in direzione dell’iniziativa infinita, dell’atto assoluto. In questo trascendere si esercita la sua libertà costitutiva, con cui l’esperienza spirituale vive la sua «partecipazione» al mondo, a se stessa e agli altri. Il primato del senso «operativo» e relazionale dello spirito è forte in René Le Senne, per il quale lo spirito è «l’unità operativa d’una relazione in esercizio, interiore ad esso, tra esso stesso come spirito infinito e la moltitudine degli spiriti finiti» (Qu’est-ce que l’esprit?, cap. II di Esquisse d’une description philosophique de l’esprit, in Introduction à la philosophie, Paris 19473, pp. 253-270, tr. it. Che è lo spirito, in La filosofia dello spirito, a cura di M.F. Sciacca, Torino 1951, p. 66). Questo operare in relazione definisce l’ambito della libertà spirituale, alternativa sia al solipsismo sia al panteismo, che si realizza nella costruzione dell’ordine con la quale gli stessi limiti alla libertà sono messi a servizio della nostra volontà (cfr. Le Devoir, Paris 1930). Assimilabile allo spiritualismo, benché in modo peculiare, è il pensiero di Piero Martinetti, per il quale la realtà della libertà umana si risolve interamente sul piano metafisico-religioso, in coerenza con l’intero impianto della sua speculazione (cfr. Introduzione alla metafisica, Genova 19874 [Torino 1902]). La sua analisi prende le mosse dalla considerazione del determinismo e dell’indeterminismo, come soluzioni insufficienti. In particola6432

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re la posizione di un soggetto autonomo dinanzi a Dio equivale per Martinetti alla negazione sia del principio di causalità universale, sia a quella di Dio come omnitudo realitatis: «È contraddizione anche solo il pensare che Dio abbia potuto produrre un essere altro da sé: non vi è altro essere che Dio e un essere da lui sostanzialmente distinto è impensabile». Dunque, «non vi è altra via per salvare la libertà che salvare, come dice Schelling, l’uomo stesso con la sua libertà in Dio. Assumere cioè che ciò che nell’uomo costituisce l'essenza della libertà, appartenga, come un momento assoluto di Dio, a Dio stesso» (La libertà, Torino 19654 [Milano 1928], pp. 442, 444). La libertà non è libero arbitrio, interpretato da Martinetti come libertas indifferentiae, ma è essenzialmente «spontaneità». «L’attività interiore – afferma Martinetti con chiari accenti bergsoniani – è una corrente cosciente spontanea: e noi diciamo che un nostro atto è libero quando emana dalla nostra personalità intiera. È tanto meno libero invece quanto meno la serie a cui si riattacca si confonde col nostro io fondamentale» (ibi, p. 100). Il secondo significato della libertà è la «libertà morale», cioè la disposizione «per cui l’uomo è in grado di opporre un animo sempre uguale a tutte le circostanze, per cui egli ha immedesimato se stesso con un ordine di principi immutabili [...]. Essa non è quindi un’assurda facoltà del bene e del male; essa è una cosa sola con la potenza, con la dignità dell’animo retto [...]. Ciò che in noi dice “io” nel momento dell’atto morale è veramente l’essenza nostra più profonda, che non riceve la legge da altro e agisce con la stessa libera necessità – s’intende con le debite differenze di grado – con cui agisce la perfetta natura divina» (ibi, pp. 367 ss.). Questa libertà immutabile, immedesimazione con la necessità della ragione, è soltanto un ideale, in tensione al quale l’uomo fa esperienza dell’ulteriore significato della libertà come liberazione. Il cammino della libertà, infatti, fa salire la scala delle intuizioni-visioni che stanno alla base sia della fede filosofica, sia di tutte le grandi religioni dell’umanità (cfr. Ragione e fede. Saggi religiosi, Torino 1942, con Introduzione di L. Pareyson, Napoli 1972). Assertore della coesistenza di libertà e necessità è Maurice Blondel, la cui speculazione è incentrata sull’agire, come sintesi dell’esperienza e nexus dell’universo e quindi come luogo in cui è coglibile intrinsecamente (secondo

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un metodo di «immanenza» nell’esperienza) la relazione dell’uomo al suo destino e la sua apertura a ciò che gliene rende possibile il conseguimento (il «soprannaturale»). L’agire dell’uomo si sviluppa in una complessa dialettica di determinismo e libertà in cui la volontà deve liberamente esercitare la sua continua (auto)trascendenza. La libertà «affiora alla coscienza grazie al gioco stesso del determinismo. Non si dà coscienza del determinismo che grazie alla libertà. La libertà assume tutte le sue condizioni antecedenti. Ma non vi trova la sua ragion d’essere. La ragione vera dell’azione va ravvisata in un fine trascendente la natura e la scienza» (L’Action. Essai d’une critique de la vie et d’une science de la pratique, Paris 1893, tr. it. di S. Sorrentino, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, Cinisello Balsamo 19972, p. 218). Il passaggio all’azione non è, dunque, il prodotto degli antecedenti, ma un atto di trascendenza rispetto alla situazione che abbraccia la complessità dei fenomeni. In questo senso l’atto di volontà è il superamento del determinismo psicologico, di ciò che costituisce «movente», aggiungendovi di suo il «motivo». Questo potere di trascendenza rispetto ai determinismi implica la partecipazione a un potere superiore, infinito: «Per agire bisogna partecipare a una potenza infinita; per aver coscienza di agire bisogna avere l’idea di questo potere infinito. Ora è nell’atto razionale che c’è sintesi tra la potenza e l’idea di infinito. E questa sintesi è ciò che si chiama libertà» (ibi, p. 215). Ma nella stessa libertà c’è una logica necessaria. Anzitutto, quella della regola pratica del dovere morale, secondo il quale l’autonomia dell’agire deve assumere l’eteronomia del dovere; in secondo luogo, quella dell’effetto dell’agire stesso, in cui si dà una strutturale sproporzione tra la «volontà volente» e la «volontà voluta», tra l’ampiezza dell’iniziativa e la ristrettezza del risultato (cfr. ibi, p. 226 e passim). In ciò l’agente ha testimonianza della sua radicale insufficienza a realizzare l’aspirazione della libertà e si trova ragionevolmente disponibile all’idea di compimento superiore e gratuito. Nel personalismo di Gabriel Marcel la libertà costituisce «il mistero centrale del nostro essere», che ha a che fare con «il rapporto mobile e [...] drammatico che mi lega a me stesso», cioè con l’inoggettivabile «metaproblematico» che mi costituisce (Du refus à l’invocation,

Libertà Paris 1940, tr. it. di L. Paoletti, Dal rifiuto all’invocazione. Saggio di filosofia concreta, Roma 1976, pp. 84-85). Tale mistero scaturisce dalla natura di «autotrascendenza» del pensiero, che significa anzitutto non relazione a se stesso, ma all’altro. Così la libertà è implicata originariamente nel gioco della relazione all’essere, secondo l’alternativa radicale di affermarlo (confermando così autenticamente il soggetto a se stesso) o di volerlo possedere (falsificando così il soggetto): l’uomo è «un essere a cui è impartita la singolare facoltà di affermare o negare se stesso, a seconda che egli affermi l’essere e si apra a lui o che lo neghi e nello stesso tempo si chiuda in sé: perché è in questo dilemma che risiede l’essenza stessa della libertà» (Être et avoir, Paris 1935, p. 175). La libertà si attua come risposta all’«appello» che l’essere rivolge all’uomo; essa non è dunque essenzialmente libertà di scelta, ma «accettazione» e «consenso» all’essere (cfr. Du refus à l’invocation, tr. cit., p. 73), fondati sulla partecipazione alla sovrabbondanza ontologica (alternativa all’idea della libertà annichilatrice di un Sartre). Di fronte all’alternativa ontologica d’affermazione o possesso in cui si trova originariamente la libertà, la sua risposta al «mystère ontologique» ha la forma dell’engagement, dell’impegno secondo le disposizioni della «fedeltà», della «speranza», della «disponibilità». Forme della libera risposta al mistero, in cui questo appare come «tu» e la libertà scopre la sua profonda dimensione relazionale. L’«engagement», come cifra della libertà personale e comunitaria, è al centro anche della riflessione e dell’opera culturale di Emmanuel Mounier (cfr. Le personnalisme, Paris 1949), in cui la dimensione intersoggettiva e interpersonale della libertà acquista particolare rilievo. La persona, infatti, è libertà e trascendenza inoggettivabili, ma proprio per questo è anche essenzialmente «vocazione», «incarnazione» e «comunione». Per questo la libertà mounieriana entra in confronto polemico con l’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre. 2. Gli esistenzialismi. – Nella filosofia esistenzialista, nel senso lato e variegato di tale denominazione, la libertà diventa una cifra fondamentale dell’umano. In analogia con l’idealismo, ma senza condividerne la pretesa metafisica, a somiglianza dello spiritualismo, ma senza riproporne l’ottimismo antropologico, l’esistenzialismo pone la libertà come inog6433

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Libertà gettivabile origine e condizione dell’esperienza nel plesso delle sue dimensioni di finitezza e di possibilità, di temporalità e di situazionalità, di angoscia e di scelta. Martin Heidegger ha rifiutato per sé la qualifica esistenzialista (cfr. Brief über den Humanismus, Bern 1947, tr. it. di F. Volpi, Lettera sull’«umanismo», in Segnavia, Milano 1987, pp. 267-315), ma dell’esistenzialismo ha proposto temi fondamentali e di grande riferimento. Nell’analitica esistenziale dispiegata in Sein und Zeit (Tübingen 1927), la libertà è la forma dell’«autenticità» dell’esserci che assume la sua condizione di «gettatezza» e di possibilità attraverso la «decisione anticipatrice della morte», e quindi circoscrizione finita dei possibili e consegna dell’esserci alla sua condizione esistenziale reale (sottratta all’inautenticità del «si»). L’essenza della libertà non è, come ancora in Kant, modo antropologico della causalità, Entscheidung, decisione, bensì Entschlossenheit, apertura decidente, in cui è in gioco l’essenza dell’esistere e il senso stesso dell’essere. Libertà, infatti, significa insieme la gettatezza dell’esserci, mai signore del suo essere più proprio, e la trascendenza dell’esserci, nel suo oltrepassamento progettuale verso il mondo; la libertà dice dunque finitezza, attività di una passività, e fondamento della differenza ontologica. La questione dell’essenza della libertà è affrontata nel semestre estivo del 1930 attraverso il problema kantiano del rapporto tra libertà e causalità (cfr. Vom Wesen der menschlichen Freiheit. Einleitung in die Philosophie, ed. a cura di H. Tietjen, in Gesamtausgabe, vol. XXXI, Frankfurt a.M. 1982), riguardo al quale Heidegger conclude che non la libertà è un problema di causalità, bensì questa va posta in questione come originaria libertà: ma «se la causalità è un problema della libertà, e non viceversa, allora il problema dell’essere in generale è in sé un problema della libertà» (ibi, p. 300). L’implicazione ontologica della libertà è espressa più compiutamente nello scritto Wesen der Wahrheit (Frankfurt a.M. 1943, tr. it. di F. Volpi, Sull’essenza della verità, in Segnavia, Milano 1987, pp. 133-157), incentrato sull’esserci non come progetto, ma come luogo di manifestazione dell’essere. La libertà in questa prospettiva coincide con l’essenza della verità: se questa è a-letheia, manifestazione dell’essere, la libertà è apertura a ciò che si manifesta e condizione di possibilità della comprensione 6434

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dell’essere; essa è disponibilità e consenso all’accadere dell’essere, così da essere «fondamento infondato» della sua manifestazione (ibi, pp. 141 ss.). Questo allontanamento dall’accezione etico-pratica della libertà a favore di una ontologica è confermato dal corso tenuto a Friburgo nel 1936 (Schelling. Abhandlung über das Wesen der menschlichen Freiheit, Frankfurt a.M. 1988 [Tübingen 1971], tr. it. a cura di E. Mazzarella - C. Tatasciore, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, Napoli 1998) sulle schellinghiane Ricerche filosofiche sulla essenza della libertà umana (1809). La libertà è affermata con Schelling non come «proprietà dell’uomo», ma come «una determinazione fondamentale dell’essere in generale», così che la prospettiva deve essere rovesciata e l’uomo deve essere ritenuto «proprietà della libertà» dell’essere (ibi, pp. 39, 57). «L’uomo diventa libero – scrive Heidegger – solo nella misura in cui [...] appartiene all’ambito del destino» (Vorträge und Aufsätze, Pfullingen 1954, tr. it. di G. Vattimo, Saggi e discorsi, Torino 1976, pp. 18-19). Al di fuori del contesto storico dell’esistenzialismo, ma in continuità con l’evoluzione del pensiero heideggeriano e con la problematica dell’esistenza, va ricordata la riflessione sulla libertà di Jean-Luc Nancy. Nancy riprende il filo della speculazione heideggeriana sulla necessità di svincolare la libertà dalla categoria della causalità e con essa dai confini della volontà soggettiva e di un’ontologia della soggettività, per poterla pensare invece come il fatto dell’esistenza in quanto tale. «L’“essere libero” non consiste [...] nel causare “liberamente”, ma nell’essere-libero dell’esistenza», che consiste nella «an-archia» dell’esistenza stessa che accade non come sottoposta a legge, ma in modo in-essenziale e in-fondato (L’expérience de la liberté, Paris 1988, tr. it. di D. Tarizzo, L’esperienza della libertà, Torino 2000, pp. 104 e 24). L’esistenza, però, non si dà come un continuo, ma come «disseminazione eterogenea di stati», come «spartizione» di «singolarità» discrete, di cui la libertà è l’accadere, come «esplosione» che con «prodigalità» dissemina infinite «schegge». Queste, proprio perché non dotate di essere comune, si danno «in comune», stanno sempre in relazione in forme discontinue (ibi, pp. 60, 70). L’esistenza e la libertà si volgono, nell’accezione heideggeriana, verso l’impersonale e in questo senso fuoriescono dalla problematica

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della soggettività esistenzialista. L’ontologia della volontà è, invece, la prospettiva di Karl Jaspers, per il quale se «la volontà ha il suo fondamento nella libertà», perché in questa essa «vuole [...] se stessa», «la libertà ha – a sua volta – nella volontà il proprio esserci». A motivo di questa sua originaria autonomia la volontà libera è inoggettivabile e indimostrabile, perché coincide con il piano dell’esistenza stessa, che non può essere adeguatamente concettualizzata, in quanto origine e condizione del pensare stesso, ma può essere solo contenuto di «chiarificazione». Così «la volontà che vuole qualcosa, la si può descrivere come si descrive un fenomeno psicologico», ma non va confusa con ciò che in questa si esprime, cioè la volontà «che vuole se stessa», «coscienza dell’essere» che emerge «dal fondamento della libertà» (Philosophie, Berlin 19563 [1932], tr. it. di U. Galimberti, Torino 1978, p. 623). Infatti, «la volontà esiste solo in relazione a se stessa» ed esiste «solo dove c’è la chiarezza dell’“io scelgo”» e perciò tanto i sostenitori del determinismo, quanto quelli dell’indeterminismo, che pretendono di ricondurre in positivo o in negativo la questione della libertà a quella di un ordine causale oggettivo, «perdono completamente di vista l’autentica libertà», che non può essere né dimostrata, né confutata, ma solo vissuta e attestata come tale, come consapevolezza della libertà che «si realizza» nella libertà esistenziale (ibi, p. 624, 643, 660). La libertà è però anche assunzione consapevole della «situazione» in cui l’io verte, perché essa, che è autonomia originaria, non è indipendenza dai limiti involontari dell’esistenza. Per questo non c’è libertà assoluta e anche quella finita non è mai un «possesso definitivo, ma uno sforzo continuo per conquistarla» (ibi, p. 660). Il compito della libertà nel suo rapporto costitutivo con la necessità si esalta nel far fronte alle situazioni-limite, nelle quali l’esistenza fa l’esperienza della possibilità misurata dall’impossibilità, esperienza del «naufragio» e insieme della propria irriducibilità alla necessità. La condizione di «naufragio» è la «cifra» fondamentale dell’esistenza, in cui la libertà scopre la sua natura di autonoma accettazione della necessità e la sua relazione alla trascendenza: l’esistenza, «perdendosi come esserci, risorge come libertà, nel senso che, infrangendosi come esistenza, trova in ciò

Libertà il fondamento che la rinvia all’essere della trascendenza» (ibi, p. 1169). La massima concentrazione antropologica di una concezione esistenzialista della libertà è presente in Jean-Paul Sartre. «L’uomo è l’essere per cui il nulla viene al mondo», afferma in L’être et le néant (Paris 1943, tr. it. di G. Del Bo, L’essere e il nulla, Milano 19847). Il nulla è, infatti, opera della coscienza come «per sé», che, pienezza d’esistenza e autodeterminazione contrapposte alla datità opaca e massiccia dell’«essere-in-sé», introduce l’intervallo della sua distanza. Tale «possibilità della realtà umana di produrre il nulla», tale «rottura annullatrice» è la libertà, che è dunque «un “essere nel mondo” che è a un tempo costituzione e annichilazione del mondo», come Sartre aveva già scritto in L’imaginaire. Psychologie phénoménique de l’imagination (Paris 1940, tr. it. di E. Bottasso, Immagine e coscienza. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione, Torino 1964, p. 286). La libertà, in quanto potenza annichilatrice, non è «proprietà» di una positiva essenza umana, bensì esistenza che precede e comanda l’essenza, resa possibile dall’«essere libero» come sua risultanza e oggettivazione stratificata (L’être et le néant, tr. cit., pp. 61-62). Nessun riferimento è possibile, perciò, a una natura umana data che costituisca vincolo e norma, ma l’uomo «non è altro che ciò che si fa», è il suo «impegno» totalmente coinvolgente e il suo «progetto» pienamente responsabile di sé a se stesso (L’existentialisme est un humanisme, Paris 1946, tr. it. di G. Mursia Re, L’esistenzialismo è un umanesimo, Milano 1970, pp. 35 ss.). Nulla può essere presupposto alla libertà, né essenza, né valori, né Dio, per cui la libertà, completamente affidata a se stessa, si esercita con una scelta «assurda», «al di là di tutte le ragioni», di cui è insieme totalmente responsabile e totalmente priva di giustificazione (L’être et le néant, tr. cit., p. 537, cfr. p. 128). Questa concezione dell’autonomia della libertà conduce coerentemente Sartre a individuare nella libertà anche il luogo del conflitto e della lacerazione dell’esistenza, perché l’«infinita libertà» di ciascuno limita e fissa le possibilità di altri e lo sguardo dell’uno oggettiva e degrada la coscienza dell’altro, innescando un processo di reciproca trascendenza possessiva, con un conflitto che, diversamente dalla figura hegeliana del servo-padrone, non dà luogo a una risoluzione dialettica, ma forma un «circolo» infrangibile, in cui ciascuno è sem6435

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Libertà plicemente «la morte dell’altro» e il «conflitto» si afferma come «senso originario dell’essere-per-altri». (cfr. ibi, pp. 342, 345, 446-447). L’esistenzialismo sartriano riceve una strutturale revisione nella svolta marxista della Critique de la raison dialectique (Paris 1960), in cui il soggettivismo libertario del progetto fondamentale di L’Être et le néant è superato a favore di una teoria dell’agire sociale e rivoluzionario. Centrale è l’idea della dialettica come «attività totalizzatrice», che si oppone alla necessità del «pratico-inerte», prodotto dall’azione stessa come libera sintesi del processo storico necessitante. Qui la libertà non è più del singolo, se non integrato nel «gruppo» rivoluzionario, che solo, contro l’inerzia delle condizioni materiali e delle istituzioni, è in grado di produrre l’uomo come «libero individuo comune», partecipe del soggetto collettivo dialettico e della sua libera totalizzazione dell’intrascendibile necessità storica. Critica della «libertà assoluta» sartriana è la fenomenologia esistenziale di Maurice MerleauPonty, per la quale l’originarietà del «mondo della vita» implica un’unità di uomo e mondo, coscienza e natura, che falsifica la contrapposizione dell’in-sé e del per-sé e il potere nullificante della coscienza. Questa, piuttosto, è attiva all’interno delle forme della «percezione», in cui «corpo» e «mondo» sono da sempre condizioni manifestative di significato. Il cogito non vive contrapposto e nullificante il mondo, ma è relazione a sé in quanto relazione al mondo, è un campo relazionale e intersoggettivo strutturalmente mediato dalla corporeità. Perciò, non siamo mai «in sospeso nel nulla», ma «siamo sempre nella pienezza, nell’essere» (Phénoménologie de la perception, Paris 1945, tr. it. a cura di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Milano 1965, p. 576). Se questa è la condizione umana, non ha senso una libertà come soggettiva trascendenza e indipendenza dall’essere, come criterio di alternativa fra totale autonomia e totale necessitazione. La libertà è piuttosto una continua transazione tra soggetto e mondo, un intervento della coscienza nella situazione e un «appello» che questa fa alla coscienza. La situazione si dà, ma è insieme «aperta», è posta cioè nell’«ambiguità»: «Il mondo è già costituito, ma non è mai completamente costituito. Sotto il primo rapporto noi siamo sollecitati, sotto il secondo siamo aperti a un’infinità di possibili» (ibi, p. 578). In concreto, la libertà «s’ingra6436

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na» con la situazione e trova in essa tanto il suo limite, quanto la sua possibilità. La situazione umana è anche ed essenzialmente intersoggettiva, così che nessuno può ragionevolmente pensarsi come soggetto libero «da solo». D’altra parte, la situazionalità della libertà socio-politica resta aperta ed è rivendicata come tale da Merleau-Ponty, anche nei confronti del marxismo, come teoria sociale che vorrebbe in qualche modo giungere a una sua chiusura e alla conclusione della storia (cfr. Les aventures de la dialectique, Paris 1955). Il primato della libertà condizionata e la polemica nei confronti dell’esistenzialismo negativo a favore di uno «positivo» caratterizzano la concezione dell’esistenza di Nicola Abbagnano. Le tipiche forme dell’esistenzialismo novecentesco lavorano con una concezione della possibilità segnata negativamente dall’«angoscia», dal «naufragio», dalla «nausea» ecc. e conclusa dall’impossibilità tragica dell’«essere per la morte» (Heidegger), dello «scacco» (Jaspers) o da quella di una libertà arbitraria e indeterminata e quindi inefficace (Sartre). Una concezione della possibilità che in sostanza non fuoriesce dall’orizzonte categoriale del romanticismo e dell’idealismo e del loro necessitarismo. L’autentica possibilità, invece, che sta a fondamento dell’autentica libertà, è quella «trascendentale» o «possibilità della possibilità» che «include la garanzia della propria possibilità» (Esistenzialismo positivo, Torino 1948, p. 41). Autentica è quella possibilità che si mantiene nel tempo come ripetibile, che offre la conferma della sua possibile scelta e quindi mostra la sua razionalità come perseguibilità ed efficacia. È razionale, infatti, quella possibilità che si dimostra possibile, e ha in questo raddoppiamento la sua garanzia «trascendentale» (ma di un trascendentalismo empirico). In questo senso, secondo Abbagnano, «l’esistenzialismo si evolve verso un empirismo radicale», benché non in senso sensistico o positivistico, perché i «dati» sono pur sempre «una possibilità di...». L’esistenzialismo deve perciò separarsi dall’idealismo, dallo spiritualismo e da ogni forma di intimismo, per entrare in rapporto tramite le conoscenze scientifiche e le loro metodologie con la «condizionalità naturale e storico-sociale», per attingere cioè le possibilità reali dell’esistenza. L’esistenzialismo di Abbagnano intende perciò ricollocare la libertà entro la possibilità rea-

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le secondo una prospettiva di tipo neoilluministico non scientistico ma neoumanistico, in cui anche la «saggezza» delle «tecniche di convivenza umana» abbia il suo insostituibile rilievo (Possibilità e libertà, Torino 1956, pp. 34 ss.). Sul versante religioso e personalistico dell’esistenzialismo un posto significativo ha Nikolaj A. Berdjaev, che condivide con l’esistenzialismo l’affermazione antinaturalistica e antioggettivistica nei confronti della libertà, ma anche ne eccede la problematica, in virtù della sua formazione proveniente dalle tradizioni dell’idealismo, della teosofia e della teologia russa. La concezione antropologica berdjaeviana è di tipo dualista, ma con evidenti influssi teologici, essendo la polarità non quella platonico-cartesiana di anima e corpo, ma quella di spirito e di natura comprendente corpo e anima come sue parti. A tale polarità corrisponde quella della libertà e della necessità, dell’autonomia dello spirito e dell’eteronomia della natura, nella quale ultima appunto non vi può essere libertà, perché sottoposta al determinismo naturalistico, che domina anche l’ambito della psicologia cosciente dell’uomo. La libertà, dunque, non è quella del libero arbitrio, ma quella della «dinamica interiore» dello spirito. Meglio, la libertà ha due sensi diversi, quello di libertà irrazionale iniziale, che precede il bene e il male ed è libertà di bene e di male, interpretata in una chiave che risente della metafisica di Jakob Böhme e di Schelling e della mistica di Franz von Baader, e dunque non dotata di caratteri intelligibili razionali, ma scaturente dal fondo oscuro dell’essere, «abisso», Ungrund, che è «fuori di Dio» (cfr. Filosofija svobodnogo ducha, Paris 1927, tr. it. di G.L. Giacone, Filosofia dello spirito libero, Cinisello Balsamo 1997, p. 208; Samopoznanie. Opytduchovnoj autobiografii, Paris 1947, tr. it. di G. Donini, Autobiografia spirituale, Firenze 1953, p. 199); e quello di libertà finale nella verità e nel bene. Le due libertà danno luogo alla dialettica tragica della vita umana, essendo l’una libertà sorgiva e vitale, ma facile preda del non senso, e l’altra regolata dalla verità, ma a rischio di imporre un ordine costrittivo all’esistenza (secondo la tentazione del grande inquisitore dostoevskijano). In De l’esclavage et de la liberté de l’homme (Paris 1946, tr. it. dal russo di E. Grigorovich, Schiavitù e libertà dell’uomo, Milano 1952), Berdjaev svolge una ricca indagine fenomenologica sui fallimenti della libertà e quindi sulle forme

Libertà dell’illibertà umana in ambito naturale, sociale e anche religioso. In realtà, «per sfuggire alla tragedia della libertà non esiste alcuna via d’uscita naturale» (Filosofia dello spirito libero, tr. cit., p. 218), ma solo la persona teandrica di Cristo, nella quale si rivela «una terza libertà, che racchiude in sé le prime due»: «La redenzione è appunto un affrancamento della libertà umana dal male che la distrugge, ma non attraverso la via della necessità e della costrizione, bensì attraverso la grazia, con una forza che agisce non dall’esterno ma dal seno stesso della libertà. Per questo la dottrina cristiana della grazia costituisce la vera dottrina della libertà» (ibi, p. 219). In Luigi Pareyson sono presenti tutti i grandi temi dell’esistenzialismo e della filosofia ermeneutica, nell’orizzonte di una profonda interlocuzione con l’idealismo metafisico, in particolare schellinghiano. Pareyson giunge progressivamente a un’«ontologia della libertà», aperta attraverso un’indagine ermeneutica della finitezza esistenziale, che ha la sua sintesi in Esistenza e persona (Torino 1950, con successivi incrementi fino all’ed. Genova 19854) e si compie con l’opera postuma Ontologia della libertà. ll male e la sofferenza (Torino 1995). L’esistenzialismo pareysoniano si oppone a quello sartriano sulla questione del senso dell’essere, di cui rifiuta la contrapposizione del per-sé libero con l’in-sé inerte e necessario; al contrario, «la libertà non è tale senza l’essere», perché l’uomo, che è rapporto con se stesso, è anche essenzialmente rapporto con l’essere e, perciò, l’esistenza, con Kierkegaard, va pensata come coincidenza di auto- e di eterorelazione. Lo «spazio della libertà» è dunque fondato in un’ontologia dell’essere inoggettivabile, inesauribile e relazionale (cfr. Ontologia della libertà..., cit., lezione I) e si esercita come atto «di consenso o di rifiuto» che l’uomo in ogni caso deve compiere (ibi, p. 168). Entro la relazione ontologica fondante la libertà umana non è, alla maniera sartriana, pura attività, ma «dialettica di attività e passività», di passività che si converte in attività, è «iniziativa iniziata», che rinvia a una «dialettica di dono e consenso» (ibid.). Infatti, poiché la libertà non può aver premessa e principio che da libertà, il suo esser-data non può che esser-donata da altra libertà (ibi, pp. 22, 32, 255; cfr. anche Filosofia della libertà, Genova 1991, p. 20). E se la libertà donata è finita, non può essere che origi6437

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Libertà nata da altra libertà infinita; dunque l’essere, con cui la libertà è in relazione, è a sua volta libertà. Tipico della filosofia pareysoniana è perciò di inserire il rapporto di attività e di passività, di libertà e necessità nella più radicale relazione di libertà con libertà. La libertà è «inizio e scelta». In quanto inizio, la libertà è evento imprevedibile e indeducibile, dunque, istantaneo e in-comprensibile, irrevocabile, ma non necessario. La categoria modale della libertà, infatti, non è la possibilità e la necessità, a cui essa non potrebbe essere subordinata, ma la realtà. La libertà è dunque, heideggerianamente, «fondamento infondato», cioè abisso e non fondamento, assolutezza gratuita e arbitrarietà senza ragione e senza caso (cfr. Ontologia della libertà..., cit., pp. 124, 465). In quanto scelta, Pareyson, con Schelling, identifica la libertà con la facoltà del bene e del male, per cui essa è illimitato e arbitrario, assoluto e sovrano potere di scegliere l’essere e il non essere. Perciò «la libertà è indivisibile» e perciò, in quanto inizio assoluto e scelta indeducibile, «nulla manca alla menoma libertà per essere assoluta» (ibi, p. 28). Si dà, dunque, un significato univoco della libertà umana e divina, con l’unica differenza di grado che Dio è autore anche della sua libertà; l’uomo solo dei suoi atti liberi. Questo porta al «paradosso sconcertante» di «Dio prima di Dio», dell’«autoriginazione» di Dio (ibi, p. 130). Combinando la tradizione plotiniana e quella moderna (Cartesio, Spinoza) di Dio come causa sui con il teorema della libertà come «inizio e scelta», la libertà assoluta è per Pareyson eterna scelta di se stessa: se l’essere è libertà, inizio e scelta, Dio è inizio assoluto e termine della sua scelta. Ma, se la scelta è tale in quanto confronto con l’alternativa e con la negazione, la libertà assoluta sceglie sé al confine con il nulla di se stessa. All’origine «Dio ha voluto esistere», piuttosto che non esistere (ibi, p. 177), ha voluto l’affermazione dell’essere e del bene e la vittoria sul nulla e sul male. Di qui il «discorso temerario» del male «in Dio», non nel senso del fondo oscuro irrazionale di Böhme e di Schelling, ma in quello per cui la scelta eterna di sé da parte di Dio pone il male come eterna alternativa negata, e per ciò stesso come possibilità da sempre sopita e latente. L’abisso metafisico della libertà è allora anche l’abisso del male possibile, di cui l’uomo è il tragico «ridestatore», nella forma della ribellione alla libertà po6438

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sitiva e assoluta di Dio: «Il male è negazione e rifiuto della presenza dell’assoluto nel finito» (Dostoevskij, Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Torino 1993, p. 67); è, quindi, non solo mancanza, bensì positivo potere del negativo, perciò maligno e devastante (ibi, p. 169), cui solo la conversione della libertà stessa e il travaglio della espiazione nella sofferenza possono rimediare. L’enfasi idealista, spiritualista ed esistenzialista sulla libertà come iniziativa originaria trova un contrappunto nella fenomenologia di Emmanuel Lévinas, per il quale il problema della libertà non è quello della sua esistenza, ma quello del suo senso e della sua verità insidiata dall’«irrazionalità», non a causa dei suoi limiti ontologici ma della «infinitezza della sua arbitrarietà» etica (Totalité et infini. Essai sur l’exteriorité, La Haye 1961, tr. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano 19902, p. 310). La libertà come autarchia e arbitrio significa in realtà confermare se stessi e «mantenersi contro l’altro». L’autentica sovranità della libertà coincide invece con una «libertà altra da quella dell’iniziativa», che si costituisce nella originaria relazione di responsabilità per altri (Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, La Haye 1974, tr. it. di S. Petrosino - M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano 1983, p. 144). Lévinas parte da un’idea di «libertà finita», segnata dalla «passività», che sfugge però al negativismo heideggeriano e sartriano; la gratuità della libertà lévinasiana non significa che la libertà è vincolata dal suo nulla originario e dunque in ultima istanza dalla sua impossibilità, ma che il vincolo della sua finitezza è piuttosto la sua possibilità positiva. Il vincolo positivo è la «passività» come esposizione originaria ad altri, dalla quale l’io riceve se stesso e di cui è responsabile. La libertà umana è essenzialmente risposta all’appello della responsabilità. Il soggetto non si costituisce dunque nell’iniziativa libera, ma nella libertà responsabile, non come limite negativo, ma fondativo. «Altri – infatti – non limita la libertà del medesimo. Chiamandola alla responsabilità, la instaura e la giustifica [...]. Noi chiamiamo questa situazione accoglienza del volto» (Totalité et infini, tr. cit., p. 202). La trascendenza d’altri si presenta nel «volto», convocando alla responsabilità e affidandosi alla libertà, che è così potere per il consenso o per il rifiuto, per la sollecitudine per altri o per la sua strumen-

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talizzazione. Fondata nella responsabilità, la libertà trova così la sua intrinseca misura etica: «L’epifania del volto è etica» (ibi, p. 205). La libertà responsabile, in quanto revisione dell’idea di libertà come indipendenza, se questa significa l’autonomia di una causa sui (ibi, pp. 228-229), implica la revisione della soggettività come cogito indipendente, a favore di un’identità originariamente riferita e in tal senso proveniente da altri: «La parola io significa: eccomi» (Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, tr. cit., p. 143). La libertà è perciò esercizio indipendente della dipendenza costitutiva dalla relazione istituita a partire da altri, in cui si dà coincidenza di passività e attività. La logica della libertà è quella della gratuità, in opposizione a quelle contrapposte della necessità e dell’indipendenza, e rinvia in ciò a una sua origine «an-anarchica», il bene (cfr. ibi, p. 173; Humanisme de l’autre homme, Montpellier 1972, tr. it di A. Moscato, Umanesimo dell’altro uomo, Genova 1985, p. 108). 3. Forme del realismo ontologico della libertà. – Sotto questa dizione possono essere raccolte filosofie della libertà di diverso orientamento speculativo, ma accomunate da una fondazione della libertà in chiave di ontologia realista (come si potrebbe dire anche dell’«ontologia della libertà» di Pareyson). Così, nella terza e ultima parte della Ethik, «Metaphysik der Sitten», Nicolai Hartmann affronta il problema della libertà, presupponendo il forte impegno ontologico della sua speculazione fenomenologico-analitica, che supporta un’etica dei valori su base intuizionista. La giustificazione hartmanniana della libertà, infatti, avviene rispetto all’assolutezza dei valori morali, in rapporto alla quale essa non è da intendere anzitutto come «libero arbitrio» o libertà di scelta, ma più ampiamente come «la libertà di ogni interiore presa di posizione e determinazione di orientamento», cioè come autodeterminazione in rapporto ai valori morali (Ethik, Berlin 19624 [1926], tr. it. di V. Filippone Thaulero, Napoli 1969-72, vol. III, p. 10). Kant ha avuto il grande merito di caratterizzare in modo positivo la libertà, come «un più di determinazione» rispetto alla causalità deterministica, stabilendo due livelli di legalità che trovano sintesi senza contraddizione nell’uomo. L’autonomia della ragion pura pratica, però, non s’identifica per Hartmann con l’autolegislazione della ragione stessa (come aveva osservato anche Rosmini), ma sta a fonda-

Libertà mento del vincolo morale dell’individuo in rapporto ai valori, così che la «libertà morale» non va intesa, diversamente da Kant, in senso formale, ma «materiale», assiologico. La concezione hartmanniana della libertà si colloca nel contesto della visione stratificata della realtà propria della sua ontologia, in cui tra i diversi livelli ontici del mondo inorganico, organico, psichico e personale vigono le leggi della dipendenza categoriale, cioè della novità relativa, autonoma e dipendente insieme, di ogni livello. Tale novità è la «libertà categoriale» dovunque variamente presente, che a livello umano si manifesta come «libertà morale», espressione della novità ontologica della personalità umana (cfr. Ethik, tr. cit., vol. III, cap. 71). La libertà umana è la «libertà personale», libertà del soggetto in quanto soggetto morale, «essere assiologico», portatore di valori e disvalori specifici, propri soltanto a lui in quanto tale. La libertà dunque si definisce in rapporto ai valori e alla loro incondizionatezza, rispetto alla quale, però, l’autodeterminazione della persona è dotata di un’assolutezza superiore; l’autonomia della libertà personale è, infatti, «un più metafisico di determinazione», secondo cui la persona, con privilegio unico tra gli esistenti, è «superiore tanto alla legge di natura, quanto alla legge del dovere, tanto [...] alla determinazione ontologica, quanto a quella assiologica» (ibi, vol. III, cap. 80, p. 183). Tuttavia, l’enfasi hartmanniana sulla libertà non sembra adeguatamente supportata dai fondamenti della sua ontologia incentrata sull’idea dell’«effettualità» (Wirklichkeit), come «legge modale fondamentale», in cui confluiscono il possibile e il necessario, configurando la realtà come un tutto determinato dotato della sua ragion sufficiente. Per la sua stessa eccezionalità, perciò, la realtà della persona dotata della sua libertà non è suscettibile di fondazione ultima: la libertà della persona morale è «eticamente necessaria e [...] ontologicamente possibile», ma non si hanno dati sufficienti per la sua «necessità ontologica» (ibi, vol. III, p. 226). In ultima istanza, con Kant, della libertà non è possibile dare una giustificazione, se non per via pratica, attraverso i segni della vita morale, quali il senso d’imputabilità e di responsabilità, la coscienza di colpa ecc. ll nesso ontologia e libertà è forte nelle filosofie neotomiste, che sul tema hanno proposto dei contributi fenomenologicamente e specu6439

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Libertà lativamente ricchi, ancorati ai principi della tradizione ontologico-metafisica della scolastica, riscoperta in una chiave attualista antiessenzialista, e sollecitati dalla problematica antropologica contemporanea, in particolare esistenzialista e personalista. Nella sua articolata opera Jacques Maritain ha dedicato al tema della libertà solo alcuni saggi, ma significativi dell’indirizzo di riutilizzo del patrimonio tomistico. Come appare nei due testi Du régime temporel et de la liberté (Bruges 1933, tr. it di A. Pavan, Strutture politiche e libertà, Brescia 1969) e Principes d’une politique humaniste (New York 1944 e Paris 1945, tr. it. di A. Pavan, Per una politica più umana, Brescia 19772; cfr. anche i saggi L’idée thomiste de liberté e Spontanéité et indépendance, in De Bergson à Thomas d’Aquin, Paris 1947, tr. it. di R. Bartolozzi, pp. 153-207. Per una visione dell’idea maritainiana nella sua opera complessiva cfr. La conquista della libertà. Antologia del pensiero etico-politico, ed. it. a cura di P. Viotto, Brescia 1977), della libertà è proposto un concetto analogico metafisico, coesteso con quello di «persona», che pone in unità e distinzione libertà umana e libertà divina; un concetto analogico antropologico, che fornisce una semantica pluralista della libertà come non coazione, spontaneità e indipendenza, come libero arbitrio e capacità di scelta, come autonomia e «di esultazione» aperta ad «aspirazioni transnaturali»; infine, un’idea della libertà come principio fondante ed evolutivo di filosofia dell’educazione e di filosofia sociale, per cui il discorso sulla libertà ha la sua concretezza nell’ideale della «conquista della libertà». L’interpretazione dell’ontologia tomista alla luce dell’actus essendi e un’estesa indagine esistenziale caratterizzano l’opera di Joseph De Finance, che al tema della libertà dedica un consistente volume Existence et liberté (ParisLyon 1956, tr. it. di E. Colombo, Esistenza e libertà, Città del Vaticano 1990), a cui fanno corona uno precedente, Être et agir dans la philosohie de saint Thomas (Rome 19663 [1946]), e uno successivo, Essai sur l’agir humain (Rome 1962, tr. it. di A.M. Ercoles - A. Bussoni, Saggio sull’agire umano, Città del Vaticano 1992). La preoccupazione centrale è la conciliazione della concezione analogica classica della libertà con una dottrina della soggettività che recuperi, in modo anche correttivo e integrativo, i guadagni della speculazione moderna. La libertà diventa così il centro attivo e dinamico 6440

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della persona e quindi il principio costruttivo di un personalismo metafisico ed esistenziale. Anche per De Finance il significato fondamentale della libertà non è il libero arbitrio, ma l’«autodeterminazione», il non dovere che a se stessi l’esercizio e la determinazione del proprio atto, la quale «non ha altra ragione [costitutiva] se non la perfezione del soggetto spirituale» (Existence et liberté, tr. cit., p. 28), fondata, a sua volta, nel soggetto assoluto e nella sua libertà. Tale capacità autodeterminativa, che opera per mezzo della scelta, è finalizzata all’illimitata attuazione personale, sociale e mondana della libertà stessa, a sostenere cioè un processo di «liberazione», di cui il volume Saggio sull’agire umano traccia i fondamenti e propone una fenomenologia in senso hegeliano. Affine, per problematica e sensibilità, a quella di De Finance è l’opera di André Marc, di cui vale ricordare, in rapporto al tema della libertà, Psychologie réflexive (Paris 1949) e Dialectique de l’agir (Paris-Lyon 1954). ll più ampio confronto speculativo con la filosofia moderna quanto all’ontologia della libertà è opera di Cornelio Fabro, che evidenzia la consonanza tra una certa interpretazione del tomismo e le istanze più profonde della moderna filosofia della libertà. A questo è funzionale la critica dell’interpretazione intellettualistica della libertà, come dipendenza deduttiva dal giudizio, e la valorizzazione dell’autonomia della volontà, come principio motore e sintetico, attivo e indeducibile, della stessa identità antropologica. In quanto «volontà fondamentale [...] voler volere», che muove tutte le potenze e lo stesso intelletto, la libertà è «facultas totius personae» (cfr. La libertà in Hegel e san Tommaso, in «Sacra Doctrina», 66, 1972, [pp. 165-186] p. 181; Atto esistenziale e impegno della libertà, in «Divus Thomas» (Piacenza), 86, 1983, 2-3, [pp. 125-161] p. 135) e quindi principio trascendentale di senso e di valore dell’agire personale. Per la sua trascendentalità antropologica la libertà è inoggettivabile, essendo essa piuttosto «oggettivante [...] fondante e ponente» (Appunti di un itinerario, in AA.VV., Essere e libertà. Studi in onore di C. Fabro, Rimini 1984, p. 37) e indimostrabile a posteriori, ma argomentabile solo apriori per indagine sulla natura delle facoltà umane. Anche per Fabro (cfr. Pareyson e prima l’idealismo) la qualità metafisica della libertà, che è inizio assoluto e radicale, è infinita e, come ta-

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le, «non è diversa essenzialmente dalla libertà di Dio», ma solo per la sua «potenza operativa» finita (Riflessioni sulla libertà, Rimini 19832, p. 75). Il rapporto tra libertà infinita e libertà finita può essere pensato, senza contraddizione tra dipendenza causale e autonomia, unicamente in termini di partecipazione, cioè di comunicazione ontologica, alternativa alla causazione efficiente estrinseca (cfr. Partecipazione e causalità, Torino 1963, p. 435). La libertà prima infinita è anche il fine di diritto della libertà umana a suo modo infinita e illimitatamente aperta al bene: il supremo esercizio della libertà finita è, con Kierkegaard, la scelta di fatto del fine ultimo, la decisione effettiva per Dio. 4. Filosofie angloamericane della libertà: pragmatismo e filosofia analitica. – Nel pragmatismo il concetto di un oggetto è il concetto di tutti i possibili effetti di esso e il significato delle proposizioni è determinato dalle loro conseguenze pratiche e l’esperienza, a sua volta, è criterio di verità e la verità è essenzialmente regola d’azione. L’esperienza pragmatista non è perciò sedimentazione passata sulla base di un qualche fondamento sostantivo, né procedura oggettiva di tipo neopositivista, bensì prospettiva d’azione aperta al futuro. In tal senso per il pragmatismo la realtà è vista sotto il profilo della possibilità o, meglio, della probabilità. Per il «pragmaticismo» di Charles Sanders Peirce, a fondamento della realtà, interpretata in chiave di emergenze qualitative evoluzionistiche, sta la «libertà», intesa in modo prossimo al «caso», che nel suo accadere come emergenza di novità si solidifica nell’uniformità della legge e nella generalizzazione dell’«abito»: «All’inizio vi è libertà e indeterminatezza; alla fine la materia è indurita e irrevocabilmente fissata» e, ancora, «il caso è indeterminatezza, è libertà; ma l’azione della libertà sfocia nella più rigorosa regola della legge» (Writings of Charles Sanders Peirce. A Chronological Edition, Bloomington 1982, vol. IV, pp. 307, 552). Questo stato del mondo è consono alla libertà umana, secondo Peirce, che però non è oggetto di possibile dimostrazione, non potendosi mai dare nell’agire contingente la verifica dell’impossibilità del suo contrario. La condotta umana, d’altra parte, è soggetta a diversi livelli di condizionamento esterni e interni, ma anche a un processo di razionalizzazione del comportamento, nella cui iniziativa è lo spazio di libertà dell’agente.

Libertà Convinta attenzione al tema della libertà umana è dedicata da Williams James, assertore dell’indecidibilità scientifico-razionale del dibattito su determinismo e indeterminismo, come sostiene nei suoi Principles of Psychology (New York 1890). In proposito è possibile solo una decisione d’ordine morale, in cui si verifica il significato dello stesso pragmatismo: le questioni fondamentali dell’esistenza, implicate nell’agire umano, richiedono una «volontà di credere» (will to believe), che sola permette la determinazione di ciò che altrimenti è indecidibile, quali sono le questioni religiose, morali e antropologiche, il senso ultimo della vita e la libertà; questioni vive, importanti e indilazionabili, ma la cui risoluzione pratica ha comunque effetti significativi. Gli effetti pratici del determinismo, ad esempio, sono in modo equivalente il pessimismo fatalista o l’ottimismo nell’armonia olistica del mondo, che in entrambi i casi concludono all’irrilevanza dell’azione umana. Al contrario, l’indeterminismo dà senso all’azione stessa che ne pone l’ipotesi, aprendo la prospettiva di un universo pluralistico, in cui la molteplicità e l’indipendenza relativa degli esseri e delle coscienze rendono possibile il caso, la libertà e la novità, e danno senso al valore morale delle azioni (cfr. The Will to Believe, New York 1987, tr. it. di P. Bairati, La volontà di credere, Milano 1984, pp. 186-194). Il senso pragmatico della libertà si inserisce con John Dewey in una visione unitaria, ma non monodica, della realtà. La totalità è un universo aperto, in cui, esistendo sia leggi necessarie, sia relazioni contingenti tra le parti, si dà un’indeterminatezza oggettiva, condizione per la libertà dell’azione. Singolarità e contingenza contrastano l’ipotesi del determinismo e favoriscono, invece, una visione di tipo indeterministico e probabilistico. La libertà umana è il grado più elevato di questa condizione universale, che però non può essere interpretata come libertà d’indifferenza, in cui l’indipendenza dalla motivazione contraddice la relazione di causa. Al contrario, la libertà reale implica l’efficienza dell’azione, come abilità di realizzazione, la capacità di adattamento e di variazione progettuale, la capacità di determinare operativamente gli eventi (cfr. Human Nature and Conduct [London 1922], in The Middle Works, vol. XI, Carbondale-Edwardsville 1983, pp. 209 ss.). La libertà è quindi la capacità dell’uomo di misurarsi con le possibili6441

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Libertà tà, in un sistema dinamico d’azione, in modo indipendente dagli antecendenti, ma dipendente dalle conseguenze della scelta. Per questo la libertà è concepita da Dewey non tanto come una capacità data e acquisita, quanto come una capacità da realizzare e una continua conquista attraverso l’agire e il superamento dei suoi ostacoli. Nell’ambito della filosofia analitica la riflessione sulla libertà è ampio e vivace. Diversamente dal neopositivismo, in cui la questione della libertà della volontà, come si esprime Moritz Schlick, è uno «pseudoproblema», dipendente da un equivoco linguistico (cfr. Fragen der Ethik, Wien 1930, tr. it. di A. Ioly Piussi, Problemi di etica ed aforismi, Bologna 1970, p. 129 ss.), nella filosofia analitica il problema della libertà occupa un posto di rilievo. Le posizioni in esso rappresentate possono essere schematicamente ricondotte a due orientamenti, che a loro modo sintetizzano anche il grande dibattito moderno. Secondo la terminologia introdotta da Peter van Inwagen i due raggruppamenti fondamentali sono il «compatibilismo» e l’«incompatibilismo», ovvero le teorie che affermano la compatibilità o meno della libertà con il determinismo. Senza impegnarsi in prima istanza con una determinazione dello stato del mondo, l’interesse teorico è volto anzitutto a definire in linea di principio la libertà come qualcosa di compatibile o di incompatibile con l’eventuale stato deterministico del mondo: in prima istanza, posta l’ipotesi di un mondo in cui tutti gli eventi sono determinati, la questione della libertà coincide con quella della compatibilità o meno con esso di esseri liberi. Una sorta di manifesto del compatibilismo, prevalente ancora negli anni settanta, è il saggio di Donald Davidson Freedom to Act (in Essays on Actions and Events, Oxford 1980, tr. it. di E. Picardi, Libertà d’agire, in Azioni ed eventi, Bologna 1992, pp. 113-135), secondo cui la libertà è compatibile con il fatto che le azioni siano determinate causalmente. In questo stesso contesto Davidson ricorda Hobbes, Locke, Hume e Moore, Schlick, Ayer, Stevenson, come rappresentanti moderni e contemporanei del compatibilismo. Infatti, questo riproduce, aggiornandola, la posizione che afferma il determinismo della volontà e l’indeterminismo dell’azione, e identifica la libertà con la libertà d’azione, come possibilità di agire, di compiere l’azione che si vuole compiere senza costri6442

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zione e impedimento. La differenza della tesi compatibilista contemporanea rispetto a quella moderna consiste nella rinuncia al concetto di volontà, considerato retaggio di un’antropologia sostanzialistica, a favore della categoria degli eventi mentali, come desideri, preferenze, volizioni, motivi ecc. A queste condizioni lo spazio della libertà viene riservato alla possibilità di ipotetici corsi alternativi di azione, secondo una proposta già di Hume, ripresa nella fortunata formulazione di Harry G. Frankfurt del «principio delle possibilità alternative» (cfr. Alternate Possibilities and Moral Responsability, in «Journal of Philosophy», 66, 1969, pp. 828-839, tr. it. di A. Perri, Possibilità alternative e libertà morale, in M. De Caro [a cura di], La logica della libertà, Roma 2002, pp. 117-132). La questione era già stata trattata da George E. Moore, per il quale l’«avrei potuto» agire diversamente dipende dall’ipotesi «se lo avessi scelto», se cioè ci fosse stato un diverso processo causale di scelta (Ethics, London 1912, tr. it. a cura di M.V. Predaval Magrini, Etica, Milano 1982, cap. 6). L’argomento è ripreso tra gli altri da Schlick (in Fragen der Ethik, tr. cit.), da Alfred Ayer (Freedom and Necessity, in Philosophical Essays, Edimburgh 1954, pp. 271-284, tr. it. di A. Perri, Libertà e necessità, in M. De Caro, op. cit., pp. 4154) e da Patrick H. Nowell-Smith, che evidenzia il condizionamento deterministico della scelta, per cui l’agente nelle condizioni e nelle circostanze in cui ha operato non avrebbe comunque potuto fare diversamente, mentre difende la volontarietà dell’agire fondata sulla causalità non costrittiva dell’agire (cfr. Free Will and Moral Responsability, in «Mind», 57, 1948, pp. 45-61). A sua volta Harry G. Frankfurt cerca di salvare la libertà in contesto deterministico, mettendo in questione, però, l’indispensabilità del ricorso al principio delle possibilità alternative, essendo possibili libertà e responsabilità anche in assenza di possibilità di alternative. Piuttosto, un’«analisi gerarchica» della struttura motivazionale dell’agente mostra che questi è capace di desideri di diverso grado secondo una gerarchia che si determina da sé, rispondente a ciò che l’agente veramente vuole: nella capacità di ordinare i desideri spontanei e di scegliere, in forza dei desideri di grado superiore, consiste la libertà della volontà (cfr. Freedom and Will and the Concept of a Person, in «Journal of Philosophy», 68, 1971, pp. 5-20;

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Identification and Wholeheartedness, in F. Schoeman [a cura di], Responsability, Character and the Emotions. New Essays in Moral Psychology, Cambridge 1987, pp. 27-45). La proposta di Frankfurt è ripresa da altri autori, tra cui John Martin Fischer, Keith Lehrer, Gary Watson. Essa mostra che all’interno del compatibilismo stesso il dibattito si è spostato significativamente dallo scenario esterno dell’azione a quello interno della volontà, senza essere in grado però di fornire una giustificazione della capacità dell’autoderminazione volontaria nel contesto deterministico. Da questo punto di vista gli incompatibilisti hanno buon gioco a formulare l’obiezione del cosiddetto «consequence argument», secondo cui l’agire libero esige la capacità di controllare i fattori della sua eventuale necessitazione, mentre il determinismo implica fattori necessitanti, tra cui le leggi di natura e gli stati passati dell’universo, sottratti al controllo da parte di qualunque agente; per cui, se è vero il determinismo, nessun agente è libero (cfr. P. van Inwagen, An Essay on Free Will, Oxford 1983). Un altro tentativo, interno al compatibilismo, di affermare la libertà viene da parte di Davidson per via epistemologica con la teoria del cosiddetto «monismo anomalo», come versione, nell’ambito del mind-body problem, della teoria dell’identità delle occorrenze mentali e fisiche. Secondo tale versione del fisicalismo sono veri insieme il monismo ontologico deterministico e l’irriducibilità del mentale ad esso, perché gli eventi descritti in termini mentalistici presentano caratteristiche che non sono assumibili sotto leggi fisicaliste (cfr. Mental Events, in Essays on Actions and Events, Oxford 1980, tr. it. Eventi mentali, in Azioni ed eventi, tr. cit., cap. 11). Anche l’incompatibilismo ha illustri precedenti, sia nella sua versione radicale antilibertaria, tipica del meccanicismo settecentesco di La Mettrie, di Diderot ecc., sia in quella libertaria di Reid e di Kant. La forma prevalente è oggi quella libertaria, assunta con crescente consenso. Una prima forma di libertarismo prende la forma di un indeterminismo radicale, secondo cui le azioni sarebbero eventi senza cause proprie. A sostegno di questa tesi la spiegazione dell’agire è proposta in termini non di causalità efficiente secondo il modello della spiegazione fisica, ma di intenzionalità, cioè di stati mentali come ragioni non causali d’azione. Di

Libertà conseguenza, sottraendosi al vincolo causale, le azioni non sono necessitate e, in questo senso, libere (cfr. J.R. Lucas, The Freedom of the Will, Oxford 1970, e, più recentemente, C. Ginet, On Action, Cambridge 1990; S.C. Goetz, Libertarian Choice, in «Faith and Philosophy», 14, 1997, pp. 195-211; H. McCann, The Work of Agency. On Human Action, Will and Freedom, Ithaca 1998). Il dibattito a riguardo verte sulla spiegazione intenzionale e sulla sua sufficienza a render conto della capacità dell’agente di «controllare» la sua azione. Per far fronte alle obiezioni rivolte all’indeterminismo radicale, altri autori propongono una versione dell’indeterminismo in cui sia reinserito il principio causale. Per evitare di cadere nel casualismo, che non rende conto del comporsi e del condursi dell’azione, si propone un’idea di causalità indeterministica che rispetta la concatenazione causale, ma ammette insieme la sua sospensione a un certo punto del processo, così che l’accadere dell’azione non sia predeterminato, ma solo predisposto dalla sua causa (cfr. J. Austin, Ifs and Cans, in Philosophical Papers, Oxford 1961, pp. 153-180; E. Anscombe, Causality and Determination. An Inaugural Lecture, Cambridge 1971; R. Kane, The Significance of Free Will, Oxford 1996). Secondo Robert Nozick, il momento indeterministico è da identificare con la valutazione comparativa delle ragioni a favore dei diversi corsi d’azione da parte dell’agente. Nella comparazione, infatti, l’agente valuta in senso attivo le ragioni d’azione, in quanto non scopre il loro valore, ma assegna ad esse un «peso» in base al quale prendere la decisione: «Il processo decisionale fissa dunque i pesi che le ragioni devono avere» (Philosophical Explanations, Cambridge [Massachusetts] 1981, tr. it. di G. Rigamonti, Spiegazioni filosofiche, Milano 1987, p. 337). In questo senso le ragioni inclinano verso certe scelte, ma non le necessitano e la ponderazione, a sua volta, è insieme principio di indeterminazione e causa effettiva della scelta del corso d’azione. Indeterminazione, d’altra parte, non significa arbitrio, perché l’assegnazione del peso delle ragioni fa riferimento alla storia e all’autocomprensione del soggetto, è «una componente importante della sintesi riflessiva di sé» (ibi, p. 347). La teoria suscita l’obiezione, già richiamata, di chi considera l’indeterminismo un ostacolo al controllo dell’agente sulle proprie azioni. In effetti, questa forma di indeterminismo, che richia6443

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Libertà ma obiettivamente la dottrina scolastica del «giudizio ultimo pratico» come luogo di indeterminazione libertaria, esigerebbe il passaggio alla fondazione, ulteriore rispetto all’affermazione dello stato di indeterminazione d’atto, della capacità di autodeterminazione del soggetto. Tale passaggio avviene in ambito analitico con la teoria dell’agent causation ovvero della «causalità immanente» del soggetto agente, al quale come tale è attribuita la capacità di autodeterminare la propria volontà e di originare di conseguenza nuove catene causali, raggiungendo così le tesi dei più classici sostenitori del libero arbitrio. Una delle più autorevoli proposte di questa posizione da parte di Roderick Chisholm si richiama infatti a Thomas Reid e ad Aristotele (cfr. R.M. Chischolm, Human Freedom and the Self, «The Lindley Lecture, University of Kansas», Lawrence [Kansas] 1964, pp. 3-15, tr. it. di A. Perri, La libertà umana e il sé, in M. De Caro [a cura di], La logica della libertà, Roma 2002, pp. 55-74). Si tratta dunque di riconoscere una causazione sui generis da parte dell’agente, distinta e irriducibile ai processi della causazione tra eventi (cfr. T. O’Connor, Agents, Causes, Events. Essays on Free Will and Indeterminism, Oxford 1995). L’obiezione a questa teoria riguarda principalmente le nozioni di volontà, mente, sé, coscienza che essa rimette in gioco, come realtà che, facendo eccezione all’ordine naturale dotato di causazione deterministica, vengono accusate di «oscurità metafisica». Ad essa si tenta di rispondere, come ha fatto Karl Popper, con una rinnovata concezione dualista (cfr. Of Clouds and Clocks. An Approach to the Problem of Rationality and the Freedom of Man, St. Louis [Missouri] 1966, rist. in Objective Knowledge. An Evolutionary Approach, Oxford 1972, pp. 206255), oppure con l’analisi della peculiarità irriducibile del vocabolario agenziale, che ha intrinseco riferimento alla libertà (cfr. G.H. von Wright, Causality and Determinism, New York London 1974, tr. it. di P. Allegri, Causalità e determinismo, Faenza 1981; Freedom and Determination, Amsterdam 1980) oppure, ancora, con un ripensamento epistemologico e ontologico sui temi della «sopravvenienza» e dell’«emergenza» (cfr. J. Kim, Philosophy of Mind, Boulder 1996). In ogni caso la problematica stessa segnala un punto d’arrivo del dibattito, in cui si riapre per intero il problema dell’identità an6444

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tropologica come condizione d’intelligibilità dell’idea stessa della libertà. V. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. – La storia della filosofia occidentale porta in sé una discussione del tema della libertà che costituisce una straordinaria epopea del pensiero sull’umano e sul divino. La prima considerazione da fare riguarda, dunque, il riconoscimento di questo eccezionale patrimonio, in cui si intrecciano indissolubilmente speculazione filosofica e riflessione teologica, venendo a costituire un unicum nella storia intellettuale dell’umanità. Il dibattito sulla libertà, la sua esistenza e le sue forme, natura e origine, non ha e non può avere conclusione, ma presenta alcune evidenze, costanti e ricorrenze, che costituiscono in se stesse un contributo speculativo fondamentale. 1) La riflessione analitica contemporanea ripropone temi tipici della modernità postcartesiana, in cui era iniziato il confronto con la visione scientifica del mondo. Come già allora ebbe a concludere Kant, anche il più recente dibattito dimostra che è impossibile reperire la libertà sullo stesso piano delle rilevazioni fisio-psichiche. Dall’interno di un universo supposto deterministico è impossibile ricavare uno spazio per l’indeterminismo libertario. Il concetto di libertà significa apriori un ordine altro da quello deterministico, alternativo alla clausola di chiusura del mondo fisico (che da parte sua dovrebbe saper esibire le ragioni della sua escludenza d’ogni significato non fisicalistico della realtà). Se non si ritiene che vi siano ragioni a favore di un ordine ontologico non deterministico, la ricerca di spazi in deroga al determinismo avvia un procedimento vizioso, in cui ciò che si dice di ricercare è in realtà posto (in actu signato) come tolto (in actu exercito). 2) L’autentico interrogativo metodologico riguarda perciò la via per giungere a una qualche evidenza della rilevanza antropologica dell’ordine ontologico non deterministico. Ricorre nella storia del problema la contrapposizione tra chi afferma (come Cartesio e Begson) e chi nega l’esistenza di un’evidenza immediata di tale rilevanza. Una certa evidenza psicologica della libertà, il sentirsi liberi, sembra innegabile, ma contro di essa si leva l’obiezione spinoziana sulla disequazione tra evidenza psicologica ed effettività ontologica: potremmo essere determinati a sentirci liberi.

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Una via più accessibile sembra essere quella dell’evidenza mediata a posteriori. Non quella troppo facilmente impugnabile del poter scegliere in seconda battuta in un modo diverso, ma quella più robusta nella forma della libertà morale, come attestazione della capacità dell’uomo di impegnarsi nello «sforzo» della propria direzione di vita (Maine de Biran) o in quello della contrapposizione alle inclinazioni sensibili per il primato della ragione sulle passioni (l’autarchia morale greca; l’esperienza della responsabilità morale a seguito dell’imperativo in Kant). Ma a ciò si obbietta (Lequier) che con ciò nient’altro è mostrato se non la spontaneità dell’agire e la sua eventuale interna conflittualità, in cui può imporsi il determinismo del «motivo più forte» (Giansenio, Schopenhauer), piuttosto che la libera scelta. Lo spazio logico e ontologico di una radicale autonomia libertaria è evidenziato solo da un’argomentazione apriori circa l’autosufficienza epistemologica (come nel caso del trascendentale kantiano) oppure metafisica (come nell’uno plotiniano, nella causa sui spinoziana, nell’assoluto idealista) dell’agire. Se libertà si dà, essa è predicabile solo di ciò che ha titolo per un’autonomia originaria (non derivata, eventualmente partecipata) di un ordine superiore incondizionato e in grado di disporre di se stesso. È contraddittorio cercare fondamenti empirici dell’incondizionato, essendo questo principio e fondamento, come tale, inoggettivabile e indimostrabile a livello fenomenico. In ciò convergono, per vie anche molto diverse, molte altre filosofie della libertà, come l’esistenza nella fede di Kierkegaard, la voluntas/noluntas metafenomenica schopenhaueriana, la volontà di potenza dell’oltreuomo nietzscheano, la durata bergsoniana, l’interiorità spiritualista, l’«esistenza» esistenzialista, il personalismo spiritualista e tomista. 3) Non meraviglia, perciò, che il significato prevalente della libertà nel grande arco del dibattito occidentale non sia quello della libertà di scelta, ma quello appunto della libertà come autonomia radicale e automotivazione originaria, che in Plotino ha la sua prima grandiosa formulazione, che è sottesa alle complesse analisi antropologiche di Agostino e di Tommaso d’Aquino, che prevale nel trascendentalismo kantiano e nell’idealismo metafisico ed è presente nelle altre filosofie appena ricordate. La libertà, in prospettiva metafisica o anche

Libertà solo antropologica, è comunque interpretata a questo livello come modo d’essere di una totalità dotata di una radice di autopossesso della propria esistenza, in cui è riposta la cifra della sua più propria identità. 4) Ciò non diminuisce l’importanza della libertà di scelta o libero arbitrio, ma la interpreta in un quadro ampliato. Essa trova, infatti, nella libertà fondamentale d’autonomia il suo fondamento, mostrando in tal modo la sua non autosufficienza concettuale: perché ci sia libero arbitrio è necessario che vi sia una previa capacità d’automotivazione, che sottrae il movimento della volontà al determinismo delle cause. In termini kantiani il Wille si distingue dal Willkür e sta a fondamento della sua libera determinazione delle possibilità, così come l’apertura trascendentale della voluntas tommasiana sta a fondamento della libertà del singolo atto di volontà dalla cogenza dei beni e della libertà di comparazione e di elezione. Il libero arbitrio ha con ciò la funzione di dar forma storica alla libertà, di tradurne l’autonomia originaria nel tempo e di comunicare all’esperienza temporale la qualità dell’incondizionato metatemporale. Si comprende come, là dove siano mancate la distinzione e l’articolazione dei piani, la teoria della scelta abbia sempre rischiato di essere subordinata al problema della causazione efficiente attribuita alle ragioni intellettuali della scelta o ai motivi della volontà stessa. Infatti, se a monte non sta il potere della volontà sopra se stessa, il suo essere sorgente autonoma del suo stesso processo (in una sinergia da definire con la ragione), ragioni e motivi tenderanno ad apparire come elementi previ e condizionanti estrinsecamente il momento dell’elezione. Da questo punto di vista non si può non apprezzare la teoria tommasiana del giudizio ultimo pratico, che analizza con finezza il gioco complesso tra le facoltà razionale e volitiva (concepite riflessivamente immanenti l’una nell’altra), in cui la volontà motiva in ultima istanza se stessa a una determinata scelta (analoghe teorie sono presenti in Reid, Rosmini e Nozick). Al contrario, ma a riprova, il dibattito tra intellettualisti e volontaristi a partire dal XIII secolo polarizza l’attenzione, in modo astratto rispetto all’intero organismo della libertà umana, sulla questione della scelta e dei suoi antecedenti. In questa prospettiva la soluzione estrema dell’indifferentismo ockhamiano, e la conseguente tradizione della 6445

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Libertà libertas indifferentiae, costituisce l’estremo tentativo di salvare l’indipendenza della scelta, in modo però così unilaterale da favorire, in linea di principio, il suo rovesciamento nell’eccesso opposto, la negazione della libertà di scelta a favore della sola libertà d’azione; come avverrà nella filosofia postcartesiana sulla base di una rinnovata teoria della causalità empirica. 5) Infine, vanno sottolineate due dimensioni della libertà (il suo rapporto al bene e il suo rapporto ad altra libertà), su cui il grande dibattito occidentale ha spesso riflettuto, benché in modo rispettivamente controverso o troppo implicito. Nella filosofia antica e medievale, almeno fino alla rottura nominalista, è impossibile parlare di libertà senza riferimento al bene. La libertas maior di Agostino è paradigmaticamente libertà di adesione al bene e così per tutti i grandi medievali la libertà è libertà di bene, come dirà ancora Kant. Il nesso libertà-bene va in discussione con la crisi del finalismo ontologico e antropologico, ma si ripropone come problema anche in età moderna e contemporanea, nella misura in cui la libertà è ripensata come autonomia automotivantesi. Se, infatti, la libertà non è solo quella divina, che è già nella pienezza del suo bene, la libertà finita è in cerca di realizzazione e dunque di un bene che ancora non possiede. L’unica alternativa per negare il legame della libertà al bene è di concepirla in modo rigorosamente formalistico, come capacità il cui bene è l’incremento del proprio stesso potere, autonomia fine a se stessa, puro arbitrio creatore del suo bene, come teorizza esemplarmente Sartre, destinando la libertà a un esito nichilista. La seconda dimensione è quella della relazione tra libertà ovvero della libertà come relazione. Il tema ha origine cristiana, perché è nel cristianesimo che la libertà è pensata non solo in partecipazione a quella di Dio (come sarà anche in Plotino), ma anche destinata a una pienezza di realizzazione in sinergia con la «grazia» divina (sanante ed elevante). Ma la grazia è esercizio peculiare della libertà divina, è gratuito comunicarsi della libertà divina; la libertà umana acquista dunque la sua figura compiuta solo in rapporto intrinseco (fondatore e realizzatore) con altra libertà, con la libertà altra di Dio. Tale concezione teologica dice qualcosa della struttura intima della libertà, rilevante anche nella sua comprensione puramente filosofica, a livello metafisico e in quello orizzontale intersoggettivo. Dice, infat6446

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ti, della libertà come realtà personale e interpersonale, dotata di una struttura dialogica, che riguarda la sua genesi, il suo esercizio e il suo destino. Tuttavia tale feconda visione non ha uno sviluppo tematico di rilievo in una concezione sistematica della libertà. La stessa tradizione teologica non sembra averla saputa proporre in modo speculativamente coerente e creativo, come mostrano gli intricati e aporetici dibattiti su grazia e libertà del XVI e XVII secolo; mentre la teoresi filosofica per lo più ignora il tema e solo lentamente e frammentariamente ne prende interesse e consapevolezza, in modo negativo, entro il paradigma del conflitto, con Hegel e Sartre, con intuizioni geniali in Kierkegaard, con nuova sensibilità intersoggettiva nella filosofia personalista contemporanea, in particolare di un Marcel o di un Martin Buber, e negli sviluppi della fenomenologia di un Merleau-Ponty e di un Lévinas. F. Botturi BIBL.: filosofia antica: P. HENRY, La liberté chez Plotin, in «Revue Néoscolastique de Philosophie», 8 (1931), pp. 55-79, 180-215, 318-339; A.M.J. FESTUGIÈRE, Liberté et civilisation chez les grecs, Paris 1947; M. POHLENZ, Griechische Freiheit. Wesen und Werden eines Lebensideals, Heidelberg 1955, tr. it. di M. Berlincioni, La libertà greca, Brescia 1963; Y. BRES, La psychologie de Platon, Paris 1968; V. GUAZZONI FOÀ, La libertà nel mondo greco, Genova 1972-74, 2 voll.; A.J. VOELKE, L’idée de volonté dans le stoïcisme, Paris 1973; K.A. RAAFLAUB, Die Entdeckung der Freiheit: zur historischen Semantik und Gesellschaftsgeschichte eines politischen Grundbegriffes der Griechen, München 1985, tr. ingl. di R. Franciscono, The Discovery of Freedom in Ancient Greece, Chicago-London 2004; PLOTINO, Traité sur la liberté et la volonté de l’Un (Ennéade 6, 8), ed. a cura di G. Leroux, Paris 1990 (ampia introduzione, commento e bibliografia); T. CHAPPELL, Aristotle and Augustine on Freedom. Two Theories of Freedom, Voluntary Action and Akrasia, London - New York 1995; S. BOBZIEN, Determinism and Freedom in Stoic Philosophy, Oxford 1998; C. NATALI, Aristotele: azione e responsabilità, in C. VIGNA (a cura di), La libertà del bene, Milano 1998, pp. 85-103; M. ZANATTA, Aspetti della libertà nel pensiero greco, in A. AUTIERO A. GENOVESE (a cura di), Antonio Rosmini e l’idea della libertà, Bologna 2001, pp. 45-81; S. NATOLI, Libertà e destino nella tragedia greca, Brescia 2002; A. OUSAGER, Plotinus on Selfhood, Freedom and Politics, Aahrus 2004; A. SQUILLONI, Libertà esteriore, libertà interiore: due aspetti del pensiero greco, Firenze 2004. Filosofia medievale: G. CAPONE BRAGA, La concezione agostiniana della libertà, Padova 1931; E. GILSON,

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LIBERTÀ POLITICA. – Nelle sue origini etiLibertà politica mologiche entro le lingue indoeuropee, i termini indicanti una condizione di libertà (gr. ejleuqeriva; lat. libertas) sembrano derivare da una comune radice «*leudh» che indica un processo di crescita e sviluppo inserito in una realtà vivente: «il senso primitivo non è, come si sarebbe tentati di pensare, “liberati da qualche cosa”; è quello dell’appartenenza, a una razza etnica designata con una metafora di crescita vegetale» (E. Benveniste, Vocabolario delle istituzioni indoeuropee (1969), Torino 1976, vol. I, p. 249). È questa appartenenza che qualifica l’individuo come libero in contrapposizione ad altri, in particolare allo straniero o allo schiavo. «Appartenenza ad una stirpe» e «non schiavitù» ossia «indipendenza» sono dunque le due categorie legate al significato originario di libertà come si riscontra nel termine latino libertas che caratterizza lo status di chi è liber, ossia dell’appartenente alla famiglia, il figlio, che non è schiavo. Dal piano personale questo concetto trapassa al piano politico, per indicare anzitutto la condizione di una unità politica. In Grecia ejleuqeriva designa così, in primo luogo, la condizione di una città che non è soggetta a un padrone esterno o straniero, ma al contrario appartiene a se stessa e governa se stessa (ciò, in particolare, a partire dalle guerre contro i Persiani, come testimonia l’istituzione a Platea di una festa della libertà per ricordare 6449

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Libertà politica quell’evento); in secondo luogo, la condizione di una città che non è soggetta al dominio di un tiranno interno e in cui, quindi, i cittadini hanno libertà di parola (parrhsiva) e partecipano al governo della città (come testimonia in questo caso l’istituzione di una festa della Libertà a Siracusa dopo la caduta del tiranno Trasibulo e la restaurazione della repubblica). In questo contesto l’idea di libertà politica si identifica con l’ideale dell’autogoverno (aujtavrkeia) tanto della città quanto del singolo e per questo l’uomo libero per eccellenza è il sapiente, ossia colui il quale, tramite la ragione, è sommamente in grado di governare se stesso e di rendersi quindi indipendente da ogni condizionamento sia esterno che interno. La libertà intesa come «fare ciò che si vuole» è criticata sul piano politico tanto da Platone (Repubblica IX, 577 e) quanto da Aristotele (Politica 1310 a) come libertà illusoria perché conduce alla schiavitù del piacere, e dannosa per la città perché finisce per distruggere l’ordine e favorire l’instaurarsi della tirannide. La libertà si identifica invece con il rispetto delle leggi della città, che sono espressione della ragione, e ciò anche in quei testi in cui si mostra maggiore tolleranza verso coloro che vivono come a loro aggrada (così ad esempio nell’elogio di Atene da parte di Pericle: cfr. Tucidide, Guerre del Peloponneso II, 37 ss.). Similmente avviene a Roma, dove libertas va a designare lo stesso modo d’essere della respublica romana intesa non solo come entità politica indipendente dallo straniero, ma come forma di governo libero dalla soggezione a poteri dispotici, in cui il potere politico è regolato dalle leggi ed è distribuito in modo equilibrato tra le diverse componenti della società (cfr. Cicerone, De re publica I, XLV). Nel mondo greco e romano la libertà come condizione opposta alla schiavitù pare dunque legata in modo indissolubile a due elementi. Da un lato è connessa all’esercizio della ragione e in ciò si distingue dal seguire a proprio piacimento qualsiasi inclinazione; dall’altro è legata ad una appartenenza di status (ad una stirpe o ad un regime politico) e dunque a particolari situazioni sociali ed economiche che consentano agli individui di non dipendere da altri quanto alla propria sopravvivenza materiale. Il venir meno di queste condizioni esteriori di libertà, con la caduta delle città libere nel mondo greco e con il declino delle libertà repubblicane a Roma, fa sì che si svilup6450

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pi, attraverso lo stoicismo e il cristianesimo, un concetto di uomo libero svincolato da situazioni esteriori, ma legato invece ad una particolare condizione spirituale: l’appartenenza alla res publica magna della ragione per gli stoici o la comunione con Cristo per i cristiani. Come si vede, benché interiorizzato e spiritualizzato, anche in queste prospettive il nesso appartenenza-indipendenza rimane profondo, ma viene per così dire universalizzato: qualunque uomo o donna di qualsiasi stirpe o status sociale può affrancarsi dalla schiavitù delle passioni o del peccato e divenire un uomo libero. Questa libertà, così interiorizzata e spiritualizzata, non è, d’altra parte, priva di effetti sul piano politico: poiché ciò che dà la libertà non è più un’appartenenza sociale o politica, ma il legame con il Logos: ogni individuo può rivendicare nei confronti del potere politico una radicale libertà e un’indipendenza che nemmeno la minaccia della morte può scalfire. In forza di questa superiore appartenenza la sfera spirituale viene così sottratta al dominio del potere politico e rivendica la propria libertà. Muovendo dalla sfera spirituale, ma investendo poi altri ambiti della società, si formano così in età medievale rivendicazioni di libertà da particolari obbligazioni imposte dal potere politico. Il termine libertà (spesso al plurale: libertates) va così ad indicare esenzioni, immunità, privilegi rivendicate da soggetti diversi: dalla Chiesa (Libertas ecclesiae) nei confronti del potere temporale; dai Comuni nei confronti dell’Impero; da corpi intermedi e corporazioni (conventi, comunità locali, città, università) nei confronti dei poteri signorili; da parte degli uomini «liberi» nei confronti del potere regio come avviene nella Magna Charta Libertatum del 1215 in cui si legge: «nessun uomo libero sarà preso o imprigionato o espropriato o bandito o esiliato o in alcun modo colpito [...] se non in base ad un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese». Con ciò viene posto il concetto di una libertà personale che costituisce un limite al potere politico, limite che non può essere valicato ad arbitrio del suo detentore, ma solo a determinate condizioni definite dalla legge. Se in età antica e medievale il concetto di libertà viene declinato nella coppia concettuale appartenenza-indipendenza, è in età moderna che si trova formulata una diversa interpretazione del concetto di libertà come «assenza di impedimenti esterni» (Leviatano I, 14). È Tho-

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mas Hobbes a proporre una simile interpretazione del concetto, sulla base di una fisica materialistica e meccanicistica che tenta di spiegare la realtà – naturale come sociale – a partire dai corpi e dai loro movimenti. L’uomo si dice libero allo stesso modo di un essere animale o vegetale o di un corpo inanimato quando i suoi movimenti non sono ostacolati da impedimenti esterni, così come l’acqua è libera di scorrere nell’alveo di un fiume quando non vi siano dighe o altro a trattenerne il corso. La libertà che l’uomo gode nello stato di natura è una libertà radicale: nello stato di natura infatti ciascuno può «usare il proprio potere come desidera per conservare la propria natura». Questa libertà è definita da Hobbes come diritto di natura (Right of Nature) ed è da lui contrapposta alla legge di natura che invece obbliga l’uomo a fare qualche cosa. Questa concezione della libertà naturale si riflette sulla visione della libertà civile: questa non è più legata, come nella tradizione precedente, ad una condizione governata da leggi, ma si definisce piuttosto «in assenza» o «nel silenzio» della legge: «la libertà di un suddito consiste solo in quelle cose che il sovrano ha omesso nel regolare le sue azioni» (Leviatano II, 21). Non si deve tuttavia identificare la concezione di Hobbes con la concezione moderna della libertà in quanto tale. Anche in età moderna, infatti, è assai presente la visione di una libertà che non si oppone alla legge, ma anzi viene sorretta da quest’ultima. Nel pensiero di Locke, ad esempio, la libertà individuale è certo concepita come la «possibilità per chiunque di disporre e organizzare liberamente, come gli piace, se stesso, le proprie azioni, i propri beni e tutto ciò che gli spetta», ma ciò «nei limiti delle leggi cui sottostà, e perciò nel non essere soggetto all’arbitraria volontà altrui, ma nel seguire liberamente la propria» (Secondo trattato sul governo civile II, 57). La legge quindi non può essere considerata una negazione della libertà, tanto poco quanto può essere considerato un ostacolo un parapetto che ci protegge da un precipizio (ibid). Lo stesso nesso tra libertà politica e leggi civili è affermato con ancora maggiore radicalità da Montesquieu che afferma: «la libertà politica non consiste affatto nel fare ciò che si vuole [...] la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono: se un cittadino potesse fare ciò che esse vietano, non vi sarebbe più libertà, perché gli altri potrebbero fare altrettanto» (Lo spirito delle leg-

Libertà politica gi XI, 2). La legge e il governo civile sono dunque strumenti di protezione e non di negazione della libertà individuale. La conciliazione più piena di libertà e legge si trova espressa nel pensiero di Rousseau: in una linea che sarà ripresa da Kant, egli concepisce la libertà come «autonomia» ossia come «l’obbedienza alla legge che ci siamo prescritti» (Il contratto sociale I, 8). Sulla stessa linea interpretativa del rapporto tra libertà e legge si colloca la riflessione di Hegel, che vede nel mondo cristianogermanico il momento di più ampia realizzazione della libertà politica, perché in esso tutti gli individui sono liberi e non solo un uomo come nelle antiche società orientali, né solo un’aristocrazia come presso i Greci e i Romani. Anche per Hegel «solo la volontà che obbedisce alla legge è libera: obbedisce infatti a se stessa» (Lezioni di filosofia della storia, Firenze 1972, vol. I, p. 109); per questo nello stato in cui sono i cittadini stessi a darsi le leggi, si realizza la libertà politica in forma compiuta. A sottolineare invece il contrasto tra libertà individuale e stato sono, tra ’700 e ’800, autori come Jeremy Bentham (Frammento sul governo, 1776) e John Stuart Mill (Saggio sulla libertà, 1848). Il loro modo di concepire la libertà è squisitamente «negativo», come mera «assenza di divieti» o di «coercizione». Perciò ogni legge, anche la migliore, in quanto restringimento della libertà individuale, è sempre un male, per quanto necessario, e può essere accettata solo per evitare atti dannosi nei confronti degli altri individui. Negli atti invece che riguardano se stesso l’individuo deve essere riconosciuto come l’unico giudice dei propri interessi. In ogni caso, però, deve essere posto un limite invalicabile all’azione della società e dello stato nei confronti dell’individuo. Questa concezione della libertà corrisponde a quell’ideale di «godimento pacifico dell’indipendenza privata», che Benjamin Costant nel saggio Della libertà degli antichi comparata a quella dei moderni (1819), considera tipico degli uomini moderni, diversamente dagli antichi, che avrebbero inteso invece la libertà come diretta partecipazione al governo della cosa pubblica. Si distingue così la libertà «civile» dalla libertà «politica»: la prima ad indicare la sfera individuale (vita, proprietà, sicurezza) sottratta all’invadenza dei poteri pubblici; la seconda invece a significare il diritto di partecipare all’esercizio del potere politico da parte del cittadino. L’idea di una libertà come sfera 6451

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Libertario

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di non-interferenza da parte dei poteri pubblici nell’ambito delle scelte individuali si radicalizza nel pensiero anarchico e libertario, che vede nello stato e nel suo potere di disciplinamento non la garanzia della libertà ma il suo peggior nemico. Mentre l’idea di libertà legata alla partecipazione politica si intreccia e si salda nel corso dell’800 con l’idea di democrazia e di giustizia sociale e presuppone un fattivo intervento dello stato. Dopo l’esperienza totalitaria del ’900, in cui come non mai la libertà dell’individuo è stata radicalmente negata, il tentativo più rilevante di una formalizzazione del concetto di libertà si deve a Isaiah Berlin nel suo saggio Due concetti di libertà (1958). Rifacendosi alla distinzione già messa in luce, Berlin definisce come «libertà negativa» o «libertà da» l’assenza di interferenze da parte di altri individui, ovvero la possibilità di agire senza essere impedito o di non agire senza essere costretto, e come «libertà positiva» o «libertà di» il desiderio da parte dell’individuo di essere padrone di sé stesso e quindi l’orientamento all’autonomia. Più che di due concetti di libertà si tratta di due concezioni di essa, che per Berlin sviluppano «due atteggiamenti inconciliabili nei confronti dei fini della vita» (tr. it. di M. Santambrogio in Quattro saggi sulla libertà, Milano 1989, p. 231). Considerati gli sviluppi storici dei due atteggiamenti, la preferenza di Berlin va verso un primato della libertà negativa, che mantiene la possibilità del pluralismo e della libertà di scelta degli individui, e tiene dunque a distinguere tra la libertà in sé e le condizioni del suo esercizio. Il primato delle libertà individuali è al centro non solo della riflessione di altri pensatori liberali come Friedrich von Hayek (Legge, legislazione e libertà (1973-1979), Milano 1986) o Karl Popper (La società aperta e i suoi nemici (1943), Roma 1973-1974) o libertari come Robert Nozick (Anarchia, Stato e utopia (1974), Firenze 1981), ma è affermato anche da John Rawls che ha definito il primo principio di giustizia nel modo seguente: «ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti» (A theory of Justice, C'ambridge 1999; tr. it. di U. Santini, a cura di S. Maffettone, Una teoria della giustizia, Milano 2002, p. 255; cfr. anche Political liberalism, New York 1993, tr. it. di G. Rigamondi, Liberalismo politico, Milano 1994). M. Nicoletti

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BIBL.: C. WIRSZUBSKI, Libertas as a Political Idea at Rome during the late Republic and Early Principate, Cambridge 1950, tr. it. di G. Musca, con un’appendice di A. Somigliano, Libertas. Il concetto politico di libertà a Roma tra Repubblica e Impero, Roma-Bari 1957; N. BOBBIO, Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, in Politica e cultura, Torino, 1955, pp. 160-194; F. OPPENHEIM, Dimensions of Freedom: an Analysis, New York 1961, tr. it. a cura di G. Preti, Dimensioni della libertà, Milano, 1982; I. BERLIN, Four Essays on Liberty, London 1969, tr. it. Quattro saggi sulla libertà, a cura di M. Santambrogio, Milano 1989; A. PASSERIN D’ENTRÈVES, Sul concetto di libertà. politica, in «Rivista internazionale di Filosofia del diritto», 46 (1969), pp. 286-297; W. CONZE (et al.), Freiheit, in O. BRUNNER - W. CONZE - R. KOSELLECK (a cura di), Geschichtliche Grundbegriffe, Stuttgart 1975, vol. I, pp. 425-542, tr. it. di S. Mezzadra, con Prefazione di V.E. Parsi, Libertà, Venezia 1991; I. CARTER M. RICCIARDI (a cura di), L’idea di libertà, Milano 1996; M. BARBERIS, Libertà, Bologna 1999.

LIBERTARIO. – Il termine, d'introduzione Libertario recente, prima nella lingua francese, poi nelle altre lingue europee, denota chiunque si faccia assertore della libertà assoluta e partigiano dell'abolizione di ogni legge e di ogni governo. Esso, quindi, è sinonimo di anarchico. Nel mondo anglosassone prendono il nome di libertarians gli studiosi e gli attivisti che pretendono di riprendere la lezione dei primi pensatori liberali, contrapponendosi a coloro che, pur pregiandosi della denominazione di liberali, ne avrebbero dimenticato l’insegnamento, guardando con favore ad alcune forme di intervento dello stato nel mercato. D. Anselmo BIBL.: E. CIOFFI, Ribellione e pace nel pensiero libertario, Napoli 1985; P. FLORES D’ARCAIS, L’individuo libertario: percorsi di filosofia morale e politica, Torino 1999; C. LOTTIERI, Il pensiero libertario contemporaneo, Macerata 2001; AA.VV., Anarchismo: pensiero libertario attraverso il XX secolo, a cura di G. Ferrari, Canossa 2003. ➨ ANARCHIA; LIBERALISMO.

LIBERTINI - LIBERTINISMO (libertins - liLibertini - libertinismo bertinisme). – Il libertinage è figura storica complessa, non sempre circoscrivibile nei suoi singoli personaggi e nelle sue complete espressioni (si è sempre libertini in relazione a qualcuno, notava sottilmente Henri Bréhier in un colloquio con René Pintard). Nondimeno alcuni timbri specifici sembrano contrassegnarne lo spirito, esprimibile, più che in precise for-

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mule dottrinali, in linee di tendenza che rimandano ad una visione antimetafisica e «laica» del mondo, espressa nel perentorio imperativo dell’escarrer toute chose au niveau de la raison («riportare ogni cosa al livello dell’umana ragione»). Una delle prime definizioni, quella di Furètiere (Dictionnaire universel, La Haye 1690), è comunque emblematica: libertino è «chi non si sottopone alle leggi, alle regole del ben vivere, alla disciplina [...]; si dice, parimenti, riguardo alla religione, di chi non ha abbastanza venerazione per i suoi misteri o obbedienza ai suoi comandamenti. Padre Garasse ha fatto un libro contro gli atei e i libertini, che chiama la Dottrina curiosa [...] Vita o condotta libertina [...]; il libertinaggio delle donne [...], coqueterie». Nelle descrizioni d’uso si ritrovano così prospettive varie: vi è un libertinage érudit connesso a nodi concettuali del tipo autorità, obbedienza (e libertà), oppure collegato ai temi religiosi ed a polemiche che si dispiegano lungo gradazioni specifiche (atei, deisti, agnostici), per finire col richiamo a una tipica infrazione del codice morale. Una tipologia, quest’ultima, che meglio si addice ai caratteri del libertinage settecentesco, dove le polemiche intellettuali e critiche sembrano confluire nelle Lumières e dove, invece, il libertinage esibiva il lato dissolvente dal punto di vista del costume (descritto, ad esempio, nelle Relazioni pericolose di Laclos). Ritenuto per questo agli albori del pensiero «laico» delle Lumières e di un certo pensiero libertario (gli esprits forts) che mette in non cale qualsiasi autorità che non sia quella della ragione, il libertinage annovera tra i suoi esponenti figure come Gassendi e Naudé, La Mothe le Vayer e Cyrano de Bergerac, Saint-Evremond e Fontenelle, e può trovarsi altresì espresso in tanta letteratura clandestina che, come fiume carsico, traversa l’età moderna, combattendo un pensiero che si riteneva difeso dalla sola tradizione. Pur diversamente connotati, molti fermenti cinque e secenteschi stanno allo sfondo di quel che si potrebbe ritenere la «questione» libertina. P. Hazard parlava di «crisi della coscienza europea», cogliendo un movimento dallo statico al dinamico, dalla limitatezza geografica ai volti altri del diverso, dal mondo dei doveri a quello dei diritti; altri (A. Dupront) hanno messo in luce il tema dell’«eresia» come problema caratteristico dell’età delle confessionalizzazioni, nei suoi nessi con quello

Libertini - libertinismo della verità e della verità religiosa; altri ancora hanno mostrato che, ad effetto della nuova «scienza dei fenomeni», i primi confronti tra le «due culture» comportavano non pochi dibattiti epistemologici, che riposizionavano non solo il tema dei rapporti fede-ragione, ma anche l’organizzazione (e le relazioni interne) tra saperi. Se poi, come è stato ancora detto (J. Prévot), il saggio, di cui si fa tanto caso nel Seicento al seguito di Charron, è colui che «cerca di vivere il meno male possibile la propria incostante umanità, poiché ogni volta che ha voluto dimenticarlo, essa se ne è vendicata», l’allargamento all’ambito etico della «misura» libertina sembra aprire verso un umanesimo che esprima la peculiare ricerca di un secolo tra individualismo e una (efficace) socialità. Ma se i libertini, come tanti loro contemporanei, hanno avuto coscienza dei problemi del tempo, per meglio intenderli è necessario interrogarsi sul significato complessivo delle loro istanze, valutando analiticamente i loro gesti: un caso emblematico è quello di Gassendi, di cui è, ad esempio, più facile sottolineare la lotta contro l’oscurantismo, interpretandolo in maniera «laica», mentre in lui il significato di tale lotta poteva essere eminentemente religioso, volendo snidare la superstizione dovunque si trovasse e conservare la rivelazione contro ogni perversione idolatrica. È solo grazie a queste precisioni che possiamo cogliere quanto i libertini, nel loro radicarsi storico, abbiano effettivamente accompagnato e/o provocato – e in quali direzioni – crisi e «cambiamenti». Una preliminare attenzione ai «modi» del dire libertino non è senza effetti per coglierne il senso; una società di ancien régime è piena di cautele quanto al «difforme»: per affermarlo o suggerirlo si danno, allora, tipi specifici di scrittura, piegando opportunamente allo scopo citazioni e tradizioni; si adotta una certa retorica del mascheramento, mentre si distinguono l’interno dall’esterno, il privato dal pubblico secondo il cremoniniano intus ut libet, foris ut moris est, e si tende a drammatizzare il portato acritico del costume, del «popolo». Non andrà comunque dimenticato un inciso di Bayle: «Vi è una grande differenza tra lo scrivere liberamente quel che si può dire contro la fede, e crederlo effettivamente vero» (Dictionnaire historique et critique, art. Vayer). E così, dentro un contesto ancora classico ed umanistico (R. Pintard, T. Gregory), i libertini recupe6453

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Libertini - libertinismo rano polemicamente, contro la concordia philosophorum, tematiche come l’eternità del mondo e la mortalità dell’anima, mostrando la loro carica dissolvente in luoghi spesso così distanti da quelli in cui erano nate. Accostandosi all’immenso repertorio degli errori umani, lasciano filtrare dubbi e contestazioni su Dio, sulla Provvidenza, sull’immortalità dell’anima, affidandosi ad una ragione per lo più aliena da un «comune sentire religioso» e da una visione finalistica della natura. Portando a compiutezza temi di morale autonoma (la virtù come premio a se stessa, oppure il primato dell’autoconservazione o di una – contenuta – voluptas), accedono a un individualismo in cui una saggezza (magari anche scettica) vive di prudenza e della coscienza del limite, accompagnandosi, per quanto attiene il sociale, ad un utilitarismo attento all’efficacia, ma non dimentico, in alcune teorie dell’honnêteté, dell’importanza di una felicità condivisa (Mitton). Guardando realisticamente alla vita associata e politica, desacralizzano il potere riconducendolo a cosa esclusivamente umana, mentre indugiano su soluzioni dal timbro convenzionalista nell’organizzazione del politico, rimarcando, non senza qualche risvolto epicureo, una sorta di primato del privato sul pubblico a garanzia della propria libertà interiore. Un qualche tema, emergente e problematico nella sua stessa carica polemica, viene così ad investire il Seicento nel suo complesso, facendo accreditare il libertinage come una tra le voci della «coscienza moderna», almeno per quei caratteri che, sullo sfondo di un cosmo disgregato, disegnano le problematiche di «umanesimo» ed «esperienza», di «richiamo al soggettivo» ed «attenzione al particolare», dentro le prospettive di un mondo riportato all’empirico e alla misura esclusivamente umana. Se si è potuto, dunque, parlare di «principi fondamentali della filosofia libertina» (L. Kolakowski), lo si è fatto astraendo spesso da singole figure, comprendendo anticonformisti (il poeta Théophile de Viau) o spiriti liberi ma non bigotti (il caso di un Guy Patin), e poi atei dichiarati, deisti, «politici» ch’erano forse in opposizione – più che al siècle des saints – al siècle dell’une foi, une loi, une religion, e con una religione che a taluni poteva apparire con pretese direttamente politiche. E trascurando una più specifica ricomposizione di fonti: il naturalismo rinascimentale nei suoi differenti esiti, come, ad esempio, nel Theophrastus redivivus, 6454

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nel quale convivono naturalismo, empirismo e teoria dell’impostura della religione, oppure i molti rivoli sviluppatisi al seguito di Montaigne e di Charron. Relativamente all’autonomia morale, potremmo riconoscere in diversi contesti i temi della protesta, della critica religiosa, della polemica contro il corpo tradizionale del sapere, della critica sociale lungo tutto il Seicento francese, sottolineando (con Kolakowski) «un atteggiamento empirista ed antiscolastico nell’interpretazione della conoscenza umana; un’impostazione anti-aristotelica e scettica nella metafisica; un’impostazione anticartesiana e atomistica nella fisica; una separazione della conoscenza terrena dalla teologia; una separazione dell’etica dalla fede; una moralità edonistica e tollerante in contrapposizione ad una moralità basata sulla paura e su una rigida normativa». D. Bosco BIBL.: F. LACHEVRE, Le libertinage au XVIIe siècle: Le procès de Théophile de Viau, Paris 1909; F. LACHEVRE, Disciples et successeurs de Théophile de Viau, Paris 1911-24; J.R. CHARBONNEL, La pensée italienne au XVIe siècle et le courant libertin, Paris 1919; R. PINTARD, Le libertinage érudit dans la première moitié du XVIIe siècle, Paris 1943 (ristampa Genève-Paris 1983); J.S. SPINK, French free Thougth from Gassendi to Voltaire, London 1960, tr. it. a cura di L. Roberti Sacerdote, Il libero pensiero in Francia da Gassendi a Voltaire, Firenze 1974; A. ADAM, Les libertins au XVIIe siècle, Paris 1964; A.M. BATTISTA, Alle radici del pensiero politico libertino, Montaigne e Charron, Milano 1966; G. SCHNEIDER, Der Libertin, Stuttgart 1970, tr. it. Il libertino, Bologna 1974; S. BERTELLI, Ribelli, libertini e ortodossi nella storiografia barocca, Firenze 1973; O. POMPEO FARACOVI, Il pensiero libertino, Torino 1977; T. GREGORY, «Theophrastus redivivivus». Erudizione ed ateismo nel Seicento, Napoli 1979; L. KOLAKOWSKI, Libertino, in Enciclopedia Einaudi, Torino 1979, vol. VIII; D. BOSCO, Metamorfosi del libertinage. La «ragione esigente» e le sue ragioni, Milano 1981; AA.VV., Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento, Firenze 1981; G. CANZIANI - G. PAGANINI (a cura di), Theophrastus redivivus, Firenze 1981-82, 2 voll.; P. CLAIR, Libertinage et incrédules (1665-1715?), Paris 1983; J. BEAUDE, La crise culturelle au début du XVIIe siècle (1600-1637) et le problème de Dieu, Thése, Lille III [1985]; S. ZOLI, Europa libertina tra controriforma ed illuminismo, Bologna 1988; L. GODARD DE DONVILLE, Les libertins des origines à 1665: un produit des apologètes, Paris-Seattle-Tübingen 1989; F. CHARLESDAUBERT, Les libertins érudits en France au XVIIe siècle, Paris 1998; H. OSTROWIECKI, Érudition et combat antireligieux au XVIIe siècle, Le cas du «Theophrastus redi-

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vivus», Villeneuve d’Ascq 2000; T. GREGORY, Genèse de la raison classique de Charron à Descartes, Paris 2000; J.P. CAVAILLÉ, Dis-simulation. Morale, politique et religion au XVIIe siècle, Paris 2002; D. FOUCAULD, Un philosophe libertin dans l’Europe baroque: Giulio Cesare Vanini (1585-1619), Paris 2003; S. GOUVERNEUR, Prudence et subversion libertines: la critique de la raison d'État chez François de la Mothe Le Vayer, Gabriel Naudé et Samuel Sorbière, Paris 2005. ➨

THEOPHRASTUS REDIVIVUS.

LIBER XXIVphilosophorum PHILOSOPHORUM. – ScritLiber XXIV to latino anonimo, della prima metà del XIII secolo, composto da ventiquattro definizioni, precedute da un prologo e seguite ciascuna da un commentario, in cui altrettanti filosofi cercano di «stabilire di comune accordo qualcosa di certo intorno a Dio». Si tratta della traduzione, compiuta a Toledo, di un testo greco antico che rivela forti influssi aristotelici più che, come si è a lungo sostenuto, pseudo-ermetici. Pur con qualche concessione alla teologia negativa, presenta Dio come monade suprema, da cui tutto deriva, e come sfera infinita. L. Mauro BIBL.: Le livre des XXIV Philosophes, tr. fr. a cura di F. Hudry, Grenoble 1989; Il libro dei XXIV Filosofi, tr. it. a cura di P. Necchi, Genova 1996; Il libro dei ventiquattro filosofi, a cura di P. Lucentini, Milano 19992. Sul Liber XXIV philosophorum: C. BAEUMKER, Das pseudo-hermetische «Buch der vierundzwanzig Meister»: Studien und Charakteristiken zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, Münster 1928, pp. 194214.

LIBRI, GUGLIELMO ICILIO, CONTE CARRUCCI Libri SOMMAIA. – Matematico e storico della

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scienza, n. il 2 genn. 1803 a Firenze, m. il 28 sett. 1869 a Fiesole. Studiò a Pisa nella cui università insegnò, giovanissimo, matematica. Di convinzioni liberali, per aver ordito una congiura contro il granduca nel 1831 fu costretto all’esilio, dapprima a Parigi e poi a Londra. Tra i suoi scritti, fondamentale la Histoire des sciences mathématiques en Italie depuis la renaissance des lettres jusqu’à la fin du XVIIe siècle (Paris 1838-41, 4 voll., tr. it. parziale di L. Masieri, vol. I, Milano 1842, vol. II, fino a p. 240, Milano 1843), da alcuni esaltata come un modello insuperato di storia della scienza, da altri criticata come non priva di errori e difetti. In essa, come in altri scritti, Libri rivendica all’Italia le sue glorie nel campo del-

Libri carolini la scienza (ripr. dell’Histoire, Hildesheim 1967, New York 1967 [dell’edizione di Halle 1865]). G. Capone Braga BIBL.: S. FERMI, Pietro Giordani e Guglielmo Libri, in Saggi giordaniani, Piacenza 1915, pp. 45-63; C. FRATI, s. v., Dizionario bio-bibliografico dei bibliotecari e bibliofili italiani: dal secolo XIV al XIX, Firenze 1933 (con tre volumi di aggiunte a cura di F. Parenti, Firenze 1952-60); s. v., AA.VV., Dizionario del Risorgimento nazionale, Firenze 1930-38, 4 voll.; S. FERMI, Ancora dei rapporti fra Pietro Giordani e Guglielmo Libri e Giandomenico Romagnosi e Guglielmo Libri, in Letterati e filosofi piacentini del primo Ottocento, Piacenza 1944, pp. 134-145, 146-164; F.G. TRICOMI, s. v., Matematici italiani del primo secolo unitario, Torino 1962; E. BONORA (a cura di), s. v., Dizionario della letteratura italiana, Milano 1977.

LIBRI CAROLINI. – Nel 787, Irene, moglie Libri carolini dell’imperatore bizantino Leone IV e, alla morte del marito, reggente in vece del figlio minorenne, il futuro Costantino VI, organizzò il secondo concilio niceno, settimo ecumenico, per discutere del culto delle immagini nella chiesa. Negli anni immediatamente precedenti, infatti, Bisanzio era stata scossa dalla ferocia degli imperatori iconoclasti (Leone III e Costantino V), che erano giunti a spogliare le chiese di ogni raffigurazione iconica, sostituendole talvolta con le proprie effigi. Alla presenza degli ambasciatori del pontefice, Adriano I, i lavori si protrassero per un mese, sino a ottobre, scanditi dalla successione di sette sessioni plenarie. Vennero così approvati dei canoni nei quali si dichiarava lecito il culto delle immagini, distinguendo la devozione dovuta a Dio da quella rivolta, come intermediari, ai santi o alle effigi. Alla corte di Carlo Magno giunse una traduzione latina del testo greco dei canoni, giudicata pessima, meno di un secolo più tardi, da Anastasio Bibliotecario, che evidenziò in particolare dei passaggi nei quali la cattiva traduzione travisava significativamente il pensiero dei padri conciliari. Nel capitolare del concilio di Francoforte, tenutosi nel 794, Carlo Magno, già impegnato nella lotta contro l’adozionismo, condannò l’iconodulia bizantina, nella speranza di poter rompere il legame che si andava ricostruendo tra l’imperatore d’Oriente e il papa, e per affermare la propria autonomia e autorità dottrinale. La composizione dei Libri carolini fu la logica conseguenza di questa presa di posizione. Non a caso il testo è anche noto come Opus 6455

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Liceo Caroli regis contra synodum. La struttura dell’opera ricalca l’impianto generale dei testi apologetici d’età carolingia: le tesi degli avversari vengono isolate, affrontate singolarmente e confutate grazie agli strumenti delle artes (che individuano punti critici, come le incongruenze logiche o le inesattezze grammaticali e sintattiche) e al ricorso ai testi patristici adeguati. Negli anni, gli interpreti hanno tentato diverse e spesso contrastanti attribuzioni del testo. Se da un lato, infatti, come sostiene L. Wallach, le conoscenze di cultura classica, di termini e di tecniche, di esegesi scritturale e tradizione patristica, porterebbero a indicare in Alcuino l’autore dell’opera, A. Freeman, che ha edito nei Monumenta Germaniae Historica i Libri carolini, ha sostenuto la tesi di un’origine visigota, legata alla figura di Teodulfo d’Orléans. Alcuni elementi testuali, infatti, (l’uso di un testo biblico molto prossimo a quello revisionato da Teodulfo, le caratteristiche ortografiche del manoscritto più affidabile e completo, la presenza di rimandi antiadozionisti, e di elementi di liturgia mozarabica), giustificherebbero tale attribuzione. È in ogni caso indubbio che l’autore del testo provenga dal circolo di intellettuali che, a titolo diverso, contornavano il re grazie alla mediazione di Alcuino, che, tra le diverse attribuzioni, rimane probabilmente l’ipotesi più accreditata. Il dibattito sul nome dell’autore dei Libri carolini rimane in ogni caso sullo sfondo, se confrontato con la portata storica e culturale che il testo possiede. I Libri carolini rappresentano infatti il primo tentativo della corte carolingia di imporsi come punto di riferimento politico, culturale e dottrinale. Carlo Magno e gli intellettuali che collaboravano con lui, proprio nel momento in cui la chiesa orientale tentava di riannodare relazioni con il pontefice romano, nel segno della comune devozione alle immagini sacre, produssero un testo apertamente antibizantino, iconoclasta, fondato sugli elementi che Alcuino e i suoi discepoli proponevano come essenziali alla formazione del cristiano: arti liberali, autorità scritturale e tradizione patristica. A. Bisogno BIBL.: A. FREEMANN, Opus Caroli regis contra Synodum (Libri carolini), «Monumenta Germaniae Historica. Leges. Concilia», t. II, supplementum I, Hannover 1998, che sostituisce la precedente a cura di H. BASGEN, «Monumenta Germaniae Historica. Leges. Concilia», t. II, supplementum, Hannover-Leipzig

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1912-24. Per una rassegna bibliografica completa sull’attribuzione del testo e sul significato dell’opera cfr. G. D’ONOFRIO, La teologia carolingia, in G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. I: I principi, Casale Monferrato 1996, pp. 132-138 (bibliografia, pp. 180-182). Cfr. anche L. WALLACH, Diplomatic Studies in Latin and Greek Documents from the Carolingian Age, Ithaca-London 1977.

LICEO (Luvkeion). – Nome dato alla scuola di Liceo Aristotele, poiché si riteneva che l’insegnamento avesse luogo nel ginnasio sito nel bosco sacro ad Apollo Licio. Ma le opere di Aristotele mostrano che egli faceva uso di vari strumenti come tavole e diagrammi, carte geografiche, piante stellari ecc., e di una biblioteca. Tutto ciò richiede dei locali appositi, probabilmente presi in affitto, dato che Aristotele non era cittadino ateniese e non aveva diritti di possesso di beni immobili in Atene e nel testamento di Aristotele non vi è alcun accenno alla scuola. È tradizione che Aristotele insegnasse passeggiando, da cui il nome di «Peripato» dato alla sua scuola. Alla morte di Aristotele (322), scolarca fu Teofrasto di Ereso (322-21-288-86), in un certo senso il vero fondatore della scuola, dopo che Demetrio di Falero gli concesse il diritto di possedere dei beni immobiliari benché straniero. Dal testamento risulta che Teofrasto istituì una fondazione, composta di un giardino in cui si trovavano un tempio, una o più passeggiate coperte, alcune case e le statue di Aristotele e dei suoi familiari. Lo scopo dell’istituzione è il «condividere la scholé e fare insieme filosofia» (Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, V, 52). La scuola ebbe un momento di crisi alla caduta di Demetrio di Falero, quando ne fu decretata la chiusura (306 a. C.). Ma poi la decisione fu annullata e Teofrasto continuò a insegnare con gran successo di pubblico. È diffusa la leggenda che dopo la morte di Teofrasto la scuola non possedesse più le opere di Aristotele, ma l’informazione non è credibile. Ci rimangono, conservati in Diogene Laerzio, i testamenti degli scolarchi successivi, Stratone di Lampsaco (288-86 - 272-68) e Licone di Troade (272-68 – 228-24) in cui è attestata la continuità della scuola. Tra i compiti dell’istituzione appare anche la pubblicazione delle opere degli scolarchi. In questo periodo la scuola peripatetica si allontanò dagli interessi filosofici dei fondatori, per dedicarsi dapprima

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alle ricerche fisiche, all’erudizione e agli studi letterari e di storia della cultura. Già nel pensiero di Aristotele vi sono spunti per una evoluzione di questo tipo. In età ellenistica troviamo vari storici e biografi di tendenza peripatetica: tra cui Ermippo di Smirne e Sozione di Alessandria. Dopo la morte di Licone non abbiamo più informazioni certe sulla scuola; tradizionalmente si ritiene che a Licone successe Aristone di Ceo (nel 255 a. C.), il quale raccolse i testamenti dei predecessori e forse stabilì la lista delle opere di Aristotele e di Teofrasto. L’opinione prevalente è che le scuole filosofiche ateniesi, come istituzioni, furono distrutte, come molti altri monumenti, da Silla durante l’assedio di Atene dell’86 a. C. La tesi però non è del tutto certa. Secondo alcune fonti a quel tempo un peripatetico di nome Atenione era stato posto a capo della città da Mitridate, e fu anche a capo della scuola. Un altro peripatetico di nome Apellicone, possedeva nella sua biblioteca le copie delle opere di Aristotele. Esse furono confiscate da Silla e portate a Roma nell’84 a. C.; su di esse si basò Andronico di Rodi per la sua edizione (inizio o fine del I secolo a. C.). Secondo Ammonio, Andronico fu l’undicesimo scolarca del Liceo (In de interpretatione, 5, 24). La fine della scuola come istituzione non impedì che vari filosofi continuassero a chiamarsi «peripatetici». La loro opera consistette principalmente nel commento dei trattati di Aristotele e nella redazione di opere ispirate alla sua filosofia; tra i più importanti nel I secolo a. C. troviamo Boeto di Sidone che commentò in particolare le Categorie, Aristone di Alessandria e Senarco di Seleucia, che criticò la teoria dell’etere. In questo periodo fiorirono i compendi della filosofia peripatetica, tra cui quello di Nicola di Damasco, consigliere del re Erode, poi il trattato oggi noto come De mundo e il compendio di etica attribuito ad Ario Didimo. Più avanti (I secolo d. C.) troviamo Alessandro di Damasco, Alessandro di Ege, e Aristocle di Messina, autore di un Peri philosophias piuttosto aneddotico e di scarso acume teorico e storico. Influenzati dall’aristotelismo, più che veri peripatetici, furono autori del I-II secolo come Galeno e Claudio Tolomeo. Nel periodo successivo si sviluppò ulteriormente l’opera dei commentatori; tra questi i più celebri furono Aspasio (I-II secolo d. C.) e Alessandro d’Afrodisia (II-III secolo d.C.) di cui rimangono alcune opere; di altri, come Adra-

Liceti sto di Afrodisia, Ermino, Alessandro di Damasco ecc., rimangono solo i nomi e vari frammenti. Oltre a commentare le opere di Aristotele tutti costoro scrissero anche dei trattati di filosofia aristotelica. Alessandro d’Afrodisia ebbe il titolo di diadoco (cioè successore di Aristotele) e fu eletto alla cattedra di filosofia peripatetica ad Atene istituita dall’imperatore M. Aurelio nel 176 d. C. Dopo Alessandro non abbiamo nomi di altri scolarchi del Liceo, ma nel III secolo d.C. un certo Anatolio, filosofo cristiano, fondò ad Alessandria una scuola di ispirazione peripatetica, che poi abbandonò per diventare vescovo di Laodicea (Eusebio, Storia ecclesiastica, VII, 32, 21). Importante nel IV secolo è Temistio, autore di varie parafrasi o commenti alle opere di Aristotele. Ma ormai bisogna parlare non tanto di Liceo, quanto, più generalmente, di aristotelismo. C. Natali BIBL.: ed. e commento dei frammenti dei primi peripatetici a cura di F. WEHRLI, Die Schule des Aristoteles, Basilea-Stoccarda 1944-59, 10 fascc.; cfr. anche I. DÜRING, Aristotle in the Ancient Biographical Tradition, Göteborg 1957; lo studio più ampio è di P. MORAUX, Der Aristotelismus bei den Griechen, Berlin - New York, 1973-2001, 3 voll., tr. it. parziale, Milano 2000; cfr. anche H.G. GOTTSCHALK, Aristotelian Philosophy in the Roman World from the Time of Cicero to the End of II Century A.D., in W. HAASE - H. TEMPORINI (a cura di), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, vol. XXXVI, t. II, Berlin - New York 1987, pp. 1079-1174; sull’organizzazione della scuola, cfr. J.P. LYNCH, Aristotle’s School, Berkeley 1972; C. NATALI, La scuola dei filosofi, L’Aquila 1981 (raccolta di saggi da Wilamowitz a Gottschalk); C. NATALI, Bios theoretikos. La vita di Aristotele e l’organizzazione della sua scuola, Bologna 1991.

LICETI, FORTUNIO. – Filosofo ed erudito, n. Liceti presso Rapallo il 3 ott. 1577, m. a Padova il 17 magg. 1657. Laureatosi a Bologna, insegnò nelle università di Pisa, Padova e Bologna. Riconobbe l’importanza dell’esperienza nello studio della natura e compì egli stesso numerose osservazioni in campo fisico e astronomico; ciononostante ritenne di poter inquadrare i nuovi dati sperimentali entro adattamenti delle dottrine aristoteliche. Di vastissima cultura, compose un numero prodigioso di opere di filosofia, medicina, astronomia, antichistica e storia letteraria. Intrattenne relazioni epistolari con i suoi contemporanei, tra cui Naudé, Mersenne e Ga6457

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Licheto lilei. Quest’ultimo conobbe Liceti a Padova nel 1609 e, pur dissentendo dalle posizioni del collega, ne lodò costantemente la grande erudizione; allorché nel 1610 si trasferì a Firenze, Galileo iniziò con Liceti una corrispondenza che proseguì fino alla morte. M. Baravelli BIBL.: tra le opere più significative in campo filosofico e scientifico: De ortu animae humanae, Genuae 1602; De vita, Genuae 1606; De animarum coextensione corpori, Patavii 1616; De monstruorum caussis, naturis et differentijs, Patavii 1616, 2 voll.; De spontaneo viventium ortu, Patavii 1618; De novis astris et cometis, Patavii 1622; De intellectu agente, Patavii 1627; De animarum rationalium immortalitate, Patvii 1629; De anima subiecto corpori nil tribuente, Patavii 1631; De natura primo-movente, Patavii 1634. Su Liceti: A. SIMILI, Una dedica autografa di Galileo Galilei a Fortunio Liceti e il clima delle loro concezioni scientifiche e relazioni epistolari, in AA.VV., Galilei nella storia e nella filosofia della scienza, Firenze 1967, pp. 181-189; M. MARANGIO, I problemi della scienza nel carteggio Liceti - Galilei, in «Bollettino di Storia della filosofia», 1 (1973), pp. 333-350; M. MARANGIO, La disputa sul centro dell’universo nel «De terra» di Fortunio Liceti, in «Bollettino di Storia della filosofia», 2 (1974), pp. 334-347; A. AGOSTO - G. PESCE - U. RICCI (a cura di), IV centenario della nascita di Fortunio Liceti (1577-1977), Rapallo 1978; L. CONTI, Aristotelismo e scienza galileiana nella lettera di Galilei a Fortunio Liceti, in AA.VV., Galileo Galilei e Padova, Padova 1982, pp. 567-570; S. DE ANGELIS, Zwischen «generatio» und «creatio». Zum Problem der Genese der Seele um 1600. Rudolph Goclenius, Julius Caesar Scaliger, Fortunio Liceti, in L. DANNEBERG et al. (a cura di), Säkularisierung in den Wissenschaften seit der Frühen Neuzeit, Berlin-New York 2002, vol. II, pp. 94-144; E. FULCHERI, Fortunio Liceti: un punto di svolta negli studi sui «mostri» e l’inizio della moderna teratologia, in «Pathologica», 94 (2002), pp. 263-268; G. PIAIA (a cura di), La presenza dell’aristotelismo padovano nella filosofia della prima modernità, Roma-Padova 2002, ad indicem; P. RUBÉN MARICONDA, Lógica, experiência e autoridate na carta de 15 de setembro de 1640 de Galileu a Liceti, in «Scientiae Studia», 1 (2003), pp. 6373.

LICHETO (LICHETTO), FRANCESCO. – Maestro Licheto scotista, n. a Brescia nella seconda metà del XV secolo, ministro generale dell’ordine Francescano nel 1518, m. nel 1520. Autore di un ampio commento all’Opus Oxoniense (Sallodii 1517) e ai Quodlibeta dello Scoto (Venetiis 1520 e 1589), di alcuni Theoremata disputata 6458

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contra Augustinum Suessanum e di altri numerosi scritti filosofici e teologici. Red. BIBL.: L. WADDING, s. v., in Scriptores ordinis minorum, Romae 1906, p. 84, ripr. Bologna 1978; G. SBARALEA, s. v., in Supplementum et castigatio ad scriptores trium Ordinum sancti Francisci, Romae 1908-21, vol. I, p. 276; A.M. BERENGO MORTE, Fra’ Francesco Lichetto e una scuola scotista nell’Isola di Garda, in «Venezia Francescana», annata 1933; G. DI NAPOLI, L’immortalità dell’anima nel Rinascimento, Torino 1963, p. 194; P. DI VONA, Studi sulla scolastica della Controriforma: l’esistenza e la sua distinzione metafisica dall’essenza, Firenze 1968.

LICHTENBERG, GEORG CHRISTOPH. – PenLichtenberg satore tedesco, n. a Oberramstadt (presso Darmstadt) l’1 lug. 1742, m. presso Göttingen il 24 febbr. 1799. Dal 1769 insegnò fisica a Göttingen. La sua fama è affidata soprattutto ai suoi spiritosi aforismi. Cominciò con l’attaccare i sostenitori della fisiognomica, principalmente Lavater, in Ueber Physiognomik wider die Physiognomen (Göttingen 1778), a cui seguirono scritti sugli argomenti più disparati, raccolti subito dopo la sua morte in 9 volumi (Vermischte Schriften e Physikalische und mathematische Schriften, Göttingen 1800-06; ivi 1844-532, 14 voll.). Il pensiero di Lichtenberg raramente raggiunge una forma sistematica; tuttavia si possono fissare alcune linee fondamentali. Per quanto convinti della realtà delle cose del mondo esterno, noi non possiamo affermare di esse nulla di più di ciò che ci si offre nelle nostre rappresentazioni; di conseguenza non possiamo in alcun modo uscire da noi stessi e dal nostro pensiero. Per di più questo pensiero non deve essere riferito all’io come a una sostanza che lo contenga in sé, perché l’io, in quanto distinto dalle rappresentazioni, non ha maggior valore di un utile postulato. Meglio perciò, secondo Lichtenberg, dire «si pensa» (es denkt) che «io penso», come aveva detto Cartesio. Questa gnoseologia ispirata a un idealismo empirico, sebbene nei suoi motivi e nella sua stessa forma avesse un carattere schiettamente illuministico, offriva spunti che, anche per il modo paradossale e per nulla accademico in cui erano presentati, potevano piacere alla nuova mentalità romantica. Ciò spiega la fortuna, più letteraria che filosofica, di Lichtenberg nell’Ottocento. V. Mathieu

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BIBL.: edizioni: A. LEITZMANN, Aus Lichtenbergs Nachlass, Welmar 1899; Briefe, a cura di A. Leitzmann Schüddekopf, Leipzig 1901-14 (ristampe Hildesheim 1966, München 1974); Aphorismen, a cura di A: Leitzmann, Berlin 1902-08 (ristampa Heidelberg 1967); Briefe an Johann Friedrich Blumenbach, a cura di Leitzmann, Leipzig 1921; Briefe aus Lichtenbergs englischem Freundeskreis, a cura di H. Hecht, Göttingen 1925; Werke, a cura di R.K. GOLDSMITT, Stuttgart 1935 (ristampa Hamburg 1968); Unsterblicher Lichtenberg, a cura di I. Witte, Berlin 1939; Gedankenbücher [= Aphorismen], a cura di F.H. MAUTNER, Frankfurt am Main 1963. Tr. fr. degli Aforismi, a cura di M. ROBERT, Paris 1947; tr. sp., Barcelona 1990; Lichtenbergs Reader, a cura di F.H. Mautner H. Hatfield, Boston 1959; Osservazioni e pensieri, antologia a cura di N. Saito, Torino 1966. Su Lichtenberg: A. VERRECCHIA, Georg Christoph Lichtenberg, l’eretico dello spirito tedesco, Firenze 1969; H. KÖHLER, Georg Christoph Lichtenberg, München 1973; H. GOCKEL, Individualisiertes Sprechen. Lichtenbergs Bemerkungen im Zusammenhang von Erkenntnistheorie und Sprachkritik, Berlin- New York 1973; C. SCHILDKNECHT, Philosophische Masken. Literarische Formen der Philosophie bei Platon, Descartes, Wolff und Lichtenberg, Stuttgart 1990; R. BAASNER, Georg Christoph Lichtenberg, Darmstadt 1992; J. ROGGENHOFER, Zum Sprachdenken Georg Christoph Lichtenbergs, Tübingen 1992; G. SAUTERMEISTER, Georg Christoph Lichtenberg, München 1993; F. KLEISCHER, Körper und Seele bei Georg Christoph Lichtenberg, Würzburg 1998; S. RAPIC, Erkentniss und Sprachgebrauch. Lichtenberg und der englische Empirismus, Göttingen 1999; W. MAUSER, Georg Christoph Lichtenberg. Vom Eros des Denkens, Freiburg 2000.

LICHTENBERGER, HENRI. – Germanista Lichtenberger francese, n. a Mulhouse il 12 mar. 1864, m. a Biarritz il 16 nov. 1941. Professore all’Università di Nancy (1887-1905) e poi alla Sorbona (1905-1934), Lichtenberger diede un contributo tra i più importanti per l’approfondimento e la diffusione della cultura e degli studi di germanistica in Francia. F. Weber BIBL.: opere principali: Le poème et la légende des Nibelungen, Paris 1891; Histoire de la langue allemande, Paris 1895; La philosophie de Nietzsche, Paris 1898; Richard Wagner poète et penseur, Paris 1898; Henri Heine penseur, Paris 1905; Novalis, Paris 1911; La sagesse de Goethe, Paris 1921; L'Allemagne d'aujourd'hui dans ses relations avec la France, Paris 1922; L'Allemagne nouvelle, Paris 1936; Goethe, Paris 1937-39.

Lichtung Su Lichtenberger: E. SPENLÉ, in Mélanges Henri Lichtenberger, Paris 1934. pp. 9-13; J. DRESCH, Henri Lichtenberger, in «Revue Universitaire», 1942, pp. 1-3.

LICHTUNG (illuminazione; radura; chiarìta). – Lichtung È uno dei concetti fondamentali usati da M. Heidegger a partire dagli anni trenta, benché egli lo impieghi per la prima volta già in Sein und Zeit (Halle 1927). Nel tedesco comune Lichtung significa «radura boschiva», vale a dire lo spazio diradato e illuminato, delimitato dall’oscurità del bosco fitto. Come il tardo Heidegger ricorderà più volte, Lichtung non deriva da Licht: «luce», bensì dal verbo lichten: «diradare» (rendere rado, libero, aperto, e quindi erleichtern: rendere leggero, lieve), dal quale deriva a sua volta l’aggettivo licht (rado), analogo a leicht (lieve, leggero). La Lichtung – il rado nel senso di ciò che è libero e aperto – non va pensata primariamente in relazione a licht (chiaro), infatti, essa c’è anche quando è buio (cfr. Zollikoner Seminare, Frankfurt am Main 1987, p. 17). Se nel suo spazio aperto avviene sempre il gioco di chiaro e scuro della «luce», quest’ultima deve presupporre già la Lichtung, cioè una preliminare apertura derivata dall’originario elemento nascosto che la delimita (cfr. Zur Sache des Denkens, Tübingen 1969, pp. 71-72). La parola compare in Sein und Zeit per indicare l’«apertura» (Erschlossenheit) costitutiva dell’«esserci», che in quanto «essere-nelmondo» è «rischiarato» (gelichtet) in se stesso. Infatti la luce della sua Gelichtetheit («essere rischiarato») «non è una forza onticamente presente in esso, né una sorgente di luce che lo illuminerebbe in particolari momenti» (cfr. ibi, pp. 133 e 170). La Gelichtetheit dell’esserci in quanto Lichtung è ciò che rende possibile la «visione» dell’ente intramondano, nel senso che l’essere è la luce all’interno della quale viene illuminato l’ente rendendolo visibile, ma questa luce e la fonte da cui essa proviene sono l’apertura stessa propria dell’esserci che comprende l’essere. Questa illuminazione non è però la condizione di possibilità per la «conoscenza» dell’ente, ma piuttosto ciò che mostra all’esserci le diverse possibilità ontiche che ha ereditato. In quanto «aver-da-essere», l’esserci è quell’orizzonte del «presente» che accade nel progettare di volta in volta il proprio essere, perché in questo protendersi verso il futuro si trova rigettato nella propria gettatezza, ovvero nel proprio passato costituito 6459

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Licofrone dalle possibilità ontiche «già-state». Se in questa sua «temporalità» estatica l’esserci è libero di progettare le possibilità in cui di volta in volta si scopre gettato, il termine Lichtung sta a indicare l’apertura stessa che è l’esserci, vale a dire la temporalità estatica che «rischiara originariamente il Ci» (ibi, pp. 350-351 e 408). In Sein und Zeit il termine Lichtung era sì inteso già come apertura, ma alludeva unilateralmente ancora alla sola «luce», tant’è che per spiegarne il significato – come già fece nelle lezioni Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriff (1925), dove compare Gelichtetheit ma non ancora Lichtung (cfr. in GA, vol. 20, Frankfurt am Main 1979, pp. 411-412) – Heidegger rinviava al concetto metafisico di lumen naturale. Rispetto alla tradizionale «metafisica della luce», però, Heidegger faceva leva sull’ambiguità della parola «luce», infatti lumen (fw'ß) non è lux (pu'r), non è la luce pensata in riferimento alla sua fonte (tradizionalmente identificata con Dio), bensì la luce stessa nella sua luminosità (Helligkeit) che è sempre relativa all’anima (cfr. Phänomenologie des religiösen Lebens, in GA, vol. 60, Frankfurt am Main 1995, pp. 199 e 287, tr. it. di G. Gurisatti, Fenomenologia della vita religiosa, Milano 2003, pp. 258 e 364). Come spiegerà specialmente nel Brief über den Humanismus del 1946 (in Wegmarken, in GA, vol. 9, Frankfurt am Main 1976, pp. 327 e 342, tr. it. di F. Volpi, Lettera sull’umanismo, in Segnavia, Milano 1987, pp. 280 e 295), evitando ogni associazione con la «metafisica della luce» (cfr. ibi, p. 365 nota a, tr. cit., p. 317) e abbandonando la nozione metafisica di «orizzonte» (trascendentale), a partire dagli anni trenta Heidegger impiegò Lichtung per pensare l’essere manifesto dell’ente nel suo venire alla presenza (Anwesen) in riferimento al rimanere nascosto dell’essere, tematizzando così anche l’aspetto negativo della «verità» (aJlhvqeia) intesa come il fuoriuscire dell’ente dall’originario nascondimento (Verborgenheit) dell’essere stesso. La Lichtung è l’aperto (das Offene) per tutto ciò che viene alla presenza e che ne esce. Infatti l’essere stesso è «l’essere-presente (Anwesen) dell’ente-presente (Anwesenden), cioè la duplicità (Zwiefalt) tra i due sulla base della loro unità (Einfalt)»: l’essere è la differenza stessa «che dispiega (entfaltet) la chiarità (Klärung), cioè la Lichtung all’interno della quale l’ente-presente come tale e l’essere-presente diventano differenziabili per l’uomo» 6460

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

(cfr. Unterwegs zur Sprache, in GA, vol. 12, Frankfurt am Main 1985, pp. 116 e 119). Se il fondamento della gettatezza dell’esserci in quanto progetto gettato va ripensato in relazione al costitutivo rimanere nascosto dell’essere stesso che getta, l’esserci è quell’apertura comprensiva in cui ha luogo la differenza ontologica e il suo «ci» si mostra ora più originariamente come la Lichtung o «aperturalità» (Offenheit) dell’essere stesso in quanto «evento» (Ereignis). Ciò significa che l’esserci è sì in rapporto con l’essere che è sempre il proprio essere, ma poiché non è solo esistenza (Existenz), esso è anche «e-sistenza» (Ek-sistenz), cioè uno stare nell’apertura dell’essere in cui ha luogo la «differenza ontologica». Con Lichtung Heidegger vuole dunque esprimere il fatto che noi non incontriamo mai l’essere come un ente, ma poiché l’essere è sempre l’essere dell’ente, nel suo svelarsi nell’ente esso nel contempo si sottrae costitutivamente, rimanendo nascosto. L’essere è dunque l’apertura dell’ambito della possibilità che non si esaurisce nelle possibilità ontiche di volta in volta attuate effettivamente, ossia «si dà» come l’ambito per l’accadere della storia, per la libertà. Il parlare della differenza tra essere ed ente «non si lascia mai stabilire in base ad una sola epoca della storia della Lichtung (Lichtungsgeschichte) dell’essere» perché l’«essere parla ogni volta destinalmente e perciò è dominato dalla tradizione» (cfr. Identität und Differenz, Pfullingen 1957, p. 47). C. Badocco BIBL.: L. AMOROSO, Lichtung. Leggere Heidegger, Torino 1993; J.W. SONG, Licht und Lichtung. Martin Heideggers Destruktion der Lichtmetaphysik und seine Besinnung auf die Lichtung des Seins, Sankt Augustin 1999. ➨ LUCE.

LICOFRONE (Lukovfrwn). – Rappresentante Licofrone della sofistica antica. Su di lui mancano notizie sicure; visse probabilmente nella prima metà del IV secolo a. C. e fu discepolo di Gorgia. Del suo pensiero rimangono invece varie testimonianze aristoteliche, anche se da esse è difficile ricavare una presentazione organica. Proseguendo le analisi degli eleati e dell’ultima filosofia della natura, Licofrone affronta il problema del doppio significato del verbo «essere» e distingue l’affermazione di esistenza dall’uso predicativo. Per evitare il doppio senso, Licofrone elimina la copula «è» (Aristotele,

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Phys., I, 2, 185 b 25, e W.D. Ross, Aristotelous physike akroasis, Oxford 1936, p. 469) La conclusione dell’esame logico-linguistico non contraddice l’affermazione di un sapere obiettivo, se Licofrone definisce la scienza «comunione del sapere e dell’anima» (Aristotele, Metaph., H, 6, 1045 b 10; Alessandro di Afrodisia, Commentario alla Metafisica). Nella teoria politica, la dottrina contrattualistica del diritto, mentre elimina ogni ufficio etico delle leggi e dello stato, conduce altresì a negare, «secondo verità», qualsiasi distinzione o gerarchia sociale (Aristotele, Pol., III, 9, 1280 b 8; Stobeo, Florilegio, IV, 29). G.F. Pagallo BIBL.: H. DIELS - W. KRANZ (a cura di), Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1961-64, 83, tr. it. M. Timpanaro Cardini, I Sofisti, Bari 19542 (1923); M. UNTERSTEINER, I Sofisti, vol. II, Firenze 1949, pp. 150-155 (con testo a fronte), nuova ed. Milano 1967, 2 voll.; M. TIMPANARO CARDINI, Antica sofistica, Licofrone, in AA.VV., I Presocratici. Testimonianze e frammenti, vol. II, Bari 19813 (1969, 19752), pp. 948-949. Su Licofrone: W. NESTLE, Vom Mythos zum Logos, Stuttgart 1942, p. 343; M. UNTERSTEINER, I Sofisti, Torino 1949, pp. 416 ss.; J.L. POIRIER, Les Sophistes, Lycophron, Textes traduits, présentés et annotés, in AA.VV., Les Présocratiques, Paris 1988, pp. 1051-1053.

LICONE (Luvkwn). – Filosofo peripatetico del Licone III secolo a. C., nativo della Troade, successore di Stratone di Lampsaco nello scolarcato, che tenne tra il 270 e il 225 ca. a. C. Di lui scrisse una biografia Antigono di Caristo, conservata frammentariamente con altre notizie in Diogene Laerzio (Vite dei Filosofi, V, 65-74) e in Ateneo (Deipnosofisti, XII, 547 d ss.), che lo presentano amante della vita e di costumi raffinati (ma si tratta, probabilmente, di esagerazioni) e buon parlatore. Le testimonianze concordano nel giudicarlo privo di slancio speculativo. Un qualche interesse rivestono, a ogni modo, i suoi frammenti di etica. Licone infatti, per esempio, accordandosi con Aristotele fa consistere il sommo bene nell’esser felici per ciò che si deve (F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, VI: Lykon und Ariston von Keos, Basel 19682 [1952], fr. 20); limita poi le cause del dolore alla fortuna e ai mali del corpo, da lui peraltro – come sembra – in convergenza con gli stoici, tenuto in poco conto (F. Wehrli, op. cit., fr. 19); così, come Aristotele e gli stoici, giudica infine quel pentimento che pretenda di annullare il già fatto, come la con-

Lieber seguenza di uno squilibrio dell’anima (F. Wehrli, op. cit., fr. 25). Queste concezioni etiche sarebbero state sviluppate nell’ambito di preoccupazioni pedagogiche (F. Wehrli, op. cit., fr. 21). G.M. Pozzo BIBL.: W. CAPELLE, s. v., in A. PAULY - G. WISSOWA (a cura di), Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, Stuttgart 1893-1965, vol. XIII, coll. 2303-2308; E. ZELLER - R. MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, parte II, vol. VI, a cura di A. Plebe, Firenze 1966, pp. 520-521, 546-548; F. WEHRLI, Die Schule des Aristoteles, VI: Lykon und Ariston von Keos, Basel 19682 [1952], pp. 5-26; F. WEHRLI, Der Peripatos bis zum Beginn des römischen Kaiserzeit, § 29, in F. UEBERWEG - H. FLASHAR, Grundriss der Geschichte der Philosophie. Die Philosophie der Antike, Basel 1998, vol. III, pp. 576 ss.

LIEBER, FRANCIS. – Storico e pubblicista teLieber desco-americano, n. a Berlino il 18 mar. 1800, m. a New York il 2 ott. 1872. Prese parte alla guerra d'indipendenza greca (cfr. il Tagebuch meines Aufenthalts in Griechenland 1822, scritto nel 1823). Grande influenza ebbe sulla sua formazione spirituale l'amicizia con Berthold G. Niebuhr (cfr. le Reminiscences of an Intercourse with Niebuhr, Philadelphia 1835). In seguito si trasferì negli Stati Uniti, dove ebbe la cattedra di storia e scienze politiche dell’Università Columbia (1835) e poi di New York (1857). Strettamente legate a esperienze di vita vissuta sono le Instructions for the Government of the Armies of the United States in the Field (Washington 1898 [1863]), cui il presidente Lincoln volle dare carattere di pubblicazione ufficiale; vi sono raccolte le osservazioni di Lieber relative alla vita negli Stati del Sud ed in particolare ai sistemi schiavisti ivi vigenti. Ma la fama di Lieber è affidata alle sue opere di filosofia politica, tra cui rimangono fondamentali: Manual of Political Ethics, 2 voll., Philadelphia 1838-39 (a cura di T.D. Woolsey, ivi 18752); Essays on Property and Labour, New York 1841; On Civil Liberty and Selfgovernment, Philadelphia 1853 (a cura di T.D. Woolsey, ivi 18743). In tali opere Lieber ebbe modo di porre a profitto la vasta esperienza da lui direttamente vissuta nelle lotte politiche, e ciò contribuì ad imprimere al suo stile un carattere di vigore e di appassionato slancio, che resero subito popolari le idee di Lieber. II suo pensiero è quello di un liberale della scuola anglosassone, nutrito di 6461

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Liebert forte erudizione storica e filosofica, ma con una netta impronta dello storicismo romantico tedesco. Questi caratteri si ritrovano altresì nell'Encyclopaedia Americana curata da Lieber (Philadelphia 1828-32, 13 voll.). Da ricordare pure i Miscellaneous Writings, raccolti e pubblicati da D.C. Gilman, (ivi 1881, 2 voll.). G. Bruni Roccia BIBL.; L.R. HARLEY, F.Lieber, his Life and Political Philosophy, New York 1899; H.W. SCHNEIDER, Storia della filosofia americana, Bologna 1963, pp. 195-200, 659; S.A. SAMSON, F.Lieber on the Sources of Civil Liberty, in ‹ ‹ Humanitas› › , 9 (1996), 2; B. RÖBEN, Johann Caspar Bluntschli, F.Lieber und das moderne Völkerrecht 1861-1881, Baden-Baden 2003.

LIEBERT, ARTHUR. – Neokantiano, n. a BerliLiebert no il 10 nov. 1878, m. ivi il 5 nov. 1946. Fu professore a Berlino dal 1925 al 1933 e all’Università di Belgrado dal 1934. Fra gli scritti: Das Problem der Geltung, Berlin 1906, 19202; Der Geltungswert der Metaphysik, ivi 1915; Vom Geist der Revolutionen, ivi 1919; Wie ist kritische Philosophie überhaupt möglich? Ein Beitrag zur systematischen Phänomenologie der Philosophie, Leipzig 1919; Die geistige Krisis der Gegenwart, Berlin 1923; Grundlegung der Dialektik, ivi 1929; Die Bestimmung des philosophischen Unterrichts, ivi 1930; Erkenntnistheorie, ivi 1930-31; Philosophie des Unterrichts, ivi 1934; Die Krise des Idealismus, Zürich-Leipzig 1937; Das Problem der Kulturkritik und die Kulturkritik unserer Zeit, in «Philosophia», 1938, pp. 243-314, Der Liberalismus als Forderung, Gesinnung und Weltanschauung. Eine philosophische Betrachtung, Zürich 1938; Der universale Humanismus, I, ivi 1941; Die Kritik des Idealismus, ivi 1946; Von der Pflicht der Philosophie in unserer Zeit, ivi 1946. A Belgrado pubblicò, dal 1937, la rivista «Philosophia. Philosophorum nostri temporis vox universa». Con lo stesso intento di collaborazione filosofica internazionale aveva diretto, insieme con P. Menzer, Kantstudien (1918-1933), cui vennero ad affiancarsi dal 1925 i «Philosophische Monatshefte der Kantstudien». Dal 1930 aveva pubblicato la rivista «Der philosophische Unterricht». Nel 1950-51 è stato pubblicato, a cura dell'«Arthur Liebert Kreis», un volume di «Philosophische Studien». Invasa la Iugoslavia dai nazisti, Liebert si rifugiò in Inghilterra, da dove tornò alla cattedra di Berlino. Il suo pensiero si muove nell’indirizzo della Scuola di Marburgo ed è caratterizzato dall’im6462

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

portanza capitale da lui assegnata al concetto di «validità» dell’essere. La filosofia deve, a differenza delle altre scienze, occuparsi non semplicemente dell’essere, bensì di «validità, contenuto, senso e valore dell’essere»; poiché tali concetti sono da lui considerati di significato affine, la parola «validità» acquista un significato molto lato. Essa infatti non è astrazione dell’essere o sua negazione, bensì sua «affermazione, nel senso che esso è compiuto e innalzato oltre il mero esser di fatto, verso il contenuto, cioè la validità; la quale enuncia che l’essere non soltanto è, ma anche è valido, che significa qualcosa, che ha un senso». Essendo ogni posizione dell’essere a sua volta solo l’espressione di un ordine sistematico più comprensivo, in cui ogni singola posizione dell’essere ha il proprio posto logico, Liebert afferma che il concetto di sistema è il conclusivo concetto di validità del pensiero (Das Problem der Geltung). In scritti posteriori (cfr. p. es. Wie ist kritische Philosophie..., cit.) Liebert cerca di dimostrare come l’opposizione fra il criticismo e la speculazione successiva sia soltanto apparente, in quanto «la legge genetica del criticismo, vale a dire la forma organicamente legittima della sua possibilità, è insieme la legge che rende possibile l’intera speculazione postkantiana e la condiziona in profondità», e «l’essere la ragione conforme a leggi, ciò che è il fondamento del criticismo, rende necessario il passaggio a quell'idealismo». Per quanto riguarda la metafisica, Liebert la rifiuta come scienza, ma essendo l'oggetto di essa l'Assoluto e il suo carattere il «problematico», le assegna una funzione autonoma accanto alla scienza, in quanto il «problematico» costituirebbe una categoria di tipo particolare. Con Liebert, dunque, il neokantismo di Marburgo si avvicina alla metafisica (cfr. specialmente Grundlegung der Dialektik, rimasto unico volume di una più vasta opera, Geist und Welt der Dialektik; cfr. l’articolo di Liebert in «Logos», 1934, pp. 203-211; Spirito e mondo della dialettica). N. Merker BIBL.: B. KERN, Zur Erkenntnislehre der Marburger Schule, in «Zeitschrift für positive Philosophie», 1 (1913); S. MARCK, Die Lehre vom erkennenden Subiekt in der Marburger Schule, in «Logos», 4 (1913); G. KOERBER, Der Marburger Logizismus und sein Verhältnis zu Hegel, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 30 (1917); N. BOBBIO, Una nuova rivista di filosofia, in «Rivista di Filosofia», 2 (1938); G. KROPP,

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Arthur Liebert, in memoriam, in «Zeitschrift für philosophisce Forschung», 1948, pp 427-435; F. ROMERO, La odisea de dos filósofos contemporaneos (Liebert e Cassirer), in «Ideas», giugno 1951; F. ROMERO, Estudios de historia de las Ideas, 1953, pp. 124-132.

LIEBMANN, O TTO . – Neokantiano, n. a Liebmann Löwenberg, il 25 febbr. 1840, m. a Jena il 14 genn. 1912. Nel 1872 professore incaricato a Strasburgo, nel 1882 ordinario a Jena. Opere: Kant und die Epigonen, eine kritische Abhandlung, Stuttgart 1865, Berlin 19122, tr. it. a cura di G. Cognetti, Kant e gli epigoni, Napoli 1990; Über den individuellen Beweis für die Freiheit des Willens, ivi 1866; Über den objektiven Anblick, ivi 1869; Zur Analysis der Wirklichkeit, Strassburg 1876, 19003, 19114; Über philosophische Tradition (discorso), ivi 1883; Die Klimax der Theorien, ivi 18 84, 19142, rist. Hildesheim 2001; Gedanken und Tatsachen, Strassburg 1882-1901, 2 voll., 189919042; Psychologische Aphorismen, ivi 1892; Immanuel Kant, ivi 1904. Il celebre libro giovanile di Liebmann Kant und die Epigonen segna l’avvio decisivo del movimento neokantiano. Se i tentativi sistematici postkantiani, dice Liebmann, senza conservare i meriti della filosofia critica, non hanno saputo superarne le deficienze, essi son rimasti pressoché infruttuosi per lo sviluppo del pensiero e quindi bisognerà tornare a Kant. Ora, il merito maggiore di Kant consiste nell’«idealismo trascendentale», ossia nella concezione d’una intima e necessaria correlatività dei momenti soggettivo e oggettivo della conoscenza: su questo punto la filosofia kantiana è «inconfutabile» (ibi, pp. 24-25). Il capitale errore di Kant fu invece l’infedeltà al trascendentalismo nella postulazione d’una «cosa in sé» dietro i fenomeni, conseguenza della iniziale compromissione implicita nell’aver inteso i dati dell’esperienza sensibile come Erscheinungen, apparenze, che rimanderebbero quindi a una realtà, a un «substrato», fuori del tempo e dello spazio e fuori dell’ambito delle possibilità stesse dell’intelletto, dunque a un «nonsenso» (ibi, pp. 26-27). Ma qual è la posizione dei tentativi postkantiani di fronte sia al principale merito che al capitale errore del kantismo? Fichte, che per primo ha mostrato l’inconseguenza della «cosa in sé», cade nello stesso errore, ponendo un «io in sé» non spaziale, non temporale, non sottoposto alle categorie, emancipato da qualsiasi

Liebmann forma di rappresentazione (cfr. ibi, pp. 82-86). Lo stesso è da dirsi dell’assoluto di Schelling (cfr. ibi, pp. 95-99) e dello spirito assoluto di Hegel (cfr. ibi, pp. 109-110). I «reali» di J.F. Herbart, da un lato, riproducono la «cosa in sé», in quanto devono esser pensati indipendentemente dallo spazio e dal tempo, dall’altro, sono «qualcosa d’altro» da essa, in quanto «stanno fra di loro in rapporti intelligibili spazio-temporali». Herbart quindi non corregge l’errore kantiano e non ne risolve la difficoltà (cfr. ibi, pp. 138-139). J.F. Fries – il quale pone come principio del sapere, che il mondo sensibile sia soltanto apparenza, come principio del credere, che tale apparenza si fondi sull’essere della cosa in sé, e come principio del presentire, che il mondo sensibile sia manifestazione della cosa in sé – offre un sapere illusorio, un credere, che ha come oggetto l’impensabile, e una conclusione, che si fonda su due false premesse. Egli quindi non solo non corregge, ma peggiora l’errore kantiano (cfr. ibi, pp. 155156). Infine Schopenhauer riconosce l’errore kantiano soltanto sul piano teoretico, ma lo riproduce su quello pratico, ponendosi all’estremo opposto di Hegel e concorrendo con lui a stravolgere la kantiana indipendenza della ragione e della volontà, in autocrazia (per Hegel della ragione, per Schopenhauer del volere) e concludendo, come Hegel, in una «caricatura» del kantismo (cfr. ibi, pp. 201-203). Il «ritorno a Kant» (al Kant dell’idealismo trascendentale) costituisce quindi, simmetricamente, la conclusione di ciascuno dei capitoli dell’opera e del suo Schluss. Nelle altre opere Liebmann elabora i problemi essenziali del kantismo nel tentativo d’una costruzione sistematica, che concili le istanze della filosofia critica e della metafisica: tentativo, che però si risolve forse più in un continuo oscillare dall’uno all’altro punto di vista che non in una vera sintesi. Prima parte della filosofia è la teoria della conoscenza, cui seguono, da un lato, la filosofia naturale e la psicologia (teorie dell’essere) e, dall’altro, l’etica e l’estetica (teorie del dover essere). La fisica deduce i fenomeni dalle leggi, la metafisica deve determinare invece il perché dell’accadere; essa è possibile in quanto critica, ossia come considerazione ipotetica dell’essenza delle cose. Condizione fondamentale dell’atteggiamento critico è il guardare sempre alle umane condizioni di conoscenza, onde nessuna filosofia o scienza può muoversi al di fuori della 6463

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Li e Qi

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

sfera dei pensieri e delle rappresentazioni umane. Principio fondamentale di ogni scienza del reale è quello di causalità e ogni divenire naturale forma un sillogismo, di cui la legge di natura è premessa maggiore, la condizione di fatto dell’oggetto è premessa minore e il divenire stesso ne risulta come conclusione («logica dei fatti», cfr. Zur Analysis der Wirklichkeit, Strassburg 19003, pp. 187-207). In etica e in estetica Liebmann si oppone a ogni obiettivismo assoluto (niente è bene o male, bello o brutto in sé, indipendentemente dal pensiero e dalla sensazione dell’uomo), pur non rinunziando alla ricerca d’una assolutezza del valore, sempre entro i limiti delle umane condizioni. M. Rossi BIBL.: AA.VV., Festheft, n. mon. «Kant-Studien», 15 (1910); A. MEYER, Über Liebmanns Erkenntnislehre und ihr Verhältnis zu Kantischen Philosophie, Jena 1916 (dissertazione); M. CAMPO, Schizzo storico della esegesi e critica kantiana: dal Liebmann a Riehl, Varese 1959.

LI Li e Qi E QI

. – Principio e Soffio. Nella dottrina neoconfuciana di Zhu Xi ogni elemento della realtà molteplice e indefinita (wanwu, il mondo delle «Diecimila Cose») è costituito da un aspetto essenziale (li) e da un aspetto sostanziale (qi). Se non si prende in considerazione il Principio/essenza (li), il Soffio/sostanza (qi) che costituisce l’intero universo manifestato non potrà che apparire come sostanza amorfa priva di caratteristiche distintive. Ogni singola cosa o essere è tale grazie al Principio/essenza che ordina e dà forma e funzione specifica al Soffio/sostanza di cui è costituito (questo tavolo, ad esempio, si distingue da un altro tavolo o da un altro oggetto o altro essere per il fatto che un particolare li interviene a ordinare il qi dandogli una specifica forma e funzione). Per la sua natura normativa, il li costituisce il riflesso in ogni elemento della realtà molteplice del Principio di Unità denominato Taiji (la «Trave Maestra» che sostiene l’edificio cosmico); sempre nel pensiero neoconfuciano, infatti, il li è associato a «ciò che è al di fuo), il qi a «ciò ri delle forme» (xing er shang che è all’interno delle forme» (xing er xia ). Nell’ambito della tradizione neoconfuciana l’interpretazione dei due concetti non è univoca. A. Cadonna ➨ NEOCONFUCIANESIMO; TAIJI E WUJI; WANWU.

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LIETZ, HERMANN. – Educatore e pedagogista Lietz tedesco, n. a Dumgenewitz presso Rügen il 28 apr. 1868, m. a Haubinda (Turingia) il 12 giu. 1919. Fu per un anno alla scuola inglese di Reddie in Abbotsholme, a cui si ispirarono molti moderni educatori. Al ritorno nel 1897 scrisse, anagrammando il nome della celebre scuola, Emlohstobba Roman oder Wirklichkeit (Heinsberg 1997) e fondò, nel 1898, il suo primo Landerziehungsheim (casa di educazione in campagna) a Ilsenburg ai piedi del massiccio dello Harz, a cui seguirono quello di Haubinda nel 1901, per gli adolescenti fino ai 16 anni di età, e quello di Bieberstein nel 1904 per i giovani fino ai 20 anni. Caratteristica di tali istituzioni e, in senso più lato, delle libere comunità scolastiche (freie Schulgemeinden) è di essere degli internati posti a contatto con la natura per consentire il dispiegamento sincero dell’anima individuale d’ogni alunno secondo la propria peculiarità. Lietz vi applicava un metodo familiare e comunitario, con trattenimenti sani e liberali, giochi e costumi consolidati nel metodo dell’educazione reciproca. Precorritore della scuola attiva, Lietz favorì nei suoi istituti la spontaneità e l’autonomia del fanciullo. Poco prima della sua morte enunciò così il proprio programma: 1) conoscenza del mondo morale e religioso, in senso non confessionale; essenza universale della filosofia orientata alla pratica; le lezioni consisteranno in libere conversazioni; 2) lingua materna, letteratura, sviluppo storico, senso della bellezza; 3) educazione civica, studio dei doveri del cittadino, formazione dello spirito critico ecc. M. Sancipriano BIBL.: Deutsche Landerziehungsheime, Leipzig 1906; Die deutsche Nationalschule, Leipzig 19202 (1911). Su Lietz: K. HAASE, s. v., in «Lexikon der Pädagogik der Gegenwart», Freiburg 1932, vol. II, pp. 134-142, pp. 286 ss.; K. HAASE., s. v., in Dizionario enciclopedico di pedagogia, Torino 1958, vol. III, pp. 122-123; A. ANDREESEN, Hermann Lietz, der Schöpfer der Landerziehungsheime..., München 1934; L. ROMANINI, Il movimento pedagogico all’estero, Brescia 1953, vol. II, pp. 51-57; A. AGAZZI, Panorama della pedagogia d’oggi, Brescia 19544; E.C.M.P. BADRY, Pädagogische Genialität in einer Erziehung zur Nicht-Anpassung und zum Engagement: Studien über Gründer der Frühen deutschen Landerziehungsheimbewegung: Hermann Lietz und Gustav Wyneken, Bonn 1976; R. KOERRENZ, Hermann Lietz: Grenzgänger zwischen Theologie und Pädagogik: eine Biographie, Frankfurt am

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Liguori

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Main - New York 1989; R. KOERRENZ, Landerziehungsheime in der Weimarer Republik: Alfred Andreesens Funktionsbestimmung der Hermann Lietz-Schulen im Kontext der Jahre von 1919 bis 1933, Frankfurt am Main - New York 1992; P. LITTIG, Reformpädagogische Erfahrungen der Landerziehungsheime von Hermann Lietz und ihre Bedeutung für aktuelle Schulentwicklungsprozesse, Frakfurt am Main 2004.

LIEZI. Liezi – Il Maestro Lie. Si tratta del taoista Lie Yukou, personaggio menzionato nel Zhuangzi e da cui prende nome il testo tramandatoci con il titolo di Liezi (Lie Yukou sarebbe vissuto intorno al 400 a. C.). L’opera, una raccolta di dialoghi e aneddoti (numerosi passaggi paralleli si ritrovano nel Zhuangzi), fu innalzata al rango di classico taoista intorno alla metà dell’VIII secolo d. C. (con il titolo di Chongxu zhenjing, Scrittura Vera del Maestro del Vuoto Abissale). Ciononostante, l’integrità e l’autenticità dell’opera viene presto messa in discussione, e per la più recente critica sinologica «il Liezi non può essere usato come fonte per il pensiero cinese pre-Qin qualora manchino prove che determinati passaggi in esso incorporati provengano da opere più antiche di quel periodo. Esso può essere utilizzato per attestare in quale forma tali materiali più antichi erano conosciuti nel IV secolo d. C.» (T.H. Barrett, Lieh tzu, in M. Loewe, Early Chinese Texts. A Bibliographical Guide, Berkeley 1993, pp. 300-301). Il settimo degli otto capitoli del Liezi è dedicato al pensiero del maestro del V secolo a. C. Yang Zhu. A. Cadonna

LIFSIC, Lifsic MIKHAIL ALEKSANDROVIC. – Filosofo, teorico dell’arte e storico della letteratura sovietico di origine russa, n. il 10 (23) lug. 1905 a Melitopol’, m. il 20 sett. 1983 a Mosca. Studi all’Accademia di tecnica d’arte di Mosca. Collaboratore dell’Istituto Marx-Engels (192030), collaboratore dell’Istituto di storia dell’arte (dal 1963), membro dell’Accademia delle arti dell’URSS. Lifsic con G. Lukács ha esaminato a fondo i tratti fondamentali di un’estetica marxista basata sulla teoria della riflessione, al cui centro sta la definizione del «realismo» come tendenza fondamentale della storia dell’arte («verità nell’arte»). La comprensione dialettica del progresso storico costituisce l’idea centrale della teoria dell’arte di Lifsic, il quale indaga il rapporto delle intuizioni socio-politiche del

mondo degli artisti con il contenuto delle loro opere. N. Plotnikov BIBL.: opere principali: Karl Marks. Iskusstvo i obš cestvennyj ideal (Karl Marx, l’arte e l’ideale sociale), Moskva 1972 (parziale traduzione tedesca: Karl Marx und die Ästhetik, Dresden 1967); Iskusstvo i sovremennyj mir (L’arte e il mondo moderno), Moskva 1973; Sobranie socinenij (Opere), 3 voll., Moskva 1984-1987. Curatore della raccolta: MARX - ENGELS, Über Kunst und Literatur, Berlin (diverse edizioni). Su Lifsic: G. KLATT, Vom Umgang mit der Moderne: Ästhetische Konzepte der dreißiger Jahre: Lifsic, Lukács, Lunatscharski, Bloch, Benjamin, Berlin [Ost] 1985.

LIGUORI, ALFONSO MARIA DE’. – Dottore delLiguori la chiesa, n. a Marianella (Napoli) il 27 settembre 1696, m. a Nocera dei Pagani il primo agosto 1787. Laureatosi in legge (1713), prese parte alla vita pubblica e all’attività forense fino al 1723, quando vestì l’abito ecclesiastico. Si consacrò poi all’educazione civile e morale dei poveri e degli abbandonati e fondò (1732) la Congregazione del SS. Salvatore, detta poi del SS. Redentore (Redentoristi). Vescovo di S. Agata dei Goti, dal 1762, nel 1775 rinunciò all’episcopato. Il pensiero religioso di Alfonso Maria de’ Liguori si pone in stretta relazione con l’ambiente religioso della seconda metà del Settecento e, particolarmente, in funzione antigiansenista. Senza legarsi ad alcuna scuola teologica, Alfonso Maria de’ Liguori accentua i temi della dolcezza, della carità e della pietà, della preghiera fiduciosa: temi sconosciuti al rigore giansenista. Circa il problema dei rapporti fra libertà e grazia, egli diffida sia della soluzione agostiniana sia di quella tomista, al tempo stesso rimanendo lontano dalla molinista; e sembrandogli impossibile l’assoluta fiducia nei poteri della libertà umana, si rifugia nella soluzione pratica della preghiera che gli fa superare l’opposizione tomismo-molinismo: colui che prega compie un atto di effettiva libertà, mentre al tempo stesso confessa la propria dipendenza e debolezza e viene a impetrare un nuovo e più efficace intervento della grazia. Nel campo della morale pratica, Alfonso Maria de’ Liguori, benché fosse di tendenza rigorista, accettò in seguito, per la sua opposizione istintiva al rigorismo giansenista e conformemente al suo spirito di dolcezza e di umana comprensione, la soluzione del probabilismo moderato, che fece trionfare nella chiesa. Il 6465

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Liljeqvist suo pensiero in tale materia è fissato nella Breve dissertazione dell’uso moderato della opinione probabile (1762), cui seguì, in polemica con Patuzzi, l’Apologia (1764), riunite nel volume Dell’uso moderato dell’opinione probabile (1765). Immenso fu l’influsso della sua Theologia moralis, che ebbe nove edizioni e moltissime traduzioni vivente l’autore (ed. crit., Roma 1762; ripr., Graz 1954). Da ricordare anche: Breve dissertazione contro gli errori dei moderni increduli (1765); Verità della fede contro i materialisti e i deisti (1767). A. D’Amato BIBL.: L. GAUDE, De morali systemate s. Alphonsi Maria de Ligorio, Roma 1894; L. JANSEN, L’equiprobabilisme, in «Revue thomiste», 6 (1898), pp. 354-420; S. MONDINO, Studio storico-critico sul sistema morale di s. Alfonso, Monza 1911; F. DELARNE, Le système morale de st. Alfonse, St. Etienne 1929; G. CACCIATORE, S. Alfonso e il giansenismo, Firenze 1944; AA.VV., Alphonse de Liguori pasteur et docteur, Paris 1987, pp. 65-92; Alphonse de Liguori, Deuxième centenaire de sa mort (1787-1987), n. mon. in «Studia Moralia» 25 (1987), pp. 1-2; E. MASONE - A. AMARANTE, S. Alfonso de’ Liguori e la sua opera. Testimonianze bibliografiche, Napoli 1987; TH. REY-MERMET, La Morale selon S. Alphonse de Liguori, Paris 1987; TH. REY-MERMET, Un uomo per i senza speranza, Alfonso de Liguori (16961787), Roma 1987; G. ORLANDI, La corrispondenza di S. Alfonso Maria de Liguori. Dall’epistolario al carteggio, in «Spicilegium Historicum Congregationis SS.mi Redemptoris», 36 (1988), pp. 285-314; G. ORLANDI, La recezione della dottrina morale di S. Alfonso Maria de Liguori in Italia durante la Restaurazione, in «Spicilegium Historicum Congregationis SS.mi Redemptoris», 45 (1997), pp. 353-452.

LILJEQVIST, PER EFRAIM. – Filosofo svedeLiljeqvist se, n. a Orebro il 24 sett. 1865, m. a Lund nel 1941. Studiò all'Università di Upsala dal 1885, divenendovi libero docente nel 1893. Professore di filosofia a Gothenburg (1894-1906), poi all'Università di Lund (1906-1930). Da giovane studiò per un periodo a Lipsia, seguendo le lezioni di storia della filosofia di M. Heinze e M.W. Drobisch e quelle di psicologia sperimentale di W. Wundt. Scritti principali: Om Francis Bacons filosofi (La filosofia di F. Bacone), 1893; Om Boströms äldsta skrifter (I primi scritti di Bacone), 1897; Om specifika sinnesenergier (Energie specifiche dei sensi), 1899; Meinongs allmänna värdeteori (La teoria generale dei valori di Meinong), 1904; e l'eccellente breve studio E. T. Geijer. Ein schwedischer Ge6466

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schichtsphilosoph, in «Die Akademie» (Erlangen), 1924. Nel suo pensiero Liljeqvist si ispirò alla tradizione filosofica del boströmismo e prosegui l'idealismo personalistico nella direzione più critica, che era stata inaugurata a Upsala dal suo maestro Carl Yngve Sahlin e poi sviluppata da Erik Olof Burman. Liljeqvist stesso chiamò questo punto di vista «boströmismo revisionistico», nell’intento di esaminare le dottrine di Boström per trasformarle e confrontarle con tendenze affini alla più recente indagine assiologica e sociologica. In tal modo Liljeqvist, quale ultimo rappresentante di questo vecchio sistema filosofico svedese, ne ha modernizzato le dottrine aprendolo a nuovi influssi. A. Nyman BIBL.: Autopresentazione in R. SCHMIDT (a cura di), Die Philosophie der Gegenwart in Selbstdarstellungen, VI, Leipzig 1927; G. ASPELIN, Efraim Liljeqvist, in «Theoria», 1-2 (1942).

LILLA, VINCENZO. – Filosofo del diritto, n. a Lilla Francavilla Fontana (Brindisi) il 13 giugno 1837, m. a Messina il 20 nov. 1905. Libero docente di filosofia del diritto nel 1876, insegnò tale materia nell'Università di Messina dal 1886. Lilla si inserisce in quel gruppo di filosofi del diritto, del meridione d'Italia, che vollero far rivivere, nel sec. XIX, la tradizione storicistica del Vico. Egli giunse a questa posizione, che non fu mai in lui profondamente consapevole, superando il suo originario tomismo. Più degli altri Lilla risentì l'influenza delle ricerche sociologiche. Uno degli scopi delle ultime sue opere è proprio quello di mostrare la possibile coesistenza di sociologia e filosofia del diritto, ambedue rivolte allo studio dei fenomeni collettivi della vita umana. B. De Giovanni BIBL.: opere: Teoria fondamentale della filosofia del diritto, Napoli 1868; Kant e Rosmini, Torino 1869; Filosofia del diritto, parte generale, Napoli 1880; Le supreme dottrine filosofiche e giuridiche di G.B. Vico rivendicate, Messina 1894; Manuale di filosofia del diritto, Milano 1903; Scritti di filosofia, storia e diritto, a cura di G. Sava, Milano 1982. Su Lilla: Onoranze al prof. Lilla Vincenzo, Messina 1904; A. TARANTINO, La filosofia della giustizia sociale di Vincenzo Lilla, Milano 1984.

LILLIE, RALPH STAYNER. – Fisiologo e filosofo Lillie canadese, n. l’8 ag. 1875 a Toronto, m. il 19

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Limentani

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mar. 1952. Laureatosi in zoologia a Chicago nel 1901, dopo vari incarichi in diverse università americane fu professore di Fisiologia generale nell’università di Chicago dal 1924 al 1940. Si è occupato di biologia teorica sostenendo una concezione finalistica pampsichistica. La sua opera principale è General Biology and Philosophy of Organism (Chicago 1945). Lillie nega ogni dualismo tra materia e psiche, ma afferma che in tutta la natura vi è una componente fisica e una psichica. Questo: 1) perché in ogni stadio evolutivo è possibile, con gradi e modalità che variano dal mondo inorganico a quello vegetale e animale, individuare quella vita conscia che sperimentiamo in noi stessi; 2) per una certa «spontaneità» e «mancanza di completa predicibilità» in tutti i fenomeni naturali, anche chimici: non-determinismo da spiegarsi per l’influsso del fattore psichico; 3) per il finalismo dei viventi, che costringe ad ammettere che il fattore psichico guida direttamente tutte le attività biologiche (anche quelle di cui l’io non è conscio). Lillie è favorevole all’ipotesi (proposta anche dal fisico teorico P. Jordan e da altri) per la quale il fattore psichico eserciterebbe il suo influsso direttivo sulle particelle intra-atomiche controllando i quantumtransfers nell’ambito concesso dall’indeterminazione di Heisenberg. G. Blandino

LIMA, ALCEU AMOROSO. – Pensatore cattolico Lima brasiliano, n. a Rio de Janeiro l’11 dic. 1893, m. ivi il 15 ag. 1983. Professore di letteratura brasiliana e sociologia presso l'Università cattolica di Rio de Janeiro; insegnò pure all'Università federale di Rio de Janeiro e in altri istituti superiori. Dopo aver seguito in gioventù le correnti di moda (evoluzionismo spenceriano, bergsonismo), subì l'influsso di Jackson de Figueiredo, al quale successe nella direzione della rivista «A Ordem». Ha propagato largamente il pensiero e le opere di J. Maritain. Instancabile pubblicista (collo pseudonimo Tristão de Atayde), le sue opere formano una collezione di 35 volumi (Rio de Janeiro). Fra essi: Idade, Sexo e Tempo, 19252; Política, 1932, 4ª ed. 1956; Introducão ao Direito Moderno, 1933; Debate pelo Humanismo Pedagógico, 1944; A Estética Literária e o Crítico, 19552; Meditação sôbre o Mundo Interior, 19552; O Existencialismo e outros Mitos de nosso Tempo, 19562; O Problema do Trabalho, 19562. Recentemente (1967), staccandosi apertamente dal

pensiero del Maritain di Le paysan de la Garonne, fondò e diresse la rivista «Paz e terra», di tendenze di estrema sinistra sia in campo politico e sociale sia in campo teologico ed ecclesiastico, divenendo anche, dopo il golpe militare del 1964, un simbolo della resistenza (cfr. la raccolta di saggi En busca de liberdade, ivi 1973). C. Beraldo BIBL.: M.J. DE T. NEGRÃO, Um universo em rotação ascensional, in «Vozes», 77 (1983), pp. 36-52, con bibliografia; N. PINHEIRO, Entrevista inédita com Alceu A. Lima, in «Vozes», 87 (1993), pp. 3-14.

LIMBORCH, PHILIPP VAN. – Teologo arminiaLimborch no, n. ad Amsterdam nel 1633, m. ivi nel 1712. Studiò a Utrecht, a Leida e nella città natale; fu poi pastore a Gouda e Amsterdam. Appartenne alla corrente dei Rimostranti e intrattenne relazioni epistolari con Cudworth e Locke. Di quest’ultimo fu amico, ma lo criticò a proposito della questione della natura della volontà: essa, per van Limborch, è indifferente alla determinazione razionale e rimane perciò sempre libera di passare o non passare all’azione. L’opera più importante, Institutiones theologiae Christianae, ad praxin pietatis et promotionis pacis Christianae unice directae (Amstelodami 1686; 17355), è una chiara esposizione del sistema arminiano. Van Limborch fu inoltre editore di molte opere di suoi correligionari, quali Arminio, G.J. Vossius e Grozio. E. De Mas BIBL.: L. SIMONUTTI, Arminianismo e tolleranza nel Seicento olandese. Il carteggio van Limborch - Le Clerc, Firenze 1984; W. KLEVER, Hudde’s Question on God’s Uniqueness. A Reconstruction on the Basis of van Limborch’s Correnspondence with Locke, in «Studia Spinozana», 5 (1989), pp. 327-357; R.M. DE SCHEPPER, Liberty in Willing. Van Limborch’s Influence on Locke’s Essay, in «Geschiedenis van de Wijsbegeerte in Nederland», 4 (1993), pp. 127-146.

LIMENTANI, LUDOVICO. – N. a Ferrara il 18 Limentani ag. 1884, m. a Dolo (Venezia) il 7 lug. 1940. Laureatosi presso l’università di Padova, dove fu discepolo di Ardigò e Marchesini, ricoprì la cattedra di filosofia morale presso l’università di Firenze. La prima opera, che procurò a Limentani una certa fama, fu la sua tesi di laurea che pubblicò col titolo La previsione dei fatti sociali (Torino 1907). In essa egli inizia una revisione del positivismo evoluzionistico, che andrà poi sviluppando nelle opere successive; la 6467

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Limitativi caratteristica metodologica del positivismo, consistente nel trasformare la filosofia in teoria pragmatica dell’agire sociale, viene pienamente accettata, ma il contenuto, che si dà a questo schema, tenta di evitare il rigido scientismo intellettualistico della sociologia positiva. Limentani distingue due tipi di previsione: uno, che afferma necessariamente; l’altro, che prevede condizionatamente. In entrambi i casi, nel reale verificarsi del fatto previsto, rientra come concausa la previsione stessa, della quale si deve tener conto. In tal modo il determinismo positivistico viene rifiutato, in nome della relativa imprevedibilità del futuro, e della possibilità per l’uomo di dirigerlo ai suoi fini. Anche se la previsione non può mai avere la certezza apodittica delle scienze esatte, l’uomo non deve concludere nello scetticismo: «Agisci come se la previsione dello stato sociale possibile, da te ritenuto sommamente desiderabile, fosse certa in modo assoluto» (ibi, p. 404). La legge scientifica viene quindi ridotta nei termini di un appello morale. All’indagine morale è dedicata anche l’altra grande opera di Limentani: I presupposti formali dell’indagine etica (Genova 1913). La critica della morale naturalistica propria del positivismo viene condotta con grande vigore: la legge etica non può derivare da una regolamentazione esterna, ma può derivare soltanto dalla coscienza morale, del tutto distinta dall’utile. L’uomo morale è colui che agisce seguendo la propria coscienza: il valore non risiede nel fine o contenuto della volizione, ma nel semplice accordo dell’agire e della coscienza. In tal modo l’uomo sceglie sempre il bene, e la morale di Limentani, pervenuta all’estremo formalismo, si trasforma in un soggettivismo, che è poi un vero e proprio anarchismo morale, dato che ogni azione umana diviene ingiudicabile. Questo esito indeterminato del formalismo di Limentani rappresenta il punto più debole della sua teoria morale. G. Morra BIBL.: La morale della simpatia: saggio sopra l’etica di Adamo Smith nella storia del pensiero inglese, Genova 1914; Il positivismo italiano: 1870-1920, Napoli 1924; La morale di Giordano Bruno, parte I, Firenze 1924; AA.VV., La filosofia contemporanea in Italia dal 1870 al 1920, a cura di L. Limentani et al., Napoli 1928; traduzioni: H. HÖFFDING, Compendio di storia della filosofia moderna, Torino 1915; C. PRANTL, Storia della logica in Occidente, parte I (età medievale); infi-

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ne di Giordano Bruno cura alcuni Scritti scelti, Firenze 1924. Su Limentani: E. GARIN, Ludovico Limentani (18841940): Necrologia, Firenze 1941; E. GARIN, Il pensiero di Ludovico Limentani, in «Rivista di filosofia», serie II, 38 (1947), pp. 191-206; M.F. SCIACCA, Il secolo XX, Milano 1947, pp. 119-121, 742 (con bibliografia); M. FERRARI, Ricerche sul positivismo italiano: le indagini etiche di Ludovico Limentani, in «Rivista critica di storia della filosofia», (38) 1983, pp. 5-79; F. PICARDI, L’etica di Ludovico Limentani, Recco 1986; C. CANTILLO, Previsione e idealità nella filosofia positiva di Ludovico Limentani, Napoli 1996; R. SEGA, Un positivista eretico: materiali per un profilo intellettuale di Ludovico Limentani, Ferrara 1999; R. SEGA, Studi su Limentani, Ferrara 2002.

LIMITATIVI, GIUDIZI: V. GIUDIZI LIMITATIVI. Limitativi LIMITAZIONE (limitation; Begrenzung; limiLimitazione tation; limitación). – È questo il carattere comune a tutti gli esseri contingenti e finiti. Si distinguono una limitazione dell’essere e una limitazione della forma o della qualità: la prima è la contingenza, la non-eternità dell’essere, la dipendenza originale da un altro essere; la seconda è l’imperfezione, la perfettibilità, l’incompiutezza in ordine allo spazio e al tempo. Nella logica dei secoli XVII e XVIII il termine ha assunto il senso di restrizione del significato di un enunciato (cfr. C. Wolff, Logica oder Venünfftige Gedancken von den Kräften des menschlichen Verstandes, Halle 1712, § 1106). La limitazione è anche una delle categorie kantiane secondo la qualità. Red. ➨ CONTINGENZA; IMPERFEZIONE; LIMITE.

LIMITE (gr. pevra", lat. limes, terminus - limits; Limite Grenze; limite; límite). – È in origine la linea che circoscrive qualcosa e, quindi, ne segna il confine. In senso analogico è un termine usato specialmente in filosofia teoretica e in matematica. Aristotele (cfr. Metaph., V, 17, 1022 a 4 ss.) ne distingue quattro sensi fondamentali: (a) il punto estremo di una cosa, «al di là del quale non si può più trovare nulla della cosa e al di qua del quale c’è tutta la cosa»; (b) la forma o figura di una grandezza o di ciò che ha grandezza; (c) il fine, inteso come punto d’arrivo del movimento e delle azioni; (d) l’essenza, come limite della conoscenza. In definitiva, secondo lo Stagirita, limite è un concetto ancor

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più esteso di quello di principio, dato che «ogni principio è un limite». Qui se ne considerano soltanto l’aspetto gnoseologico e metafisico, e non il significato matematico. A) GNOSEOLOGIA. Secondo i pitagorici il limite costituisce insieme con l’illimite (a[peiron) la prima delle dieci coppie di contrari o di principi costitutivi da cui derivano tutte le cose, e per di più è l’elemento che, in tale coppia, indica positività e perfezione. Questa prospettiva – che svaluta l’infinito equiparandolo tendenzialmente alla mera indeterminatezza e potenzialità della materia, vale a dire assimilandolo all’incompiuto, all’informe, in definitiva all’irrazionale – rimarrà dominante in tutta la cultura della Grecia classica e, com’è facile vedere, sta alla base anche del quarto senso di limite stabilito da Aristotele: intendere l’essenza come si è visto sopra significa infatti ritenere che solo attraverso un processo di limitazione la nostra conoscenza della realtà possa acquisire una «forma» precisa, in armonia con l’uso lessicale, anch’esso di origine aristotelica, secondo cui la nozione che esprime la natura o essenza di una cosa è la determinazione o definizione (o[ro", oJrismov"), rispecchiante a livello conoscitivo il limite originariamente presente nella cosa stessa come costitutivo della medesima (non a caso nel luogo sopra citato Aristotele nota che, se l’essenza è limite della conoscenza, lo è anche della cosa). In definitiva la classicità ritiene che solo ciò che è limitato sia conoscibile e che l’assenza di limite sia un’imperfezione. La concezione positiva dell’infinito elaborata, non senza la mediazione del neoplatonismo, dal pensiero cristiano sembrerebbe a prima vista legittimare un semplice rovesciamento di questa posizione: parrebbe cioè giustificare il punto di vista secondo il quale, se è conoscibile solo ciò che è limitato, allora l’imperfezione sta dalla parte del nostro conoscere. Ma, a ben guardare, ci si rende conto che la svolta suddetta non consente affatto di tener fermo con tutta tranquillità il presupposto che «solo il limitato è conoscibile», dato che rivalutare l’infinito vuol dire proprio identificarlo con ciò che è in sé massimamente intelligibile, dunque con ciò che, essendo in linea di principio confacente o consentaneo alla natura di ogni intelligenza per quanto finita, non potrebbe certamente sfuggire in toto alla nostra capacità

Limite di comprensione: come la dottrina, principalmente tomistica, dell’analogia si incarica di mostrare in concreto. Tuttavia è doveroso riconoscere che il pensiero cristiano ha dischiuso in linea di principio quell’orizzonte teorico entro il quale il limite della conoscenza non si identifica più, come per gli antichi, con ciò che costituisce o fonda l’ambito stesso del conoscibile, ma viene inteso nel modo in cui per lo più lo si intende modernamente, ossia come il punto che la nostra conoscenza non può – ma nondimeno vorrebbe, e in fondo dovrebbe – oltrepassare. Si tratta di un limite destinato ad apparire tanto più rilevante quanto più si continui a credere che «solo il limitato è conoscibile», ormai però intendendo questo asserto come una (pretesa) verità di mero buon senso, dunque senza più leggerlo in connessione con le profonde motivazioni logico-ontologiche che lo avevano sorretto in epoca antica e che d’altra parte, una volta ripensate in ambito cristiano, avevano condotto alla revisione dell’asserto medesimo. È questa, p. es., la situazione in cui si trova Immanuel Kant. La posizione kantiana circa il limite della conoscenza si fonda sulla distinzione tra fenomeno e noumeno: il fenomeno è l’oggetto dell’esperienza, la cosa come appare; il noumeno è la cosa come è in sé (Ding an sich). Ora se, da un lato, il noumeno (in senso negativo) non è «il concetto di un oggetto, bensì la questione, inevitabilmente congiunta con la limitazione della nostra sensibilità, se non possano esserci oggetti del tutto slegati dall’intuizione sensibile» (KrV, A 287, B 344, tr. it. Critica della ragion pura, ed. it. con testo originale a fronte a cura di C. Esposito, Milano 2004, p. 519), dall’altro, esso (in senso positivo) si presenta come l’oggetto di un’intuizione non sensibile, cioè dell’intuizione intellettuale, «che però non è la nostra, e di cui non possiamo neppure comprendere la possibilità» (ibi, B 307, tr. cit., p. 473). Di conseguenza il concetto di noumeno (in senso negativo) è un «concetto-limite» (Grenzbegriff), in quanto serve unicamente a limitare le pretese della conoscenza sensibile nell’ambito dei fenomeni: esso ha un valore unicamente problematico. Come si vede, la questione del limite della conoscenza in Kant viene impostata in base al presupposto (assunto come evidente) che sia impossibile trascendere l’esperienza sensibile. D’altra parte Kant sembra conferire un significato meno limitativo al noumeno allorché lo considera co6469

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Limite me il sostrato intelligibile del fenomeno e ammette implicitamente la capacità, da parte della conoscenza umana, di attingere qualcosa che vada al di là della semplice intuizione sensibile. Nei Prolegomeni, proprio a riguardo del concetto di limite, si legge infatti che «un limite è esso stesso qualcosa di positivo che appartiene tanto a ciò che vi è compreso, quanto allo spazio che circonda una data totalità» e che, dunque, per questo «è pure una conoscenza positiva quella per la quale la ragione si estende fino a questo limite». Così la «limitazione del campo dell’esperienza per via di qualche cosa, che rimane sotto ogni altro aspetto ignoto, è pure una conoscenza che rimane alla ragione» e che costringe la ragione a «levare il suo sguardo» verso una ultimità intelligibile: un riferimento non certo determinabile, ma non per questo eludibile dalla ragione (Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, Riga 1783, poi in Werke, a cura di W. Weischedel, Frankfurt am Main 1968-69, vol. IV, § 59, tr. it. di P. Martinetti, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza, ed. it. con testo ted. a fronte a cura di M. Roncoroni, Milano 1995, p. 237). Hegel, nella nota al § 60 della Enzyklopädie, va oltre il dettato kantiano e con toni evidentemente critici: «È [...] massima inconseguenza, da una parte, concedere che l’intelletto conosca solo fenomeni, e dall’altra affermare questa conoscenza come qualcosa di assoluto, col dire: il conoscere non può andar oltre, questo è il limite naturale e assoluto del sapere umano. [...] Una cosa è conosciuta come limite, come deficienza, solo in quanto quel limite e quella deficienza sono stati oltrepassati. [...] Il limite, la manchevolezza del conoscere è parimenti determinata come limite e manchevolezza solo mediante il paragone con l’idea in quanto esistente dell’universale, di alcunché d’intero e perfetto. È perciò semplice irriflessione il non vedere che appunto la designazione di qualcosa come finito o limitato contiene la prova della presenza effettiva dell’infinito, dell’illimitato; che del limite si può aver notizia solo in quanto c’è di qua, nella coscienza, l’illimitato» (Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Berlin 18303, § 60, tr. it. di B. Croce, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Bari 19634, p. 65). 6470

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B) METAFISICA. In metafisica, limite indica il carattere di finitezza, e quindi di imperfezione, che è proprio dell’essere creato. Propriamente, non esiste il puro limite come realtà a sé (in quanto esprime per l’appunto l’aspetto secondo il quale la realtà finita non si adegua alla realtà assoluta), ma esiste la realtà limitata e, in concreto, un essere limitato. Il limite indica non-essere, per cui essere limitato significa essere misto a non-essere, cioè un essere che non verifica la pienezza dell’essere, e perciò si dice essere imperfetto. L’esistenza dell’essere limitato si manifesta nel divenire spazio-temporale; il divenire è precisamente uno dei limiti dell’essere. Ma se limite dice non-essere, non è forse contraddittoria la nozione di essere limitato? Un essere misto a non-essere non è forse una contraddizione in termini? Così, di fatto, si è presentata la prima antinomia metafisica che ha trovato in Parmenide un attento e sottile espositore (cfr. H. Diels - W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1961-6411, 28 B 6, 8), ed è stata superata dalla concezione aristotelica di potenza-atto (cfr. Metaph., IX; per le prime affermazioni dell’opposizione limiteillimitato vanno richiamati Anassimandro e i pitagorici). Il non-essere misto all’essere non si oppone all’essere simpliciter, ma solo all’essere in atto, in quanto tra l’essere in atto e il non-essere simpliciter, vi è l’essere in potenza, il quale può essere considerato precisamente come il limite dell’essere in atto, o come il principio di limitazione dell’atto. Atto limitato significa atto misto a potenza, o perfezione ristretta nel limite di una determinata capacità. L’atto, per sé, è illimitato, non in senso forte e positivo, ma negativamente, in quanto né include né esclude il limite, perciò, se esiste limitato (e tale esistenza va stabilita a posteriori), dovrà ripetere la propria limitazione da un principio estrinseco, ma che sia tale formalmente, e non materialmente (come sarebbe, p. es., un altro atto). Ora, di principi formalmente estrinseci all’atto non ne esistono che due: la causa efficiente e la potenza. Ambedue concorrono alla limitazione dell’atto; ma mentre la causa efficiente vi concorre in modo estrinseco e materiale (in quanto non è la propria azione quella che veramente limita), la potenza, invece, vi concorre in modo intrinseco e formale, in quanto è proprio essa il vero limite dell’atto. Così, p. es., sia il pittore sia il colore bianco concorrono a far

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bianca la parete, ma se la bianchezza della parete non è la bianchezza illimitata, ciò dipende dal fatto che essa è limitata sia dall’azione del pittore (causa efficiente), sia dalla recettività della parete (causa materiale o potenza; sul concetto di limite in Aristotele, cfr. anche Metaph., V, 17, 1022 a 4-5, 9-10; Tommaso, In Metaphysicorum, lez. 19). Il principio della limitazione dell’atto per la potenza soggettiva è fondamentale nella filosofia di Tommaso (cfr. De ente et essentia, cap. 5; De spiritualibus creaturis, a. 8; Contra Gentiles, l. I, cap. 43; l. II, cap. 93; Sum. theol., I, q. 50, art. 2 ad 4um; art. 4; Compendium theologiae, cap. 18), e rappresenta una felice sintesi di motivi platonici (cfr. Conv., 210 e - 211 d), aristotelici (cfr. Metaph. XII, 6, 1071 b 3-22) e agostiniani (cfr. De Trin., VIII, cap. 3, nn. 4-5; De civ. D., XI, capp. 9-10). Diversamente da Tommaso, spiegano la limitazione dell’atto Scoto (cfr. Reportata Parisiensia, I, distinctio 2, q. 3, n. 2) e Suárez (cfr. Disputationes metaphysicae, 31, sezione 13, nn. 1418), secondo i quali l’atto può essere limitato da se stesso, senza che sia ricevuto nella potenza soggettiva, in quanto la causa efficiente lo può produrre in un determinato grado piuttosto che in un altro: per il solo fatto di essere prodotto (e quindi dipendente), l’atto è già limitato. La difficoltà che tale soluzione presenta è di rimanere ai margini del problema, che riguarda il costitutivo intrinseco della limitazione. È evidente che, per il fatto di essere prodotto, l’atto è già limitato, ma si domanda ulteriormente che cosa implichi questa produzione nei riflessi dell’intima costituzione del medesimo essere limitato. Dire che l’atto è limitato perché è prodotto significa confondere il problema della causa formale con quello della causa efficiente, cioè non spiegare, in ultima analisi, perché la limitazione esiga la produzione; per cui la soluzione tomistica sembra più solida di quella suareziana. Il principio della limitazione per la potenza soggettiva porta necessariamente con sé la distinzione reale tra potenza e atto, e, conseguentemente, tra essenza e atto di essere, e suppone quella dottrina della partecipazione che pervade tutta Ia metafisica dell’Aquinate e si esprime globalmente nella concezione analogica dell’essere (cfr. C. Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo s. Tommaso d’Aquino, Torino 19502; L. De Raeymaeker, Philosophie de l’être, Louvain 19472).

Limite La realtà del limite (e conseguentemente dell’essere Iimitato) non ha più luogo nelle filosofie panteistiche, sia del tipo statico (Spinoza) che del tipo dinamico-evolutivo (Hegel), sebbene, sotto un certo aspetto, il problema del limite possa considerarsi posto da questi sistemi in particolare evidenza. Secondo Baruch Spinoza, tutto ciò che esiste esiste in Dio, unica sostanza, per cui i modi o affezioni della sostanza (vale a dire, i nostri esseri limitati) non potrebbero né esistere né essere concepiti senza la sostanza, poiché non esistono che in essa; donde segue che non si può concepire modo alcuno se non in Dio, unica sostanza. Siccome dunque Dio è la sola sostanza che esiste e tutto ciò che vediamo esistere, non essendo sostanza, è necessariamente modo, e ogni modo esiste nella sostanza di cui è modo, ne segue che tutto ciò che esiste non può né esistere né essere concepito senza Dio (cfr. Ethica ordine geometrico demonstrata, Amsterdam 1677, parte I, proposizione 15). L’essere limitato non ha quindi una intelligibilità per sé e in sé. In Hegel il rapporto finito-infinito non può essere concepito nel senso della dipendenza causale del primo termine dal secondo e dell’inferenza del secondo dal primo, ma solo nel senso dell’unità dialettica di finito e infinito, per cui il finito viene superato nell’infinito e fa tutt’uno con esso (cfr. Enzyklopädie, cit., § 50). Di conseguenza, la nozione di limite, lungi dall’assicurare all’essere finito una consistenza sua propria (sebbene non univoca, ma analoga a quella dell’infinito), diviene in Hegel la ragione che esige l’identificazione dialettica di finito e infinito (cfr. Vorlesungen über die Philosophie der Religion, a cura di G. Lasson, Leipzig 1925-30, parte II: Die bestimmte Religion, ivi 1927, cap. I, sezione 1, pp. 46 ss.). Con ciò il limite viene portato nel seno stesso dell’infinito. Va appena rilevato che tali sistemi hanno in comune con l’ontologia parmenidea la concezione univoca dell’essere, dalla quale segue logicamente la tesi della negatività del finito, precisamente per l’eliminazione della realtà del limite Alle medesime conclusioni, sebbene per via opposta (ma solo apparentemente), arriva certo esistenzialismo, il quale, dopo aver affermato vivacemente la realtà della nozione di limite, in quanto connaturato all’esistenza umana, finisce con invertirne il significato rendendo il finito, in qualche modo, sufficiente a se stes6471

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Lindner so. In tal senso va in particolare la filosofia di Jean-Paul Sartre ne L’être et le néant. La ragione principale di tale difetto è da ricercarsi in una disposizione sostanzialmente anti-intellettualistica, che impedisce di interrogare la limitazione dell’esistenza secondo le sue condizioni di possibilità. Così, malgrado la fenomenologia introspettiva della vita coscienziale e l’analisi della finitudine, si ha in questa parte dell’esistenzialismo una visione contraddittoria della finitezza. Più articolata e teoreticamente ben più problematicamente aperta è, a questo riguardo, la posizione di Martin Heidegger, per il quale «appartiene alla verità dell’essere che mai l’essere dispiega la sua essenza senza l’ente, e che mai un ente è senza l’essere» (Nachwort zu Was ist Metaphysik?, Frankfurt am Main 19516, p. 41, tr. it. Poscritto a «Che cos’è metafisica?», in Segnavia, ed. it. a cura di F. Volpi, Milano 1987, p. 260). In questa prospettiva il limite dell’ente, ovvero il niente in quanto costitutivo dell’esserci, implica già un orizzonte di trascendimento che a suo modo ripropone la questione metafisica e, in essa, la questione del nesso finito-infinito. Più esplicito è in Karl Jaspers il problema del limite: un’esperienza primordiale, cui nessun uomo può sottrarsi, è quella vissuta nelle «situazioni-limite» (Grenz-Situationen), come p. es. il conflitto, la colpa, la sofferenza, la morte, le quali, denotando la radicale finitudine dell’esistenza umana, pongono il problema della trascendenza, cioè il problema di un essere che non sia l’uomo, dell’«altro» (das Andere): in ultima analisi, della divinità. L’unica soluzione possibile è, per Jaspers, il ricorso a una «fede filosofica», che diversamente dalle fedi religiose rinunci a oggettivare la trascendenza e tenti di penetrarla solo attraverso le «cifre» del suo rivelarsi in obliquo nel mondo. In altri termini: l’esistenza umana è un tendere incessantemente all’essere senza poterlo mai raggiungere; essa appare dunque inesorabilmente condotta al «naufragio» di tutte le sue possibilità, sì che la prospettiva di Jaspers può forse considerarsi quella che più di ogni altra, all’interno della filosofia contemporanea, pone l’accento sulla drammatica radicalità del limite inscritto nel modo di essere dell’uomo (cfr. Vernunft und Existenz, Gröningen 1935, tr. it. di A. Lamacchia, Ragione ed esistenza, Casale Monferrato 1971; Der philosophische Glaube, 6472

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München 1948, tr. it. di U. Galimberti, La fede filosofica, Casale Monferrato 1973). G. Giannini - D. Sacchi BIBL.: A) M. HEIDEGGER, Kant und das Problem der Metaphysik, Bonn 1929, tr. it. di M.E. Reina riveduta da V. Verra, Kant e il problema della metafisica, RomaBari 1981; P. HOENEN, La théorie du jugement d’après st Thomas d’Aquin, Roma 19532; J.B. LOTZ, Transzendentale Erfahrung, Freiburg-Basel-Wien 1978, tr. it. di M. Marassi, Esperienza trascendentale, Milano 1993. B) E. PRZYWARA, Analogia entis, München 1932, tr. it. a cura di P. Volonté, Analogia entis, Milano 1995; E. STEIN, Endliches und ewiges Sein, Löwen - Freiburg im Breisgau 1950, tr. it. di L. Vigone, Essere finito e essere eterno, Roma 1988; F.J. von RINTELEN, Philosophie der Endlichkeit, Meisenheim 1960; G. SIEWERTH, Der Thomismus als Identitätssystem, Frankfurt am Main 1961; J.B. LOTZ, Ontologia, Barcelona 1963, nn. 372, 374, 386, 397 ss.; A. RIGOBELLO, Temporalità e istante, comunicazione e silenzio, situazioni-limite della trascendenza in Karl Jaspers, in G. PENZO (a cura di), Karl Jaspers. Filosofia, scienza, teologia, Brescia 1983, pp. 119-125; S. MARZANO, Il concetto di limite nel Nachlass sulla Logica filosofica, in D. DI CESARE - G. CANTILLO (a cura di), Filosofia, esistenza, comunicazione, Napoli 2002; M. MARASSI, Metafisica e metodo trascendentale. Johannes B. Lotz e la struttura dell’esperienza, Milano 2004. ➨ ANALOGIA; APEIRON; ATTO; CONFINE; DIALETTICA; DIVENIRE; ESSENZA; FINITEZZA; FINITO; FORMA; INFINITESIMALE, ANALISI; INFINITO; NOUMENO; PERFEZIONE; POTENZA.

LINDNER, GUSTAV ADOLF. – Filosofo e pedaLindner gogista ceco, n. a Rozd’alovice l’11 mar. 1828, m. a Praga il 16 ott. 1887. Fu per lunghi anni professore e ispettore scolastico in Austria e Boemia, fondatore della rivista «Pedagogium» (Praga 1879) e infine professore di Pedagogia all’università di Praga. Dopo la sua morte venne pubblicata da J. Klika la sua Pedagogika na základe nauky o vyvoji prirozeném (La pedagogia sul fondamento della dottrina dell’evoluzione naturale), s. l. 1888; Prednásky na filosofzeké fakulte (Le prelezioni in facoltà filosofiche), s. l. 1890, e altri articoli minori. Linder è discepolo di Herbart e Spencer e nelle sue opere si propone di creare un completo sistema pedagogico in relazione alla struttura sociale dello stato. La sua teoria sociologica è un coerente sviluppo di fondamentali principi herbartiani. Lindner fu pure uno dei maggiori esperti di questioni scolastiche in Austria-Ungheria. Nell’attività pubblica è

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caratteristico il suo atteggiamento ostile verso le autorità ecclesiastiche e il suo favore al liberalismo. T. Spidlík BIBL.: Ideen zur Psychologie der Gesellschaft, Wien 1871; Allgemeine Unterrichtslehre, Wien 191510 (1879); Allgemeine Erziehungslehre, Wien 191719 (1877); in lingua ceca: Vseoecné vychovatelství (Pedagogia generale), s. l. 1878; Drobné clánky pedagogické i psychologické (Brevi saggi di pedagogia e psicologia), s. l. 1885. Su Lindner: V. BENEDETTI, La pedagogia generale del Lindner, Milano 1919; J. KRÁL, Herbartovská sociologie, Praga 1921;J. NOVÁK, G.A. Lindner, Praha 1941; E. ADAM, Die Bedeutung des Herbartianismus für die Lehrer- und Lehrerinnenbildung in der österreichischen Reichshülfte der Habsburgermonarchie mit besonderer Berücksichtigung des Wirkens von Gustav Adolf Lindner, Klagenfurt 2002.

LINDSAY OF BIRKER, ALEXANDER DUNLOP Lindsay (primo barone) . – N. a Glasgow il 14 mag. 1879, m. nel North Straffordshire il 18 mar. 1952. Professore di filosofia morale all’università di Glasgow (1922-1924), poi vicecancelliere all’università di Oxford (1935-1938) e rettore al Balliol College fino al 1949, quando andò a dirigere il nuovo collegio universitario di N. Straffordshire. Oltre a una traduzione della Repubblica di Platone (New York 19572), si ricordano: The Philosophy of Bergson, London 1911; The Nature of Religious Truth, ivi 1927; Christianity and Economics, ivi 1933; The Churches and Democracy, Oxford 1934; Toleration and Democracy, London 1942; The Modern Democratic State, ivi 1943; The Good and the Clever, Cambridge 1945. Q. Principe BIBL.: H.J. PATON, A.D. Lindsay’s «Kant», in «Mind», 1935, pp. 230-235; D. LINDSAY SCOTT, Alexander D. Lindsay: a Biography, Oxford 1971.

LINGIS, ALPHONSO. – N. nel 1933. Ha studiaLingis to a Chicago e a Lovanio, e attualmente è professore nella Pennsylvania State University. Lingis è infuenzato dal metodo fenomenologico, come appare in Phenomenological Explanations (Dordrecht 1986), ed è impegnato in una fenomenologia del corpo e della percezione che privilegia l’immediatezza intuitiva del contatto sensibile col mondo materiale rispetto ai momenti di unificazione e di riferimento a un sostrato presenti nella percezione. In The Im-

Lingua perative. Studies in Continental Thought (Bloomington [Indiana] 1998), egli sostiene che l’imperativo etico in Kant e Lévinas è troppo centrato sull’interazione umana, mentre una sorta di imperativo è già presente, come ha affermato Merleau-Ponty, nelle percezioni più rudimentali. In Excesses: Eros and Culture (Albany 1983), mostra la ristrettezza del razionalismo occidentale rispetto alle culture del lontano Oriente e dell’Africa. P. De Vitiis

LINGUA (language; Sprache; langue; lengua). – Lingua In senso più tradizionale (lingua come singolare di «lingue»), indica l’idioma di una determinata comunità: lingua italiana, lingua inglese ecc. Nel senso tecnico introdotto dal linguista ginevrino F. De Saussure (1857-1913), nel Cours de linguistique générale (Paris 19222; Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Roma-Bari 200318) indica l’aspetto sociale del linguaggio, contrapposto alla parole, che ne indica l’aspetto individuale. In ambedue i sensi, lingua si distingue da «linguaggio» in quanto il primo dei due termini si riferisce a un’entità propria di una determinata comunità linguistica, mentre il secondo indica una capacità cognitiva comune a tutti gli uomini (Saussure parla di faculté de langage): quindi il linguaggio umano è unico, mentre le singole lingue sono diverse. Si noti che l’inglese language o il tedesco Sprache equivalgono sia all’italiano lingua che all’italiano linguaggio. SOMMARIO: I. Lingua e lingue. - II. Lingua e parole. I. LINGUA E LINGUE. – Occorre anzitutto chiarire che, dal punto di vista linguistico, non c’è alcuna differenza tra lingua e «dialetto»: tanto una lingua di grande cultura e tradizione scritta, quanto un dialetto esclusivamente parlato sono entrambe realizzazioni della stessa capacità cognitiva «linguaggio». La differenza tra lingua e dialetto è quindi di carattere eminentemente sociale e culturale: una lingua è un idioma che ha ricevuto, per motivi storici e/o politici, un riconoscimento ufficiale. Ad es., l’italiano in origine non era che il dialetto di Firenze, il quale, grazie al prestigio conquistato dall’opera di Dante, Petrarca e Boccaccio, è gradualmente diventato lingua letteraria nazionale e, dopo l’unificazione, lingua ufficiale dello stato. Icasticamente si suole definire la lingua come un «dialetto con un esercito e una marina». 6473

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Lingua Il numero delle lingue del mondo varia a seconda delle differenti stime: si può ipotizzare che esse siano circa 6000. Esse variano enormemente per quanto riguarda il numero di parlanti: si va dal miliardo circa delle lingue più diffuse, l’inglese e il cinese mandarino, ai meno di cento di lingue in via di estinzione. Alcune lingue sono poi «morte», ossia non contano più alcun parlante nativo, anche se in certi casi sono ancora utilizzate come lingue scritte: è il caso del latino, in cui vengono tuttora redatti i documenti ufficiali della chiesa romana. Le varie lingue del mondo possono essere raggruppate in base a tre criteri diversi: il criterio «genealogico», il criterio «tipologico» e il criterio «areale». Due o più lingue sono apparentate genealogicamente se discendono da una «lingua madre» comune: ad es., le lingue romanze (italiano, francese, spagnolo, portoghese, romeno ecc.) derivano tutte dalla stessa lingua madre, il latino. In questo caso si dice che la lingua è «attestata», cioè documentata, ma nella maggior parte dei casi essa può essere solo «ricostruita», sulla base della «comparazione»: questo ci mostra che le lingue romanze e numerose altre lingue, come l’inglese, il tedesco, il russo, il greco, il sanscrito ecc., derivano tutte da un’unica lingua madre, non attestata, che si è soliti chiamare «indoeuropeo», e quindi fanno parte della stessa famiglia linguistica, detta appunto indoeuropea. Il criterio tipologico raggruppa le lingue in base a caratteristiche strutturali comuni, dette «tipi»: le lingue apparentate genealogicamente possono appartenere allo stesso tipo, ma questo non è necessario; viceversa, allo stesso tipo possono appartenere anche lingue non apparentate genealogicamente. La classificazione tipologica non ha finora raggiunto risultati altrettanto solidi quanto quella genealogica, e non c’è un accordo generale su quali caratteristiche considerare fondamentali per stabilire l’appartenenza di una determinata lingua a un tipo o a un altro. Fin dagli inizi dell’Ottocento, si è soliti distinguere le lingue in tre tipi, «flessivo», «agglutinante» e «isolante», a cui a volte se ne aggiunge un quarto, detto «polisintetico». Le lingue flessive sono quelle che esprimono varie funzioni con un medesimo elemento grammaticale: per es., il suffisso latino -i in una parola come lupi esprime simultaneamente il nominativo, il maschile e il plurale. Quando invece que6474

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ste varie funzioni sono espresse ciascuna da un elemento diverso, si dice che la lingua è agglutinante: è il caso del turco, dove nella parola kuslara (dativo plurale di kus, «uccello»), lar- indica il plurale e -a il dativo. Una lingua isolante sarebbe invece il cinese, che non presenta suffissi come quelli appena indicati, ma esprime le varie nozioni di caso, numero, tempo ecc., mediante l’aggiunta di parole ausiliarie («parole vuote»). Le lingue polisintetiche sarebbero infine quelle che esprimono tutte le varie relazioni grammaticali (soggetto, predicato, oggetto ecc.) mediante una sola parola: un esempio ne sarebbe l’eschimese. Questi criteri di classificazione si sono mostrati il più delle volte insufficienti, in quanto si è osservato che in una stessa lingua possono contemporaneamente presentarsi fenomeni sia di tipo flessivo che di tipo agglutinante o di tipo isolante. A partire dagli anni sessanta del Novecento, a questo genere di tipologia basata essenzialmente sulla struttura della parola si è gradualmente sostituita una tipologia basata sulla struttura della frase o, come abitualmente si dice, sull’«ordine delle parole». Tale tipologia, il cui iniziatore è stato il linguista americano J.H. Greenberg (1915-2001) si basa sull’osservazione di correlazioni sistematiche tra l’ordine degli elementi in diversi costrutti sintattici: ad es., se una lingua pone abitualmente l’oggetto dopo il verbo (è cioè del tipo VO), normalmente pone il genitivo dopo il nome e fa uso di preposizioni (è il caso dell’italiano); se invece pone l’oggetto prima del verbo (tipo OV), normalmente ha il genitivo prima del nome, e fa uso di posposizioni (è il caso del giapponese). Infine, la parentela linguistica areale si ha quando due o più lingue, genealogicamente non apparentate o apparentate molto alla lontana, sviluppano caratteristiche comuni perché parlate nella stessa area e quindi «in contatto» l’una con l’altra: ad es., le lingue balcaniche appartengono a gruppi diversi della famiglia indoeuropea (romanzo, slavo, albanese, greco), ma condividono caratteristiche che invece non hanno altre lingue del loro gruppo (ad es., il romeno è privo dell’infinito, come le altre lingue balcaniche e a differenza di tutte le altre lingue romanze). II. LINGUA E PAROLE. – Saussure (Cours, pp. 3033) distingue la lingua (langue) dalla parole in quanto 1. la prima è sociale, mentre la seconda è individuale; e 2. la prima è necessaria,

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mentre la seconda è accessoria o accidentale: possono infatti esistere casi di lingue senza parole (ad es., le lingue morte), mentre non possono darsi atti di parole senza che esista una lingua. Parole indica invece 1. l’utilizzo da parte del singolo individuo del codice che ha a sua disposizione, ossia la lingua, per esprimere il proprio pensiero, e 2. «il meccanismo psico-fisico che gli permette di esternare tali combinazioni». (Si tenga presente che al francese parole non corrisponde, tranne che nelle locuzioni tipo «dare la parola», «prendere la parola» ecc., all’italiano «parola», che è invece l’equivalente del francese mot.). Saussure sostenne quindi la precedenza dello studio della lingua su quello della parole, affermando che soltanto il primo deve essere considerato «la linguistica propriamente detta» (ibi, p. 39). In realtà, i rapporti tra le due nozioni appaiono abbastanza complessi, e la definizione esatta di lingua non è esente da difficoltà. Anzitutto, osserva Saussure (ibi, p. 37), «i due oggetti sono strettamente legati e si presuppongono a vicenda»: come si è visto, la parole presuppone la lingua perché il messaggio del parlante all’ascoltatore sia intelligibile, in virtù del codice comune condiviso; ma la lingua può stabilirsi solo in virtù della parole: «storicamente, il fatto di parole precede sempre» (ibi.). Inoltre, è la parole che fa evolvere la lingua: le lingue mutano attraverso il tempo in quanto alcuni individui possono compiere atti di parole che in una qualche misura divergono dal codice costituito dalla lingua, e, se queste realizzazioni divergenti vengono accettate dalla comunità, entrano a far parte della lingua e la modificano. «V’è dunque interdipendenza tra la lingua e la parole: la prima è nello stesso tempo lo strumento e il prodotto della seconda» (ibi.). Sembrerebbe quindi che, diversamente da quanto sostenuto altrove, Saussure affermi qui che la parole non è subordinata rispetto alla lingua. La definizione di lingua è poi ugualmente problematica: Saussure sostiene che la lingua è un fatto sociale, ma afferma anche che è un «oggetto di natura psichica», che quindi deve collocarsi nel cervello dei singoli parlanti. Come risolvere quindi il contrasto tra la natura sociale della lingua e il suo statuto di entità psichica? La soluzione di Saussure consiste nel dire che la lingua è «qualche cosa che esiste in ciascun individuo pur essendo comune a tutti e collocata fuori dalla volontà dei depositari» (ibi, p. 38).

Lingua Queste incertezze saussuriane si possono spiegare in base alla complicata storia testuale del Cours e alla difficoltà del linguista ginevrino di distaccarsi completamente dallo «psicologismo» e dal positivismo tipici della linguistica ottocentesca. Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre tenere presente che il Cours non è opera diretta di Saussure, ma fu pubblicato postumo da due suoi ex allievi, Ch. Bally (1865-1947) e A. Sechehaye (1870-1946), sulla base di appunti tratti da tre corsi universitari tenuti da Saussure, corsi ai quali né Bally né Sechehaye avevano assistito. L’incapacità di Saussure di liberarsi completamente dallo psicologismo ottocentesco si rivela nella sua definizione di lingua come «entità psichica», difficile da conciliare con la caratteristica fondamentale che le viene attribuita, ossia quella di essere un fenomeno sociale. Come ha ben rilevato T. De Mauro nel suo commento al Cours (cfr. soprattutto la n. 65), di fatto la lingua si contrappone alla parole nei termini di astratto versus concreto: la lingua è un sistema astratto di segni, condiviso da tutti i membri di una determinata comunità, che viene concretamente realizzato dai singoli parlanti mediante atti di parole diversi l’uno dall’altro, ma interpretabili proprio in quanto realizzazioni di tale sistema astratto, che non si fonda né sul suono, né sulla realtà esterna, ma unicamente sulla relazione reciproca tra i suoi elementi (è cioè un «sistema di valori»). Come rileva ancora De Mauro (n. 70), Saussure non ricorre esplicitamente all’opposizione astratto/concreto in quanto egli è ancora erede di una tradizione filosofica ed epistemologica in cui «astratto» ha una connotazione negativa; egli si pone quindi, forse inconsapevolmente, agli inizi di quel «movimento di rivalutazione dell’astratto» che si imporrà poi con l’epistemologia novecentesca. La necessità di distinguere un livello astratto e un livello concreto nel linguaggio verrà riconosciuta da quasi tutti i linguisti posteriori a Saussure, che, sia pure riformulandola variamente, riprenderanno la distinzione tra lingua e parole. R. Jakobson (1896-1982) la riformulerà nei termini, rispettivamente, di «codice» e «messaggio»; e anche la dicotomia introdotta da N. Chomsky (n. 1928) nella linguistica generativa tra «competenza» ed «esecuzione» si richiama esplicitamente alla distinzione saussuriana (la competenza corrisponde alla lingua e l’esecuzione alla parole), pur all’interno di una concezione es6475

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senzialmente diversa della linguistica (la competenza è astratta come la lingua, ma non è considerata sociale, bensì individuale; la comprensione tra diversi parlanti è possibile solo in quanto essi possiedono competenze molto simili). G. Graffi ➨ CODICE; LINGUISTICA GENERATIVA.

LINGUAGGIO, FILOSOFIA DEL. – Con il termiLinguaggio ne «linguaggio» s’intende l’insieme dei codici umani (verbali, non verbali, artificiali) o anche animali, che trasmettono informazioni o suscitano reazioni emotive. Ma si intende anche l’espressione del pensiero e la manifestazione della sua intenzionalità. SOMMARIO: I. Il linguaggio nel pensiero delle origini. - II. Il linguaggio nel pensiero antico. III. Il linguaggio nella patristica. - IV. Il linguaggio nel pensiero medievale. - V. Il linguaggio nel pensiero moderno: 1. Dall’umanesimo all’illuminismo. - 2. L’età romantica. - VI. Il linguaggio nel pensiero contemporaneo: 1. Il linguaggio tra linguistica e sociologia. - 2. La riscoperta della centralità del linguaggio. - 3. Dall’empirismo logico alla filosofia analitica. I. I L LINGUAGGIO NEL PENSIERO DELLE ORIGINI. – Nell’età arcaica ogni aspetto della realtà è concepito come parte del tutto e tale che ne riflette l’intima essenza. Anche il linguaggio risponde a questo principio, per cui assolve una funzione eminentemente evocativa nei confronti dei fenomeni naturali. I gridi, i gesti e, soprattutto, le parole attingono la sostanza stessa delle cose e la rendono manifesta. Alle formule rituali, in particolare, è riconosciuta la capacità di rivelare l’energia vitale che alimenta il tutto e di consentire a colui che le recita di agire sulle forze che vi presiedono e di dominarle. A questo riguardo, emblematica è la testimonianza offerta dal Genesi, dove si dice che Dio, dopo aver creato la luce con la semplice espressione verbale «Sia la luce», la separò dalle tenebre e impose loro rispettivamente il nome di giorno e di notte: così si fece mattino e sera e fu il primo giorno. In questo caso l’imposizione del nome è costitutiva dell’atto stesso con cui Dio creò il mondo, determinandone e specificandone le parti. Qualcosa di simile avviene anche per l’uomo allorché conosce la realtà che lo circonda; nel Genesi si dice anche che Dio, dopo aver creato gli animali terrestri e gli uccelli, li condusse dinanzi all’uomo perché provvedesse a imporre loro un nome: 6476

«Qualunque nome infatti avesse imposto l’uomo a ciascun animale, quello sarebbe stato il suo nome» (Gn 2,19). Anche per i babilonesi e gli accadi una cosa non esisteva se non aveva un nome, perché sarebbe risultata priva di rilevanza. D’altro canto, la possibilità di imporre un nome a una cosa non era concepita come una semplice evocazione della cosa, ma come una sua chiamata all’esistenza. Perciò, per chi era in grado di esercitare questa funzione, equivaleva a un vero e proprio potere nei suoi confronti e quindi assumeva una connotazione di chiara risonanza magica. In questo ordine di idee allora non c’è da meravigliarsi se la parola nelle Upanisad, cioè nei libri sacri indiani, è elevata a entità divina e immortale ed è identificata con la forza cosmica che spira ovunque e nutre di sé l’intera realtà, costituendo così il «sostrato» a cui sono riconducibili tutti i nomi imposti dagli uomini. Presso gli arabi questa forza avrebbe trovato uno speciale riconoscimento nel ruolo di preminenza da essi attribuito alla parola scritta rispetto a quella parlata e quindi alla lettura. II. IL LINGUAGGIO NEL PENSIERO ANTICO. – Con la nascita del pensiero critico si determinò un profondo mutamento nel modo di concepire il linguaggio In verità, già nei poemi omerici ed esiodei esso è riguardato come una realtà corporea che si muove nello spazio mediante le ali. Ma è soprattutto con Talete, Anassimandro e Anassimene che vengono poste le basi per questo mutamento con l’asserire la necessità di ricondurre la realtà entro i limiti di un sistema di rapporti ontologici concettualmente determinabili. Fanno loro eco Pitagora e, principalmente, Filolao, il quale sostiene che «tutte le cose che si conoscono hanno numero; senza questo niente sarebbe pensabile e conoscibile» (Diels 44 B 4). Una volta riconosciutale questa struttura, la realtà può essere compresa solo mediante un discorso capace di coglierne e esprimerne l’organizzazione interna. Di questa istanza si fa interprete Parmenide, il quale traduce la presa di coscienza di un ordine razionale che presiede all’universo in formulazioni linguistiche esplicite. Nel fr. 2 del suo famoso poema ricorda che vi sono soltanto due vie per la ricerca della verità: «L’una che (l’essere) è e che non è possibile che non sia; l’altra che (l’essere) non è e che è necessario che non sia». Nei frr. 3 e 8, dopo aver sottolineato che «una sola via resta al discorso: che

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l’essere è», sostiene l’identità fra essere e pensiero. Benché non escluda che si possano dare enunciati che non riguardano l’essere, tuttavia fa rilevare che in essi «non è certezza verace». In tal modo risulta stabilito che l’unico linguaggio autentico è quello che esprime il pensiero che si identifica con l’essere. Tale linguaggio però non è di origine umana, perché l’uomo può produrre soltanto nomi, cioè suoni non veri e privi di significato. Si può quindi individuare nel pensiero di Parmenide un primo abbozzo della distinzione tra lógos e ónoma, cioè tra discorso che coglie la verità incontrovertibile dell’essere e discorso che, pur presentando corrispondenze con le cose, si basa su corrispondenze soltanto illusorie, perché fondate su opinioni. Una posizione in qualche modo analoga si registra anche con Eraclito. Il lógos, afferma l’«oscuro» di Efeso, presiede a tutte le cose: non è solo legge per esse, ma ne rappresenta anche l’«armonia nascosta», più solida dell’armonia che appare. Per questo le cose possono essere espresse mediante un discorso. Veritieri però sono soltanto gli enunciati che, pur concernendo aspetti particolari di esse, non si limitano a descriverne le qualità e i modi di essere, ma ne parlano alla luce del principio razionale a cui rinviano come a loro fondamento ontologico e quindi a loro condizione di pensabilità. Anche gli atomisti si richiamano a un principio razionale come regola del divenire delle cose. Per Leucippo, infatti, «niente avviene casualmente, ma tutto in dipendenza del lógos e secondo necessità» (Diels 67 B 2). Così è pure per Democrito, secondo il quale il cosmo è subordinato a un meccanismo razionale che è la condizione dell’attività del pensiero e quindi della possibilità di esprimersi mediante parole. Diversamente da Eraclito, però, tale necessità non è concepita dagli atomisti come un principio metafisico, ma come l’espressione di un’esigenza logica. Il fondamento del linguaggio quindi è ancora ravvisato nel pensiero, non già tuttavia nel pensiero che pensa l’essere, bensì in quello che rende intelligibili i dati sensibili stabilendo tra essi rapporti di interdipendenza. Si fa risalire a Democrito anche una teoria del significato che esclude l’esistenza di qualsiasi legame naturale tra i nomi e le cose designate, riconducendolo a una convenzione introdotta dagli uomini.

Linguaggio Con la sofistica si assiste a una nuova svolta nel modo di concepire il linguaggio: l’attenzione si sposta dalla sua natura alla funzione che esso svolge nei rapporti umani. Determinante, a questo riguardo, è il contributo di Gorgia, il quale fa rilevare: «In linea assoluta, se per ciò che esiste si deduce la predicazione della pensabilità, per ciò che non esiste si dedurrà la predicazione dell’impensabilità. Ma questa predicazione è assurda: la prova ne è che Scilla, la Chimera e molti esseri che non esistono vengono pensati» (ibi, 82 B 3, 80). Esclude pertanto che il pensiero esprima l’essere. Fa osservare inoltre che, se anche qualcosa fosse pensabile, «nessuno potrebbe manifestarlo a un altro, per il fatto che le cose non sono favole e nessuno riesce a pensare una cosa identica a quella che pensa un altro» (ibi, 82 B 3, 83). Nega così anche che il linguaggio sia espressione del pensiero, equiparandolo piuttosto a uno strumento di suggestione e di persuasione. La parola, scrive infatti Gorgia, è «un potente sovrano, poiché con un corpo piccolissimo e del tutto invisibile conduce a compimento opere profondamente divine» (ibi, 82 B 19, 8). Per quel che concerne la verità o la falsità degli enunciati, Protagora fa osservare che su ogni cosa di cui il linguaggio si occupa, «esistono due logoi antitetici» (ibi, 80 B 6 a). Nonostante i frequenti accenni alla tematica del significato, ben presto, nell’ambito del movimento sofistico, diventò predominante l’interesse per gli aspetti lessicografici e sintattico-grammaticali delle forme in cui il linguaggio è abitualmente usato. La distinzione degli enunciati in narrativi, interrogativi, di risposta, di esclamazione, di appello ecc., proposta da Protagora, trovò il suo complemento nella distinzione dei sinonimi e dei relativi significati, avanzata da Prodico di Ceo. Contro gli esiti scettici della riflessione sofistica sul linguaggio reagì energicamente Socrate. Il suo impegno teoretico, incentrato sulla richiesta della definizione delle parole, era rivolto a restituire allo strumento della comunicazione una rilevanza semantica di portata universale. La valorizzazione della discussione dialettica come metodo di ricerca, infine, evidenzia l’importanza da lui attribuita all’uso delle parole in relazione a situazioni di vita reale ed effettiva. L’istanza agitata da Socrate fu raccolta da Platone: nel Cratilo propone un bilancio dei risultati raggiunti dai suoi predecessori a proposi6477

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Linguaggio to dell’origine, della natura e della funzione del linguaggio La tesi eraclitea della corrispondenza naturale dei nomi e delle cose è sostenuta da Cratilo, quella sofistica del carattere puramente convenzionale dei nomi è sostenuta da Ermogene. Alle due tesi Platone, per bocca di Socrate, oppone che i nomi sono strumenti convenzionali quanto all’origine, ma che esprimono l’essenza delle cose. Sotto il profilo semantico, imporre nomi non è di pertinenza di ogni uomo, bensì di colui che ne è l’artefice, cioè del legislatore (nomoteta), il quale opera «guardando a ciò stesso ch’è il nome in sé», vale a dire alla sua forma ideale, per cui ha la capacità di mostrare la natura delle cose. Ma le vedute di Platone sul linguaggio non si esauriscono con il Cratilo; tornando sull’argomento nel Sofista, egli replica indirettamente alla nota tesi di Antistene secondo cui ogni nome designa una cosa singola e quindi è impossibile formulare giudizi del tipo «l’uomo è buono», ma solo quelli come «l’uomo è uomo». Precisa infatti che non sono i nomi in se stessi a riferirsi alle cose, ma gli enunciati di cui fanno parte, poiché sono essi a coglierne l’essenza (Soph. 218 c). Gli enunciati, peraltro, non sono la semplice risultante dell’unione di nomi pronunciati successivamente, ma hanno una propria unità strutturale, che è costituita dal «reciproco collegamento dei generi» (259 c), cioè del genere dei nomi e del genere dei rJhvhata, ossia delle espressioni che fungono da predicato verbale o nominale dei nomi (262 a). Per quanto vi sia corrispondenza tra la struttura degli enunciati e quella delle cose, per Platone, però, il linguaggio non coincide mai perfettamente con quanto è costitutivo della realtà, perché quest’ultima non è una connessione di nomi e rJm'ha, ma di idee. Inoltre, quando nel Teeteto definisce un pensiero come un discorso tacito dell’anima con se stessa (189 e; 206 d), sembra accennare all’esistenza di un linguaggio mentale; riconosce però l’esistenza di un rapporto di corrispondenza tra tale linguaggio e quello verbale, per cui quest’ultimo non è che il linguaggio mentale espresso con parole e rivolto all’esterno. La discussione sui diversi usi di «è» contenuta nel Sofista, rappresenta un significativo esempio del tipo di analisi che si richiede per chiarire e rimuovere le fallacie. A Platone fa eco Aristotele, soprattutto nel De interpretatione, dove però accentua il carattere storico del linguaggio La verità o la falsità è 6478

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propria dei pensieri, non dei nomi, anche se ne sono l’espressione. Il nome per Aristotele è un suono della voce «significante per convenzione, in quanto nessun nome è tale per natura» (De interp., 2,16 a). Convenzionale non è solo il rapporto del nome con la cosa a cui si riferisce, ma anche il suo rapporto con la persona che lo usa e con la persona a cui è rivolto l’enunciato in cui è inserito. Per Aristotele l’enunciato è significante «non già come strumento naturale, ma [...] per convenzione» (ibi, 4, 16 b - 17 a). Benché rifiuti il naturalismo, tuttavia egli non adotta una posizione decisamente convenzionalistica, perché sia i nomi che gli enunciati implicano un riferimento all’essenza delle cose, dal quale derivano il loro significato. Fa notare infatti che «non può neanche pensare chi non pensa una cosa determinata, e se egli è in grado di pensare, dovrà dare un nome unico alla cosa cui pensa» (Metaph. 1006, 2). Gli enunciati si distinguono in due classi principali: quella degli enunciati veri o falsi, cioè apofantici o dichiarativi, e quelli degli enunciati che non possono essere tali, come quelli che esprimono un comando, un’esortazione, una preghiera, un auspicio ecc. Questi ultimi, infatti, sebbene siano comunemente usati nei rapporti umani, non comportano alcun riferimento immediato alle cose; per essi perciò non si può dire né che sono falsi né che sono veri, perché «falso è dire che l’essere non è o che il non-essere è; vero è dire che l’essere è, e il non-essere non è» (ibi, 1011 b). Data la loro natura convenzionale, però, i singoli enunciati apofantici non riescono a esprimere la complessa struttura della realtà; tale funzione invece può essere espletata da un concatenamento di enunciati, cioè dal sillogismo (Top. A1 100 a 25). Con questa figura logica infatti si attinge la dimensione ontologica della realtà: «Come nei sillogismi, così il principio di tutti i processi di generazione è la sostanza; infatti i sillogismi derivano dall’essenza, e da essa derivano anche le generazioni» (Metaph., 1034 a). Tale caratteristica comunque è propria soltanto dei sillogismi scientifici, cioè veri o falsi, perché gli altri, ossia i sillogismi retorici o entimemi, operano semplicemente come strumenti atti a suscitare reazioni emotive e a produrre persuasione. Nella Poetica Aristotele sottolinea la funzione catartica svolta dal linguaggio attraverso la mimesi.

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Anche durante il periodo ellenistico restò vivo l’interesse per il linguaggio Epicuro tornò a esaminare il problema della sua origine, proponendo, nella lettera a Erodoto trasmessaci da Diogene Laerzio, un’ipotesi di tipo naturalistico. Sostiene infatti: «Neppure l’origine del linguaggio derivò da convenzione, ma gli uomini stessi naturalmente, a seconda delle singole stirpi, provando proprie affezioni e ricevendo speciali percezioni, emettevano l’aria in diverso modo conformata per l’impulso delle singole affezioni e percezioni, e a tal differenza contribuiva anche quella diversità delle stirpi che è prodotta dai vari luoghi abitati da esse» (Opere, frammenti, testimonianze sulla vita, tr. it. a cura di E. Bignone, Bari 1966, p. 59). Questa concezione del linguaggio, però, vale solo per la prima fase, perché successivamente, «di comune accordo, le singole genti determinarono per convenzione le espressioni proprie, per potersi fare intendere con minore ambiguità e più concisamente» (ibid.). Epicuro esclude la mediazione mentale nella genesi del significato; gli elementi semantici di un enunciato perciò sono due soltanto, la voce e il dato immediato. La prolessi, che sembra svolgere la funzione di mediazione, è un’anticipazione di esperienze future, peraltro di natura psicologica e non linguistica. Anche Diodoro Siculo afferma che gli uomini, nel corso del loro processo di incivilimento, sono passati dai suoni indistinti a quelli articolati, fino a pervenire, nelle fasi più avanzate della loro vita associata, a segni stabiliti convenzionalmente. La tesi di Epicuro fu ripresa da Lucrezio, il quale fa del linguaggio un’istituzione creata da una comunità di uomini ed esclude perciò qualsiasi intervento divino nell’imposizione dei nomi. Per il poeta latino la nascita delle diverse lingue è dovuta a un processo spontaneo di perfezionamento graduale ma continuo dei gesti e dei suoni, ai quali l’uomo primitivo affidava l’espressione dei suoi stati d’animo. Rispetto a Epicuro, però, egli non ammette la matrice convenzionale per quanto concerne lo sviluppo del linguaggio Fa inoltre dipendere la capacità semantica dei nomi dal fatto che l’uomo, a mano a mano che se ne è servito, ha trovato utile far sì che i suoni fossero impiegati per denotare oggetti, oltre che per esprimere stati d’animo (De rer. nat., V, 1027,1090). Lucrezio, infine, sostiene che la differenza tra le prime manifestazioni degli animali e i linguag-

Linguaggio gi umani sia soltanto di grado, suscitando vivaci reazioni. Tra i primi a prendere posizione nei suoi confronti furono gli Stoici, i quali consideravano il linguaggio umano come assolutamente differente rispetto ai segni fonici degli animali. L’imposizione dei nomi è opera consapevole degli uomini, che tuttavia si adeguano alla natura delle cose, cercando di imitarla attraverso la capacità denotativa delle parole. Del resto, il linguaggio umano, in ciò che ha di più proprio, è un prodotto del logos divino che governa il mondo e che costituisce il principio esplicativo di tutto ciò che accade. Ma, siccome il logos cosmico vive nel moltiplicarsi dei logoi spermaticoi, sono questi ultimi a garantire la pensabilità e la dicibilità della singole cose. Gli enunciati che compongono il linguaggio sono costituiti di successioni di suoni articolati, ciascuno dei quali, oltre l’oggetto o il fatto cui si riferisce, ha anche un significato, rappresentato dal modo in cui vi si riferisce. Il significato, a differenza del segno e della cosa che sono corporei e quindi percepibili mediante i sensi, è incorporeo e può essere colto solo con l’intelletto. Secondo la testimonianza di Diogene Laerzio, gli Stoici distinguevano i significati in completi e difettivi: completi sono quelli relativi a espressioni discorsive complete, come le proposizioni o gli enunciati di tipo denotativo, le domande, i comandi, le preghiere, le supposizioni ecc.; difettivi invece quelli relativi a espressioni discorsive incomplete, come le predicazioni e i soggetti di predicazioni isolatamente presi (VII, I, pp. 63-65). Vero o falso è soltanto il significato relativo alle proposizioni o alle loro combinazioni, cioè ai ragionamenti, e non le espressioni linguistiche, perché riguarda il modo in cui il fatto o l’oggetto è significato e non ciò che lo significa. L’essere vero o falso del significato implica, inoltre, l’esistenza o la non esistenza del fatto o dell’oggetto cui si riferisce; Diogene Laerzio infatti dichiara che per gli Stoici il significato espresso da «è giorno» è vero se è giorno, mentre è falso se non è giorno (VII, I, p. 79). Nel periodo ellenistico, soprattutto per l’influenza esercitata dalla logica e dalla retorica di Aristotele, si guarda, oltre che al significato, anche all’impiego del linguaggio. Grande così fu l’attenzione riservata ai paradossi derivanti dalla confusione degli usi o dalla loro riduzione al solo uso apofantico. Tra questi, oggetto preminente di studio fu il cosiddetto parados6479

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Linguaggio so del «mentitore», in quanto, attraverso la formulazione che ne propose Eubulide e l’analisi critica a cui fu sottoposto da Crisippo, consentì di comprendere l’inadeguatezza di ogni concezione che consideri gli enunciati esclusivamente come veri o falsi. Nel mondo romano si continua a trattare il linguaggio prevalentemente dal punto di vista del suo impiego. Così, la riflessione che ne propongono Cicerone e Quintiliano verte principalmente sulla sua forza di persuasione. Il loro contributo teorico però resta limitato alla suddivisione del discorso nelle sue parti principali e delle parole in sillabe e in lettere, presentata per di più con chiaro intento didattico. Di una certa importanza è l’accento posto da questi autori sulla forza delle parole, in quanto anticipa i successivi sviluppi degli studi sull’aspetto pragmatico del linguaggio Benché sia scettico circa la possibilità di ricondurre il linguaggio sotto una scienza, Sesto Empirico continua a ritenerlo uno strumento indispensabile ai fini della comunicazione e quindi sottolinea che è abitualmente impiegato supponendo che vi sia una corrispondenza tra i nomi e le cose. Di ben altro avviso invece è Plotino. Il pensiero discorsivo, che trova espressione nel linguaggio, è il luogo della distinzione, della separazione e, in quanto «può solo cogliere i concetti uno dopo l’altro» (Enn. V, III, p. 17), esso è estraneo all’uno. Del resto, quest’ultimo è ineffabile, poiché «qualsiasi cosa tu pronunzi, tu avrai pur sempre espresso “una qualche cosa”, mentre l’Uno è semplicemente Uno senza il qualcosa» (V, III, pp. 1213). Anche il linguaggio dell’anima, cioè interiore, che pure è unitario rispetto al linguaggio parlato, è frammentario nei confronti dell’uno. Con questa separazione del mondo intelligibile rispetto al mondo sensibile erano poste le basi per quella teologia negativa di cui Proclo offre una prima formulazione organica. Constatata l’ineffabilità dell’uno, l’unico modo adeguato per parlarne gli pare che sia quello di alludervi mediante l’impiego di nomi che hanno un riferimento diretto soltanto a ciò che gli è inferiore. Questo artificio, quando sarà integrato con una dottrina del discorso apofatico, cioè del discorso che parla di una cosa dicendo ciò che essa non è, diventerà fondamentale per la determinazione del valore semantico dei nomi divini. A questo proposito Filone Alessandrino sostenne la necessità di un’interpretazione del linguaggio in senso al6480

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legorico. La sua tesi trovava illustri precedenti in una tradizione giudeo-ellenistica coltivata dagli esseni e dai terapeuti e che aveva incontrato larga applicazione nel Talmud. D’altro canto, secondo Filone, «se non ci fossero i nomi, non ci sarebbe neanche il linguaggio» (Allegoria delle leggi, II, p. 15) e i nomi vanno interpretati allegoricamente. Ad Adamo risale la prima imposizione dei nomi: il linguaggio di cui si servì era perfetto, perché ne facevano parte parole che rispecchiavano direttamente le cose. Nel corso del tempo, però, tale linguaggio si è andato corrompendo, sotto la spinta delle passioni; così, si sono formate le lingue storiche, le quali tuttavia non hanno una precisa corrispondenza con la realtà. Per Filone all’uomo è consentito di ritornare al linguaggio originario, purché sia disposto a compiere uno sforzo esegetico che oltrepassi il senso letterale delle parole appartenenti alle lingue e recuperi, per via allegorica, il linguaggio interiore in cui si riflette il logos che presiede all’universo. III. IL LINGUAGGIO NELLA PATRISTICA. – In seguito alla sua rapida diffusione, ben presto anche per il Cristianesimo si impose la necessità di una sistemazione unitaria e organica dei suoi contenuti dottrinari. Perciò, fin dai primi secoli dell’era volgare, tra i padri della chiesa maturò l’esigenza di costruire un linguaggio che rispondesse a questa esigenza. La loro attenzione perciò si rivolse in primo luogo a chiarirne l’origine e quindi a mostrare come esso possa costituire uno strumento adatto a cogliere Dio attraverso le sue creature e a rendergli la dovuta devozione. In quest’opera essi si rifanno soprattutto al racconto biblico del Genesi e pertanto vedono in Dio il fondamento del linguaggio, in quanto creatore delle cose designate dalle parole. Identificano in Adamo il legislatore che, secondo il Cratilo platonico, dà alle cose il loro giusto nome. A lui perciò fanno risalire l’origine della prima lingua comune a tutta l’umanità. In tal modo, tra la lingua primigenia e le lingue storiche, tra la lingua conforme alla natura dell’uomo e le lingue convenzionali, i padri della Chiesa stabiliscono una differenza che influenzerà la successiva riflessione sul linguaggio fino a tutto il sec. XIX. Nell’ambito della patristica, tuttavia, solo Agostino tenta di dar vita a una teoria del linguaggio Più che al problema della sua origine, egli guarda a quello della sua natura e lo considera come strettamente connesso al proble-

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ma della conoscenza. Il linguaggio risponde principalmente a due funzioni: a insegnare e a comunicare (De mag., 1, p. 1). A tal fine si serve di segni, cioè di mezzi espressivi che, oltre all’aspetto sensibile con cui si presentano, portano «a pensare a qualcosa di altro a partire da sé», come, «dopo aver visto un’impronta, pensiamo al passaggio di un animale che ha quell’impronta» (De doctrina christiana 2, 1, p. 1). Nei confronti della realtà i segni, infatti, non esplicano una funzione denotativa, ma, per così dire, allusiva. Per Agostino essi si distinguono in naturali e dati: naturali sono quelli che stanno direttamente per le cose, dati invece sono quelli convenzionali che implicano la mediazione del pensiero. A differenza dei segni naturali, che sono privi di intenzionalità, quelli dati o convenzionali svelano e trasmettono «al pensiero altrui ciò che si pensa» (ibi 2, 2, p. 3). In considerazione della sua definizione, al segno in generale è riconosciuta un’articolazione diadica, cioè imperniata sulla vox articulata e sul significatum, mentre al segno linguistico, che è un segno dato, è riconosciuta un’articolazione di tipo triadico, vale a dire basata sulla vox articulata, sul significatum e sulla res. Ma, una volta che l’attenzione si sposta sulla parola, come avviene nel De dialectica, l’articolazione diventa di tipo tetradico. In questo nuovo contesto il segno è «ciò che manifesta se stesso al senso e qualcos’altro, oltre se stesso, alla mente»; mentre la parola è «un segno di qualunque cosa che, proferita da chi parla, possa essere capita da chi ascolta» (De dialectica, p. 5). Sotto il profilo della significazione, perciò, nella parola è possibile distinguere tre elementi: la vox articulata o l’aspetto fonetico, il dicibile, ovvero ciò che è contenuto nella mente di chi parla e che la vox articulata renderà comprensibile una volta che sia stata proferita e, infine, la res, vale a dire la cosa di cui si parla. Dal punto di vista della designazione invece è possibile distinguere due elementi: il verbum, ossia la parola che rimanda a se stessa come a proprio referente, e la dictio, cioè la parola che, oltre a se stessa, rimanda anche a qualcosa d’altro da sé. Viene così specificato il senso dell’identificazione del segno linguistico con la parola e, al tempo stesso, vengono chiariti i processi mentali che sono associati rispettivamente all’atto di proferire e all’atto di ricevere una parola in un’autentica situazione comunicativa in cui è in gioco «la conoscenza della cosa» di cui si parla

Linguaggio (De Trin., 15, 10, p. 19). Mediante il dicibile espresso dal segno è reso esplicito quello che avviene nella mente di chi ascolta. Per Agostino però le parole assolvono questa funzione non in quanto combinazioni di suoni e di significati, ma perché sono segni «del verbo che risplende all’uomo e che, più di ogni altro, merita tale nome di verbo» (ibi, 15, 11, p. 20). Il verbo interiore infatti è «il pensiero che si è formato a partire da ciò che sappiamo», ossia «in quella eterna verità, secondo la quale sono state create le cose temporali» e che noi vediamo, con lo sguardo dello spirito, «quando agiamo secondo la vera e retta ragione» (ibi, 9, 7, p. 12). Come tale, esso è «verbo che non è né greco né latino, e che non appartiene ad alcun’altra lingua» (ibi, 15, 10, p. 19) e che tuttavia funge da condizione nei confronti delle parole che il parlante usa. L’ascoltatore, d’altro canto, per poter comprendere il significato di ciò che il parlante dice, deve non solo sapere di che cosa le sue parole sono segni, ma deve anche conoscere le cose da esse designate (De mag., 10, p. 33). Le parole da lui percepite, infatti, non hanno altro valore all’infuori di quello che, «nella migliore delle ipotesi, lo sollecitano a cercare le cose, anziché offrirle alla conoscenza» (ibi, 11, p. 36), poiché, «per tutte le cose che noi possiamo comprendere, non consultiamo il linguaggio che risuona esteriormente, ma la verità che interiormente presiede allo stesso spirito, tutt’al più spinti dalle parole a consultare tale verità» (ibi, 11, p. 38). Così Agostino, pur valorizzando la genesi umana del linguaggio, lo inserisce in una prospettiva per cui tutto ciò che appartiene all’uomo non ha in lui il suo fondamento ultimo, ma in colui che rende possibile l’esistenza. Continua, perciò, la tradizione dei padri della chiesa, in particolare Tertulliano, Gerolamo, Massimo il Confessore, Massimo Damasceno e altri ancora, ma ne propone uno sviluppo del tutto originale e con implicazioni teoretiche insospettate. IV. IL LINGUAGGIO NEL PENSIERO MEDIEVALE. – Sotto l’impulso dell’istanza esegetica, anche dopo Agostino si è cercato di fare luce sulla particolare connotazione che il linguaggio assume quando è impiegato per riferirsi a Dio. Così Boezio ne individua la specificità nel suo carattere traslato; sostiene infatti che, «quando si utilizzano le categorie per predicarle di Dio, quel che può essere predicato di Dio cambia totalmente» (de Trin., 4, 8, p. 10). Più tardi gli 6481

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Linguaggio farà eco Scoto Eriugena, dicendo che «parole e categorie che convengono propriamente solo alla creatura» si applicano anche a Dio, ma in un senso diverso, perché «il linguaggio teologico è il luogo della metafora» (Peripsychon, 458 c). Ma, per ottenere le innovazioni semantiche che il testo sacro comportava, era inevitabile che fossero coinvolti gli elementi fondamentali del discorso. Si imponeva così l’esigenza di rivederne la composizione e l’organizzazione interna. Uno dei primi temi ad essere affrontato è quello dei nomi. A questo riguardo Boezio, seguendo Porfirio, ritiene che le parole acquistino il loro significato da un atto di imposizione mediante il quale l’uomo decide di usare un certo suono per nominare una determinata cosa. Distingue così una prima imposizione, mediante la quale sono stati gli aspetti del mondo fisico a ricevere il loro nome, da una seconda imposizione, mediante la quale invece sono stati i nomi a ricevere i loro nomi. A Boezio risale anche la distinzione dei nomi in singolari e generali: i primi si riferiscono direttamente alle cose, mentre gli altri escludono tale riferimento, in quanto non esistono cose corrispondenti. Per spiegare perciò il significato dei nomi generali occorreva procedere a una rifondazione del rapporto tra linguaggio e ontologia. Ma questo problema richiedeva un impiego delle parole che si discostava da quello abituale e perciò comportava la necessità di riconsiderare anche gli aspetti grammaticali del linguaggio È per questo che, a partire dal XII secolo, il progetto di realizzare un linguaggio teologico rigoroso e coerente diviene un potente stimolo a ripensare il linguaggio ordinario non solo nei suoi elementi costitutivi e nella sua struttura interna, ma anche nella sua valenza semantica. Tra i primi a farsene interprete è Anselmo di Canterbury. A suo avviso, non tutti i nomi si comportano allo stesso modo: quelli che hanno forma concreta, come ‘uomo’ che denomina una sostanza, hanno una sola significazione, quella per sé o propria; quelli invece che hanno forma astratta, ma non sono astratti, come «grammatico», «coraggioso», che denominano qualità e non sostanze, hanno un’altra significazione, oltre a quella per sé o propria, la significazione per aliud o indiretta. L’una è legata all’usus rei e presuppone un rapporto di corrispondenza tra i nomi e le cose, mentre l’altra è legata all’usus loquendi, cioè 6482

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all’impiego pratico dei nomi. Anselmo adotta l’espressione appellare come sinonimo di significare per aliud, distinguendola da significare. Con questa distinzione egli poneva le basi non solo per l’analisi del linguaggio, ma anche per una sua eventuale riformulazione, in quanto lasciava intendere che la forma logica di una proposizione non corrisponde necessariamente alla sua forma esteriore. Così, sulla sua scia, diventerà comune nel corso del XII secolo distinguere la significatio di una parola dalla sua appellatio (denotazione) o nominatio (nominazione): con l’una si intende il concetto che gli è associato, con l’altra i suoi referenti (De gramm., cap. 13). L’accostamento della significatio alla comprensione troverà un preciso riscontro anche in Guglielmo di Conches. La questione dei rapporti tra linguaggio e realtà diviene ancora più urgente non appena si fa strada l’idea che, per comprendere la dottrina trinitaria, occorre far luce sulla natura degli universali. A questo proposito, importanti anticipazioni erano già contenute nella dottrina aristotelica delle categorie e nell’approfondimento critico a cui era stata sottosposta dai neoplatonici, ma si trattava di anticipazioni orientate esclusivamente in senso logico. Abelardo è tra i primi ad avvertire l’esigenza di un mutamento di prospettiva in senso semantico e, così, nel caso dei nomi, distingue l’appellatio dalla significatio: «I nomi e i verbi hanno una doppia significazione: l’una concerne le cose, l’altra le intellezioni» (Logica ‘ingredientibus’, ed. B. Geyer, Münster i. W. 1919, pp. 307-327). Nell’uso effettivo del linguaggio, infatti, le parole denotano cose, nel senso che vengono impiegate per parlare di cose, mentre significano idee, nel senso che le producono nella mente dell’ascoltatore. E, come i nomi e i verbi, «così anche le proposizioni che sono formate da essi, ricevono da essi un duplice significato, uno riferito alle idee, l’altro alle cose. Infatti, come nomi e verbi, anche le proposizioni trattano di cose e, come quelli, generano idee sulle cose» (Dialectica, a cura di L.M. de Rijk, Assen 1956, p. 154, 20-27). Ma le proposizioni non si riferiscono direttamente alle cose: permettono di «afferrarle per mezzo della loro intelligibilità» (ibid., p. 160, 31). Altrettanto vale per le conseguenze di procedimenti logici: ciò che enunciano «è necessariamente nelle cose, ma non vi è necessariamente compreso» (ibid., p. 155, 29). Per Abelardo, del resto, significare si dice propriamente solo nel

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senso di generare un concetto e il concetto altro non è che il contenuto di un atto di intellezione espresso per mezzo del nome («ciò che il parlante intende») o generato da un nome nella mente dell’interlocutore. Questo implica che il significato ha la sua origine nel linguaggio, il quale, dal canto suo, ha una sfera sua propria. Così, i nomi universali significano delle «forme comuni» che non sono cose e neppure concetti, ma piuttosto stati di cose, che equivalgono a significati. Ma, benché non abbiano alcun rapporto diretto con la realtà, essi tuttavia sono un efficace strumento di conoscenza, perché presuppongono un legame molto stretto tra i concetti e le cose. Peraltro, secondo Abelardo, le proposizioni di cui sono parte sono vere quando «nella realtà le cose stanno così come queste le enunciano» (ibi, p. 160, 32-33). Nel XII secolo, sotto la suggestione delle anonime Glosulae in Priscianum, i logici cominciano a prestare attenzione anche alle proprietà principali dei termini, cioè delle parole, considerate però non già in se stesse, ma nel contesto delle proposizioni dove vi svolgono la funzione di soggetto o predicato, operando quindi come elementi base ai fini della loro articolazione. Senza dubbio, l’impulso verso questa direzione di ricerca è stato provocato dalla pratica della disputa dialettica, dove il soggetto logico-grammaticale di una proposizione, cioè ciò a proposito di cui si parla, è, allo stesso tempo, l’argomento della discussione e ciò per cui il discorso è vero. Predominante tuttavia tra i logici resta l’interesse per la significatio dei termini, ossia per quella proprietà in virtù della quale ciascuno di essi «stabilisce una comprensione», rendendo presente alla mente qualcosa come natura universale e implicando un rinvio agli individui denotati che partecipano di tale natura. Sotto questo profilo, i termini sono distinti in categorematici e sincategorematici, in quanto corrispondono rispettivamente a parole che hanno un significato proprio e a parole che invece lo acquistano solo quando sono unite a parole del primo tipo. In generale, la significatio, che è il correlato intelligibile di una parola, dipende da un atto di imposizione che la precede e che ne comporta l’applicazione originaria. Tuttavia, una parola impiegata con una stessa significazione, cioè una parola univoca, può significare o la stessa natura universale o individui tra loro differenti. È per questo che, nella seconda metà del XII

Linguaggio secolo, a proposito delle proprietà principali dei termini, viene riproposta la distinzione fondamentale tra appellatio e significatio, ma in un’accezione diversa da quella di Abelardo. Almeno in un primo momento, come mostra l’anonima Ars Meliduna, all’appellatio è riservata la posizione dominante. In una fase successiva, l’appellatio viene integrata con una teoria più generale che distingue l’uso significativo di un soggetto in una proposizione (per es.: un «uomo è un uomo») dai suoi usi non significativi (per es.: «un uomo è un nome»). In quest’ordine di idee, la suppositio indica la funzione che la parola, presa come suppositum, cioè come soggetto grammaticale, svolge all’interno di una proposizione nel suo stare al posto di qualcosa. In una terza fase, tutti gli usi dei termini di una proposizione vengono raccolti sotto il punto di vista generale della suppositio, che così, oltre alla funzione grammaticale, svolge anche la funzione sintattica con la relativa portata referenziale. Allora, le diverse modalità che essa assume sono riguardate come altrettante modificazioni del valore semantico che il termine assume con l’imposizione e la cui portata referenziale dipende dai contesti proposizionali di cui fa parte. Ma, mentre i logici di Oxford considerano la suppositio come una proprietà generale che i termini possiedono solo all’interno di una proposizione, invece quelli di Parigi la considerano una proprietà che i termini possiedono per se stessi, cioè al di fuori dal contesto proposizionale. In questo caso si parla di suppositio naturalis di un termine e si ritiene che possa essere applicata a tutti i suoi possibili referenti che condividono una certa essenza, indipendentemente da circostanze spazio-temporali. Così intesa, essa viene distinta dalla suppositio accidentale, che equivale all’applicazione dello stesso termine comune agli individui determinati da ciò che è aggiunto a tale termine. Per Pietro Ispano infatti, mentre il termine homo «suppone» per tutti gli individui, quelli che vivono, quelli che sono vissuti e quelli che esisteranno, non altrettanto avviene per «homo fuit» (che «suppone» solo per gli individui vissuti nel passato) e «homo erit» (che «suppone» solo per gli individui che esisteranno) (Tractatus, ed. L.M. Rijk, Utrecht-Assen 1972, p. 85, 5-10). Dal momento che la concepisce come «accezione di un sostantivo in luogo di altro», egli equipara la suppositio alla applicazione di un termine per denotare oggetti individuali. Essa esprime 6483

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Linguaggio perciò il significato effettivo di una parola nell’ambito di un contesto proposizionale. La significatio invece esprime il significato potenziale di una parola, cioè il suo significato indipendentemente dal contesto proposizionale. È per questo che «la significazione viene prima della supposizione e le due cose si distinguono in questo: la significazione pertiene alle parole, la supposizione invece al termine già composto di voce e significazione» (ibi, VI, 3). Da questa contrapposizione, nella seconda metà del secolo XIII, scaturirono violente dispute sullo stato semantico del riferimento. Questo portò, soprattutto sul continente, a un’eclisse della suppositio e a un rinnovato interesse per la significatio, soprattutto in seguito all’introduzione della teoria dei modi significandi, formulata nel quadro della cosiddetta grammatica speculativa. I capisaldi teorici di questo indirizzo di pensiero erano stati già posti da Pietro d’Elia nel secolo XII con la famosa Summa super Priscianum, ma hanno trovato pieno sviluppo nella seconda metà del secolo successivo con una serie di manuali, tra i quali le Quaestiones in Priscianum di Simone di Dacia, i Modi significandi di Boezio e di Martino di Dacia, la Summa gramatica di Giovanni di Dacia e la Gramatica generativa di Tommaso di Erfurt. Questi autori, benché si ispirassero ai testi ormai classici di Donato e di Prisciano, tuttavia, sotto l’influenza di Aristotele, se ne discostavano, perché aspiravano ad assicurare alla grammatica una rigorosa fondazione epistemologica. Si ripromettevano infatti di realizzare una grammatica speculativa, cioè capace di spiegare la natura e l’organizzazione della lingua senza fare riferimento diretto al mondo, ma piuttosto alla maniera della logica, basandosi sulla riflessione su di esso come prende forma nelle nostre descrizioni. La loro attenzione perciò è concentrata sui significati generali delle parole. In questa ottica il linguaggio, per quanto sia prodotto dall’uomo mediante atti di imposizione, tuttavia non è riguardato come un’invenzione arbitraria: le parti del discorso, che esprimono i modi significandi, rispecchiano le categorie logiche proprie del pensiero, per cui corrispondono ai modi intelligendi, i quali, a loro volta, corrispondono ai modi essendi. Anche gli oggetti non esistenti possono essere denotati dai modi significandi, che in questo caso riflettono solo il nostro modo di immaginare tali oggetti. Di qui deriva un importante corollario: il fatto che il nome si6484

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gnifica un oggetto non vuol dire che quest’ultimo sia una sostanza, ma implica semplicemente che noi lo concepiamo come un oggetto distinto, in qualche modo analogo a una sostanza. Così, un modo di significare non ha bisogno di una controparte ontologica, almeno fino a che tale rapporto può essere concepito sub modo intelligendi. Il linguaggio dunque per i modisti è una rappresentazione della realtà, ma ottenuta con la mediazione dei modi intelligendi, in quanto questi possono essere analizzati in riferimento a tutti gli individui concreti che partecipano alla natura universale da essi significata. Ciò che importava loro, del resto, è il modo in cui la realtà viene descritta e non la realtà in sé, ovvero la congruenza del discorso e non la verità. Per i modisti le forme storiche in cui il linguaggio si manifesta, cioè le singole lingue, sono differenti tra loro solo accidentalmente; esse condividono lo stesso sistema grammaticale e sono traducibili le une nelle altre. Per questo le loro ricerche erano rivolte a individuare i caratteri fondamentali della struttura grammaticale del linguaggio. Dai modi intelligendi così desunti, i modisti cercavano di dedurre, allo scopo di tradurli in termini verbali, i modi significandi e di mostrarne la perfetta corrispondenza con le forme logiche. In virtù di questa genesi, i modi significandi, secondo Tommaso di Erfurt, svolgono anche una funzione sintattica, in quanto consentono di determinare le modificazioni in base alle quali è possibile costruire le parti del discorso e di stabilire le regole che presiedono a questa operazione. Inoltre, poiché riflettono processi del pensiero, tra le parti del discorso che ne scaturiscono esiste in ordine naturale che ogni enunciato deve rispettare per avere significato. Per questo i maestri e quasi tutti gli autori di grammatiche sostengono che le parole devono essere poste negli enunciati secondo il seguente ordine: soggetto, predicato, complemento; ogni altro ordine è non naturale e quindi è contrario ai principi della logica. Per quanto siano molte le reazioni suscitate dalla dottrina dei modi significandi, tuttavia essa, in particolare nelle nuove formulazioni propostane rispettivamente da Radulfo Brito e Tommaso di Erfurt, ha continuato a dominare la descrizione grammaticale per tutto il secolo XIII. Tra i primi a prendere posizione contro i suoi presupposti teorici sono da annoverare Giovanni di Jandun e Giovanni Aurifaber. Obiettando che i modisti hanno confuso di-

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stinzioni linguistiche con distinzioni reali, fanno rilevare che non c’è nessun bisogno di entità intermedie come i modi significandi per spiegare i diversi modi in cui la parola significa. Al grammatico perciò, secondo Aurifaber, non resta altro compito che quello di determinare le regole positive dell’uso dei termini nelle diverse lingue, poiché il compito di costruire una grammatica universale spetta al logico o al metafisico. Per un punto di vista analogo si dichiara anche Ruggero Bacone, il quale però lo sviluppa inserendolo nel contesto di una teoria dei segni di chiara derivazione agostiniana. I segni vengono distinti in naturali e artificiali: a differenza dei segni naturali, che si fondano su una relazione tra segno e designato del tipo di causa-effetto o del tipo somiglianza, i segni artificiali sono stati istituiti arbitrariamente dall’uomo per significare direttamente delle cose nel mondo. Compito della parola perciò è di rinviare all’oggetto particolare di cui si sta parlando e non di comunicare il relativo concetto, che è un segno che gli uomini si formano naturalmente dalle cose per una relazione di causa-effetto. Sotto questo profilo, il linguaggio non svolge più la funzione di strumento di comunicazione di idee, ma quella di mezzo di rappresentazione della realtà, per cui rinvia, in modo vero o falso, a cose presenti ed esistenti. Bacone reagisce anche contro l’idea modista che la significazione delle parole (voces) sia immutabile, facendo rilevare che ogni attribuzione di significato può essere sempre sostituita con una nuova. Nel secolo XIV è soprattutto la dottrina tradizionale della significatio ad essere sottoposta a critica. Contro la sua pretesa che le parole significhino le cose per mezzo dei concetti, prendono posizione Sigieri di Brabante, la Scuola di Cornovaglia e G. Scoto Eriugena, sostenendo che le parole si riferiscono alle cose, sebbene non nella loro realtà, ma in quanto conosciute, poiché sono state imposte con un nome definito. Guglielmo di Sherwood, dal canto suo, individua il significato di un termine nel suo riferirsi soltanto a cose attualmente esistenti. La significatio, perciò, è denotativa nella sua essenza, anche se la sua applicazione può estendersi soltanto a individui esistenti. Pur appartenendo alla stessa temperie culturale, tuttavia Guglielmo di Ockam torna a guardare in modo preminente alla suppositio,

Linguaggio che così diventa la nozione centrale nella riflessione sul linguaggio A suo avviso, la suppositio equivale a «lo stare in un certo qual modo al posto di qualcos’altro» (Summa logicae, 1, 63). Distingue la suppositio materialis, per cui il termine sta per se stesso in quanto entità fonetica («homo est disyllabum») o grammaticale («homo est nomen»), dalla suppositio formalis, per cui il termine denota il suo significato. Relativamente a quest’ultima poi, siccome il significato può darsi in modi diversi, distingue la suppositio simplex dalla suppositio personalis, dicendo che nell’una il termine sta per il suo concetto, senza però significare alcunché di determinato, nell’altra invece sta per il suo significato, cioè per tutti gli individui di un genere o per alcuni suoi sottoinsiemi. Viene meno così la funzione di mediazione riconosciuta tradizionalmente al concetto nel rapporto tra i segni e le cose, perché ai segni è attribuita una intentio, ovvero una dimensione intuitiva per cui essi fanno vedere ciò che la cosa è. Per segno, secondo Ockam, si deve intendere tutto ciò il cui apprendimento «porta alla conoscenza di un’altra cosa, anche se non induce nella mente la prima conoscenza di questa cosa, [...] ma si limita a rendere attuale una conoscenza già presente sotto forma di abito» (ibi, p. 1, 1). I segni, quando sono naturali, sono i termini del linguaggio mentale; quando sono convenzionali, sono i termini del linguaggio verbale. I termini, a loro volta, sono quel tipo particolare di segni che sono in grado di «supporre» per gli oggetti, all’interno di una proposizione mentale o verbale, in modo immediato, cioè senza alcun bisogno di elementi concettuali intermedi. Si può parlare di un’autonomia tra i rispettivi sistemi di segni, anche se questo non esclude il primato del linguaggio mentale su quello verbale, in quanto è costituito sulla base di un rigoroso isomorfismo estensionale tra termini e oggetti, per cui è in grado di rispecchiare nella sua struttura logica quella stessa della realtà. Peraltro, il rapporto di subordinazione che tra loro esiste non va inteso come l’effetto di un nesso causale, ma semplicemente come la conseguenza del fatto che, sebbene rispondano entrambi alla funzione di supporre per alcuni oggetti, i termini del linguaggio mentale, cioè i concetti, lo fanno naturalmente, invece i termini del linguaggio verbale, cioè le parole, lo fanno convenzionalmente. Resta comunque da dire che per Ockam nessun segno linguistico può sussiste6485

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Linguaggio re in maniera significativa indipendentemente dal rapporto con altri: la sua stessa capacità suppositiva è effettiva soltanto nell’ambito di una proposizione. L’interdipendenza che ne scaturisce tra semantica e sintassi fa sì che il vero e il falso concernano, più che la proposizione, il darsi o meno della funzione di supposizione svolta dai termini che ne fanno parte e secondo l’ordine in cui sono in essa disposti. La dottrina ockamista ha incontrato notevole interesse in W. Burley, il quale, tuttavia, vi introdusse alcune innovazioni. Il rapporto di significazione si svolge tra le parole e le cose, ma le cose a cui le parole si riferiscono non sono gli oggetti nella loro esistenza individuale, bensì considerati in relazione alla loro natura comune che non sussiste separatamente, ma deve il suo essere alla capacità che ha di realizzarsi negli individui. Impegnato a trovare una giustificazione epistemologica per gli enunciati scientifici, G. Buridano la individua nella suppositio naturalis di un termine, in quanto comporta che esso sia preso per tutti gli individui concreti a cui si riferisce, tanto quelli che esistono al momento dell’enunciazione della proposizione, quanto quelli che esistevano prima o che esisteranno dopo. Tuttavia, nello sviluppo della sua riflessione, egli attribuisce alla funzione «suppositiva» dei termini una posizione subordinata rispetto a quelle svolta dalla significatio. Quest’ultima opera a due livelli: a livello mentale, a seguito dell’imposizione originaria per cui una parola significa un concetto generale; a livello linguistico, in conseguenza del fatto che una parola è impiegata per indicare una cosa mediante un concetto individuale. I termini rinviano sempre al mondo delle cose singolari e la verità o la falsità di una proposizione non mentale dipende dalla corrispondenza tra i termini che ne fanno parte, con la relativa suppositio, e le cose che esistono nella realtà. Su queste premesse, secondo Buridano, è possibile individuare in ciascuna lingua storicamente determinatasi il linguaggio comune prodotto dall’imposizione originaria, che tuttavia può essere sempre modificato mediante convenzioni stipulate all’interno della comunità di appartenenza. A partire dal secolo XII i logici si sono occupati anche del significato delle proposizioni. Il dibattito che ne seguì, almeno in un primo momento, fu orientato dalla definizione boeziana, secondo la quale «la proposizione è 6486

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un’espressione che significa ciò che è vero o ciò che è falso» (De top. diff., in PL 64, 1174 b). Ne abbiamo un riscontro nella logica di Abelardo, dove la definizione è ripresa e posta in connessione con la nozione di dictum, inteso come lo stato di cose cui la proposizione si riferisce (De dialect., cit., p. 160, 28-36). Il significato della proposizione, quindi, non riguarda le cose, ma il modo in cui esse sono connesse e può essere reso esplicito mediante espressioni impersonali come ita est, accidit, contigit, ecc. Ma per due secoli l’argomento non incontrò grande interesse; nel XIV secolo invece tornò di attualità perché, con la decisa affermazione del modello epistemologico basato sulla conoscenza dell’individuale, si poneva il problema dell’universalità delle proposizioni scientifiche. Sulla validità delle conoscenze ottenute con il metodo deduttivo non c’erano controversie; ben altra invece era la situazione per quanto concerne le conoscenze ottenute con altri metodi. Per W. Chatton i termini stanno per le cose esistenti al di fuori dell’anima; è a queste perciò che bisogna rifarsi per stabilire gli oggetti della conoscenza scientifica. Secondo W. Burley, questo vale solo per le propositiones in re, i cui termini sono i singoli oggetti, ma non per le propositiones extra animam, che sono composte di parole scelte arbitrariamente, o per le propositiones in conceptu, il cui oggetto è di natura esclusivamente intellettiva. Per R. Holkot il significato di una proposizione è la stessa proposizione, la quale è contemporaneamente oggetto e soggetto di conoscenza. Ma, poiché il complexum è conosciuto nell’atto stesso in cui è formato nella mente, non è possibile determinare in modo univoco né il significato di una proposizione né il suo valore di verità. Alla teoria abelardiana del dictum invece si ispira la teoria del complexe significabile. Preannunciata da Guglielmo di Crathorn, la dottrina fu ripresa e sviluppata da Adamo di Wodeham e Guglielmo da Rimini. Per Adamo di Wodeham il significato di proposizioni del tipo «Dio è Dio» è dato da ciò che viene denotato, cioè dall’essere di Dio, che però non è una sostanza, ma uno stato di cose che si colloca all’interno di quel particolare livello di esistenza rappresentato dal mondo dei significati, il quale si svela solo attraverso il piano linguistico della proposizione con cui però non si identifica. Anche per Guglielmo da Rimini il si-

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gnificato totale di una proposizione dà luogo a un’esistenza particolare, che non appartiene né al mondo delle cose contingenti né a quello delle proposizioni, ma rientra in un mondo di significabili ottenuto mediante proposizioni di cui si può predicare la verità o la falsità. Sulla base di tali proposizioni si fonda la validità universale degli enunciati della scienza; solo in alcuni casi, come per es. nella proposizione «Dio esiste», il complexe significabile coincide con una entità reale. In questa linea Gregorio da Rimini fu seguito da Ugolino da Orvieto: erano così poste le basi per un linguaggio teologico distinto e autonomo rispetto a ogni altro tipo di linguaggio. V. I L LINGUAGGIO NEL PENSIERO MODERNO . – 1. Dall’umanesimo all’illuminismo. – Non è dunque solo all’aspetto logico-grammaticale del linguaggio che ha guardato il Medioevo, ma anche al suo aspetto semantico. Inoltre, seppure con qualche diffidenza a causa del racconto della maledizione biblica, ha preso in considerazione anche la varietà delle lingue. A questo proposito, dominante è stata l’idea che vi sia un’unica grammatica alla base di tutte, anche se può subire mutamenti in relazione ai contesti in cui esse sono impiegate. Ma, mentre i teorici dei modi significandi ritenevano di poterla fondare sull’isomorfismo strutturale tra il pensiero e la realtà, i terministi di Oxford e, in particolare, R. Bacone la ricostruirono mediante un accurato procedimento di comparazione. Sempre nel campo del confronto tra le lingue, quest’ultimo stabilì anche i principi di un’etimologia di tipo diacronico e perciò diversa da quella di Isidoro di Siviglia, basata su radici speculative o ontologiche. Ricorrendo poi all’uso delle parole, se ne servì, alla maniera di Anselmo di Canterbury, per distinguere un’impositio accidentale dei nomi, che risponde esclusivamente al bisogno di parlare e coincide con l’atto stesso dell’’enunciazione, da una impositio espressa, cioè deliberata, che spetta soltanto a coloro che sono esperti nell’arte dell’imporre i nomi: l’una è propria del linguaggio ordinario, che perciò è soggetto a continui mutamenti; l’altra invece è propria dei linguaggi artificiali, che sono stabili e duraturi. Costante inoltre fu per tutto il Medioevo lo sforzo di trovare una giustificazione alla varietà delle lingue sullo sfondo di una loro presunta unità originaria. Emblematica è, a questo proposito, la ricostruzione della genesi dei volgari proposta da Dante Alighieri nel De

Linguaggio vulgari eloquentia: a differenza dei linguaggi grammaticali, come il latino e il greco, essi derivano dalla lingua di Adamo e sono soggetti a cambiamento. In seguito alla riscoperta delle opere di Cicerone e Quintiliano, fra il Quattrocento e il Cinquecento la retorica viene assunta nei compiti tradizionalmente riservati alla dialettica, con l’inevitabile effetto che la logica passa dal vecchio statuto di arte della dimostrazione a quello nuovo di dottrina generale dell’investigazione. Così Lorenzo Valla, oltre a criticare il metodo sillogistico per la sua pretesa di giungere a conclusioni incontrovertibili, elabora anche una teoria dell’argomentazione basata sulla suggestione delle figure retoriche, sulla forza degli esempi, sull’efficacia degli entimemi ecc. Anche Leonardo Bruni guarda al linguaggio dal punto di vista del suo impiego effettivo e ne fa una manifestazione di vita, oltre che uno strumento di crescita civile. L’esistenza di un rapporto originario tra il linguaggio e le cose però continua a costituire lo sfondo in cui si inquadra ogni ricerca sui segni linguistici e sulle loro modalità d’uso. Per ragioni di ordine politico, inoltre, aumenta l’interesse per le lingue storiche, con particolare riferimento al volgare. Non per questo mancano coloro che continuano a occuparsi del linguaggio da un punto di vista logico, proponendo, come Pietro Ramus, una sistemazione del procedimento sillogistico che comprenda, accanto a una funzione organizzativa della conoscenza, anche una funzione inventiva. A questa istanza risponde anche il tentativo, compiuto da Raimondo Lullo, di costruire una combinatoria dei concetti capace di operare sulla realtà stessa e di scoprirne la struttura interna. Nello stesso ordine di considerazioni, da parte di Pico della Mirandola, Cornelio Agrippa e Carlo Bovillo, vengono individuate suggestive procedure di mnemotecnica adatte a rafforzare la capacità di inventare e di ricordare, mediante semplici schemi operativi. Nella seconda metà del Cinquecento si sviluppa la riflessione sul metodo della scienza, ma non si affievolisce l’interesse per il linguaggio L’esplicito riconoscimento della sua natura convenzionale trova una precisa formulazione in F. Bacone. La considerazione vale in primo luogo per i segni grafici: «I sistemi di notazione [che, senza il soccorso o l’introduzione delle parole, riescono a significare le cose], sono di due tipi, l’uno dei quali è fondato sull’ana6487

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Linguaggio logia, l’altro è puramente arbitrario. Del primo tipo sono i geroglifici e i gesti, del secondo tipo sono i caratteri reali» (Della dignità e del progresso delle scienze, in Opere filosofiche, tr. it. a cura di E. De Mas, Bari 1965, II, p. 287). Ma questo vale anche per il linguaggio verbale: «Le parole si formano e si impongono secondo la comprensione del volgo» (Novum organum, in Opere filosofiche, cit., I, libro I, § 43). In questa genesi Bacone ravvisa la causa delle falsità che viziano, in generale, le operazioni sia della filosofia che della scienza. Nemmeno le definizioni possono rimediare a questo difetto, perché anche esse «sono fatte di parole, e dalle parole non vengono che parole» (ibi, I, § 59). Egli pertanto auspica le realizzazione di una «grammatica speciale, che noti con diligenza, non le analogie delle parole fra loro, ma le analogie delle parole con le cose o con la ragione» (Della dignità e del progresso delle scienze, cit., p. 288). Alla inadeguatezza delle lingue storiche perciò oppone l’ideale di una lingua come quella prospettata dalle grammatiche speculative medievali, cioè costituita di parole che sono riflesso del pensiero e quindi immagini delle cose. Non diversa è l’opinione di Cartesio circa le lingue storiche, dal momento che, nel servirsene, gli uomini collegano i concetti con le parole, per cui i loro pensieri «vertono più intorno alle parole che intorno alle cose» (I principi della filosofia, in Opere, tr. it. a cura di E. Garin, Bari 1967, vol. II, parte I, § 74). Le lingue storiche perciò non attingono le cose, però «sono sufficienti a farci concepire le cose». D’altro canto, «perché la natura non avrebbe potuto, anche essa, stabilire un certo segno capace di suscitare in noi la sensazione della luce, quantunque quel segno non abbia in sé nulla di simile a questa sensazione?» (Il mondo, tr. it. di M. Garin, Torino 1959, p. 24). Sul convincimento che esista un rapporto immediato tra il pensiero e la realtà e tra il pensiero e il linguaggio, si fonda il suo progetto di una lingua universale (cfr. Lettera a Mersenne, 20 novembre 1629). Alla medesima istanza si informa quello che Chomsky considera il testo fondamentale della teoria del linguaggio di ispirazione cartesiana, cioè la Grammatica e la logica di Port Royal, edita a Parigi nel 1660-62. I presupposti ai quali i suoi autori, A. Arnauld e P. Nicole, si richiamano vanno individuati nella corrispondenza tra pensiero e linguaggio stabilita da Aristotele nel De interpretatione, nella distinzione tra 6488

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verbo interiore e verbo esteriore proposta da Agostino, nella dottrina dei modi significandi della tradizione medievale. Nei loro confronti, però, l’influenza di Cartesio agì come stimolo alla sintesi e quindi come causa indiretta di originale ripensamento. «Il miglior mezzo per evitare la confusione delle parole che si incontrano nelle lingue comuni, scrivono Arnauld e Nicole, consiste nel formare una nuova lingua» (I, capitolo XII, tr. it., Roma 1969, p. 149). Mettendola in relazione con la logica, la grammatica consente di conoscere non solo l’uso del linguaggio, ma anche le ragioni di tale uso; inoltre, permette di stabilire un sistema di corrispondenze per cui a ogni modo di darsi dei segni verbali fa riscontro una ragione logica e viceversa. Così è possibile dar conto dei sostantivi come espressioni delle sostanze, degli aggettivi come strumenti espressivi utili per evitare le ripetizioni ecc. Dispiegandosi in consonanza con la logica, la grammatica perde ogni connotazione storica e si sottrae a qualsiasi possibilità di subire alterazioni. Per questo la Grammatica e logica di Port Royal, nel proporre di «formare una nuova lingua», sollecita a rifarsi più che alle «definizioni di nome», che connettono le parole alle idee, alle «definizioni di cosa», che invece esplicano le cose a cui le idee sono connesse. Del resto, «le definizioni di nome sono arbitrarie, mentre quelle di cose non lo sono» (ibi, p. 150). Ma se l’opera dei portoroyalisti esercita una notevole influenza in Francia, lo stesso si può dire per le idee di F. Bacone in Inghilterra. Ad esse si ispira J. Wilkins, il quale ammette l’esistenza di una lingua originaria non costruita dall’uomo, ma della quale, in polemica con J. Webster, dichiara di non sapersi spiegare l’origine. Le lingue storiche provengono da questa lingua e ne costituiscono un’imitazione. Con il passare del tempo però esse hanno subito profonde trasformazioni; per questo sono diventate equivoche e incapaci di rispondere ai bisogni imposti dal progresso della conoscenza scientifica. Come G. Dalgarno, Wilkins pertanto ne propone la sostituzione mediante una lingua artificiale, costituita di segni naturali ovvero di concetti, perché solo a questa condizione si può disporre di una giusta «enumerazione e descrizione delle cose». Th. Hobbes si discosta sostanzialmente da questa posizione. A suo avviso, il primo inventore del linguaggio è stato Dio, «il quale istruì Adamo a nominare gli esseri, che gli presenta-

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vano alla vista». Ma tale linguaggio ha concluso la sua vicenda storica con il capostipite e la sua posterità; dopo l’episodio della torre di Babele, infatti, gli uomini si sono dispersi in parecchie parti del mondo, dando luogo così alle diverse lingue storiche (cfr. Leviathan, parte prima, cap. IV, §§ 1-2). In riferimento alla sua natura Hobbes sostiene che il linguaggio è lo strumento mediante il quale gli uomini traducono «il discorso mentale in discorso verbale o la serie dei nostri pensieri in una serie di parole»(ibi, § 3). I nomi di cui si serve sono parole create dall’uomo e usate a suo arbitrio. Prima di entrare a far parte dei discorsi, essi fungono da note, in quanto richiamano alla mente le nozioni ad esse precedentemente connesse; nell’ambito dei discorsi, invece, fungono da segni, perché operano come mezzi di comunicazione di tali nozioni all’ascoltatore. Non ha perciò nessun fondamento supporre che i nomi significhino le cose: sono «segni dei concetti» e significano le cose solo per convenzione. I nomi possono essere singolari o propri e comuni o universali: gli uni sono nomi di prima intenzione, per cui concernono le nozioni relative alle cose; gli altri invece sono nomi di seconda intenzione, per cui riguardano i nomi di nozioni simili relative a più cose prese a una a una. È evidente che anche i nomi comuni o universali sono convenzionali. Infine, per quel che concerne la verità, Hobbes scrive che «le verità prime nacquero dall’arbitrio di quelli che per primi imposero i nomi alle cose o li accolsero una volta posti dagli altri. Infatti, ad esempio, è vero che l’uomo è animale, poiché si è deciso di imporre alla stessa cosa quei due nomi» (Il corpo, in Elementi di filosofia, tr. it. a cura di A. Negri, Torino 1972, III, § 8). Si può dire però che, sebbene accentui il carattere convenzionale del linguaggio, tuttavia egli concepisce la sua arbitrarietà come riguardante esclusivamente l’indifferenza dei nomi, continuando così a presupporre che il linguaggio dipenda dal pensiero. Per J. Locke tutte le parole hanno origine sensibile, anche quelle che esprimono azioni o reazioni estranee ai sensi. In quanto contrassegni sensibili delle idee, esse assolvono tale funzione non per qualche «connessione naturale che vi sia tra particolari suoni articolati e certe idee», ma «per una imposizione volontaria, mediante la quale una data parola viene assunta arbitrariamente a contrassegno di una tale idea» (Saggio sull’intelligenza umana, tr. it.

Linguaggio di C. Pelizzi [rivisitata da G. Farina], Roma-Bari 1994, III, 2, p. 1). Le parole rispondono principalmente a due funzioni: una di tipo conoscitivo e una di tipo comunicativo. Gli uomini infatti se ne servono o per registrare i loro pensieri perché possano ricordarli più facilmente o per renderli accessibili anche agli altri. In questo secondo caso le parole vengono usate presupponendo che siano segni di idee presenti tanto nella mente di colui che parla quanto nella mente di colui che ascolta. In corrispondenza con la tradizione cartesiana, Locke sottolinea che un genuino linguaggio non può contenere soltanto parole singolari: abbiamo bisogno di termini che stanno per più cose, altrimenti dovremmo imparare troppe parole. È per questo che «la maggior parte delle parole che costituiscono tutte le lingue sono termini generali» (III, 3, p. 1), il cui significato è nel loro riferirsi a idee generali. Ma l’essere generali per le idee non dipende dall’«esistenza generale delle cose», bensì dal fatto che «sono invenzioni e creature dell’intelletto, fatte da esso, per il suo uso, e riguardano soltanto dei segni» (III, 3, p. 11). Il significato dei termini generali perciò consiste nel «rapporto che, dalla mente dell’uomo, viene loro aggiunto» (ibid.). Non diversamente avviene per gli altri tipi di idee e per i relativi termini: solo le idee semplici infatti derivano dalle impressioni che gli oggetti producono sugli uomini, mentre le altre presuppongono tutte l’uso del linguaggio. Ma, nonostante questa loro origine dalle idee, le parole possono essere sempre usate male, a causa delle «molte negligenze volontarie di cui gli uomini si rendono colpevoli» nel loro modo di comunicare (III, 10, p. 1). Nonostante questa diffidenza nei confronti delle lingue storiche, tuttavia Locke, diversamente dai suoi predecessori, dichiara impossibile sottoporle a revisione. Per D. Hume «il discorso, le parole e il linguaggio vengono fissati dalla convenzione e da un accordo stipulato fra gli uomini» (Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale, tr. it. di R. Gilardi, Milano 1980, p. 514). Per questa loro natura le parole si riferiscono sempre a idee particolari. Talora esse sono usate anche in relazione a idee generali; questo però avviene non perché tale sia la loro funzione, ma per un motivo psicologico. Ciascuna parola infatti, insieme a un’idea particolare, richiama anche una certa «abitudine» dalla quale scaturiscono altre idee particolari, secondo le circostan6489

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Linguaggio ze. Di qui scaturiscono le idee astratte e i termini generali, che per se stessi sono individuali, ma che diventano generali per ciò che rappresentano. Argomentando contro Locke, G. Berkeley sostiene che il linguaggio non esplica soltanto la funzione di rendere possibile la comunicazione delle idee, ma risponde anche ad altri scopi, come quello di suscitare sentimenti, quello di incitare all’azione ecc. (Trattato sui principi della conoscenza umana, tr. it. di M.M.Rossi, Roma-Bari 1981, § 20). E poiché spesso esplica tali funzioni senza l’intervento delle idee, questo vuol dire che, se non si fosse presupposto che esso è costituito di termini generali, non si sarebbe neppure pensato all’astrazione e alle idee generali come suo fondamento. La loro origine infatti va ricercata nel linguaggio (ibid., § 10). Lo studio della natura ricopre un ruolo fondamentale per comprenderne la grammatica e per rendersi conto della sua origine divina. I fenomeni naturali, del resto, non hanno la loro causa in se stessi, ma in Dio. «Senza il desiderio di farsi intendere, sostiene G.W. Leibniz, non avremmo mai formato il linguaggio» (Nuovi saggi sull’intelletto umano, in Scritti filosofici, tr. it.a cura di D.O.Bianca, Torino 1968, vol. II, p. 402). L’uomo se ne serve anche per «ragionare con se stesso» (ibi, p. 403). Comunque è solo la corrispondenza con la realtà che assicura al linguaggio la possibilità di fungere da strumento di conoscenza e di comunicazione. I significati delle parole «non sono affatto determinati da una necessità naturale», ma sono il prodotto di un atto di volontà. L’arbitrarietà tuttavia riguarda solo le parole e non già le idee, perché queste non dipendono dalla scelta dell’uomo né per la loro origine né per il modo in cui sono organizzate nella conoscenza. Anche la generalità che caratterizza alcune di esse «consiste nella somiglianza delle cose particolari fra loro, e questa somiglianza è una realtà» (ibi, p. 420). Convinto dunque che le idee siano nate da «un qualche impulso naturale degli uomini, che adattavano i suoni alle affezioni e ai moti dell’animo», Leibniz sostiene che la prima lingua, quella di Adamo, abbia avuto nell’onomatopea la sua caratteristica principale. Tutto ciò si spiega con il principio di ragion sufficiente, secondo il quale la mera accidentalità non è ammessa né in semantica né in fisica. Sul presupposto che vi sia «una qualche proporzione fra caratteri e cose», inoltre Leibniz non esita ad 6490

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ammettere che sia possibile costruire un alfabeto dei pensieri umani tale per cui, indipendentemente dai caratteri che usiamo, il risultato sia sempre identico o equivalente (Scritti di logica, tr. it. a cura di F. Barone, Bologna 1968, pp. 214-215). Così, integrando la lingua universale con il calcolo combinatorio, mediante gli strumenti dell’algebra e la simbolizzazione della logica, vengono poste le basi per una mathesis universalis, cioè per un sistema si simboli arbitrari, ma capaci di denotare, nella loro articolazione interna, la struttura della realtà. Tra il Seicento e il Settecento la tesi dell’origine divina del linguaggio sopravvive con G.B. Vico. «Dimostrato le prime nazioni gentili tutte essere state mutole ne’ loro incominciamenti, dovettero spiegarsi per atti o corpi che avessero naturali rapporti alle loro idee» (Scienza nuova seconda, ed. Nicolini, Bari 1953, § 434). Sul piano della scrittura, a questa «favella naturale», che è propria dell’età degli dèi, corrispondono i geroglifici. La lingua successiva, che si è sviluppata nell’età degli eroi, è una lingua simbolica basata su «somiglianze, comparazioni, immagini, metafore e naturali descrizioni» (ibi, § 32): gli uomini l’hanno usata per «assicurarsi de’ confini de’ lor poderi e avere perpetue testimonianze de’ loro diritti» (ibi, § 434). Con l’inizio dell’età degli uomini è stata introdotta la lingua epistolare o volgare «per comunicare i lontani tra loro i presenti bisogni della vita» (ibi, § 432). La lingua volgare è di natura convenzionale: ne esistono tanti tipi quanti sono i popoli della terra, perché ciascuno si è costruita la propria lingua «con naturalezza e proprietà». E, «come certamente i popoli per la diversità de’ climi han sortito varie diverse nature onde sono usciti tanti costumi diversi, così dalle loro diverse nature e costumi sono nate altrettanto diverse lingue» (ibi, § 435). Con ciò Vico non intende concludere che le lingue volgari siano interamente arbitrarie, perché la convenzionalità riguarda i segni che ne fanno parte, ma non i loro significati. D’altro canto, oltre le lingue storicamente identificabili, esiste «una lingua mentale comune a tutte le nazioni, la quale uniformemente intende la sostanza delle cose agibili nell’umana vita socievole» (ibi, § 142). Considerando il linguaggio come connesso tanto alla conoscenza quanto allo sviluppo della civiltà, anche gli illuministi sono tornati a occuparsi della sua origine. Sopravviveva an-

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cora la convinzione che fosse esistito un linguaggio primitivo antecedente alla confusione della Torre di Babele: echi di questa ipotesi si possono rinvenire nella voce sul linguaggio dell’Encyclopedie e nell’Historie naturelle de la parole di A. Court de Gébelin. Ma un mutamento radicale avvenne a partire dal 1746, quando fu pubblicato l’Essai sur l’origine des connaissances humaines di E.B. de Condillac, dove si sostiene che il linguaggio si sarebbe sviluppato a partire da alcuni elementi che «sono nati con l’uomo, e questi elementi sono gli organi che l’autore della nostra natura ci ha dato. Così c’è un linguaggio innato, sebbene non ci siano le idee che lo siano» (La logica, ossia i primi sviluppi dell’arte di pensare, in Opere, tr. it. di G. Viano, Torino 1996, p. 730). In analogia con quanto aveva anticipato B. Mandeville in The Fable of the Bees, Condillac fa consistere la prima forma di espressione degli uomini in un linguaggio sintomatico che però ben presto si è trasformato in un «linguaggio d’azione», cioè basato sull’istinto e costituito prevalentemente di «contorsioni e agitazioni violente» (Saggio sull’origine delle conoscenze umane, in Opere, cit., II, I, § 5, p. 211). Tale linguaggio, che l’uomo condivide con gli animali, esprime bisogni, manifesta necessità, ma non esplica nessuna funzione designativa. Solo dopo aver acquisito «l’abitudine di legare certe idee a certi segni arbitrari», liberando così l’immaginazione e la memoria del condizionamento dell’esperienza sensibile, gli uomini hanno dato vita al linguaggio verbale. Mediante la riflessione e le relative convenzioni suggerite anche dai rapporti sociali, essi sono gradualmente passati al linguaggio dei suoni articolati, senza abbandonare però il «linguaggio d’azione», che è restato in uso, accanto ad esso, principalmente «per istruire il popolo sulle cose che lo interessavano di più, cioè la disciplina e la religione» (ibi, II, I, § 10, p. 213). Anche per P.L. Moureau de Maupertius la causa principale dell’origine del linguaggio risale ai «bisogni più pressanti» dell’uomo e all’esigenza di esprimerli. La sua prima forma, di limitate capacità semantiche, ha subito una profonda trasformazione quando, alle grida e ai gesti naturali, hanno aggiunto grida e gesti convenzionali, che hanno supplito alle loro carenze espressive. A differenza di Condillac, che lo fa consistere in atteggiamenti rudimentali che imitano gli oggetti, per R.J. Turgot il linguaggio delle origi-

Linguaggio ni non ha alcun rapporto necessario con ciò che esprime. Il legame che vi intercorre è «l’effetto di un’abitudine» che l’uomo contrae nell’infanzia a forza di veder ripetere gli stessi gesti in circostanze più o meno simili. Anche J.J. Rousseau condivide la tesi che il linguaggio sia nato per rispondere ai bisogni umani: non sono però i bisogni fisici ad aver stimolato le prime parole, ma le passioni (Saggio sull’origine delle lingue, tr. it.a cura di P. Bora, Torino 1989, capitolo 3, p. 19). Identifica così il primo linguaggio dell’uomo con il «grido naturale», poiché ritiene che in lui si manifesti prima ancora di entrare in rapporto con gli altri. Tale linguaggio consiste in un insieme di suoni inarticolati che mirano a creare immagini piuttosto che idee o concetti. Per gli illuministi francesi, però, la convivenza sociale è la condizione per la nascita del linguaggio verbale; lo attesta, oltre a Ch. Brosses e J. Le Rond D’Alembert, N. Tetens che scrive: «Non appena riuniti in una società che aveva un’intima coesione, propagava la specie e allevava i bambini, era del tutto naturale che gli uomini adoperassero anche la voce per manifestare agli altri le proprie sensazioni e brame» (Über den Ursprung der Sprachen und Schrift, Berlin 1966, p. 20). Era inoltre opinione corrente tra loro, con la solo eccezione di Rousseau, che le lingue storiche, una volta formatesi, progredissero di pari passo con il progredire dei popoli. Dalla lingua di un popolo, perciò, secondo Court de Gébelin, «è possibile farsi un’immagine del popolo stesso ancor più esatta di quella che si può ottenere dai suoi momenti storici. Si seguono senza difficoltà i progressi delle scienze e delle arti e l’itinerario che hanno compiuto» (Monde primitif analisé et comparé avec le monde moderne, Paris 1787, I, p. 73). La lingua, infatti, fa rilevare Turgot, «non è soltanto un mezzo per comunicare nuove idee, ma anche depositaria della storia del progresso di un popolo» (Réflexions sur les langues, in Oeuvres, ed. G. Scheele, Paris 1913, I, p. 351); essa inoltre, secondo Condillac, è a fondamento della scienza, perché «una scienza ben trattata non è che una lingua ben fatta» (Oeuvres, éd. Howzel, Paris 1913, XXIII, p. 7). Lo sviluppo delle lingue però, secondo A.N.C. de Condorcet, non è continuo e uniforme: nei primi anni di vita esse in generale hanno compiuto progressi considerevoli, poi hanno subito un forte rallentamento, fino a raggiungere una consistente stabilità. A seguito degli 6491

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Linguaggio scambi fra i popoli, le lingue, nel corso della loro storia, sono esposte al rischio di vedere compromessa la loro originaria purezza e quindi di degenerare. Esse perciò, solo in quanto si rinnovano di continuo, possono costituire uno strumento per il progresso della civiltà. Ciascuna lingua ha un’organizzazione sua propria, un modo di significare che la contraddistingue rispetto a ogni altra. Tale caratteristica riflette l’insieme dei costumi e delle abitudini culturali proprie del popolo che la parla. Questo complesso di «idee principali», come le chiama Condillac, costituiscono il cosiddetto «genio della lingua». Alla sua formazione contribuiscono, oltre le componenti sociali, quelle culturali: sono soprattutto gli scrittori che fanno assumere alle singole lingue la loro fisionomia particolare, ponendole in condizione di influire sull’intero tessuto connettivo dei rapporti umani. Sul «genio della lingua» richiama l’attenzione, oltre a F. Algarotti, anche M. Cesarotti, il quale afferma che è «il risultato del genio particolare di tutte le sue parti, ossia la somma dei caratteri che l’uso della nazione impresse a ciascuna di esse e nel loro scambievole rapporto». Specifica inoltre che il «genio della lingua» comprende un aspetto grammaticale e uno retorico: quello grammaticale corrisponde all’aspetto immutabile, perché è connesso alla natura intrinseca degli elementi della lingua; quello retorico invece equivale all’aspetto meno stabile, perché è legato alle circostanze e agli usi concreti della lingua. Le conseguenze ultime dei presupposti lockiani circa la riflessione sul linguaggio sono tratte dagli ideologi, in particolare da P.J.G. Cabanis. Identificando la vita dello spirito con la sua espressione linguistica, egli riduce l’attività del pensiero all’esercizio della parola. L’ideologia pertanto fa tutt’uno con la grammatica generale e l’analisi delle facoltà, che ancora sopravvive in Condillac, cede il passo all’analisi dei termini. Contro questi esiti reagisce piuttosto energicamente F.-P.G. Maine de Biran. Relativamente all’origine del linguaggio, fa osservare che i suoni naturali diventano segni solo in virtù di un atto volontario dell’uomo, il quale non si limita a ripeterli, ma li crea di nuovo. Il linguaggio è infatti proprio dell’uomo, che non lo subisce, ma lo costituisce consapevolmente; del resto, «la creazione dei segni, il legame stabilito fra essi e le idee, presuppongono una fa6492

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coltà superiore dalla quale dipendono, come l’effetto dipende dalla causa che lo produce» (Notes sur l’influence des signes, in Oeuvres, Paris 1920, vol. I, p. 280). 2. L’età romantica. – Nella stessa direzione, però in maniera del tutto autonoma e indipendente, si sviluppa la reazione del romanticismo nei confronti dell’illuminismo. Le prime anticipazioni si possono cogliere in I. Kant, nonostante che le sue considerazioni sul linguaggio siano piuttosto scarne. Nel § 59 della Critica del giudizio esclude che i segni verbali siano «designazioni dei concetti per mezzo di segni sensibili concomitanti»; fungono piuttosto «da mezzi di riproduzione, secondo la legge dell’assunzione immaginativa». Come tali, perciò, essi sono arbitrari ma, al tempo stesso, sono necessari. La loro possibilità di significare dipende dai concetti puri dell’intelletto o, più esattamente, dagli schemi di tali concetti prodotti dall’immaginazione trascendentale per connettere l’appercezione delle categorie alle intuizioni sensibili (cfr. KrV, parte II: Analytik der Begriffe, I, cap. 1). In tal modo Kant ristabilisce la priorità del pensiero nei confronti del linguaggio allontanandosi dalla tradizione lockiana e ponendo le basi per la filosofia romantica del linguaggio. J.G. Hamann però gli rimprovera di attribuire al linguaggio un ruolo puramente passivo; esso invece, in quanto unico organo della ragione, esplica un ruolo attivo nei confronti delle forme logiche. In una lettera del 23 ottobre 1795, indirizzata a Jacobi, sostiene che la lingua è «madre della ragione e della rivelazione, ne è l’alfa e l’omega. È la spada a doppio taglio d’ogni verità e menzogna». È perciò condizione di intelligibilità del reale. Data questa natura,il linguaggio non proviene dall’uomo, ma da Dio: è un effetto della sua opera creatrice. «Ogni fenomeno della natura era una parola [...] Tutto ciò che in principio l’uomo vide, vide con gli occhi, guardò e toccò con le sue mani, era una parola vivente, perché Dio era il verbo. Con questa parola sulla bocca e nel cuore, l’origine della lingua fu così naturale, così immediata e facile come un gioco da bambini» (Schriften zur Sprache, a cura di J. Simon, Frankfurt am Main 1967, p. 144). Le singole lingue storiche sono versioni derivate e impoverite della lingua primigenia, la lingua di Adamo. Per J.G. Herder, come per Hamann, la passività attribuita da Kant al linguaggio nei confronti

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del pensiero è una conseguenza del dualismo, da lui presupposto, tra senso e intelletto. Se il problema invece è riguardato alla luce della concreta esperienza umana, allora risulta evidente che non solo senso e intelletto ma anche linguaggio e pensiero convergono: «Pensare è parlare interiormente, cioè articolare per se stessi i segni appresi; parlare significa pensare a voce alta» (Verstand und Erfahrung, in Sämmtliche Werke, Hildesheim 1967-68, vol. XXI, p. 88). Circa l’origine del linguaggio per Herder è insostenibile sia la tesi naturalistica che quella convenzionalistica. Di certo, esso ha il suo primo impulso in «una oscura capacità sensitiva» che porta gli animali della stessa specie «ad intendersi reciprocamente sulla loro finalità nell’ambito del loro operare» (Saggio sull’origine del linguaggio, tr. it. di G. Necco, Roma 1954, p. 24); ma, per diventare linguaggio umano, richiede l’intervento della ragione: allora infatti ha inizio la riflessione che è «la parola dell’anima» e il linguaggio umano «è inventato [...] con la stessa forza, con la stessa naturalezza e umana necessità per cui l’uomo è uomo» (ibi, p. 37). L’anima, da parte sua, realizza l’accordo con se stessa, «un accordo necessario come è necessario che l’uomo sia uomo» (ibi, p. 39). La ragione costituisce il carattere distintivo interiore della specie umana, il linguaggio il carattere distintivo esteriore. Il suo differenziarsi in molteplici lingue diverse tra loro non è che l’effetto del sedimentarsi del pensiero individuale e del suo trasformarsi in patrimonio collettivo. A loro volta, le lingue condizionano tanto il pensiero in senso proprio, quanto l’intera visione del mondo di chi le parla. Il linguaggio perciò consente all’uomo di realizzare la propria identità di essere razionale e il proprio destino di essere sociale. Anche J.G. Fichte fa risalire l’origine del linguaggio all’essenza dell’uomo, però non la colloca nella ragione, ma nella libera volontà. L’imperativo etico a cui è chiamato a conformarsi, richiede, da parte sua, di essere sempre in consonanza con se stesso. Se si imbatte in un altro che persegue lo stesso fine, l’uomo non tenta di assoggettarlo, ma si dispone a condividere con lui le intenzioni comuni. Di qui, secondo Fichte, nasce l’esigenza del linguaggio: «È di conseguenza nell’inclinazione insita nella natura dell’uomo a rinvenire una ragionevolezza fuori di sé che riposa in particolare l’inclinazione a realizzare una lingua, e

Linguaggio la necessità di soddisfarla si pone allorché esseri ragionevoli entrano in rapporto» (Von der Sprachfähigkeit und dem Ursprung der Sprache, in Werke, Stuttgart-Bad Constatt 1966, vol. III, p. 103). L’identità tra ragione e linguaggio, sostenuta da Hamann e Herder, trova una sua giustificazione critica da parte di F.H. Jacobi, F. Schlegel e F.W.J. Schelling, i quali ne individuano il fondamento nella capacità creativa dello spirito. Per quanto riguarda l’origine del linguaggio, secondo Schlegel, deve essere fatta risalire al dono della parola che l’uomo ha ricevuto da Dio. In tal modo egli è divenuto sovrano della natura e capace di chiamare ogni cosa con il nome che la sua essenza richiede. Le singole lingue poi sono state prodotte dall’uomo, però non mediante una giustapposizione di elementi, ma come un tutto organico e unitario, in conformità a un disegno prestabilito. Spetta comunque soprattutto a Schelling il merito di avere definito i presupposti teoretici della concezione del linguaggio che caratterizza il romanticismo. Il mondo, sostiene nella Philosophie der Kunst, procede da Dio: ne è l’affermazione e la rivelazione. Come Dio «è la parola vivente», così il mondo è «la parola parlata», «la parola pietrificata». Tra le realtà che rimandano a Dio, il linguaggio è la più adeguata: in quanto simbolo dell’assoluto, esso è il simbolo dell’identità di tutte le cose. Al suo interno ogni elemento rinvia alla totalità di cui è parte. Ma le lingue, benché costituiscano ciascuna per sé una totalità, rimandano tutte al linguaggio come loro fondamento e giustificazione comune. Schelling tuttavia non dà conto della genesi delle lingue storiche e della loro progressiva differenziazione. È su questo aspetto invece che si appunta l’attenzione di K.W. von Humboldt, nell’intento di conciliare le due istanze. In quanto è «uno degli aspetti nei quali l’universale forza spirituale dell’uomo si attua in un’operosità permanentemente attiva», il linguaggio è della stessa natura dello Spirito (Gesammelte Schriften, Berlin 1903-36, vol. II, I, p. 20). Come tale, «deve essere considerato non tanto come un morto prodotto, quanto piuttosto come una produzione», non come un’opera (érgon), ma come un’attività (enérgeia). E dall’attività produttiva che gli è propria scaturisce «un repertorio di parole e un sistema di regole che, nel corso dei millenni, assurge a potenza autonoma» (ibi, 63), configurandosi 6493

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Linguaggio come lingua. Per questo Humboldt può dire che la lingua possiede la sua determinazione ultima nella «vera originaria natura» dell’uomo. Il linguaggio media il rapporto tra l’uomo e il mondo e opera in modo da far sì che tra loro si instauri un’azione reciproca. Così, attraverso il linguaggio, l’uomo costruisce e modella il mondo esteriore, facendone il proprio mondo; inoltre, forma se stesso, sviluppando il collegamento tra la propria spontaneità e la propria ricettività. Nell’espletare questa funzione, il linguaggio comporta per l’uomo anche una «visione del mondo», la quale si modifica in stretta connessione con il cambiamento che esso subisce. Così la differenza tra le varie lingue storiche «non è differenza di segni e di suoni, ma differenza della stessa visione del mondo» (ibi, vol. IV, p. 28). Tra di esse pertanto non c’è nessuna identità; tuttavia, dal momento che esprimono ciascuna una visione del mondo, possono e debbono confrontarsi l’una con l’altra. Secondo Humboldt, la relazione costituisce il nucleo interno del linguaggio, poiché nella sua essenza originaria esso è caratterizzato da «una costante dualità» (ibi, vol. VI, p. 26). Col suo ausilio perciò l’uomo può unirsi agli altri uomini e vivere così l’esperienza che gli consente di appropriarsi della propria identità. Ma, se nell’esperienza del linguaggio egli si realizza come uomo, in quella della lingua si concretizza come membro di una comunità nazionale. Esiste infatti uno stretto legame tra la lingua e la nazione, perché quest’ultima non è che «una forma spirituale dell’umanità caratterizzata da una determinata lingua e individualizzata in relazione a una totalità ideale» (ibi, VI, p. 125). Per il rapporto che sussiste tra linguaggio e lingua, da un lato, e tra individuo e comunità nazionale, dall’altro, si può dire che in Humboldt l’individuo è creatore del linguaggio, ma entro la realtà in divenire della lingua. VI. IL LINGUAGGIO NEL PENSIERO CONTEMPORANEO. – 1. Il linguaggio tra linguistica e sociologia. – Oltre a favorire il recupero e la valorizzazione delle lingue storiche, l’intuizione humboldtiana secondo cui, attraverso l’accertamento filologico condotto con criteri comparativi, è possibile ricostruire la storia della «forma interna» di ciascuna lingua e del popolo che l’ha espressa, ha influito in modo determinante anche sulle ricerche successive sul linguaggio Nel dar vita a tali ricerche, però, la generazione dei linguisti che si è sviluppata nella seconda metà 6494

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dell’Ottocento ha concepito il linguaggio come inserito nell’ordine dell’accadere naturale. Le lingue così sono state identificate con entità soggette a leggi rigidamente meccaniche e i loro mutamenti sono stati posti in stretta corrispondenza con i rispettivi contesti socio-culturali. Così facendo però i linguisti non hanno fornito risposte adeguate circa la natura del linguaggio; del resto, più che a tale questione, essi guardano alle lingue storiche. Ne dà conferma F. de Saussure, col quale vengono poste le basi per una linguistica come scienza della lingua autonoma tanto dal linguaggio quanto dal pensiero. Il linguaggio è da lui equiparato all’«organizzazione pronta per parlare» (Introduzione al II corso di linguistica generale, tr. it. a cura di R. Simone, Roma 1971, p. 31). Come tale, esso perciò è potenzialità che trova nella lingua la sua attualità. La lingua, dal canto suo, rappresenta «al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio e un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui» (Corso si linguistica generale, tr. it. a cura di T. De Mauro, Bari 1968, p. 19). Essa quindi, mentre per la collettività è «interna», per i singoli individui invece è «esterna», per cui questi ultimi, presi singolarmente, non possono né crearla né modificarla. Alla lingua Saussure oppone la parole, nella quale, a differenza della lingua, non v’è nulla di collettivo: le forme concrete in cui si dispiega sono individuali e legate a circostanze ben determinate. La parole rappresenta l’uso che di fatto un parlante qualsiasi fa della lingua. Vi è comunque «interdipendenza tra la lingua e la parole: la prima è nello stesso tempo lo strumento e il prodotto della seconda» (ibi, p. 37). In generale, all’osservatore i segni di una lingua appaiono stabili; di fatto invece essi mutano in conseguenza dell’uso. Si prestano pertanto ad essere studiati in due maniere distinte: da un punto di vista sincronico e da un punto di vista diacronico. Secondo Saussure, la linguistica riconosce validità a entrambi i punti di vista, però preferisce quello sincronico perché consente di cogliere i rapporti interni tra gli elementi del sistema dei segni, cioè l’aspetto intelligibile e quindi oggettivo. Il risultato non è cambiato a proposito della natura del linguaggio neppure quando i linguisti hanno associato i loro studi a quelli dei sociologi. Ne sono scaturite infatti ricerche rivol-

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te a spiegare su basi psicologiche i fenomeni di mutamento semantico o a individuare le precondizioni psichiche del funzionamento delle lingue. Anche E. Sapir, che pure intende dar conto della natura del linguaggio, finisce con l’occuparsi esclusivamente delle lingue. La lingua, egli scrive, è «il prodotto lentamente venuto alla luce di una tecnica o tendenza che può essere chiamata tendenza simbolica e che consiste nel considerare una certa parte del tutto, piuttosto insignificante e incompleta, come un segno di questo tutto» (Selected Writings in Language, Culture a. Personality, ed. D. Mandelbaum, Berkeley - Los Angeles 1951, p. 14). Esclude tuttavia che le lingue siano il riflesso dello sviluppo spontaneo di potenzialità umane naturali, anche perché non sono i singoli individui a crearle, ma essi, nascendo, le trovano già costruite e si limitano così solo ad apprenderle: «Il linguaggio è l’eredità puramente storica di un dato gruppo, il risultato di un suo uso sociale continuato» (ibi, p. 162). La posizione di Sapir ha incontrato grande favore presso i linguisti americani, sfociando in una concezione prevalentemente deterministica dell’origine del linguaggio B.L. Whorf, che ne è uno dei maggiori rappresentati, nega infatti l’esistenza di qualsiasi forma primigenia di linguaggio, riconducendone l’origine interamente al contesto sociale. Il pensiero stesso è fatto dipendere da tale contesto; egli infatti sostiene che, in ciascuna lingua, la struttura grammaticale «non è soltanto uno strumento di riproduzione per esprimere idee, ma essa stessa dà forma alle idee, è il programma e la guida dell’attività mentale dell’individuo, dell’analisi delle sue impressioni, delle sintesi degli oggetti mentali di cui si occupa» (Linguaggio, pensiero e realtà, tr. it. di F. Ciafalone, Torino 1970, p. 149). 2. La riscoperta della centralità del linguaggio. – Tuttavia, già dalla fine del XIX secolo i filosofi sono tornati a riflettere sull’essenza del linguaggio più che sull’origine e la struttura delle lingue storiche. Così, A. Marty gli rivendica una natura finalizzata alla comunicazione e irriducibile a qualsiasi modello predeterminato. K. Vossler, dal canto suo, fa del linguaggio l’espressione della capacità creativa dello spirito, anziché un effetto dell’evoluzione storicosociale. Nello stesso ordine di idee, B. Croce riconosce al linguaggio una posizione di preminenza, sotto il profilo teorico, in virtù

Linguaggio dell’attenzione che riserva al problema del significato delle frasi. Esclude infatti che quest’ultimo dipenda dal significato dei vocaboli che le costituiscono, poiché le frasi equivalgono a unità organiche, costituite ciascuna di forma e contenuto, connessi in modo inscindibile. Identificando il linguaggio con l’attività ideativa dello spirito, G. Gentile sostiene che «la parola non può essere segno né di cosa né di momenti spirituali»; essa è piuttosto idea, perché «l’idea e la parola non sono due termini da accoppiare, bensì una cosa sola, o meglio un atto solo» (Sommario di pedagogia come scienza filosofica, Firenze 19545, I, pp. 59-60). Contemporaneamente alla rivendicazione della necessità di estendere la riflessione sull’aspetto semantico del linguaggio, agli inizi del Novecento si assiste anche alla ripresa della tesi della sua identità con il pensiero e quindi alla riscoperta della sua funzione simbolica. Questa posizione viene sviluppata ponendo l’accento, da un lato, sul rapporto dell’uomo con il fatto linguistico e, dall’altro, sul valore conoscitivo del linguaggio nei confronti della realtà. Dei due orientamenti speculativi, che si richiamano a Kant e a Humboldt, si fanno interpreti rispettivamente E. Cassirer e E. Husserl. Secondo Cassirer, «la principale caratteristica dell’uomo, ciò che lo distingue, non è la sua natura fisica o metafisica, bensì la sua opera. È quest’opera, è il sistema delle attività umane a definire e a determinare la sfera dell’umanità» (Saggio sull’uomo, tr. it. a cura di L. Pavolini, Roma 1968, p. 44). Ora, il linguaggio è una di tali attività, che opera come forma o legge. Lo spirito perciò, con la sua mediazione, procede ad articolare e strutturare la realtà. Il linguaggio, dal canto suo, nel rispondere a questa funzione si dispiega come un’unità organica, «nel senso che non consiste di fatti staccati, isolati e separati, ma forma un tutto coerente in cui ogni parte è interdipendente rispetto alle altre» (Lo strutturalismo e la linguistica moderna, tr. it. a cura di S. Veca, Napoli 1970, p. 27). Per coglierne l’essenza, pertanto, non ci si può limitare a farne la componente di un’antropologia alla cui costruzione contribuiscono insieme l’arte, il mito e la scienza, ma occorre metterne in luce la natura di forma spirituale autonoma. Per questo «ogni studio del linguaggio deve essere condotto ‘geneticamente’», cioè «nel senso che riconosca la struttura già compiuta del linguag6495

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Linguaggio gio come qualcosa di derivato e di mediato, struttura che viene compresa solo quando riusciamo a ricostruirla partendo dai suoi fattori e a determinare la natura e la direzione di questi fattori» (Filosofia delle forme simboliche, I. Il linguaggio, tr. it. di E. Arnaud, Firenze 1961, p. 121). Mediante tale ricostruzione, peraltro, è possibile rendersi conto che ogni lingua in cui il linguaggio si esprime realizza in sé «un carattere di significazione»; ciascuna però lo fa con modalità proprie, per cui le differenze tra le diverse lingue storiche, più che dai suoni e dai segni, dipende dalle diverse «visioni del mondo» che esprimono individualmente. Reagendo contro il naturalismo, perché rimanda di continuo «alle ricerche aprioristiche», Husserl dichiara di voler prendere le difese della vecchia teoria della grammaire générale et raisonnée, cioè della grammatica filosofica per ciò che «in essa, per quanto secondo un’intenzione oscura e immatura, tendeva alla ‘razionalità’ in senso autentico, e in particolare alla logicità della lingua, all’apriori della forma di significato» (Ricerche logiche, tr. it. di G. Piana, Milano 1968, vol. II, p. 126). Ogni linguista, d’altro canto, suppone abitualmente che nella sfera grammaticale, accanto a una «sfera empirica», esista una «sfera pura», cioè «la forma ideale della lingua». Nel ricostruire una lingua storica infatti, oltre a metterne in luce l’aspetto fonetico, quello sintattico e quello semantico, egli si interroga sul suo fondamento, nell’intento di trovare le condizioni che la rendono possibile. Tali condizioni non sono altro che gli atti che conferiscono il significato e gli atti che riempiono il significato, ovvero gli atti intenzionali in virtù dei quali un’espressione «intende qualcosa riferendosi nello stesso tempo a un’oggettualità» (ibi, p. 301). Del resto, ogni espressione «non vuole dire soltanto qualcosa, ma dice anche su qualcosa; oltre ad avere un significato si riferisce anche a oggetti di genere qualsiasi» (ibi, I, p. 313). Per questo Husserl sostiene che esiste una «grammatica pura», universale e necessaria, le cui leggi, in quanto sono «leggi a priori del significato che fanno astrazione dalla validità obbiettiva [...] del significato» (ibi, II, pp. 87-88), sono fisse e invariabili rispetto alle leggi particolari che regolano le lingue storiche. Non manca però anche chi, come K. Bühler, prende posizione contro questa riduzione dell’essenza del linguaggio all’attività propria del pensiero. Egli obietta che, oltre alla capa6496

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cità di rappresentazione, il linguaggio, in quanto «mediatore strutturato» finalizzato allo scambio segnico, ha due capacità, quella di espressione e quella di appello. Tali funzioni sono entrambe operanti nell’atto linguistico, benché nelle singole circostanze sia l’una a emergere sull’altra. Nella stessa direzione si orienterà successivamente R. Jakobson. 3. Dall’empirismo logico alla filosofia analitica. – Nel secondo decennio del secolo XX, nell’ambito della conoscenza scientifica, si sono verificate significative trasformazioni che, oltre a modificarne l’apparato categoriale, hanno comportato una diversa maniera di intendere la sua natura e il suo compito. L’indagine epistemologica, così, si è affiancata a quella linguistica nel richiedere al filosofo di trasferire la sua attenzione da ciò di cui il linguaggio parla, come ha fatto tradizionalmente, al modo in cui ne parla. D’altro canto, le esperienze tragiche dei primi anni del Novecento gettavano un forte discredito su molte delle grandi “evidenze ingenue” del passato, stimolando un vero e proprio delirio analitico, di cui la riflessione sul linguaggio raccoglieva l’eredità. L’indirizzo di ricerca che ne è scaturito si è caratterizzato come rivolto prevalentemente a stabilire i limiti della ragione. Era inevitabile pertanto che si declinasse come una riflessione sui limiti del linguaggio, in quanto strumento con cui essa si esprime. Su questo terreno, in verità, si era già mosso F. Mauthner, contribuendo a una riconversione del kantismo in senso linguistico. Ne aveva tratto la conclusione che il linguaggio è ineludibile ma, al tempo stesso, è inaffidabile, perché vi si rispecchiano tutte le funzioni dell’intelletto: l’immagine stessa che ci offre del mondo altro non è che una pura e semplice rappresentazione. Ma ora i limiti del linguaggio vengono stabiliti mediante una ricerca condotta secondo la metodologia propria della scienza. Della speculazione precedente, in particolare di quella che si è sviluppata con il positivismo ottocentesco, fa proprio il presupposto che il linguaggio sia, da un lato, l’espressione dell’attività del pensiero e, dall’altro, l’immagine della realtà. E appunto prende il nome di positivismo o empirismo logico. Le ricerche che G. Frege, B. Russell, L. Wittgenstein e altri ancora conducono intorno alla logica, con la distinzione fra senso e significato di un enunciato linguistico, con l’elaborazione del calcolo delle proposizioni e della relazioni e con la formulazione

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della teoria dei tipi, rientrano nel progetto – che era già stato di Leibniz – di sostituire il linguaggio ordinario con un linguaggio che abbia il rigore e la precisione di quello della matematica. Tale linguaggio però, oltre a riflettere l’ordine logico e cioè il modo di procedere del pensiero, è chiamato anche a fungere da immagine della realtà. Pertanto, come sostiene Russell, deve assumere una struttura tale che si dia «una parola soltanto per un oggetto semplice, e tutto ciò che non è semplice venga espresso mediante una combinazione di parole, la quale sia tratta, naturalmente, dalle parole corrispondenti alle cose semplici che ne fanno parte, una sola parola per ciascun componente» (Logic and Knowledge, London 1956, pp. 197-198). Per conseguire questo obiettivo si ricorre al principio di verificazione che perciò viene elevato a criterio per distinguere gli enunciati che hanno un senso da quelli che ne sono privi. Oltre a quelli della matematica e della logica, che sono tautologici, gli enunciati che hanno senso perciò sono quelli che si possono sottoporre a controllo, cioè gli enunciati delle scienze empiriche. Gli altri, come quelli della metafisica, invece ne sono privi. Per il positivismo o empirismo logico quindi la riflessione sul linguaggio consiste nell’analisi delle strutture sintattiche e delle implicazioni semantiche dell’unico linguaggio che ha senso, cioè del linguaggio della scienza. Contro gli esiti riduttivistici di questo modo di guardare al linguaggio reagisce L. Wittgenstein con le Philosophische Untersuchungen, dove fornisce un’esplicita formulazione della pari legittimità di tutti i linguaggio In questo ordine di idee, il linguaggio è inteso come una costruzione umana ed è equiparato a una «forma di vita» che appartiene alla «storia naturale» dell’uomo come il mangiare, il bere, il giocare (§ 23). E poiché così concepito, esso coincide con il linguaggio ordinario, che è in ordine nel modo in cui è concretamente impiegato nei rapporti sociali, la filosofia nei suoi confronti non ha altro da fare che lottare «contro l’incantamento del nostro intelletto attraverso i mezzi del nostro linguaggio» (§ 109). È chiamata cioè a svolgere soltanto un’attività terapeutica: benché «sembri distruggere tutto ciò che è interessante, cioè tutto quello che è grande e importante», in realtà essa fa scomparire «solo castelli in aria» (§ 110), perché «distrugge le assurdità e i bernoccoli che l’intelletto si è fatti urtando violentemente nei li-

Linguaggio miti del linguaggio» (§ 119). Esistono molti «giochi linguistici», perché molti sono i modi in cui il linguaggio viene impiegato, e ciascuno di essi va distinto, separato, caratterizzato autonomamente. Infine, scrive Wittgenstein, «per una grande classe di casi – anche se non per tutti i casi – in cui ce ne serviamo, la parola “significato” si può definire così: il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio» (§ 43). Solo qualche volta il significato di un nome si definisce «indicando il suo portatore» (ibid.). Sviluppando questi presupposti, che ribadiscono l’arbitrarietà dei sistemi linguistici e la loro genesi sociale, senza però ignorarne la finalità conoscitiva, G. Ryle sostiene che la riflessione sul linguaggio deve configurarsi come una «geografia logica», vale a dire come una scienza descrittiva che fornisce una dettagliata mappa degli usi linguistici connessi con l’enunciato fuorviante che è sotto analisi. Nella riflessione sul linguaggio il problema infatti «non è di individuare e colpire separatamente il punto esatto di questa o quella idea singola, ma di determinare gli intrecci di tutta una galassia di idee che appartengono agli stessi campi o a campi contigui» (Philosophical Arguments, in Logical Positivism, ed. A.J. Ayer, Glencoe 1960, p. 335). Anche J.L. Austin è impegnato a restituire al linguaggio la sua funzione di strumento di comunicazione e di conoscenza. Le premesse per una riflessione sul linguaggio in chiave pragmatica erano state poste da Ch. S. Peirce e da Ch. Morris. Alla semiotica o scienza generale dei segni costoro infatti attribuiscono il compito di esaminare il linguaggio non solo in se stesso e nel suo rapporto con gli oggetti, ma anche nella sua relazione con chi lo parla e con chi lo riceve, oltre che in riferimento alla situazione concreta in cui dà luogo a un processo di comunicazione. Per Austin, però, diversamente da Ryle, i problemi linguistici nascono non tanto perché si assegnano i concetti a categorie a cui non appartengono, quanto perché spesso si parla o si scrive senza avere una conoscenza adeguata delle situazioni che si presentano entro un certo contesto socio-culturale. Pertanto, per evitare che si manifestino, occorre fare appello a una “fenomenologia linguistica” che sia capace di farci prendere coscienza di tutte le distinzioni e relazioni implicite nell’uso ordinario del linguaggio Quest’ultimo, peraltro, racchiude «qualcosa di meglio 6497

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Linguaggio che la metafisica dell’età della pietra, e cioè l’eredità di esperienza e di acume di molte generazioni» (A Plea for Excuses, in Philosophical Papers, Oxford 1961, p. 133). Certamente però il linguaggio ordinario non pretende di essere l’ultima parola, poiché «in linea di principio può essere sempre integrato, migliorato e superato» (ibid.). Su queste basi, Austin elabora una teoria che svincola il linguaggio dalla funzione meramente rappresentativa che gli è stata tradizionalmente riconosciuta e ne fa un insieme di atti eseguiti nel contesto di situazioni ben determinate. Ma, con l’introduzione degli atti linguistici, ormai la ricerca si è spostata dalla struttura logica degli enunciati alla situazione dialogica in cui sono inseriti. L’accento perciò, soprattutto con P. Grice e J. Searle, cade sull’intenzionalità che presiede all’esecuzione degli atti linguistici e quindi sul ruolo espletato dalla mente nella produzione del significato. Così, se con lo sviluppo del positivismo o empirismo logico da un lato, e del comportamentismo dall’altro era venuto meno l’interesse per il rapporto tra mente e linguaggio, la tematica è tornata di attualità nella seconda metà del XX secolo. Già verso la fine degli anni cinquanta, a questo riguardo, si sono delineati due indirizzi di pensiero: l’uno che, sulla scia di Sapir e, in generale, del comportamentismo, considera il linguaggio prevalentemente come una capacità di comunicare che si apprende sotto lo stimolo dei vincoli sociali; l’altro, invece, che ne fa una manifestazione di strutture mentali costitutive del soggetto umano. Del primo indirizzo, che trova già in Dewey significative anticipazioni, si fa interprete W.v.O. Quine in quanto riconosce che esistono gli stati mentali, ma gli unici dei quali è possibile tener conto sono quelli che trovano espressione in comportamenti osservabili. Pertanto, noi impariamo a impiegare il linguaggio in virtù del fatto che osserviamo il comportamento verbale degli altri e che gli altri osservano e sanzionano il nostro. Nel segno verbale, infatti, «non c’è nulla di più di ciò che si può arguire dal comportamento manifesto in circostanze osservabili» (Pursuit of Truth, Cambridge [Massachussets] 1990, p. 38). Gli fa eco D. Davidson, il quale esclude che si dia qualsiasi competenza linguistica di base come condizione per lo scambio linguistico; esiste soltanto un complesso di strategie che ciascuno degli interlocutori, alla luce della sua visione del mondo, mette in 6498

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gioco e che, in una comunicazione ben riuscita, si adopera di far convergere con quelle altrui. Del secondo indirizzo si fa interprete soprattutto N. Chomsky, attraverso una ripresa organica e sistematica dei principi della Grammaire logique et raisonnée di Port-Royal. Per Chomsky al comportamentismo sfugge che, per spiegare il possesso di una lingua, è necessario, «oltre al concetto di comportamento e di apprendimento, un concetto di ciò che è appreso – cioè una nozione di competenza – che sta al di là dei limiti concettuali della teoria psicologica comportamentistica» (Saggi linguistici, 3. Filosofia del linguaggio, tr. it. di A. de Palma - C. Ingrao - E. Levi, Torino 1969, p. 214). Per rendersi conto di questa presenza occorre che, nella riflessione sul linguaggio, non ci si limiti a considerare come si apprende e come si usa una lingua, ma si proceda allo studio dei principi e delle strutture che caratterizzano i processi linguistici e mentali dell’uomo. Questo studio può essere rivolto a scoprire la «grammatica generativa» di tale lingua, ovvero «il sistema di regole che correlano il suono e il significato in un modo particolare»; ma può anche procedere alla scoperta della «grammatica universale», cioè «delle condizioni necessarie e sufficienti che un sistema deve soddisfare per qualificarsi come lingua umana potenziale, condizioni che non sono vere accidentalmente per le lingue umane esistenti, ma che sono piuttosto radicate nella “capacità linguistica” umana» (ibi, pp. 162-163). Tuttavia, tale studio, solo in quanto coglie la grammatica universale, afferra ciò che è essenziale per le lingue storiche, perché «si tratta di uno stato iniziale della facoltà del linguaggio» (New Horizons in the Study of Language and Mind, Cambridge 2000, p. 6), che concerne certe proprietà generali dell’intelligenza umana, cioè «una struttura innata, sufficientemente ricca da spiegare la disparità tra l’esperienza e la conoscenza» (Saggi linguistici. 3. Filosofia del linguaggio, tr. cit., p. 222). La grammatica universale, oltre a costituire «in termini cartesiani, una seconda sostanza», ha anche un «aspetto creativo», in virtù del quale è possibile la «traducibilità illimitata» che caratterizza l’uso abituale del linguaggio Rispetto alle enunciazioni delle lingue storiche, Chomsky sostiene che occorre distinguere la struttura superficiale da quella profonda: l’una ne «determina completamente l’interpretazione fonetica», l’altra ne

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specifica «quelle funzioni grammaticali che svolgono un ruolo nel determinare l’interpretazione semantica» (ibi, pp. 166-167). Pertanto, la competenza linguistica, che presiede all’uso effettivo di una lingua, altro non è che «l’abilità di assegnare strutture profonde e superficiali a un campo infinito di frasi, di correlare queste strutture in maniera adeguata e di assegnare un’interpretazione semantica e un’interpretazione fonetica alle coppie di strutture profonde e superficiali» (ibi, pp. 165166). Con Chomsky dunque viene ristabilita la priorità del pensiero nei confronti del linguaggio Non si tratta però di una priorità di tipo conoscitivo, come per lo più si è ritenuto nell’ambito della cosiddetta linguistica cartesiana, ma di tipo ontologico, perché il pensiero è inteso come pensiero in atto, cioè nella sua capacità creativa. Al tempo stesso, con la postulazione di una «facoltà del linguaggio», da Chomsky sono poste le premesse per ricerche che, sebbene condotte in direzioni assai diverse, costituiscono lo sfondo degli studi più recenti della filosofia della mente. Inoltre, con il recupero dell’intenzionalità, di cui si erano già fatti interpreti soprattutto Grice e Searle, verso la fine del XX secolo è tornata di attualità la riflessione sul linguaggio nella direzione del rapporto tra linguaggio e mondo. A. Pieretti BIBL.: per il pensiero antico: H. STEINTHAL, Geschichte der Sprachwissenschaft bei den Griechen und Römern, Berlin 1890-91; K. BARWICK, Probleme der stoischen Sprachlehre und Rhetorik, «Abhandlungen der Sachsischen Akademie der Wissenschaften zu Leipzig», Berlin 1957, pp. 8-28; J. PINBORG, Das Sprachdenken der Stoa und Augustins Dialektik, in Classica et Mediaevalia, 1962, pp. 148-177; F. SORÍA, La teoría del signo y del lenguaje en la filosofía griega, in Historia filosofica, 1966, pp. 315-353; R. SIMONE, Semiologia agostiniana, «La cultura», 1969, pp. 88-117; B. DARRELL JACKSON, The Theory of Signs in St. Augustine’s De doctrina christiana, in “Revue des études augustiniennes” 15 (1969), pp. 9-49; G. RYLE, The Academy and Dialectic, Collected Papers, London 1971, vol. I, pp. 89-115; R.B. ROBINSON, Language, Plato and Logic, in AA.VV., Essays in Ancient Greek Philosophy, Albany 1971, pp. 259-284; R.A. MARKUS, St. Augustin on Signs, in AA.VV., Augustine. A Collection of Critical Essays, New York 1972, pp. 61-91; E. RIVERSO, Il linguaggio nel pensiero filosofico e pedagogico del mondo antico, Roma 1973; G. NUCHELMANS, Theories of Proposition: Ancient and Medieval Conceptions of Bearers of Truth and Falsity, Amsterdam 1973; L. ALICI, Il lin-

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LINGUAGGIO, FILOSOFIA INDIANA DEL. – La Linguaggio riflessione delle diverse scuole di pensiero indiane intorno alla natura e alle funzioni del linguaggio prende le mosse dalla teoria della conoscenza che assegna alla testimonianza verbale (lo sabda) un ruolo specifico tra i processi suscettibili di produrla e/o trasmetterla (i pramana). Come il pensiero occidentale antico

Linguaggio distingueva verba e res, l’India distingue tra la parola (il pada) e il referente (l’artha), cui essa rimanda tramite una vis semantica (la sakti), che è variamente concepita, come intrinseca ad essa soltanto o come appartente anche alla cosa designata. Appunto la sakti costituisce il tratto distintivo della parola, normalmente articolata, ma in situazioni particolari riducibile anche a un’interiezione o addirittura un semplice gesto. In quanto caratteristica eterna della parola, la sakti è costruita dai seguaci del Nyaya come non naturale, ma dipendente da un’assegnazione arbitraria del referente da parte dalla Divinità stessa (Isvarasamketa) e appresa dall’uomo tramite l’uso, la grammatica, il lessico o la mimica. Ciò vale segnatamente per la lingua sacra, il sanscrito e il vedico che ne forma la base. I vernacoli e i linguaggi tecnici e specializzati vedono nuove sakti convenzionali, messe in essere soltanto dalla volontà umana (icchamatra), soggette a innovazioni e varianti dall’uno all’altro popolo. Le modaltà della designazione sono la denotazione diretta (abhidha), quella indiretta o implicita (laksana) e quella suggerita (vyañjana). I referenti vengono classificati come 1) entità individuali (vyakti), 2) forme eventualmente comuni a più individui (akrti) e 3) generi (jati). Per i seguaci del Samkhya unico referente è il primo, il terzo per quelli della Purvamimamsa, che considerano oggetto di percezione diretta (ogni atto percettivo essendo inclusivo del genere assieme alle particolarità del singolo oggetto con cui i sensi entrano in contatto), per i Jaina il secondo; i seguaci del Nyaya più antichi, poi, li ammettono tutti, mentre quelli più raffinati assegnano come referente alla parola l’individuo specificato dal genere che in esso è inerente (samaveta) e che solo a partire da esso viene inferito. Vi è una gerarchia degli universali: il più comprensivo è l’essere (la satta, letteralmente il fatto d’essere un ente, sat), che inerisce a tutti gli esistenti; apparentemente ancor più esteso è il reale (lo astitva, letteralmente il fatto che la tale cosa, asti, è), che ricopre anche i casi di assenza o inesistenza (gli abhava); ad es. ha senso dire che l’assenza hic et nunc d’un determinato oggetto è reale, dacché esso non è effettivamente presente e lo si constata. I maestri buddhisti del Vijñanavada sostengono che in effetti non vi sono referenti positivi: la parola opera l’individuazione d’un referente immaginario, costruito (kalpita) dalla mente tramite la rimozione/negazione (apoha) 6501

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Linguaggio di ogni altro presunto oggetto. La negazione può esser sentita come tale (nisedha), senza controparte positiva, o invece come ingenerante siffatta controparte (paryudasa), peraltro affatto fantasmatica. Ad es. le apparenti nozioni di eternità/perennità e impermanenza sono in effetti meri flatus vocis che, escludendosi l’un l’altro, si puntellano a vicenda, senza che dovechessia venga reperito alcun loro referente. La percezione immediata, ancora esente dall’intervento mitopoietico delle costruzioni legate al linguaggio (nirvikalpaka), ci rivela una realtà istantanea e ineffabile e coincide coll’illuminazione. Per le altre scuole anche in tale percezione sono presenti in modo indistinto genere, individuo, tempo, spazio, causalità ecc., che l’intervento del linguaggio vale a selezionare ed esplicitare. L’analogia offerta è quella dell’uovo di pavone, che contiene in se stesso tutti i colori che si dispiegheranno nella mirabile coda dell’animale adulto. Un tema assai dibattuto è se la parola sia riducibile a una mera serie di fonemi (i varna) che, una volta enunciati e uditi, valgono a denotare il referente, o se essi non si limitino piuttosto a illuminare un’entità lessicologica indivisibile ed eterna (lo sphota), che forma oggetto di riconoscimento ogni volta che l’udiamo e funge essa sola da designazione del referente. Questa dottrina gode di largo successo nel periodo più antico e classico, ma finisce per venire abbandonata dopo una lunga serie di confutazioni. I suoi sostenitori argomentavano che, essendo ogni fonema esistente per un brevissimo periodo, manca ad esso così come alla loro serie la possibilità di ingenerare l’apprensione del referente. Pertanto occorre postulare lo sphota (termine onomatopeico richiamante lo scoppio d’una bolla o lo sbocciare d’un germoglio), così chiamato per il suo improvviso comparire innanzi all’occhio interiore, illuminato dall’ultimo fonema della serie combinato con le tracce mnestiche dei precedenti e capace d’illuminare a sua volta il referente. Bhartrhari, insigne grammatico fiorito probabilmente nel V secolo d. C. e massimo teorizzatore di tale concezione, sostiene che lo sphota non è soltanto individuabile al livello della parola (padasphota), ma altresì del fonema (varnasphota) che apparentemente entra a farne parte della proposizione (vakyasphota) che la parola sempre apparentemente concorre a formare. In effetti tutte queste unità sono indivisibili, essendo la loro struttura erroneamente percepi6502

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ta come composita in dipendenza dall’associazione al suono che di volta in volta le manifesta. L’unità semantica più importante è la proposizione, cui le altre sono subordinate: il suo senso, che serve di base a quelli delle parole in essa coordinati, eccede tali sensi come un quid pluris. Le parole, i cui referenti lessicologici sono in sé meramente mentali (buddhyartha) e universali – non essendovi, a ben vedere, pensiero indipendente dal linguaggio e vice versa –, acquisiscono nella proposizione sensi secondari specifici riferiti a situazioni appartenenti al mondo esteriore (vastvartha). Se il numero dei fonemi e quello delle parole, pur elevatissimo, è limitato, quello delle proposizioni è infinito: in esse le caratteristiche d’eternità e infinità del Brahman, Realtà ultima dello sphota, è manifesto appieno. Bhartrhari distingue quattro livelli della Parola/Voce, la dea Vac cantata nei Veda: quella suprema (para), coincidente con l’Assoluto; quella «veggente» (pasyanti) che contempla in unità trascendente la totalità dei referenti; quella «mediocre» (madhyama), mentale, e quella grossolana (vaikhari), che si attualizza nei suoni effettivamente profferiti. Tale concezione sarà ripresa e approfondita dai maestri kasmiri come Abhinavagupta. M. Piantelli BIBL.: VACASPATIMISRA, Le Tattvabindu, ed. a cura di Madeleine Biardeau, Pondichéry 1956; M. MISRA, Sphota Siddhi (La démontration du sphota), ed. a cura di Madeleine Biardeau, Pondichéry 1958; G. SASTRI, The Philosophy of Word and Meaning. Some Indian Approaches with Special Reference to the Philosophy of Bhartrhari, Calcutta 1959; K. KUNJUNNI RAJA, Indian Theories of Meaning, Adyar (Madras), 1963; BHARTRHARI, Vakyapadiya Brahmakanda, avec la Vrtti de Harivrshabha, ed. a cura di Madeleine Biardeau, Paris 1964; M. BIARDEAU, Théorie de la connaissance et philosophie de la parole dans le brahmanisme classique, Paris - La Haye 1964; The Vakyapadiya of Bhartrhari with the Vrtti, tr. ingl. a cura di K.A. Subramania Iyer, Poona 1965 ss.; The Sphotanirnaya (Chapter XIV of the Vaiyakaranabhusanasara) of Kaunda Bhatta, ed. a cura di S.D. Joshi, Poona 1967; The Vakyapadiya, ed. a cura di K. Raghavan Pillai, Delhi-Patna-Varanasi 1971; The Kalasamuddesa of Bhartrhari’s Vakyapadiya, ed. a cura di Peri Sarveswara Sharma, Delhi-Varanasi-Patna 1972; J.F. STAAL (a cura di), A Reader on the Sanskrit Grammarians, Delhi-Varanasi-Patna-Madras 1972; H.G. COWARD, The Sphota Theory of Language. A Philosophical Analysis, Delhi-Varanasi-Patna 1980; G. SASTRI, A Study in the Dialectics of Sphota, Delhi-Varanasi-Patna 1980; H.G. COWARD - K. KUNJUN-

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LINGUAGGIO, PSICOLOGIA DEL. – SOMMARIO: Linguaggio I. Sviluppi novecenteschi. - II. Psicologia evolutiva e psicopatologia del linguaggio. I. SVILUPPI NOVECENTESCHI. – Lo studio del linguaggio ha costituito, per la psicologia scientifica, un ambito di riflessione teorica e di ricerca empirica particolarmente rilevante. Emblematico il dibattito scaturito dalla recensione di Noam Chomsky (A Review of B.F. Skinner’s «Verbal Behavior», in «Language», 35, 1959, pp. 26-58) al testo pubblicato da Burrhus F. Skinner, Verbal Behavior (New York 1957, tr. it. di A. Artani, Il comportamento verbale, Roma 1976), che contribuì al passaggio dal predominio del comportamentismo a una visione «mentalista» e «cognitivista» della psicologia. Per Skinner il linguaggio era solo uno dei tanti comportamenti che l’individuo apprende mediante associazione tra stimoli ambientali e risposte date. In base ai suoi studi sul condizionamento operante l’associazione, il linguaggio si crea se l’individuo, mettendo in atto un certo comportamento, ottiene un effetto per lui positivo (cioè un rinforzo): nella fattispecie il bambino, che apprende la propria lingua ascoltando gli adulti parlare e imitandoli, ottiene approvazioni nel caso riesca a esprimersi correttamente, riceve invece correzioni in caso di errori. In questa prospettiva, pertanto, l’individuo ha un ruolo passivo nel processo di acquisizione del linguaggio riducendosi, come per ogni altra competenza, alla mera riproduzione di relazioni date nell’esperienza. Chomsky, al contrario, rivendicò il ruolo attivo dell’individuo nel creare relazioni tra oggetti o eventi, nel cercare analogie e regole nel flusso dei dati dell’esperienza, supponendo strutture mentali innate. In particolare, egli enfatizzò il carattere di generatività della lingua, e dunque di creatività del linguaggio, dato dalla possibilità di produrre un numero infinito di enunciati a partire da un insieme finito di elementi (cfr. Syntactic Structures, The Hague 1957, tr. it. di F. Antinucci, Le strutture della sintassi, RomaBari 19803). Sostenne pertanto che oggetto fondamentale di studio della linguistica doveva essere la competence, cioè la conoscenza im-

Linguaggio plicita della grammatica che ha il parlante, che è allo stesso tempo ascoltatore, e non la performance, cioè l’esecuzione particolare di un corpus finito di enunciati. Inoltre, per spiegare la ragione per cui le relazioni sintattiche assumono, nelle lingue naturali, determinate forme e non altre, Chomsky ipotizzò una sottostante matrice biologica, in grado di fornire un insieme limitato di opzioni possibili da cui si possono generare percorsi evolutivi alternativi. Tale matrice è la «grammatica universale», ovvero il sistema di principi, condizioni e regole che sono elementi o proprietà comuni a tutte le lingue. I critici del generativismo, dal canto loro, mettono in discussione l’opportunità di ricorrere a un apparato complesso di regole per spiegare il fenomeno dell’acquisizione del linguaggio e del raggiungimento della competenza linguistica; pertanto contestano l’assunto implicito che competenza e prestazione siano aspetti indipendenti della mente e che quindi debbano essere studiati separatamente. Essi, piuttosto, giungono a negare l’esistenza stessa della grammatica come entità mentale. Da questo punto di vista non ci sarebbe altra competenza che quella alla prestazione (D.I. Slobin, The Crosslinguistic Study of Language Acquisition, Hillsdale 1985). Il panorama attuale delle ricerche sul linguaggio all’interno della psicologia cognitiva è caratterizzato da un vivace dibattito, in cui si confrontano essenzialmente due paradigmi. Il primo, basato sulla grammatica generativa di Chomsky, è riconducibile alla teoria della modularità, che tratta il linguaggio come una facoltà della mente «informazionalmente incapsulata» rispetto alle altre attività cognitive (cfr. J.A. Fodor, The Modularity of Mind: An Essay on Faculty Psychology, Cambridge 1983, tr. it. di R. Luccio, La mente modulare: saggio di psicologia delle facoltà, Bologna 1988). Questo significa assumere che le strutture del linguaggio siano innate, specifiche, discontinue e dissociabili dagli altri sistemi cognitivi e percettivi. L’altro paradigma è invece riconducibile a una teoria cognitivista-funzionalista, secondo cui il linguaggio è acquisito e mantenuto attraverso processi mentali o neurali, condivisi con altri sistemi percettivi, cognitivi e affettivi (cfr. V. Volterra - E. Bate, L’acquisizione del linguaggio in condizioni normali e patologiche, in G. Sabbadini [a cura di], Manuale di neuropsicologia dell’età evolutiva, Bologna 1995, pp. 183-203). In particolare, gli autori che si riconoscono in ta6503

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Linguaggio le orientamento si ispirano alla tesi di Jean Piaget sulla sostanziale dipendenza dello sviluppo linguistico da quello cognitivo. Piaget – le cui ricerche condotte già nel periodo tra le due guerre mondiali sono state rivalutate con l’avvento del cognitivismo, negli anni sessanta – in effetti aveva affermato che il linguaggio verbale è una delle manifestazioni, insieme all’imitazione differita e al gioco simbolico, del raggiungimento, intorno ai 18-20 mesi, di una forma di intelligenza di tipo «rappresentativo» (La formation du symbole chez l’enfant, Neuchâtel 1945, tr. it. di E. Piazza, La formazione del simbolo nel bambino, Firenze 1972). Il linguaggio del periodo pre-operatorio (da 2 a 7 anni di età), poi, sarebbe per Piaget «egocentrico», al pari della modalità di pensiero propria della corrispondente fase dello sviluppo cognitivo. Esso si caratterizza per la scarsa importanza che il parlante attribuisce all’attenzione e alla comprensione del messaggio da parte dell’ascoltatore. Soltanto intorno ai 7 anni, con l’inizio del periodo operatorio concreto, le produzioni egocentriche lascerebbero il posto progressivamente al «linguaggio socializzato», adeguato al contesto e alle regole della comunicazione (Le langage et la pensée chez l’enfant, Neuchâtel 1923, tr. it. di C. Musatti Rapuzzi, Il linguaggio e il pensiero del fanciullo, Firenze 1962). L’esistenza di un linguaggio egocentrico ha ricevuto conferme in numerose ricerche successive, ma i dati osservativi mettono altresì in luce una buona capacità del bambino di adattarsi precocemente al contesto sociale in cui è inserito. Anche a seguito di questi altri dati, Lev Vygotskij propose, in polemica con Piaget, un decorso evolutivo inverso: il linguaggio iniziale sarebbe già di natura sociale e da esso si differenzierebbero, successivamente, da un lato un linguaggio sempre più socializzato e dall’altro un linguaggio con funzioni autoregolative, individuale e perciò egocentrico; quest’altro evolverebbe in linguaggio interiore, diventando un potente strumento per l’elaborazione dei processi di pensiero (Myš lenie i rec’, Moskva 1934, tr. it. a cura di L. Mecacci, Pensiero e linguaggio, Bari 20037). Secondo quest’altra prospettiva, nel processo di acquisizione della competenza linguistica il contesto socio-culturale, a partire dal quale il bambino interiorizza le relazioni che intrattiene, assume un ruolo prioritario rispetto alla centratura piagetiana sullo sviluppo ontogenetico dell’individuo. Riprendendo 6504

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altresì spunti vygotskiani, in tempi più recenti Jerome Bruner (Child’s Talk. Learning to Use Language, New York 1983, tr. it. di S.C. Sgroi, Il linguaggio del bambino. Come il bambino impara a usare il linguaggio, Roma 1987) ha ritenuto utile ipotizzare che, accanto al «dispositivo per l’acquisizione del linguaggio» (o LAD: Language Acquisition Device) teorizzato nel paradigma innatista (D. McNeill, The Acquisition of Language. The Study of Developmental Psycholinguistics, New York 1970, tr. it. a cura di G.R. Cardona, L’acquisizione del linguaggio: introduzione alla psicolinguistica evolutiva, Roma 1973), operi un «sistema di supporto per l’acquisizione del linguaggio» (o LASS: Language Acquisition Support System). Quest’ultimo rappresenta il ruolo svolto dall’interazione con gli adulti e con il contesto sociale nel processo che consente all’individuo di acquisire un codice condiviso e di entrare a far parte della cultura in cui vive. Per avvalorare le rispettive tesi, attualmente gli studiosi si avvalgono di vari metodi di ricerca e di diverse tecniche di raccolta dei dati: da quelle di tipo osservativo, con le trascrizioni delle produzioni linguistiche spontanee o indotte da specifici reattivi, a quelle di tipo sperimentale, con la registrazione p. es. dei tempi di riconoscimento di stimoli verbali di vario tipo (parole singole, frasi ecc.), fino agli studi di simulazione, che possono utilizzare algoritmi seriali tipici dell’intelligenza artificiale classica oppure architetture neurali di tipo connessionista. II. PSICOLOGIA EVOLUTIVA E PSICOPATOLOGIA DEL LINGUAGGIO. – Per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio si possono distinguere tre grandi fasi: una fase prelinguistica, fino a 12-18 mesi; la fase del linguaggio infantile, fino a 30-36 mesi; l’acquisizione del lessico e delle strutture grammaticali e sintattiche del linguaggio adulto, dai 3 anni in poi. Durante la prima fase, fenomeni particolarmente significativi si manifestano intorno ai 3 mesi, periodo in cui, accanto ai suoni vegetativi, compaiono vocalizzi che vengono emessi in situazioni di scambio comunicativo (cooing, riso) e verso i 7-8 mesi, quando il bambino inizia a produrre sequenze di sillabe formate da consonante e vocale (lallazione). Intorno ai 12-13 mesi compaiono le prime parole, che spesso vengono prodotte in forma abbreviata e con differenze fonetiche rispetto al linguaggio adulto. Inizialmente il loro significato è strettamente legato al contesto

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e, secondo un’ipotesi accreditata, attraverso una singola parola il bambino cercherebbe di comunicare intere frasi (periodo «olofrastico»), spesso con l’ausilio di gesti e azioni appropriati. Nei mesi successivi si ha una progressiva decontestualizzazione delle parole e un notevole arricchimento del vocabolario, che permette la comparsa, tra i 18 e i 24 mesi, della combinazione di più parole, con l’inizio della costruzione delle strutture frasali. Durante il secondo e il terzo anno di vita si ha un ulteriore arricchimento della competenza lessicale e sintattica, con un passaggio da enunciati privi di determinanti (articoli e preposizioni) e con una morfologia semplificata (stile «telegrafico») a produzioni linguistiche sempre più complete. Intorno ai 4-5 anni si giunge all’acquisizione delle regole grammaticali e semantiche essenziali. Esiste una notevole variabilità tra un individuo e l’altro nell’acquisizione delle tappe evolutive della competenza linguistica, ma vi sono alcuni indicatori di possibili disturbi del linguaggio, come, p. es., la produzione di un numero di parole inferiore a 50 unità a 24 mesi e una lunghezza media dell’enunciato (LME) inferiore a 3 parole a 38 mesi. Le difficoltà linguistiche possono presentarsi insieme ad altre condizioni patologiche (deficit percettivi, cognitivi, relazionali, neuromotori) oppure in forma isolata, nel qual caso si parla di «disturbi specifici del linguaggio» (Specific Language Impairment, SLI). Disturbi della comunicazione verbale si possono rilevare anche in adulti colpiti da eventi morbosi (ictus, traumi, tumori) nelle aree corticali deputate all’elaborazione del linguaggio. La localizzazione di una di queste aree a opera del neurologo francese Paul Broca (Perte de la parole, ramollissement chronique et destruction partielle du lobe antérieur gauche du cerveau, in «Bulletin de la Société d’Anthropologie», 2, 1861, pp. 235-238) segnò la nascita dell’afasiologia, il ramo della neurologia che si occupa dei disturbi della componente linguistica della comunicazione. Nell’evoluzione del concetto di afasia, particolare rilievo hanno assunto i seguenti contributi: la prospettiva di tipo localistico e associazionistico, sintetizzata dal modello di funzionamento normale del linguaggio di Ludwig Lichtheim (On Aphasia, in «Brain», 7, 1885, pp. 433-485, tr. it. in P. Faboz-

Linguaggio zi (a cura di), La parola impossibile: modelli di afasia nel XIX secolo, Milano 1991) e ripresa in tempi più recenti da Norman Geschwind (Disconnexion Syndromes in Animals and Man, «Brain», 88, 1965, pp. 237-294, 585-644); l’interpretazione unitaria della disintegrazione afasica, vista da Pierre Marie come un disturbo dell’intelligenza caratterizzato dalla disorganizzazione del linguaggio interno (Travaux et mémoires, Paris 1926); il localizzazionismo dinamico di Aleksandr Lurija (Vyssie korkovye funkcii celoveka, Moskva1962, tr. it. di E. Bisiach, Le funzioni corticali superiori nell’uomo, Firenze 1967), per cui il linguaggio è un «sistema funzionale» che risulta dalla connessione dinamica di aree predefinite, rispettivamente sottese a funzioni più elementari (analizzatori corticali), individuate sulla base dell’analisi linguistica. Attualmente tende a prevalere un approccio empirico, secondo cui si utilizzano parametri oggettivi per differenziare sottogruppi diversi di pazienti afasici, mettendo in secondo piano schemi teorici generali. Nella diagnosi clinica si fa per lo più riferimento alla dicotomia tra eloquio fluente e non fluente (D.F. Benson, Fluency in Aphasia: Correlation with Radioactive Scan Localization, in «Cortex», 3, 1967, pp. 373394). Tra le afasie non fluenti sono comprese l’afasia di Broca e l’afasia transcorticale motoria: la persona si esprime con difficoltà, manifestando spesso aprassia verbale e producendo frasi brevi, talora caratterizzate da agrammatismo. Tra le forme fluenti si annoverano l’afasia di Wernicke, di conduzione, transcorticale sensoriale: l’eloquio è spesso abbondante, ma caratterizzato da parafasie fonemiche, parafasie verbali, neologismi e anomie. Spesso questi disturbi si accompagnano a forme di dislessia e di disgrafia acquisite, con una compromissione generale anche del linguaggio scritto. D. Traficante BIBL.: G. DENES - L. PIZZAMIGLIO (a cura di), Linguaggio, in Manuale di neuropsicologia: normalità e patologia dei processi cognitivi, Bologna 19962; C. CACCIARI, Psicologia del linguaggio, Aggiornamenti. Aspetti della psicologia, Bologna 2001; L. CAMAIONI (a cura di), Psicologia dello sviluppo del linguaggio, Strumenti. Psicologia, Bologna 2001. ➨ CONDIZIONAMENTO; COMPORTAMENTISMO; CONNESSIONISMO; INTELLIGENZA ARTIFICIALE.

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Linguaggio teorico / linguaggio osservativo LINGUAGGIO TEORICO Linguaggio teorico / linguaggio osservativo / LINGUAGGIO OSSERVATIVO: V. TEORIA EMPIRICA, STRUTTURA E DINAMICA DELLA.

LINGUA PERFETTA (perfect language; vollLingua perfetta kommene Sprache; langue parfaite; lengua perfecta). – La ricerca di una «lingua perfetta» non ha mai cessato di affascinare varie culture. Questa utopia non si è mai realizzata, ma attraverso i suoi vari fallimenti si sono sviluppate importanti riflessioni sull’origine del linguaggio, su una grammatica universale, sulle strutture biologiche che presiedono alla facoltà del linguaggio, sul rapporto arbitrario o motivato tra parole e cose; e hanno preso origine progetti di combinatoria universale e logica formale. Nella cultura giudaico-cristiana il tema viene introdotto dal Genesi (2,19), dove Dio presenta gli animali ad Adamo affinché dia loro un nome e (secondo la Vulgata) «omne enim quod vocavit Adam animae viventis ipsum est nomen ejus. Appellavitque Adam nominibus suis cuncta animantia». Non è pertanto chiaro se il nome dato da Adamo sia stato quello che doveva avere l’animale a causa della sua natura o quello che avrebbe dovuto avere a causa di un’imposizione convenzionale. Come si vede si profila qui l’opposizione che appare anche nel Cratilo platonico, tra nomos e physis. Inoltre non è chiaro in quale lingua Adamo abbia parlato. Nel cap. 11 del Genesi si racconta poi come nel corso della costruzione della torre di Babele, Dio abbia confuso le lingue. Il tema di una confusio linguarum non ha però mai ossessionato il mondo classico. Ci si appagava del fatto che la koiné greca e il latino imperiale assicurassero una comunicazione adeguata e universale dal bacino mediterraneo alle isole britanniche. Il sogno di una lingua perfetta che sanasse la ferita babelica è contemporaneo alla moltiplicazione delle lingue europee, e la prima rappresentazione nota della Torre di Babele (nella Biblia Cotton) è del V o VI secolo. Agli albori del VII secolo in Irlanda, in un’opera intitolata I precetti dei poeti, si dice che il gaelico con le sue parti del discorso è costruito sul modello dei materiali che erano presenti al momento della costruzione della Torre e che è effetto di un’operazione di «ritaglio» delle altre 72 lingue nate dopo la confusione, così che in esso, come nella lingua d’Adamo, le parole esprimono la vera natura delle cose. 6506

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Sulla natura della lingua adamica rifletterà Dante nel De Vulgari Eloquentiae, anche se il suo progetto non mirerà al ricupero di un ebraico originario ma alla fondazione di un «volgare illustre» che della lingua adamica avrebbe dovuto avere pregi e dignità. Dante ipotizza che la lingua data originariamente da Dio ad Adamo precedesse lo stesso ebraico, anche se sembra intendere il primo discorso di Dio ad Adamo come espresso attraverso suoni della natura (tuoni, o folgori). Corti avanza l’ipotesi che Dante, parlando del dono divino di una forma locutionis, abbia inteso qualcosa di simile a una competenza generativa universale che precederebbe l’acquisizione di una lingua naturale. Già nel denso testo dantesco si profilano pertanto cinque diverse possibilità d’intendere una lingua perfetta, e cioè come (1) l’ebraico primigenio, (2) una «lingua madre» che abbia preceduto lo stesso ebraico, (3) una «lingua santa» assai diversa dalle lingue naturali, (4) una lingua nazionale che presenti particolari qualità di perfezione, (5) una lingua universale della ragione. La ricerca dell’ebraico primigenio porta allo studio di una grammatica ebraica, che alla fine avrebbe condotto alla critica testamentaria, sia a varie forme di cabalismo cristiano, dove l’ebraico appare come lingua divina e sacra per eccellenza proprio perché incomprensibile. Tra XVI e XVII secolo, per autori come Cornelio Agrippa o John Dee esso diventa una lingua magica che non serve per comunicare le idee ma per agire sulle cose. In base alla presunta corrispondenza tra lingua adamica e struttura del mondo, i suoni dell’ebraico appaiono come forze che possono influenzare, agire sulla natura o sugli spiriti. Per quanto riguarda una lingua madre, da un lato si è andati alla ricerca di civiltà più antiche di quella ebraica, come quella egizia (che nello Oedypus Aegyptiacus del 1652-54, e in altre opere di Athanasius Kircher, appare come rivelativa di profondi misteri), oppure di quella cinese (i cui ideogrammi affascineranno molti pensatori da Francis Bacon a Leibniz). Dall’altro si è giunti alla costruzione di quel fantasma ideale che è l’indoeuropeo. D’altra parte ancora ai giorni nostri si è riproposta la ricerca di una lingua madre, il «Nostratico». Diversa è stata l’utopia delle «lingue sante», il cui modello è stata una pratica ben più antica, la glossolalia. Abbiamo così nel XII secolo la Ignota Lingua di santa Hildergarde di Bingen,

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nel XVII secolo la «lingua magica» di cui parlano i manifesti Rosa-Croce, che probabilmente era ispirata dalla sensualische Sprache di Böhme, una lingua della natura che si ricollega alla leggenda anche orientale di una «lingua degli uccelli», di cui troviamo tracce in Cyrano de Bergerac. Questa utopia ha ispirato molta poesia contemporanea, da Rimbaud a Mallarmé, da Christan Morgenstern al linguaggio transmentale di Chlebnikov, sino al Finnegans Wake di Joyce. Il sogno di una lingua perfetta ha condotto molti a identificarla con la propria lingua nazionale. Guillaume Postel sosteneva l’idea di una discendenza diretta delle lingue celtiche dall’ebraico, come argomento in favore di una concordia universale che avrebbe dovuto realizzarsi sotto il controllo del re di Francia. Jan van Gorp in Origines Antwerpianae (Antverpiae 1569) trova che il rapporto motivato tra parole e cose, tipico della lingua adamica, si ritrova nel fiammingo, dato che i cimbri discendono direttamente dai figli di Jafet, che non erano presenti sotto la torre di Babele, e quindi sono sfuggiti alla confusio linguarum. Olaus Rudbeck (Atlantica sive Manheim vera Japheti posterorum sedes ac patria, Upsalae 1675) dimostra che la Svezia (che altro non era che la mitica Atlantide) era stata sede di Jafet e della sua discendenza. Nei Prolegomena alla sua bibbia poliglotta del 1657 William Walton cita vari tentativi per provare che la lingua originaria era stata gallese, danese, tedesca, e abbiamo anche la tesi ungherese, polacca e bretone. Georg Philipp Harsdörffer (Frauenzimmer Gesprächspiel, Nürnberg 1644) afferma che la lingua tedesca parla con le lingue della natura, esprimendone tutti i suoni (tuono, grandine, ruggiti, sibili ecc.), per cui Adamo non avrebbe potuto nominare gli animali se non in tedesco. Rowland Jones (The circles of Gomer, London 1771) asserisce che l’inglese, in cui si realizza una corrispondenza tra parole e cose, è madre del greco, sorella anziana delle lingue orientali, ed era stata lingua viva degli atlantici e degli aborigeni dell’Italia, delle Gallie e della Britannia. Nel XIX secolo Antoine de Rivarol (De l’universalité de la langue française, Berlin 1784) sostiene che l’unica lingua razionale è il francese, mentre il tedesco è troppo gutturale, l’italiano troppo molle, lo spagnolo troppo ridondante e l’inglese troppo oscuro. La ricerca di una lingua razionale (ovvero di una lingua filosofica a priori), i cui simboli o ca-

Lingua perfetta ratteri rimandassero a concetti comuni a tutti gli uomini, assume varie forme. L’interesse per la tradizione ebraica ha portato la cultura rinascimentale a scoprire la tradizione cabalistica (sin dallo Sefer Jetzirah, III-VI secolo d. C. e poi nel XIII secolo con Abraham Abulafia), secondo cui la creazione è avvenuta per mezzo di una combinazione delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico. Si pensa pertanto alla possibilità un alfabeto finito che produca un numero praticamente infinito di combinazioni. Se a ogni elemento alfabetico corrispondesse un’idea, allora una lingua perfetta permetterebbe di combinare idee e di trovare connessioni tra idee non ancora considerate. Questo progetto era anche quello di Raimondo Lullo e della sua ars magna, anche se Lullo non ne sfrutta tutte le possibilità combinatorie, perché egli (usandola come modo per dimostrare agli infedeli le verità cristiane) le riduce in modo che il suo dispositivo possa solo generare proposizioni teologicamente accettabili. Però la sua proposta sarà ripresa dal lullismo rinascimentale, da Agrippa e da Bruno, e darà i più vertiginosi risultati nella speculazione leibniziana. Nel Seicento Jan Ámos Komenský (Comenio), nell’alveo della tradizione pansofica, con fini pedagogici, dapprima (Janua linguarum del 1631, un manuale per l’insegnamento del latino) cerca di raggruppare le nozioni elementari a cui le parole rinviano secondo una certa logica delle idee (creazione del mondo, elementi, regni minerale, vegetale e animale), poi in Orbis sensualium pictus quadrilinguis (Leutschoviae 1658) traccia una nomenclatura figurata di tutte le cose fondamentali del mondo e delle azioni umane. In Pansophiae Christianae liber III, del 1639-40, svolge una critica serrata dei difetti delle lingue naturali, e invoca una riforma linguistica che elimini ogni ambiguità e fissi chiaramente il senso delle parole usando un solo nome per ogni cosa. In Via lucis (Amsterodami 1668) si ha l’utopia di un «Concilio del mondo» che deve ispirare uno stato perfetto, in cui si parlerà una lingua filosofica, la «Panglossia», una lingua universale (che Comenio non costruirà mai in extenso) capace di superare i limiti politici e strutturali del latino. In essa il lessico avrebbe dovuto rispecchiare la composizione del reale, e le parole avrebbero dovuto avere un significato definito e univoco. Così partendo da un’utopia d’ispirazione rosacrociana e cercando di disegnare un’immagine del mondo in cui tutte le cose fossero 6507

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Lingua perfetta tra loro connesse secondo l’armonia di un’«immota verità», così da indurre a un’inesausta ricerca di Dio, Comenio traccia alcune linee fondamentali per quella ricerca di una lingua filosofica che sarà l’opera di utopisti inglesi dall’ispirazione assai più laica. Il loro lavoro viene anticipato da Francis Bacon, che si interessa agli ideogrammi cinesi, capaci di comunicare le stesse cose a diversi popoli orientali che pure li pronunciano diversamente. Seguono in Inghilterra un’ampia serie di tentativi per la costruzione di una caratteristica universale, come quelli di Francis Lodwick (A Common Writing, London 1647), Cave Beck (The Universal Character, London 1657), George Dalgarno (Ars signorum, London 1661), e John Wilkins (Essay Toward a Real Character, London 1668). Questi progetti, che mirano a individuare un sistema di concetti universali e a sistematizzare una sorta di sapere enciclopedico, in qualche misura corroborano le ricerche coeve di vari scienziati che, specie nell’ambito della Royal Society, iniziano a elaborare tassonomie botaniche e zoologiche, che culmineranno nelle opere di Linneo, Buffon e altri. In Francia si delinea invece la prima critica radicale delle lingue perfette. Descartes, in una lettera a Marin Mersenne, che nel 1629 gli parla di un progetto di lingua universale, risponde che sarebbe bello immaginare un sistema di idee chiare e semplici «grazie alla quale i contadini potrebbero giudicare della verità delle cose meglio di quanto non facciano oggi i filosofi». Ma egli esclude decisamente questa possibilità. Joseph-Marie Degérando, nel suo Des signes (Paris 1800), argomenterà che il tarlo segreto che rodeva tutti i tentativi di stabilire un sistema architettonicamente perfetto delle idee, fatto di mutue dipendenze e incassamenti rigorosi dal generale, era la confusione tra classificazione e divisione: in altri termini, o si avrà un dizionario logico ristretto a un campo nozionale molto limitato, o una enciclopedia non sistematica di tutte le nostre conoscenze. Questa idea corrisponde a quella di una biblioteca ideale e su tale concetto si soffermeranno sia Leibniz sia gli enciclopedisti. Leibniz pensava ancora a una lingua perfetta quando delinea la sua characteristica universalis (per cui, fissati gli atomi semantici e stabilite le regole di computazione, si potrà un giorno vedere la comunità dei dotti che siede ad un tavolo all’insegna del «calculemus» e perviene senza 6508

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errore alla verità). Ma quest’idea si applica solo al pensiero cieco (cogitatio caeca) di un calcolo puramente formale: la lingua perfetta sarà quella della logica matematica e del calcolo binario. Invece lo stesso Leibniz (nei Nouveaux essais sur l’entendement humain scritti fra il 1703 e il 1705) riconosce che, dovendo disegnare l’intero sistema del nostro sapere, avremo un’enciclopedia le cui province saranno in guerra continua perché «una stessa verità può essere posta in luoghi diversi [...] e coloro che organizzano una biblioteca non sanno spesso dove mettere alcuni libri, e restano in sospeso tra due o tre posti ugualmente convenienti». Egli così anticipa e ispira il Discours Préliminaire di D’Alembert alla Encyclopédie, dove si parlerà del «Sistema Generale delle Scienze e delle Arti» come di un labirinto, un sistema «composto di diverse branche, di cui molte si riuniscono nello stesso punto; e, così come partendo da questo punto non è possibile impegnarsi a un sol tempo in tutte le strade, è la natura dei diversi spiriti che determina la scelta. [...] Si possono dunque concepire tanti e diversi sistemi della conoscenza umana quanti mappamondi di diverse proiezioni». La critica dell’Encyclopédie pone fine al sogno della grammatica delle idee, anche se altri tentativi seguiranno, sino ai giorni nostri, quando ancora si studia la possibilità di un cosiddetto «mentalese», una lingua iscritta nelle circonvoluzioni stesse del nostro cervello, o si cercano programmi computerizzati per la traduzione interlinguistica. Nel XIX secolo decine e decine di progetti riguarderanno invece le lingue internazionali (lingue a posteriori, o lingue veicolari), come l’esperanto, il volapük, o il latino sine flexione di Peano. Questi sistemi non mettono in questione l’ordine dei concetti alla base delle varie lingue occidentali esistenti, ma si limitano a costruire un lessico e una grammatica, non pretendono di essere perfette, ma soltanto di poter essere usate con facilità da tutti i popoli. A questo proposito, già nel Des signes, Degérando ricordava, a conclusione di altre argomentazioni negative, che l’ostacolo principale stava nell’egoismo dei governi e, tornando alle ipotesi nazionalistiche, riteneva che «la nazione francese è la sola che, per la sua posizione centrale in Europa, per la natura dei suoi rapporti, per l’influenza dei suoi costumi, per la sua potenza politica» a poter aspirare a

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proporre la propria lingua come l’unico idioma universale. L’incisione in antiporta di The Universal Character di Beck mostrava un europeo che consegna il proprio progetto a un indù e a un indiano d’America, segno che già da allora la ricerca di una lingua universalmente comprensibile era solidale col progetto dell’espansione coloniale. Delormel, presentando la sua Langue Universelle alla Convenzione parla dell’ideologia rivoluzionaria e del bisogno di rendere comuni a tutti le conquiste dell’epoca dei lumi. La Pasigraphie di Des Maimieux (scritta sotto il Direttorio) non accenna più all’evangelizzazione degli orientali e degli amerindi, ma alle comunicazioni diplomatiche e militari tra Europa e Africa. Motivazioni scientifiche, politiche, commerciali e industriali sono quelle proposte da Couturat e Leau, nel 1903, per le varie lingue internazionali. Nel 1960 è anche apparso il progetto Lincos di Freudenthal, per comunicare con eventuali abitanti dello spazio. Nella Histoire critique du Vieux Testament di Richard Simon (Paris 1668) appariva però l’idea che la confusione babelica fosse stata dovuta al fatto che gli uomini dovevano nominare i vari strumenti e ciascuno li nominava a modo proprio – e in tal senso si faceva strada l’idea di un’organizzazione del lavoro costruttivo. Noël Antoine Pluche (La méchanique des langues et l’art de les einsegner, Paris 1751) ricordava che una prima differenziazione delle lingue era già iniziata ai tempi di Noè (Gn 10). Questa moltiplicazione veniva considerata come un fenomeno socialmente positivo, che aveva permesso il fissarsi degli stanziamenti e la nascita delle nazioni. Hegel (Vorlesungen über die Ästhetik, Berlin 1835-38, III, 1,1) vede l’episodio della Torre come un’esaltazione del lavoro comune. In questa visione in cui la torre sembra preannunciare la nascita dello stato etico, la confusione delle lingue è il segno che l’unità statuale non si profila come universale ma dà vita a diverse nazioni. Esiste una singolare teoria delle origini del linguaggio nell’opera di un pensatore arabo dell’XI secolo, Ibn Hazm. C’era all’inizio una lingua data da Dio mediante la quale Adamo ha potuto nominare senza ambiguità tutte le cose dell’universo, ma essa doveva comprendere tutte le lingue. La confusio linguarum ha prodotto la frammentazione di quella lingua unica in cui erano contenute tutte le lingue a venire. Il dono ricevuto da Adamo era dunque,

Linguistica diremmo oggi il multilinguismo. Che il multilinguismo sia l’unica possibilità di una comprensione tra genti diverse è oggi opinione comune in molti ambienti linguistici. U. Eco BIBL.: L. COUTURAT - L. LEAU, Histoire de la langue universelle, Paris 1903; J. CARRERAS Y ARTAU, De Ramón Lull a los modernos ensayos de formación de una lengua universal, Barcelona 1946; A. BORST, Der Turmbau von Babel, Stuttgart 1957-63; H.A. FREUDENTHAL, Lincos. Design of a Language for a Cosmic Intercourse, Amsterdam 1960; M. MONNEROT DUMAINE, Précis d’interlinguistique générale et spéciale, Paris 1960; L. FORMIGARI, Linguistica ed empirismo nel seicento inglese, Bari 1970; F. GOODMAN, Speaking in Tongues, Chicago 1972; A. BAUSANI, Le lingue inventate, Roma 1974; G. GENETTE, Mimologiques, Paris 1976; J. KNOWLSON, Universal Languages Schemes in England and France, 1680-1800, Toronto 1975; T. FRANK, Senso e significato: John Wilkins e la lingua filosofica, Napoli 1979; M. CORTI, Dante a un nuovo crocevia, Firenze 1981; M. KUNTZ, Guillaume Postel, Den Haag 1981; M. SLAUGHTER, Universal Languages and Scientific Taxonomy in the Seventeenth Century, London 1982; M. YAGUELLO, Les fous du langage, Paris 1984; F. SECRET, Les Kabbalistes chrétiens de la renaissance, nuova ed. aumentata, Milano 1985 (Paris 1964); M. BALDINI, Il linguaggio dei mistici, Brescia 1986; H. ORMSBY-LENNON, Rosicrucian Linguistics, in I. MERKEL - A. DEBUS (a cura di), Hermeticism and the Renaissance, Washington 1988; G. STRASSER, Lingua universalis, Wiesbaden 1988; C. MARRONE, Lingua universale e scrittura segreta nell’opera di Kircher, in M. CASCIATO - M.G. IANNIELLO - M. VITALE (a cura di), Enciclopedismo in Roma barocca, Venezia 1986, pp. 78-86; D. POLI, La metafora di Babele e le partitiones nella teoria grammaticale irlandese dell’Auraceipt na n-Éces, in D. POLI (a cura di), Episteme, Macerata 1989; M. IDEL, Language, Torah and Hermeneutics in Abraham Abulafia, Albany 1989; M. OLENDER, Les langues du Paradis, Paris 1989, tr. it. a cura di R. Ferrara, Le lingue del paradiso, Bologna 1991; S. GENSINI (a cura di), G.W. Leibniz, Dal segno alle lingue, Casale Monferrato 1990; R. PELLEREY, Le lingue perfette nel secolo dell’utopia, Roma-Bari 1992.; C. HAGÈGE, Le soufflé de la langue, Paris 1992; U. ECO, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari 1993. ➨ ADAMO; ARS COMBINATORIA; CHARACTERISTICA UNIVERSALIS ; COSA ; ENCICLOPEDIA / DIZIONARIO ; GRAMMATICA UNIVERSALE; LINGUA; LINGUAGGIO; LOGOS; PAROLA; TRADUZIONE.

LINGUISTICA (linguistique; Linguistik, SprachLinguistica wissenschaft; Linguistics; lingüística). – Viene di solito definita come «lo studio scientifico del linguaggio». Naturalmente il significato dato a 6509

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Linguistica «scientifico» varia considerevolmente a seconda dell’epoca storica e della prospettiva epistemologica. In italiano, oltre a linguistica, esiste anche il termine «glottologia», coniato da Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907) come calco dal tedesco Sprachwissenschaft (letteralmente «scienza del linguaggio»). In teoria, i due termini sono perfettamente sinonimi, differendo semplicemente per l’etimologia: il primo è costruito su materiale latino, il secondo su materiale greco. Di fatto, in Italia (e in Germania) si tende spesso a identificare linguistica (Linguistik) con «linguistica generale» e glottologia (Sprachwissenschaft) con «linguistica storica». SOMMARIO: I. Dall’antichità agli inizi dell’Ottocento - II. La linguistica dell’Ottocento - III. Saussure e la linguistica strutturale - IV. La linguistica del secondo Novecento. I. DALL’ANTICHITÀ AGLI INIZI DELL’OTTOCENTO. – La riflessione sul linguaggio caratterizza quasi tutte le culture, da quella cinese a quella indiana a quelle ebraica e araba. Nella tradizione occidentale, i primi a occuparsi del linguaggio furono i filosofi greci, principalmente Platone, Aristotele e gli stoici. A questa tradizione filosofica di studi sul linguaggio, si aggiunge, qualche secolo più tardi, quella iniziata dai grammatici alessandrini. Sul modello delle grammatiche greche si sviluppa in epoca imperiale anche una tradizione di grammatiche latine, la più importante delle quali (anche per l’influsso che avrà nelle epoche successive) sono le Institutiones Grammaticae di Prisciano da Cesarea (V-VI sec. d. C.), un grammatico latino vissuto a Costantinopoli. Un elemento che nettamente differenzia la tradizione filosofica dalla tradizione grammaticale è la mancanza in quest’ultima di ogni tipo di analisi della frase, che invece caratterizza la prima fin dai suoi inizi (Sofista di Platone e De interpretatione di Aristotele): nei grammatici antichi, i concetti di soggetto e predicato sono assenti. Tradizione filosofica e grammaticale si congiungono in epoca medievale, soprattutto a partire dal XII sec. e fino agli inizi del XIV, con lo sviluppo della cosiddetta «grammatica speculativa», che si potrebbe sinteticamente definire come una rilettura di Prisciano attraverso Aristotele. La grammatica speculativa, e ogni tipo di grammatica filosofica in generale, entra in crisi con l’umanesimo, quando nuovamente tornano in auge grammatiche di tipo pratico, sia del 6510

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latino, che si ricomincia a scrivere nella sua forma classica, libera cioè dalla pretesa «barbarie» del latino medievale, sia, poco più tardi, anche delle lingue volgari. Una linguistica fondata su considerazioni logiche e filosofiche riappare a metà del Seicento, con la Grammaire générale et raisonnée di Port-Royal. Nella stessa epoca, anche altri filosofi dedicano buona parte delle loro riflessioni al linguaggio: è il caso di Bacone, di Hobbes, di Leibniz, di Locke (il quale dedica al linguaggio l’intero terzo libro del Saggio sull’intelletto umano), di Vico. In molti di questi autori (e ciò contrasta con la prospettiva rigorosamente acronica di Port-Royal) grande interesse è rivolto ai problemi riguardanti lo sviluppo e la genesi del linguaggio. Quest’ultimo problema, in particolare, sarà al centro dell’attenzione di molti filosofi del Settecento, da Rousseau a Condillac. II. LA LINGUISTICA DELL’OTTOCENTO. – All’inizio dell’Ottocento, la linguistica si costituisce come disciplina scientifica autonoma (nel senso di essere dotata di cattedre universitarie proprie); in quest’epoca, a cui risale il termine stesso linguistica, viene a chiarirsi definitivamente il suo statuto di disciplina descrittiva e non normativa. L’impulso a questa svolta viene dato dalla cosiddetta «scoperta del sanscrito», lingua che comincia ad essere nota in Occidente dalla fine del Settecento, a seguito della conquista inglese dell’India. Il sanscrito attrae subito l’attenzione di numerosi studiosi europei, in particolare del romanziere e filosofo tedesco F. Schlegel (1772-1829): le somiglianze del sanscrito con le lingue europee, sia classiche che moderne, appaiono straordinarie, e suggeriscono l’idea di una mitica unità preistorica dei popoli che vanno dall’Atlantico fino al Bengala. L’interesse si sposta quindi gradatamente, e forse impercettibilmente, dall’origine del linguaggio in quanto tale alla ricerca della lingua che sarebbe stata all’origine delle varie lingue attestate tra India ed Europa, e che verrà appunto detta, verso il 1830, «indoeuropea». Il primo studioso a compiere una comparazione sistematica tra il sanscrito e varie lingue europee è il tedesco F. Bopp (1791-1867). Decisiva, comunque, per lo sviluppo della linguistica anche a livello istituzionale è la figura di W. von Humboldt (17671835), poligrafo, uomo politico ed egli stesso autore di fondamentali studi sul linguaggio, che nel 1821 crea, presso l’università di Berli-

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no, la prima cattedra universitaria di linguistica, chiamando il Bopp a ricoprirla. Da quel momento, la comparazione delle lingue indoeuropee e lo studio del loro mutamento (linguistica detta appunto «storico-comparativa») conosce uno sviluppo tumultuoso. Alla metà dell’Ottocento, A. Schleicher (1821-68) traccia l’«albero genealogico» delle lingue indoeuropee, rappresentate come una famiglia che, dall’antenato comune «indoeuropeo», si suddivide in una serie di rami, corrispondenti ai vari gruppi linguistici indiano, iranico, greco, germanico ecc., a loro volta divisi in sottogruppi. Schleicher considera l’indoeuropeo come una lingua al pari delle altre, semplicemente non attestata, ma ricostruibile in base alla comparazione, tanto da scrivere addirittura un breve testo in «indoeuropeo». La fiducia di Schleicher nella ricostruzione e il suo modello organicistico e naturalistico del linguaggio non sono più condivisi dalla generazione di studiosi successiva alla sua, quella dei cosiddetti «neogrammatici» (tra cui ricordiamo K. Brugmann, B. Delbrück e H. Paul), che considerano il linguaggio un fatto eminentemente psicologico. Essi traggono profitto dai grandi risultati ottenuti dalla linguistica storico-comparativa, alcuni dei quali dovuti a loro stessi, risultati che mostrano l’esistenza di sistematiche regolarità nello sviluppo storico delle lingue, per formulare la tesi della «ineccepibilità delle leggi fonetiche»: «ogni mutamento fonetico, nella misura in cui avviene meccanicamente, si compie secondo leggi ineccepibili». Questo assunto fu oggetto di aspre controversie negli anni intorno al 1880, ma è un dato di fatto che la sistemazione della linguistica storico-comparativa indoeuropea nella forma datale dai neogrammatici è ancor oggi sostanzialmente accettata. III. S AUSSURE E LA LINGUISTICA STRUTTURALE . – All’inizio del Novecento, lo svizzero F. De Saussure (1857-1913), in alcuni corsi tenuti all’Università di Ginevra, affronta alcuni problemi metodologici ed epistemologici relativi allo studio del linguaggio, contribuendo così in modo decisivo allo sviluppo della «linguistica generale» (tali corsi verranno pubblicati postumi, in forma rimaneggiata, col titolo di Cours de linguistique générale, Paris 19222). Tra l’altro, Saussure osserva che la linguistica storico-comparativa è solo uno dei due «assi» secondo i quali deve essere studiato il linguaggio, ossia quello diacronico. L’altro asse è quel-

Linguistica lo che considera gli elementi di una lingua a un dato momento del tempo ed è detto da Saussure sincronico. Occorre dunque distinguere una linguistica «diacronica» da una «sincronica». Dal punto di vista sincronico, gli elementi si definiscono in base al loro rapporto reciproco: la lingua è cioè un sistema. Questa visione «sistemica» della lingua è all’origine di quel movimento, sviluppatosi a partire dagli anni venti del Novecento, noto come linguistica «strutturale» o «strutturalista». Tra i più importanti linguisti di orientamento strutturalista, si possono ricordare i russi emigrati N. S. Trubeckoj (1890-1938) e R. Jakobson (1896-1982), appartenenti negli anni trenta al Circolo di Praga, il danese L. Hjelmslev (18991965), gli statunitensi E. Sapir (1884-1939) e L. Bloomfield (1887-1949). Una delle nozioni più tipiche elaborate dalla linguistica strutturale è senz’altro quella di fonema, che rivela in modo chiarissimo la concezione differenziale e oppositiva degli elementi del linguaggio tipica del movimento strutturalista. L’elaborazione di tale concetto è dovuta essenzialmente al Trubeckoj, a cui si deve anche la distinzione tra «fonetica» (scienza dei suoni dal punto di vista fisico e articolatorio) e «fonologia» (scienza dei suoni dal punto di vista funzionale). Il fonema è un’unità astratta, che si contrappone all’unità concreta suono (o fono). I suoni sono sempre diversi, in quanto ciascun parlante, anzi lo stesso parlante, produce in momenti diversi suoni fisicamente diversi. Suoni diversi appartengono allo stesso fonema se il loro scambio non produce un mutamento di significato; appartengono invece a fonemi diversi se questo scambio produce tale mutamento. Ad es., in italiano l e r sono fonemi: lana si oppone a rana. Non si ha invece una differenza di significato se la r viene pronunciata “all’italiana” (tecnicamente: vibrante apicale) oppure «alla francese» (vibrante uvulare): sono suoni diversi dal punto di vista articolatorio, ma dal punto di vista funzionale non distinguono significati (rana viene sempre compresa allo stesso modo, con entrambe le pronunce della r). IV. LA LINGUISTICA DEL SECONDO NOVECENTO. – La linguistica strutturale considerava essenzialmente il linguaggio come un’entità autonoma, cioè non come l’estrinsecazione di meccanismi psichici e/o fisiologici. La situazione venne radicalmente a mutare con la linguistica generativa di N. Chomsky (n. 1928) e della sua 6511

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Linguistica generativa scuola, in cui il linguaggio viene considerato una capacità cognitiva specifica, nel doppio senso di distinta da altre capacità e di propria della specie umana. L’impatto della linguistica generativa è stato enorme, ma questo non ha affatto significato che essa sia stata accettata dalla maggioranza degli altri linguisti: piuttosto, molte altre teorie si sono sviluppate come alternative ad essa. Molti studiosi, infatti, hanno rifiutato la doppia «specificità» ascritta da Chomsky al linguaggio, sostenendo che esso non è una capacità specifica, ma deriva da altre capacità cognitive più generali, e/o che non è esclusivamente propria della specie umana, ma comune, sia pure in forme più ridotte, anche ad altre specie animali. Altri hanno poi criticato la scarsa, se non nulla, considerazione dell’aspetto sociale del linguaggio da parte della linguistica generativa (posizione, questa, comune anche alla maggioranza delle scuole strutturaliste). Altre dispute sono poi sorte all’interno della stessa scuola generativa, che si è scissa, a partire dalla fine degli anni sessanta del Novecento, in varie correnti, più o meno critiche nei confronti delle posizioni del fondatore, il quale continua comunque a tutt’oggi a sviluppare le proprie ricerche. È comunque un fatto indiscutibile che la linguistica generativa abbia radicalmente modificato il panorama degli studi sul linguaggio rispetto alle epoche precedenti: tra l’altro, il suo insistere sul linguaggio umano come capacità cognitiva, con una base biologica, ha enormemente favorito lo sviluppo di discipline «di frontiera», come la psicolinguistica (studio dell’acquisizione, della percezione e della produzione del linguaggio) e la neurolinguistica (studio dei disturbi del linguaggio), la cui data di nascita è precedente a quella della linguistica generativa, ma che prima del sorgere di quest’ultima erano sostanzialmente estranee all’interesse dei linguisti “professionali”, mentre oggi si avviano a diventare sempre più centrali. G. Graffi BIBLINGUISTICA: J. LYONS, Introduction to Theoretical Linguistics, Cambridge 1968, tr. it.di E. Mannucci - F. Anti, Introduzione alla linguistica teorica, Bari 1971; G. C. LEPSCHY (a cura di), Storia della linguistica, 3 voll., Bologna 1990-94; R. H. ROBINS, A Short History of Linguistics, London 19974, tr. it. a cura di A. Bisetto, Storia della linguistica, Bologna 20062; G. GRAFFI - S.

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SCALISE, Le lingue e il linguaggio. Introduzione alla linguistica, Bologna 20032. ➨ GRAMMATICA; LINGUISTICA GENERATIVA.

LINGUISTICA GENERATIVA (generative Linguistica generativa linguistics; generative Linguistik; lingüística generativa). – Teoria linguistica elaborata dallo studioso americano N. Chomsky (n. 1928) e da vari suoi allievi. Stretto collaboratore di Chomsky, soprattutto per quanto riguarda la parte fonologica della linguistica generativa, è stato fin dall’inizio M. Halle (n. 1923). La linguistica generativa divenne nota al pubblico internazionale grazie alla pubblicazione del volume di Chomsky, Syntactic Structures (Den Haag 1957; Le strutture della sintassi, a cura di F. Antinucci, Roma-Bari 1970). Successivamente, essa conobbe vari sviluppi e revisioni, soprattutto negli ulteriori saggi di Chomsky Aspects of the Theory of Syntax (Cambridge, Massachusetts, 1965; in Saggi linguistici II: la grammatica generativa trasformazionale, tr. it. di A. De Palma - C. Ingrao - A. Woolf De Benedetti, Torino 1970), Essays on Form and Interpretation (New York 1977, Forma ed interpretazione, a cura di G. Graffi - L. Rizzi, Milano 1980), Lectures on Government and Binding (Dordrecht 1981), Knowledge of Language (New York 1986, La conoscenza del linguaggio: natura, origine e uso, a cura di G. Longobardi - M. Piattelli Palmarini, Milano 1989), The Minimalist Program (Cambridge [Massachusetts] 1995). Queste successive rielaborazioni hanno riguardato soprattutto gli aspetti tecnici della linguistica generativa, mentre la sua impostazione concettuale di fondo può dirsi già definita a partire dalla metà degli anni sessanta del Novecento. Con «generativo» si intende «esplicito». Compito della linguistica generativa è infatti quello di descrivere in modo formale ed esplicito le intuizioni del parlante nativo in merito alla sua lingua: intuizioni di buona formazione o «grammaticalità» (ad es., una frase italiana come Lo vado a trovare è avvertita come ben formata dal parlante italiano, una come Lo penso di trovare no; l’asterisco preposto indica la cattiva formazione o «agrammaticalità» della seconda frase), di sinonimia (ad es., Mario ha visto Pietro e Pietro è stato visto da Mario sono sinonime), di ambiguità (ad es., Ho parlato di alcuni problemi con un collega può voler dire sia che ho parlato assieme a un collega di alcuni problemi, sia che ho parlato di alcuni problemi che ho con un mio collega). Intuizioni di

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questo genere manifestano la «competenza» del parlante, ossia la «conoscenza implicita» che egli ha della sua lingua. Compito del linguista è rendere esplicita tale conoscenza. Dalla «competenza» deve essere tenuta distinta l’«esecuzione», ossia l’uso della lingua nelle varie situazioni concrete. La linguistica generativa vuole poi rendere conto di come tale competenza sia acquisita dal parlante, ossia di come il parlante acquisisca la propria lingua materna. L’ipotesi «empirista» che tale acquisizione avvenga esclusivamente per effetto dell’insegnamento da parte dei genitori e/o dell’imitazione del comportamento dei parlanti adulti è respinta dalla linguistica generativa sulla base di varie considerazioni. 1) L’acquisizione della lingua da parte del bambino avviene in un lasso di tempo sorprendentemente breve, e in età molto precoce, quando lo sviluppo intellettivo è ancora alquanto ridotto. 2) Il bambino produce una quantità di frasi nuove, mai udite prima né dai genitori né da altri parlanti. 3) Il parlante nativo di una qualsiasi lingua è capace di riconoscere determinati aspetti della lingua stessa che non può ricavare dall’esperienza: ad es., la grammaticalità o l’agrammaticalità di frasi estremamente rare e arzigogolate, che non vengono mai utilizzate in un contesto di conversazione. Non essendo quindi questa capacità ricavabile dall’esperienza, è necessario postulare che essa derivi da principi già presenti nella mente, ossia innati. Quest’ultimo argomento, detto della «povertà dello stimolo», è quello decisivo per l’assunzione, tipica della linguistica generativa, che ogni essere umano in quanto tale è dotato fin dalla nascita di un dispositivo, detto «Grammatica Universale» (GU), che gli permette di acquisire una qualunque lingua umana. Questo dispositivo è «specifico» in un duplice senso: in quanto è esclusivo della specie umana e in quanto è specificamente preposto all’acquisizione del linguaggio. La diversità che effettivamente si osserva tra le varie lingue umane è spiegata ricorrendo al concetto di «parametro». Un parametro è una scelta non ancora fissata alla nascita, ma lasciata aperta dalla GU e che deve essere determinata in base all’esperienza. Ad es., alcune lingue, come l’inglese o il francese, richiedono che il pronome soggetto sia obbligatoriamente realizzato nelle frasi di modo finito; altre lingue, come l’italiano o lo spagnolo, non lo richiedono. La GU lascia quindi aper-

Linguistica storico-comparativa ta la scelta di realizzare obbligatoriamente o meno il pronome soggetto: se un bambino cresce in un ambiente anglofono o francofono, assegnerà a questo parametro un valore positivo; se cresce in un ambiente italofono o ispanofono, un valore negativo. In tutte le sue successive formulazioni, la linguistica generativa è sempre caratterizzata 1) dal ruolo centrale assegnato alla sintassi e 2) dall’assunzione di diversi «livelli di rappresentazione», il numero e la denominazione dei quali è variato a seconda delle diverse fasi della teoria. Negli anni sessanta la sintassi si articolava in due livelli, la «struttura profonda» e la «struttura superficiale», il primo dei quali rappresentava l’ingresso dell’«interpretazione semantica», e il secondo quello dell’«interpretazione fonetica». Nell’ultima versione della linguistica generativa, nota come «programma minimalista», i livelli di struttura profonda e struttura superficiale non hanno più uno statuto proprio; la sintassi è definita come il «sistema computazionale» che mette in relazione tra loro le due «interfacce» del linguaggio con gli altri sistemi cognitivi: esse sono la «Forma Fonetica» (l’interfaccia con l’articolazione e la percezione dei suoni) e la «Forma Logica» (l’interfaccia con l’apparato dei concetti e delle intenzioni). G. Graffi BIBL.: J.A. FODOR - T.G. BEVER - M.F. GARRETT, The Psychology of Language. An Introduction to Psycholinguistics and Generative Grammar, New York 1974; V.J. COOK - M. NEWSON, Chomsky’s Universal Grammar. An Introduction, Oxford 19962 (La grammatica universale: introduzione a Chomsky, a cura di A. Moro, Bologna 1996).

LINGUISTICA Linguistica storico-comparativaSTORICO-COMPARATIVA. – La linguistica storico-comparativa («glottologia» nella tradizione accademica italiana) ebbe inizio scientifico in una breve opera di F. Bopp che, confrontando nel 1816 desinenze verbali di lingue che dal 1830 per la loro area sarebbero state chiamate indo-europee, ne confermò l’origine comune, presunta nel 1786 quando Sir W. Jones, giudice della Compagnia delle Indie a Calcutta, scoprì il sanscrito, comparandone il lessico fondamentale (numeri, termini di parentela e della vita quotidiana, verbi più comuni) con quello di lingue classiche note e giudicandolo la lingua se non più antica di greco, latino, iranico antico (o zendo, da poco scoperto), lituano, gotico e te6513

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Linguistica testuale desco, almeno quella che meglio ne rappresentava caratteristiche formali e lessicali essenziali e, quindi, originarie. Le corrispondenze fonetiche tra le lingue germaniche e altre indoeuropee furono precisate nel 1821 da J. Grimm in una «legge fonetica» che le accomunò definitivamente al gruppo da allora definito a lungo indo-germanico, con una metodologia che, realizzata grazie a una continua documentazione storica e arricchita da scoperte anche recenti, si sviluppò ben presto da comparativa a ricostruttiva sino a ipotizzare strutture fonetiche, grammaticali e lessicali dell’originario indoeuropeo, nelle opere di E. Benveniste (1935, 1969) e J. Kurylowicz (1956) e, insieme, a studiare la storia delle lingue attraverso loro fasi temporali e varianti dialettali. Fu chiaro da allora che le lingue cambiano con processi continui e regolari: lo dimostrano anche i mutamenti delle vocali lunghe inglesi che, dalla metà XV secolo, opposero la loro nuova pronuncia alla grafia, rimasta quella precedente. Tra i cambi morfologici più frequenti non solo in lingue indoeuropee, la perdita della declinazione nominale fondata sui «casi», la diffusione dell’articolo e la formazione di tempi verbali composti del passato, del futuro e del condizionale, evidenti anche in quasi tutte le lingue derivate dal latino (o romanze). Il metodo storico-comparativo, connesso all’evoluzionismo darwiniano da A. Schleicher nel 1861 con la sua «teoria dell’albero genealogico» delle lingue indoeuropee e la concezione della lingua come organismo che nasce, si sviluppa e muore, dopo di lui fu esteso ai venti gruppi (o alberi) linguistici del mondo che ne raccoglierebbero le quasi cinquemila lingue. Tra i primi individuati dopo l’indoeuropeo furono l’ugro-finnico e il semitico: ancora si discute se le lingue dell’America precolombiana, o amerinde, derivino da un solo ceppo. Una notevole svolta metodologica fu apportata dal metodo storico-geografico di H. Schuchardt (1868) e dalla «teoria delle onde» di J. Schmidt (1872), secondo la quale non esistono le lingue ma solo i fenomeni linguistici e le innovazioni sorgono al centro di un’area mentre le periferie sono conservative – principio, questo, verificato dalla «geolinguistica» in atlanti linguistici e continuata in Italia dalla «neolinguistica» e dalle «norme areali» di M. Bartoli (1825, 1928, 1945) e, in tempi più recenti, da G. Devoto e V. Pisani e suoi allievi. Per la sua intensa e paradigmatica attività, la linguistica 6514

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storico-comparativa, oggi affiancata da altri settori della linguistica, ne costituisce tuttavia l’aspetto ancora più certo e verificabile. R. Ambrosini

LINGUISTICA TESTUALE (Text Linguistics; Linguistica testuale Textlinguistik; linguistique textuelle; lingüística textual). – La linguistica testuale (o linguistica del testo) è un settore recente della linguistica, sviluppatosi a partire dagli anni sessanta del secolo scorso. Essa è nata in Europa, conquistando rapidamente un posto di assoluto rilievo nel panorama internazionale della disciplina. Parte dall’assunto che l’unità fondamentale del linguaggio sia il testo, piuttosto che l’enunciato. Tale assunto è motivato empiricamente dalla constatazione che il parlante è in grado di cogliere la coerenza di un enunciato rispetto ad altri enunciati, quindi di produrre e comprendere un discorso, mettendo in atto strategie verbali che collegano un enunciato a un altro (coesione) e alla/e situazione/i a cui il discorso stesso fa riferimento (deissi). Secondo la linguistica testuale, le dimensioni della coerenza e della coesione distinguono la struttura del testo da quella dell’enunciato e portano alla formulazione di una grammatica testuale che si affianca a quella frasale. Gli elementi linguistici che hanno una valenza testuale sono molteplici. In primo luogo, abbiamo i connettivi (dunque, allora, se, perché ecc.) e i nominali forici (pronomi o sostantivi), che consentono di istituire catene tra i referenti testuali, i. e. gli individui e gli eventi di cui si parla nel testo. In secondo luogo, abbiamo gli elementi deittici (ancora, ad esempio, i pronomi, avverbi di tempo e di luogo ecc.), tra cui spicca il tempo verbale. Al tempo verbale sono state dedicate numerose ricerche (ricordiamo H. Weinrich, Tempus. Besprochene und erzählte Welt, Stuttgart, 1964; tr. it. di M.P. La Valva, Tempus: le funzioni dei tempi nel testo, Bologna 1978), proprio come elemento caratterizzante della testualità. Questo aspetto era stato formalizzato già da H. Reichenbach (Elements of Symbolic Logic, New York 1947, § 51), che aveva dimostrato come per l’analisi del tempo verbale fosse necessario introdurre, oltre al tempo in cui si svolge l’evento denotato e a quello in cui avviene l’enunciazione, anche il tempo del discorso, cioè l’ancoraggio temporale costruito internamente al discorso stesso.

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Nell’analisi del testo T.A. van Dijk (Some Aspects of Text Grammars, The Hague - Paris 1972) ha introdotto l’importante distinzione tra «macrostruttura» e «microstruttura». La prima «consists of global semantic representations» che definiscono le strutture concettuali soggiacenti al testo; essa può essere rappresentata come una complessa rete di relazioni, tramite la logica dei predicati. La seconda «consists of an ordered n-tuple of subsequent sentences» (p. 17) e può essere descritta con grammatiche frasali. Lo studio delle strutture concettuali soggiacenti al testo ha avuto un impulso notevole dalle ricerche di linguistica computazionale e di intelligenza artificiale. In particolare, M. Minsky (A Framework for Representing Knowledge, in P. Winston (a cura di), The Psychology of Computer Vision, New York 1975, pp. 211-277) ha elaborato il concetto di frame: un frame è una struttura di conoscenze che il parlante/ascoltatore ha in memoria e possiede le caratteristiche della stabilità e dell’usabilità per la costruzione della coerenza testuale. Su questa linea, R. Schank e R. Abelson (Scripts, Plans, Goals and Understanding, Hillsdale [New Jersey] 1977) hanno introdotto i concetti di «piano», insieme generale di azioni rivolte a uno scopo, e di «copione», «piano» stereotipato, ad esempio l’insieme delle azioni e delle aspettative d’azione relative all’«andare al ristorante». Un’altra linea di ricerca nella linguistica testuale che ha avuto origine negli Stati Uniti è quella che va sotto il nome di «analisi del discorso» (discourse analysis). Il precursore è stato Z. Harris, che ha applicato alla descrizione delle relazioni tra frasi i metodi della linguistica distribuzionalista. Negli studi di R. Longacre (The Grammar of Discourse, New York 1985) e J.E. Grimes (The Thread of Discourse, The Hague - Paris 1975) sono stati trattati e descritti in modo approfondito gli elementi linguistici che caratterizzano il testo, tra cui, in particolare, il tempo e la modalità. Accanto a questi studi, è necessario ricordare il cospicuo lavoro condotto in ambito semiotico. Nella prospettiva delineata da R. Barthes in Eléments de sémiologie (Paris 1964; tr. it. A. Bonomi, Elementi di semiologia, Torino 1966) la semiologia ha svolto il ruolo di «parte della linguistica: e precisamente quella parte che ha per oggetto le grandi unità significanti del di-

Linguistica testuale scorso» (p. 15), interpretando oggetti verbali complessi come il racconto, la conversazione, il mito, il giornale ecc., con lo scopo di descrivere e spiegare i processi di significazione e ricollegandosi a ricerche antropologiche come quelle di C. Lévi-Strauss. In questo ambito, oltre ai contributi dello stesso Barthes, ci limitiamo a segnalare i fondamentali apporti di A.J. Greimas, J. Lotman e U. Eco. A. Greimas (Du sens, Paris 1970, Del senso, tr. it. di S. Agosti, Milano 1974; Du sens II, Paris 1983, Del senso II, tr. it. a cura di P. Magli e M.P. Pozzato, Milano 1985) ha elaborato un complesso modello di grammatica narrativa che descrive il percorso generativo da un livello profondo a un livello superficiale. Al livello profondo è presente un «quadrato» logico-semiotico, che codifica le operazioni astratte di affermazione e negazione; attraverso un processo di conversione, si passa al livello superficiale, dove sono realizzate le concrete strutture narrative in cui si trovano i partecipanti (gli attanti), le azioni, le modalità, gli oggetti e i valori. Eco ha studiato il ruolo attivo del fruitore del testo, elaborando il concetto di «lettore modello» (Lector in fabula, Milano 1979), e l’importanza dei sistemi di conoscenze implicati nella produzione e comprensione del testo (la cosiddetta «enciclopedia», Trattato di semiotica generale, Milano 1975). A questo problema è dedicata la riflessione di Lotman, che ha elaborato, in chiave antropologica, il concetto di «semiosfera» ed ha fornito importanti analisi di testi letterari (Testo e contesto, Roma-Bari 1980, La semiosfera, Venezia 1985). L’analisi semiotica ha posto in rilievo anche un aspetto spesso trascurato nella linguistica testuale, il rapporto emozionale che si istituisce tra il testo e chi lo produce o ne fruisce. Un esempio classico di queste ricerche è Le plaisir du texte (Paris 1973, tr. it. L. Lonzi, Il piacere del testo, Torino 1975) di Barthes. M. Castelli BIBL.: Z. HARRIS, Discourse Analysis, Den Haag - Paris, 1963; J.S. PETÖFI - H. RIESER (a cura di), Studies in Text Grammar, Dordrecht 1974; M.A.K. HALLIDAY - R. HASAN, Cohesion in English, London 1976; M.E. CONTE (a cura di), La linguistica testuale, Milano 1977; R.A. DE BEAUGRANDE - W.U. DRESSLER, Einführung in die Textlinguistik, Tübingen 1981, tr. it. di S. Muscas, Introduzione alla linguistrica testuale, Bologna 1984); T.A. VAN DIJK (a cura di), Handbook of Discourse Analysis, Orlando 1985, 4 voll.; J. FONTANILLE, Sémio-

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Linke tique du discours, Paris 1999; M.P. POZZATO, Semiotica del testo, Roma 2001. ➨ ENUNCIATO; GRAMMATICA; LINGUISTICA; SENSO; TESTO.

LINKE, PAUL FERDINAND. – Psicologo e filosoLinke fo, n. a Stassfurt il 15 mar. 1876, m. a Brannenburg a. I. il 19 lug. 1955. Si laureò a Lipsia nel 1901 e dal 1907 fu professore all’Università di Jena. Fu assiduo collaboratore, fin dai primi numeri, del «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», fondato a Halle nel 1913 come organo della Scuola fenomenologica. Insieme a O. Kraus, Fr. Lipsius e J. Petzoldt partecipò alla cosiddetta «Sessione del come-se» che si tenne a Halle nel maggio del 1920 e che suscitò un vasto interesse per la discussione che vi ebbe luogo sulla teoria della relatività nei suoi rapporti con la filosofia del «come-se». Scritti: Humes Lehre vom Wissen, Leipzig 1901; Die stereoskopalen Täuschungen und das Problem des Sehens von Bewegungen, 1908; Die phänomenale Sphäre und das reale Bewusstsein, Halle 1912; Phänomenologie und Experiment in der Frage der Bewegungsauffassung, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», 1916; Das Recht der Phänomene, in «Kantstudien», 21 (1917); Grundfragen der Wahrnehmungslehre. Untersuchungen über die Bedeutung der Gegenstandstheorie und Phänomenologie für die experimentelle Psychologie, München 1918, 19292; Bild und Erkenntnis, in «Philosophischer Anzeiger», 1-2 (1926); Gegenstandsphänomenologie, in «Philosopische Hefte», 2 (1930); Das Absolute und seine Erkenntnis, Leipzig 1935; Verstehen, Erkennen und Geist, ivi 1936; Warum philosophische Wissenschaft?, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 1953, pp. 551-570; Über Fragen der Logik, ibi, pp. 354-359; Was ist Logik?, in «Wissenschaftliche Zeitschrift der Fr.-Schiller-Univ.-Jena», 1953-1954, pp. 179-190; Niedergangserscheinungen in der Philosophie der Gegenwart. Wege zu ihrer Überwindung, München-Basel 1961. Dal 1938 diresse le «Abhandlungen zur begründenden Philosophie». Linke si avvicina alla fenomenologia di Husserl muovendo dalla psicologia sperimentale, e pone il metodo fenomenologico a servizio di questa psicologia: essa (come è detto nelle Grundfragen) ha estremo bisogno di una chiarificazione di principio, in quanto, anche concesse le sue conquiste nelle questioni specifi6516

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che, le mancano le posizioni centrali ben definite, che Linke vede nella dottrina dell’intenzionalità della coscienza. Egli muove quindi dalla ricerca del carattere psichico che si trova nei contenuti delle sensazioni, nella natura dell’io e nell’essenza degli atti visivi e uditivi. Definisce la percezione sensibile come «percezione esteriore», vale a dire percezione di oggetti individuali non psichici, anche se essi non possono d'altronde dirsi «reali» in senso fisico, essendo al contrario solo «soggettivi». L'io dipendente da questo complesso sensibile, è dunque una «formazione non indipendente» e dati non indipendenti sono quindi anche le esperienze di questo io. L'esigenza dell’analisi di questi dati oggettivi e della disposizione dell’io ad azioni future spinge Linke a sostituire all’analisi husserliana dell’atto un'analisi dell’oggetto. Le categorie compaiono, in quest'analisi, non come esistenti nella pura ragione, bensì in una primaria regione del dato oggettivo, la quale si manifesta astraendo da ogni realtà osservabile. N. Merker BIBL.: R. FURTH - O. KRAUS, Naturwissenschaft und Metaphysik, I, Brünn-Leipzig 1938; J.H. HORN, Beiträge zur Diskussion innerhalb der Fachrichtung Philosophie, III: Über die Logik. Eine Auseinandersetzung mit der Logik-Auffassung P. F. Linkes, in «Wissenschaftliche Zeitschrift der Fr.-Schiller-Univ.-Jena», 19541955, pp. 389-393; 1955-1956, pp. 591-603; H. DEMPE, P. F. Linke. Ein Leben für Philosophieren im sokratischen Geiste, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 1957, pp. 262-275.

LINNEO, CARLO (Carl von Linné). – NaturaliLinneo sta svedese, n. il 23 magg. 1707 a Rashult (Smaland), m. il 10 genn. 1778 a Upsala. Studiò medicina e scienze naturali a Lund e a Upsala: compì successivamente viaggi in Lapponia (ove studiò la flora), in Olanda, dove si laureò in medicina nell’università di Hardewijk, in Inghilterra e in Francia. Ritornato in Svezia, fu nominato nel 1747 professore di anatomia e medicina a Upsala e nel 1742 professore di botanica. Alcuni suoi scritti furono ripubblicati nel 1907 dall’accademia svedese delle scienze. Le scienze naturali, e in particolare la botanica, devono a Linneo il primo tentativo di classificazione sistematica e l’introduzione di un linguaggio tecnico che conserva ancor oggi generalmente la sua validità. Nella descrizione delle specie vegetali egli adottò il metodo del-

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Lippert

la diagnosi, cioè della ricerca e della descrizione, in una successione determinata e sempre eguale, delle singole parti delle piante; introdusse inoltre la nomenclatura binaria, indicando gli esseri viventi con il nome del genere e quello della specie (p. es., felis catus, viola tricolor). II sistema classificatorio linneano nella botanica (già delineato nello Hortus Uplandicus, e poi ripreso nel Systema Naturae) si fonda sui caratteri degli organi di riproduzione delle piante, e in particolare sul numero degli stami. Il concetto di specie non ha però per Linneo solo una funzione classificatoria: l’enumerazione delle specie è l’enumerazione di entità reali, create ab initio dalla volontà divina e non suscettibili di modificazioni. È contro questo concetto di specie che si rivolgerà la critica evoluzionistica.

va dalle riflessioni di Linsky sull’esempio «suo marito è gentile con lei». Immaginiamo che la frase sia proferita di fronte all’amante (gentile) di una signora, e assumiamo che il marito non sia gentile: la frase è vera o falsa? Dipende da come la interpretiamo: se pensiamo alla descrizione («suo marito») è falsa; se però pensiamo all’uso fatto nel contesto per indicare l’amante è vera. È comunque un caso in cui occorre distinguere diversi usi delle descrizioni. In Names and Descriptions (Chicago 1977) e in Oblique contexts (Chicago 1983) Linsky sviluppa la sua visione dei contesti opachi, discutendo le diverse posizioni in campo, da Frege, Russell e Quine a Dummett e Kripke. Pur non accettando in pieno le analisi di Dummett, Linsky critica la visione di Kripke e la sua interpretazione di Frege.

F. Barone BIBL.: Hortus Uplandicus, Upsaliae 1731; Systema Naturae, sive regna tria Naturae, systematice proposita, per classes, ordines, genera et species, Holmiae 1766-6812 (Lugduni Batavorum 1735), 3 voll.; Genera plantarum earumque characteres naturales, secundum numerum, figuram, situm et proportionem omnium fructificationis partium, Holmiae 1737; Classes plantarum, seu Systema plantarum, Holmiae 1738; Materia medica, Upsalaiae1749-52; Philosophia botanica, in qua explicantur fondamenta botanica, Holmiae 1757; Species plantarum, Holmiae 1753, 2 voll. Su Linneo: T.M. FRIES, Linné, Stockholm 1903, 2 voll., tr. ingl. di B.D. Jackson, Linnaeus, the Story of His Life, London 1923; S. LINDROTH, Two Centenaries of Linnaean Studies, in Bibliography and Natural History, Lawrence (Kansas) 1966, pp. 127-149; H. GOERKE, Carl von Linnè, Stuttgart 1966; K.R.V. WILKMAN, Lachesis and Nemesis, Stockholm 1970; W. BLUNT, The Compleat Naturalist. A Life of Linné, London 1971; J.L. LARSON, Reason and Experience. The Representation of Natural Order in the Work of Carl von Linné, Berkeley 1971; F.A. STAFLEU, Linné and the Linnaeans. The Spreading of Their Ideas in Systematic Botany, Utrecht 1971; S. LINDROTH, Linné, in Dictionary of Scientific Biography, vol. VIII, New York 1973, pp. 374-381.

C. Penco

LIPEN, MARTIN (Lipenius). – Bibliografo, n. a Lipen Görtz (presso Brandeburgo) l’11 nov. 1630, m. a Lubecca il 6 nov. 1692. Fu direttore e insegnante in vari collegi (Halle, Stettino, Lubecca). Poligrafo copioso, scrisse opere di storia e di cultura (elenco in J.H. von Seelen, Athenae Lubecenses, Lubecae 1719, vol. I, pp. 88-97) e una grandiosa raccolta bibliografica, pubblicata a Francoforte sul Meno con il titolo Bibliotheca realis, divisa in 4 parti: juridica (1679; ristampa con integrazioni 1757 e 1775; ristampa Hildesheim 1970-71), medica (1679), philosophica (1682; ristampa Hildesheim 1967), theologica (1685; ristampa Hildesheim 1973). In linea con il metodo polistorico, la Bibliotheca philosophica presenta materiale bibliografico di vario genere: storico, geografico, scientifico, letterario, oltre che filosofico in senso stretto.

LINSKY, LEONARD. – Allievo di A. Church, Linsky

I. Mancini - F. D’Alberto BIBL.: J. FRANCK, s. v., in Allgemeine Deutsche Biographie, vol. XVIII, pp. 725-726; I. TOLOMIO, Martin Lipen (1630-1692), in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. I: Dalle origini rinascimentali alla «historia philosophica», Brescia 1981, pp. 78-80.

Linsky è autore di due famose antologie di filosofia del linguaggio: Semantics and the Philosophy of Language (Illinois 1952) e Reference and Modality (Oxford 1977). Linsky ha suggerito alcuni temi di fondo legati all’opacità referenziale, come il problema della differenza tra uso attributivo e uso referenziale di una descrizione. La terminologia, di Donnellan, deri-

LIPPERT, PETER. – Pensatore e pubblicista, Lippert gesuita, n. a Altenricht, presso Amberg (Baviera), il 23 ag. 1879, m. a Locarno, dove si era ritirato per sfuggire alla persecuzione nazista, il 18 dic. 1936. Occupatosi dapprima di scienze fisiche, dal 1912 fino alla morte visse in una intensa attivi6517

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Lipps tà di scrittore come collaboratore di «Stimmen der Zeit» (allora «Stimmen aus Maria Laach»). Tra gli oltre trenta volumi pubblicati vanno ricordati: Credo, Freiburg im Breisgau, 1916-23, 6 fascicoli, tr. it. di E. Corsini, Credo, Alba 1951; Von Seelen zu Seelen, ivi 1924, tr. it. di V. Ambrosetti, Da anima a anima, Brescia 1951; Die Weltanschauung des Katholizismus, Leipzig 19272, tr. it. di E. Peternolli, La visione cattolica del mondo, Brescia 1931; e soprattutto Der Mensch Job redet mit Gott, München 1934, tr. it. di M. Paronetto Valier, Giobbe parla con Dio, Roma 1945. Quello che assegna a Lippert un posto nella letteratura filosofica non è tanto l’originalità della dottrina, quanto il suo merito di pensatore che approfondisce i temi centrali del pensiero cristiano. II senso della creaturalità come dipendenza dalla forza creatrice che è la bontà (die Güte) trascendente e personale, è costantemente presente alla riflessione di Lippert come un appello alla risposta dell’uomo, al suo «sì» che lo mette in contatto personale con Dio. R. Busa BIBL.: H. SCHWANDER, P. Lipperts Sprache und Weltbild, Freiburg 1948; F. BOESMILLER, Pater P. Lippert: der tiefe Denker und Liebende, Regensburg 1962; R. HAUB, P. Lippert: einer der großen Geistesmänner des deutschen Katholizismus, in «Klerusblatt München», 84 (2004), p. 170.

LIPPS, GOTTLOB FRIEDRICH. – Psicologo tedeLipps sco, n. ad Albersweiler il 6 ag. 1865, m. a Zurigo il 9 mar. 1931. Fratello di Theodor, libero docente e professore prima a Lipsia e poi, dal 1911, a Zurigo. Opere: Die logischen Grundlagen des mathematischen Funktionsbegriffs (Dissertation), Zweibrücken 1888; Untersuchungen über die Grundlagen der Mathematik, in «Philosophische Studien», IX-XII; Die Theorie der Kollektivgegenstände, ibi, XVII, 1902; Grundriss der Psychophysik, Leipzig 1903 (19083); Die Massmethoden der experimentalen Psychologie, in «Archiv für Psychologie», 3 (1904); Die psychologische Massmethoden, Brunswick 1906; Mythenbildung und Erkenntnis, Leipzig 1907; Weltanschauung und Bildungsideal, ivi 1911; Das Problem der Willensfreiheit, ivi 1912 (19193). Lipps appartiene ai discepoli di Wundt e si occupò in particolare dei problemi matematici connessi con la metodologia della psicologia sperimentale. In metafisica segue le posizioni di Wundt, mentre in gnoseologia, attraverso 6518

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l’accentuazione della funzione dell’intelletto in ogni forma della conoscenza, si avvicina al neokantismo. Ma soprattutto importa a Lipps la ricerca della genesi dei miti in rapporto all’origine della filosofia. Caratteristica per la sua posizione psicologistica è la concezione che la genesi del mito consista non nell’animazione della natura, bensì nella credenza, che gli oggetti abbiano una esistenza reale indipendente dall’uomo, e che, conseguentemente, l’atto di nascita della filosofia sia soltanto la scoperta, da parte dell’uomo, di essere lui la fonte del proprio conoscere e di essere il conosciuto solo un prodotto del pensiero. Particolare rilievo viene dato nel pensiero di Lipps tanto allo sviluppo della vita attraverso organici riferimenti al passato, i quali ineriscono durevolmente anche nei fenomeni psichici attuali, quanto a una visione della coscienza come combinazione di elementi semplici. Lipps si è anche occupato di pedagogia. In questo campo la sua idea direttiva è la convinzione che la scienza pedagogica di ogni epoca si determini secondo un ideale educativo immediatamente scaturente dalla concezione generale del mondo professata da quella scienza. N. Merker BIBL.: M.R. QUIROGA, «Einfühlung» contrapuesta a «contemplación». La estética psicológica de Lipps como una especie de panteismo laico, in «Actes de l’XIe Congrès international de philosophie», vol. XIII, Bruxelles 1953, pp. 233-237.

LIPPS, HANS. – Filosofo tedesco d'indirizzo Lipps fenomenologico, n. a Pirna il 22 nov. 1889, m. in guerra presso Leningrado il 10 sett. 1941. Fu nel 1928 professore di filosofia a Gottinga, nel 1935 a Francoforte. Formatosi alla scuola di Husserl, risentì dell’influenza dell’analitica esistenziale di Heidegger e fu uno dei primi, in Germania, ad essere sensibile ai temi del pragmatismo americano. Sicuramente importante l’influenza esercitata dal pensiero di Reinach per la successiva elaborazione di temi eticogiuridici. Ebbe anche stretti legami con Edith Stein, personali oltre che scientifici (cfr. W. Herbstrith, Hans Lipps im Blick Edith Steins, in «Dilthey-Jahrbuch», 6, 1989, pp. 31-51). II lavoro filosofico di Lipps si sviluppa su due linee principali. In primo luogo, in direzione di una nuova filosofia del linguaggio: la sua logica ermeneutica tenta di risalire dalle forme logiche compiute al fluire della vita, da cui esse

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si sono originate, e di intenderle partendo da quello; poi, in direzione di un'antropologia esistenzialistica. Nella sua prima opera importante, Untersuchungen zur Phänomenologie der Erkenntnis (Bonn 1927-28, ora nel primo volume dell’edizione in 5 volumi curata da Hans-Georg Gadamer e E. von Busse, Werke, Frankfurt am Main 1976-77), raccoglie i risultati dei suoi studi precedenti concependo l’a priori come da ricercare in ciò che è dato, nel rapporto con le cose espresso linguisticamente, quindi da ricercare per via ermeneutica. Al linguaggio sono dedicate le Untersuchungen zu einer hermeneutischen Logik (Frankfurt am Main 1938, ora nel secondo volume dei Werke): è il linguaggio come strumento proprio dell’uomo a dare senso alle ricerche logiche nei loro multiformi versanti. Pensiero discorsivo e significato mostrano il linguaggio come immediato modo di comprendersi nell’essere mosso da qualcosa. Qui si evidenzia il legame con Heidegger nello sviluppo di una filosofia dell’esistenza: se il significato è soltanto un contenuto oggettivo la verità del discorso è ridotta alla proprietà degli enunciati secondo una concezione astratta del giudizio. La logica ermeneutica fornisce invece il modo in cui la verità della parola si fa esistenziale, pragma; Lipps la definisce anche una «tipica» dei modi in cui si compie l’esistenza. Queste tematiche vengono ulteriormente ampliate nell'opera postuma Die Verbindlichkeit der Sprache. Arbeiten zur Sprachphilosophie und Logik (a cura di E. von Busse, Frankfurt am Main 1944). L’ultima opera di Lipps sviluppa l’interesse antropologico, mostrando l’essenza unitaria della natura umana (Die menschliche Natur, Frankfurt am Main 1941; sugli stessi temi Die Wirklichkeit des Menschen, a cura di E. von Busse, ivi 1954). W. Schleicher - P. Valenza BIBL.: AA.VV., Beiträge zum 100. Geburtstag von H. Lipps am 22 November 1989, in «Dilthey-Jahrbuch», 6 (1989), pp. 11-227; W. VON DER WEPPEN, Die Selbstgewissheit der Alltagssprache. Gedanken zum 100. Geburtstag von Ludwig Wittgenstein und Hans Lipps, in «Perspektiven der Philosophie», 16 (1990), pp. 157-175; G. VAN KERCKHOVEN, Hans Lipps, Martin Heidegger, e la possibilità di una fenomenologia ermeneutica, in «Discipline filosofiche», 9 (1999), pp. 135-151.

Lipps LIPPS, THEODOR. – Filosofo, n. a Walhalben Lipps (Pfalz) il 28 lug. 1851, m. a Monaco il 17 ott. 1914. Studiò matematica, teologia, scienze naturali e filosofia a Erlangen, Tubinga, Utrecht e Bonn. Fu professore straordinario a Bonn nel 1884, poi ordinario a Breslavia (1890) e a Monaco (1894), ove fondò l’istituto psicologico. Tra le opere di Lipps: Grundtatsachen des Seelenlebens, Bonn 1883, 19122; Psychologische Studien, Leipzig 1885, 19052; Der Streit um die Tragödie, Hamburg 1890; Äesthetische Faktoren der Raumanschauung, ivi 1891; Grundzüge der Logik, ivi 1893; Die ethischen Grundfragen, ivi 1899, 19224; Vom Fühlen, Wollen und Denken, Leipzig 1902, 19263; Äesthetik, Hamburg 190306, 2 voll., 1914-202; Leitfaden der Psychologie, Leipzig 1903, 1909 3 ; Naturwissenschaft und Weltanschauung, Stuttgart 1907; Psychologische Untersuchungen, Leipzig 1907-12, 2 voll.; Philosophie und Wirklichkeit, Heidelberg 1908; Die Raumästhetik und geometrisch-optische Täuschungen, Leipzig 1897, rist. Amsterdam 1966. Per Lipps la filosofia si identifica con la psicologia: «la filosofia è la dottrina del reale e la psicologia la dottrina del reale della coscienza. In quanto tale la psicologia comprende l’intera filosofia o ne è la scienza fondamentale» (lettera a T.K. Österreich, in Überweg, IV, p. 530). La psicologia non è però intesa soltanto nel senso sperimentale, ma piuttosto come analisi dell’esperienza interiore, come scienza dello spirito contrapposta alla scienza naturale e alla matematica. Questa tesi centrale del suo pensiero, già espressa in Grundtatsachen des Seelenlebens, rimase immutata anche quando Lipps rielaborò la propria dottrina sotto l’influsso di motivi neokantiani e della fenomenologia husserliana. Il metodo dell’analisi psicologica è quello della retrospezione sugli atti passati: in essi vi è sempre da distinguere l’atto dal suo contenuto, che è sempre però il contenuto di una coscienza, di un io come unità irriducibile. Oltre l’analisi è necessaria per la trattazione dei problemi psicologici la «psicologia esplicativa», che si vale di connessioni causali e tratta dei processi «psichicoreali», che possono essere identificati con i processi nervosi. Tale compito spetta alla psicologia sperimentale, che adotta i metodi della scienza della natura, la quale dà una rappresentazione delle connessioni reali mediante un sistema unitario di regolari rapporti di dipendenza tra grandezze spaziali, temporali e nu6519

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Lipsio meriche. Il tentativo della determinazione qualitativa del reale è operato dalla metafisica, che muove dalla realtà immediatamente esperibile, cioè dalla realtà di coscienza. L’«idealismo assoluto» è per Lipps la concezione suggerita dall’analogia con la vita interiore individuale: la totalità della realtà si accentra in un io cosmico, in una coscienza trascendente, che non si riduce alle unità psichiche individuali, ma in cui ognuna di queste è «come un punto». Anche l’etica, l’estetica e la logica appartengono per Lipps alla psicologia: ma esse non devono prendere a loro oggetto l’atto di volizione o di fruizione estetica o di giudizio quale avviene effettivamente e temporalmente nella coscienza individuale (cioè nel loro aspetto genetico, come fa erroneamente lo psicologismo), bensì nell’aspetto normativo, che è caratteristico del contenuto di quegli atti e indipendente dalle particolarità degli individui pensanti. Nel campo dell’etica Lipps ritiene che il valore più alto è quello della personalità: la sua assoluta validità è per lui un «fatto psichico». Per la comprensione della personalità altrui, così come per la fruizione estetica, ha importanza fondamentale la Einfühlung, che ha l’immediatezza di un istinto primario. F. Barone BIBL.: J. PIKLER, Über Theodor Lipps’ Versuch einer Theorie des Willens, Leipzig 1908; G. ANSCHÜTZ, Theodor Lipps, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», 21 (1915), pp. 1-133; H. GOTHOT, Die Grundbestimmungen über die Psychologie des Gefühls bei Theodor Lipps, Bonn 1921 (dissertazione); F. LIUZZI, Essenza dell’arte e valore storico nel pensiero di Theodor Lipps, in «Rivista di Filosofia», 1 (1924), pp. 17-45; M.R. DE ROSA, Theodor Lipps. Estetica e critica delle arti, Napoli 1990; A. DURAND, L’inconscient de Lipps à Freud. Figures de la transmission, Ramonville SaintAgne 2003 (bibliografia pp. 139-142).

LIPSIO, GIUSTO (Joost Lips). – Umanista e filoLipsio sofo fiammingo, n. a Overijssche (Bruxelles) nel 1547, m. a Lovanio nel 1606. Studia presso il collegio gesuitico di Lovanio. Al seguito del cardinale Granvelle, a Roma può dedicarsi fino al 1570 agli studi filologici. Dal 1572 al 1574 insegna all’università di Iena, poi in quelle di Leida (1579-90) e di Lovanio (1590-1606), aderendo di volta in volta, cattolico di nascita, al luteranesimo e al calvinismo. Nel 1590, a Magonza, ritorna in seno al cattolicesimo. Filippo II di Spagna lo nomina suo storiografo, e l’ar6520

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ciduca Alberto d’Austria, governatore delle Fiandre, gli concede il titolo di consigliere di stato. All’edizione e ai commenti di autori classici (soprattutto Seneca [1589-1605] e Tacito [1574]) Lipsio accompagna la composizione di opere filosofiche di ispirazione stoica, come il dialogo De constantia in publicis malis (Antverpiae 1584), la Manuductio ad philosophiam stoicam e la Physiologia Stoicorum (Antverpiae 1604); scrive inoltre i Politicorum sive civilis doctrinae libri sex (Lugduni 1589), il Tractatus ad historiam romanam cognoscendam utilis (Cantabrigiae 1592) e gli Admiranda, sive de magnitudine romana libri IV (Antverpiae 1597). Vasto e interessante è anche il suo epistolario (Justi Lipsii epistolarum centuriae duae, Lugduni 1591). Con i Politicorum sive civilis doctrinae libri sex le teorie intorno alla naturalità dello stato e alle sue finalità, di tradizione aristotelica, si congiungono con il riconoscimento delle esigenze connesse con l’esercizio del potere. Nella ricerca del bene comune il sovrano applica l’accortezza; religione e morale sono giustificate per i vantaggi che riservano all’azione di governo, ma vale l’adozione di species similes alle virtù, tramite la frode. Nell’Introductio lectoris all’edizione commentata di Seneca Lipsio esprime nei confronti dei testi una venerazione pari a quella per la sacra scrittura. Lipsio infatti riconosce allo stoicismo una specie di funzione preparatoria nei riguardi del cristianesimo. Il senso allegorico, da un lato, permette di superare il significato degli elementi mitologici tramandati dall’antichità; d’altro canto, esiste una forte corrispondenza tra ciò che gli stoici chiamano logos e ciò che il cristianesimo afferma a proposito di Dio e dell’obbedienza che a lui si deve. Attraverso la mediazione del neoplatonismo rinascimentale, poi, Lipsio tenta di superare il monismo teoretico stoico per il quale Dio e il mondo si identificano: la natura è Dio, benché soltanto in quanto Dio è causa di tutto ciò che esiste e, come tale, è presente in tutto ciò che da lui è causato, senza compromettere la propria trascendenza. Secondo Lipsio c’è, poi, una precedenza logico-ontologica della provvidenza sul fato, in quanto esso non è altro che il dispiegarsi nel tempo dell’eterno disegno di Dio. L’unica virtù, del resto, è il consenso (convenientia) con la ragione mentre si agisce. La virtù del saggio,

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quindi, si esprime nella condizione di stabilità del suo stato d’animo, nel suo perseverare in uno stato di vera gioia. M. Laffranchi BIBL.: L’Opera omnia di Lipsio ha nel XVII secolo varie edizioni: Lugduni 1613, 2 voll., Antverpiae 1637, 4 voll., Vesaliae 1675, 4 voll., ripr. Hildesheim 2001; Epistolae, ed. a cura di A. Gerlo et al., Brussel 19782000, 7 voll.; Two Neo-latin Menippean Satires. Justus Lipsius «Somnium», Petrus Cunaeus «Sardi venales», a cura di C. Matheeussen - C.L. Heesakkers, Leiden 1980. Su Lipsio: M. ISNARDI PARENTE, La storia della filosofia antica nella «Manuductio in stoicam philosophiam» di Giusto Lipsio, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», 16 (1986), pp. 45-63; A. GERLO (a cura di), Juste Lipse (1547-1606), Bruxelles 1988; A. MICHEL, Tacite et la politique chez Juste Lipse et Muret, in «Caesarodunum», 26 bis (1992), pp. 213-222; K. ENENKEL - C. HEESAKKERS (a cura di), Lipsius in Leiden: Studies in the Life and Works of a Great Humanist on the Occasion of his 450th Anniversary, Voorthuizen 1997; C. MAGNIEN - C. MOUCHEL, Lipsie (Juste) (1547-1606), in C. NATIVEL (a cura di), Centuriae latinae: cent une figures humanistes de la Renaissance aux Lumières offertes à Jacques Chomarat, Genève 1997, pp. 505-513; F. BUZZI, La filosofia di Seneca nel pensiero cristiano di Giusto Lipsio, in «Aevum Antiquum», 13 (2000), pp. 365-391; S. BURGIO, Giusto Lipsio: appartenenza e natura, in «Annali di Storia Moderna e Contemporanea», 7 (2001), pp. 45-59.

LIQQUTÈ ’AMARIM (Tanja’ o Raccolte di Liqqutè ’Amarim detti). – È l’opera fondamentale che illustra il sistema di pensiero del chassidismo Chabad, pubblicata anonima nel 1796 e, nella seconda edizione, porta nel frontespizio il titolo Tanja’, con il quale è generalmente nota. Il fondatore della corrente Chabad del chassidismo fu Shneur Zalman di Ladi (1745-1813) e il suo movimento fu designato con l’acrostico Ch-B-D di Chokhmah «sapienza», Binah «intelligenza» e Da‘at «conoscenza», termini interpretati nel senso di «conoscenza iniziale, conoscenza sviluppata e conoscenza piena». Il fondatore di questo movimento, nato a Lionza in Bielorussia dove fu iniziato allo studio della Torah, a diciannove anni, convinto di non aver appreso nulla riguardo alla preghiera, decise di studiare il chassidismo con uno dei suoi esponenti più importanti, Dov Baer noto come il Magghid di Mezherich. Divenuto ben presto il discepolo preferito del maestro, questi gli chiese di comporre un’opera che sintetizzasse la tradizione

Liqqutè ’Amarim halakica. Shneur Zalman si dedicò all’opera, che tuttavia venne pubblicata postuma nel 1814 solo per circa un terzo, col titolo di Shulchan ‘arukh HaRav (Tavola apparecchiata del maestro), la restante parte essendo andata bruciata. Essa divenne il riferimento normativo fra il chassidismo di Lubavitch. Per due volte fu accusato di tradimento dello stato su istigazione degli oppositori del chassidismo, i mitnagghedim, e processato, ma entrambe le volte fu liberato. Alla morte di Shneur Zalman, gli successe, come leader del movimento Chabad, il figlio Dov Baer (1773-1827) e poi il nipote Menachem Mendel (1789-1866). Shneur Zalman volle dare una sistemazione teoretica all’insegnamento chassidico, caratterizzata da uno stile intellegibile, un rigore intellettuale e una metodologia chiara per poterlo insegnare sistematicamente nelle scuole religiose. Ma questa ristrutturazione formale finì col modificarne anche il contenuto. Il maestro definì lo tzaddiq (il giusto) come un essere eccezionale, con una forte carica spirituale innata; ma questo essere non può costituire un ideale per qualsiasi uomo, che invece può aspirare solo a divenire un essere intermedio (benoni). La sua concezione teologica della divinità che abbraccia il tutto, sconfina con il panteismo. Il Liqqutè ’amarim è il manifesto del movimento Chabad. L’opera si divide in cinque parti: 1) Sefer shel benonim (Il libro degli uomini mediani); 2) Sha‘ar ha-Jichudh we-ha-’emunah (La porta dell’unità e della fede); 3) Iggheret teshuvah (Lettera del pentimento); 4) Iggheret ha-qodesh (Lettere della santità); 5) Qunteres ’acharon (Ultima tesi). L’opera fu pubblicata completa di tutte le sue cinque parti solo nell’edizione di Shkolov del 1814, ed essa fu accolta in questa redazione, considerata dal chassidismo Chabad come una vera e propria Torah del movimento. A differenza della maggioranza delle opere prodotte dal chassidismo, improntate al genere letterario del racconto, il Liqqutè amarim è uno dei pochi componimenti scritti dalla mano di un leader spirituale e caratterizzato da un impianto sistematico, rigorosamente concatenato in una logica rigorosa, come un vero manuale di studio di eccezionale profondità. Il Liqqutè amarim fu aspramente criticato sia dagli oppositori del chassidismo, sia da diversi esponenti di questo stesso movimento; ciononostante ebbe una notevole diffusione. M. Perani

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Lirica BIBL.: M. IDEL, Kabbalah: New Perspectives, New Haven - London 1988, tr. it. di F. Lelli, Cabbalà. Nuove prospettive, Firenze 1996; Shneur Zalman of Lyady, in C. ROTH (a cura di), Encyclopaedia Judaica, CD-Rom Edition, Jerusalem 1997. ➨ CHASSIDISMO; HALAKHAH; TORAH.

LIRICA ([poésie] lyric; Lyrik; lyrique; lirica). – Lirica Genere letterario sotto il quale viene classificato quel tipo di poesia che, a differenza del dramma o dell’epopea, a carattere narrativo e oggettivo, esprime la soggettività del poeta con accento prevalentemente sentimentale. Chi, come Benedetto Croce, non dà valore ai generi letterari, considera la liricità come una categoria estetica, che definisce l’arte come tale ed è sinonimo di intuizione pura (B. Croce, L’intuizione e il carattere lirico dell’arte, in Problemi di estetica, Bari 19666). Il termine lirica deriva dal greco (luvra) e indica il fatto che questo genere di poesia fu in origine cantato con accompagnamento musicale. Red. BIBL: H. FRÄNKEL, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, München 1962, tr. it. di C. Gentili, Poesia e filosofia della Grecia arcaica: epica, lirica e prosa greca da Omero alla metà del V secolo, Bologna 1997; P. FEDELI, Bucolica, lirica, elegia, in F. MONTANARI (a cura di), La poesia latina, Firenze 1991, pp. 77-131. ➨ GENERI ARTISTICI E LETTERARI.

LISIA Lisia (Lusiva"). – Oratore attico, nato ad Atene poco dopo il 440 a. C., morto dopo il 380. Autore di 425 orazioni, delle quali solo 34 ci sono pervenute, e non tutte autentiche. Nel Fedro platonico (231 a ss.) Lisia è considerato come il più autorevole rappresentante della retorica sofistica: ivi Platone gli fa sostenere, sotto forma di parodia, la tesi che in amore conviene più concedersi a chi non ama che a chi ama, mettendo in rilievo un aspetto dell’eloquenza di Lisia di cui non v’è traccia nelle orazioni a noi pervenute. G.M. Pozzo BIBL.: sulla questione dell’autenticità del discorso di Lisia nel Fedro platonico cfr.: a favore, I. VAHLEN, Gesammelte philologische Schriften, vol. II, Leipzig 1923, pp. 675 ss.; contro, L. WEINSTOCK, De erotico Lysiaco, Müchen 1912. Inoltre: G. ZUCCANTE, Platone e Lisia, in «Rendiconti dell’Istituto Lombardo, Classe di Lettere, Scienze morali e storiche», 58 (1925). Per Lisia oratore, cfr.: G. PASQUALI, s. v., in AA.VV., Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma 192937, vol. XXI, pp. 261-262.

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LISIDE (Lu'si"). – Pitagorico. Fuggì da CrotoLiside ne nella seconda metà del V secolo, in seguito a una rivoluzione antipitagorica. Stabilitosi a Tebe, sarebbe stato in tarda età maestro di Epaminonda. Possediamo una lettera a lui attribuita, la cui autenticità fu difesa da Delatte: riflette le accuse che Platone muoveva ai sofisti, pur essendo rivolta a un pitagorico colpevole di aver divulgato il pensiero della scuola. Quasi certamente è un falso. E falsi dovevano essere gli altri scritti a lui attribuiti nell’antichità: suoi sarebbero stati, dice infatti Diogene Laerzio, non gli scritti pubblicati col suo nome, ma quelli pubblicati col nome di Pitagora. A. Maddalena BIBL.: M. TIMPANARO CARDINI, Pitagorici, Testimonianze e frammenti, Archippo, Liside, Opsimo, vol. II, Firenze 1962, pp. 258-261; D. DELATTRE, Les Pythagoriciens récents, Lysis. Textes traduits, présentés et annotés, in AA.VV., Les Présocratiques, Paris 1988, pp. 516-517; A. MADDALENA, I frammenti dei filosofi del sesto e quinto secolo (e i loro immediati seguaci), Archippo, Liside, Opsimo, in AA.VV., I Presocratici. Testimonianze e frammenti, t. I, Bari 1969, 1975, 1981, p. 478.

LISPECTOR, CLARICE. – Scrittrice brasiliana Lispector nata il 10 dic. 1920 a Cecel’nik, una piccola città dell’Ucraina, da una famiglia di religione ebraica in procinto di emigrare in Brasile, m. il 9 dic. 1977 a Rio de Janeiro. Si stabilì dapprima a Recife per poi trasferirsi, con il padre e le sorelle, a Rio de Janeiro, dopo la morte della madre. Laureatasi in giurisprudenza, iniziò a collaborare con un quotidiano carioca (A Noite), pubblicando giovanissima, proprio grazie alla casa editrice del giornale, il suo primo romanzo (Perto do coração selvagem, Rio de Janeiro 1943, tr. it. di R. Desti, Vicino al cuore selvaggio, Milano 2003). L’accoglienza entusiastica (anche se non unanime) riservata da parte della critica al romanzo d’esordio la spinse a perseverare nel suo impegno letterario, che fu intenso e che l’accompagnò sino al termine dell’esistenza. Malgrado i lunghi periodi passati all’estero, per seguire la carriera diplomatica del marito, la scrittrice manterrà forti legami con la realtà socio-politica e culturale del suo paese, nonché con il mondo editoriale e giornalistico brasiliano, tornando a stabilirsi, a partire dal 1959 e dopo la fine del suo matrimonio, a Rio de Janeiro, ove risiederà fino alla morte prematura.

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La scrittura della Lispector ostenta una coerenza sia tematica sia intellettuale che attraversa da un capo all’altro la sua multiforme attività letteraria e il suo ostinato e sofferto impegno euristico: tanto nei romanzi e racconti quanto nelle molte cronache giornalistiche e nei libri per l’infanzia che ella ci ha lasciato, si coglie, in effetti, una costante volontà di oltrepassare le apparenze, sovvertendo i canoni classici della rappresentazione, ma senza che ciò comporti, in definitiva, una vera rivoluzione del linguaggio narrativo, che, anzi, si mantiene prossimo a un «grado zero» dell’espressione. Il suo stile certamente originale è caratterizzato, di fatto, da una sorta di ininterrotto flusso di coscienza, scandito tuttavia da periodi assai brevi, nei quali si alternano formule dubitative o interrogative e perentorie affermazioni, in un processo di ricerca sospeso tra la volontà di comprendere e la consapevolezza previa dell’impossibilità di dire compiutamente la verità intravista. La critica ha spesso colto nella sua prosa echi della ricerca artistica e filosofica europea (Joyce e Sartre, sopra tutti, ma senza dimenticare il magistero formale di Virginia Woolf), sebbene la cifra della sua originalità sia, in realtà, da ricercare nella combinazione delle influenze straniere con una rivisitazione personalissima di temi e problematiche specifiche dell’universo brasiliano. Basta, in questo senso, leggere quelli che possono, forse, essere considerati i suoi capolavori narrativi (A Paixão segundo G.H., Rio de Janeiro 1964, tr. it. di A. Aletti, La passione secondo G.H, Torino 1982, e A Hora da Estrela, Rio de Janeiro 1977, tr. it. di A. Aletti, L’ora della stella, Milano 1989) per rendersi conto dello spessore – che potrebbe definirsi, per l’appunto, «passionale», senza mai cessare, d’altronde, di essere sia filosofico sia storico – della sua prosa, nonché dell’ottica particolare e coinvolgente da cui la scrittrice traguarda l’esistenza dei suoi personaggi femminili: donne che attraversano vicende, in apparenza comuni, nelle quali trova frequentemente spazio, però, un momento «epifanico», un attimo di rivelazione autentica che comporta una sorta di epochè, di sospensione emozionale e logica, la quale muta radicalmente il corso delle loro esistenze e, con esso, il senso stesso del loro «essere-nelmondo». Non è raro, peraltro, che la scrittrice faccia trasparire, attraverso le storie e i pensieri dei suoi personaggi, elementi di critica sociale, volti a denunciare tanto le difficoltà del-

Liszt la condizione femminile quanto la forte sperequazione economica e di classe vigenti in ambito brasiliano. L’esito della sua ricerca – nella quale, soprattutto nella fase della maturità, si colgono echi sempre più evidenti della cultura e della formazione giudaiche – se consiste, da un lato, in un dissolvimento progressivo della grammatica della narrazione (si veda soprattutto Água Viva, Rio de Janeiro 1973, tr. it. di A. Morino, Acqua viva, Palermo 1997), si manifesta, d’altronde, come confidenza ostinata in una scrittura salvifica che riesca a redimere, attraverso la parola e, soprattutto, attraverso il silenzio che la fonda e la feconda, la finitezza e la tragicità della condizione umana. E. Finazzi Agrò BIBL.: B. NUNES, O dorso do tigre, São Paulo 1969, pp. 93-139; O. DE SÁ, A escritura de Clarice Lispector, Petrópolis 1979; E. FINAZZI AGRÒ, Apocalypsis H. G., Roma 1984; H. CIXOUS, L’heure de Clarice Lispector, Paris 1989; B. NUNES, O drama da linguagem, São Paulo 1989; B. WALDMAN, A paixão segundo C.L., Campinas 19922; N. BATTELLA GOTLIB, Clarice: uma vida que se conta, São Paulo 1995; L. HELENA, Nem Musa, nem Medusa, Niterói 1997; V. ARÊAS, Clarice Lispector com a ponta dos dedos, São Paulo 2005.

LISZT, FRANZ von. – Giurista austriaco, n. a Liszt Vienna il 2 mar. 1851, m. a Seeheim il 21 giugno 1919. Fu professore nelle università di Marburgo, Halle e Berlino. Criminalista e internazionalista di fama mondiale. Nel 1889 fondò con Van Hamel e Prins l'Unione internazionale di diritto penale, cui aderirono alcuni tra i migliori penalisti di ogni paese, esercitò un grande influsso nello sviluppo della scienza e delle legislazioni penali dei vari popoli sulle direttive segnate dalla scuola positiva italiana, ma con indirizzo essenzialmente sociologico. Fondò presso l'università di Berlino il famoso Seminario di diritto penale frequentato da allievi, alcuni dei quali sono divenuti maestri insigni non soltanto in Germania, ma in Italia, in Francia, Giappone ecc. Tenne la direzione di una tra le più poderose pubblicazioni penalistiche quale è la Vergleichende Darstellung des deutschen und ausländischen Strafrechts e della Zeitschrift für die gesamte Strafrechtswissenschaft. Tra le sue opere è innanzi tutto da ricordare il Lehrbuch des deutsche Strafrechts, Berlin 193226, una collana di studi raccolti in Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge, Berlin 1905, 2 voll., e Der Zweckgedanke im Strafrecht, Frankfurt am Main 6523

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Litt 1948, tr. it. a cura di A.A. Calvi, La teoria dello scopo nel diritto penale, Milano 1962. S. Ranieri BIBL.: F. DAHL, Franz von Liszt, Copenaghen 1919; H. SPECHT, Der Strafzweck bei Feuerbach und Liszt, Hamburg 1933; O. KNETSCH, Der Täterpersönlichkeit bei Franz von Liszt, Giessen 1936; A. JAANIS GEORGAKIS, Geistsgeschichliche Studien zur Kriminalpolitik und Dogmatik Franz von Liszts, Leipzig 1940; S. RANIERI, Franz von Listz e la scuola positiva italiana, in «Rivista Penale», 1 (1970), pp. 5-27; H. MÜLLER, Der Begriff der Generalprevention im 19. Jahrhundert: von Paul Johann Anselm Feuerbach bis Franz von Liszt, Frankfurt am Main 1984.

LITT, THEODOR. – Filosofo e pedagogista teLitt desco, n. a Düsseldorf il 27 dic. 1880, m. a Bonn il 16 lug. 1962. Dal 1904 al 1918 fu insegnante nelle scuole medie superiori, quindi, dal 1920, professore universitario a Lipsia. Sospeso dall’insegnamento a opera dei nazionalsocialisti, non cessò di svolgere attività politica, combattendo le dottrine naziste. Riprese l’insegnamento dopo il 1945 a Lipsia e dal 1947 a Bonn. La filosofia di Litt ha un’impostazione storicodialettica; partendo dallo spirito soggettivo e oggettivo di Hegel e Dilthey, egli fonda una scienza dell’identico, la quale conduce il pensiero e l’essere, l’idea e la vita concreta, il generale e il particolare, attraverso le scienze della natura e dello spirito, a una sempre maggiore coincidenza e infine a una identificazione dell’assoluto inteso come mediazione. Di qui risulta il prospettivismo delle concezioni del mondo (Perspektivismus der Weltbilder), così significativo per il pensiero di Litt. L’assoluto è sovrapersonale e sovratemporale nel senso hegeliano, espressione delle culture storiche. Esso non rende tuttavia impossibile l’agire storico dell’uomo. II piano in cui si svolge la storia è rappresentato dagli stati, in cui, come sostiene Litt nella sua sociologia, gli individui vengono elevati alla loro «seconda natura» e superati dialetticamente. Il compito della pedagogia è la soluzione dialettica della tensione tra l’idea e il processo psichico della vita, grazie alla comunicazione di contenuti ideali da uomo a uomo. II prospettivismo delle concezioni del mondo vieta ogni pretesa di esclusività da parte dei singoli ideali educativi ed esige l’inserimento di tutte le entità dello spirito oggettivo, ivi compreso il lavoro, nel piano educativo. Politicamente Litt 6524

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auspica il superamento sia del comunismo orientale sia del capitalismo occidentale. H. Seidl

Litt dà una interpretazione eminentemente formativa e metodologica della filosofia, come strumento critico che pone l’uomo in condizione di innalzare una barriera contro tutte le forme inautentiche di concepire e vivere la relazione io-mondo, e di difendersi dal dominio del tecnicismo e dell’ideologismo, sempre presenti nella realtà dell’esperienza culturale e storica. Il realismo gli fa assumere un atteggiamento critico anche nei confronti della Bildung, intesa qui come educazione umanistica tradizionale, in cui la sussidiarietà, ritenuta propria della formazione professionale, spesso conduce ad assegnare un senso restrittivo all’attività tecnico-pratica, o al lavoro in generale (Naturwissenschaft und Menschenbildung, Heidelberg 1952, tr. it. di C. D’Altavilla, Roma 1972). In coerenza con il metodo dialettico è la concezione che Litt ha dell’educazione politica, come presa di coscienza della natura del pluralismo e della lotta tra avversari (e non tra nemici), necessaria per la conquista del potere. Litt dimostra come questa lotta spesso invelenisca il dibattito fino alla demonizzazione o alla eliminazione fisica degli avversari. Ma ciò avviene ove si perda il senso della legittimazione e del controllo etico dell’elemento politico e della democrazia (Wesen und Aufgabe der politischen Erziehung, Heidelberg 1964). L. Agnello BIBL.: Pädagogik, Leipzig 1921; Individuum und Gemeinschaft, Leipzig, 19263 (1919); Wissenschaft, Bildung und Weltanschauung, Leipzig 1928; Denken und Sein, Stuttgart 1948; Wege und Irrwege geschichtlichen Denkens, München 1948; Mensch und Welt, München 19612 (1948); Hegel. Versuch einer kritischen Erneuerung, Heidelberg 19612 (1953); Freiheit und Lebensordnung, Heidelberg 1962; Technisches Denken und menschliche Bildung, Heidelberg 19643 (1957), tr. it. di C. D’Altavilla, Istruzione tecnica e formazione umana, Roma 19663; Theodor Litt Jahrbuch, Leipzig 1999. Su Litt: E. NOBILE, La pedagogia di Theodor Litt, in «Educazione nazionale», 9 (1927), pp. 439-445; A. REBLE, Teodoro Litt, Stuttgart 1950; B. LIEHRUCKS, Zur Theorie des Weltgeistes in Theodor Litt’s Hegelbuch, in «Kantstudien», 46 (1954-55), pp. 230-267; P. VOGEL, Theodor Litt, Berlin 1955; Geist und Erziehung. Aus dem Gespräch, zwischen Philosophie und Pädagogik. Kleine Bonner Festgabe für Theodor Litt, Bonn 1955 (bibl. pp. 191-224); W. MÜLLER, Theodor Litt - Apologet des «Freiheit» im Bonner Staat, Leipzig 1959; J.

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DERBOLAV (a cura di), In memoriam Theodor Litt, Bonn 1963; H.-O. SCLEMPER, Reflexion und Gestaltungswille. Bildungstheorie. Bildungskritik und Bildungspolitik im Werke von Theodor Litt, Ratingen bei Düsseldorf 1964; N. RÜCKRIEM, Das Verhältnis von Politik und Erziehung in der philosophischen Grundlegung der politischen Erziehung bei Theodor Litt, Mainz 1967; H. EMDEN, Naturwissenschaften und Bildung bei Theodor Litt, Gießen 1970; U. BRACHT, Zum Problem der Menschenbildung bei Theodor Litt, Bad Heilbrunn/Obb. 1973; F. NICOLIN - G. WEHLE (a cura di), Theodor Litt: pädagogische Analysen zu seinem Werk, Bad Heilbrunn/Obb. 1982; AA.VV., Der Philosoph und Pädagoge Theodor Litt in Leipzig 1920-1948, Leipzig 1993; W.K. SCHULZ, Untersuchungen zu Leipziger Vorlesungen von Theodor Litt, Würzburg 2004.

LITTRÉ, MAXIMILIEN-PAUL-EMILE. – Filosofo Littré positivista francese, n. a Parigi l’1 febbr. 1801, m. ivi il 2 giu. 1881. Inizia gli studi di medicina (1822) che non può completare. Continua, tuttavia, lo studio e le ricerche personali, arricchendo il suo sapere enciclopedico. Dal 1828 collabora al «Journal de médecine» e fonda poi, con Dezeimeris, la rivista medica «L’Expérience» (1837-46). Collaboratore di «Le National» (1831-51), su cui a partire dal 1844 fa un’entusiastica propaganda del positivismo di A. Comte, conosciuto nel 1840. La sua edizione, con traduzione e note, di Ippocrate (Oeuvres d’Hippocrate, Paris 183961,10 voll.) gli apre le porte dell’Académie des Inscriptions (1839); i lavori sulla medicina quelle dell’Académie de Médecine (1858); la sua opera più importante e di maggiore influenza (Dictionnaire de la langue française, ivi 1863-72, 4 voll., e un supplemento, ivi 1879) gli procura l’ammissione all’Académie française (1871), che nel 1863 lo aveva respinto per il suo positivismo materialistico. Nel 1867 fonda la rivista «La philosophie positive», attraverso cui diffonde il suo pensiero. Nel 1871 viene eletto deputato e nel 1875 senatore a vita. Opere di carattere filosofico (per lo più edite a Parigi): Analyse raisonnée du Cours de philosophie positive d’Auguste Comte, Utrecht 1845; Application de la philophie positive au gouvernement des sociétés, 1849; Conservation, révolution et positivisme, 1852 (18792); Paroles de philosophie positive, 1859 (18632); Auguste Comte et la philosophie positive, 1864 (18773); Auguste Comte et Stuart Mill (con un saggio di G. Wyrouboff sullo stesso argomento), 1867; Principes de philosophie positive, 1868; La science au point de vue

Littré philosophique, 1873 (18845); Fragments de philosophie positive et de sociologie contemporaine, 1876; molti articoli in riviste, specie ne «La Philosophie positive» (1867-81). Dal 1840 al 1851 Littré aderisce in modo totale al positivismo di Comte, ma la rottura tra i due (avvenuta nel 1852) lo conduce a un riesame che si manifesta in modo aperto dopo la morte di Comte (1857). Attribuendo l’evoluzione del maestro a infedeltà al suo stesso metodo e soprattutto alla malattia, Littré la rifiuta e continua, tuttavia, a proclamarsi positivista, diventando il rappresentante e il capo riconosciuto del positivismo francese post-comtiano, malgrado la sconfessione di Comte e le critiche dei positivisti ortodossi guidati da P. Laffitte. Littré, espungendo tutta la «sintesi soggettiva» dal positivismo di Comte e riformandone la stessa «sintesi oggettiva», riduce il positivismo ai suoi «principi» (cfr. Auguste Comte et la philosophie positive, 18773, p. 668) e questi al «metodo positivo»: «Chi applica questo metodo alla filosofia è positivista, e, che lo dica o no, discepolo di Comte» (Principes de philosophie positive, p. 60). Il metodo positivo, poi, è ridotto a quello delle «scienze positive», il cui contenuto viene dall’osservazione e dall’esperienza e si limita ad esse. Nella filosofia positiva «l’omogeneità con la scienza positiva è completa; condizione senza cui non vi è filosofia» (Les trois Philosophies, in «La philosophie positive», luglio 1867, p. 23). Ne segue per Littré il rifiuto di ogni deduzione e conclusione a priori; l’eliminazione di ogni problema di origine e di fine trascendente che, non rientrando nel mondo empirico, esclude la possibilità di risposta sia positiva che negativa; la riduzione della conoscenza alla realtà a posteriori, limitata a ciò che è relativo e sperimentalmente verificabile e verificato; la possibilità di un autentico progresso intellettuale, morale e sociale dell’umanità solo ed esclusivamente in virtù della scienza e della filosofia positive. F. Weber BIBL.: S. AQUARONE, The Life and Works of Emile Littré, Leida 1958; J.F. SIX, Littré devant Dieu, Paris 1962 (con ampia bibliografia); G. TILANDER, Littré et Remigereau comme lexicographes, Karlshamn 1968; A. REY, Littré: l’humaniste et les mots, Paris 1970; Actes du Colloque Emile Littré, 1801-1881, Paris 1983; L. D’HULST, Cent ans de théorie française de la traduction: de Batteux à Littré (1748-1847), Villeneuve d’Ascq 1990.

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Liu Zhi

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

LIU ZHI. – Uno dei più importanti esponenti Liu Zhi dell’Islam cinese. N. a Nanchino intorno al 1662, m. presumibilmente nel 1736, allo studio del neoconfucianesimo, del taoismo e del buddhismo affianca sin da giovane lo studio della lingua araba e persiana. La sua opera maggiore risale al 1704 e reca il titolo di Tianfang xingli, generalmente tradotto come Filosofia dell’Arabia; in realtà il binomio xingli (Natura e Principio) rinvia direttamente alla tradizione neoconfuciana, conosciuta appunto come Xingli xue (Scuola della Natura e del Principio). La stima di cui godette il Tianfang xingli negli ambienti islamici è dimostrata dal fatto che l’opera fu tradotta dal cinese in arabo dall’ulema Ma Lianyuan alla fine del XIX secolo. Come già il suo predecessore Wang Taiyu (1580-1650?), Liu Zhi si propone da una parte di dimostrare all’élite dei letterati cinesi l’essenziale convergenza fra i principi islamici e i principi confuciani, dall’altra, di diffondere fra i musulmani cinesi opere appartenenti alla tradizione del sufismo. Alla scuola sufi Naqshbandiyya appartiene una delle più importanti opere dottrinali tradotte dal persiano da Liu Zhi: I Bagliori (Lawa’ih) di ‘Abd al-Rahman Gami (1414-1492), il cui titolo è reso in cinese come Zhenjing zhaowei (Per far splendere la sottigliezza del Regno del Vero). A. Cadonna BIBL.: ZHAO DONGDONG, La pensée musulmane chinoise et le confucianisme, in «Etudes orientales», 13-14 (1994), pp. 70-76; SACHIKO MURATA, Chinese Gleams of Sufi Light, New York 2000, pp.113-210.

LIVINGSTONE, RICHARD WINN. – PedagogiLivingstone sta inglese, n. a Liverpool il 23 genn. 1880, m. a Oxford il 26 dic. 1960. Presidente del Corpus Christi College dal 1933 al 1950 e direttore della «Classical Review» (1920-22). L’attuale crisi dell’educazione deriva, secondo Livingstone, dall’allargamento dell’orizzonte spirituale oltre i confini dell’umanesimo e del cristianesimo. Per superare tale crisi bisogna approfondire il patrimonio classico-cristiano, che fornisce l’elemento spirituale della civiltà, e proseguire l’educazione oltre il periodo scolastico. Per Livingstone le scuole popolari superiori della Danimarca sono all’avanguardia tra le istituzioni educative degli adulti e ottengono risultati di ordine economico e sociale promuovendo una migliore formazione dell’uomo. M. Sancipriano

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BIBL.: A Defence of Classical Education, London 1916; Education for a World Adrift, London 1942, tr. it. di F. De Bartolomeis, La crisi dell’educazione contemporanea, Firenze 1961 (1949); Plato and Modern Education, London 1944; Some Tasks for Education, London-Toronto 1946, tr. it. di A. Rho, Compiti dell’educazione, Firenze 1963 (1950); Education and the Spirit of the Age, London 1952; Greek Ideals and Modern Life, London 1958 (1936); The Rainbow Bridge and Other Essays on Education, London 1959; The Future in Education, London 1960 (1941), tr. it. di F. De Bartolomeis, L’educazione dell’avvenire, Firenze 1958 (1948); The Influence of the Greek and Hebraic Traditions on Western Ideals, London 1960. Su Livingstone: UNESCO, Adult Education towards Social and Political Responsability, Hamburg 1953; G. GRASSI, Richard Livingstone, Firenze 1967.

LIVIO, TITO. – Storico (n. a Padova nel 59 a. C., Livio m. a Roma nel 17 d. C.) di famiglia repubblicana conservatrice. Amico di Augusto che lo chiamava Pompeianus, guidò i primi saggi storici di Claudio. Spirito indipendente, celebrò la morte di Cicerone e lasciò in dubbio se la nascita di Cesare fosse stata per Roma una fortuna, ma comprese la necessaria evoluzione verso il principato. Compose dialoghi storico-filosofici perduti affini ai Logistorici varroniani e dal 29-25 fino alla morte l’opera storica, forse intitolata Ab Urbe condita, in 142 libri (35 superstiti) dalle mitiche origini di Roma forse al 9 a. C. Con l’antico schema annalistico Livio celebra l’affermarsi grandioso della repubblica. Secondo la tradizione ellenistica codificata da Cicerone, fa un opus oratorium maxime, come dimostra l’uso dei discorsi diretti nei punti patetici. Storico di alta coscienza morale, fonde, sull’esempio di Cicerone, idee stoiche e tradizionali «virtù» romane: Roma e il suo governo (visto come il migliore, con simpatie aristocratiche), appaiono depositari di un piano divino nel mondo. Livio condanna ateismo e razionalismo; fonte di storici posteriori, di Lucano e Silio, presto epitomato, fu apprezzato dai cristiani («Livio che non erra»: Dante), studiato da Machiavelli e costantemente letto. L. Alfonsi BIBL.: edd.: WEISSENBORN - MÜLLER, Berlin 1880-1924; BAYET - BAILLET, Paris 1940; WALTERS - CONWAY, Oxonii 1964; OGILVIE et alii, Oxonii 1919-74; WALSH - BRISCOE, Lepzig-Stuttgart 1971 ss.; traduzioni italiane: Tito Livio, Torino 1970-89; Tito Livio, Milano 1994, 9 voll.

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Llewellyn

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Su Livio: G. STÜBLER, Die Religiosität des Livius, Stuttgart 1941; M. MAZZA, Storia e ideologia in Livio, Catania 1966; R. SYME, Livy & Augustus, in «Roman Papers», Oxford 1979, pp. 400-454; W. HAASE (a cura di), Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, parte II, vol. XXX, t. II, Berlin - New York 1982; E. LEFÈVRE - E. OLSHAUSEN (a cura di), Livius: Werk und Rezeption, München 1983; D. GUTBERLET, Die Erste Dekade des Livius, Hildesheim 1985; L. LABRUNA, Tito Livio e le istituzioni, Napoli 1986; G. FORSYTHE, Livy & Early Rome, Stuttgart 1991; E. GABBA, in F. MILLAR (a cura di), Caesar Augustus, Oxford 1984, pp. 61-88; E. BURCK, Das Geschichtswerk des Titus Livius, Heidelberg 1992; F. HICKSON, Roman Prayer Language: Livy & the Aeneid, Stuttgart 1993; D. LEVENE, Religion in Livy, Leiden 1993; M. JAEGER, Livy’s Written Rome, Ann Arbor 1997; A. FELDHERR, Spectacle and Society in Livy’s History, Berkeley 1998; B. LIOU, Une lecture religieuse de Tite Live I, Paris 1998; J. BERNARD, Le portrait chez Tite Live, Bruxelles 2000; J. CHAPLIN, Livy’s Exemplary History, Oxford 2000.

LLAMBÍAS AZEVEDO, JUAN. – Filosofo Llambías deDE Azevedo uruguayano, n. a Montevideo nel 1907, m. ivi nel 1972. Professore all’Università di Montevideo. Opere: La filosofía del derecho de Hugo Grocio, Montevideo 1935; Eidética y aporética del derecho, Buenos Aires 1940; Aristóteles y su concepción del universo, in «Tribuna Católica», 1941, pp. 101-197; El sentido del derecho para la vida humana, Montevideo 1943; La filosofía de la religión de Scheler, in «Ciencia y Fe», 1944, pp. 940, 60-63; Entorno al último Heidegger, Montevideo 1950, pp. 7-36; La objetividad de los valores ante la filosofía de la existencia, ivi 1952; Un diálogo con Heidegger, ivi 1955; El pensamiento del derecho y el Estado de la antiguedad, ivi 1956; Max Scheler, Buenos Aires 1966. Llambias aderisce alla filosofia dei valori, la cui autonomia e oggettività egli difende contro le tendenze esistenzialistiche, che vorrebbero concepire i valori come proiezioni ideali dell'esistenza stessa. Llambias, invece, concepisce i valori come assoluti ed eterni, capaci di indirizzare l'uomo, senza tuttavia che la loro validità dipenda dalla conoscenza che l'uomo ne ha. La sua posizione assomiglia a quella di M. Scheler e N. Hartmann, la cui filosofia egli tenta di conciliare nell'ambito della concezione aristotelicotomistica in cui venne formandosi. Notevoli, inoltre, i suoi studi di filosofia del diritto, di cui è considerato in Uruguay uno dei maggiori esponenti. M.A. Virasoro

BIBL.: R. BULA PÍRIZ, Imagen de una filosofía del derecho (J. Llambias de Azevedo), in «Cuadernos uruguayanos de Filosofía», 1963, pp. 19-38; L. RECASÉNS SICHES, Juan Llambias de Azevedo, in «Diánoia», 19 (1973), pp. 191-198.

LLANO ZAPATA, JOSÉ EUSEBIO DE. – PubbliLlano Zapata cista ed erudito peruviano del secolo XVIII. Llano Zapata accusa scolastica e aristotelismo di inutilità e astrattezza e diffonde in America le nuove tendenze culturali europee. M.A. Virasoro BIBL.: opere principali: Memorias históricas, físicas, críticas y apologéticas de la América Meridional, Lima 1759; Carta persuasiva al Sr. don Ignacio Escandón, Lima 1759.

LLEWELLYN, KARL N ICKERSON . – N. nel Llewellyn 1893 e m. nel 1962, professore di Jurisprudence, prima all’università di Columbia poi all’università di Chicago, e visiting professor presso le università di Lipsia (1928-1929) e Harvard, ricoprì anche la carica di presidente dell’associazione delle american law schools. Fu il principale estensore dell’uniform commercial code (UCC). Con l’antropologo Edward A. Hoebel condusse un’importante ricerca sul diritto primitivo degli indiani cheyenne, che ebbe esito nel volume The Cheyenne Way (Norman [Oklahoma] 1941). Esponente del realismo giuridico americano nel saggio Some Realism about Realism (in «Harvard Law Review», 44 (1931), pp. 12221264), considerato una sorta di manifesto del movimento, ne delineò le caratteristiche principali, riconducibili al rifiuto di ogni forma di concettualismo e di logicismo giuridico; alla concezione della società e del diritto quali processi in continuo movimento; alla considerazione del diritto come mezzo per scopi sociali, valutabile in base ai suoi effetti sulla società. Particolare attenzione, come tutti i realisti, Llewellyn rivolse al problema dell’argomentazione giuridica, che egli considera non come operazione logica di tipo sillogistico, ma come attività volta a dimostrare il collegamento tra le decisioni e gli effetti economico-sociali che colui che deve decidere ritiene desiderabili. Secondo Llewellyn è possibile rilevare delle uniformità nelle decisioni dei giudici, in quanto essi rispondono generalmente alle sollecitazioni dell’ambiente in cui vivono e tendono 6527

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Llorens i Barba a conformarsi ai modelli tracciati dai loro predecessori. Conseguentemente, a differenza di Jerome Frank e dell’ala più estremista del realismo, quella dello scetticismo dei fatti, Llewellyn ritiene possibile una scienza del diritto che, sotto l’influenza del pragmatismo, in particolare di John Dewey, egli considera consistente in tecniche di previsione del comportamento dei giudici. C. Faralli BIBL.: The Bramble Bush, New York 1960; The Common Law Tradition, Boston 1960; Jurisprudence: Realism in Theory and Practice, Chicago 1962. Su Llewellyn: W. TWINING, Karl Llewellyn and the Realist Movement, London 1985. ➨ ARGOMENTAZIONE, TEORIE DELLA; GIURISDIZIONE; REALISMO GIURIDICO; SCIENZA GIURIDICA.

LLORENS I BARBA, FRANCISCO XAVIER. – N. Llorens i Barba a Villafranca del Panadés (Barcellona) nel 1820, m. a Barcellona nel 1872. Professore di metafisica nell’università di Barcellona, è stato discepolo di Martí de Eixalà – sul quale scrisse Memoria acerca de la filosofía de Martí de Eixalà (1859) – e maestro di Torras i Bages. Il suo pensiero, che rappresenta un eclettismo metafisico del senso comune, è contenuto nell’opera postuma: Lecciones de filosofia, vol. I: Psicología empírica. Lógica pura; vol. II: Metafísica general; vol. III: Cosmología. Psicología racional. Teodicea. Filosofía práctica. Apéndices (Barcelona 1920; rist. 1956). Per Llorens la filosofia speculativa è inscindibile da quella pratica, in maniera che «ciò che dobbiamo dire nella prima è di tal natura che richiede la conoscenza della seconda per completarsi» (Lecciones de filosofia, vol. I, p. 3). Il richiamo alla riflessione personale quale criterio e metodo filosofico diversifica Llorens dalla corrente scolastico-tomistica spagnola del suo tempo e lo allaccia alla direttiva cervariense, così da formare con J. Balmes una vera e propria scuola. Llorens pone a base dell’osservazione l’analisi, poiché nella psicologia dobbiamo appellarci continuamente alla memoria. «La psicologia ci offre risultati così positivi come la fisica» (Lecciones de filosofia, vol. I, p. 58) per la costanza di certi fenomeni. Egli si accosta alla filosofia del senso comune, partendo dall’analisi dei fenomeni di coscienza e denunciando l’apriorismo del razionalismo puro. «L’intuizione immediata ci fa accedere al realismo naturale» 6528

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(Lecciones de filosofia, vol. III, p. 17). L’esame dei fenomeni di coscienza sbocca infatti nella conoscenza dell’essere, a patto che il metodo usato sia quello analitico-sintetico, che risulta dalla condizione della nostra facoltà di conoscere (Lecciones de filosofia, vol. III, p. 348). Ammette, con la scuola scozzese, a cui fa evidenti riferimenti, la conoscenza immediata, e con W. Hamilton giunge ad affermare che «il sentimento del bello contiene la rivelazione più profonda dell’al di là per l’uomo» (Lecciones de filosofia, vol. III, p. 250). A. Muñoz Alonso BIBL.: F. DE A. MASFERRER y ARQLUIMIBAU, Francisco Xavier Llorens i Barba y la filosofía catalana, Barcelona 1872; T. CARRERAS I ARTAU, Llorens y Barba, Barcelona 1933; T. CARRERAS I ARTAU, Un maestro barcelonés de Menéndez Pelayo: Llorens y Barba, in «Revista de Filosofia», 15 (1956), pp. 445-463; J. ROURA I ROCA, R. Martí d’Eixalà i la filosofía catalana del segle XIX, Barcelona 1980; N. BILBENY, Llorens i Barba i l’Etica kantiana, in «Historia de la Universitat de Barcelona. I Simposium 1988», Barcelona1990, pp. 31-38.

LLOYD, ALFRED HENRY. – Pensatore americaLloyd no, n. a Montclair il 3 genn. 1864, m. ad Ann Arbor l'11 magg. 1927. Si laureò all'Università di Harvard nel 1886. Rinunciando alla carriera ecclesiastica, a cui prima aspirava, si recò in Germania, ove frequentò le Università di Gottinga, Berlino e Heidelberg. Fu poi professore e preside della facoltà di filosofia dell'Università del Michigan. Tra le sue opere: Citizenship and Salvation, Boston 1897; Dynamic Idealism; Chicago 1898; Philosophy of History, Ann Arbor 1899; The Will to Doubt, New York 1907; Leadership and Progress, New York 1922. La filosofia di Lloyd è un idealismo dinamico o attivistico che precorre per certi aspetti quello di Gentile, pur distinguendosene per un minor soggettivismo. Ripensando liberamente la dialettica hegeliana, egli insiste sulle categorie di spazio, tempo e causalità, intimamente correlate in un monismo dinamico, e le cui relazioni sono «il criterio stesso della sostanza», della sua vitalità e intelligibilità. In morale Lloyd si ispira a Spinoza, considerando il bene e il male dal punto di vista della ragione universale. Alla «volontà di credere» di William James egli oppone la «volontà di dubitare», convinto che non la fede ma il dubbio e la critica siano necessari alla vita e al pensiero. In politica sostenne una concezione liberale.

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Lloyd definì la sua filosofia come una «metafisica della psicologia» o una «dottrina dell'anima». N. Bosco BIBL.: E.S. BATES, s. v., in «Dictionary of American Biography», vol. XI, New York 1946; H.W. SCHNEIDER, Storia della filosofia americana, tr. it. di V. Ferratini, Bologna 1963, pp. 501-504; E. SHIRK, Alfred Lloyd: beyond Labels, in «Transactions of the C. S. PeirceSociety», 15 (1979), pp. 269-282.

LOBACEVSKIJ, NIKOLAJ IVANOVIC. – MateLobacevskij matico russo, fondatore con Gauss e Bólyai delle geometrie non euclidee; n. in Russia nel distretto di Makarev il 22 ott. (2 nov.) 1793, m. a Kazan’ il 12 febbr. 1856. Studiò sotto la guida del matematico tedesco Bartels all’università di Kazan’; vi fu in seguito professore e poi rettore. Tra le opere: Geometria immaginaria, in «Scritti scientifici dell’Università di Kazan’», 1829-30; Nuovi princìpi della geometria (1835, tr. it. a cura di R. Pettoello, Torino 1965, 19942); Geometrische Unterstechungen zur Theorie der Parallellinien (Berlin 1840); Pangeometria (in «Scritti scientifici dell’università di Kazan’», 1856). Non è certo che gli studi di Gauss, amico di Bartels, abbiano causato l’interesse di Lobacevskij per le geometrie non euclidee; ma pare che egli conoscesse i risultati ottenuti da G. Saccheri e da G.E. Lambert. Lobacevskij, verificata l’inutilità di tutti i tentativi effettuati per dimostrare il quinto postulato di Euclide, lo considerò indipendente dagli altri postulati euclidei e costruì una geometria fondata sulla sua negazione. Nella geometria il tratto più caratteristico è l’esistenza di due parallele ad una retta data, passanti per un punto dato: esse dividono le rette del loro fascio in secanti e non secanti rispetto alla retta data. La posizione di Lobacevskij presenta un notevole interesse logico, perchè mostra che anche sulla negazione del postulato delle parallele si può fondare una geometria coerente, e costituisce uno dei principali punti di vista dai quali il pensiero giunge alla elaborazione del sistema ipoteticodeduttivo. La sua concezione dello spazio è nettamente antitetica a quella kantiana e di stampo empirista. A suo avviso è possibile ritenere che la natura non sia dotata di una sola geometria, dal che consegue che spetta all’esperienza decidere quale sistema

Localismo geometrico risulta più adatto in una certa situazione. M. Marsonet BIBL: R. BONOLA, La geometria non euclidea: esposizione storico-critica del suo sviluppo, Bologna 1906, rist. 1975; F. ENRIQUES, Le matematiche nella storia e nella cultura, Bologna 1938, rist. 1982; L. MAGNANI (a cura di), Le geometrie non euclidee, Bologna 1978; B.A. ROSENFELD, A History of Non-Euclidean Geometry. Evolution of the Concept of a Geometric Space, New York 1988; E. AGAZZI - D. PALLADINO, Le geometrie non euclidee e i fondamenti della geometria dal punto di vista elementare, Brescia 1998.

LOCALISMO (localism; Lokalism; localisme; loLocalismo calismo). – Dal punto di vista metodologico, il localismo appare come una modalità di interpretazione del diritto (Antonio Manuel Hespanha, Introduzione alla storia del diritto europeo, tr. it. Bologna 1999) legata alla sua storicità: «Le soluzioni giuridiche sono sempre contingenti in rapporto ad un certo contorno (o ambiente). Sono in questo senso sempre locali» (ibi, p. 9); «L’orientamento proposto, nel momento in cui si relativizzano i modelli giuridico-istituzionali, ci invita ad una prospettivazione storica, ad una lettura nel contesto della storia delle forme culturali e, naturalmente, del loro radicarsi nei contesti pratici» (ibi, p. 59). Sul piano del diritto pubblico, il localismo viene evocato in funzione dell’affermazione di diversi principi costituzionali e amministrativi. Il principio del riconoscimento e della valorizzazione dell’autonomia locale, come complesso dei diritti di cui godono (o dovrebbero godere) le comunità locali attestate nel loro territorio (Carta Europea dell’autonomia locale, Consiglio d’Europa, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985; Costituzione della Repubblica Italiana, art. 5), e rappresentate dai propri enti locali; il principio del pluralismo istituzionale politico, contrapposto a quello del decentramento, inteso come principio organizzativo della pubblica amministrazione (pluralismo funzionale); il (conseguente) principio della delega di funzioni per la efficienza e l’efficacia dell’organizzazione della pubblica amministrazione. Il localismo diventa, allora, principio di costruzione della forma dello stato, prima di essere premessa di principi organizzativi: uno stato di democrazia partecipativa, nel quale soggetto del diritto sono non solo i singoli individui, ma altresì le formazioni sociali originarie «dove si svolge la loro personalità». Lo «Stato sociale 6529

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Locke delle autonomie» rappresenta l’architettura di tale forma di stato, per il quale le istituzioni – e, più ampiamente, l’intero ordinamento – trovano il loro radicamento nella concreta storia delle comunità locali, con la conseguenza che il «sistema» istituzionale si costruisce con successive forme di partecipazione e rappresentanza e, pertanto, di legittimazione democratica. Questa concezione «organica» della costruzione dell’ordinamento pubblica (Duguit, Durkheim, Mounier, Sturzo, Chanoux) fonda perciò sul riconoscimento dell’autonomia delle autonomie locali (localismo) la costruzione e il funzionamento di uno stato delle autonomie (comunali, provinciali, regionali), contrapposto da una parte dallo stato centralizzato e, dall’altra, allo stato federale. G. Garancini BIBL.: A. PUBUSA, Sovranità popolare e autonomie locali nell’ordinamento costituzionale italiano, Milano 1983; C. GEERTZ, Welt in Stücken: Kultur und Politik am Ende des 20. Jahrhunderts, Wien 1996, tr. it. di A. Michler - M. Santoro, Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del XX secolo, Bologna 1999; E. ZARELLI, Un mondo di differenze. Il localismo tra comunità e società, Casalecchio 1998. ➨ STATO; FEDERALSIMO; FORMAZIONI SOCIALI INTERMEDIE.

LOCKE, ALAIN LEROY. – N. il 13 sett. 1886 a Locke Philadelphia, m. il 9 giu. 1954 a New York City. A Harvard conseguì il Philosophy Degree con una tesi su Problems of Classification in Theory of Value (1918). Fervente attivista del movimento dei neri americani, contribuì alla Harlem Renaissance valorizzandone la cultura. Attraverso i concetti di civilization type e culture citizenship, propose una revisione del significato di razza non più concepita nella sua componente fisica e biologica, ma come costruzione sociale (The New Negro, New York 1925). Alla base del suo «pluralismo culturale» vi è la necessità di determinare i valori (tra questi l’unicità di ogni persona) che governano le relazioni e la condotta umana. La sua concezione della democrazia infatti si basa sui valori del pluralismo, della tolleranza e della reciprocità. Sulla scia del pragmatismo di Dewey e James, Locke rifiuta ogni fondazione metafisica, epistemica e estetica. Nell’analizzare il ruolo del potere negli affari umani, il suo «pragmatismo critico» si prospetta come una teoria della società che unifica la razza con la cultura e l’economia politica. 6530

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Tra le altre opere ricordiamo: Diversity within National Unity, Washington 1945. G. Marchetti BIBL.: M.J. BUTCHER, The Negro in American Culture: Based on Materials Left by A. Locke, 1956; R.J. LINNEMANN, A. Locke: Reflections on a Modern Renaissance Man, Baton Rouge 1982; J. C. STEWART (a cura di), The Critical Temper of A. Locke, 1983; J. WASHINGTON, A. Locke and Philosophy, Westport 1986; L. HARRIS (a cura di), The Philosophy of A. Locke, Philadelphia 1989; J. WASHINGTON, A Journey into the Philosophy of A. Locke, Westport 1994; L. HARRIS (a cura di), The Critical Pragmatism of A. Locke, Lanham 1999; C. BUCK, A. Locke, Los Angeles 2005.

LOCKE, JOHN. – N. a Wrington il 29 ag. 1632, Locke m. a Oates il 28 ott. 1704. SOMMARIO: I. La formazione a Oxford. - II. Manoscritti sul magistrato e sulla legge di natura. - III. A Londra e in Francia: la maturazione del pensiero. - IV. I «Trattati sul governo». - V. Il periodo olandese e la «Lettera sulla tolleranza». - VI. Il «Saggio sull’intelletto umano»: 1. Il primo libro del «Saggio»: contro l’innatismo. - 2. Il secondo libro del «Saggio»: le idee. - 3. Il terzo libro del «Saggio»: il linguaggio. - 4. Il quarto libro del «Saggio»: la conoscenza. - VII. Il rientro in Inghilterra e gli anni di Oates: la «Ragionevolezza del cristianesimo» e gli scritti esegetici. VIII. L’educazione dell’uomo. I. LA FORMAZIONE A OXFORD. – Dopo aver frequentato la Westminster School, rinomata per la severa preparazione nello studio dei classici e delle lingue antiche, Locke venne accolto come studente al Christ Church College di Oxford nel 1652. Il giovane Locke, come ebbe a confessare più tardi, non amò l’insegnamento della filosofia ricevuto al Christ Church College, sia perché esso era impartito secondo un rigido e ripetitivo metodo fondato sull’autorità di Aristotele, sia perché esso abituava, col grande uso che faceva della disputa scolastica, più alla difesa delle proprie tesi che non alla ricerca della verità. Furono in particolare i temi etici e religiosi a occupare l’attenzione di Locke. In quegli anni a Oxford anche l’insegnamento della filosofia morale veniva impartito sulla scorta di manuali scolastici ispirati alle dottrine di Aristotele. Di Aristotele si leggevano brani raccolti nell’edizione degli Aristotelis de moribus ad Nicomachum libri decem commentata da Dionysius Lambinus, o nell’Epitome di Theophilus

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Golius. Il manuale di morale allora più utilizzato a Oxford era il breve trattato latino di Eustachius Asseline, Ethica, sive Summa moralis disciplinae, edito a Londra nel 1658. Si trattava di una sintetica presentazione dell’etica, ove venivano affrontati i temi della natura della felicità, dei principi delle azioni umane, delle passioni, delle virtù e dei vizi, della legge morale, con esplicita ispirazione all’insegnamento di Aristotele, integrato dagli apporti di autori medioevali. Nonostante le critiche sulla formazione ricevuta, il riferimento alle dottrine della tradizione aristotelica rimase per molti aspetti determinante nella elaborazione del suo pensiero. Oltre l’insegnamento istituzionale dell’etica influirono sulla sua formazione le numerose letture delle opere degli storici e dei moralisti dell’antichità classica che i corsi di greco e latino offrivano agli studenti. Era viva la convinzione che, dato il fondamento razionale dell’etica, pure lo studio dei moralisti greci e latini dell’antichità classica e pagana potesse offrire un contributo significativo. Di non poca importanza furono inoltre, tanto per la sua formazione culturale generale, quanto per le sue indagini etico-religiose, le vaste e attente letture dei libri di racconti e resoconti di viaggi di esploratori, geografi, missionari, ambasciatori, che, a partire dagli anni oxoniensi, accompagnarono Locke nel corso della sua vita. Questo gli permise di condurre le sue argomentazioni tenendo conto non solo dei principi generali della tradizione culturale delle civiltà mediterranee ed europee, ma anche degli usi e costumi di popolazioni lontane per credenze, pratiche e tradizioni. Accanto agli studi di metafisica e di etica Locke, alunno del Christ Church College, dovette affrontare seri studi di teologia, sacra scrittura e storia ecclesiastica. La lettura della sacra scrittura era condotta su edizioni nelle lingue originali. L’ebraico e il greco erano due lingue insegnate con cura a Oxford, e Locke ebbe modo di perfezionarne la conoscenza durante l’intero periodo della sua permanenza a Oxford, grazie alle lezioni del celebre Edward Pococke. Insieme con la bibbia, il punto di riferimento della formazione religiosa dei giovani studenti di Oxford restava lo studio dei Trentanove Articoli della Chiesa Anglicana, e dei principali loro commentari. Tra i testi di teologia erano particolarmente letti le opere di Hooker, la Religion of the Protestants di Chillingworth, il Prac-

Locke tical Cathechism di Hammond e, dal 1659, l’Exposition of the Creed di Pearson. Anche il De Veritate Religionis Christianae di Grozio era noto; esso anzi era destinato a diventare uno dei libri più attentamente letti nel secolo successivo. A Oxford, nell’insegnamento della natural philosophy, l’aggancio con la tradizione aristotelica restava vivo a livello ufficiale, e i manuali scolastici quali l’Epitome Naturalis Scientiae di Daniele Sennertus, l’Idea Philosophiae Naturalis di Franco Burgersdicius, e l’Enchiridion Physicum di Gaspare Bartholinus continuarono per lunghi decenni a essere il punto di riferimento della formazione degli studenti. In pari tempo però importanti spazi nello studio della medicina, dell’anatomia, della farmacologia, della botanica, della meccanica, furono conquistati dallo sperimentalismo di alcuni gruppi di scienziati. Proprio a Oxford, presso il Wadham College, si tenevano quegli incontri da cui sarebbe sorta la Royal Society e Richard Lower, discepolo di quel Thomas Willis che fu autore del De Cerebri Anatome, introdusse Locke allo studio dell’anatomia, della medicina e delle scienze sperimentali. In quegli anni era a Oxford anche Robert Boyle, del quale Locke divenne oltre che discepolo e collaboratore, anche devoto amico. Con lui egli collaborò negli studi sulla pressione atmosferica e sul clima e partecipò ad alcune indagini scientifiche. La vicinanza a Robert Boyle e ai virtuosi di Oxford influì in modo determinante sugli esiti della sua riflessione nel campo della filosofia della natura, sorresse il distacco dalle dottrine dell’aristotelismo accademico, gli offrì elementi di critica valutazione delle tesi degli Spagirici, lo condusse a una cauta adesione ad alcune tesi fisiche cartesiane, ma soprattutto gli fornì quel plain historical method al quale Locke cercò di attenersi nelle indagini che condusse anche fuori dall’ambito della filosofia della natura. Locke condivise la dottrina corpuscolare sostenuta da Boyle. La trovò convincente in quanto gli permetteva di studiare i fenomeni della natura sulla base non di astratte categorie concettuali, bensì di un’attenta registrazione di dati sperimentali. Al pari di Boyle, Locke rimase lontano dalla pretesa di poter arrivare a una comprensione esaustiva dei fenomeni della natura in forza di una conoscenza dell’essenza intima dei corpi, e la sua scelta del corpuscolarismo restò la scelta di un’ipotesi interpretativa che non presumeva 6531

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Locke certo di poter fornire risposte adeguate a tutti gli interrogativi. Boyle esercitò un notevole influsso sul pensiero non solo scientifico, ma anche critico e religioso di Locke; gli interessi di Boyle non si limitavano infatti alle scienze sperimentali, ma si estendevano a temi teologici e scritturistici. Il suo contributo fu determinante per l’origine e la maturazione delle riflessioni lockiane sul rapporto tra fede e ragione, destinate a trovare definitiva formulazione nel quarto libro del Saggio sull’intelletto umano. Locke infatti, anche quando per la lontananza di Boyle non poté più fruire di un personale confronto, non cessò di seguire con un’attenta lettura la produzione teologica e apologetica dell’amico. II. MANOSCRITTI SUL MAGISTRATO E SULLA LEGGE DI NATURA. – A stimolare Locke all’approfondimento dei problemi religiosi e morali contribuirono soprattutto gli eventi sanguinosi e le violente passioni che afflissero l’intera Inghilterra durante gli anni del Protettorato e della Restaurazione stuartiana. Essi ebbero in Locke, allora giovane studioso del Christ Church College di Oxford, un critico spettatore. Furono proprio queste vicende a portarlo a quelle indagini su temi politico-religiosi, di cui resta testimonianza in alcuni inediti Scritti sul magistrato civile, risalenti appunto agli anni 166062. Già in essi Locke, per quanto ritenesse preminente la ricerca di una soluzione politica per la generale pacificazione, e si mostrasse propenso a concedere spazio a un intervento pacificatore dell’autorità politica anche in campo religioso, non nascose il suo desiderio di condurre un’attenta disamina su temi fondamentali, quali il rapporto tra autorità e obbligazione, tra precetti divini e leggi umane, tra origine dell’autorità civile e volontà divina. Locke era convinto della necessità di sottoporre a un severo esame critico proprio i concetti di legge di natura, di obbligazione, di ragione per dare fondamento alle convinzioni politicoreligiose che si appellavano alla fede, alla coscienza, alla legge divina. Il tema della legge di natura divenne così dapprima oggetto dello studio di Locke e di un confronto privato con i suoi amici, e poi, quando nel 1664 egli ricoprì la carica di censor di filosofia morale, divenne oggetto di insegnamento e di dibattito nel Christ Church College. Gli scritti Sulla legge di natura che in questa occasione egli compose, e che rimasero manoscritti, si articolano in otto questioni relative 6532

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all’esistenza della legge di natura (Quaestio I), alla sua conoscibilità (Quaestiones II-V), alla sua obbligazione (Quaestiones VI-VII) e al suo fondamento (Quaestio VIII). Le tesi dell’esistenza della legge di natura, dei suoi connotati specifici di legge e di legge divina, della sua universale obbligatorietà, della sua conformità con l’ordine della creazione e con la natura razionale dell’uomo, sostenute in questi manoscritti, mostrano uno stretto legame con la tradizione di pensiero presente negli scritti di eminenti teologi inglesi del primo Seicento e una forte connessione con le dottrine giusnaturalistiche che si stavano affermando in Europa. Influenzarono la riflessione lockiana sul tema della legge di natura le opere di Richard Hooker, di Robert Sanderson, di John Selden, di Ugo Grozio, di Samuel Pufendorf. Gli stessi riferimenti polemici alle dottrine hobbesiane, che emergono in modo più ampio e più chiaro nella Quaestio VIII, ove appunto Locke rifiuta la tesi dell’utilità individuale come fondamento della legge di natura, non si possono adeguatamente intendere al di fuori del quadro delle reazioni secentesche alle tesi di Hobbes. La definizione della legge di natura, data da Locke nella prima Quaestio, come «ordinatio voluntatis divinae lumine naturae cognoscibilis, quid cum natura rationali conveniens vel disconveniens sit indicans eoque ipso jubens aut prohibens» richiama quella data da Grozio: «Jus naturale est dictatum rectae rationis, indicans actui alicui, ex ejus convenientia vel disconvenientia cum ipsa natura rationali, inesse moralem turpitudinem, aut necessitatem moralem, et consequenter ab auctore naturae ipso Deo, talem actum aut vetari aut praecipi». È una definizione ove compare chiaramente la convinzione che la legge di natura debba in pari tempo essere intesa come espressione sia della volontà divina sia della intrinseca conformità all’ordine naturale. L’imperativo divino e la conformità all’ordine della creazione sono due aspetti di quella medesima «ordinatio voluntatis» del Creatore da cui promana questa legge. La dichiarazione della volontà divina è certamente il requisito essenziale della legge di natura, senza di cui essa non sarebbe legge (è la «legis ratio formalis»); nella definizione lockiana però il comando divino è prescrizione di ciò che è intrinsecamente conforme con la natura razionale. Si sarebbe autorizzati a leggere la dottrina eti-

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ca lockiana in un’ottica volontaristica, in contrasto con l’«ordinatio rationis» della concezione tomistica, solo se ci si fermasse all’«ordinatio voluntatis divinae» senza considerare, come Locke esplicitamente indica, il suo intrinseco collegamento con il «quid cum natura rationali conveniens vel disconveniens sit». La condivisione di queste importanti tesi relative alla legge di natura non trattenne però Locke passivamente nel solco della linea di pensiero di questi autori. Proprio in questi manoscritti, egli operò uno stacco di notevole importanza relativamente al problema della conoscibilità della legge di natura. La distinzione operata tra ragione nella sua accezione di recta ratio e ragione come humana facultas, e il chiarimento dello specifico modo di operazione di questa facoltà umana in tutti gli ambiti della conoscenza, e quindi anche in quello delle verità etiche fondamentali, lo portarono a una ferma opposizione nei confronti di convinzioni e dottrine che pur avevano raccolto ampi consensi, quali quelle dell’iscrizione della legge di natura nel cuore di tutti gli uomini, dell’innatezza dei principi morali, della validità del consenso universale come principio veritativo, della particolare autorità della tradizione. Locke fece di questa indagine l’occasione per la prima e organica formulazione dei capisaldi della sua dottrina della conoscenza che, se pur perfezionata e integrata, conservò immutata. Alla conoscenza di questa legge di natura, che vale per tutti gli uomini e non dipende da una volontà fluttuante e mutevole, ma «dall’ordine eterno delle cose», la ragione umana può pervenire, partendo dall’esperienza sensibile. Nella Quaestio IV con chiarezza Locke indica il ruolo necessariamente congiunto della ragione e dei sensi nel processo della conoscenza umana e afferma che il punto di partenza della nostra conoscenza, anche relativamente alle cose più alte, rimane l’esperienza sensibile: «Il fondamento sul quale poggia tutto quell’edificio di conoscenza, che la ragione eleva progressivamente verso l’alto e che erige fino al cielo, sono gli oggetti dei sensi; i sensi infatti sono i primi fra tutti a fornire e introdurre nei più reconditi recessi dell’animo tutt’intera la primaria materia del ragionamento». La facoltà razionale dell’uomo, partendo dai dati sensibili, è in grado di giungere a dimostrare l’esistenza del Dio legislatore: «la ragione pertanto, fatte queste deduzioni a partire

Locke dalla testimonianza dei sensi, asserisce che vi è un qualche potere superiore al quale siamo giustamente soggetti, cioè Dio, il quale in noi ha un giusto e ineluttabile dominio». Di qui essa può quindi procedere a dimostrare esistenza e contenuti della legge di natura. Considerando la sapienza di Dio e il fine dell’azione creatrice divina e tenendo presente l’ordine delle cose, la ragione umana è messa in grado di «dedurre il motivo e la regola certa del nostro dovere». Infatti, «non essendo stato fatto l’uomo sconsideratamente, né essendogli state donate per nulla le facoltà che egli può e deve esercitare, questo sembra essere il compito dell’uomo per l’adempimento del quale egli è stato dalla natura preparato: che cioè, dato che trova in se stesso i sensi e la ragione, si sente incline e preparato a contemplare le opere di Dio e ad ammirare in esse la sua sapienza e potenza e quindi a rendere a un così eccelso e benefico creatore il più degno tributo di lode, onore e gloria; e poi anche a conciliare e a conservare la propria vita in unione con gli altri uomini, spinto a ciò non solo dalla necessità o dai bisogni dell’esistenza, ma sollecitato da una certa propensione della natura a far parte di una società e fornito del dono della parola e della comunicazione verbale per difenderla, almeno nella misura in cui sia obbligato a conservare se stesso». III. A LONDRA E IN FRANCIA: LA MATURAZIONE DEL PENSIERO. – Nell’estate del 1666 Locke conobbe Lord Anthony Ashley Cooper, il futuro primo conte di Shaftesbury. Di passaggio a Oxford questi poté apprezzare non solo la preparazione medica del giovane fellow, ma ammirare la sua lucida e versatile intelligenza. Su suo pressante invito l’anno seguente Locke si trasferì a Londra, presso di lui all’Exeter House, iniziando una collaborazione che risultò preziosa non solo per le cure mediche, ma per molti affari politici e di stato. Gli anni trascorsi a Londra permisero a Locke, nonostante alcuni impegni di natura politica, di continuare ad approfondire i suoi studi e gli diedero occasione di fare importanti incontri. A Londra egli ebbe modo di ascoltare i sermoni di Benjamin Whichcote e di conoscere Tillotson, Mapletoft, Fowler. Fu così che non solo grazie alla lettura dei libri di questi teologi, ma grazie alla stessa loro predicazione e agli incontri personali, la riflessione di Locke si aprì all’influsso della speculazione dei Platonici di Cambridge e della teologia latitudinaria su 6533

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Locke problemi riguardanti il rapporto tra ragione e fede, gli eccessi dell’entusiasmo, la politica ecclesiastica, la conoscibilità razionale delle leggi morali. Nel 1668 Locke fu eletto membro della Royal Society, la prestigiosa istituzione che, sotto gli auspici della Corona, raccoglieva tra i suoi membri non solo gli studiosi di scienze sperimentali, ma anche alti rappresentanti della vita culturale e politica inglese. Nel 1667, sotto l’influenza di Lord Ashley, sostenitore di una politica di pacificazione in Inghilterra tra le chiese riformate intesa a favorire il partito del Parlamento contrario alle manovre filocattoliche della Corona, Locke ritornò a trattare il tema della tolleranza religiosa, rivedendo le tesi sostenute nei suoi precedenti Scritti sul Magistrato. Questa revisione veniva dopo l’inasprimento della restaurazione stuartiana in campo religioso contro i dissenzienti puritani, e traeva insegnamento dall’esperienza del suo soggiorno a Clèves, ove egli aveva avuto modo di vedere, come aveva scritto a Boyle, che calvinisti, luterani e cattolici «permettono pacificamente l’uno all’altro di scegliere la propria strada per il cielo» senza «alcuna contesa o animosità tra di loro per motivi di religione». Nell’Essay concerning Toleration Locke limitò notevolmente il diritto di intervento del magistrato civile nelle questioni religiose. Egli sostenne che le questioni speculative e il culto divino «godono di un diritto alla tolleranza assoluto e universale». Il magistrato civile infatti in questioni che si svolgono interamente tra Dio e il singolo uomo non ha potere di intervento alcuno, essendo queste estranee alla sua competenza. Né egli può ricevere un tale potere per delega, perché «non si può pensare che gli uomini conferiscano al magistrato il potere di scegliere per conto loro la via della salvezza, che è potere troppo grande perché possa essere ceduto, se pure sia mai possibile separarsene». Solo dove le credenze religiose superano la sfera del privato e vengono a incidere sulla costituzione o sull’ordinamento della società umana, è compito del magistrato civile intervenire e legiferare per quel tanto che esse non abbiano a turbare la pace dello stato, e causare svantaggio alla comunità. Risalgono al periodo londinese gli incontri all’Exeter House, che videro radunati, insieme con Locke, Tyrrell, Mapletoft, Sydenham e lo stesso Lord Ashley, per discutere su problemi scientifici, teologici e filosofici. In questi in6534

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contri maturò in Locke il proposito di iniziare quelle indagini sull’umana conoscenza che avrebbero portato alla composizione del Saggio sull’intelletto umano. Egli ritenne infatti necessario, come ricordò più tardi nell’Epistola al lettore del Saggio, «esaminare la nostra stessa capacità, e vedere quali oggetti siano alla nostra portata, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione», proprio per riflettere – come testimonia Tyrrell – intorno «ai principi della morale e della religione rivelata», cioè intorno a quei temi teologici così cari a Locke e alla cultura inglese del Seicento. Per questi incontri Locke mise in ordine «alcuni pensieri frettolosi e maldigesti», stese cioè alcune tracce di riflessione da sottoporre agli amici. Così, nell’estate del 1671, per precisare e approfondire gli argomenti di queste indagini scrisse un Primo abbozzo del Saggio (Draft A) in cui venne a trattare i temi dell’origine e dell’estensione dell’umana conoscenza, poi sviluppati nel quarto libro del Saggio. A questo abbozzo non terminato Locke fece seguire nell’autunno dello stesso anno un Secondo abbozzo (Draft B) in cui diede una nuova, più ampia e ordinata stesura dei propri pensieri sull’umana conoscenza. In esso si soffermò su molti argomenti che avrebbero costituito il secondo libro del Saggio, quali le idee complesse, la conoscenza delle sostanze e delle relazioni, la durata, il tempo, il movimento, l’infinito, il rapporto causa-effetto. Locke non si accontentò però di questi pensieri raccolti per la discussione con gli amici all’Exeter House. Alla stesura degli abbozzi, che suggerivano il tracciato provvisorio della ricerca speculativa lockiana, seguirono numerosi anni di riflessione su quei temi di «etica e di religione rivelata», muovendo dai quali maturarono, nel più ampio confronto con la cultura europea, le dottrine esposte nel Saggio. Gli anni della permanenza di Locke in Francia per motivi di salute, tra il 1675 e il 1679, furono anni ricchi di incontri e densi di studio, che favorirono riflessioni e approfondimenti documentati nei suoi Journals e in parte confluiti nelle sue opere maggiori. Prima nel Sud della Francia a Montpellier, e poi dal giugno del 1677 a Parigi, Locke ebbe modo di seguire i dibattititi sulla filosofia cartesiana, di conoscere di persona alcuni filosofi di ispirazione cartesiana, tra cui Pierre-Sylvain Régis, di leggere libri assai discussi, quali la Recherche de la Vérité del padre Malebranche e le Pensées di Pascal,

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di disporre delle varie edizioni delle opere di Cartesio: tutte cose che certamente gli permisero di meglio conoscere la filosofia cartesiana sulla quale si stavano riversando sospetti e condanne. Alcune pagine manoscritte dei suoi Journals, risalenti al primo periodo del soggiorno francese, mostrano l’attenzione riservata da Locke alle dottrine morali di Gassendi. Nelle pagine scritte il 16 luglio 1676, in cui egli tratta del piacere, del dolore e delle passioni, si trovano chiare consonanze con alcune tesi epicuree, riproposte da Gassendi nella Pars tertia del Syntagma dedicata appunto alla morale; consonanze destinate a permanere nel Saggio, dove Locke riconduce alle idee semplici di piacere e di dolore tutte le idee complesse relative alle umane passioni, e dove propone una più consapevole e articolata considerazione del ruolo del piacere, del dolore e delle passioni in campo morale. Locke, che aveva già avuto modo di conoscere il Syntagma Philosophicum di Gassendi prima della sua venuta in Francia, incontrò a Parigi i seguaci di Gassendi, Gilles de Launay e François Bernier, dal quale ebbe in dono l’Abrégé de la philosophie de Gassendi, recentemente edito. A Montpellier Locke venne anche in contatto con la comunità ugonotta soggetta agli interventi intimidatori e oppressivi del governo di Luigi XIV contro i riformati negli anni precedenti alla revoca dell’editto di Nantes. Questo lo confermò nella convinzione che il primo elemento di garanzia per la concordia religiosa fosse la netta distinzione degli ambiti di competenza civile e religioso: «Perché regni la pace in quelle zone in cui vi sono diverse confessioni religiose, bisogna che due cose siano perfettamente distinte: la religione e il governo, nonché i rispettivi ministri e magistrati e le loro specifiche competenze; un magistrato deve solamente preoccuparsi della pace e della sicurezza politiche, mentre i ministri devono solamente badare alla salvezza delle anime, e, se sarà loro proibito di immischiarsi in questioni politiche quando predicano, probabilmente la pace sarà meno turbata» (Journal, 23, viii,1676). Nel Sud della Francia Locke si scontrò infine con alcune forme di religiosità dei cattolici, che gli sembravano dipendere troppo da un irrazionale assenso fideistico. Egli fu così sollecitato a riflettere con nuovo impegno sul tema del rapporto tra fede e ragione, tema che era

Locke destinato ad assumere un ruolo centrale nel quarto libro del Saggio. In queste sue riflessioni fatte in Francia e consegnate esse pure ai suoi Journals, egli era confortato dalla lettura del recente libro di Boyle, dedicato alla Reconcileableness of Reason and Religion (1675). IV. I «TRATTATI SUL GOVERNO». – Nel 1679 Locke fu richiamato a Londra da Shaftesbury il quale, migliorati i rapporti con la Corona, era stato nominato presidente del Consiglio del re. Alla sua collaborazione nell’attività politica si affiancò in questi anni la cura dell’educazione del giovane nipote di Lord Shaftesbury, il futuro filosofo. I Trattati sul governo di Locke furono occasionati dall’edizione postuma, del 1680, di uno scritto di Robert Filmer, composto circa quarant’anni prima, dal titolo Patriarcha: or the Natural power of the Kings, in cui erano sostenute le tesi dell’assolutismo monarchico e del diritto divino dell’autorità regia. Bersaglio polemico di Filmer era «l’opinione comune secondo cui gli uomini nascono dotati della libertà da ogni soggezione e del diritto di scegliere la forma di governo che preferiscono, e che il potere che un uomo ha sugli altri gli fu in principio concesso dalla volontà del popolo». La storia dei primordi dell’umanità mostrava invece che Adamo, in quanto padre, ricevette da Dio autorità piena e assoluta sui figli, e «questa soggezione dei figli ai loro padri è l’origine di ogni autorità regale». Questa autorità di Adamo passò ai patriarchi, che furono padri del loro popolo, e che quindi «ebbero, per diritto di paternità, autorità sui propri figli». E ancora oggi, come fu per i patriarchi, è lo stesso diritto di paternità a fondare l’autorità dei re. Contro le tesi sostenute in questo libro l’amico di Locke James Tyrrell pubblicò anonimo nel 1681 il volume Patriarcha non Monarcha, in cui difese la dottrina dell’uguaglianza originaria degli uomini. Nello stesso periodo Locke compose i suoi Two Treatises of Government, nei quali confutò le dottrine di Filmer e sviluppò in modo organico le proprie teorie politiche. I due trattati furono pubblicati solo nel 1690, dopo l’avvento al trono di Guglielmo d’Orange, con qualche ritocco e con una prefazione consona alla nuova situazione politica, di cui essi intesero divenire giustificazione teorica. Nel primo Trattato Locke confutò le tesi di Filmer. L’autorità dei monarchi non poteva essere assimilata al potere paterno, il quale «non 6535

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Locke può essere trasmesso per eredità, perché essendo questo un diritto che proviene soltanto dalla generazione, nessuno può avere questo dominio naturale su uno ch’egli non genera» (I Treatise, § 74). Anche il diritto di proprietà, rivendicato da Filmer ad Adamo come diritto personale particolare, ricevuto «per donazione e concessione di Dio onnipotente», era ritenuto invece da Locke diritto di tutti gli uomini, in quanto «la proprietà dell’uomo sulle creature era fondata sul diritto che egli aveva di servirsi di quelle cose che erano necessarie o utili alla sua esistenza» (I Treatise, § 86). Nel secondo Trattato Locke espose la propria dottrina politica. Anch’egli partiva dalla considerazione dello stato di natura visto come stato di originaria uguaglianza e di perfetta libertà. Locke non lo riteneva però uno stato ferino, perché questa libertà rimane inserita «entro i limiti della legge di natura». Infatti «sebbene esso sia uno stato di libertà, non è tuttavia uno stato di licenza [...] Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, che obbliga tutti» (II Treatise, § 6). Il passaggio dallo stato di natura allo stato associato è conforme alla stessa natura dell’uomo, e risponde in modo più completo alla norma della legge di natura che prescrive la conservazione di sé e degli altri uomini. Per poter condurre una «vita conveniente alla natura umana» bisogna evitare lo stato di forza e di sopraffazione che è lo stato di guerra, originato da quegli uomini che «non sottostanno ai vincoli della comune legge di ragione, e non hanno altra norma che quella della forza e della violenza» (II Treatise, § 16). Ora, costituendosi in società, gli uomini riescono meglio a evitare la contesa e il dominio della forza, «perché dove c’è un’autorità, un potere sulla terra da cui per appello si può ottenere soccorso, lì è esclusa la permanenza dello stato di guerra, e la controversia è decisa da questo potere» (II Treatise, § 21). Entrando a far parte della società politica l’uomo rinuncia alla sua libertà naturale, ma si garantisce una libertà «da ogni potere assoluto e arbitrario, libertà questa pure necessaria e intimamente congiunta alla propria conservazione». La libertà dell’uomo nella società civile consiste infatti per Locke «nel non sottostare ad altro potere legislativo che a quello stabilito per consenso nello Stato, né al dominio di altra volontà o alla limitazione di altra legge che ciò che questo 6536

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potere legislativo stabilirà conformemente alla fiducia riposta in lui» (II Treatise, § 22). Per libero contratto l’uomo si è riunito con altri uomini, ha costituito un sol corpo politico e si è impegnato a sottomettersi alle decisioni della maggioranza. Questa maggioranza soltanto detiene il potere in forza dell’adesione degli uomini a questa società e lo esercita nella forma che ritiene più idonea (democratica, oligarchica, monarchica). Sebbene essa affidi il compito di stabilire le leggi a singole persone, non lo cede a nessuno. Coloro ai quali è affidato il potere legislativo non possono quindi esercitarlo in modo arbitrario, ma solo in conformità con lo scopo che ha spinto gli uomini a entrare a far parte di questa società, che è appunto «la mutua conservazione delle loro vite, libertà e averi, cose che io denomino con il termine generale di proprietà» (II Treatise, § 123). È bene che il potere esecutivo, che è il potere di far eseguire le leggi, rimanga distinto da quello legislativo: per evitare pericolosi abusi non è infatti prudente affidare alle stesse persone questi due poteri. Al potere esecutivo Locke ritiene invece possa essere congiunto il potere federativo, cui compete la cura dei rapporti tra una società politica e le altre società politiche, e quindi «il potere di guerra e di pace, di fare leghe, alleanze, e ogni altro negoziato con tutte le persone e comunità estranee alla società politica» (II Treatise, § 146). Solo l’attenta chiarificazione dei compiti e dei limiti dei vari poteri dello stato permette alla società politica di evitare la tirannia, la quale è appunto «l’esercizio del potere oltre il diritto» (II Treatise, § 199). V. IL PERIODO OLANDESE E LA «LETTERA SULLA TOLLERANZA ». – La caduta politica del conte di Shaftesbury costrinse Locke nel 1683 a cercare asilo in Olanda, ove, raggiunto da una richiesta di estradizione, dovette vivere per lunghi periodi nascosto in casa di amici. Questi anni gli permisero di giungere alla stesura definitiva del suo Saggio e di elaborare e comporre scritti che avrebbe poi pubblicato al suo ritorno in Inghilterra. Tramite Pieter Guenellon, suo amico e medico ad Amsterdam, Locke venne in contatto con l’ambiente scientifico olandese. La lettura degli scritti di Le Clerc e le conversazioni con lui tenute ad Amsterdam sui temi dell’ispirazione e della rivelazione e su vari problemi scritturistici lasciarono la loro traccia, oltre che in appunti manoscritti, in al-

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cune sezioni sia del suo Saggio, sia dei suoi scritti di esegesi neotestamentaria. L’amicizia con Filippo da Limborch, professore di teologia ad Amsterdam, che in quegli anni stava pubblicando la Theologia christiana ad praxin pietatis ac promotionem pacis Christianae unice directa (1686), e che stava raccogliendo materiale per la pubblicazione dell’Historia inquisitionis tolosanae (1692) permise a Locke non solo di approfondire alcune tesi teologiche sostenute con particolare convinzione dai Rimostranti, tra cui quella della distinzione tra verità fondamentali e non fondamentali, ma soprattutto di far propria l’istanza irenica così viva nell’insegnamento di questo teologo e della tradizione teologica rimostrante. I capitoli del libro VII della Theologia christiana, dedicati all’indagine dei fondamenti teologici e delle implicanze pratiche della tolleranza religiosa, riportarono Locke a meditare nuovamente su questo tema, e a integrare nella Epistola de tolerantia (1689) le argomentazioni sulla tolleranza che, come si è visto, egli aveva sostenuto nel Saggio sulla tolleranza del 1667. Limborch non si accontentava di condividere la tesi dell’estraneità completa del magistato civile alle questioni religiose a motivo della sua incompetenza, a richiedere cioè che «Magistratus judicium exerceat in rebus suae cognitioni subjectis». Egli rifiutava all’autorità religiosa l’esercizio di qualsiasi forma coercitiva in ordine alla diffusione della verità religiosa e all’esercizio del culto, non solo in forza di argomenti di natura giuridica o politica. I suoi argomenti erano soprattutto di natura teologica: la coazione in campo religioso doveva essere condannata perché contraria al Vangelo e alla natura autentica della chiesa voluta da Gesù. Questi argomenti furono accolti da Locke, il quale nelle sua Epistola de tolerantia, dedicata non senza motivo proprio a Limborch, li sviluppò accanto a quelli di natura più strettamente politica, quelli cioè che procedevano dalla considerazione dello stato come associazione di uomini costituita in vista del conseguimento di precisi interessi civili e terreni, e dalla considerazione dell’inefficacia della forza coattiva delle leggi umane sull’intima persuasione, nonché dell’incapacità del magistrato e di ogni struttura terrena di garantire beni ultraterreni, argomenti già presenti nell’Essay concerning Toleration del 1667. Oggetto specifico della ricerca di Locke diventa la

Locke «tolleranza reciproca tra i cristiani», ed egli non esita, proprio nelle prime righe di questa Epistola, a dichiarare di ritenere la tolleranza «il principale segno distintivo della vera chiesa» (Works, VI, p. 5). Anche Locke veniva così a condannare la coazione religiosa perché contraria all’insegnamento di Cristo, il quale «inviò i suoi ministri a soggiogare le genti e a raccoglierle in una chiesa non armati di ferro, non di spada, non di violenza, ma provvisti del Vangelo, di un messaggio di pace, di costumi santi e del suo esempio» (ibi, p. 8). Pure ogni imposizione dogmatica è estranea allo spirito del Vangelo: i pastori sono inviati da Cristo a condurre gli uomini alla verità religiosa con la predicazione, convincendoli con l’evidenza degli argomenti e non con la formulazione di dogmi né comminando sanzioni. Nessuna coazione può determinare la scelta di una chiesa. Secondo l’insegnamento del Salvatore, la chiesa, ogni chiesa rimane sempre una società libera e volontaria, e solo per adesione spontanea l’uomo viene a far parte di essa: «l’uomo per natura non fa parte di nessuna chiesa, non è legato a nessuna setta; egli entra spontaneamente nella società in cui crede di aver trovato la vera religione e il culto gradito a Dio. La speranza di salvezza che vi trova, come è l’unica ragione per entrare nella chiesa, così è anche il criterio per rimanervi» (ibi, p. 13). A coloro che pretendono di stabilire una chiesa particolare come la vera chiesa di Cristo, detentrice della verità e dell’autorità divina, Locke, insieme con i teologi rimostranti olandesi e latitudinari inglesi, ricorda che «esattamente il contrario sembra suggerire il passo “Dove due o tre persone si radunano in mio nome, ivi io sarò in mezzo a loro”. Si consideri un po’ se a una riunione in mezzo alla quale è presente Cristo manca qualcosa per essere vera chiesa» (ibi, p. 14). Locke non proponeva però ancora una tolleranza assoluta e universale. Non potevano infatti essere tollerate né dottrine né pratiche che in qualche modo attentassero alla sicurezza o all’esistenza stessa dello stato. L’Inghilterra protestante non poteva quindi ai suoi occhi tollerare i cattolici, che, per la loro sudditanza al Papa, formavano «una chiesa in cui tutti coloro che sono ammessi passano per ciò stesso al servizio di un altro sovrano, e a lui devono obbedienza» (ibi, p. 45). E non si potevano neppure tollerare gli atei, perché l’atei6537

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Locke smo era considerato esiziale per l’umana società: «Per un ateo, infatti, né la parola data, né i patti, né i giuramenti, che sono i vincoli della società umana, possono essere stabili o sacri; eliminato Dio, anche soltanto con il pensiero, tutte queste cose cadono» (ibi, p. 47). VI. IL «SAGGIO SULL’INTELLETTO UMANO». – Durante gli anni dell’esilio in Olanda Locke lavorò alla composizione dell’Essay concerning Human Understanding. L’edizione integrale di questa sua opera, scritta in lingua inglese, comparve soltanto nel dicembre del 1689 a Londra, ma già verso la fine del 1687 Locke ne aveva composto un estratto, che, tradotto in lingua francese e pubblicato da Jean Le Clerc nella «Bibliothèque historique et critique» del febbraio 1688, fu accolto con vivo interesse dai savants d’Europa. L’indagine condotta in questa sua opera maggiore – indagine che si era manifestata necessaria già negli incontri dell’Exeter House per poter trovare risposta agli interrogativi «sui principi dell’etica e della religione rivelata» – concerneva «l’origine, la certezza e l’estensione della conoscenza umana, nonché i fondamenti e i gradi della credenza, dell’opinione e dell’assenso» (Essay, I, I, 1) e intendeva stabilire «i limiti che dividono l’opinione dalla conoscenza» ed «esaminare quali regole debbano essere osservate per determinare con esattezza il grado della nostra persuasione rispetto alle cose di cui non abbiamo una conoscenza certa» (Essay, I, I, 3). Locke era convinto che solo una tale indagine avrebbe permesso di determinare con sicurezza «quali siano i poteri dell’umano intelletto, fin dove si estendano, a quali oggetti siano in qualche grado proporzionati» e avrebbe indotto l’uomo «a essere più cauto nell’immischiarsi in cose che superano la sua comprensione, a fermarsi quando ha raggiunto il proprio limite, e ad adagiarsi in una quieta ignoranza di quelle cose che, dopo averle esaminate, si constata che sono al di là della sfera delle nostre capacità» (Essay, I, I, 4). Locke si era proposto di condurre questa indagine sull’umano intelletto secondo quel plain historical method che, lontano «dall’immischiarsi nella considerazione fisica dello spirito, o dall’esaminare in che cosa consiste la sua essenza», si limita a «considerare le facoltà di discernimento dell’uomo, come sono adoperate nei riguardi degli oggetti con i quali hanno a che fare» (Essay, I, I, 2). 6538

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1. Il primo libro del «Saggio»: contro l’innatismo. – Il primo libro del Saggio è un libro polemico, rivolto contro le dottrine innatistiche: in esso, come per altro già nei suoi Manoscritti sulla legge di natura, Locke intese «provare che il nostro spirito all’inizio non è diverso da ciò che si suol chiamare una tabula rasa: esso è, in altri termini senza idee e senza conoscenza». Locke si muoveva contro «l’opinione diffusa che ci siano nell’intelletto certi principi innati, alcune nozioni primarie, koinaiv e[nnoiai, caratteri per così dire impressi nello spirito dell’uomo, che l’anima riceve fin dal primo momento della sua esistenza e porta con sè nel mondo» (Essay, I, II, 1). L’universale condivisione di alcuni principi speculativi e pratici non poteva essere invocata come argomento probante l’innatezza di alcune nostre conoscenze: oltre al fatto che la pretesa universalità di questo consenso vacilla a un attento esame storico e critico, altre più convincenti spiegazioni si potevano addurre a giustificare le convinzioni più comuni degli uomini, che si mostravano riconducibili alla evidenza o alla facile dimostrabilità. Il riferimento polemico alle dottrine di Edward Herbert da Cherbury è esplicito. Questi aveva sostenuto nel suo De veritate che l’uomo aveva ricevuto da Dio, fin dal momento della sua nascita, alcune notitiae communes, alcuni principia sacrosancta, e che a queste verità fondamentali riguardanti la religione e la morale, note per mezzo dell’instinctus naturalis, non era possibile rifiutare l’assenso. Locke non negava l’esistenza di queste verità, ma confutava la tesi del loro innatismo: «benché mi trovi d’accordo nel riconoscere che abbiamo qui delle verità chiare, e di natura tale che, se fossero ben spiegate, una creatura ragionevole non potrebbe in alcun modo evitare di consentirvi, credo tuttavia che questo autore sia ben lontano dal dimostrarci che si tratta di verità innate, naturalmente impresse nella coscienza di tutti gli uomini, in foro interiori descriptae» (Essay, I, III, 5). È anche chiaro il riferimento polemico alla dottrina delle idee innate sostenuta da Cartesio e formulata, talora con alcune varianti, dai cartesiani che Locke ebbe modo di conoscere nel suo soggiorno francese. I paragrafi in cui Locke mostra che l’idea di Dio non è innata (Essay, I, IV, 8-18) hanno di mira le prove cartesiane dell’esistenza di Dio, che muovono dall’idea di Dio da noi posseduta. Secondo Locke infatti l’idea della divinità non è data

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originariamente; ad essa l’uomo può giungere guidato «dai segni visibili di una saggezza e di un potere straordinario, che appaiono in modo così chiaro in tutte le opere della creazione». Locke mostra di non condivide infine le dottrine innatistiche dei platonici di Cambridge e di molti teologi inglesi del Seicento. Henry More, ad esempio, aveva sostenuto nel suo Antidote against Atheism che l’uomo possiede un’autentica nozione di Dio innata, e che la sua conoscenza di Dio e delle verità eterne è una «conoscenza «naturale, necessaria ed essenziale all’anima umana». Inoltre la dottrina che, pur con diverse sfumature, riconosceva l’esistenza dei princìpi innati era da essi ritenuta necessaria per rendere certi i fondamenti della morale e stabili le credenze religiose. 2. Il secondo libro del «Saggio»: le idee. – Non era possibile l’esame della conoscenza umana, che Locke si era proposto, senza un preventivo attento esame delle idee, vale a dire degli elementi costitutivi del nostro conoscere. E proprio alle idee, e in particolare alla loro origine e alle loro classificazioni, Locke dedicò il secondo libro del Saggio. Locke definisce l’idea come ciò che è «oggetto dell’intelletto quando un uomo pensa» (Essay, I, I, 8). È una definizione che fa seguito a quella da lui proposta nell’Abstract: «chiamo idea ogni oggetto immediato e ogni percezione che si trovano nel nostro spirito quando pensa» (Extrait, II, VII), che riformula quella data da Cartesio nelle Risposte alle Terze Obbiezioni: «prendo il nome di idea per tutto ciò che è concepito immediatamente dallo spirito» (AT VII, 181). La prima fonte da cui scaturiscono le nostre idee è la sensazione: «è evidente che gli oggetti esterni, venendo a contatto con i nostri sensi, producono diverse idee al nostro spirito, che esso precedentemente non aveva» (Extrait, II, I e cfr. Essay, II, I, 3). C’è poi una seconda fonte delle nostre idee, che è la riflessione: «Lo spirito poi rivolgendo la sua attenzione alle operazioni che esso compie sulle idee che gli sono pervenute dalla sensazione, ottiene le idee di quelle stesse operazioni che sono in lui. Questa è l’altra fonte delle nostre idee, che io chiamo riflessione, grazie alla quale noi otteniamo le idee di ciò che si chiama pensare, volere, ragionare, dubitare, decidere ecc.» (Extrait, II, I e cfr. Essay, II, I, 4). L’intento fondamentale di questo secondo libro del Saggio è di mostrare che tutte le nostre

Locke idee, di qualunque tipo, derivano in ultima istanza da queste due fonti originarie, e che quindi tutta la nostra conoscenza trae la sua origine dalla sensazione e dalla riflessione. Locke mostra innanzitutto che le idee semplici, quelle cioè in cui «lo spirito non percepisce alcuna varietà né composizione di sorta, ma delle quali ha soltanto una percezione o un’idea uniforme» (Extrait, II, II) possono derivare solo dalla sensazione e dalla riflessione. «Alcune di queste idee vengono portate allo spirito da un senso solo, come i colori dal senso della vista, i suoni dal senso dell’udito, il caldo e il freddo dal tatto», altre «vengono allo spirito da più di un senso; ad esempio il movimento, la quiete, lo spazio, le figure ci provengono dalla vista e dal tatto»; altre idee poi «ci provengono dalla sola riflessione, come quelle del pensare, del volere e di tutti i loro diversi modi»; altre infine «noi riceviamo dalla sensazione e dalla riflessione unite insieme, come i numeri, l’esistenza, il potere, il piacere e la pena ecc.» (Extrait, II, III-VI). Anche tutte le idee complesse, cioè quella grande varietà di idee che l’umano intelletto formula combinando in diversi modi o separando opportunamente le idee semplici conservate nella memoria (cfr. Essay, II, XII, 1), sono il prodotto della elaborazione di un materiale che proviene soltanto dalla sensazione e dalla riflessione. Locke distingue le idee complesse nelle idee dei modi, delle sostanze e delle relazioni. Le idee dei modi sono «quelle idee complesse che per quanto composte non contengono in sè la supposizione di sussistere per se stesse, ma si considera che siano dipendenze o affezioni delle sostanze» (Essay, II, XII, 4), le idee delle sostanze sono «quelle combinazioni di idee semplici di cui si assume che rappresentino cose particolari distinte, sussistenti di per se stesse» (cfr. Essay, II, XII, 6), le idee delle relazioni sono «l’ultima specie di idee complesse [...] che consiste nel considerare e confrontare un’idea con un’altra» (cfr. Essay, II, XII, 7): esse costituiscono le varie forme possibili delle nostre idee complesse e traggono sempre la loro origine da «quelle idee semplici che lo spirito ha ricevuto da queste due fonti, che sono i materiali di cui sono fatte in definitiva tutte le sue composizioni» (Essay, II, XII, 2). Ogni idea complessa, opportunamente analizzata, può essere ricondotta a originarie idee semplici, derivanti dalla sensazione e dalla ri6539

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Locke flessione. Trattando delle idee dei modi, Locke si sofferma a mostrare tale derivazione anche per le idee di immensità, di eternità e di infinità, che più di ogni altra sembrano lontane da tali fonti legate al particolare e al limitato. Le idee di immensità, eternità e infinità che possediamo, non sono idee originarie, ma nascono dal potere che il nostro spirito ha di ripetere in infinitum le idee più elementari di estensione, durata, numero, che sono frutto della sensazione e della riflessione. Locke infatti ritiene, in netto contrasto con Cartesio, che l’idea di infinito di cui l’uomo è capace non sia un’idea positiva, ma soltanto negativa, che comporta unicamente la negazione del limite o una ripetizione indefinita di perfezioni o sostanze finite (cfr. Essay, II, XIV, 27 e II, XVII). Anche le idee di bene e di male, idee alle quali in modo particolare alcune tradizioni filosofiche avevano attribuito una peculiare originarietà considerandole il fondamento stesso della norma etica, vengono ricondotte da Locke alle idee semplici originarie di piacere e di dolore (cfr. Essay, II, XX). Ma questa riconduzione – come Locke ebbe modo di chiarire in altre sue pagine edite e inedite, tra cui il manoscritto Of Etick in general –non implicava la formulazione di una dottrina etica edonistica, chiaramente in contrasto con le tesi da lui sostenute nei Manoscritti sulla legge di natura. L’interesse primario di Locke in questo capitolo non è quello di ridiscutere i fondamenti dell’etica, bensì quello di mostrare che anche le idee di bene e di male non possono più essere considerate come idee originarie innate, ma devono essere classificate esse pure come idee che traggono la loro origine in ultima istanza da idee semplici del nostro spirito, idee semplici che, nel caso specifico, sono appunto quelle del piacere e del dolore. Altro è indicare la derivazione dell’idea di bene e di male dal piacere e dal dolore a livello conoscitivo, altro è indicare nel piacere e nel dolore il fondamento morale del bene e del male, cosa questa che esula dai compiti di questo capitolo. Locke individua l’origine delle idee delle sostanze, che formano il secondo gruppo delle idee complesse, nella consuetudine che lo spirito ha di vedere che «un certo numero di idee semplici vanno costantemente insieme» e di presupporre «che esse appartengano a una cosa sola [...] e che ci sia un qualche substratum in cui sussistono e dal quale risultano, che 6540

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chiamiamo perciò sostanza» (Essay, II, XXIII, 1). Ma di questo substratum abbiamo un’idea estremamente oscura e confusa, e tanto per le sostanze materiali quanto per le sostanze spirituali ci troviamo di fronte a una realtà che supera le possibilità del nostro conoscere. Locke non nega l’esistenza di sostanze materiali e spirituali, esclude però la conoscenza da parte dell’umano intelletto della loro natura, della loro intima costituzione, perchè l’uomo è «privo di facoltà per raggiungerla» (Essay, II, XXIII, 32). Il discorso diventa più esplicito nei capitoli III e IV del terzo libro del Saggio, dove Locke mostra che la conoscenza alla quale possiamo pervenire si limita alle essenze nominali, e non raggiunge le essenze reali delle cose. Cogliere le essenze nominali significa cogliere un complesso di qualità che ci permette di classificare in una data specie un gruppo di cose, mentre cogliere le essenze reali significa venire a conoscere la costituzione intima e la vera natura delle cose, la profonda struttura da cui derivano le qualità particolari. L’esempio dell’oro è eloquente: «l’essenza nominale dell’oro è quell’idea complessa rappresentata dalla parola oro, cioè ad esempio un oggetto giallo, di un dato peso, malleabile, fusibile, fisso. Ma l’essenza reale è la costituzione delle parti impercettibili di quel corpo, dalla quale dipendono quelle qualità e tutte le altre proprietà dell’oro» (Essay, III, VI, 2). Analoghe osservazioni Locke fa trattando del terzo gruppo delle idee complesse, quelle di relazione. Queste idee possono esse pure ricondursi alla comune fonte della sensazione e della riflessione, e pertanto anche di queste idee la nostra conoscenza è molto limitata. Studiando ad esempio il rapporto causa-effetto, Locke ne riconosce il fondamento reale e oggettivo, ma ribadisce la scarsa conoscenza che, nonostante i progressi delle scienze, noi possiamo avere di esse: non essendo il nostro intelletto in grado di cogliere l’intima natura delle cose, ci sfugge la maggior parte delle loro reciproche operazioni (cfr. Essay, II, XXVI). 3. Il terzo libro del «Saggio»: il linguaggio. – La stretta connessione tra idee e parole, e tra parole e conoscenza, spinse Locke a dedicare l’intero terzo libro del Saggio al tema del linguaggio. Siccome le parole sono «segni delle idee» e siccome la nostra conoscenza si risolve nel cogliere le connessioni esistenti tra le nostre idee, le quali a loro volta possono trovare

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adeguata espressione e comunicazione nel linguaggio, lo studio sia delle idee sia delle parole deve essere considerato come lo studio dei «grandi strumenti di conoscenza». Locke, che condivide e sviluppa le tesi convenzionalistiche del linguaggio, si preoccupa di raccomandare rigore nell’uso delle parole. Per quanto l’imposizione del nome a un’idea non sia determinata da alcun legame naturale «l’uso comune, mediante un tacito consenso, accoppia certi suoni con certe idee in ogni linguaggio, il che limita il significato di quel suono a tal punto che, se un uomo non l’applica alla stessa idea, non parla con proprietà; e mi sia consentito di aggiungere che, se le parole di un uomo non suscitano nell’ascoltatore le stesse idee per cui quelle parole stanno per chi parla, questi non parla in modo intelligibile» (Essay, III, II, 8). Il fatto poi che «la stragrande maggioranza delle parole che formano tutte le lingue sono termini generali» mentre «tutte le cose che esistono sono particolari» (Essay, III, III, 1) porta Locke ad affrontare lo studio dei termini generali, di quei termini che «non rappresentano particolarmente questa o quella singola cosa, bensì specie o categorie di cose» (Essay, III, I, 6). È possibile all’uomo avere conoscenza di questi generi e di queste specie, come pretendevano gli scolastici? Locke, come si è detto anticipando alcune considerazioni sulle essenze reali e nominali, non vede la possibilità per l’intelletto umano di cogliere le essenze reali delle cose, e quindi di classificarle sotto nomi generali, corrispondenti alle loro costituzioni interne reali. I nomi generali stanno a indicare le essenze nominali, e, quanto più è marcata la distanza tra essenza nominale ed essenza reale, come nel caso delle sostanze, tanto più i termini si rivelano inadeguati nei confronti della realtà. 4. Il quarto libro del «Saggio»: la conoscenza. – C’è conoscenza dove c’è «la percezione del legame e della concordanza, oppure della discordanza e del contrasto, tra le nostre idee, qualunque esse siano» (Essay IV, I, 2). L’intelletto umano può cogliere la concordanza o discordanza tra due idee sia «immediatamente per se stesse, senza l’intervento di altre idee» (conoscenza intuitiva), sia attraverso un confronto che implichi l’intervento di altre idee (conoscenza dimostrativa), sia con l’ausilio e l’intervento dei sensi (conoscenza sensibile). L’evidenza, anche se in grado diverso, è però

Locke sempre richiesta per ogni tipo di Knowledge. Essa è massima e immediata nell’intuizione; nella dimostrazione essa è mediata dall’evidenza dell’accordo con le idee intermedie. Anche nella conoscenza sensibile, che ci assicura dell’esistenza di esseri finiti fuori di noi, «noi siamo forniti di una evidenza tale che ci pone al di là di ogni dubbio» (Essay IV, II, 14). Per intuizione abbiamo conoscenza dell’esistenza dell’io. Locke ripropone l’argomentazione cartesiana: «Niente può essere per noi più evidente della nostra propria esistenza. Io penso, io ragiono, io sento piacere e dolore: può una di queste cose essere per me più evidente della mia propria esistenza? Se dubito di tutte le altre cose, questo stesso dubbio mi fa percepire la mia propria esistenza e non mi permette di dubitare. Giacché, se so di sentire dolore, è evidente che ho una percezione certa della mia propria esistenza come dell’esistenza del dolore che sento; o, se so di dubitare, ho una percezione certa della cosa che dubita, come del pensiero che io chiamo dubbio. L’esperienza ci convince che abbiamo una conoscenza intuitiva della nostra propria esistenza e una percezione interna infallibile che noi esistiamo» (Essay, IV, IX, 3). Siamo poi in grado di giungere alla conoscenza dell’esistenza di Dio attraverso una rigorosa dimostrazione. La negazione delle idee innate aveva portato Locke a rifiutare le argomentazioni cartesiane che partivano dall’idea di Dio a noi originariamente presente. Osserviamo però che il pur tradizionale argumentum ex contingentia riproposto nel Saggio non si ancora più, come nei Manoscritti sulla legge di natura sull’esistenza di una cosa qualsiasi, ma sulla esistenza dell’io, di quell’io pensante che non avendo in sè la ragione del suo essere e delle sue perfezioni costringe a risalire a Dio, fonte del suo essere e delle sue perfezioni. L’argomentazione lockiana trovava il suo punto di partenza nella prima e fondamentale certezza cartesiana: la certezza dell’esistenza dell’io (cfr. Essay, IV, X, 2-3). Per mezzo infine della sensazione noi conosciamo l’esistenza delle altre cose. Benché questa conoscenza non raggiunga un grado di certezza ed evidenza paragonabile alla conoscenza intuitiva dell’esistenza dell’io, e neppure a quella dimostrativa dell’esistenza di Dio, essa ci fornisce tuttavia una sicurezza tale per cui possiamo parlare ancora di Knowledge. La passività dei nostri sensi durante la percezio6541

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Locke ne, l’involontarietà delle sensazioni spesso non piacevoli, la diversità tra sensazione e ricordo, il concorso dei vari sensi a testimonianza della medesima cosa stanno a garanzia di una indubitabile evidenza. L’ambito però della Knowledge, della conoscenza certa, si rivela molto ristretto. Noi dobbiamo nella maggior parte dei casi accontentarci di una conoscenza solamente approssimativa, apparente, probabile, basata non sull’evidenza della convenienza reciproca delle idee, ma «sull’apparenza di una simile concordanza o discordanza, mediante l’intervento di prove il cui legame non è costante né immutabile, o, per lo meno, non è percepito come tale» (Essay, IV, XV, 1). Non siamo più nel mondo della Knowledge, nel mondo cioè della certezza, ma in quello del Judgment, il mondo della probabilità. Con la conoscenza probabile vengono ricuperate all’umano intelletto ampie zone che erano state riconosciute estranee alla Knowledge. Essa ci assicura della sua convergenza con la verità sulla base dei due fondamenti, che sono l’accordo con la nostra esperienza e la testimonianza dell’esperienza altrui. Questo genere di conoscenza, per quanto non raggiunga la certezza, non deve venire né rifiutato, né disprezzato. Gran parte delle nostre conoscenze sono di questo genere, e noi vi aderiamo ragionevolmente con fondata fiducia. Assurda pretesa sarebbe quella di chi volesse sempre essere guidato dalla Knowledge: «infatti essendo come si è visto la conoscenza tanto limitata e scarsa, spesso egli si troverebbe del tutto all’oscuro e, nella maggior parte degli atti della sua vita, immobilizzato del tutto, se nulla potesse guidarlo nell’assenza di una conoscenza chiara e certa. Chi non volesse mangiare finché non avesse la dimostrazione che questo lo nutrirà; chi non volesse muoversi prima di conoscere infallibilmente che l’attività in cui si impegna avrà successo, costui avrà ben poco da fare se non sedere immobile e perire» (Essay, IV, II, 14). La probabilità si basa sull’esperienza e sulla testimonianza umana. Vi è però il caso in cui la testimonianza non è più solamente umana, ma ci proviene da Dio stesso. Locke osserva che «vi è un’altra specie di proposizioni che reclamano il grado più alto del nostro assenso, sulla base di una semplice testimonianza, sia che la cosa proposta concordi o no con l’esperienza comune e con l’ordinario corso delle co6542

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se. La ragione di ciò è che la testimonianza viene da uno che non può ingannare, né essere ingannato: ossia da Dio stesso. Questo porta con sé una sicurezza superiore a ogni dubbio, una prova che non tollera eccezioni. Con un nome particolare, questo è chiamato rivelazione, e il nostro assenso a esso è chiamato fede (Faith); questa determina con altrettanta assolutezza la nostra mente, e in modo altrettanto perfetto esclude ogni tentennamento, quanto la nostra stessa conoscenza (Knowledge); anzi potremmo altrettanto bene dubitare del nostro essere, quanto possiamo dubitare che sia vera una qualunque rivelazione da Dio» (Essay, IV, XVI, 14). Nelle pagine del Saggio sull’intelletto umano la fede (Faith) assume un ruolo preciso, che con la probabilità ha ben poco da spartire a livello di certezza: pur avendo in comune con essa la derivazione per testimonianza, essa la supera e la trascende proprio per il particolare genere di questa testimonianza, raggiungendo «il grado più alto del nostro assenso» al pari della stessa Knowledge nel suo grado più alto, la conoscenza intuitiva. Locke, mentre pone la fede basata sulla rivelazione divina a un livello di superiore valore, avverte la necessità di chiarirne i rapporti con la ragione, anche al fine di evitare «tutte le stranezze dell’entusiasmo», ossia del fideismo fanatico. La ragione (Reason) è la facoltà di cui siamo dotati «sia per estendere la nostra conoscenza, sia per regolare il nostro assenso» (Essay, IV, XVII, 2). Servendoci di essa siamo chiamati ad ampliare, per quanto è possibile, l’ambito della nostra conoscenza, e a verificare il grado della probabilità del nostro assenso. Essa presenta però dei limiti talora invalicabili: la mancanza di idee, la loro oscurità e imperfezione, la difficoltà nel trovare e nel comprendere le idee intermedie, la presenza e l’influsso di preconcetti o di falsi principi, l’uso di parole di significato dubbio e incerto, sono tutti ostacoli che impediscono alla ragione l’ampliamento della sua zona di competenza. È sufficiente a questo punto ricorrere alla fede per poter procedere oltre i limiti dell’umana ragione? È, in altri termini, giustificata la fede in ogni sua asserzione circa ciò che supera la ragione? Locke mette in guardia contro il pericolo di cadere in una fede irrazionale, indegna sia di Dio sia dell’uomo, e a tal fine propone la chiara distinzione delle competenze specifiche

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della Faith e della Reason, e la chiarificazione del loro reciproco rapporto. A livello di pura definizione la fede e la ragione si presentano chiaramente distinte. La ragione, che è «scoperta della certezza o probabilità di quelle proposizioni, o verità, cui lo spirito giunge per deduzione fatta a partire da quelle idee che ha ottenuto mediante l’uso delle sue facoltà naturali, ossia la sensazione e la riflessione» (Essay, IV, XVIII, 2), si distingue dalla fede, che è «l’assenso dato a una proposizione, non ottenuta mediante le deduzioni della ragione, ma sul credito di chi la propone come proveniente da Dio, in una qualche maniera di comunicazione fuori dell’ordinario» (ibid.). Secondo questa definizione, che considera fede e ragione nei loro aspetti formale e genetico, chiara appare la distinzione tra fede e ragione. Lo stesso non si può dire però a livello di contenuti, perché tale distinzione non necessariamente comporta la separazione di essi, né autorizza la fede a un assenso arbitrario. A questo scopo Locke ritiene utile riprendere nel Saggio la classificazione, proposta da Boyle in quegli anni, delle proposizioni according to Reason (conformi a ragione), above Reason (superiori alla ragione) e contrary to Reason (contrarie alla ragione). L’ambito dell’according to Reason, che riguarda «quelle proposizioni la cui verità noi possiamo scoprire esaminando e seguendo le idee che riceviamo dalle sensazioni e dalla riflessione, e che troviamo vere o probabili mediante la deduzione naturale» (Essay, IV, XVII, 23), è quello di competenza specifica della ragione; in esso l’utilità della rivelazione risulta minima, avendoci «Dio provveduti di mezzi naturali e più sicuri per giungere alla conoscenza di queste cose» (ibid.). L’ambito di competenza specifica della fede è quello dell’above Reason, ossia di «quelle proposizioni la cui verità o probabilità noi non possiamo derivare da quei principi [naturali che sono la sensazione e la riflessione] per mezzo della ragione» (Essay, IV, XVII, 23). Di fronte a queste verità la ragione umana si trova completamente impotente, e non potendo formulare alcun sicuro giudizio in merito, deve riconoscere la competenza della fede: «Dove i principi di ragione non hanno dimostrato che una proposizione è certamente vera o falsa, là una rivelazione chiara, come diverso principio di verità e base dell’assenso, potrà determinare lo spirito; e così potrà trattarsi di materia di

Locke fede ed essere al tempo stesso superiore alla ragione» (Essay, IV, XVIII, 9). L’oggetto dunque della fede è la rivelazione, e in particolare la rivelazione di quelle verità che noi, con il solo uso della nostra ragione, non saremmo stati in grado di raggiungere. Esclusa invece è la fede dall’ambito del contrary to Reason. Per fede l’uomo non può prestare il suo assenso a «quelle proposizioni che sono incompatibili o inconciliabili con le nostre idee chiare e distinte» (Essay, IV, XVII, 23). La naturale Knowledge non può venir contraddetta da una pretesa rivelazione: «Nessuna proposizione può essere ricevuta come rivelazione divina o ottenere l’assenso dovuto a tutte le rivelazioni siffatte, se è contraddittoria rispetto alla nostra chiara conoscenza intuitiva. Poiché questo significherebbe sovvertire i principi e i fondamenti di ogni conoscenza, evidenza e assenso di qualunque genere; né rimarrebbe nessuna differenza tra il vero e il falso, nessuna misura del credibile e dell’incredibile al mondo, se le proposizioni dubbie dovessero prendere posto prima di quelle per se stesse evidenti, e se ciò che conosciamo con certezza dovesse cedere il passo a cose sulle quali possiamo forse essere in errore» (Essay, IV, XVIII, 5). Anche in questo ambito determinante è il giudizio della ragione. VII. IL RIENTRO IN INGHILTERRA E GLI ANNI DI OATES: LA «R AGIONEVOLEZZA DEL C RISTIANESIMO » E GLI SCRITTI ESEGETICI. – La «Gloriosa rivoluzione» permise il ritorno di Locke in Inghilterra a seguito della principessa Maria Stuart, moglie di Guglielmo d’Orange. A motivo della sua salute malferma egli rifiutò la carica che gli era stata offerta di ambasciatore presso la corte di Federico III, Elettore del Brandeburgo. Nel 1695 Locke fu nominato commissario del commercio e delle colonie per la competenza dimostrata nel suo scritto Considerazioni sulle conseguenze che derivano dalla diminuzione dell’interesse del denaro e dall’aumento del prezzo della moneta (1692). Dal 1691 egli si era trasferito a Oates, nella campagna dell’Essex, ospite di Sir Francis Masham e di Lady Damaris Masham, figlia del filosofo di Cambridge Rulph Cudworth. Furono anni di studio intenso e fecondo, che videro Locke impegnato sia nella difesa e nella chiarificazione delle dottrine esposte nelle sue opere edite, sia in ulteriori approfondimenti speculativi ed esegetici. Alla Second letter concerning Toleration, che aveva pubblicato nel 1690 contro gli attacchi del teologo John 6543

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Locke Proast, il quale sosteneva l’opportunità di riconoscere all’autorità politica un certo diritto di intervento anche su questioni religiose, fece seguire nel 1692 una Third Letter for Toleration, contro i nuovi attacchi di questo suo avversario. Nel 1693 pubblicò i consigli pedagogici, che egli aveva composto durante l’esilio olandese per rispondere alla richiesta dei suoi amici Edward e Mary Clarke per l’educazione del loro figlio, in un volume dal titolo Some Thoughts concerning Education. La pedagogia lockiana, radicata in una concezione profondamente anti-innatistica, nutre grande fiducia nell’incidenza dell’azione educatrice sulla formazione dell’uomo: «penso di poter affermare che nove su dieci, anzi novantanove su cento degli uomini che ho incontrato, sono quel che sono, buoni o cattivi, utili o no, secondo l’educazione ricevuta. È l’educazione che produce le grandi differenze che ci sono tra gli uomini» (Some Thoughts, § 1). Le doti naturali sono certo indispensabili, ma lo sviluppo di esse dipende in massima parte dall’uso e dall’esercizio. Compito dell’educazione è quello allora di far progressivamente sviluppare con l’esercizio le doti fisiche e intellettuali, intese non già come patrimonio ma come capacità di azione, che sono presenti nel bambino. Locke scrisse ancora importanti riflessioni di natura pedagogica nel Conduct of the Understanding, originariamente concepito come capitolo integrativo del suo Saggio, e pubblicato come opera autonoma solo dopo la sua morte. In esso Locke si soffermò a studiare la patologia dell’intelletto, le cause delle sue deviazioni e dei suoi comportamenti anomali, al fine di suggerirne i rimedi. Una forte continuità lega i Thoughts concerning Education e il Conduct: comune in ogni età dell’uomo è «la retta strada lungo la quale condurre il proprio intelletto» (Conduct, § 41). Nei capitoli finali del Saggio Locke aveva determinato con chiarezza gli ambiti di competenza specifica della ragione e della fede. Questo non fu però il punto terminale della sua ricerca, ma la premessa critica indispensabile per poter poi accedere all’ascolto della divina rivelazione. La Reasonableness of Christianity as delivered in the Scriptures, pubblicata a Londra nel 1695, è il primo e il più noto tentativo lockiano di attenta lettura e di meditazione dei testi sacri. Il desiderio di Locke era quello di comprendere l’insegnamento del Salvatore e dei suoi 6544

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apostoli, e, per ottenere questo, l’unico mezzo che egli riteneva valido era l’ascolto diretto e fiducioso della Scrittura: un ascolto che non necessita di mediazioni esplicative umane, spesso interessate e fuorvianti, perché l’annuncio della salvezza contenuto nella scrittura è rivolto a tutti gli uomini, ed è quindi comprensibile a tutti. A questo scopo Locke intendeva seguire quel metodo che fu poi da lui ampiamente utilizzato nelle parafrasi delle Epistole di san Paolo: cercare cioè di comprendere ciò che la scrittura dice, con l’aiuto della stessa scrittura. Il continuo confronto dei passi paralleli, la lettura non frammentaria e monca dei vari scritti rivelati poteva aiutare a chiarire e comprendere in modo più adeguato il senso delle sue espressioni anche più oscure. Locke aveva bandito da questa lettura della sacra scrittura ogni interpretazione di tipo mistico o allegorico, nel timore soprattutto che l’interpretazione mistica potesse oscurare il senso della parola divina e permettere intenzionali fraintendimenti. Le parole del Salvatore – a eccezione dei rarissimi casi in cui esse erano state pronunciate per confondere i suoi nemici – avevano lo scopo di annunciare la verità a tutti gli uomini, e perché questo fosse possibile, esse dovettero essere pronunciate e trasmesse nel modo di più facile e ovvia comprensione. Dalla lettura dei quattro Vangeli e degli Atti degli Apostoli Locke trasse la tesi fondamentale della Ragionevolezza del Cristianesimo: che l’unico articolo di fede richiesto espressamente da Cristo e dagli apostoli per diventare cristiani è quello della messianicità di Gesù di Nazaret, e che l’intera opera e predicazione di Cristo e degli apostoli fu diretta a quel fondamentale annuncio. Era questo il nucleo essenziale della rivelazione cristiana: quel nucleo di verità di facile comprensione, di cui parlavano e su cui indagavano tanti teologi del Seicento, quel nucleo di verità che, essendo condiviso da tutti i cristiani, avrebbe permesso l’avvento della concordia religiosa. Esso non era stato stabilto sulla base di considerazioni razionali sulla natura del cristianesimo e sulla natura dell’uomo, ma lo si trovava espresso a chiare lettere nell’insegnamento rivelato. Sempre la lettura del Nuovo Testamento mostra a Locke che la fede in Gesù-Messia non è richiesta nel Vangelo come una fede storica, bensì come una fede salvifica. Alla fede devono seguire le opere della fede, perché «non è

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sufficiente credere che egli è il Messia, il Signore, senza obbedirgli» (Works, VII, p. 123). Infatti «vediamo dalla predicazione del nostro Salvatore e dei suoi apostoli, che egli richiese, a coloro che credevano che egli era il Messia e lo accoglievano come loro Signore e liberatore, che vivessero secondo le sue leggi [...]. Egli non avrebbe riconosciuto come suo chi non avesse rinunciato ai suoi precedenti errori e non vivesse in una sincera obbedienza ai suoi ordini, né lo avrebbe accolto come vero cittadino della nuova Gerusalemme nell’eredità della vita eterna, ma lo avrebbe abbandonato alla condanna dell’ingiusto» (ibi, p. 125). Con la fede, anzi come condizione essenziale della fede, sono stati sempre richiesti il pentimento e la conversione. Opere degne del pentimento e conformi alla nuova vita devono accompagnare questa nuova vita: «Fede e pentimento, cioè credere che Gesù è il Messia, e una vita dedita al bene, sono le condizioni indispensabili del Nuovo Patto» (ibi, p. 105). L’elogio della sublimità della predicazione morale di Gesù e il riconoscimento della perfetta conformità dei dettami morali della religione cristiana con quelli della più pura etica razionale conclude questa opera. Non ci poteva essere alcun contrasto tra la legge di natura, ossia tra «l’eterna e immutabile norma del giusto» che Dio rivelò per mezzo della luce di ragione a tutta l’umanità e la legge rivelata da Gesù Cristo, l’inviato di quello stesso Dio. Il riconoscimento di questa conformità non induce però Locke a confondere i piani dell’ordine razionale e dell’ordine rivelato, come alcuni deisti fecero successivamente: distinti restano i fondamenti e i criteri dell’etica razionale e di quella rivelata, pur nella loro armonia: «È vero, c’è una legge di natura: ma chi mai la pubblicò o intraprese a darcela tutta intera, come legge, senza aggiunte, mutilazioni, e con tutta la sua forza vincolante? Chi mai portò alla luce tutte le parti di quella legge, le legò insieme, ne mostrò al mondo la forza vincolante? Dove ci fu un codice tale che l’umanità potesse ricorrervi come a sua infallibile norma, prima della venuta del Salvatore? [...] Una tal legge morale Gesù Cristo ci ha dato nel Nuovo Testamento; ma attraverso la seconda e ultima delle vie considerate, attraverso la rivelazione. Noi riceviamo da lui una piena e sufficiente norma di condotta, norma conforme a quella della ragione. Ma la verità e il vincolo di questi precetti traggono la loro forza e sono sottratti

Locke a ogni dubbio per noi dall’evidenza della sua missione. Egli fu mandato da Dio: i suoi miracoli mostrano ciò; e l’autorità di Dio, nei precetti che egli ci dà, non può esser posta in discussione. Qui la morale ha una norma sicura, che la rivelazione garantisce e la ragione non può contraddire, né contestare, ma tutte e due insieme testimoniano che essa proviene da Dio, il grande legislatore. E io penso che il mondo non abbia mai avuto una legge come questa, tratta dal Nuovo Testamento, e che nessuno possa dire che la si debba trovare in qualsiasi altro luogo» (ibi, pp. 142-143). Seguendo gli stessi criteri esegetici adottati nella Reasonableness per comprendere la dottrina contenuta nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli, Locke si accinse negli ultimi anni della sua vita alla più ardua e impegnativa lettura delle epistole di san Paolo, componendo A Paraphrase and Notes on the Epistle of St. Paul to the Galatians, to the I Corinthians, to the II Corinthians, to the Romans, to the Ephesians che furono edite postume. Le numerose difficoltà, che si incontrano per la comprensione delle epistole di san Paolo, potevano secondo Locke venir superate a condizione che non si frantumasse il testo in versetti, ma lo si leggesse di seguito, considerandolo non come una serie di aforismi dogmatici, ma come un discorso organico e coerente, e che si tenesse presente il fine dell’opera di Paolo, inviato tra i pagani per convertirli per mezzo della convinzione razionale. I testi di Paolo apparivano a Locke non testi di un visionario fanatico, ma testi di uno Strong reasoner. Le dottrine esposte nel Saggio e nella Ragionevolezza, sollevarono però sospetti, riserve e accuse da parte di alcuni teologi ed ecclesiastici, che videro in queste opere di Locke le premesse per le dottrine deistiche, sociniane e addirittura atee. Negli scritti che compose a sua difesa Locke ebbe modo di offrire chiarimenti e preziosi approfondimenti delle sue dottrine. Contro le accuse di John Edwards formulate nei Some thoughts concerning the Several Causes and Occasions of Atheism (1695), secondo il quale la riduzione della verità rivelata al solo dogma della messianicità di Gesù di Nazaret comprometteva la rivelazione cristiana e implicitamente comportava la negazione della Trinità e dell’incarnazione del Verbo, Locke rispose nello stesso anno con la prima Vindication of the «Reasonableness of Christianity» from Mr. Edwards’s Reflections, in cui si premurò di 6545

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Locke ricordare che la sua preoccupazione di distinguere l’essenziale dal non essenziale nel credo cristiano era stata condivisa da autorevoli e insospettati teologi riformati del Seicento inglese e olandese, con lo scopo di definire un corpo minimo di verità fondamentali di facile comprensione, capace di far superare le discordie teologiche e di porre fine alle lotte tra le fazioni religiose. La polemica continuò con una serie di interventi sempre più acri e violenti dell’Edwards, cui Locke rispose con una Second Vindication of the Reasonableness of Christianity etc. (1697). Accuse ugualmente forti gli furono mosse pure dal vescovo di Worcester, Edward Stillingfleet, che al capitolo decimo del Discourse in Vindication of the Doctrine of the Trinity denunciò la portata anticristiana delle principali tesi gnoseologiche sostenute nel Saggio lockiano, a motivo dell’uso antireligioso che di esse era stato fatto nelle pagine dei deisti inglesi e in particolare da Toland, nel libro Christianity not Mysterious (1696). Locke nella Letter to the Right Reverend Edward Lord Bishop of Worcester (1697), e poi ancora nella prima e seconda Reply alle risposte del vescovo, con forza rifiutò di venir accomunato agli scrittori deistici in genere, e a Toland in particolare, e difese il suo sistema filosofico, mostrando che esso non solo non era in contrasto con le dottrine evangeliche, ma riconosceva la verità delle dottrine rivelate. Non era seguendo fedelmente la sua way if ideas che Toland aveva escluso la possibilità di riconoscere le dottrine above Reason. Locke non aveva mai affermato che a base della certezza stessero solo le idee chiare e distinte, cosa questa invece che era stata insinuata da Toland, e che aveva portato il vescovo di Worcester a una impropria sovrapposizione. Diversa era la dottrina sostenuta nel suo Saggio da quella proposta da Toland: mentre egli riconosceva spazio alla certezza anche fuori del puro cerchio delle idee chiare e distinte, Toland negava i misteri specifici del cristianesimo proprio in forza dell’opposta convinzione. Locke ricordava poi che la dottrina relativa ai limiti della conoscenza delle sostanze, esposta nel Saggio, implicava sì l’incapacità della ragione umana di decidere su questioni troppo ardue, anche se di grande interesse, quali il problema della distinzione tra sostanze spirituali e corporee e della immortalità dell’anima umana, o quello della distinzione tra natura e 6546

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persona, cui era annessa una certa formulazione della dottrina trinitaria; essa non comportava però il rifiuto dell’insegnamento della sacra Scrittura in questi settori above Reason. Anzi, proprio il riconoscimento di questi limiti della ragione era invocato come la premessa necessaria per l’ascolto della Scrittura. In quest’ordine di verità Locke dichiara che «la sacra Scrittura è, e sarà sempre, la costante guida del mio assenso; e io le presterò sempre ascolto, perché essa contiene l’infallibile verità riguardo a cose della massima importanza. Vorrei si potesse dire che non vi sono misteri in essa; ma devo riconoscere che per me ve ne sono, e temo che ve ne saranno sempre. Dove però mi manca l’evidenza delle cose, troverò un fondamento sufficiente perché io possa credere: Dio ha detto questo» (Works, IV, p. 96). M. Sina

VIII. L’EDUCAZIONE DELL’UOMO. – In Some Thoughts Concerning Education (London 1693, tr. it. a cura di T. Marchesi, Pensieri sull’educazione, Firenze 1942) Locke definisce il proprio punto di vista intorno all’educazione dell’uomo. Per comprendere appieno il significato dei Pensieri – che nascono dalle lettere occasionali inviate da Locke, intorno al 1684-85, a Edward Clarke, a lui rivoltosi per ricevere consigli sull’educazione del proprio figlio – occorre situarli nel contesto storico-temporale in cui sono stati elaborati e stesi in forma epistolare. Inoltre, essi sono il frutto della personalità intellettuale del loro autore: l’estrazione borghese e la religiosità puritana ma non formalista della famiglia di provenienza, l’empirismo manifestantesi in un principio di «ragionevolezza» a cui s’ispirerà la cultura europea illuminata del Settecento, l’ideale di tolleranza, il senso della laicità dello stato, il valore assegnato alla libertà religiosa, l’importanza della pace per lo sviluppo delle nazioni sono i corollari fondamentali di una concezione dell’uomo al cui centro è posta l’intelligenza umana. Questa si denota attraverso le idee, ma si connota nella realtà dell’esperienza a cui occorre costantemente rifarsi nel processo della formazione e dell’educazione dell’uomo. L’uomo a cui Locke pensa è il rappresentante di quella borghesia ricca e acculturata che domina ormai il tessuto economico della società inglese. Essa si esprime nel gentleman: una figura sociale in cui traspaiono ancora alcuni canoni del mondo aristocratico, ma si manifestano già i presupposti della concezione bor-

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ghese della vita. Nel porre questa figura come il modello dell’epoca, Locke la libera il più possibile da ogni retaggio di casta o censo, e l’arricchisce dei preziosi convincimenti propri della sua filosofia in cui campeggiano pragmatismo, realismo, empirismo ispirati da un’etica e da una politica delle relazioni umane improntate al senso della libertà, della tolleranza e della civile convivenza. «Dignità ed eccellenza» sono i tratti caratteristici dell’uomo capace di autonomia di pensiero e libertà d’azione, suffragate dalla coscienza personale del mondo, dall’esercizio di diritti e doveri morali, dall’equilibrio nelle scelte e nelle condotte. Il rispetto umano verso il prossimo depura i toni utilitaristici e individualistici dell’epoca per accreditare una «mentalità» capace di guidare l’iniziativa personale indirizzata al progresso della vita civile. L’uomo borghese va, dunque, educato alla virtù, alla buona creanza, al senno, alle compiute maniere, infine alla «dottrina»: quell’educazione intellettuale, di cui An Essay concerning Human Understanding (London 1690) costituisce il prioritario riferimento gnoseologico, che permeerà l’ideale formativo del liberalismo inglese. I Pensieri sull’educazione rappresentano una delle più importanti e significative opere della pedagogia in tutta la storia dell’Occidente. Questo non soltanto perché Locke si sofferma su indicazioni e consigli di tipo «educativo» (tra cui spicca il monito agli educatori d’avvicinare il bambino con il sentimento della comprensione e senza le durezze dell’autoritarismo), ma anzitutto traccia le linee di una formazione umana priva di accenti inutilmente retorici e, al contrario, guidata da spirito pratico, capacità di discernimento, coerenza e saldezza nello sviluppo dell’indole naturale aperta all’attitudine sociale, che diverrà un tratto peculiare della civiltà borghese improntata al rispetto dei costumi e delle tradizioni. Con Locke essa trova una sagace stilizzazione, i cui dettami – si pensi al viaggio all’estero suggerito a giovani gentlemen – incontreranno la loro diffusione nella cultura del XVIII secolo, contribuendo a sagomare il profilo «formativo» del soggetto borghese moderno. M. Gennari BIBL.: edizioni: a tutt’oggi l’edizione più completa è The Works of John Locke, a New Edition Corrected, London 1823, 10 voll. (ristampa 1963), qui citata con Works. A Oxford è in fase di completamento la Clarendon Edition, ove finora sono apparsi An Es-

Locke say concerning Human Understanding, a cura di P.H. Nidditch, 1975 (qui citato con Essay); The Correspondence of John Locke, a cura di E.S. de Beer, 197689, 8 voll.; A Paraphrase and Notes on the Epistles of St. Paul, a cura di A.W. Wainwright, 1987, 2 voll.; Some Thoughts concerning Education, a cura di J.W. J.S. Yolton, 1989; Drafts for the Essay concerning Human Understanding and Other Philosophical Writings, a cura di P.H. Nidditch e G.A.J. Rogers, vol. 1, 1990; On Money, a cura di P.H. Kelly, Oxford 1991, 2 voll.; The Reasonableness of Christianity, a cura di J.C. Higgins-Biddle, 1999. Degli Essays on the Law of Nature resta fondamentale l’edizione di W. Von Leyden, Oxford 1954. Traduzioni: Saggio sull’intelligenza umana, a cura di C. Pellizzi, Roma-Bari 20035; di M. e N. Abbagnano, Torino 1971; di V. Cicero e M.G. D’Amico, Milano 2004; Due trattati sul governo e altri scritti politici, a cura di L. Pareyson, Torino 19823; Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, Torino 1977; Considerazioni sulle conseguenze della riduzione dell’interesse, a cura di F. Fagiani, Bologna 1978; Pensieri sull’educazione, Scandicci 1992; Saggi sulla legge naturale, a cura di M. Cristiani, Roma-Bari 1996; Scritti etico-religiosi, a cura di M. Sina, Torino 2000; Sulla tolleranza e l’unità di Dio, Testo inglese e latino a fronte, a cura di M. Montuori e V. Cicero, Milano 2002; Lettera sulla tolleranza, a cura di C.A. Viano, Roma-Bari 20036. Strumenti bibliografici: H.O. CHRISTOPHERSEN, A Bibliographical Introduction to the Study of John Locke, Oslo 1930. J.C. ATTIG, The Works of John Locke: A Comprehensive Bibliography from the Seventeenth Century to the Present, Westport (Connecticut) London, 1985; J.S - J.W. YOLTON, John Locke: A Reference Guide, Boston 1985; J.S. YOLTON, John Locke. A Descriptive Bibliography, Bristol 1998; «The Locke Newsletter», a cura di R. Hall, 1970 ss.; v. inoltre sul sito web la John Locke Bibliography: A listing of recent publications, a cura di J.C. Attig. Studi fondamentali per la biografia di Locke restano P. KING, The Life of John Locke, with Extracts from his Correspondence, Journals, and Common-place Books, London 18302, 2 voll., e M. CRANSTON, John Locke. A Biography, London 1957. Per un primo orientamento sul pensiero di Locke si rinvia a M. SINA, Introduzione a Locke, Roma-Bari, 20017. Fra gli studi successivi al 2001: U. THIEL (a cura di), Locke: Epistemology and Metaphysics, Aldershot 2002; P. JOSEPHSON, The Great Art of Government. Locke’s Use of Consent, Lawrence 2002; P.R. ANSTEY (a cura di), The Philosophy of John Locke. New perspectives, London-New York 2003; W.L. OTT, Locke’s Philosophy of Language, Cambridge 2004. Specificamente per gli aspetti pedagogici: G.A. COLOZZA, Il potere dell’educazione secondo Giovanni Locke, Milano 1922; C. SCURATI, Locke, Brescia 1967; O. DE

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Lodge

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SANCTIS, Il progetto educativo in Locke: infanzia e desiderio, Roma 1983; N. TARCOV, Locke’s Education for Liberty, Chicago-London 1989.

R.R. LEICHTMAN, The Hidden Side of Science, Atlanta 1992; P. ROWLANDS - P. WILSON, Oliver Lodge and the Invention of Radio, Liverpool 1994.

LODGE, OLIVER JOSEPH, Sir. – Fisico inglese, Lodge n. il 12 giu. 1851 a Penkhull (Staffordshire), m. il 22 ag. 1940 ad Amesbury (Wiltshire). Professore a Londra, Liverpool e Birmingham, fu sempre appassionato cultore anche della filosofia. Le sue opere più conosciute presso il grosso pubblico sono infatti, oltre a quelle di divulgazione scientifica, quelle di argomento filosofico: una critica del materialismo haeckeliano, Life and Matter (London 1906); Man and the Universe (ivi 1908); Reason and Belief (ivi 1910); Beyond Physics: the Idealisation of Mechanism (ivi 1930); My Philosophy (ivi 1933). Mira principale della sua filosofia è conciliare scienza e religione, non facendone semplicemente due compartimenti stagni, la cui mancanza di relazioni garantisca l’assenza di ogni contrasto, ma mostrando, anzi, che il sapere, da un lato, si radica nella fede, e da un altro sbocca inevitabilmente nella fede. Mostrare ciò non può essere compito né della scienza né della religione, ma dell’unica possibile attività di mediazione tra l’una e l’altra: la filosofia. Lodge aspira anche al superamento di altri dualismi: ad esempio, quello tra materia e vita, e tra materia e spirito; il che gli appare tanto più opportuno, in quanto egli non restringe la considerazione scientifica all’aspetto matematico o meccanico della natura, ma la estende all’aspetto biologico e psicologico. Il fisico e lo psichico sono per lui strettamente connessi, e lo schema della natura deve ampliarsi così da far posto anche allo spirito. Questo orientamento speculativo è alla base di un interesse che egli ha in comune con non pochi scienziati anglosassoni: l’interesse per le scienze occulte. Nelle sue considerazioni sulla sopravvivenza dell’anima, sulla telepatia ecc. (cfr. The Survival of Man, ivi 1909, dove scienza, filosofia e religione non si limitano più a mostrare le loro connessioni, ma confondono sovente le loro parti, a dire il vero, con scarso vantaggio per tutte e tre). L’ultimo lavoro filosofico di Lodge precedette di poco la sua morte: Making of Man (ivi 1938).

LODIGERI, CALLISTO MARIA. – Teologo, serLodigeri vita, m. nel 1710. Discepolo di Giorgio Sotgia, si dedicò allo studio (seguito in ciò dal suo allievo Angelo Ventura) della teologia e della filosofia di Enrico di Gand, che già dall’inizio del sec. XVII erano state variamente riprese e commentate nell’ambito dell’Ordine dei Servi di Maria (cfr. ad es.: A. Piccioni, Quodlibeta Henrici Gandavensis eiusque vita, Venetiis 1613; H. Scarparius, Medulla Summae Henrici Gandavensis, Ferrariae 1646). Scrisse: Disputationum theologicarum, Romae 1698, I (postumi i tomi II e III, Lucae 1718-24).

V. Mathieu BIBL.: AA.VV., Handlist of the Papers of Sir Oliver Lodge, Birmingham 1979; O. ROWLANDS, Oliver Lodge and the Liverpool Society, Liverpool 1990; B.J. HUNT, The Maxwellians, Ithaca (New York) - London 1991;

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Red. BIBL.: H. HURTER, Nomenclator literarius theologiae catholicae, Innsbruck 1903-19133, I, coll. 679-680.

LODTMANN, K. GER. WILHELM. – Giurista e Lodtmann filosofo, n. a Osnabrück il 19 dic. 1720, m. nel 1755. Nato nel piccolo principato vescovile di Osnabrück, studiò diritto a Marburgo, a Gottinga, quindi in Olanda. Nel 1749 ebbe la cattedra di filosofia dall’università di Helmstedt. Gran parte della sua attività di studioso è legata alla storia della sua città, anticipando e preparando la grande Osnabrückische Geschichte di Justus Möser. Dopo la nomina a professore di filosofia scrisse alcune dissertazioni di argomento logico-gnoseologico e soprattutto un Kurzer Abriss der Geschichte der Weltweisheit, nach der Ordnung der Zeiten, Helmstädt 1754. In tale opera è forte l’influsso di J. Brucker, ma l’abbandono della suddivisione per sette e l’adozione di un rigoroso ordine cronologico mettono meglio in luce le tappe del progresso delle conoscenze, che secondo Lodtmann hanno raggiunto il vertice al suo tempo con Newton e Wolff. M. Longo BIBL.: M. LONGO, K. Ger. Wilhelm Lodtmann (17201755), in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall'età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, pp. 518-525.

LOEB, JACQUES. – Fisiologo tedesco, n. il 7 Loeb apr. 1859 a Mayden, m. l’11 febbr. 1924 a Bermuda.

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Laureato in medicina a Strasburgo (1884), fu assistente di fisiologia alle università di Würzburg e di Strasburgo. Fu anche a Napoli, dove lavorò presso la stazione biologica. Nel 1891 si trasferì negli Stati Uniti, alle università di Chicago e della California; dal 1910 fino alla morte fu capo del dipartimento di biologia dell’istituto Rockfeller per le ricerche mediche. I suoi lavori principali, che aprirono nuovi campi alla biologia, si riferiscono in particolar modo allo studio fisico-chimico dei tropismi, alla partenogenesi artificiale e alla rigenerazione. Questi studi possono anche portare un contributo nella determinazione dei rapporti che intercorrono tra la vita e i fenomeni fisico-chimici. Di fatto, Loeb in numerose opere fu portato a estendere i risultati ottenuti all’intero problema della vita, etica compresa, in una concezione meccanicistica materialista. M. Viganò BIBL.: The Dynamic of the Living Matter, New York 1906; Die Bedeutung der Tropismen für die Psychologie: Vortrag, Gehalten auf dem VI, internationalen Psychologenkongress zu Genf 1909, Leipzig 1909; The Mechanistic Conception of Life, Chicago 1912; The Organism as a Whole from a Physiological Viewpoint, New York 1916. Su Loeb: G. BRUNELLI, La dottrina di Loeb nei tropismi, in «Rivista italiana di filosofia della scienza», 4-6 (1908); D. FLEMING, Jacques Loeb. The Mechanistic Conception of Life, Cambridge 1964; F. MONDELLA, Biologia e filosofia, in L. GEYMONAT, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. VI, Milano 1972, pp. 801804; J. HIRSCH, Jacques Loeb. Forced Mouvements, Tropisms..., New York 1973; P.J. PAULY, Controlling life. Jacques Loeb and the Engineering Ideal in Biology, New York - Oxford 1987.

LOEN, ARNOLDUS EWOUT. – Filosofo esistenLoen zialista olandese, n. a Valburg l’11 mag. 1896, m. a Utrecht nel 1990. Proveniente da una formazione scientifica, studiò filosofia a Groninga (con Heymans), Heidelberg e Marburgo, laureandosi a Leida (1927) con De Sopper (Wijsbegeerte en werkelijkheid [Filosofia e realtà], Utrecht). Direttore del liceo a Den Helder, dal 1955 fu professore di filosofia della religione alla Facoltà teologica di Utrecht. Tra gli scritti: De vaste grond (Il saldo fondamento), Amsterdam 1946; Het vöoronderstelde (La premessa), Den Haag 1963; e soprattuttto Säkularisation: von der wahren Voraussetzung und angeblichen Gottlosigkeit der Wissenschaft, München 1965 (in collaborazione con K.H. Miskot-

Loewenberg te), che ha stimolato un importante dibattito (anche a seguito della versione inglese, London 1967). La filosofia di Loen è un tentativo di svolgere temi esistenzialistici alla luce della teologia dialettica. La distinzione tra filosofia e teologia corrisponde alla dialettica tra autonomia e rivelazione, originatasi con il peccato: la filosofia ripensa nel principio il fondamento dell’essere distinto, la teologia è la scienza del principio, cioè di Dio che si rivela in Cristo. Con la filosofia l’uomo risponderebbe all’essere espresso nella parola di Dio. M. Marlet BIBL.: C.A. VAN PEURESEN, De existentiephilosophie vara A.E. Loen, in «Tijdschrift voor Philosophie», 1948, pp. 509-515; J.A. STOFBERG, Teologie en ontologie: en ondersoek na die betekenis van die wijsbegeerte van Heidegger vir die teologie: met verwijsing na die denke van H. Ott en A.E. Loen, Groningen 1965; K. DOEVANDANS, Inleiding tot het denken van A.E. Loen, Assen 1989.

LOENEN, DIRK. – Pensatore e storico olandeLoenen se, n. a Loosdrecht il 14 febbr. 1890, m. a Amsterdam il 24 magg. 1966. Studioso di lingue antiche, si laureò in filologia e filosofia ad Amsterdam e nel 1935, sempre ad Amsterdam, divenne libero docente di filosofia. Nel 1953 fu nominato professore di storia dell’antichità classica. Interessato soprattutto al problema del senso e dell’origine delle cose, della natura e dello scopo dell’uomo, della struttura e della realizzazione di una buona società, a questo fine condusse un’approfondita ricerca su alcuni concetti dell’etica sociale greca. M. Marlet BIBL.: Vrijheid en gelijkheid in Athene (Libertà e uguaglianza in Atene), Amsterdam 1930; Protagoras and the Greek Community, Amsterdam 1941; Het Griekse geweten: Socrates en Athene (La coscienza greca: Socrate e Atene), Arnhem 1949; Mens en cultuur van Hellas, Amsterdam 19602.

LOEWENBERG, JACOB. – Filosofo americaLoewenberg no, n. a Tuckum nel 1882, m. a Berkeley il 27 mar. 1969. Studiò all’università di Harvard e dal 1925 ha insegnato filosofia all’Università di California. Opere principali: Hegel Selections, 1920; Knowledge and Society, New York 1938. Inoltre vanno ricordati i numerosi saggi pubblicati dall’Università di California, tra cui in particolare The 6549

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Logica Metaphysics of Critical Realism (1923); e infine Dialogues from Delphi (1949) e Reason and Nature of Things (La Salle 1959). Discepolo assai indipendente di Royce, risalì alla fonte del suo idealismo ripetendo motivi hegeliani. In modo particolare ha usato il metodo «paradossale» e «problematico» della dialettica hegeliana per superare la controversia epistemologica tra idealismo e realismo (cfr. Hegel’s Phenomenology: Dialogues on the Life of the Mind, 1965). A tal scopo Loewenberg ha sfruttato anche elementi di origine kantiana, come la distinzione tra logica del discorso e logica dell’esistenza, e il riconoscimento di un residuo inafferrabile sempre presente nella conoscenza. Loewenberg stesso ha definito la sua filosofia un «realismo problematico». Cfr. anche Royce’s Synoptic Vision, Baltimora 1955; Hegel’s Phenomenology Dialogues on the Life of Mind, La Salle (Illinois) 1965. N. Bosco BIBL.: Autopresentazione in G.P. ADAMS - W.P. MONTAGUE (a cura di), Contemporary American Philosophy, II, New York 1930, pp. 55-81; Autobiografia: Thriceborn: Selected Memories of an American Immigrant (1968); R.M. COHEN, American Thought, a Critical Sketch, Glencoe 1954; H.W. SCHNEIDER, Sources of Contemporary Philosophical Realism in America, New York 1964.

LOGICA, FILOSOFIA DELLA. – Prima di affronLogica tare alcune questioni specifiche di filosofia della logica, è bene spendere alcune parole per chiarire le numerose accezioni in cui è possibile rinvenire questo termine nella letteratura filosofica contemporanea. In effetti, il proporre una definizione, seppur minimale, di «filosofia della logica» che si differenzi da diciture apparentemente simili (come p. es. «logica filosofica» o anche «logica matematica»), è un’operazione che richiede un certo impegno concettuale e prevede l’assunzione di alcune posizioni che, a rigore, andrebbero discusse e vagliate proprio all’interno della disciplina. In ciò che segue, per motivi di spazio e di opportunità, opereremo una serie di «tagli», sia non considerando alcune problematiche che sono, tradizionalmente, incluse nella filosofia della logica, sia non esaminando tutte le posizioni teoriche che sono rintracciabili all’interno del dibattito contemporaneo. Con «filosofia della logica» si può intendere, con buona approssimazione, l’insieme di problemi (e relative soluzioni) di carattere filosofico emersi dal sape6550

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re logico-formale. Come si può notare, la nostra definizione di «logica» prende in considerazione solo la sua accezione moderna e formale, le cui origini si possono far risalire ai lavori di Boole e Frege. Ciononostante, molte tematiche filosofiche che vengono discusse hanno radici storiche ben più profonde; sono, anzi, rinvenibili durante tutto l’arco della speculazione occidentale. La logica formale, unendo, per sua natura, modalità e approcci tipicamente matematici a una sensibilità filosofica spiccata, si pone in una posizione di dialogo con il sapere filosofico classicamente inteso. Da un lato, infatti, molte questioni concettuali hanno ricevuto una precisa chiarificazione e organizzazione grazie all’uso della formalizzazione e dell’assiomatizzazione; dall’altro, lo stesso uso dei metodi formali ha posto al filosofo interrogativi nuovi e stimolanti. In via del tutto preliminare e senza alcuna pretesa di esaustività, possiamo quindi assumere che per «logica filosofica» si intende lo studio di sistemi formali tesi a caratterizzare campi del sapere tradizionalmente appartenenti alla filosofia (p. es., la logica epistemica, la logica deontica, la teoria dell’azione ecc.), mentre la «filosofia della logica» è la riflessione «metateorica» e concettuale su alcune tematiche emergenti dallo studio dei linguaggi formali. SOMMARIO: I. Logica e verità. - II. Logica e matematica - III. Contesti intensionali. - IV. Il problema dell’esistenza. - V. Logica e analiticità. VI. La pluralità delle logiche. I. LOGICA E VERITÀ. – Frege scrisse che «La parola “vero” indica alla logica la direzione, così come “bello” la indica all’estetica e “buono” all’etica» (G. Frege, Logische Untersuchungen, Halle 1922, tr. it. di R. Casati, Ricerche Logiche, Milano 1988, p. 43). Senza entrare nell’esegesi del testo fregeano, è chiaro che la nozione di verità, nelle sue molteplici interpretazioni, gioca un ruolo chiave in logica. Tuttavia, mentre le condizioni generali della predicazione vera sono oggetto di uno specifico campo di indagine (cioè la teoria della verità), la logica affronta questo problema da un’angolatura differente. Si può dire che la logica si occupa dell’aspetto strutturale (formale) della verità, ovvero prescindendo dai particolari contenuti informativi veicolati dalle proposizioni. È bene, però, distinguere attentamente l’aspetto relazionale della verità dall’interpretazione relativistica di quest’ultima. Il concetto di verità (e in particolare quello preso in esame dalla logica) è es-

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senzialmente legato a un contesto di riferimento, ovvero a un dominio su cui interpretare le proposizioni del linguaggio. La verità è sempre verità in un modello. In filosofia della logica, poi, ci si è soffermati su un altro concetto relazionale che ha a che fare con l’ambito semantico, e cioè sul nesso di conseguenza logica. Dire che una proposizione A è conseguenza logica di un insieme di assunzioni X significa intuitivamente ammettere che tutte le volte in cui è vero X sarà vera anche A. O, detto in altri termini, la verità dell’insieme di premesse X garantisce la verità della conclusione A. Come rendere questo nesso in maniera rigorosa? Come tradurre, cioè, il significato intuitivo di «tutte le volte»? Esistono due grandi tradizioni di interpretazione del nesso di conseguenza logica, che possiamo chiamare, per convenienza, semantica e modale. Secondo la tradizione semantica, A è conseguenza logica di X se e solo se, sotto ogni possibile interpretazione del linguaggio in X, se X è vero allora lo sarà anche A. La tradizione semantica, originatesi secondo Coffa (cfr. A. Coffa, La tradizione semantica da Kant a Carnap, Bologna 1991) in B. Bolzano, trova l’espressione più compiuta e rigorosa nell’opera di Tarski (cfr. A. Tarski, On the Concept of Logical Consequence, Oxford 1956). L’assunzione concettuale di base è la possibilità di interpretare in maniera differente il linguaggio; ciò significa che siamo in presenza di un linguaggio formale, vuoto di contenuto. L’altra tradizione, quella modale, che si può far risalire a Leibniz, sostiene che A è conseguenza logica di X se in tutti i mondi possibili in cui è vero X, è vera anche A. Come si può notare, la tradizione modale inserisce l’idea di «mondo possibile» nella definizione di conseguenza logica. In realtà, esiste una consonanza di fondo tra le due impostazioni, che risiede nell’idea di invarianza. Una proposizione è conseguenza logica di un insieme di premesse, se e solo se la verità viene preservata in tutte le trasformazioni possibili, cioè se la verità è invariante rispetto ad esse. Nel primo caso le trasformazioni sono costituite dalle diverse interpretazioni del linguaggio, mentre l’universo oggettuale di riferimento (il dominio o il mondo) rimane fisso; nel secondo invece il linguaggio è in qualche modo rigidamente interpretato, mentre variano gli universi oggettuali, ovvero i mondi (che diventano, ora, possibili) cui si riferiscono le espressioni. La nozione stessa di invarianza, intesa come

Logica immutabilità rispetto a una certa classe di operazioni, ha suggerito a Tarski la possibilità di definire le nozioni logiche come quelle particolari nozioni che sono invarianti rispetto alle varie permutazioni (cfr. A. Tarski, What are Logical Notions?, in «History and Philosophy of Logic», 7, 1986, pp. 143-154); il che è rispecchiato nelle presentazioni attuali dei sistemi formali, dove l’alfabeto si divide appunto in segni non logici (passibili di interpretazioni differenti) e segni logici (normalmente connettivi e quantificatori, il cui significato è invariante rispetto alle diverse interpretazioni). Uno dei problemi fondamentali della logica riguarda la possibilità di «dominare» sintatticamente il nesso di conseguenza logica. Le nozioni di «verità» e di «molteplicità di interpretazioni» hanno una natura essenzialmente infinitaria; il tentativo del calcolo, ovvero della parte sintattica della logica, è la riduzione di queste nozioni all’ambito del calcolabile e del finito. La finitizzazione del nesso di conseguenza logica è il problema metateorico fondamentale di ogni calcolo logico. Al di là dei vari risultati, sia positivi (decidibilità del calcolo proposizionale, completezza del calcolo dei predicati del primo ordine) che negativi (indecidibilità del calcolo dei predicati del primo ordine e incompletezza della logica di ordine superiore al primo), da un punto di vista filosofico possiamo individuare alcune linee interpretative del rapporto tra dimensione semantica e sintattica della logica. Secondo l’approccio infinitario-semantico, ciò che conta è il nesso di conseguenza logica; la possibilità di finitizzare questa relazione è sì un risultato utile, ma nel caso in cui esso non sia raggiungibile, ciò non inficia minimamente la validità di essa. In un certo senso, si può dire che la logica è la descrizione di strutture formali attraverso un linguaggio. Storicamente, una posizione simile è ascrivibile a un orientamento generale razionalista à la Leibniz, Bolzano, Frege. In maniera quasi antitetica, si può sostenere che l’ambito della logica finisce dove termina la possibilità di costruzione del calcolo. Ciò che è normativo è il nesso di derivabilità. In questo senso, l’incompletezza semantica della logica del secondo ordine, ovvero l’impossibilità di caratterizzare sintatticamente tutte le conseguenze logiche, è considerata una ragione sufficiente per non considerare «logica» tale sistema formale. Secondo questo approccio, presente nel formalismo di Hilbert (D. Hilbert, 6551

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Logica Grundlagen der Geometrie, Leipzig 1899, tr. it. a cura di C.F. Manara, Fondamenti della geometria, Milano 1970) p. es., il nesso di conseguenza logica è accessibile attraverso lo strumento sintattico: la logica è essenzialmente calcolo. II. LOGICA E MATEMATICA. – Come è facile notare, nella discussione sull’interpretazione del nesso di conseguenza logica torna periodicamente il problema della demarcazione: cosa deve essere considerato «logica»? È evidente che per rispondere in maniera adeguata si rende necessario disporre di una definizione, per quanto parziale e provvisoria, del termine «logica». Il problema della logica di ordini superiori (logica del secondo ordine e teoria dei tipi) è, in questo senso, paradigmatico. Chi accetta una visione infinitaria e semantica della logica non ha problemi ad ammettere questi sistemi formali nel novero della logica, tuttavia si registrano in letteratura numerose obiezioni a questo modo di procedere (cfr. W.v.O. Quine, Philosophy of Logic, Englewood Cliffs [New Jersey] 1970). Le critiche mosse si collocano a due livelli differenti: secondo il naturalismo di Quine, ciò che squalifica i calcoli di ordine superiore è il riferimento a oggetti particolari (gli insiemi, le classi o le proprietà) che non sono di competenza della logica, che deve essere, pertanto, topic neutral, indifferente dal punto di vista ontologico. Altri autori (cfr. I. Janè, High Order Logic Reconsidered, in S. Shapiro [a cura di], Oxford Handbook of Philosophy of Mathematics and Logic, Oxford 2005) sostengono invece che tali sistemi non sono logici nel senso pieno del termine, poiché la dimensione semantica eccede l’ambito sintattico e quindi essi perdono la caratteristica della completa formalità e vuotezza di contenuto. E questo è riflesso nei noti risultati di incompletezza semantica delle logiche di ordine superiore. A un livello più generale, ci si può chiedere quali nozioni (oltre ai connettivi e ai quantificatori) possono trovare ospitalità nell’alveo della logica. Storicamente, p. es., i primi sistemi formali trattavano come logiche le nozioni di «classe», e il logicismo si prefiggeva proprio la riduzione del concetto di «numero naturale» a nozioni puramente logiche. Le cose si complicano maggiormente se si considera che gli strumenti con cui viene formalizzata la semantica appartengono in larghissima parte alla teoria degli insiemi; ci si trova nella situazione in cui per interpretare un sistema ontologicamente neutrale, quale il 6552

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calcolo dei predicati del primo ordine, è necessario assumere (a livello meta-teorico) una teoria matematica potente quale la teoria degli insiemi. Del resto, anche la nozione di «insieme» può essere caratterizzata secondo due interpretazioni differenti: da un certo punto di vista un insieme è l’estensione di una proprietà, ovvero la classe degli elementi che godono di quella proprietà. Questa è l’accezione logica di «insieme» e corrisponde, grosso modo, alla definizione fregeana di «classe». Un insieme può essere anche concepito, però, come un elemento della gerarchia insiemistica costruita all’interno di una teoria assiomatica quale quella di Zermelo - Fraenkel. Mentre nel secondo caso non sorgono grossi dubbi riguardo all’estraneità del concetto di «insieme» alla logica, la nozione di «classe» risulta invece più problematica. E altrettanto complessa è la determinazione dello statuto logico (prima che ontologico) delle proprietà e delle relazioni. III. CONTESTI INTENSIONALI. – Notevole rilevanza filosofica ha poi l’impiego della logica nella formalizzazione di contesti intensionali, ove la determinazione del significato della proposizione non può prescindere da un certo riferimento al contenuto informativo da essa espresso. Normalmente, un enunciato di forma «È necessario che p» si interpreta con l’ausilio di una semantica a mondi possibili, dicendo che «È necessario che p» è vero nel mondo attuale, se e solo se p è vero in tutti i mondi possibili accessibili a partire dal mondo attuale. In maniera analoga, la possibilità è interpretata come la presenza in un mondo possibile. Ciò non chiarisce, però, lo statuto ontologico delle modalità della necessità e della possibilità. Dire infatti che qualcosa è possibile se è vero in un mondo possibile, sposta semplicemente il problema sulla definizione di «mondo possibile». Lo statuto ontologico dei mondi possibili è oggetto di acceso dibattito tra gli studiosi. Secondo la concezione attualista (astrazionista), un mondo possibile è un’alternativa ontologica al mondo attuale, un insieme di «stati di cose», cioè, che avrebbe potuto realizzarsi ma non l’ha fatto (cfr. A. Plantinga, The Nature of Necessity, Oxford 1974); al contrario, la concezione concretista (o possibilista) ammette come ugualmente possibili tutti i mondi che sono, quindi, attuali solo per chi vi abita (cfr. D.K. Lewis, On the Plurality of Worlds, Oxford 1986). In questo senso non vi è differenza ontologica reale tra un mondo possibi-

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le e il mondo attuale, e la nozione stessa di «attualità» assume un carattere di indicalità. La situazione diventa più complessa se si considera che i concetti modali qui presi in esame (possibilità e necessità) sono per così dire stratificati, ovvero sono anch’essi relazionali nell’accezione precedentemente esplicitata. Analizziamo tre livelli di possibilità (o, equivalentemente, di necessità): possibilità logica, analitica, ontologica (cfr. E.J. Lowe, The Possibility of Metaphysics, Oxford 1998; G. Forbes, The Metaphysics of Modality, Oxford 1985). La possibilità logica è normalmente intesa come assenza di contraddizione. È bene però specificare meglio questa affermazione: un individuo O è logicamente possibile quando la sua descrizione completa è consistente con l’insieme delle leggi logiche. Il famoso «quadrato rotondo», secondo questa impostazione, risulterebbe allora impossibile logicamente, poiché la sua descrizione, intesa in un certo modo, è logicamente contraddittoria. Ciò non esclude però che il quadrato rotondo sia in qualche modo un oggetto concepibile, rappresentabile epistemicamente. Determinare, inoltre, se un concetto sia o meno consistente è un problema notevole. In maniera del tutto generale possiamo dire che, dato un insieme X di formule espresse in un linguaggio dei predicati del primo ordine, valgono i due seguenti teoremi: (1) Sod X ⇒ Cons X (2) Cons X ⇒ Sod X Il primo afferma la consistenza degli insiemi di formule che possiedono un modello. La dimostrazione di (1) equivale alla dimostrazione di correttezza semantica del calcolo e riflette l’idea che se qualcosa è vero (cioè se è presente un universo oggettuale che rende vere le proposizioni di X), allora è coerente. Il secondo teorema afferma, invece, qualcosa di più forte: si viene a dire, in sostanza, che la coerenza è condizione sufficiente della soddisfacibilità. Se X è consistente, ovvero se non è possibile derivare una formula e la sua negazione, allora esiste un modello che rende vere le formule di X. La dimostrazione di (2) (chiamato anche teorema di esistenza del modello) è molto più laboriosa ed equivale a dimostrare la completezza semantica del calcolo. Se qualcosa è coerente, allora esiste un modello in cui è vero. Rimanendo al livello dei predicati del primo ordine, quindi, l’ambito della consistenza logica e della verità coincidono. Se vo-

Logica gliamo allora dimostrare la consistenza tramite un’argomentazione semantica, mediante cioè l’esibizione di un modello, dobbiamo compiere una forma di assunzione ontologica ulteriore. In questo senso, dimostrare la possibilità logica di un oggetto mostrando la sua consistenza e ottenere quest’ultima con l’esibizione di un modello è un procedimento tautologico, poiché l’assunzione d’esistenza di un modello equivale a ritenere possibile il darsi dell’oggetto. Le cose si complicano se si considerano logiche di ordine superiore al primo. È noto infatti che il calcolo dei predicati del secondo ordine è incompleto semanticamente; ciò implica che esistono degli insiemi di formule consistenti ma che non possiedono un modello. P. es., sia PA2 la congiunzione degli assiomi di Peano espressi in un linguaggio del secondo ordine e ( ¬G) sia la negazione della formula gödeliana. Per il secondo teorema di Gödel, PA2 + ( ¬G) è consistente anche se non possiede un modello. Infatti tutti i modelli di PA2 sono isomorfi in forza del teorema di categoricità e rendono vera G. Questo significa che, da un punto di vista generale, le nozioni di «consistenza» e «possibilità logica» risultano altamente problematiche. Connessa con la possibilità logica è la possibilità analitica (chiamata da alcuni autori «possibilità concettuale», cfr. Lowe, op. cit.). Un oggetto è analiticamente possibile quando è logicamente possibile e la sua descrizione è coerente con le leggi analitiche di qualche teoria formale. A questo livello entra in gioco lo statuto modale degli oggetti (e, in maniera equivalente, delle descrizioni di essi) delle scienze formali, in particolare della matematica. «2+2=4» è analiticamente necessario? È valido cioè in tutti i mondi analiticamente possibili? Alcuni asserti matematici di base sembrano essere assolutamente certi ed evidenti; tuttavia, se differenziamo la necessità logica da quella analitica, ciò significa che alcune verità matematiche potrebbero non valere in tutti i mondi logicamente possibili. D’altro canto, ammettendo la coincidenza di piano logico e analitico siamo costretti a sposare una sorta di «logicismo debole» secondo cui, in ultima analisi, lo statuto modale degli oggetti delle teorie astratte (o formali) equivale a quello della logica. Infine la determinazione logica della possibilità ontologica (o metafisica) risulta ancora più complessa. 6553

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Logica IV. IL PROBLEMA DELL’ESISTENZA. – A questo proposito è interessante la formalizzazione, tramite alcuni operatori, di nozioni legate alla dimensione ontologica. C’è un vivace dibattito sui diversi approcci nel trattare il predicato di attualità ed esistenza. In un certo senso, la logica formale ha a che fare comunemente con il concetto di esistenza. Basti pensare al quantificatore esistenziale, che dichiara proprio l’esistenza di un individuo che gode di determinate proprietà (se ci spingessimo oltre il primo ordine, avremmo quantificatori che si riferiscono a variabili per oggetti complessi quali insiemi, proprietà ecc.). Tuttavia il concetto di esistenza considerato in logica risulta problematico, se guardato da una prospettiva critica e filosofica. Tra le molte alternative presenti in letteratura, la prima grande distinzione è tra chi concepisce l’esistenza in maniera univoca (Frege, Russell, Quine) e chi invece adotta una polivocità di modalità di esistenza. Al di là della questione in sé, che risulta prettamente attinente a uno studio di ontologia, per il logico è interessante notare la possibilità di formalizzare l’operatore di esistenza e di ottenere risultati rilevanti anche per dispute di competenza classicamente metafisica. A tale proposito assume una particolare rilevanza l’impiego dei cosiddetti assiomi di comprensione. Molto in generale, un assioma di comprensione è un enunciato che dichiara l’esistenza di una certa entità in base ad alcune condizioni esprimibili nel linguaggio. La forma canonica nella quale possiamo esprimere questo è: (AC) ∃F∀x(Fx ↔ α) La a presente nell’assioma è una variabile metateorica che si riferisce a formule ben formate del linguaggio. L’assioma di comprensione viene ad asserire l’esistenza di una relazione (o di una proprietà) per ogni formula del linguaggio. Tuttavia, senza particolari restrizioni, (AC) risulta contraddittorio; infatti basta sostituire ad a la formula ¬Fx ed ecco che si viene a dire che esiste una formula Fx se e solo se vale la sua negazione ¬Fx. La prima condizione è quindi che la F non deve occorrere libera nella a. (AC) può essere espresso anche nel linguaggio della teoria degli insiemi; in questo caso, il dominio della variabile quantificata esistenzialmente sarà costituito dalla gerarchia degli insiemi: (AC-I) ∃y∀x(x ∈ y ↔ α) 6554

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Se non rispettiamo la condizione di coerenza espressa precedentemente, cadiamo nel «paradosso delle classi». Da un punto di vista filosofico, quindi, l’assioma di comprensione è la controparte formale del procedimento intuitivo di introduzione di nuove entità; i vantaggi provenienti dalla formalizzazione rigorosa stanno proprio nella possibilità di «controllare» le assunzioni ontologiche che sono alla base delle argomentazioni. Naturalmente non tutti i principi di comprensione possono essere ammessi come legittimi, in un sistema formale; si consideri p. es. il problema della predicatività, che gioca un ruolo fondamentale nel discorso sui fondamenti della matematica. Secondo alcuni autori, tra cui Poincaré e Russell, una definizione è predicativa solo se è in grado di escludere tutti gli oggetti che dipendono dalla nozione definita. Nelle parole di Russell nessuna totalità può contenere numeri (ma possiamo comprendere anche concetti, insiemi ecc.) definiti nei termini della stessa totalità cui appartengono (cfr. P. Mancosu, From Brouwer to Hilbert, New York 1998). V. LOGICA E ANALITICITÀ. – In tutte queste tematiche (verità, modalità, esistenza), il fil rouge è costituito dall’intreccio di logica e ontologia e dalle reciproche influenze; tuttavia, la filosofia della logica si confronta anche su tematiche riguardanti la teoria della conoscenza e l’epistemologia in senso lato. Una questione per certi versi ancora aperta è il dilemma dall’analiticità e dell’apriorità del sapere logico. Quasi nessuno ammette che le leggi logiche siano conoscenze fondabili a posteriori (benché vi siano numerosi filosofi che sostengono questo per la matematica; cfr. P. Kitcher, The Nature of Mathematical Knowledge, New York 1983). Tuttavia rimane radicata nel paradigma naturalista l’idea neopositivista che le leggi logiche siano analitiche. In particolare, il concetto di «analiticità» qui in esame è da intendersi come vero in virtù dei termini che vi compaiono, e il significato dei termini è una questione puramente convenzionale, linguistica. La logica non dice nulla sulla realtà e non è informativa; ciò che è rilevante per la nostra conoscenza del mondo è costituito da giudizi a posteriori, sintetici e, in ultima analisi, riconducibili all’esperienza empirica. A questa prospettiva (che a sua volta presenta una serie di diramazioni e specificazioni ulteriori) si può opporre una visione di stampo razionalista. Frege assume come analitica una proposizione ottenuta

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dalle leggi logiche generali insieme alle definizioni, senza riferimento a particolari giudizi empirici (M. Dummett, Frege. Philosophy of Mathematics, Cambridge 1991, p. 24): «analitico» diventa allora sinonimo di «massimamente generale», applicabile in ogni contesto possibile, esattamente come, nell’idea di Frege, erano le verità della logica e della matematica. Tale idea di analiticità non coincide però con la mancanza di contenuto informativo e con la convenzionalità linguistica. Gödel (K. Gödel, Is Mathematics Syntax of Langugage?, in Collected Works, vol. III: Unpublished Essays and Lectures, a cura di S. Feferman et al., Oxford 1995, pp. 334-362) polemizza con la concezione neopositivista dell’analiticità; egli sostiene che le proposizioni analitiche sono sì vere in virtù del significato (il loro truthmaker non è alcunché di spazio-temporalmente determinato), ma il problema del significato non è materia di pura convenzione; anzi, ha un fondamento preciso nel realismo concettuale sostenuto dallo stesso Gödel. Strettamente connessa con il problema dello statuto epistemologico delle proposizioni della logica è la determinazione del nostro accesso conoscitivo ad esse. L’attore protagonista è in questo caso il concetto di «evidenza», e segnatamente l’evidenza intellettiva. È superfluo ricordare l’aspra critica che il naturalismo muove alla possibilità di una fonte autentica di conoscenza non direttamente collegata a un processo fisico. Al di là delle posizioni teoriche in merito, la logica formale permette una sistemazione rigorosa del predicato di evidenza che si può caratterizzare, a seconda delle posizioni assunte, come affidabile o meno (a seconda che si ammetta l’implicazione tra uno stato di evidenza di A e il darsi reale di A). VI. LA PLURALITÀ DELLE LOGICHE. – Nei brevi accenni precedenti abbiamo considerato come livello logico di base il calcolo dei predicati del primo ordine. I sistemi formali presi in esame sono stati ottenuti ampliando il vocabolario tramite l’aggiunta di operatori logici (necessità, possibilità, esistenza) o di altri tipi di variabili (come avviene per i calcoli di ordine superiore). Tuttavia è possibile fornire una diversa interpretazione delle costanti logiche elementari, con una relativa riformulazione delle regole e delle leggi logiche fondamentali. L’intuizionismo, che originariamente fu pensato come un programma di ricostruzione e fondazione della matematica (cfr. L.E.J. Brouwer,

Logica Collected Works, vol. I: Philosophy and Foundations of Mathematics, a cura di A. Heyting, Amsterdam 1975), costituisce un tipico esempio di logica alternativa al paradigma classico. Secondo la sistemazione di Heyting (A. Heyting, Sur la logique intuitionniste, in «Académie Royale de Belgique», 16, 1930, pp. 957-963), il nesso di derivabilità viene interpretato come disponibilità di una dimostrazione; per cui  A significa che è attualmente presente una procedura di costruzione di A. Da ciò segue che avere a disposizione una dimostrazione di (¬¬A) non equivale ad aver dimostrato A. L’intuizionismo rifiuta, infatti, una serie di leggi logiche generali, quali la doppia negazione classica e il tertium non datur. La concezione filosofica generale dietro ogni logica intuizionista è l’assunzione di una posizione anti-realista nei confronti degli enti logici e delle loro relazioni. Il rifiuto del «terzo escluso» chiarisce bene questo punto: non vale generalmente che, per ogni formula A, o A o (¬A) . Infatti, se interpretiamo l’ammissione della verità di A come una dimostrazione di A, segue che possiamo trovarci in una situazione indeterminata rispetto all’effettiva disponibilità di dimostrazioni di A e di (¬A). L’enunciato della congettura di Goldbach (ogni numero pari è la somma di due numeri primi) non è stato ancora dimostrato o refutato; da un punto di vista classico, questa situazione è intesa come un limite della nostra conoscenza dell’universo matematico: la «congettura di Goldbach» è vera (o falsa) indipendentemente dalla nostra capacità di dimostrarla tale; l’intuizionismo (con la corrispettiva impostazione anti-realista) non può asserire ciò: senza una dimostrazione (o una refutazione) della «congettura di Goldbach», lo stato di cose da essa descritto è indeterminato. Il rifiuto della legge logica del «terzo escluso» non è l’unica opzione di revisione della logica classica. Esistono, p. es., sistemi che non accettano il principio dello pseudo-Scoto, in base al quale dalla contraddizione segue qualsiasi formula. Queste logiche («non scotiane», appunto) permettono di «gestire» anche la contraddizione, dal momento che essa non coincide (in virtù della soppressione della legge dello pseudo-Scoto) con la banalità del sistema stesso. In conclusione, l’ultimo excursus su logiche devianti rispetto alla logica classica ed alle sue estensioni pone in luce uno dei problemi fondamentali della filosofia della logica, e cioè il dilemma sull’unicità o meno 6555

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Logica della logica stessa. Innanzitutto, è bene distinguere due casi generali: è possibile ampliare il vocabolario di base della logica (p. es. come avviene nelle logiche modali con gli operatori di necessità e possibilità) e fornire una serie di condizioni sintattiche e semantiche che regolino l’utilizzo e l’interpretazione di questi segni nuovi; oppure si possono reinterpretare alcune costanti logiche fondamentali (connettivi e quantificatori) dando origine a sistemi di logiche alternative a quella classica. I due momenti di «revisione» possono essere poi combinati, come nel caso di logiche intuizioniste modali che rigettano alcune tesi classiche e presentano operatori a carattere intensionale. Il problema della pluralità delle logiche può essere così sintetizzato: esiste una logica corretta? E se sì, qual è? Un sostenitore dello strumentalismo negherebbe già la prima delle due questioni. Se la logica è un insieme di convenzioni linguistiche utili per organizzare i nostri enunciati, non ha senso chiedere se tale insieme di regole sia quello corretto o meno. Uno strumento può essere, al massimo, utile, adeguato, maneggevole; così anche l’olismo di stampo quineano di fatto non ritiene sensata tale affermazione. Tutta la conoscenza umana è una rete di proposizioni appoggiata, alle estremità, sull’esperienza empirica e sensoriale. Il core di questa web of beliefs è costituito proprio dalle leggi logiche, ma non c’è alcuna priorità gerarchica tra queste e il resto dell’edificio. Nelle parole dello stesso Quine, nel momento in cui una serie di osservazioni empiriche dovesse richiedere la revisione di un principio logico, essa verrà effettuata senza badare al grado di evidenza o di «radicalità» di cui gode il principio. E un caso simile si sarebbe parzialmente verificato con la rivoluzione quantistica, in base alla quale il «principio di bivalenza» della logica classica sarebbe da soppiantare con una logica a più valori per descrivere meglio le situazioni di indeterminatezza quantistica. Chi sostiene, invece, che la domanda sulla correttezza della logica abbia un senso, può scegliere se adottare un punto di vista monista o pluralista. Il monista crede che esista un solo sistema logico corretto e che le alternative non siano valide. L’unico criterio che è ammissibile per l’accettazione di sistemi logici devianti è quello della praticità e della convenienza: si consideri, a titolo esemplificativo, l’assunzione di monismo intuizionista. Da questa pro6556

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spettiva la logica classica e, segnatamente, l’ammissione del principio del «terzo escluso» sono mosse errate. Tuttavia la grande duttilità dei metodi dimostrativi classici può essere impiegata (p. es. nelle dimostrazioni matematiche), a patto che non comporti la derivazione di tesi invalide intuizionisticamente. La posizione monista è criticabile sotto molti punti di vista, sia teorici che pratici, cioè legati all’effettivo darsi della pratica logica e matematica. La posizione pluralista presenta invece due versioni: il pluralismo globale e il pluralismo locale (cfr. S. Galvan, Non contraddizione e terzo escluso. Le regole della negazione nella logica classica intuizionistica e minimale, Milano 1997). Secondo il pluralismo globale ogni sistema di logica è ammesso, basta che sia corredato di un sufficiente apparato semantico che permetta di dimostrarne almeno la correttezza. Non esiste alcuna ragione estrinseca per preferire una logica a un’altra, dal momento che si tratta di punti di vista tra i molti possibili. La scelta è operata, allora, in base a criteri convenzionali o di comodità pratica; quello che viene negato, più o meno esplicitamente, dal pluralista globale è proprio la disponibilità di criteri che possano sistematizzare l’insieme dei sistemi formali. Infine, il pluralismo locale consiste nell’ammettere che i singoli sistemi formali possano essere adeguati per domini referenziali differenti. Ciò significa che ogni logica risulta corretta rispetto alla regione di realtà che intende descrivere. L’incompatibilità presente tra logica classica e intuizionista, p. es., viene risolta ammettendo due domini referenziali differenti: la logica intuizionista descrive le condizioni di possibilità della conoscenza; si occupa, quindi, della dimensione intenzionale dell’essere, mentre la logica classica è naturalmente interpretata sull’essere reale, indipendente dal pensiero. La logica intesa, allora, come pluralità di linguaggi assume uno speciale carattere di sistematicità e coesione, le cui radici non affondano nel convenzionalismo o nel pragmatismo ma in una dimensione ontologica ulteriore. C. De Florio BIBL.: G. FREGE, Die Grundlagen der Arithmetik. Eine logisch-mathematische Untersuchung über den Begriff der Zahl, Breslau 1884; tr. it. di C. Mangione, I fondamenti dell’aritmetica. Una ricerca logico-matematica sul concetto di numero, in C. MANGIONE (a cura di), Logica e Aritmetica, Torino 1965, pp. 211-349; G. FREGE,

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Der Gedanke: eine logische Untersuchung, in «Beiträge zur Philosophie des deutschen Idealismus», 1 (1918), pp. 58-77, tr. it. di R. Casati, Il pensiero. Una ricerca logica, in G. FREGE, Ricerche Logiche, a cura di M. Di Francesco, Milano 1988, pp. 43-74; G. BOOLOS, On Second-Order Logic, in «Journal of Philosophy», 72 (1975), pp. 509-527; S. HAACK, Philosophy of Logics, Cambridge 1978, tr. it. a cura di M. Marsonet, Filosofia delle logiche, Milano 1983; N. COCCHIARELLA, Logical Investigations of Predication Theory and the Problem of Universals, Napoli 1986; S. GALVAN, Logiche intensionali, Milano 1991; K. GÖDEL, Is Mathematics Syntax of Language?, in K. GÖDEL, Collected Works, vol. III: Unpublished Essays and Lectures, a cura di S. Feferman et al., Oxford 1995, pp. 334-362; S. READ, Thinking about Logic, Oxford 1995; D. JACQUETTE (a cura di), A Companion to Philosophical Logic, Malden (Massachusetts) 2002.

LOGICA, STORIA DELLA. – La logica entra uffiLogica cialmente nel pensiero occidentale nel IV secolo a. C. come studio del ragionamento corretto, con quella serie di scritti di Aristotele che è stata poi etichettata dai posteri, nel I secolo a. C., organon, cioè «strumento», propedeutico agli studi scientifici. Il termine «logica», in realtà, compare solo più tardi, nella trattazione stoica, a indicare l’arte del discorso persuasivo in generale (e, quindi, a sua volta si dividerà in retorica e dialettica, dove sarà la dialettica a occuparsi del discorso argomentativo), ma lo studio del ragionamento corretto, compiuto in modo consapevole, ampio e approfondito, è di Aristotele e costituisce il punto di confluenza e di rielaborazione, a livello più alto e originale, di vari contributi già comparsi a diverso titolo in autori precedenti. La dimostrazione per assurdo dell’incommensurabilità della diagonale e del lato unitario del quadrato dei pitagorici, la problematicità del verbo «essere» messa a fuoco da Parmenide, l’interesse della sofistica per la confutazione sono i più rilevanti temi che trovano un ripensamento nella logica di Aristotele; logica che si presenta, in lui, strettamente connessa all’ontologia: la struttura della frase rispecchia la struttura dell’essere (soggetto-predicato; sostanza-attributo), e le leggi della logica (principio d’identità: A ≡ A ; principio di noncontraddizione: ¬(A ∧ ¬A); principio del terzo escluso: A ∨ ¬A ) rispecchiano uno stato di cose nella realtà. Data infatti una proprietà (un attributo), il mondo si divide in due parti: quella delle sostanze che ne godono e quella

Logica delle sostanze che non ne godono, indipendentemente dalla nostra conoscenza, cioè indipendentemente dal fatto che noi sappiamo quali e se ne godono. Il nome delle suddette leggi e la loro stessa separazione – in modo particolare fra non-contraddizione e terzo escluso – sono successivi: in Aristotele le due leggi formano un tutt’uno. La ricerca logica di Aristotele è finalizzata alla successiva ricerca naturalistica, e Aristotele è consapevole che la logica non dà direttamente la verità ma la conserva, se c’è nelle premesse che le sono fornite. Da un ragionamento corretto, dunque, potranno risultare conclusioni certe, se le premesse sono certe; probabili, se le premesse sono probabili (in questo caso Aristotele parla di argomentazione «dialettica», anziché «dimostrativa»). La logica è, pertanto, formale, perché, potremmo dire, non intacca il contenuto, e neppure ne dipende. È perciò naturale che essa sia pure simbolica, cioè faccia uso di simboli per indicare i termini di cui si compone il suo linguaggio, proprio per sottolineare l’indipendenza dai contenuti. In particolare, Aristotele usa lettere dell’alfabeto greco per designare i termini. Storicamente, verranno date definizioni di logica anche fortemente diverse da quella della tradizione aristotelica (e poi megarico-stoica): per riferirci ad essa, che costituisce il nostro tema principale, useremo sempre l’aggettivo «formale» e caratterizzeremo le altre contestualmente. Il ragionamento su cui maggiormente si concentra Aristotele è il sillogismo in cui le proposizioni presenti siano apodittiche, cioè esprimano (semplicemente) l’appartenenza di un predicato a un soggetto; ma nelle sue opere sono presenti anche robuste riflessioni sulle proposizioni modali, che contengono, cioè, indicazioni relativamente alla possibilità o necessità dell’appartenenza del predicato al soggetto. Il nesso logica-ontologia presente in Aristotele determina la centralità dell’analisi delle proposizioni in soggetto-predicato (per questo la logica aristotelica è anche detta logica dei termini). La logica, invece, che ha le sue radici nella scuola megarica fondata da Euclide e che ha visto il suo successore, Eubulide di Mileto (sec. IV a. C.), passare alla storia per l’introduzione del paradosso del mentitore, ha concentrato il suo interesse sulle proposizioni e i loro nessi, anziché sull’analisi interna della singola 6557

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Logica proposizione. Così essa indaga in particolare il significato del connettivo «se... allora». Infatti, Diodoro Crono, sensibile alle problematiche modali, sostenne che la proposizione è vera se né è stato né è possibile che l’antecedente sia vero e il conseguente falso, mentre il suo allievo Filone di Megara diede un’interpretazione meno vicina al linguaggio naturale (che percepisce una sorta di connessione causale tra antecedente e conseguente) e più vicina all’uso matematico: i teoremi (nel cui enunciato vengono date certe ipotesi – p. es. «se si ha un triangolo» – ed enunciata una certa tesi – p. es. «allora la somma degli angoli interni è 180°») possono ricevere una confutazione, cioè essere dichiarati falsi, solo da un controesempio, ossia da una situazione in cui le premesse siano verificate e la conseguenza falsificata. Ne deriva una definizione di verità di «se p allora q» che dà come unico caso di falsità quello con p vera e q falsa, mentre considera veri tutti gli altri casi. La tradizione della scuola megarica (di cui non abbiamo scritti conservati, ma solo quanto è stato riferito da Diogene Laerzio, Sesto Empirico e Boezio) fu accolta e sviluppata dal «secondo fondatore» della scuola stoica, Crisippo di Soli, coerentemente con l’attenzione ai «fatti», tipica di quella scuola, che portava in modo naturale a focalizzare le proposizioni e i loro nessi. Così si è studiato il variare del valore di verità di proposizioni complesse in relazione al valore di verità delle loro componenti e del connettivo che le unisce, posto il riconoscimento della legge di bivalenza, cioè la necessità di attribuire a una proposizione o il valore vero o il valore falso. Posta, dunque, la bivalenza, si ritiene che l’azione dei nessi fra proposizioni sia vero-funzionale, cioè che il valore di verità delle proposizioni composte dipenda dal valore di verità delle componenti. Si è, quindi, messo in luce il fatto che la congiunzione è vera se e solo se entrambi i congiunti sono veri; che esistono due tipi di disgiunzione (corrispondenti, rispettivamente, al vel e all’aut latini), l’una che è vera solo se uno dei due disgiunti è vero, l’altra che è vera anche quando entrambi i disgiunti sono veri. Questo, in piena sintonia con gli usi del linguaggio quotidiano. Gli stoici – in particolare Crisippo – hanno anche elencato cinque «indimostrabili», cioè 6558

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schemi d’inferenza, da cui ricavare un gran numero di verità logiche: Se A allora B. Ma A. Allora B. Se A allora B. Ma nonB. Allora nonA. Non(A e B). Ma A. Allora nonB. O A o B. Ma A. Allora nonB. O A o B. Ma non B. Allora A. Tra il I secolo d. C., epoca di dominio logico stoico (sulle cui opere veniamo informati principalmente da Cicerone e da Sesto Empirico), e il VI secolo, gli eventi maggiormente significativi per quanto riguarda la logica sono: * la tendenza a mescolarsi delle due tradizioni, aristotelica e megarico-stoica (e si usa il termine «dialettica» per designare la logica in generale); * Galeno presenta i sillogismi relazionali (A=2B, B=2C allora A=4C); * Porfirio scrive l’Isagoge, cioè l’introduzione alle Categorie di Aristotele, e Boezio la traduce in latino (si parla di logica vetus appunto in riferimento a questa parte, incompleta, dell’Organon). Nell’Isagoge Porfirio pone, lasciandola aperta, la storica questione degli universali, cioè dei «generi e delle specie», che si articola in tre problemi: gli universali sussistono autonomamente o sono posti solo nell’intelletto? sono corporei o incorporei? sono separati o no dalle cose sensibili? Dopo un periodo di relativa stasi, inizialmente dovuta alla presenza dei barbari, a poco a poco si diffonde la logica vetus e compare il primo trattato di logica medievale a opera di Alcuino (Categoriae decem, 790). Nel XII secolo si viene a conoscere l’intero Organon. Il XIII secolo è il momento di massima fioritura della logica. Essa entra a pieno titolo nelle università, nella «facoltà delle arti», quindi a un livello generalmente propedeutico (e, si noti, separato dalla matematica), anche se letture e commenti diretti di testi aristotelici venivano demandati a livelli più alti, in ambito teologico, perché ritenuti, appunto, delicati per le ripercussioni che potevano avere in questo settore. L’aspetto più diffuso della logica a livello del trivio (in cui essa, sotto il nome di «dialettica», compariva assieme alla retorica e alla grammatica) è quello di analisi dei «sophismata», cioè di tesi paradossali che risultavano da un errore logico nascosto nell’ar-

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gomentazione, ma nel XIII secolo lo studio della logica è comunque più ampio. Con la cosiddetta logica terminorum vengono studiate la significazione – distinguendo fra termini «categorematici», cioè dotati di un significato proprio, e «sincategorematici», cioè la cui funzione consiste nel modificare il significato dei categorematici – e le proprietà dei termini. Per quanto riguarda queste ultime, si distingueva fra: 1) significatio, cioè la proprietà di un termine di essere dotato di significato; 2) la suppositio, cioè l’uso di un termine – già significante – in una proposizione scegliendo tra le sue accezioni (p. es. può essere materialis, cioè indicare se stesso, o formalis, cioè indicare un oggetto); 3) la ampliatio (il termine sta anche per cose future o possibili); 4) la restrictio (suppositio limitata da aggettivi, participi ecc.). Nella dottrina delle consequentiae si compie una ricerca sull’inferenza, distinguendo fra consequentia formalis, cioè il ragionamento perfetto, e consequentia materialis, cioè il ragionamento imperfetto che sottintende una premessa. Inoltre, si dimostrano alcune tesi famose, quali l’ex falso quodlibet (¬A → (A → B)), la contrapposizione ((A → B) → (¬B → ¬A)) e la derivabilità della proposizione vera da qualunque altra formula (A → (B → A)) . Si studiano anche sillogismi diversi da quelli assertori: modali, temporali, obliqui ecc. Nel XIII secolo si danno anche le obligationes, cioè le regole per le dispute scolastiche, e si studiano gli insolubilia, cioè i paradossi logici, quali quello del mentitore, mettendo in luce, tra le varie soluzioni possibili, qualcosa di analogo alla moderna distinzione fra linguaggio-oggetto e metalinguaggio. In generale si accentua il carattere formale della logica, con un uso di formule e tecniche mnemoniche che poi costituiranno motivo di discredito per l’intera disciplina in epoca umanistica. Del XIII secolo, infatti, sono i famosi manuali di logica di Guglielmo di Sherwood (Introductiones in logicam, in cui compaiono per la prima volta i versi «Barbara, Celarent...» per memorizzare le figure corrette di sillogismo) e di Pietro Ispano (Tractatus). Tra il XII e il XIV secolo, da Abelardo a Ockham, attraverso lo Pseudo-Scoto e Tommaso, particolare attenzione viene riservata alle proposizioni modali, contenenti le nozioni «necessario», «possibile», «impossibile» e «contingente», e si approfondisce la distinzione fra «senso composto» (che fa interpretare la proposi-

Logica zione come «de dicto») e «senso diviso» (che fa interpretare la proposizione come «de re») di una proposizione modale e i sillogismi che le contengono. In collegamento con la problematica modale, si tratta la questione teologica dei futuri contingenti, sollevata a partire dal famoso passo del De interpretatione di Aristotele. A partire dal Quattrocento fino a tutto il Seicento, non cessa mai del tutto lo studio della logica; anzi, i testi aristotelici vengono ora letti in lingua originale. Questo fatto concentra l’attenzione sul sillogismo, di cui ci si chiede – ora che anche gli Elementi euclidei sono stati riscoperti in originale – se sia davvero sufficiente a esprimere le dimostrazioni ivi contenute. Così la logica vede ridotta l’ampiezza di orizzonti tematici che aveva precedentemente raggiunto, proprio mentre si trova a confrontarsi con la ricchezza retorica della letteratura da un lato, e con la fecondità di risultati raggiunti dall’appena nato metodo scientifico e dall’algebra dall’altro. (Si noti che l’algebra, non essendo proposta in maniera assiomatica, appare indipendente dalla logica). Nel Cinquecento il più famoso critico di Aristotele è Pietro Ramo, che, nell’ambito di una più generale riforma dei contenuti dell’insegnamento universitario, prepara un manuale di logica molto semplificato e con particolare attenzione per la questione del metodo. Nel Seicento, invece, sono Descartes e Locke i più famosi detrattori della logica, ritenendo che conoscenza sia intuizione (nel caso di Descartes, di singole idee; nel caso di Locke, di concordanza fra idee), che può essere immediata, oppure mediata da una serie di altre intuizioni. Il sillogismo appare loro un inutile procedimento che inceppa il naturale susseguirsi delle intuizioni nella dimostrazione, mentre con Francis Bacon si delinea un abbozzo di «logica induttiva», come metodo per la corretta generalizzazione scientifica. In questo stesso periodo, si delinea un’idea di logica come «arte di ben condurre la ragione» – intesa, in senso mentalistico, come pensiero – che prende forma nell’opera dei francesi Arnauld e Nicole di Port Royal (cfr. La logique ou l’art de penser, Paris 1662). Parimenti interessato alle operazioni compiute dalla mente nel procedimento dell’inferenza è stato Hobbes, ma senza atteggiamenti critici nei confronti della logica formale: con la sua idea che pensare sia manipolare segni e 6559

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Logica ragionare sia calcolare, egli costituisce anzi il punto di continuità fra Lullo e Leibniz. Quest’ultimo rappresenta nel Seicento la massima voce in difesa della logica formale, cui contribuisce col suo progetto di «ars combinatoria», cioè di un procedimento per trovare tutte le verità delle varie discipline a partire dai loro concetti-base, compiendo in modo esaustivo tutte le loro combinazioni. Tale progetto si doveva articolare nella produzione di un linguaggio ideale (characteristica universalis), di una scienza generale del metodo e di un’enciclopedia del sapere. La costruzione di un linguaggio ideale era di moda all’epoca di Leibniz (tentativi erano stati effettuati da J. Wilkins, J.J. Becher, G. Dalgarno, A. Kircher), ma in Leibniz la convinzione che un simbolismo adeguato aiutasse il pensiero stesso veniva dall’esperienza diretta nel campo dell’analisi infinitesimale, in cui la sua notazione aveva giovato molto allo sviluppo della disciplina. La sua ricerca per tale linguaggio richiedeva che il nome di una cosa ne rispecchiasse tutte le proprietà e che in generale le espressioni rispecchiassero la struttura del mondo, quindi l’elaborazione di un dizionario per tale linguaggio avrebbe di principio richiesto l’avvenuta elaborazione di tutte le scienze. Di qui l’aspirazione a un’enciclopedia del sapere, fallita per l’impossibilità di far cooperare le varie accademie. Tentò, invece, una realizzazione, più limitata, nell’ambito della geometria: scomporre i concetti complessi in concetti più semplici, correlare questi ultimi a numeri primi (e la composizione dei concetti in concetti complessi al prodotto tra i numeri primi) e poi affermare la verità dell’attribuzione di un predicato a un soggetto qualora l’espressione numerica associata al predicato dividesse quella associata al soggetto. In quest’abbozzo veniva delineata la scienza generale del metodo, che consisteva nel far vedere che il predicato era incluso nel soggetto (è quindi chiaro che Leibniz rimane legato alla struttura «soggetto-predicato» aristotelica), in quanto la legge d’identità era per Leibniz assioma indimostrabile. Egli cercò anche di estendere il programma di ars combinatoria alla logica aristotelica, avendo notato che la logica aveva una «certa somiglianza» con l’algebra, ma non riuscì a produrre un calcolo che coprisse l’intera teoria del sillogismo: resta, comunque, l’interesse della 6560

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formalità astratta, coscientemente pluri-interpretabile, di quel calcolo. Nel Settecento, la situazione della logica in Europa è la seguente. In Francia continua la tradizione della logica come teoria delle idee, con raro interesse verso la logica formale (J.-D. Gergonne, col suo tentativo di rendere meccanico il ragionamento sillogistico, è l’unico autore di spicco). In Germania persiste un filone di interesse per la logica formale, sulla scorta di Leibniz, in ambito razionalista. Il capostipite di questa corrente era C. Wolff, che entusiasticamente sosteneva che tutte le dimostrazioni matematiche consistevano di catene di sillogismi della prima figura. Egli fu poi seguito da G. Ploucquet, che quantificava anche il predicato e metteva come unica regola che i termini devono mantenere nella conclusione la stessa quantità che hanno nelle premesse. Anche J.H. Lambert, accogliendo l’idea della quantificazione del predicato, da un lato diede una rappresentazione dei sillogismi tramite linee rette, e dall’altra impostò un abbozzo di calcolo logico basato su somiglianze fra logica e operazioni algebriche. Infine Eulero sviluppò l’idea leibniziana di illustrare le relazioni logiche con analogie geometriche rappresentando i sillogismi tramite relazioni fra cerchi. Con Kant, invece, si ebbe una svolta verso una ridefinizione della logica. Kant, infatti, distingue fra logica generale e logica trascendentale. La logica formale astrae da ogni contenuto della conoscenza per considerare la forma dei rapporti tra conoscenze, è cioè scienza delle leggi necessarie del pensiero individuate da Aristotele, non ulteriormente perfezionabile. La logica trascendentale, invece – nuova nozione di logica introdotta da Kant – astrae solo dal contenuto empirico della conoscenza e si occupa dei modi di unificare il molteplice delle rappresentazioni, cioè tratta di quelle forme a priori in virtù delle quali un oggetto è un oggetto. In quanto tale, essa prende il posto dell’ontologia, ma ne resta distinta in quanto studia il fenomeno e non la cosa in sé. In Gran Bretagna impera la tradizione empiristica, che nell’Ottocento ha in J.S. Mill il suo esponente più significativo. Infatti, l’empirismo e l’associazionismo lo portano a concepire la logica come studio delle inferenze, mettendo in luce il fatto che anche le inferenze che appaiono di carattere deduttivo, come quelle illustrate dalla sillogistica aristotelica, sono

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sempre da ricondurre a passaggi da casi particolari ad altri casi particolari: anche le proposizioni universali non sono altro che generalizzazioni da esperienze particolari. Le inferenze, dunque, sono sempre induttive, e tale dev’essere la logica che di esse si occupa e che si propone di individuare le garanzie sulle generalizzazioni che si effettuano. Un recupero della logica formale deduttiva viene proposto, però, da R. Whately (Elements of Logic, London 1826), che, quindi, può essere considerato il responsabile della rinascita inglese della logica formale a inizio Ottocento. È proprio per la sua critica alla recensione di Bentham del volume di Whately che W. Hamilton, filosofo del «common sense», cominciò la sua carriera di logico e diventò nel seguito famoso per la «quantificazione del predicato», anche se certamente, come abbiamo visto, non fu il primo. Conseguentemente venivano modificati i modi possibili e validi della sillogistica, che Hamilton riteneva (cfr. Lectures on Logic, in Lectures on Metaphysics and Logic: in Four Volumes, Edinburgh-London 1860, voll. III e IV) d’avere così semplificato e completato. La quantificazione del predicato consentiva di ridurre le proposizioni a equazioni, preparando il terreno all’algebra della logica. Diretto rivale di Hamilton per questioni di paternità concettuale, fu A. De Morgan (Formal Logic or the Calculus of Inference, London 1847), approdato alla logica per un suo personale interesse per la logica della geometria euclidea e stimolato, successivamente, dal volume di Whately. Egli si dedicò alla sillogistica aristotelica facendo uso della simbologia «X» e «x» per indicare un termine e il suo contrario (che insieme esauriscono l’universo del discorso) e vedendola come un caso speciale nella teoria della composizione delle relazioni, in cui compaiono le sue famose leggi sulla congiunzione e disgiunzione: ¬(A ∨ B) ≡ ¬A ∧ ¬B ; ¬(A ∧ B) ≡ ¬A ∨ ¬B . De Morgan è considerato il primo logico (con l’eccezione di Lambert) ad aver discusso estensivamente una teoria delle relazioni, che erano state solo parzialmente studiate da Platone e Aristotele, e lungo il Medioevo. G. Boole apprese da Whately la rappresentazione estensionale dei principi della logica, cioè l’intenderli come classi di oggetti e non come combinazioni di attributi, aggiungendovi l’uso di operatori algebrici opportunamente adattati. Il suo intento iniziale era matematico (an-

Logica che se stimolato dalla lettura del «classico» Organon), cioè portare a compimento una riforma dell’algebra, iniziata da George Peacock, membro-fondatore dell’Analytical Society, che aveva avuto come uno dei suoi primi risultati la riforma della notazione nell’analisi. Tale riforma aveva attirato l’interesse più generale nell’operare coi simboli e così Peacock aveva abbozzato una riforma dell’algebra in modo da evidenziarne la sua portata più generale, liberandola da riferimenti a quantità. La sua applicazione alla logica da parte di Boole doveva servire a portare a termine questa operazione culturale e veniva così a tratteggiare un’algebra della logica. Quest’idea era stata adombrata da Jakob Bernoulli nel 1685 e poi parzialmente realizzata da Lambert, Plouquet, Eulero, ma la sua paternità viene regolarmente attribuita a Boole per l’impatto che il suo lavoro, peraltro più articolato, ebbe sui logici seguenti. Boole (The Mathematical Analysis of Logic, Cambridge 1847) a ciascuna classe X associò un operatore x che seleziona da un universo di oggetti (indicato col simbolo 1) quelli che sono x. «xy» seleziona gli y da ciò che x seleziona. (In un secondo tempo, Boole si preoccupò di dare una fondazione psicologica di questi atti.) Per la selezione vale la legge commutativa e il fatto che ripetere una selezione non aggiunge nulla di nuovo (xx = x). (Successivamente, in An Investigation of the Laws of Thought, uscito a Londra nel 1854, egli usò i simboli x, y, z... a indicare direttamente le classi stesse; intese con «classe» anche l’«universo» e «nulla», indicandoli con 1 e 0 rispettivamente.) A differenza di quanto accade nell’algebra numerica, in generale non è qui ammessa un’operazione analoga alla divisione, per evitare conclusioni erronee (p. es., se da xz = yz si concludesse x = y, dal fatto che la classe dei postini celibi sia coestesa alla classe dei postini biondi, si concluderebbe che la classe dei celibi è coestesa alla classe dei biondi), ma si dà una sorta di suo surrogato, l’astrazione: x = yz può essere scritto come x/y = z, intendendo che z denota una classe che si ottiene astraendo, dall’appartenenza come membro alla classe chiamata x, la restrizione dell’essere incluso nella classe chiamata y: es. «classe degli uomini» / «classe degli esseri razionali» = «classe degli animali». Inoltre, «x + y» è definito solo parzialmente, quando x e y non hanno nulla in comune, e «x - y» è definito solo se y è parte di x. Le pro6561

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Logica posizioni sono rappresentate da equazioni: per esempio, «Tutti gli X sono Y» è rappresentata da «x = xy», perché la selezione degli X dagli Y dà X se e solo se tutti gli X sono Y, mentre «Nessun X è Y» è rappresentata da «xy = 0» (dove «0» rappresenta «nulla»). Per introdurre le proposizioni universali affermative (A), particolari affermative (E), universali negative (O) e particolari negative (I) della logica formale tradizionale come equazioni, Boole adottò i simboli indefiniti v e w, per indicare genericamente che esistono membri della classe cui quei simboli si applicano: A x=vy E x=v(1-y) I vx=wy O vx=w(1-y) o anche A x(1-y)=0 E xy=0 I xy=v O x(1-y)=v Il trattamento del sillogismo avviene cercando di esprimere le premesse in una di queste forme, in modo che il termine medio y si trovi, in ciascuna premessa, sui lati opposti di due equazioni; poi si combinano queste per eliminare algebricamente y e si risolve rispetto al termine-soggetto. Cioè le inferenze sono effettuate per sostituzione e rimpiazzamento di termini uguali: così, da «x=xy» e «y=yz» si ottiene: x=x(yz)=(xy)z=xz, cioè il sillogismo AAA di prima figura. Boole notò che il suo sistema non è limitato a un’interpretazione per classi. Se si restringe l’algebra ordinaria al caso in cui i soli possibili valori per x sono 1 e 0, anche la legge xx = x varrà e, dunque, questa sarà un’interpretazione del sistema. Un’altra è in termini di logica proposizionale: posto che 1 e 0 rappresentino rispettivamente il vero e il falso, e x e y proposizioni, xy = 1 significherà la verità della loro congiunzione, x+y = 1 la verità della loro disgiunzione esclusiva, x(1-y) = 0 il fatto che se x è vera, allora anche y è vera. In Boole mancava una teoria delle relazioni: fu l’americano C.S. Peirce a presentare, in vari saggi, in modo assiomatico, un’algebra della logica relazionale (e non-relazionale) combinando l’opera di Boole e quella di De Morgan, per la quale inventò strumenti tecnici particolari (come la forma premessa, in cui tutti i quantificatori precedono il resto della formula in cui compaiono) e suggerì il teorema di Church (non c’è procedura meccanica per determinare la validità di un argomento in cui compaiano relazioni e quantificatori). Jevons (Pure Logic, London 1864) cercò di eliminare dalla teoria di Boole tutti gli aspetti che non 6562

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avevano un chiaro significato: la divisione, le lettere v e w, e ammise la somma anche in caso di classi non disgiunte. J. Venn (Symbolic Logic, London 1881), da un lato tentò di recuperare l’idea originaria di Boole rispetto alle semplificazioni effettuate da Jevons, cercando un significato per la divisione (cioè intendendo x/y come una funzione parziale uno-a-molti di x e y, ossia vedendola come quella classe – e ce n’è più d’una – tale per cui l’intersezione di x/y e y è identica a x: ciò accade solo quando x=xy, ossia quando tutti gli x sono y), dall’altro migliorò i diagrammi – già introdotti nel Settecento da Eulero – e li utilizzò per valutare la verità dei sillogismi categorici. Per motivi di opportunità, scelse di intendere le proposizioni categoriche (tutti gli X sono Y) come «la classe delle cose che sono X e nonY è vuota»: così, i cerchi da lui usati per rappresentare le classi e i loro rapporti di intersezione e inclusione venivano tracciati comunque (a differenza di quanto faceva Eulero, che non tracciava la classe vuota e usava ombreggiare le zone vuote e barrare le zone su cui non si avevano informazioni esistenziali precise). In Germania, la prima metà dell’Ottocento vede imperare l’impostazione hegeliana, che identifica logica con metafisica: la logica ha per oggetto il pensiero e questo si identifica con la realtà. Nel contempo, però, appare la pubblicazione delle lezioni del boemo Bernard Bolzano (Wissenschaftslehre, Sulzbach 1837, 4 voll.). Egli, oltre a una peculiare trasposizione di tutte le proposizioni sotto la forma «A ha B» (per cui «Questo è d’oro» diventava «Questo ha la dorità», «X non è affamato» diventava «X ha mancanza-di-fame» ecc.) propone interessanti innovazioni nel valutare la verità di una proposizione: introduce un concetto molto simile a quello tarskiano di «relazione di conseguenza», espressa come «derivabilità rispetto a una certa classe di termini», dicendo che Q deriva da B se e solo se Q è coerente e ogni modello di B è modello di Q rispetto a quella classe di termini (la differenza tra la sua nozione e quella tarskiana consiste nella clausola di coerenza). In Germania matura anche un’attenzione verso la logica formale con F.A. Trendelenburg e poi W. Windelband (che però criticava le moderne modifiche inglesi, quali la quantificazione del predicato) ed è presente un filone di

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pensiero (cui appartenevano, tra gli altri, W. Wundt e Ch. Sigwart) che fondava la normatività della logica formale sulla psicologia. Nel contempo E. Schröder, sull’onda di Boole, utilizzando gli ulteriori contributi provenienti dalla teoria delle relazioni di Peirce, compì analoga opera di elaborazione di un’«algebra formale» come «preparatoria a studi sui più vari sistemi numerici e operazioni di calcolo che potrebbero essere inventate per scopi particolari», considerando il calcolo logico come modello per l’algebra formale (Vorlesungen über die Algebra der Logik, Leipzig 1890-1905). È stato quindi in ambito matematico, più che filosofico, che è avvenuta la risurrezione della logica formale in Germania e in Gran Bretagna nell’Ottocento. Nel frattempo, lo sviluppo dell’analisi (cioè lo studio del continuo, dei numeri reali) aveva reso opportuna e necessaria la stesura di manuali che ne esponessero didatticamente i risultati e quindi si presentava l’occasione per riflettere sui «punti di partenza» della teoria stessa. Precedentemente, i numeri reali venivano fondati sulla retta, a indicare i singoli punti. Tale procedimento non sembrava più tanto sicuro all’epoca, in quanto le geometrie non-euclidee (che non accettavano il V postulato di Euclide, detto «delle parallele», o perché ammettevano per un punto più parallele a una retta data, o perché negavano l’esistenza di parallele), con la loro stessa presenza, rendevano il riferimento geometrico meno solido. Così vari tentativi furono effettuati per ricondurre i numeri reali ai numeri naturali, tramite definizioni in termini di sezioni di Dedekind o limiti di successioni convergenti, come proposto sia da Cauchy sia da Cantor, che divenne poi famoso come padre della teoria «ingenua», non formalizzata, degli insiemi (Beiträge zur Begründung der transfiniten Mengenlehre, Leipzig 1894-95). Non tutti i matematici, però, ritenevano che i numeri naturali fossero la base più semplice che si potesse trovare per i numeri reali. Il matematico tedesco G. Frege, infatti, pensava che essi potessero essere a loro volta definiti, in termini logici, dalla classe di tutte le classi, utilizzando la relazione di equivalenza «essere in corrispondenza bi-iettiva con» per ottenere l’insieme «partizione». Convinto che l’intera aritmetica potesse essere esprimibile logicamente, cioè senza far uso di assiomi specifici per la disciplina, Frege si impegnò, nell’ambito del programma detto ap-

Logica punto «logicista», a costruire un linguaggio simbolico per evitare che qualsiasi somiglianza col linguaggio quotidiano potesse interferire sull’oggettività della dimostrazione. È la cosiddetta «ideografia» (Begriffsschrift, Halle an der Saale 1879), in cui vengono usati simboli di predicato, di relazione, variabili individuali, costanti individuali, quantificatori, connettivi, e in cui vengono esplicitati assiomi e regole logiche da usare nelle dimostrazioni. Per questo legame originario col problema dei fondamenti della matematica, la logica formale da Frege in poi assume anche il nome di «logica matematica» (e si considerano Boole e Leibniz suoi antenati diretti). Tra gli assiomi (Grundgesetze der Arithmetik, Jena 1893 [vol. I] - 1903 [vol. II]), Frege mise la famosa «V legge» che garantiva la corrispondenza, nei due sensi, fra proprietà ed estensioni, che Russell nel 1902 trovò essere la fonte di una possibile antinomia nel sistema: data la proprietà «essere la classe di tutte le classi che non appartengono a se stesse», la V legge garantisce che essa ha un’estensione e, dunque, che di essa ci si può domandare se appartenga o no a se stessa. Se si appartiene, per come è definita, non si appartiene; se non si appartiene, per come è definita, si appartiene; poiché vale il principio del terzo escluso (e, quindi, o si appartiene o non si appartiene), in entrambi i casi possibili si ottiene una contraddizione, cioè che la classe si appartiene e non si appartiene. Per dissolvere l’antinomia e salvare nel contempo il programma logicista, Russell propose, tra le varie soluzioni, la teoria dei tipi semplici e la teoria dei tipi ramificati, ma anche queste si dimostrarono insoddisfacenti. Tra fine Ottocento e inizio Novecento, un’opera volta a liberare la matematica da ogni riferimento all’intuizione, senza però adesione a istanze formaliste o logiciste, veniva alla luce, da parte del torinese Giuseppe Peano (Formulaire de mathématiques, Torino 1895-1908, 5 voll.). Questi, dopo aver dimostrata l’esistenza di una curva continua che riempie, contrariamente all’intuizione, tutta una superficie piana, si dedicò a riformulare le varie branche della matematica, in modo che ciascuna di esse potesse essere sviluppata in maniera puramente deduttiva, senza riferimenti all’intuizione. Per quanto riguarda l’aritmetica, presentò i suoi famosi cinque assiomi (0 è un numero; il successore di un numero è un numero; due numeri diversi non hanno mai lo stesso successore; 6563

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Logica 0 non è il successore di nessun numero; qualunque classe contenga 0 e che, se contiene n, contiene n+1, include la classe di tutti i numeri) che dovevano definire i numeri naturali. Introdusse una simbologia particolare, della quale l’uso della e per indicare l’appartenenza sopravvive tuttora. A fine Ottocento, un altro tipo di studio della logica formale si affacciava all’orizzonte, a opera del matematico tedesco D. Hilbert. La sua ricerca ebbe avvio dalla fisica teorica, dove egli, anche dietro stimolo del fisico Heinrich Hertz, mise in rilievo come l’introduzione di assiomi ad hoc, strada facendo, per far quadrare man mano i conti con l’esperienza, porti a «sciocchezze». Questo fatto gli fece comprendere il ruolo definitorio della rete degli assiomi: non il singolo assioma definisce, ma l’insieme degli assiomi che vengono dati, e ogni aggiunta di assiomi comporta un riassestamento definitorio. Da qui le caratteristiche dell’assiomatica hilbertiana (che l’autore stesso mise a fuoco progressivamente, anche in seguito a uno scambio di lettere col critico Frege, producendo vari sistemi assiomatici per la geometria euclidea, dal 1899 al 1902): 1) è essenziale elencare una volta per tutti gli assiomi e controllare che siano indipendenti gli uni dagli altri; 2) va controllata la loro coerenza; 3) è possibile che più aspetti della realtà possano esemplificare le relazioni intessute dagli assiomi stessi (pluri-interpretabilità del sistema); 4) «esistenza matematica» significa «coerenza», come «pensabilità»; 5) occorre verificare che il sistema sia completo, cioè che tutti gli asserti veri del sistema (cioè gli asserti veri in tutti i modelli del sistema) siano derivabili dai suoi assiomi. Dopo aver assiomatizzato una teoria, Hilbert si proponeva di formalizzarla, come espediente per snellire la ricerca di non-contraddittorietà: infatti, per una teoria assiomatica formalizzata, verificarne la noncontraddittorietà significa controllare «semplicemente» che 1 ≠ 1 non compaia tra le conseguenze degli assiomi. Questo era il programma di ricerca del primo Hilbert, programma che richiedeva, quindi, l’elaborazione della simbologia più opportuna per formalizzare la matematica, dall’aritmetica all’analisi. Seguì, dunque, un lungo periodo di studi di logica da parte della comunità di Gottinga, dove Hilbert dominava. Il testo principale di studio erano i Principia Mathematica di Russell e Whitehead. Da essi Hilbert importò direttamente gli assio6564

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mi per la logica proposizionale, mentre dalla grande, unica logica in essa contenuta in modo indistinto, Hilbert individuò, già nelle sue conferenze del 1917, la logica del primo ordine (cioè la logica che contiene variabili individuali e quantificazioni su di esse), specificandone in modo preciso la sintassi. Della logica proposizionale, l’allievo di Hilbert, Paul Bernays, dimostrò nel 1918 la completezza. Nel 1921, indipendentemente da lui, l’americano E. Post dimostrò la completezza e pure la decidibilità della logica proposizionale, cioè l’esistenza di un algoritmo per decidere in un numero finito di passi, data una sua formula, se è teorema o no. Kurt Gödel nel 1930 dimostrò la completezza del primo ordine, mentre A. Church nel 1936 fece vedere che l’insieme delle formule valide della logica del primo ordine non è decidibile. Nell’ambito della scuola di Hilbert, E. Zermelo diede nel 1908 la prima assiomatizzazione della teoria degli insiemi di Cantor. Nel frattempo, stimolato dall’intuizionismo di Brouwer, ma assolutamente non disposto ad accettare i tagli che esso imponeva alla matematica laddove si aveva, classicamente, un riferimento all’infinito attuale, Hilbert delineava un nuovo programma di ricerca (Neubegründung der Mathematik, Hamburg 1922). Egli, infatti, concordava con Brouwer sul fatto che la matematica dotata di contenuto sia solo la matematica finitaria, cioè quella che tratta di manipolazioni finite di segni, ma riteneva di poter continuare a utilizzare tutto il resto della matematica (etichettato come «ideale» in senso kantiano), purché essa venisse dimostrata non-contraddittoria a partire dalla matematica finitaria, usando dimostrazioni finitarie. In realtà, va precisato da un lato che la matematica finitaria di Hilbert era perfino più ristretta di quella intuizionista, che ammetteva l’induzione, e dall’altro che, con l’espressione «segno», Hilbert, mentre sembra identificare qualcosa di materiale e visibile, in realtà intende la brouweriana capacità di individuare, di mettere a fuoco unità. Questo secondo programma si rivelò fallimentare, allorché Gödel, coi suoi teoremi di incompletezza sintattica del 1931, mise in luce sia che non è possibile descrivere un sistema assiomatico da cui siano deducibili tutte le verità relative allo stesso (esisterà sempre una formula vera indimostrabile), sia che nessun sistema formale in grado di esprimere l’aritmetica e coerente è in grado di dimostrare la propria coerenza: occorrono

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sistemi più forti; dunque, a maggior ragione, non sarà possibile dimostrare nell’aritmetica finitaria la coerenza del resto della matematica. Nel frattempo, in aggiunta al logicismo e al formalismo-finitismo, una terza corrente fondazionale si era affacciata all’orizzonte: l’intuizionismo del matematico olandese L.E.J. Brouwer (Over de Grondslagen der Wiskunde, Amsterdam 1907). Questi partiva da una Weltanschauung mistica, che gli faceva vedere nel rinchiudimento nell’interiorità l’unica possibilità di felicità per l’uomo. La matematica, per essere giustificata moralmente, doveva essere un’esperienza alinguistica (perché il linguaggio è strumento di persuasione e quindi peccaminoso; e comunque non c’è mai certezza che trasmetta l’esatta comunicazione che si intende passare), non applicativa, e svilupparsi da qualcosa di interiore: l’intuizione del tempo gli sembrò la fonte da cui partire, poiché da essa era possibile astrarre lo schema della duo-unità, cioè della nostra capacità di individuare unità e conservarle nella memoria. La matematica deve svilupparsi da essa per successivi passaggi mentali, che devono andare da evidenze a evidenze. Non ci sono regole di dimostrazione fissate, ma semmai nuove vie che la mente sperimenta per passare da intuizione a intuizione. Per questo motivo, la logica, considerata comunque negativamente da Brouwer per la sua natura intrinsecamente linguistica, deve subire un riassestamento piuttosto forte. Essa diventa la raccolta delle regolarità presenti nelle espressioni del pensiero umano. Quindi, sapere se qualcosa è una legge logica richiede in primis di sapere se quel qualcosa rispecchia un pensiero, cioè una realtà mentale. Perciò ogni termine presente in una legge logica andrà letto come esprimente una realtà di pensiero, cioè un’evidenza. Per la congiunzione e la disgiunzione, ciò avviene in modo naturale, mentre la negazione è più complessa. Brouwer ritiene di aver individuato nel «portare a contraddizione, cioè far vedere che la costruzione ipotizzata non può essere portata a termine» la definizione più opportuna. Così, il principio del terzo escluso viene inteso affermare che «per ogni ente e per ogni proprietà o si ha una costruzione che prova che l’ente gode della proprietà o si porta a contraddizione tale costruzione»; cioè, il principio affermerebbe che ogni problema matematico è risolto. Basta dunque un problema matematico aperto per sospendere la validità

Logica del principio (Brouwer dimostrerà addirittura la contraddittorietà del principio). Sempre per la ridefinizione di negazione, cade il principio ( ¬¬A → A) in quanto «portare a contraddizione il portare a contraddizione una costruzione» non significa «avere effettuato la costruzione», e con esso si vanifica l’ultimo passo della dimostrazione per assurdo, che utilizza tale principio per inferire la tesi dalla dimostrazione della contraddittorietà della sua negazione. Accanto alla ricerca fondazionale, altri temi di riflessioni relativi alla logica formale compaiono nel Novecento. J. Lukasiewicz, il fondatore della scuola polacca di logica, sulla base di considerazioni di carattere etico (se l’uomo può scegliere fra più logiche, la sua libertà viene rispettata; se si elimina la bivalenza, si elimina il determinismo ad essa collegato) e di carattere teorico (incompatibilità fra bivalenza e l’uso di operatori modali), propose nel 1920 il primo sistema formale a più valori di verità. Sempre concentrato sulla semantica, cioè sull’interpretazione dei linguaggi (formali) e dei sistemi logici, è il lavoro pubblicato nel 1935 dal polacco A. Tarski (Die Wahrheitsbegriff in den formalisierten Sprachen), che precisa la nozione di verità per tali linguaggi e apre la strada a quella che egli stesso nel 1954 denominerà «teoria dei modelli», definita come la ricerca dei rapporti fra formule del linguaggio formale e loro interpretazioni, e che vede un primo contributo antesignano nei risultati di Löwenheim e Skolem del 1915-19 («qualunque teoria del primo ordine con identità, se ha un modello infinito ha un modello numerabile»), poi arricchiti da Tarski stesso «verso l’alto» (cioè mostrando che se c’è un modello numerabile, ce ne sono altri di ogni cardinalità maggiore). Di Tarski è il teorema di indefinibilità della verità per teorie formalizzate (non è possibile definire le verità di una teoria nella teoria stessa, ma occorre un metalinguaggio più ricco). Sempre degli anni trenta sono i primi sistemi formali di logica modale: il saggio di Clarence Irving Lewis e Cooper Harold Langford Symbolic Logic (New York 1932) descrive cinque differenti assiomatizzazioni per la logica dell’implicazione stretta, cioè dell’implicazione definita come «impossibile l’antecedente e non il conseguente». Infine, dal teorema di incompletezza di Gödel nacque la teoria della ricorsività, con la preci6565

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Logica sazione della nozione di «computabile» tramite le funzioni ricorsive di Gödel-Herbrand e la macchina di Turing. Per quanto riguarda le scuole fondazionali, agli inizi degli anni trenta la situazione si presenta come segue: il logicismo era in declino inarrestabile a causa delle antinomie scoperte; l’intuizionismo non trovava espansione per i divieti imposti alla matematica; il finitismo di Hilbert veniva vanificato da Gödel. Di fatto, l’intuizionismo comincerà proprio allora a prendere una veste formale a opera di A. Heyting, aprendo la strada a studi di carattere tecnico e metateorico sui sistemi di logica e matematica intuizionisti: Heyting cercò anche di liberare l’intuizionismo dalle valenze mistiche che avevano motivato Brouwer, per mostrarlo come un modo per testare l’estensione della matematica che può essere prodotta utilizzando solo le finite capacità umane. Nel contempo, il matematico olandese G.F.C. Griss (Idealistiche Filosofie, 1946) giungeva all’intuizionismo da una filosofia idealista in cui l’atto originario della coscienza – distinguersi dall’oggetto – approdava da un lato al riconoscimento della responsabilità morale che ciascun uomo ha nei confronti degli altri sulla base proprio di quel nesso originario, e dall’altro all’accettazione della matematica come intrinsecamente legata al soggetto: forniva così all’intuizionismo una Weltanschauung più solare e aperta alla comunicazione. Tuttavia Griss, al di là delle sue proprie intenzioni, contribuì a spegnere la valenza fondazionale dell’intuizionismo, mettendo in luce le difficoltà intrinseche alla definizione brouweriana di negazione (come può partire da un’evidenza, se poi la conduce a una contraddizione?). Heyting in un primo momento ne minimizzò la portata, ma poi, presentando egli stesso una scala discendente dell’evidenza delle nozioni intuizioniste più importanti (dai numeri naturali piccoli alle successioni di libera scelta), minò la credibilità dell’evidenza come unico criterio per l’accettabilità matematica. Da parte formalista, se il programma finitista era stato vanificato da Gödel, il programma originario hilbertiano di dimostrare la noncontraddittorietà delle varie branche della matematica rimaneva un cammino aperto, che fu intrapreso da G. Gentzen, sulle orme di Paul Hertz. Egli sviluppò uno stile dimostrativo diverso da quello di Hilbert, che articolò nei due tipi di calcolo: deduzione naturale e calcolo 6566

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dei sequenti, col secondo dei quali riuscì a dimostrare la non-contraddittorietà della teoria dei numeri del primo ordine, utilizzando l’induzione transfinita. Le riflessioni fondazionali legate alla logica perdono questo nesso e si stabilizzano, dagli anni cinquanta in poi, nella riflessione intorno al platonismo matematico, anche se non manca un filone di ricerca neo-logicista che cerca ancora di ovviare agli inconvenienti cui era andato incontro Frege (rappresentato p. es. da George Boolos). La logica formale (che a buon diritto viene definita anche «logica matematica», non più solo per le problematiche da cui si è originata, ma anche per l’uso che fa di strumenti della matematica) prosegue sviluppando approfondimenti di carattere tecnico e metateorico. Sue diramazioni sono da un lato la teoria della ricorsività, la teoria dei modelli, la teoria degli insiemi, la teoria della dimostrazione, dall’altro le cosiddette «logiche filosofiche». In quest’ultimo ambito rientrano sia gli studi che tendono a sviluppare paradigmi di argomentazione alternativi alla logica classica (intuizionismo, logiche polivalenti, logiche quantistiche, paraconsistenti ecc.), sia gli studi che mirano all’analisi di costrutti logici tipici del linguaggio naturale (logiche intensionali, temporali, epistemiche ecc.). In questa seconda prospettiva, si sta realizzando un’interessante convergenza con le esigenze di settori informatici, che rientrano, p. es., nell’ambito dell’intelligenza artificiale e della rappresentazione della conoscenza. Il rapporto con l’informatica (che riguarda molti altri settori, che vanno dalla programmazione funzionale, alla programmazione logica, ai metodi formali e alla dimostrazione automatica) sta segnando un ulteriore punto di svolta per la logica simbolica, che va così espandendosi ben oltre il pur vivo legame intrecciato con la matematica durante tutto il XX secolo. M. Franchella BIBL.: K. PRANTL, Geschichte der Logik im Abendlande, Leipzig 1855-70; F. ENRIQUES, Per la storia della logica, Bologna 1922 (rist. anast. 1987); H. SCHOLZ, Abriss der Geschichte der Logik, Freiburg-München 1931, tr. it. di E. Melandri, Storia della logica, introduzione e aggiornamento bibliografico di C. Cellucci, RomaBari 1983; J.M. BOCHENSKI, Formale Logik, FreiburgMünchen 1956, tr. it. a cura di A.G. Conte, La logica formale, Torino 1972, 2 voll.; W.C. KNEALE - M. KNEALE, The Development of Logic, Oxford 1962, tr. it. a cu-

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ra e con una premessa di A.G. Conte, Storia della logica, Torino 1972; P.H. NIDDITCH, The Development of Mathematical Logic, London 1962; T. KOTARBINSKI, Leçons sur l’histoire de la logique, Paris 1964; W. RISSE, Die Logik der Neuzeit, Stuttgart - Bad-Cannstatt 1964-70, 2 voll.; N.I. STJAZKIN, From Leibniz to Peano. A Concise History of Mathematical Logic, Cambridge (Massachusetts) 1969, tr. it. a cura di R. Cordeschi, Storia della logica. La formazione delle idee della logica matematica, Roma 1980; R. BLANCHÉ, La logique et son histoire, d’Aristote à Russell, Paris 1970, tr. it. di A. Menzio, La logica e la sua storia da Aristotele a Russell, Roma 1973; A. DUMITRIU, History of Logic, Tunbridge Wells 1977, 4 voll.; C. MANGIONE - S. BOZZI, Storia della logica. Da Boole ai giorni nostri, Milano 1993; M. BORGA - D. PALLADINO, Oltre il mito della crisi. Fondamenti e filosofia della matematica nel XX secolo, Brescia 1997; D. GABBAY - J. WOODS (a cura di), Handbook of the History and Philosophy of Logic, Amsterdam 2004 ss. (sono previsti 10 voll.); I. GRATTAN GUINNESS, The Search for Mathematical Roots 18701940, Princeton (New Jersey) 2004; L. HAAPARANTA (a cura di), The Development of Modern Logic, New York - Oxford 2005. ➨ ALGEBRA, TEMI FILOSOFICI DELLA; ANALISI INFINITESIMALE; ARGOMENTAZIONE; ARISTOTELE LATINO; ARS COMBINATORIA; ASSIOMATICA; COMPUTABILITÀ, TEORIA DELLA; CONTRADDIZIONE, PRINCIPIO DI; GIUSTIFICAZIONE, TEORIA DELLA; IDENTITÀ, PRINCIPIO DI; INDUZIONE; INTUIZIONE; LOGICA CLASSICA; LOGICA DEI PREDICATI CON IDENTITÀ; LOGICA FORMALE; LOGICA INDUTTIVA; LOGICA MINOR; LOGICA PROPOSIZIONALE; LOGICA TRASCENDENTALE; PORT ROYAL, LOGICA DI; PROPOSIZIONI MODALI; RICORSIVITÀ, TEORIA DELLA; SILLOGISMO; SOFISMA DEL MENTITORE; TERMINISMO; TERZO ESCLUSO, PRINCIPIO DEL; UNIVERSALE; UNIVERSALI, PROBLEMA DEGLI.

LOGICA ALETICA (alethic logic; alethische LoLogica aletica gik; logique aléthique; lógica alética). – Il termine «aletico» (dal greco alethés = vero) è sinonimo di «veritativo», e come aggettivo applicato al sostantivo «logica» viene a indicare la ricerca delle condizioni per le quali una proposizione può essere considerata vera. In questo specifico senso, la logica aletica è parte della logica epistemica, intesa questa come studio delle ragioni che possono indurre un soggetto ad attribuire valore di verità a una possibile asserzione. Ovviamente, tutto dipende dalla concezione della verità che si venga previamente ad assumere; di una «logica aletica» si può parlare soltanto intendendo per «verità logica» la corrispondenza tra una determinata asserzione e i dati di conoscenza che il soggetto pos-

Logica aletica siede in un determinato momento riguardo a un determinato oggetto: solo così, infatti, ha senso elaborare un sistema scientifico di regole logiche atte a determinare le condizioni di siffatta corrispondenza. Tali regole, poi, potranno essere formalizzate solo in un ambito secondario e derivato, perché in ambito primario e fondamentale rimandano necessariamente a dati empirici non formalizzabili, riguardanti appunto la situazione cognitiva concreta del soggetto in rapporto all’oggetto. Per questo la logica aletica è detta anche «logica materiale», in quanto la forma astratta delle regole da essa stabilite va applicata alla materia concreta della singola situazione cognitiva concreta. Peraltro, la logica della verità – con la sua metodologia tipica, che consiste nella ricerca della «presupposizione» o «fondamento aletico» di ogni asserzione – non opera sul piano dell’oggetto trascendentale (la verità in senso heideggeriano) ma sul piano del singolo (determinato, «empirico», storico) soggetto della conoscenza; la verità della quale si occupa la logica aletica è una qualità del giudizio, è la sua perfezione naturale, la sua rettitudine, e si identifica con la conoscenza in quanto realizzata: essendo, dunque, la conoscenza l’apprensione di qualche cosa di determinato da parte di un determinato soggetto, la verità del giudizio è da rilevarsi nel concreto rapporto tra un determinato soggetto e un determinato oggetto, nelle concrete circostanze di tempo e di luogo nelle quali si verifica l’incontro, ossia la presenza di quell’oggetto a quel soggetto in un determinato momento, da un certo punto di vista, con un particolare processo di apprensione. Lo sviluppo della logica aletica, grazie soprattutto agli apporti della filosofia analitica e della filosofia del senso comune, ha messo in luce come la logica, in quanto riflessione sul pensiero (intuitivo e discorsivo) tramite il linguaggio, sia collegata alla metafisica per due essenziali presupposizioni: 1) in quanto al sapere che cosa sia la conoscenza, ossia, che tipo di evento o di processo sia ciò che chiamiamo «conoscenza»; 2) e in quanto al determinare che cos’è che si conosce quando si conosce qualcosa, ossia, quale sia il risultato di questo processo, quale sia la modificazione che esso determina nella realtà. Avendo dunque come referente la natura (del processo) della conoscenza e il suo oggetto (il risultato o esito finale 6567

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Logica aletica del processo), la ricerca logica riguarda essenzialmente la verità del pensiero, ossia quella che oggi si chiama appunto «logica dei contenuti» o «logica aletica». In via subordinata, lasciando sempre sullo sfondo questo interesse primario, possono essere oggetto della ricerca logica anche le regole che determinano il modo migliore per conoscere ciò che si desidera conoscere, e questa è propriamente ciò che si può chiamare «logica operativa», come funzione della logica formale o «simbolica». La ragione del primato da attribuire alla logica aletica sta nel fatto che la formalizzazione di cui si avvale la logica formale perde per principio – e poi non può più recuperare – proprio quello che interessa maggiormente alla logica, ossia la materia del discorso, o contenuto del pensiero. Come scrive Ladrière, «il formalismo non può conservare adeguatamente il contenuto dell’intuizione, e per questo il progetto di una formalizzazione totale deve essere considerato assolutamente irrealizzabile. Certamente il linguaggio ordinario, con il quale si esprime l’intuizione, perde talvolta la sua capacità espressiva, e la sua stessa fecondità diviene fonte di ambiguità. Il pensiero matematico ha allora un buon motivo per sospenderne l’uso e per proiettare i significati in esso contenuti in un sistema di espressioni dotati di esistenza autonoma, un sistema separato dalla dinamica viva che anima il linguaggio naturale e costituisce l’essenza della comunicazione. [...] Il linguaggio simbolico possiede appunto questa duplice proprietà: da una parte si presenta come un’esteriorità interamente accessibile alla percezione, dall’altra è capace di rappresentare i processi che si svolgono sul piano del pensiero intuitivo. Esso rende sì possibile un’analisi rigorosa di questi processi, ma tale analisi resta solo indiretta: essa non verte più, infatti, sui contenuti significativi elaborati nell’intuizione ma solo sulla loro rappresentazione formale. [...] Non è quindi possibile fare a meno dei contenuti dell’intuizione. Il formalismo, una volta costituito, ha la sua consistenza, e autorizza tutta una serie di elaborazioni autonome: ma sempre con un carattere provvisorio, perché il suo significato rimane relativo al campo intuitivo dal quale si è reso autonomo. C’è sempre un momento interpretativo del quale non si può fare a meno» (J. Ladrière, Les limitations internes des formalismes, Bruxelles-Paris 1975, pp. 438-440). 6568

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Di conseguenza, per quanto possa essere utile l’approfondimento analitico delle strutture del pensiero e lo sviluppo delle diverse tecniche logico-formali, resta sempre il problema di ricercare in modo sintetico quale sia di volta in volta il valore-verità della singola proposizione, della quale certamente occorre prima rilevare il «senso». Nell’ambito della logica dei contenuti, la semantica (intesa come identificazione del referente del discorso) e la pragmatica (intesa come rilevamento delle premesse razionali implicite nelle azioni umane) contribuiscono alla ricerca propria della logica aletica, ossia all’esigenza di scoprire il valore essenziale del discorso (e del pensiero che dal discorso si deduce), che non può essere che il «valore-verità» (the truth-value). È stato giustamente detto che «se vi è un tema e un problema, che non è semplicemente tale ma è un vero e proprio dorsale del sapere, che attraversa “naturalmente” tutta la storia della cultura, è quello che si dipana nella differenza tra discorso opinabile e discorso veritativo. A prescindere dai differenti ambiti conoscitivi il laboratorio del sapere si trova sempre e inevitabilmente implicato con la veridicità del suo discorso. Il sapere, qualsiasi forma di sapere, è sempre un tentativo di liberarsi dall’opinabile per raggiungere una “posizione” che in qualche modo lo trascenda. È evidentissimo che non vi è atto del pensare, né atto linguistico in quanto tale, che nel suo stesso porsi non ponga la sua veridicità» (E. Morandi, L’ambiente metafisico della sociologia: verità e scienza sociale, in «Acta philosophica», 11, 2002, p. 7). Per ultimo, non è di poca importanza rilevare che la logica aletica – a differenza della logica formale, che privilegia la correttezza delle attribuzioni (predicazioni) e delle inferenze – si occupa principalmente della giustificazione delle evidenze primarie, ossia di quei giudizi di esistenza che costituiscono logicamente le premesse necessarie di ogni possibile processo di conoscenza; in questo senso, la logica aletica coincide sostanzialmente con l’assunto principale della filosofia del senso comune e ne adotta la specifica tecnica dimostrativa, che è quella della «presupposizione». A. Livi BIBL.: E. TUGENDHAT, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, Berlin 1967; M. DUMMETT, The Logical Basis of Metaphysics, Cambridge (Massachusetts) 1991; A. LIVI, Il principio di coerenza. Senso comune e

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logica epistemica, Roma 1997; L. MONTECUCCO (a cura di), Normatività logica e ragionamento di senso comune, Bologna 1998; A. LIVI, Verità del pensiero: fondamenti di logica aletica, Roma 2002; A. LIVI, Philosophie du sens commun. Logique aléthique de la science et de la foi, Paris-Lausanne 2004; A. LIVI, Senso comune e logica aletica, Roma 2005.

LOGICA CLASSICA (classical logic; klassische Logica classica Logik; logique classique; lógica clásica). – Benché in un senso generico possa chiamarsi logica classica la logica tradizionale antico-medievale, in opposizione alla logica moderna, simbolizzata, tuttavia, in senso tecnico, logica classica è la logica che considera soltanto due valori di verità: vero e falso (logica bivalente). Ma sono possibili e oggi molto studiate, perché appaiono più adatte per alcuni campi della scienza, logiche non-classiche. Tali le logiche polivalenti e quelle che rigettano alcune delle regole classiche principali: la logica intuizionistica e la logica della negazione stretta di H.B. Curry, le quali non ammettono la regola della doppia negazione, e la prima anche quella del terzo escluso. Alle logiche non-classiche si possono accostare certe logiche, come quella dell’implicazione stretta di C.I. Lewis, che si fanno rientrare nella logica modale (cfr.: J. Dopp, Notions de logique formelle, Louvain-Paris 1965, pp. 252-255). Red. BIBL.: C.I. LEWIS, Implication and the Algebra of Logic, in «Mind», 21 (1912), pp. 522-531; A. HEYTING, Intuitionism: an Introduction, Amsterdam 1956; H.B. CURRY, Foundations of Mathematical Logic, New York 1963. ➨ LOGICA POLIVALENTE; LOGICA PROPOSIZIONALE; PRINCIPI LOGICI; PROPOSIZIONI MODALI.

LOGICA PREDICATI CON IDENTILogica deiDEI predicati TÀ. – SOMMARIO: I. Premessa. - II. Il linguaggio della logica dei predicati: 1. Proposizioni semplici del primo tipo. - 2. Proposizioni semplici del secondo tipo. - 3. Il linguaggio formale della logica dei predicati. - III. Regole relative ai quantificatori: 1. Quantificatori e connettivi. - IV. Calcoli logici: 1. Calcoli assiomatici. - 2. Calcolo della deduzione naturale. - 3. Sistemi di tableaux. - 4. Calcolo dei sequenti. - V. Semantica della logica dei predicati. - VI. Teoremi della logica dei predicati. - VII. La logica dei predicati con identità. I. PREMESSA. – Nella logica dei predicati con identità si analizzano la gran parte delle infe-

Logica dei predicati renze condotte nel linguaggio naturale o scientifico. In particolare in essa si giustificano quasi tutte le inferenze con le quali si svolgono le dimostrazioni matematiche (e questa è una delle ragioni per cui la logica è abitualmente qualificata come logica matematica). La logica dei predicati si colloca a un livello di analisi più approfondito rispetto alla logica proposizionale. In essa si esplicita la «forma logica» delle proposizioni semplici, che nel linguaggio L0 della logica proposizionale sono indicate con le lettere p, q, r,...; essa è una logica classica in quanto si adotta il principio di bivalenza: si dice proposizione ogni espressione linguistica per la quale ha senso chiedersi se è vera o falsa (a prescindere dal fatto che si sappia quale delle due circostanze si verifica) e ogni proposizione può assumere uno e uno solo dei due valori di verità, il vero (V) o il falso (F). Inoltre, una proposizione si dice semplice se non contiene al suo interno una parte che è a sua volta una proposizione; in caso contrario è detta composta; nella logica proposizionale classica si studiano il comportamento logico delle proposizioni composte mediante i connettivi vero-funzionali (i quali intervengono anche nella formalizzazione delle proposizioni semplici) e le regole corrette di cui le premesse e la conclusione sono forme proposizionali (FP). II. IL LINGUAGGIO DELLA LOGICA DEI PREDICATI. – 1. Proposizioni semplici del primo tipo. – Le proposizioni semplici del primo tipo esprimono il fatto che un certo individuo possiede una determinata proprietà («Socrate è uomo», «Stefano è italiano», «Roma è in Asia») o che tra due individui sussiste una determinata relazione binaria («Michele è più alto di Franco», «Elisa ama Massimo», «Angelo legge la Bibbia»). In altre proposizioni, sempre di questo tipo, la relazione coinvolge più di due individui: «Dario è figlio di Ernesto e di Maria», «Marcello va a Torino con Claudia», «Savona è fra Genova e Imperia», «Stefano, Luca, Marco e Filippo stanno giocando a bridge»). Pertanto, nelle proposizioni semplici del primo tipo interviene o una proprietà («essere uomo», «essere italiano») o una relazione binaria («essere più alto di», «amare») o una relazione ternaria («essere figlio di... e di...», «andare a... con...», «essere fra... e...») o, in generale, una relazione n-aria. In logica si usa il termine predicato per indicare una proprietà o una relazio6569

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Logica dei predicati ne n-aria (con n ≥ 2). Si può quindi enunciare la seguente: Definizione. Nelle proposizioni semplici del primo tipo un predicato a n argomenti viene attribuito a n individui. Per formalizzare le proposizioni semplici del primo tipo si introducono lettere minuscole a1, a2, a3... (spesso, più semplicemente, a, b, c...), dette costanti individuali, per indicare i nomi degli individui e lettere maiuscole con un doppio indice quali R11, R12 ,..., R12 , R22 ,..., R13 ,... (spesso, più semplicemente, P, Q, R...), dette costanti predicative, per indicare le proprietà e le relazioni. L’apice indica il numero di argomenti e l’indice distingue le costanti predicative con lo stesso numero di argomenti. Pertanto, proposizioni come «Socrate è uomo», «Stefano è italiano», «Roma è in Asia», si formalizzano, invertendo l’ordine con cui sono espresse in lingua italiana, con scritture del tipo R11a1 , o R11a2 , o R12a1 (oppure Pa, Pb, Qa,...). Proposizioni come «Michele è più alto di Franco», «Elisa ama Massimo», «Angelo legge la Bibbia» si formalizzano con R12a1a2, o R22a1a2, o R12a1a3 (oppure Rab, Sbc, Pda,...), ossia si indica la relazione binaria con una costante predicativa che si antepone alle due costanti individuali con le quali si indicano i due individui. Analogamente, proposizioni come «Dario è figlio di Ernesto e Maria», «Savona è tra Genova e Imperia» si formalizzano con R13a1a2a3, o R32a2a3a6 (oppure Rabc, o Sbad). In generale le proposizioni semplici del primo tipo si formalizzano scrivendo una costante predicativa seguita da un numero di costanti individuali pari a quello dei suoi argomenti. A volte gli individui non sono menzionati mediante un loro nome proprio, ma attraverso una proprietà che li caratterizza univocamente. Ad esempio, anziché «Socrate» si può dire «Il filosofo greco che bevve la cicuta», «Il maestro di Platone», «Il filosofo greco marito di Santippe». Altri esempi sono «Il presidente della repubblica italiana», «L’autore della Divina Commedia», «Il figlio di Massimo e Elisa». Espressioni linguistiche di questo tipo sono dette descrizioni definite. In logica nomi propri e descrizioni definite sono dette termini. Esempi di proposizioni del primo tipo in cui intervengono descrizioni definite sono «L’auto di Roberto è una Ford», «Il figlio di Vito ha sposato la sorella di Susanna». Per formalizza6570

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re proposizioni di questo tipo si introducono le lettere f 11 , f 12 ,..., f 12 , f 22 ,..., f 13 ,... (spesso più semplicemente: f, g, h,...), dette costanti funzionali, per cui «Il maestro di Platone» si formalizza ad esempio con f 11(a1) , o f 12(a3) (oppure f(a), g(b)) e «Il figlio di Massimo e Elisa» con f 12(a1,a2), o f 23(a3,a1) (oppure f(a,b), h(b,c)), e le proposizioni «Il maestro di Platone bevve la cicuta», «Il figlio di Massimo e Elisa è più alto di Angelo», «Il figlio di Vito ha sposato la sorella di Susanna» si formalizzano rispettivamente ad esempio con R11(f 11(a1)) (oppure P(f(a))), R12(f 12(a1,a2),a3) (oppure: Q(f(a,b),c))), R22(f 11(a1),f 12(a2)) (oppure: R(f(a),g(b))). Una generica costante predicativa si può indicare con R ni e una generica costante funzionale con f ni (dove n=numero degli argomenti e i=1, 2, 3,...). 2. Proposizioni semplici del secondo tipo. – Esempi di proposizioni semplici del secondo tipo sono «Tutti gli uomini sono mortali», «Vi è un italiano buddista». «Ogni studente universitario frequenta almeno un corso». Si tratta sempre di proposizioni (in quanto suscettibili di essere vere o false) semplici (non contengono parti che a loro volta sono proposizioni) nelle quali, a differenza delle proposizioni del primo tipo, figurano espressioni come «tutti», «vi è», «ogni», «almeno un», dette quantificatori. La prima proposizione afferma che tutti gli individui aventi la proprietà di «essere un uomo» hanno anche la proprietà di «essere mortale»; la seconda che esiste almeno un individuo che ha sia la proprietà di «essere italiano», sia la proprietà di «essere buddista». Il nome «quantificatori» deriva dal fatto che sono relativi alla «quantità» di individui che hanno una proprietà o entrano in relazione con altri. Nelle proposizioni del linguaggio comune intervengono molti altri quantificatori, come ad esempio in: «La maggior parte dei nordici ha i capelli biondi», «Vi sono tanti biglietti quanti posti a sedere», «Una parte trascurabile dei cinesi parla l’italiano», «Gran parte degli italiani va in ferie in agosto». Per l’analisi di una significativa quantità di inferenze è sufficiente prendere in considerazione i due soli quantificatori «per ogni» ed «esiste» detti rispettivamente quantificatore universale e quantificatore esistenziale, che si indicano con i simboli ∀ e ∃. La forma logica delle precedenti tre proposizioni è la seguente: «Per ogni x, se x è un uomo, allora x è mortale», «Esiste y tale che y è italiano e y è

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buddista», «Per ogni x, se x è studente universitario, allora esiste y tale che y è un corso universitario e x frequenta y». Si noti che «per ogni x, se x è un uomo, allora x è mortale» rende esplicita la forma logica di varie proposizioni del linguaggio: «Tutti gli uomini sono mortali», «Gli uomini sono mortali», «Ogni uomo è mortale», «Qualunque uomo è mortale», «L’uomo è mortale», «Se qualcuno è uomo, allora è mortale». Analogamente il quantificatore esistenziale interviene nella forma logica delle proposizioni con le quali vogliamo affermare che vi è almeno un individuo che ha una determinata proprietà. Le proposizioni «Esiste un pianeta che ha un anello», «Vi è un pianeta che ha un anello», «Almeno un pianeta ha un anello», «Un pianeta del sistema solare ha un anello» si formalizzano tutte col quantificatore esistenziale: «Esiste x tale che x è pianeta e x ha un anello». Nella forma logica delle proposizioni contenenti quantificatori intervengono lettere, quali x1, x2, x3,... (x, y, z,...) che prendono il nome di variabili individuali (o più semplicemente variabili). Intuitivamente una variabile individuale è una lettera che indica un individuo «generico». Le proposizioni semplici che iniziano con «per ogni» si dicono quantificate universalmente, quelle che iniziano con «esiste» si dicono quantificate esistenzialmente. Le variabili sottoposte all’azione del quantificatore sono dette vincolate (e libere altrimenti). Definizione. Le proposizioni semplici del secondo tipo sono le proposizioni quantificate universalmente ed esistenzialmente. Le proposizioni all’inizio del paragrafo nel linguaggio della logica dei predicati si formalizzano, ad esempio, come segue: ∀x1(R11x1 → R12 x1)(oppure ∀x(Px → Qx)) ( R11 sta per «essere uomo» e R12 per «essere mortale»); ∃x1(R11x1 ∧ R12 x1)(oppure ∃x(Px ∧ Qx)) ( R11 sta per «essere italiano» e R12 per «essere buddista»); ∀x1(R11x1 → ∃x2(R12 x2 ∧ R12 x1x2) (oppure ∀x(Px → ∃y(Qy ∧ Rxy)) ( R11 sta per «essere studente» e R12 per «essere corso universitario» e R12 per la relazione binaria di «frequentare»). Ove possibile useremo la notazione più semplice senza apici e indici. La formalizzazione delle proposizioni semplici del primo e del secondo tipo, che risale all’opera di Gottlob Frege, si basa sulla priorità del giudizio sul concetto. Dalla proposizio-

Logica dei predicati ne «Elisa ama Massimo» si ricavano i tre predicati «x ama Massimo», «Elisa ama y», «x ama y». Mediante questi predicati si possono ottenere nuove proposizioni sia sostituendo le variabili con nomi di individui, sia utilizzando i quantificatori. Usando la costante predicativa R per la relazione di «amare» e le costanti individuali a e b per «Elisa» e «Massimo», «Elisa ama Massimo» si formalizza con Rab. In tal caso: (a) Rxb formalizza la proprietà di «amare Massimo» (la variabile x è libera); (b) Ray formalizza la proprietà di «essere amati da Elisa» (la variabile y è libera); (c) Rxy formalizza la relazione di «amare» (entrambe le variabili x e y sono libere); (d) Rxx formalizza la proprietà di «amare se stessi»). Scriviamo alcune proposizioni e la relativa formalizzazione. «Vi è qualcuno che ama Massimo»: ∃xRxb «Tutti amano Massimo»: ∀xRxb «Tutti sono amati da qualcuno»: ∀y∃xRxy «Vi è qualcuno che ama tutti»: ∃x∀yRxy «Vi è qualcuno che è amato da tutti»: ∃y∀xRxy Le formule che formalizzano proposizioni non contengono variabili libere e sono dette chiuse. Le formule con variabili libere sono dette aperte: una formula con una variabile libera formalizza una proprietà, una con due variabili libere formalizza una relazione a due argomenti e così via. 3. Il linguaggio formale della logica dei predicati. – Il linguaggio formale L1 della logica dei predicati è costituito dall’alfabeto, dall’insieme dei termini e dall’insieme delle formule ben formate. Alfabeto di L1: (1) costanti individuali: a1, a2, a3,...(a, b, c,...) (2) variabili individuali: x1, x2, x3,...(x, y, z,...) (3) costanti predicative: R11 , R12 ,..., R12 , R22 ,..., R13 ...(P, Q,..., R, S,...,) (4) costanti funzionali: f 11,f 12,...,f 12, f 22,...,f 13,... (f, g, h,...) (5) connettivi logici: ¬, ∧, ∨, →, ↔ (6) quantificatori: ∀ e ∃ (7) segni ausiliari: (, ) (parentesi tonda aperta e chiusa) Nel seguito usiamo u, v,... e k, h,... come variabili per indicare rispettivamente variabili e costanti individuali qualsiasi. Insieme dei termini. Usiamo le lettere t, t1, t2,..., tn,... per indicare termini generici. L’insieme dei termini è il minimo insieme che soddisfa le seguenti clausole: (a) le costanti individuali sono termini 6571

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Logica dei predicati (b) le variabili individuali sono termini (c) se t1,..., tn sono termini, f ni (t1,..., tn ) è un termine Intuitivamente, i termini sono le formule di L1 con le quali indichiamo gli individui: se nel termine non compaiono variabili il termine è chiuso e indica un individuo ben preciso; in caso contrario è detto aperto. Insieme delle formule ben formate. Usiamo lettere greche a, b, g,... per indicare formule ben formate qualsiasi (d’ora in poi FBF). L’insieme delle FBF è il minimo insieme che soddisfa le seguenti clausole: (i) se t1,..., tn sono termini, allora R ni t1...tn è una FBF (ii) se a è una FBF, allora ( ¬α) è una FBF (iii)se a e b sono FBF , allora ( α ∧ β), ( α ∨ β ), ( α → β), ( α ↔ β) sono FBF (iv) se a è una FBF e u è una variabile individuale, ( ∀uα) e ( ∃uα) sono FBF (le FBF del tipo R ni t1 ... tn sono dette atomiche) Per scrivere meno parentesi si usano le stesse convenzioni adottate per le FP della logica proposizionale con in più la clausola che i quantificatori legano più strettamente dei connettivi. Le seguenti sono esempi di FBF chiuse (senza variabili libere): Pa, Qb, Rab, ¬Rab , ∃xRax, Rab ∧ ¬Rba , Rba ∨ Rbc, ∃xRax → Rab , ∀xRxb ∧ ¬∃yRby; le seguenti sono esempi di FBF aperte: Px, Rxy, Rxc, Pa ∧ Qx, Rax ∨ Rby, ∀yRxy ( x è l i b e r a ) , ∃xRxy ( y è l i b e r a ) , ∃xRax → Ray (y è libera). Nella FBF ∀xPx → Qx la x di Px è vincolata da ∀ e la x di Qx è libera: in tal caso la FBF è aperta e x è libera; in ∀x ( Px → Qx ) ∀ vincola entrambe le occorrenze di x e la FBF è chiusa. Nel seguito con α(u) indichiamo una FBF che ha u come unica variabile libera e α(t) indica la FBF ottenuta sostituendo le occorrenze libere di u in α(u) con il termine t. III. REGOLE RELATIVE AI QUANTIFICATORI. – Nella logica dei predicati continuano a valere le regole corrette della logica proposizionale: basta che si considerino α, β, γ,... non come FP, ma come FBF chiuse qualsiasi. Illustriamo, basandoci sul significato intuitivo dei quantificatori, quattro regole logiche dette regole di eliminazione e di introduzione del quantificatore universale ed esistenziale, le quali consentono di giustificare le altre regole logiche della logica dei predicati. Regola di eliminazione del quantificatore universale ( E∀): ∀uα(u) α(t) 6572

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La correttezza di questa regola è intuitivamente evidente: se è vero che «per ogni u, α(u)», allora sono veri tutti i suoi casi particolari α(t) ottenuti sostituendo u con un termine qualsiasi. Si consideri l’inferenza: «Tutti i partecipanti alla gara sono maggiorenni. Angelo partecipa alla gara. Quindi Angelo è maggiorenne». Sono presenti due premesse ∀x(Px → Qx) («Tutti i partecipanti alla gara sono maggiorenni») e Pa («Angelo partecipa alla gara») e la conclusione è Qa («Angelo è maggiorenne»). L’inferenza si basa sulla seguente regola: ∀x(Px → Qx) Pa Qa Essa è corretta in quanto dalla prima premessa ∀x(Px → Qx) segue Pa → Qa per la regola di eliminazione del quantificatore universale, e da Pa → Qa e dalla seconda premessa Pa segue Qa per la regola proposizionale del modus ponens. Regola di introduzione del quantificatore universale ( I∀): α(t) ∀uα(u) Questa regola, così come è formulata, non risulta corretta: dalla verità di α(t) non segue la verità di ∀uα(u). Ad esempio, da «Baggio è un calciatore» non possiamo dedurre che «Tutti sono calciatori». Essa va interpretata nel senso che, se si è correttamente dedotto α(t) e non si è usata nessuna ipotesi relativa a t, allora si può dedurre ∀uα(u). Consideriamo come si dimostra la quasi totalità dei teoremi di geometria, ad esempio: «Ogni triangolo isoscele ha gli angoli alla base uguali». Si traccia un triangolo isoscele ABC (con ad esempio AB uguale ad AC) e, dopo una serie di inferenze, si arriva a concludere che l’angolo ABC è uguale all’angolo ACB. In sostanza si dimostra che: se ABC è isoscele, allora ABC ha gli angoli alla base uguali; ossia, ponendo a = «il triangolo ABC», Px = «x è isoscele» e Qx = «x ha gli angoli alla base uguali», in formula: Pa → Qa. Ciò ci autorizza a ritenere dimostrato il teorema: ∀x(Px → Qx) purché nella dimostrazione non si usi alcuna proprietà particolare del triangolo ABC che abbiamo tracciato: in tal caso si può applicare la regola di introduzione del quantificatore universale.

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Regola di introduzione del quantificatore esistenziale ( I∃): α(t) ∃uα(u) La correttezza della regola è evidente: se è vero α(t), ossia che un individuo t gode della proprietà α(u), ne segue che è vero ∃uα(u), ossia esiste un individuo che gode della proprietà α(u). Regola di eliminazione del quantificatore esistenziale ( E∃): ∃uα(u) α(t) Questa regola va applicata con una precisazione, altrimenti così come è formulata, non appare corretta. Ad esempio, dalla proposizione «Esiste un numero pari» non si può dedurre «3 è pari». Essa va intesa nel modo seguente: se si è dedotto correttamente ∃uα(u), allora si può indicare con t l’individuo che si è dimostrato esistere e scrivere α(t), purché su t non si sia in precedenza formulata alcuna ipotesi. 1. Quantificatori e connettivi. – Esaminiamo alcune regole sui rapporti fra i due quantificatori e i connettivi. Quantificatori e negazione. La negazione della proposizione «Tutti i liguri sono genovesi» si può esprimere sia anteponendo «non»: «Non tutti i liguri sono genovesi», sia: «Esistono dei liguri che non sono genovesi». Pertanto: «non per ogni x...» equivale a «esiste x non...»: ¬∀uα(u) e ∃u¬α(u) sono logicamente equivalenti. La negazione della proposizione «Esiste un ligure che è piemontese» si può esprimere sia anteponendo «non»: «Non esiste un ligure che è piemontese», sia: «Ogni ligure non è piemontese». Pertanto: «non esiste x...» equivale a «per ogni x non...»: ¬∃uα(u) e ∀u¬α(u) sono logicamente equivalenti. Spesso anziché «Non esiste un ligure che è piemontese» o «Ogni ligure non è piemontese», si dice: «Nessun ligure è piemontese». Si noti quindi che «nessuno» equivale a «non esiste» e non è la negazione di «ogni» («tutti»): la negazione di «Ogni uomo è razionale» è «Esiste un uomo che non è razionale» e la negazione di «Nessun uomo è razionale» è «Esiste un uomo razionale». Dalle due equivalenze logiche precedenti, negando ambo i membri e applicando la legge della doppia negazione, si ottiene:

Logica dei predicati ∀uα(u) è logicamente equivalente a ¬∃u¬α(u) ∃uα(u) è logicamente equivalente a ¬∀u¬α(u) Quindi «Tutti gli individui hanno la proprietà...» equivale a «Non esiste un individuo che non ha la proprietà...» e «Esiste un individuo che ha la proprietà...» equivale a «Non tutti gli individui non hanno la proprietà...». Quantificatori e congiunzione. Sono evidentemente corrette le seguenti regole:

∀u(α(u) ∧ β(u)) ∀uα(u) ∧ ∀uβ(u) ∀uα(u) ∧ ∀uβ(u) ∀u(α(u) ∧ β(u)) che sanciscono la proprietà distributiva del quantificatore universale rispetto alla congiunzione. Vediamo ad esempio come si può giustificare la prima: premessa (1) ∀u(α(u) ∧ β(u)) (2) α(a) ∧ β(a) [E∀] (1) (3) α(a) [E∧] (2) [I∀] (3) (4) ∀uα(u) (5) β(a) [E∧] (2) (6) ∀uβ(u) [I∀] (5) (7) ∀uα(u) ∧ ∀uβ(u) [I∧] (4),(6) È corretta la regola: ∃u(α(u) ∧ β(u)) ∃uα(u) ∧ ∃uβ(u) in quanto, se vi è un individuo che ha la proprietà α(u) ∧ β(u), vi è evidentemente un individuo che ha la proprietà α(u) e un individuo che ha la proprietà β(u) . Da «Esiste un avvocato ligure» segue sia «Esiste un avvocato», sia «Esiste un ligure» e anche la loro congiunzione «Esiste un avvocato ed esiste un ligure». La regola inversa della precedente, ossia: ∃uα(u) ∧ ∃uβ(u) ∃u(α(u) ∧ β(u)) non è corretta. Dall’esistenza di un individuo che ha una proprietà e di un individuo che ha un’altra proprietà non segue che vi è un individuo con entrambe le proprietà. Ad esempio, sono vere sia «Esiste un avvocato ligure», sia «Esiste un avvocato piemontese», ma non è affatto vero che «Esiste un avvocato ligure e piemontese». Il quantificatore esistenziale non è distributivo rispetto alla congiunzione (o, più precisamente, lo è solo in un verso). Quantificatori e disgiunzione. Sono evidentemente corrette entrambe le regole: ∃u(α(u) ∨ β(u)) ∃uα(u) ∨ ∃uβ(u) ∃uα(u) ∨ ∃uβ(u) ∃u(α(u) ∨ β(u)) 6573

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Logica dei predicati Pertanto il quantificatore esistenziale è distributivo rispetto alla disgiunzione. La regola:

∀uα(u) ∨ ∀uβ(u) ∀u(α(u) ∨ β(u)) è corretta: da «Tutti gli individui hanno una proprietà o tutti gli individui hanno un’altra proprietà», segue «Tutti gli individui hanno l’una o l’altra delle due proprietà». Non è corretta la regola inversa: ∀u(α(u) ∨ β(u)) ∀uα(u) ∨ ∀uβ(u) Infatti, da «Tutti gli individui hanno l’una o l’altra di due proprietà» non segue «Tutti gli individui hanno la prima proprietà o tutti gli individui hanno la seconda proprietà». Ad esempio, è vero che «Tutti i numeri naturali sono pari o dispari», ma non vale né «Tutti i numeri naturali sono pari», né «Tutti i numeri naturali sono dispari», e quindi è falso «Tutti i numeri naturali sono pari o tutti i numeri naturali sono dispari». Pertanto, il quantificatore universale non è distributivo rispetto alla disgiunzione (o, più precisamente, lo è solo in un verso). Quantificatori e condizionale. Sono corrette le seguenti regole: ∀u(α(u) → β(u)) ∃uα(u) → ∃uβ(u) ∀uα(u) → ∀uβ(u) ∃u(α(u) → β(u)) ∃u(α(u) → β) ∀uα(u) → β ∀uα(u) → β ∃u(α(u) → β) ∀u(α(u) → β) ∃uα(u) → β ∃uα(u) → β ∀u(α(u) → β) (nella FBF β la variabile u non occorre libera) mentre non lo sono le seguenti: ∀uα(u) → ∀uβ(u) ∃u(α(u) → β(u)) ∀u(α(u) → β(u)) ∃uα(u) → ∃uβ(u) Quadrilatero aristotelico delle proposizioni. Aristotele analizzò un tipo particolare di inferenze, dette sillogismi, con due premesse e una conclusione, ciascuna delle quali era di uno dei seguenti quattro tipi: (i) Universale affermativa: «Tutti i P sono Q» (∀x(Px → Qx)) (ii) Universale negativa: «Nessun P è Q» (∀x(Px → ¬Qx)) (iii) Particolare affermativa: «Qualche P è Q» (∃x(Px ∧ Qx)) (iv) Particolare negativa: «Qualche P non è Q» (∃x(Px ∧ ¬Qx)) 6574

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I rapporti logici tra le proposizioni che intervengono nei sillogismi si rappresentano mediante il seguente «quadrilatero aristotelico»: contrarie Tutti i P sono Q subalterne

Qualche P è Q

Nessun P è Q contraddittorie subcontrarie

subalterne

Qualche P non è Q

Le proposizioni contraddittorie sono tali che una è vera se e solo se l’altra è falsa (non possono essere né entrambe vere, né entrambe false) e quindi una è logicamente equivalente alla negazione dell’altra. Le proposizioni contrarie non possono essere entrambe vere, ma possono essere entrambe false. Le proposizioni subcontrarie non possono essere entrambe false, ma possono essere entrambe vere. Nella logica aristotelica si assumeva che una proposizione universale affermativa o negativa implicasse la sua subalterna. Ciò vale anche nella logica moderna sotto l’ulteriore ipotesi che esistano dei P (ossia che valga ∃xPx ). IV. CALCOLI LOGICI. – Estendiamo i calcoli logici della logica proposizionale per trattare la logica dei predicati. Si tratta in sostanza di specificare come si trattano le formule quantificate. Negli assiomi e nelle regole relative ai quantificatori compaiono spesso delle clausole che servono a garantire la correttezza del calcolo. I concetti sintattici sono definiti come nella logica proposizionale. 1. Calcoli assiomatici. – Presentiamo due calcoli assiomatici per la logica dei predicati. (I) Nel primo calcolo si assume come base di connettivi { ¬, →} e come unico quantificatore quello universale ∀ (si suppone che il quantificatore esistenziale ∃ sia introdotto mediante la definizione: ∃uα è un’abbreviazione di ¬∀u¬α). Schemi di assiomi: (A1) α → (β → α) (A2)(α → (β → γ)) → ((α → β) → (α → γ)) (A3) (¬α → ¬β) → (β → α) (A 4) ∀uα(u) → α(t) se t è un termine libero per u in α(u), laddove la locuzione «t è libero per u in α(u)» significa che o t è chiuso o, se t è aperto, non contiene variabili che

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risultano vincolate dopo la sostituzione. Ad esempio, in α(x) = ∀yRyx , i termini a, z, f(b), f(x) sono liberi per x in a(x), mentre y, g(y), f(a, y) non lo sono. (A5) ∀u(α → β) → (α → ∀uβ) se u non è libera in a. Regole di inferenza: (R1) Modus ponens (MP): α→β α β (R2) Generalizzazione (Gen): α ∀uα (II) Il secondo esempio di calcolo dei predicati è basato solo su FBF chiuse e si assumono come primitivi entrambi i quantificatori. Schemi di assiomi: (A1) α → (β → α) (A2)(α → (β → γ)) → ((α → β) → (α → γ)) (A3) (¬α → ¬β) → (β → α) (A 4) ∀uα(u) → α(t) (con t termine chiuso) (A5) α(t) → ∃uα(u) (con t termine chiuso) Regole di inferenza: oltre al modus ponens (MP) le due seguenti regole relative ai quantificatori: Regola di introduzione dell’universale nel conseguente ( I∀C): β → α(t) β → ∀uα(u) Regola di introduzione dell’esistenziale nell’antecedente ( I∃A): α(t) → β ∃uα(u) → β entrambe con la clausola: t non deve comparire né in β , né in α(u). Quando si deriva una FBF chiusa da un insieme Γ di FBF chiuse, se si applica ( I∀C) bisogna estendere la clausola nel modo seguente: t non deve comparire né in a, né in alcuna ipotesi di Γ. Analoghe considerazioni valgono per ( I∃A). Esempio: ∀uα(u)  ¬∃u¬α(u) e ¬∃u¬α(u)  ∀uα(u) (1) ∀uα(u) → α(a) (A 4) con a non in α(u) (2) ¬α(a) → ¬∀uα(u) contrapp. a (1) (3) ∃u¬α(a) → ¬∀uα(u) [I∃A] (2) (4) ∀uα(u) → ¬∃u¬α(u) contrapp. a (3) (5) ∀uα(u) premessa (6) ¬∃u¬α(u) [MP](4), (5) (1) ¬α(a) → ∃u¬α(u) (A5) con a non in α(u) contrapp. a (1) (2) ¬∃u¬α(u) → α(a) (3) ¬∃u¬α(u) → ∀uα(u) [I∀C] (2) (4) ¬∃u¬α(u) premessa [MP](3),(4) (5) ∀uα(u)

Logica dei predicati 2. Calcolo della deduzione naturale. – Alle regole della logica proposizionale ([As], [I ∧], [ E ∧], [I ∨], [∨I], [I →], [ E →], [¬k ]) vanno aggiunte le quattro seguenti (il calcolo è limitato a FBF chiuse): Eliminazione del quantificatore universale nel conseguente ( E∀) (a una premessa): Γ ∀uα(u) Γ α(t) (t termine chiuso) Introduzione del quantificatore universale nel conseguente (I∀) (a una premessa): Γ α(t) ∀uα(u) Γ (clausola: t termine chiuso che non compare né in Γ, né in a(u)) Introduzione del quantificatore esistenziale nel conseguente (I∃) (a una premessa): Γ α(t) ∃uα(u) Γ (t termine chiuso) Eliminazione del quantificatore esistenziale nel conseguente ( E∃) (a due premesse): ∃uα(u) Γ β Δ, α(t) β Γ∪Δ (clausola: t termine chiuso che non compare né in D, né in b, né in a(u)) Esempio: ∀uα(u)  ¬∃u¬α(u) e ¬∃u¬α(u)  ∀uα(u) (1) ∀uα(u) ∀uα(u) [As] (2) ∀uα(u) α(u) [E∀] contrapp p. a (2) ¬∀uα(u) (3) ¬α(u) (4) ∃u¬α(u) ∃u¬α(u) [As] (5) ∃u¬α(u) ¬∀uα(u) [E∃](3),(4) (6) ∀uα(u) ¬∃u¬α(u) contrapp. a (5) ¬α(a) (1)¬α(a) [As] ∃u¬α(u) [I∃] (2)¬α(a) contrapp p. a (3) (3)¬∃u¬α(a) α(a) (4)¬∃u¬α(a) ∀uα(a) [I∀] 3. Sistemi di tableaux. – Proponiamo le regole dei quantificatori per il metodo dell’albero semantico e, per semplicità, supponiamo che nel linguaggio non siano presenti simboli di funzione (e quindi i termini siano solo le costanti e le variabili individuali). Le regole del primo e del secondo tipo relative alla logica proposizionale vanno integrate con le seguenti: Regole del terzo tipo: V[∀uα(u)] F[∃uα(u)] | | F[α(k)] V[α(k)] 6575

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Logica dei predicati Quando si esamina un nodo del tipo V[∀uα(u)] (o F[∃uα(u)]) si prolungano tutti i rami aperti che passano per quel nodo con i nodi V[α(k)] (o F[α(k)]) per tutte le costanti individuali k che figurano in ciascun ramo. Va inoltre aggiunta la clausola seguente: quando nel ramo non figura alcuna costante, la regola va applicata aggiungendo il nodo V[α(k)] (o F[α(k)]), dove k è una costante introdotta d’ufficio. Per le ragioni che illustreremo fra breve, i nodi del terzo tipo non vanno asteriscati (può capitare che il nodo vada nuovamente esaminato, anche più volte). Regole del quarto tipo: F[∀uα(u)]* V[∃uα(u)]* | | V[α(h)] V[α(h)] Quando si esamina un nodo del tipo F[∀uα(u)] (o V[∃uα(u)]) si prolungano tutti i rami aperti che passano per quel nodo con un nodo F[α(h)] (o V[α(h)]), dove h è una costante individuale nuova che non figura in ciascun ramo e si asterisca il nodo. Per illustrare il significato delle regole occorre ricordare che il metodo dell’albero semantico codifica in modo rigoroso la ricerca del controesempio: si assume che sia falsa la FBF chiusa a di cui si vuole provare la validità (oppure si assume che sia falsa la FBF chiusa a che si vuole provare essere conseguenza logica delle FBF b1, b2,..., bn e vere queste ultime) e se ne sviluppano le conseguenze in modo da stabilire se tale assunzione si può realizzare (le nozioni semantiche saranno esposte nel prossimo punto). Per fare ciò si cerca di costruirne un modello, ossia un dominio e una interpretazione che rendono falsa a (oppure falsa a e vere b1, b2,..., bn). Se l’albero si chiude, allora l’assunzione non si può realizzare e quindi a è valida (oppure conseguenza logica di b1, b2,..., bn). Nel caso proposizionale il «modello» si riduce a una assegnazione di valori di verità alle lettere proposizionali che compaiono nelle FP: il chiudersi dell’albero garantisce che nessuna assegnazione di valori di verità alle lettere proposizionali rende falsa a (oppure rende falsa a e vere b1, b2,..., bn). Nel caso predicativo la situazione è più complessa in quanto un «modello» è costituito da un insieme non vuoto D di individui e da una interpretazione ℑ delle costanti individuali e predicative che compaiono nelle FBF da esaminare. L’idea alla base delle regole precedenti è quella di costruire un’interpretazione in un dominio D 6576

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i cui individui coincidono con le costanti individuali del linguaggio che compaiono nello sviluppo di ciascun ramo dell’albero (le costanti individuali, quindi, vengono a svolgere il duplice ruolo di «nomi» di individui – quando intervengono nelle FBF – e di individui del dominio su cui si interpreta il linguaggio). Per quanto riguarda la prima delle regole del terzo tipo, si ricordi che, in generale, una FBF del tipo ∀uα(u) è vera in un dominio D quando tutti gli individui di D soddisfano a(u). Quindi, se ∀uα(u) è vera, allora sono vere tutte le FBF a(k) per tutte le costanti k che figurano nel ramo (che coincidono appunto con gli individui di D). Analogo discorso vale nel caso di F[∃uα(u)]. I nodi di questi due tipi non vanno asteriscati, in quanto, se è vero ∀uα(u) (falso ∃uα(u)), e nel ramo sono introdotte nuove costanti h, anche per esse dovrà essere vera a(h) (falsa a(h)). I nodi devono quindi essere riesaminati ogni volta che si introduce una nuova costante. Per quanto riguarda le regole del quarto tipo, affinché sia soddisfatto un nodo quale F[∀uα(u)], bisogna che vi sia almeno un individuo in D che non soddisfa a(u), ossia deve esserci una costante h per cui vale F[α(h)]. Analogamente, nel caso di un nodo quale V[∃uα(u)], vi deve essere una costante h che soddisfa V[α(h)]. A differenza di quanto avviene applicando le regole del terzo tipo, il nodo si asterisca (e non è più necessario riesaminarlo). Bisogna però avere l’avvertenza di soddisfarlo con una costante nuova in quanto quelle già presenti nel ramo, godendo già di determinate proprietà, potrebbero non essere adatte per soddisfare il nodo F[∀uα(u)] o V[∃uα(u)]. Esempio: ∀uα(u)  ¬∃u¬α(u) e ¬∃u¬α(u)  ∀uα(u) I due alberi sono: V[¬∃u¬α(u)]* V[∀uα(u)] | | F[¬∃u¬α(u)]* F[∀uα(u)]* | | V[∃u¬α(u)]* F[∃u¬α(u)] | | F[α(a)] V[¬α(a)]* | | F[¬α(a)]* F[α(a)] | | V[α(a)] V[α(a)] ========= ========= Poiché i due alberi si chiudono si è stabilito il risultato derivabilità col metodo dell’albero semantico.

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Esempio. Verificare che è corretta la regola: ∃u(α(u) → β) ∀uα(u) → β ossia che ∃u(α(u) → β)  ∀uα(u) → β Infatti l’albero si chiude:

Esempio. Verificare se è corretta la regola: ∃u(α(u) → β(u)) ∃uα(u) → ∃uβ(u) Vediamo se, ad esempio, ∃x(Px → Qx)  ∃xPx → ∃xQx . Si ha:

Il ramo di sinistra è rimasto aperto. Non sussiste il nesso di derivabilità e, quindi, la regola non è corretta. Nel dominio D={a,b} e nell’interpretazione ℑ tale che ℑ(a) = a, ℑ(b) = b ,

Logica dei predicati ℑ(P) = {b}, ℑ(Q) = ∅ , è vera ∃x(Px → Qx) ed è falsa ∃xPx → ∃xQx. 4. Calcolo dei sequenti. – Il calcolo dei sequenti della logica proposizionale va integrato con le seguenti quattro regole: Introduzione del quantificatore universale nei conseguenti ( ∀C) (a una premessa): Γ ⊃ Δ, α(t) Γ ⊃ Δ, ∀uα(u) (clausola: t non deve comparire nel sequente risultante) Introduzione del quantificatore universale negli antecedenti ( ∀A ) (a una premessa): Γ, α(t) ⊃ Δ Γ, ∀uα(u) ⊃ Δ Introduzione del quantificatore esistenziale nei conseguenti ( ∃C) (a una premessa): Γ ⊃ Δ, α(t) Γ ⊃ Δ, ∃uα(u) Introduzione del quantificatore esistenziale negli antecedenti ( ∃A ) (a una premessa): Γ, α(t) ⊃ Δ Γ, ∃uα(u) ⊃ Δ (clausola: t non deve comparire nel sequente risultante). Esempio:  ∀uα(u) ⊃ ¬∃u¬α(u) α(a) ⊃ α(a)[Ax] ⎯⎯⎯⎯⎯⎯ [¬A ] ¬α(a), α(a) ⊃ ⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯ [∃A] ∃u¬α(a), α(a) ⊃ ⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯ [∀A] ∃u¬α(a), ∀uα(a) ⊃ ⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯ [¬C] ∀uα(u) ⊃ ¬∃u¬α(u)  ¬∃u¬α(u) ⊃ ∀uα(u) α(a) ⊃ α(a)[Ax] ⎯⎯⎯⎯⎯⎯ [¬C] ⊃ α(a), ¬α(a) ⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯ [∃C] ⊃ α(a), ∃u¬α(a) ⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯ [∀C] ⊃ ∀uα(a), ∃u¬α(a) ⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯⎯ [¬A] ¬∃u¬α(u) ⊃ ∀uα(u) V. SEMANTICA DELLA LOGICA DEI PREDICATI. – Nella semantica della logica dei predicati si determina dapprima come associare un valore di verità alle FBF. Si definiscono poi i concetti di 6577

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Logica dei predicati valida (che è il corrispettivo della nozione di tautologia per le FP) e la relazione di conseguenza logica. Dapprima consideriamo solo FBF chiuse (le quali formalizzano le proposizioni del linguaggio naturale). Quando si parla di verità di formule si considera sempre una verità «relativa» a un dato dominio. Per attribuire un valore di verità alle FBF chiuse del calcolo dei predicati si introduce un insieme non vuoto D, detto dominio, e si interpretano in D le costanti individuali, predicative e funzionali. Detta ℑ la funzione interpretazione, essa associa: (1) a ciascuna costante individuale k un elemento di D: ℑ(k) ∈ D. (2) A ciascuna costante predicativa R ni un predicato a n argomenti in D, ossia: se la costante predicativa è a un argomento ( R1i), ℑ le associa una proprietà in D (un predicato a un argomento), ossia un sottoinsieme di D: ℑ(R1i ) ⊂ D; se la costante predicativa è a due argomenti ( R2i ), ℑ le associa una relazione binaria in D (un predicato a due argomenti), ossia un sottoinsieme del prodotto cartesiano D ×D ( D2): ℑ(R2i ) ⊂ D2; in generale, se la costante predicativa è a n argomenti ( R ni ), ℑ le associa una relazione n-aria in D (un predicato a n argomenti), ossia un sottoinsieme del prodotto cartesiano Dn (cioè l’insieme di tutte le n-ple di elementi di D): ℑ(R ni ) ⊂ Dn. L’interpretazione, in sintesi, associa a una costante predicativa a n argomenti un predicato in D: in logica classica si adotta una definizione estensionale dei predicati, ossia si identificano le proprietà in D con i sottoinsiemi di D (in D={x: x è italiano}, la proprietà «essere ligure» si identifica col sottoinsieme L di D, L={x: x è ligure}), le relazioni con insiemi di coppie di elementi di D (ossia sottoinsiemi di D2) e così via. (3) A ciascuna costante funzionale f ni una funFBF

zione: ℑ( f ni ): Dn → D. In tal modo risulta ℑ(f ni (t1,...,tn ))=ℑ(f in )(ℑ(t1),...,ℑ(tn )) e ℑ associa a ogni termine chiuso un elemento D. Fissata la coppia (D, ℑ), a ciascuna FBF chiusa resta associato uno e un solo valore di verità (V o F). Se (D, ℑ) rende vera una FBF chiusa a, si dice che (D, ℑ) è modello di a e si scrive (D, ℑ) a. La definizione di (D, ℑ ) a è di tipo induttivo ed estende quella relativa al calcolo proposizionale. Si definisce il concetto per le 6578

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA FBF atomiche (base), poi per le FBF che sono negazioni, condizionali (per gli altri connettivi si procede in modo analogo), quantificate universalmente o esistenzialmente (passo), supposto che il concetto sia definito per le FBF a cui si applicano le costanti logiche. (a) a atomica: a= R ni t1...tn (D, ℑ)  R ni t1...tn se e solo se la n-pla di elementi di D associata da ℑ a t1,..., tn gode del predicato associato da ℑ a R ni : (D, ℑ)  R ni t1...tn se e solo se (ℑ(t1),...,ℑ(tn )) ∈ ℑ(R in ). (b) a negazione: a= ¬β (D, ℑ)  ¬β se e solo se non (D, ℑ)  a ((D, ℑ)  a). (c) a condizionale: a= β → γ (D, ℑ)  β → γ se e solo se (D, ℑ)  b oppure (D, ℑ)  g. (d) a universalmente quantificata: a= ∀uβ(u) Intuitivamente (D, ℑ)  ∀uβ(u) se e solo se tutti gli individui di D hanno la proprietà su cui ℑ interpreta b(u). Dato che b(u) è una FBF aperta, per rispettare la definizione induttiva si sostituisce u con una costante k che non compare in b(u) e si introduce la nozione di k-reinterpretazione ℑk di ℑ: ℑk coincide con ℑ salvo per il modo di interpretare k: (D, ℑ)  ∀uβ(u) se e solo se, per ogni ℑk, (D, ℑk )  b(k) . Con analoghe considerazioni si perviene a: (e) a esistenzialmente quantificata: a= ∃uβ(u) (D, ℑ)  ∃uβ(u) se e solo se esiste ℑk tale che (D, ℑk)  b(k). Strutture. Data una interpretazione ℑ su un dominio D, se indichiamo con c ℑ, R ℑ e fℑ gli elementi, i predicati e le funzioni associati da ℑ alle costanti individuali, predicative e funzionali, l’interpretazione determina in D una struttura < D, c ℑ, R ℑ, fℑ > analoga a quelle dell’algebra. Una struttura algebrica, infatti, è costituita da un insieme A, da elementi particolari di A e da predicati e funzioni definiti in A che soddisfano determinate proprietà. Ad esempio, un gruppo è una struttura in cui G è un insieme, f la legge di composizione del gruppo, e l’elemento neutro e i la funzione che associa a ciascun elemento il suo inverso, e che soddisfa gli assiomi di gruppo (associatività della legge di composizione, esistenza dell’elemento neutro e esistenza dell’inverso di ogni elemento). Per studiare i gruppi appare quindi naturale introdurre un linguaggio for-

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male L definito induttivamente come il linguaggio della logica dei predicati, ma avente come alfabeto soltanto una costante funzionale a due argomenti, una costante individuale e una costante funzionale a un argomento. In tal modo in L si possono formalizzare gli assiomi di gruppo, e un gruppo è una struttura che è modello di tali assiomi. In altri termini, un’interpretazione determina una struttura in D e, viceversa, data una struttura, si può individuare un linguaggio formale L che si può interpretare nell’insieme che fa da sostegno alla struttura associando alle costanti individuali, predicative e funzionali gli elementi, i predicati e le funzioni della struttura. Così, ad esempio, per studiare la struttura < , 0, s, +,× >, dove  è l’insieme dei numeri naturali, 0 lo zero, s la funzione successiva e + e × l’addizione e la moltiplicazione, si introduce un linguaggio formale con una costante individuale, una costante funzionale a un argomento e due costanti funzionali a due argomenti. Assegnazioni. La definizione precedente di (D, ℑ)  a è limitata a FBF chiuse. Ad esempio, (D, ℑ) non attribuisce valore di verità alla FBF R11x1 (che in realtà formalizza una proprietà). In un’altra impostazione (adatta ai calcoli quale il precedente calcolo assiomatico (I)) si trattano anche le FBF aperte. Si definisce prima la nozione (D, ℑ, f )  α ((D, ℑ, f ) soddisfa a) dove a è una FBF qualsiasi e f è una funzione, detta assegnazione, che associa a ciascuna variabile individuale un elemento di D. Senza entrare in particolari tecnici, l’assegnazione consente di trattare le variabili come le costanti individuali e quindi di attribuire un valore di verità anche alle FBF aperte. Ad esempio, (D, ℑ, f )  R11x1 se e s o l o s e f (x1) ∈ ℑ(R11). L a d e f i n i z i o n e d i (D, ℑ, f )  α è di tipo induttivo e si applica a FBF qualsiasi. Si definisce poi (D, ℑ)  a se e solo se, per ogni f, (D, ℑ, f )  α. Questa impostazione ha il vantaggio di essere più generale e più aderente alla definizione induttiva delle FBF (che possono essere sia aperte che chiuse), ma è tecnicamente più complessa e consente di dichiarare vere FBF con variabili libere le quali non formalizzano proposizioni. Ad esempio, la FBF R11x1 → R11x1 è vera per ogni assegnazione, e inoltre è valida (vera per ogni (D, ℑ)). Nella prima impostazione non si assegna ad essa alcun valore di verità: si può comunque verificare la validità della sua chiusura universale, ossia della FBF chiusa ∀x1(R11x1 → R11x1)

Logica dei predicati (nei calcoli logici in cui si trattano anche FBF aperte quelle che si derivano sono tali che è valida la loro chiusura universale). I concetti semantici si definiscono in modo analogo al caso proposizionale. Ad esempio: a è valida (  α) se e solo se, per ogni (D, ℑ), (D, ℑ)  a. a e b sono logicamente equivalenti se e solo se, per ogni (D, ℑ), (D, ℑ)  α ↔ β. Posto (D, ℑ) G se e solo se (D, ℑ)  b per ogni β∈ Γ , si dice che a è conseguenza logica di G ( Γ  α) se e solo se, per ogni (D, ℑ), se (D, ℑ)  G, allora (D, ℑ)  a (se (D, ℑ) è modello di G, allora è modello di a). Una regola è corretta se e solo se la conclusione segue logicamente dalle premesse. a è soddisfacibile (Sod a) se e solo se esiste (D, ℑ) tale che (D, ℑ)  a. VI. TEOREMI DELLA LOGICA DEI PREDICATI. – Una differenza sostanziale tra la logica delle proposizioni e quella dei predicati è espressa dal seguente. Teorema di Church: non esiste alcun algoritmo che consenta di stabilire per ogni FBF chiusa della logica dei predicati se essa è o non è valida. In altri termini, per stabilire se una FP è o non è una tautologia esistono dei procedimenti meccanici che ci danno la risposta in un numero finito di passi, ad esempio la compilazione della tavola di verità o lo sviluppo dell’albero semantico; per le FBF non esiste alcun analogo procedimento. Ad esempio, il metodo dell’albero semantico non è un algoritmo poiché vi sono alberi che vanno all’infinito: ciò è conseguenza della presenza dei nodi di terzo tipo che non vanno asteriscati e possono essere riesaminati un numero anche infinito di volte. Ciò comporta che, sviluppando un albero per F[α], per vedere se a è valida si possono verificare tre casi: (a) l’albero si chiude (e allora a è valida); (b) l’albero termina senza chiudersi (e allora a non è valida); (c) l’albero va avanti all’infinito (e allora a non è valida). A un certo stadio della costruzione, tuttavia, non siamo in grado di poter stabilire se l’albero si chiuderà a qualche stadio successivo (se a è valida) o se terminerà senza chiudersi o andrà avanti all’infinito (se a non è valida). Correttezza, completezza, compattezza e alcuni importanti risultati relativi alle teorie formalizzate. I teoremi di correttezza e completezza deboli e forti valgono per tutti i calcoli logici preceden6579

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Logica dei predicati temente esposti (G insieme di FBF chiuse, a FBF chiusa), come pure i teoremi di coerenza, di esistenza del modello e di compattezza. Teorema di correttezza debole: se  α, allora  α Teorema di correttezza forte: se Γ  α, allora Γ  α Teorema di completezza debole: se  α, allora  α Teorema di completezza forte: se Γ  α, allora Γ  α Teorema di coerenza: se Sod a, allora Nctr a Teorema di esistenza del modello: se Nctr a, allora Sod a Il teorema di esistenza del modello è equivalente al teorema di completezza forte e, per dimostrare quest’ultimo, in genere si dimostra (con un procedimento dovuto a Henkin) il teorema di esistenza del modello. Dato un insieme non contraddittorio di FBF chiuse G, lo si estende a un insieme D non contraddittorio massimale (tale che l’aggiunta di una FBF che non gli appartiene lo rende contraddittorio) mediante un procedimento induttivo dovuto a Lindenbaum. Si definiscono poi un dominio D e una interpretazione ℑ che rendono vere tutte le FBF di D: (D, ℑ) soddisfa anche G che è un sottoinsieme di D. L’interesse di questo modo di pervenire al teorema di completezza sta nel fatto che il dominio D è costituito con i termini chiusi del linguaggio della logica dei predicati limitato alle costanti individuali e funzionali presenti in G (ossia del linguaggio di G). Dato che tale dominio è numerabile, si perviene al seguente. Teorema di Löwenheim - Skolem: ogni insieme soddisfacibile G è soddisfacibile in un dominio numerabile. Un’importante conseguenza di questo teorema è la non categoricità delle teorie G soddisfacibili in un dominio più che numerabile, quali ad esempio le teorie formali per l’analisi matematica o la geometria euclidea. Poiché l’insieme dei numeri reali o il piano euclideo sono insiemi più che numerabili, tali teorie sono soddisfatte in un insieme più che numerabile. Per il teorema precedente esse sono soddisfatte anche in un insieme numerabile, quale l’insieme dei numeri naturali. Ricordiamo che si dice categorica una teoria G i cui modelli sono isomorfi fra loro, ossia esiste una corrispondenza biunivoca tra i domini che conserva la struttura associata al dominio dalle inter6580

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pretazioni (come si è detto, una interpretazione in un dominio D associa alle costanti individuali, funzionali e predicative che compaiono in G, individui, funzioni e predicati che formano una struttura algebrica: se una teoria è categorica tali strutture algebriche sono isomorfe tra loro). Una teoria che ammette modelli con domini di cardinalità diversa non è categorica, in quanto tra i domini non esiste alcuna corrispondenza biunivoca e, quindi, a maggior ragione, alcun isomorfismo. Anche nella logica dei predicati vale il Teorema di compattezza: se Γ  α, allora esiste un sottoinsieme finito D di G tale che Δ  α, o, equivalentemente, se ogni sottoinsieme finito D di G è soddisfacibile, allora G è soddisfacibile. Un’importante conseguenza del teorema di compattezza è il teorema di non categoricità dell’aritmetica formalizzata al primo ordine. Sia  l’insieme dei numeri naturali (modello standard) con la sua struttura e G un qualsiasi insieme di FBF chiuse vere in  (e quindi   Γ). Vale il seguente Teorema di Skolem: G non è categorica. Infatti, consideriamo il seguente insieme D di FBF aritmetiche, dove ≠ è il segno della non identità, 0, 1, 2,... sono le costanti individuali per i numeri naturali e c una nuova costante individuale: Δ = Γ ∪ {c ≠ 0, c ≠ 1, c ≠ 2,...} Ogni sottoinsieme finito F di D è soddisfacibile poiché   Φ. Pertanto, per il teorema di compattezza, anche D è soddisfacibile. Tuttavia  non è modello di D poiché nei numeri naturali non esiste alcun numero su cui interpretare c in modo da rendere vere le FBF della lista in parentesi graffa. Un modello di D deve contenere un individuo k diverso (e maggiore) di tutti i numeri naturali standard, e quindi è un numero non standard infinito rispetto ad essi. Tale modello di D (che è modello anche di G), contenendo numeri non standard, non è isomorfo a  ed è detto un modello non standard dell’aritmetica; pertanto G non è categorica. Ciò significa, data la genericità di G, che qualsiasi insieme di FBF della logica dei predicati non è in grado di caratterizzare la struttura di . Con considerazioni di questo genere si dimostra che esistono modelli non standard dell’analisi in cui, accanto ai numeri reali standard, sono presenti numeri reali infinitesimi e infiniti.

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Accenniamo ora a due dei più importanti risultati della logica matematica. Sia AxG l’insieme degli assiomi di una teoria formale G del primo ordine per l’aritmetica (e quindi Γ  α se e solo se AxΓ  α). Supponiamo che tale teoria sia assiomatizzata (ossia che sia decidibile se una FBF chiusa qualsiasi del linguaggio di G è o non è un elemento di AxG), coerente (NctrG: ossia Γ  α ∧ ¬α) e sufficientemente potente (ossia in essa siano formalizzate almeno l’addizione e la moltiplicazione). Vale il seguente Primo teorema di incompletezza di Gödel: G è sintatticamente incompleta, esiste cioè una FBF chiusa g tale che Γ  γ e Γ  ¬γ. La conseguenza più importante dell’incompletezza sintattica è che, dato che   γ, vi è una FBF vera in  non dimostrabile da G, ossia G è semanticamente incompleta rispetto al modello standard. Data la genericità di G, il teorema sancisce che vi è una frattura ineliminabile tra la dimostrabilità in un sistema formale e la verità in  . L’esistenza di modelli non standard dell’aritmetica segue anche dal primo teorema di incompletezza di Gödel: da Γ  γ, per il teorema di completezza forte segue Γ  γ, ossia esiste (D, ℑ) tale che (D, ℑ)  γ e (D, ℑ)  γ. Dato che   γ, (D, ℑ) è un modello non standard dell’aritmetica non isomorfo a . In teorie come G è possibile esprimere mediante una FBF chiusa CoerG la coerenza di G. Vale il seguente Secondo teorema di incompletezza di Gödel: Γ CoerG. Teorie come G non possono dimostrare la loro coerenza. Questo risultato ha messo fine al celebre programma di Hilbert, che si proponeva di dimostrare la coerenza delle teorie matematiche con semplici strumenti formalizzabili all’interno delle teorie stesse. Il secondo teorema di Gödel sancisce che ciò non è possibile nemmeno per la più semplice delle teorie matematiche, ossia l’aritmetica. VII. LA LOGICA DEI PREDICATI CON IDENTITÀ. – Per estendere il potere espressivo della logica dei predicati si può ampliare l’alfabeto di L1 col simbolo di predicato a due argomenti = con cui si formalizza l’identità, la relazione binaria che ogni individuo ha unicamente con se stesso. Proposizioni quali «Michelangelo Merisi è il Caravaggio», «Topolino è Mickey Mouse» affermano che si è in presenza di due nomi per lo stesso individuo e si formalizzano mediante «=».

Logica dei predicati La definizione delle FBF viene arricchita con la seguente clausola: (i’) se t1 e t2 sono termini, allora t1=t2 è una FBF atomica. La definizione di verità di una FBF chiusa va integrata con la seguente clausola: una interpretazione ℑ su un dominio D è modello di t1=t2 se e solo se t1 e t2 sono interpretati sullo stesso elemento di D: (D, ℑ)  t1 = t2 se e solo se ℑ(t1) = ℑ(t2) L’apparato deduttivo dei calcoli logici assiomatici viene integrato con i seguenti assiomi (che sono FBF valide): (I1) (proprietà riflessiva) ∀x(x = x) (I2) (proprietà simmetrica) ∀x∀y(x = y → y = x) (I3) (proprietà transitiva) ∀x∀y∀z(x = y ∧ y = z → x = z) (I4) per ogni costante funzionale R ni : ∀x1...∀x n∀y1...∀yn (x1 = y1 ∧ ... ∧ x n = yn → → (R ni x1...x n ↔ R ni y1...yn )) (I5) per ogni costante funzionale f ni :

∀x1...∀x n∀y1...∀yn (x1 = y1 ∧ ... ∧ x n = yn → → ( fin (x1...x n ) = fin (y1....yn ))) Assumendo questi assiomi si deriva il principio di indiscernibilità degli identici:  ∀x∀y(x = y → (α(x) ↔ α(y)) (due individui identici condividono tutte le proprietà). Alternativamente, si può assumere l’assioma (I1) e come unico altro assioma il principio di indiscernibilità degli identici. Negli altri calcoli (della deduzione naturale, degli alberi semantici, dei sequenti) si assumono nuove regole per trattare l’identità che corrispondono agli assiomi precedenti. Ad esempio, per ottenere il calcolo della deduzione naturale con identità si aggiungono le seguenti regole: (I=) (a zero premesse): si può scrivere la sequenza costituita dall’unica FBF ∀x(x = x). (E=) (a due premesse): Γ t1 = t2 Γ t2 = t1 α(t1) Δ α(t1) Δ α(t1 t2) Γ∪Δ α(t1 t2) Γ∪Δ (con a(t1) si indica una FBF contenente il termine chiuso t1 e con α(t1 t2) la FBF ottenuta da a(t1) sostituendo una o più occorrenze di t1 con t2). 6581

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Logica dei predicati Anche per i calcoli della logica dei predicati con identità valgono i teoremi di correttezza e completezza deboli e forti. La negazione di t1=t2 si scrive t1 ≠ t2. La relazione ≠ è irriflessiva ( ∀x¬(x ≠ x)), simmetrica (se a ≠ b , allora b ≠ a ) e non è transitiva ( a ≠ b e b ≠ c non implica a ≠ c). Avendo a disposizione l’identità si possono scrivere FBF chiuse soddisfacibili solo in domini finiti con un prefissato numero di elementi. Ad esempio, la FBF ∃x∃y(x ≠ y ∧ ∀z(z = x ∨ z = y)) è soddisfacibile solo in un dominio contenente esattamente due elementi e la FBF ∀x∀y∀z∀u(u = x ∨ u = y ∨ u = z) è soddisfacibile solo in un dominio con meno di quattro elementi. Le teorie matematiche si formalizzano usualmente nella logica dei predicati con identità (si è già impiegata ≠ nella dimostrazione del Teorema di Skolem). Si noti quante diverse formalizzazioni ricevono nella logica moderna proposizioni con la copula «è»: «Socrate è uomo» Pa (appartenenza); «Un uomo è mortale» ∀x(Px → Qx) (inclusione); «Un uomo è» ∃xPx (esistenza); «Socrate è il maestro di Platone» a=f(b) (identità). Logica dei predicati del secondo ordine. Nel linguaggio della logica dei predicati del primo ordine sono presenti variabili per individui. Si può compiere un ulteriore approfondimento dell’analisi delle inferenze ampliando il linguaggio con variabili per proprietà, relazioni e funzioni e consentendo di quantificarle. Si passa allora alla logica dei predicati del secondo ordine. In essa, ad esempio, l’identità può essere definita mediante il seguente principio di identità degli indiscernibili: ∀x∀y(∀ X (Xx ↔ Xy) → x = y) in cui X è una variabile per proprietà (due individui che condividono tutte le proprietà sono identici). Ad esempio, la proposizione «Alberto e Carlo condividono una proprietà» si può formalizzare con ∃X(Xa ∧ Xb). Questa FBF e la precedente sono valide nella logica del secondo ordine (in (D, ℑ), X varia su tutti i sottoinsiemi di D). Nelle teorie assiomatiche per l’aritmetica ha un ruolo fondamentale il principio di induzione matematica, con cui si può dimostrare che una proprietà vale per tutti i numeri naturali: 6582

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se una qualsiasi proprietà P vale per il numero 0 (P0) e, se vale per un numero k, vale per il suo successivo ( ∀k(Pk → Pk ’)), allora vale per tutti i numeri naturali ( ∀kPk ). Nelle teorie formali per l’aritmetica prima considerate tale principio si formalizza mediante il seguente schema: (PI1) α(0) ∧ ∀x(α(x) → α(x ’)) → ∀x α(x) dove a(x) è una FBF avente x come variabile libera. Nella logica del secondo ordine si può formalizzare il principio con un’unica FBF nel modo seguente: (PI2) ∀X(X0 ∧ ∀x(Xx → Xx ’)) → ∀xXx Tra le due formalizzazioni vi è una profonda differenza. Al primo ordine non si può formalizzare «per una qualsiasi proprietà» e si deve ricorrere allo schema (PI1), in cui il ruolo delle proprietà è svolto dalle FBF con una variabile libera. Ciò comporta che le proprietà alle quali si può applicare il principio sono in quantità numerabile (essendo numerabile l’insieme delle FBF con una variabile libera). In (PI2) la variabile X spazia su tutte le proprietà, ossia su tutti i sottoinsiemi del dominio che, nel caso di , sono in quantità più che numerabile. (PI2), pertanto, è molto più potente di (PI1). Per la teoria formale per l’aritmetica G2, in cui si assumono come assiomi (PI2) e le FBF ∀x(x ’ ≠ 0) e ∀x∀y(x ’ = y ’ → x = y), vale infatti il seguente Teorema di Dedekind: G2 è categorica. In altri termini tutti i modelli di G2 sono isomorfi al modello standard  e quindi G2 non ha modelli non standard. Passando al secondo ordine si ottiene l’auspicata caratterizzazione formale della struttura di , non ottenibile con la logica del primo ordine. Questo risultato ha tuttavia un risvolto negativo. L’esistenza di modelli non standard è stata ottenuta (teorema di Skolem) impiegando il teorema di compattezza. Dal teorema di Dedekind segue allora: nella logica del secondo ordine non vale il teorema di compattezza. Ricordando che il teorema di compattezza è conseguenza di quello di completezza, si ricava che: la logica del secondo ordine è semanticamente incompleta. Ciò significa che non esiste alcun calcolo logico per la logica del secondo ordine che sia completo, ossia in grado di derivare tutte le conseguenze logiche degli assiomi di una teoria (e questa è la ragione per cui si cerca di formalizzare le teorie matematiche restando nell’ambito della logica del primo ordine).

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Inoltre, anche per le teorie al secondo ordine come G2 vale il primo teorema di Gödel, per cui anche G2 è sintatticamente incompleta: la FBF g non derivabile da G2, essendo vera in , che è l’unico modello di G2 a meno di isomorfismi, è conseguenza logica di G2, ma non derivabile (e si ha una riprova dell’incompletezza della logica del secondo ordine). In sintesi, passando al secondo ordine, aumenta notevolmente la capacità espressiva, ma si indebolisce la capacità deduttiva. D. Palladino BIBL.: S.C. KLEENE, Introduction to Metamathematics, Amsterdam 1952; E. CASARI, Lineamenti di logica matematica, Milano 1959; E. MENDELSON, Introduction to Mathematical Logic, New York 1964, tr. it. di T. Pallucchini, Introduzione alla logica matematica, Torino 1972; S.C. KLEENE, Mathematical Logic, New York 1967; R.J. SHOENFIELD, Mathematical Logic, Reading (Massachusetts) 1967, tr. it. di D. Cagnoni, Logica matematica, Torino 1980; R. ROGERS, Mathematical Logic and Formalized Theories, Amsterdam 1971, tr. it. di D. Silvestrini, Logica matematica e teorie formalizzate, Milano 1978; J.L. BELL - M. MACHOVER, A Course in Mathematical Logic, Amsterdam 1977; G.S. BOOLOS - R.C. JEFFREY, Computability and Logic, Cambridge 1990; S. GALVAN, Introduzione ai teoremi di incompletezza, Milano 1992; M. BORGA, Fondamenti di logica. Introduzione alla teoria della dimostrazione, Milano 1995; E. CASARI, Introduzione alla logica, Torino 1997; D. PALLADINO, Corso di logica. Introduzione elementare al calcolo dei predicati, Roma 2002; J. NOLT D. ROHATYN - A. VARZI, Logica, Milano 2004; D. PALLADINO, Logica e teorie formalizzate. Completezza, incompletezza, indecidibilità, Roma 2004. ➨ ALGEBRA; ALGORITMO; ANALISI (TEORIA DEI NUMERI REALI), TEMI FILOSOFICI DELLA (INFINITESIMALE, ANALISI NON STANDARD); LOGICA PROPOSIZIONALE; ARITMETICA; TEOREMA DI C HURCH; TEOREMA DI GÖDEL; TEOREMA DI LÖWENHEIM SKOLEM; LOGICA FORMALE.

LOGICA DEL DISCORSO Logica del discorso eticoETICO. – La voce tratta tre ambiti appartenenti alla logica del discorso etico. Il primo riguarda la caratterizzazione del linguaggio normativo in generale ed etico in particolare. Il secondo contiene una analisi metaetica della legge di Hume. Il terzo contiene una trattazione del principio di generalizzabilità e di quello di generalizzazione. SOMMARIO: I. Concetti del linguaggio etico: A) assiologici: classificatori, comparativi, metrici; B) deontici: 1. Concetti assiologici e valore di uno stato di cose. - 2. Concetti fondamentali assiologici e deontici. - II. Il ruolo della legge di Hume nella

Logica del discorso etico argomentazione etica: 1. Legge di Hume e non cognitivismo. - 2. Legge di Hume e non naturalismo. - III. Postulato di generalizzabilità. I. CONCETTI DEL LINGUAGGIO ETICO: A) ASSIOLOGICI: CLASSIFICATORI, COMPARATIVI, METRICI; B) DEONTICI. – I linguaggi normativi sono caratterizzati da una molteplicità di operatori (o concetti). Questi si possono dividere in due categorie fondamentali: gli operatori assiologici e gli operatori deontici. Gli operatori assiologici si distinguono a loro volta – in modo analogo a molti altri concetti – in tre sottocategorie: operatori assiologici di tipo classificatorio, di tipo comparativo, di tipo metrico. Nel seguito intendiamo affrontare l’analisi dei concetti assiologici dal punto di vista della triplice distinzione in concetti classificatori, comparativi e metrici nonché definirne il rapporto con i deontici. L’analisi di questi operatori presenta un interesse non solo per la logica dei sistemi normativi in generale e per la logica del discorso etico in particolare, ma anche per mettere in luce il rapporto tra l’etica – come discorso costruito su una semantica di tipo deontico – e la teoria del valore – come discorso costruito su una semantica assiologica. Lo studio di questo rapporto consente di comprendere che la teoria del valore (assiologia) è più fondamentale dell’etica. 1. Concetti assiologici e valore di uno stato di cose. – Nel linguaggio delle teorie scientifiche il possesso da parte degli oggetti di determinate qualità viene espresso attraverso concetti di natura classificatoria, comparativa o metrica. In generale, mentre i concetti classificatori indicano semplicemente l’appartenenza o meno della proprietà all’oggetto, quelli comparativi consentono di stabilire, oltre a ciò, che un oggetto possiede quella proprietà in grado più o meno elevato rispetto a un altro oggetto. I concetti comparativi sono perciò più espressivi di quelli classificatori e il loro maggior potere informativo è di gran lunga accresciuto se sono trasformati in concetti metrici, in quanto questi ultimi consentono comparazioni anche quantitative tra oggetti. È noto peraltro che il passaggio dalle strutture comparative a quelle metriche richiede la soddisfazione di precise condizioni matematiche che non tutte le strutture comparative ammettono. Anche le nozioni costitutive dei linguaggi normativi di cui si tratta in questa voce si possono distinguere in concetti classificatori, comparativi e metrici. In particolare questa distinzione 6583

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Logica del discorso etico riguarda la categoria dei concetti assiologici, poiché le nozioni deontiche sono di tipo esclusivamente classificatorio. Esempi di concetti assiologici sono: «È bene che...», «È male che...», «È indifferente che...», «... è preferibile a — », «... è equivalente a —», «... vale il doppio di —», «La differenza di valore tra... e — è uguale alla differenza tra +++ e —», mentre i concetti deontici esprimono l’essere obbligatorio, vietato o permesso di qualcosa. Ora, è chiaro che i concetti deontici sono di natura classificatoria (non avrebbe senso dire, nell’ambito del medesimo sistema normativo, che un’azione è più vietata o più obbligatoria di un’altra); al contrario c’è una notevole differenza tra i concetti assiologici di cui abbiamo fornito degli esempi. La diversità è già riscontrabile a livello formale dal momento che i concetti classificatori («È bene che...», «È male che...», «È indifferente che...») sono predicati monadici, mentre i concetti comparativi («... è preferibile a —», «... è equivalente a —») e quelli metrici («... vale il doppio di —») sono predicati diadici o addirittura di ordine superiore, come nel caso del concetto metrico «La differenza di valore tra ... e — è uguale alla differenza tra +++ e —». A livello di contenuto, mentre i concetti classificatori esprimono la semplice positività (o negatività) assiologica dell’oggetto di predicazione, i concetti comparativi istituiscono un confronto tra più oggetti, che consente di stabilire diverse gradazioni di possesso della qualità assiologica considerata. Oltre a ciò i concetti metrici esprimono la misura di tale gradazione. Così, affermando che «... vale il doppio di —» non si dice soltanto che «... è preferibile a —» ma si forniscono anche informazioni sulla misura in cui l’un termine di comparazione è preferibile all’altro. Già questo fatto è indicativo del maggior potere espressivo dei concetti assiologici e rende plausibile la scelta di assumerli come concetti primitivi delle teorie etiche, a partire dai quali risultano definibili i concetti deontici. Come già detto, nel seguito intendiamo affrontare l’analisi dei concetti assiologici dal punto di vista della triplice distinzione in concetti classificatori, comparativi e metrici delineata nelle righe precedenti nonché definirne il rapporto con i deontici. La questione che va affrontata in primo luogo concerne la natura dei referenti dei concetti assiologici che abbiamo intenzione di sottoporre a esame. Normalmente espressioni co6584

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me «... è preferibile a —» o «... è migliore di —» sono riferite indifferentemente a cose, oggetti, azioni, progetti, stati di cose. In questo contesto ci limitiamo a considerare i soli stati di cose, dal momento che la nozione di «stato di cose» è abbastanza generale da comprendere tutto ciò che cade anche sotto le altre nozioni. In secondo luogo, prenderemo le mosse dall’analisi dei concetti comparativi e non da quelli classificatori. La scelta è determinata da motivi di ordine sistematico. Innanzi tutto attraverso i concetti comparativi (e a fortiori metrici) è possibile dare una definizione molto semplice di quelli classificatori. In secondo luogo, solo attraverso una previa trattazione dei concetti comparativi (e metrici) è possibile studiare interessanti definizioni alternative dei concetti classificatori come quella di ottimalità in contrapposizione a quella di semplice positività. Il linguaggio assiologico L è un normale linguaggio proposizionale, provvisto di lettere proposizionali p, q, r,... e dei connettivi proposizionali. Inoltre a tale linguaggio appartiene il predicato diadico ... ≤S ⎯ con il quale si vuole denotare la relazione di «non preferibilità» dello stato di cose indicato con ... a quello indicato con —. Al posto di ... e — possono stare ovviamente solo le formule (che indicheremo con A, B, C,...) descriventi stati di cose, cioè quelle induttivamente costruibili a partire da p, q, r,... e connettivi proposizionali (formule aletiche appartenenti a L). L’intento principale delle pagine seguenti è di fornire una semantica adeguata per tale linguaggio. A tale scopo riteniamo opportuno concepire gli stati di cose designati dalle formule aletiche di L come costituenti di situazioni complesse, espressive di tutto ciò che in qualche modo è relato con l’accadere degli stati di cose in questione. Normalmente tali situazioni complesse vengono designate nell’ambito della semantica logica modale come mondi possibili e anche qui sono intese nello stesso senso generale. Questo nesso tecnico con la semantica dei mondi possibili non deve però essere enfatizzato al punto da lasciare in secondo ordine il significato profondamente intuitivo dell’approccio in quanto tale. Non deve in altre parole essere fonte di problematizzazione il fatto che qui si parli di mondi possibili in generale. Come è noto, infatti, la nozione di mondo possibile della semantica modale è suscettibile di varie interpretazioni e quindi nul-

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la esclude che i mondi di cui si deve tener conto nel costruire una specifica semantica di L siano solo quelli rilevanti rispetto a una precisa situazione di scelta. L’insieme dei mondi possibili può essere così inteso, se lo si desidera, come l’insieme delle situazioni complessive concretamente possibili al momento della scelta di una certa azione. A questo punto sarebbe necessario mostrare come tra i mondi possibili così descritti esista un ordine (di natura ovviamente assiologica). In questa sede non c’è spazio sufficiente, né esistono i prerequisiti, per illustrare tale stato di cose con sufficienti dettagli d’analisi. Ci basti solo dire che la struttura di tale ordine può essere caratterizzata da alcune proprietà formali di fondo (tipiche di ogni ordine), a cui se ne possono aggiungere altre a seconda del tipo di proprietà assiologica ritenuta rilevante ai fini dell’istituzione dell’ordine. In particolare le proprietà assiologiche considerate rilevanti possono essere tali da assicurare una comparazione metrica dei singoli mondi. In altri casi ciò è impossibile, dal momento che il loro confronto non può avvenire attraverso una misura plausibile dell’intensità del valore di ciascuno di loro. Queste differenze sono d’importanza notevole in quanto da esse dipendono modalità profondamente diverse di definizione del valore di uno stato di cose (o modalità d’azione). In ogni caso, assumiamo che si dia sempre un ordine di tipo metrico o almeno qualitativo tra i mondi possibili oggetto di comparazione. Una volta ammessa la possibilità di ordinamento dei mondi, è possibile introdurre varie modalità di definizione del valore di uno stato di cose (o modalità d’azione) A. Per limiti di spazio ne prendiamo in considerazione tre. Secondo una prima proposta il valore di uno stato di cose A può essere definito come valore medio. Tale definizione muove dalla convinzione che uno stato di cose (modalità d’azione) A abbia luogo nell’ambito di situazioni (mondi possibili) che possono influenzare (cioè possono essere rilevanti per) il valore dello stato medesimo. Chiamiamo W tale insieme di mondi possibili (che indichiamo attraverso le lettere x, y, z), indichiamo con [A] il sottoinsieme di mondi appartenenti a W in cui è vero A (nei quali, cioè, è presente lo stato di cose designato da A) e con n[A] il numero di mondi appartenenti a [A]. Assumiamo, inoltre, che tra i vari elementi di W esista un ordina-

Logica del discorso etico mento metrico. Ciò significa che esiste una funzione di stima v(x) per ciascun mondo x, capace di attribuire a x un valore secondo una scala cardinale. Allora, il valore medio di A (Vm(A)) è dato dal valore medio dei valori dei mondi appartenenti a [A]:

Vm (A) = 1 n[A] ⋅

∑ v(x)

x∈[A]

In altri termini il valore di A è dato dalla media aritmetica dei valori conferiti da v a ognuno dei mondi in cui è vero A. La plausibilità della definizione di Vm(A) è legata al fatto che attraverso la media aritmetica, nella valutazione di uno stato di cose, si tiene conto di tutti i mondi in cui occorre lo stato di cose da valutare (e non solo dei mondi migliori o di quelli peggiori). Tuttavia, per quanto nella valutazione di A si tenga conto di tutti i mondi in cui A è vero, se ne tiene conto solo rispetto al loro valore. Non si tiene conto di altri fattori che possono rivestire particolare importanza nel valutare complessivamente il valore di A. Per esempio, può darsi che la probabilità di occorrenza di un mondo x sia molto più alta di quella del mondo y. Nel calcolo del valore medio di A, tuttavia, ciò che conta è solo il valore di x e y, per cui può darsi il caso che x sia da preferire a y, mentre dovrebbe avere un peso decisivo il mondo x, dal momento che esso risulta più probabile. Se, ad esempio, confrontiamo una terapia medica senza effetti collaterali ma con esito positivo più raro con un’altra che ha effetti collaterali sgradevoli ma probabilità maggiore di sortire la guarigione, va chiaramente preferita la seconda. Il concetto di valore medio ponderato probabilisticamente (in breve il valore atteso) intende tener conto anche del fattore probabilistico. L’idea di fondo sottesa alla interpretazione probabilistica del valore di uno stato di cose nasce dalla considerazione che, per quanto la probabilità sia una nozione estranea (estrinseca) alla sfera dei valori, essa influisce tuttavia in maniera decisiva sul modo in cui dobbiamo valutare gli stati di cose anche dal punto di vista assiologico. Si tratta di un’idea elaborata soprattutto nel contesto delle teorie etiche di stampo utilitaristico, ma che presenta radici profonde anche nella riflessione filosofica sulla teoria generale dei valori. Ma come è possibile definire la nozione di valore atteso? Si muove dall’idea che all’insieme dei mondi in cui è vero A sia assegnata una 6585

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Logica del discorso etico completa distribuzione di valori probabilistici. Si presuppone, cioè, che a ogni elemento x appartenente a [A] sia associato quale valore di probabilità un numero reale p(x), tale che la sommatoria della probabilità dei singoli mondi sia uguale a 1. Quindi si ricorre alle ipotesi richieste per l’introduzione del valore medio, che devono valere anche per il valore atteso. Così, il valore medio ponderato probabilisticamente (Va(A)) si può introdurre come media dei valori dei mondi appartenenti a [A] ponderata probabilisticamente. Va(A) è introdotto, cioè, nella maniera seguente:

Va (A) =

∑ v(x) ⋅ p(x)

x∈[A]

Dalla definizione introdotta risulta chiaro che il concetto di valore atteso presuppone una teoria cardinale dei valori dei mondi. Ciò è necessario perché siamo in presenza di un valore medio. Per questo non è sufficiente che la funzione di valutazione dei mondi esprima semplicemente la relazione d’ordinamento; occorre altresì che essa sia capace di rappresentare, attraverso un’opportuna scala a intervalli, l’esatta differenza di valore tra i singoli mondi. Il requisito, valido sia nel caso del valore medio sia in quello del valore atteso, che per la valutazione dei mondi debba essere a disposizione una funzione metrica è in effetti un requisito molto impegnativo, che non può essere soddisfatto in tutte le circostanze e in tutti i contesti. Anzi, sono presumibilmente più frequenti i casi in cui non sussiste possibilità di metrizzazione e si dispone solo di una funzione ordinale di valutazione dei mondi. Supponiamo a questo punto che sia data una distribuzione di probabilità per ognuno dei mondi appartenenti a [A]. Assumendo che i mondi appartenenti a [A] siano x1...xn, conveniamo di indicare tali probabilità con p1...pn. Ebbene, è possibile dare una valutazione di A che tenga conto della probabilità dei mondi appartenenti a [A], anche se l’ordinamento dei mondi non ha carattere cardinale? La risposta è positiva, in quanto esistono delle funzioni di valutazione basate su medie di posizione. È questo il terzo concetto di valore di uno stato di cose A, il valore basato su medie di posizione. Supponiamo infatti che esista la probabilità massima tra le varie pi (sia essa ps). Il valore dello stato di cose A basato sulla moda (in breve, valore modale), è dato allora dalla moda dei 6586

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valori v(xi), ossia dal valore del mondo dotato di probabilità massima v(xs). Si ha cioè: Vmo(A) = v(xs) (ove s è tale che (per ogni i ≠ s)(ps > pi)) = valore del mondo in cui è vero A che ha probabilità massima L’uso del valore modale è chiaramente legato all’esplicita condizione d’esistenza della probabilità massima ps. Tuttavia, al fine di avere un valore modale plausibile, occorre che siano assicurate due ulteriori condizioni. È necessario che la probabilità massima ps sia «sufficientemente elevata» e «sufficientemente superiore» rispetto alle altre probabilità. Le ragioni delle due condizioni aggiuntive sono evidenti. Per quanto riguarda la prima, una probabilità ps massima ma poco elevata si può avere solo se il numero degli altri mondi sui quali è distribuita la parte rimanente di probabilità è piuttosto grande. Ma allora, per quanto sia piccola la probabilità di ciascuno preso singolarmente, la probabilità che qualcuno di essi si realizzi è pur sempre più elevata di quella che si realizzi il mondo xs. La seconda condizione discende dall’esigenza d’assicurare che la probabilità massima ps si stacchi in modo abbastanza deciso dalle probabilità degli altri mondi; in caso contrario, infatti, non avrebbe molto senso puntare sulla realizzazione di xs, dal momento che probabilisticamente anche eventuali altri mondi con probabilità vicina a quella di xs sarebbero buoni candidati alla realizzazione. Qualora la probabilità massima non sia abbastanza elevata o non sia superiore a sufficienza rispetto alle altre (e non si possa determinare il valore atteso), conviene identificare il valore di uno stato di cose con il relativo valore basato sulla mediana (o semplicemente valore mediano). Il valore mediano dello stato di cose A è costituito dalla mediana, fissata probabilisticamente, dei valori dei mondi in cui è vero A. Supponiamo al solito che tali mondi siano x...xn e che ad essi siano assegnate le probabilità p1...pn. Si dispongano i valori dei mondi xi nell’ordine non decrescente v(x π(1) ) ≤ ... ≤ v(x π(n) ), ove p(i) (per i = 1 ... n) rappresenta l’opportuna permutazione degli indici che assicura l’ordine non decrescente. Sia poi k

Pk = ∑ p π(i) (per k variabile su 1...n) i =1

la somma parziale delle probabilità ordinate

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sino a k. Si trovi infine l’indice k minimo tale che Pk ≥ 1/2. Allora il valore mediano di A (cioè la mediana, determinata in funzione delle probabilità, dei valori dei mondi in cui è vero A) è dato da: Vme (A) = v(x ) = il valore del mondo π(k) la cui probabilità sommata con le probabilità dei mondi di valore non superiore giunge per prima ad essere ≥ 1/2. A scopo illustrativo si consideri la seguente tabella ove compaiono, nella riga superiore, le probabilità dei mondi e nella riga inferiore i valori dei medesimi (si assume che n = 5): 0,2 0,1 0,3 0,2 0,2 4 5 1 -1 2 Ordinando la riga dei valori si ottiene la nuova riga: -1 1 2 4 5 Associando ad essa i valori probabilistici relativi, la tabella acquista così la seguente nuova configurazione: 0,2 0,3 0,2 0,2 0,1 -1 1 2 4 5 Ora, per ottenere una somma delle probabilità ≥1/2 è sufficiente arrivare fino al secondo elemento della riga dei valori probabilistici. Ad esso corrisponde nella riga inferiore il valore 1. Perciò Vme(A) = valore che si trova al secondo posto nella riga inferiore = 1 L’esempio presentato mostra con chiarezza che il valore dello stato di cose A è determinato dal valore del mondo che si trova nella posizione mediana. Tale posizione è fissata attraverso il calcolo delle somme parziali delle probabilità e non coincide con la semplice posizione di mezzo dei valori, che in questo caso sarebbe 2. Ciò dipende dalla necessità di tener conto della incidenza probabilistica. Solo il mondo a cui è associata una somma parziale delle probabilità ≥1/2 si può, infatti, ritenere rappresentativo del valore di mezzo dei mondi considerati anche secondo il loro peso probabilistico. Così, dichiarare, come nel nostro esempio, che il valore mediano è 1 equivale a dire non che 1 è il valore di mezzo dei valori associati ai mondi, ma che le probabilità che si realizzi un mondo di valore ≤1 e quelle che si realizzi un mondo di valore >1 si spartiscono approssimativamente a metà. Di qui seguono anche le ragioni di complementarità del valore mediano rispetto a quello modale. Se non esiste probabilità massima, oppure se essa non è abbastanza elevata e disomogenea rispetto al-

Logica del discorso etico le altre, il valore mediano è da preferire a quello modale, dal momento che con esso si tiene proporzionalmente conto dell’intera distribuzione delle probabilità, venendo così ad assegnare allo stato di cose da valutare il valore di quella sua realizzazione che, per quanto poco probabile, è rappresentativa del reale valore di mezzo. 2. Concetti fondamentali assiologici e deontici. – Nel presente paragrafo sono presentati il concetto assiologico di semplice «bontà» (o «positività»), quello di «ottimalità» e il concetto deontico di «obbligatorietà». Si tratta di concetti classificatori ed essi sono tutti introdotti in modo definitorio a partire dalla nozione (definita in una delle modalità richiamate nel paragrafo precedente) di valore V di uno stato di cose A. Infine sarà introdotta anche la nozione d’obbligo condizionato e saranno svolte alcune considerazioni sulle condizioni di effettività di tali obblighi. Il primo concetto assiologico classificatorio che vogliamo introdurre corrisponde alla nozione assiologica informale di bontà o positività riferibile a fatti. Si tratta del concetto che compare in espressioni come: «È bene che...», «È positivo il fatto che...», pronunciando le quali si intende perlomeno asserire che l’accadere del fatto dichiarato positivo è preferibile al suo non accadere. Consequenziale è pertanto l’analisi che se ne può fare dal punto di vista formale, ponendo che lo stato di cose A sia buono qualora la sua occorrenza sia preferibile alla occorrenza di ¬A : B(A) ⇔ V(¬A) < V(A) Naturalmente il concetto di semplice positività è più debole di quello di ottimalità. Quando, ad esempio, si afferma che una scelta è ottimale non si vuole semplicemente dire che tale scelta è positiva (ossia che è meglio compierla che non compierla), ma si intende affermare in più che essa è migliore rispetto a una qualsiasi altra scelta. Pertanto lo stato di cose A risulta ottimale se nel definiens si fa riferimento alla totalità degli stati di cose alternativi e si dichiara che nessuno di questi è preferibile ad A. In simboli: Ot (A) ⇔ (per ogni B)(V(B) ≤ V(A)) A questo punto è possibile introdurre per via definitoria il concetto deontico d’obbligo. Nella definizione seguente risulta obbligatorio ciò che è implicato dalla totalità degli stati di cose ottimali: O(A) ⇔ (per ogni B)(Ot (b) ⇒ [B] ⊆ [A]) 6587

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Logica del discorso etico Va notato che tale definizione di obbligatorietà è strettamente connessa con la definizione d’obbligo usuale nella semantica dei sistemi aletici di logica deontica, secondo la quale è obbligatorio ciò che è vero in tutti i mondi buoni. La nozione d’ottimalità gioca, ovviamente, un ruolo fondamentale nella definizione precedente d’obbligatorietà: è obbligatorio ciò che è implicato da un qualsiasi stato di cose ottimale. Ora, sfruttando la nozione d’obbligo condizionato (vale a dire d’obbligo valido in dipendenza di qualche condizione), è possibile definire la nozione d’obbligo direttamente come ottimalità. Indichiamo con O(A,B), l’obbligatorietà dello stato di cose A sotto la condizione che sia vero lo stato di cose B (per esempio, l’obbligo di pagare una multa sotto la condizione di aver compiuto una infrazione). Allora, si può introdurre la seguente definizione d’obbligo come ottimalità: O(A, B) ⇔ (per ogni C)(V(C ∧ B) ≤ V(A ∧ B)) Questa definizione può chiaramente fungere da criterio per l’istituzione di un obbligo condizionato. In base ad essa, infatti, si può dire che A è obbligatorio nella condizione B se e solo se nessuno stato di cose nella condizione B è preferibile ad A nella medesima condizione, ossia se, nella condizione B, A è ottimale. Supponiamo ora che per un certo A e un certo B si possa stabilire che vale il definiens. In base alla definizione assunta è, allora, istituito l’obbligo O(A,B). Ma ciò può forse significare che l’obbligo è anche effettivo (actual), ossia che si tratta di un obbligo che l’agente è tenuto hic et nunc a osservare? In realtà si danno obblighi istituiti che non sono effettivi: essi sono un tipo speciale di obblighi prima facie (W.D. Ross, The Right and the Good, Oxford 1930, tr. it. di R. Mordacci, Il giusto e il bene, Milano 2004). Gli obblighi prima facie soddisfano in astratto le condizioni di istituzione degli obblighi, ma ciò di per sé non è sufficiente a garantire che essi siano sempre e comunque moralmente vincolanti nei confronti dell’agente. Perché ciò accada, va soddisfatta una particolare condizione riguardante la completezza degli stati di cose confrontati rispetto a tutto ciò che il soggetto considera rilevante nella concreta situazione di scelta. Consideriamo il seguente esempio. Giovanni ha promesso all’amico Marco di andarlo a trovare durante il fine settimana. L’obbligo per Giovanni di fare una visita a Marco nel fine set6588

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timana è chiaramente un obbligo condizionato, ove la condizione è espressa dalla promessa. Se Giovanni non avesse fatto la promessa, l’obbligo della visita non sarebbe istituito. L’istituzione di tale obbligo è quindi esprimibile attraverso la formula diadica O(A,B), ove B designa la promessa (supposta vera) e A il contenuto dell’obbligo (ovvero la visita); inoltre l’espressione può essere letta, in conformità con la definizione sopra introdotta di obbligo condizionato, come: nella condizione B (supposta vera) A rappresenta uno stato di cose ottimale. Ciò che a questo punto ci interessa sottolineare è che la promessa, pur essendo di per sè capace di istituire l’obbligo della visita, non è tuttavia capace di assicurare l’effettività dell’obbligo al momento in cui esso dovrebbe essere assolto. Si supponga che tra il momento della promessa e quello della visita accadano dei fatti gravi dal punto di vista di Giovanni; ad esempio la malattia improvvisa di qualche suo congiunto, di modo che egli sia costretto a recarsi nella città natale per assistere il parente malato. Nessuno, a nostro parere, metterà in dubbio che l’obbligo della visita all’amico sia, per così dire, destituito di effettività dal grave evento intercorso tra la promessa e il momento della visita. Con ciò non si vuol dire che l’obbligo condizionato cessi di essere tale. Esso infatti rimane sempre come obbligo prima facie, cessa soltanto di essere un obbligo effettivo (ossia un obbligo a cui Giovanni sia realmente tenuto), dal momento che sono intervenuti fatti moralmente rilevanti tali da scusare l’autore della promessa nel caso in cui non si attenga ad essa. Dall’esempio si può dunque evincere facilmente quale sia il requisito che la condizione istituente l’obbligo deve assolvere perché questo sia effettivo. Occorre che la condizione non si limiti a esprimere il fatto della promessa, ma che sia comprensiva di tutto ciò che di rilevante si conosce rispetto alla prescrizione dell’obbligo. Solo se la condizione soddisfa tale requisito di rilevanza globale l’obbligo è effettivo. Se poi il requisito di rilevanza globale esige una trasformazione della condizione istituente l’obbligo e a seguito di questa pure il contenuto prescritto va modificato, effettivo diventerà l’obbligo istituito dalla nuova condizione. La distinzione tra condizioni d’istituzione e condizioni d’effettività di un obbligo consente, infine, di fornire qualche chiarificazione in più a proposito dei concetti di obbligo incondizio-

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nato e di obbligo non condizionato. Come è noto, il concetto d’obbligo non condizionato è il concetto tipico del linguaggio deontico monadico, mentre il concetto d’obbligo incondizionato è un tipo speciale d’obbligo diadico. Mentre porre in modo non condizionato l’obbligo di A significa porre semplicemente O(A) a prescindere da eventuali condizioni, l’obbligo di fare A è incondizionato se e solo se (per ogni B)(O(A,B)). In breve, un obbligo non condizionato vale a prescindere dalle condizioni, mentre un obbligo incondizionato vale in tutte le condizioni. La differenza tra i due tipi d’obbligo è apertamente anche di carattere formale: uno è formulato nel linguaggio monadico, l’altro in quello diadico. Eppure questa differenza può essere colmata dal momento che un obbligo monadico può essere tradotto in un obbligo diadico speciale: O(A) è traducibile in O(A,T), ovvero in un obbligo condizionato dalla tautologia (T è il segno della tautologia, ovvero di una qualsiasi proposizione sempre vera). Con ciò è forse azzerata la distinzione tra i due tipi d’obbligo? Si può in altri termini porre O (A,T) ⇔ (per ogni B)(O(A,B))? La risposta è nettamente negativa e la giustificazione di ciò sta nel fatto che il passaggio dall’uno all’altro dei due membri è lecito solo se la condizione T soddisfa il requisito di rilevanza globale di cui si è parlato sopra. Sia, infatti, O(A,T) e valga il requisito di rilevanza globale. Allora tutto ciò che è rilevante ai fini della prescrizione di A è la tautologia (ossia un contenuto vuoto). Ma ciò significa che non può accadere nulla capace di rendere non effettivo tale obbligo, ovvero che esso vale effettivamente in qualunque condizione. In termini formali, dall’ipotesi segue che O(A, T ∧ B) per qualsiasi B; d’altra parte T ∧ B ↔ B , per cui (per ogni B)(O(A,B)). Nell’altro verso, se vale (per ogni B)(O(A,B)), allora nessuna condizione B è rilevante in particolare ai fini della prescrizione di A, per cui si ha O(A,T) con T soddisfacente il requisito di rilevanza globale. Essenziale è però non trascurare il fatto che si danno obblighi O(A,T) non effettivi (in quanto T non soddisfa il requisito di rilevanza globale) e questi non possono essere confusi con nessun tipo di obblighi incondizionati. II. IL RUOLO DELLA LEGGE DI HUME NELLA ARGOMENTAZIONE ETICA. – In questa sezione intendiamo affrontare il problema della rilevanza della legge di Hume in ordine alla fondazione di due tesi metaetiche di grande portata, il non cogniti-

Logica del discorso etico vismo e il non naturalismo. Tradizionalmente, infatti, tale legge è stata e viene tuttora considerata come un argomento decisivo a favore di posizioni non cognitivistiche e, rispettivamente, non naturalistiche. Nel corso della presente sezione è nostro intento tentare di fare chiarezza sulla questione. Ciò consentirà di ridimensionare, da un lato, il ruolo svolto dalla legge nell’opzione a favore sia dell’una sia dell’altra tesi e di porre in rilievo, d’altro lato, i presupposti filosofici che è necessario condividere per far seguire dall’applicazione di tale legge gli esiti non cognitivistici e non naturalistici desiderati. 1. Legge di Hume e non cognitivismo. – Con la locuzione «legge di Hume» si designa la legge che sancisce la dicotomia tra fatti e valori, tra dover essere ed essere. Tale legge va intesa nel senso che non è possibile derivare asserti di tipo normativo (riguardanti cioè la sfera del dover essere) da asserti puramente descrittivi (riguardanti cioè la sfera dell’essere) e viceversa. Il non cognitivismo è la teoria secondo la quale agli enunciati etici non sono ascrivibili valori di verità, per ragioni che variano a seconda dei diversi tipi di non cognitivismo. In particolare, secondo il criterio empiristico di significanza, gli unici enunciati aventi valore cognitivo (vale a dire suscettibili d’essere veri o falsi) sono gli enunciati osservativi (ovvero quelli che descrivono fatti osservabili) o quelli riconducibili agli enunciati osservativi (in breve, enunciati descrittivi). Le modalità ammesse di riconduzione degli enunciati teorici agli osservativi varia a seconda delle diverse versioni, più o meno liberali, del criterio di significanza, ma ciò non è rilevante ai fini del nostro discorso. Ora, lo schema argomentativo, usualmente addotto al fine di mostrare che la legge di Hume conduce al non cognitivismo, si fonda sui seguenti passaggi: (i) il criterio empirico di significanza conferisce valore cognitivo solo al linguaggio osservativo o a ciò che si può ricondurre ad esso (in breve, al linguaggio descrittivo); ma (ii) il linguaggio normativo non è un linguaggio osservativo; dunque (iii) o il linguaggio normativo non ha valore cognitivo o, se lo ha, lo deve avere indirettamente in quanto lo riceve dal linguaggio descrittivo; ma la legge di Hume dichiara che (iv) da proposizioni descrittive non sono derivabili logicamente enunciati normativi (vale a dire che le due classi di enunciati sono irrelate), per cui (v) il 6589

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Logica del discorso etico linguaggio normativo non può avere carattere cognitivo. In realtà il punto (ii) non è affatto ovvio e andrebbe giustificato, mostrando per esempio che gli enunciati normativi non possono essere enunciati osservativi perché non esiste un’esperienza dei valori, intesa come esperienza della bellezza o della bontà di uno stato di cose naturale. Naturalmente, a una simile obiezione un tardo empirista controbietterebbe che noi non sperimentiamo direttamente che qualcosa è buono, perché la bontà che attribuiamo a una cosa o a uno stato di cose è frutto di una nostra interpretazione, che proiettiamo sull’oggetto di cui si dichiara la bontà. Il problema è però che non esiste il dato puro di esperienza così come lo ipotizzavano i primi neopositivisti e che il linguaggio osservativo è carico di teoria. Ciò, se non giustifica gli esiti irrazionalistici e relativistici di certa epistemologia post-popperiana, certamente è però un argomento forte contro la pretesa di stabilire una linea di demarcazione netta tra ciò che è frutto di esperienza e ciò che è invece dovuto a interpretazione. In ogni caso, sia che esistano o non esistano forme di esperienza assiologica o normativa, ciò che risulta evidente dallo schema precedente è che la legge di Hume da sola non giustifica il non cognitivismo; occorre la condizione ulteriore rappresentata dal presupposto empiristico. A ulteriore riprova del fatto che la legge di Hume da sola non conduce a esiti non cognitivistici vanno menzionati alcuni recenti studi di carattere semantico compiuti nell’ambito della logica deontica e della logica della preferenza, che hanno consentito in primo luogo di formulare la tesi di Hume in modo rigoroso, fornendo criteri per distinguere univocamente tra proposizioni normative e proposizioni fattuali, e in secondo di dimostrare la validità della legge all’interno di specifici calcoli deontici e della preferenza. Non solo dunque la legge di Hume non conduce di necessità al non cognitivismo, ma oltre a ciò ottiene una rigorosa formulazione e dimostrazione solo in un contesto cognitivistico, quale è quello presupposto dall’uso di regole corrette di inferenza logica. D’altro lato, è del tutto plausibile che si diano proposizioni aventi significato normativo suscettibili di essere vere o false. Basti solo pensare a proposizioni come «Il soggetto x ha l’autorità per dare questo comando». È chiaro che proposizioni come queste hanno un significa6590

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to normativo (tanto è vero che da esse sono deducibili obblighi in senso stretto) ed è del tutto sensato porsi la domanda se siano vere o false. Di conseguenza, se si tiene conto dell’interna implausibilità del non cognitivismo insieme con l’accennata possibilità di dimostrare la legge di Hume in un contesto cognitivistico, lo schema argomentativo precedente, lungi dal costituire una prova a favore del non cognitivismo, si presta a essere piuttosto trasformato, per contrapposizione, in un’ulteriore riprova dell’inaccettabilità del criterio empiristico di significanza. 2. Legge di Hume e non naturalismo. – Passiamo ora al secondo punto, ossia al rapporto tra la legge di Hume e il non naturalismo. Per poter trattare adeguatamente questo problema sarà necessario precisare in modo più dettagliato la formulazione della legge e allo scopo si farà ricorso agli studi logici sulla legge di Hume appena menzionati. È noto che la legge della dicotomia tra fatti e valori è stata ascritta al filosofo scozzese D. Hume a causa di un noto passo contenuto nel Trattato sulla natura umana: «In ogni sistema di morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l’autore va avanti per un po’ ragionando nel modo più consueto, e afferma l’esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è e non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve o non deve esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che al tempo stesso si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile, ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti» (D. Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere, Roma-Bari 1971, pp. 496 ss.). La lettura diretta di tale passo consente di precisare un aspetto molto importante dell’argomentazione humiana, spesso trascurato. Hume non sostiene che tra fatti e valori non esistono relazioni, ma che queste relazioni non sono di carattere logico e che vanno quindi giustificate. Stando alla lettera del testo, dunque, è scorretto parlare tout court di dicotomia o di frattura tra fatti e valori; la formulazione corretta recita che da enunciati su fatti

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(descrittivi) non seguono logicamente enunciati su valori o norme (normativi). Il nesso di derivabilità può essere naturalmente definito solo per calcoli specifici, che in questo caso devono contenere come operatori primitivi anche operatori d’obbligo (deontici) o operatori della preferenza (valutativi). La inderivabilità degli enunciati normativi da quelli descrittivi può dunque essere dichiarata solo rispettivamente a una determinata classe di calcoli deontici o della preferenza. Ciò non esclude tuttavia affatto la possibilità che tra gli enunciati descrittivi e quelli normativi dichiarati inderivabili dai primi si istituiscano delle relazioni analitiche, cioè relazioni di significato non puramente logico basate su postulati di significato, che fissano delle interpretazioni dei termini normativi più specifiche di quelle previste dalle regole di inferenza logica generalissime della logica deontica. In base a questa interpretazione della legge di Hume, quali rapporti intercorrono tra di essa e il naturalismo? Cerchiamo, innanzitutto, di precisare, nei limiti concessi in questa sede, la nozione di naturalismo. Per posizione naturalistica (in campo etico) intendiamo una posizione che comporta una riduzione dei termini normativi ai non normativi. G.E. Moore ha fornito una analisi molto acuta di come questa riduzione possa avvenire, allorquando ha introdotto il cosiddetto argomento della questione aperta (G.E. Moore, Principia Ethica, Cambridge 1903, tr. it. di G. Vattimo, Principia Ethica, Milano 1972, pp. 62 ss.). Moore sostiene che la riduzione di un termine normativo attraverso termini descrittivi è impossibile se tale riduzione è intesa quale relazione di definizione nominale, ossia una relazione tale per cui il definiendum (termine normativo) è una sorta di semplice nome del definiens (espressione contenente solo termini descrittivi). In tal caso, infatti, non avrebbe senso domandarsi se gli oggetti a cui si riferisce il definiens hanno la qualità morale che viene espressa con il definiendum. In realtà, però, questa domanda è sensata, dunque la relazione non può essere una relazione definitoria nominale. Questo ragionamento di Moore mette bene in luce come egli, quando criticava il naturalismo, si riferisse a tale tipo di riduzione, fondata sulla relazione di definizione nominale istituita tra i termini normativi e quelli non normativi. Non ha senso infatti domandarsi se tutti gli scapoli sono uomini non sposati

Logica del discorso etico quando si assume che scapolo sia un’abbreviazione linguistica di uomo non sposato. Allo stesso modo non ha senso chiedersi se, per esempio, la volontà del legislatore sia moralmente vincolante, quando si assume che la obbligatorietà morale sia tautologicamente identica con l’osservanza delle prescrizioni del diritto positivo. La problematizzazione della definizione proposta è invece sempre possibile quando si tratta di una definizione reale: è perfettamente sensato domandarsi se gli uomini sono animali razionali, perché «uomo» non è un semplice accorciamento linguistico di «animale razionale». Così, se si assume che la volontà del legislatore e il dovere morale sono concetti semanticamente autonomi, è sempre sensato chiedersi se la definizione in cui sono implicati è adeguata o meno. Ora, alla luce della nozione illustrata di naturalismo possiamo riesaminare la tesi precedentemente enunciata circa l’incidenza della legge di Hume sul naturalismo etico. Si era detto che tale legge, riguardando le relazioni logiche tra termini, nulla può in riferimento a relazioni di significato extralogico (analitiche). Ma se tali relazioni sono relazioni di riduzione definitoria (nominale) esse sono equiparabili alle relazioni di natura logica. Per questo anch’esse cadono sotto la scure della legge di Hume, che appunto esclude l’esistenza di nessi logici tra gli enunciati normativi e i non normativi. Tuttavia, molte teorie che normalmente vengono considerate naturalistiche e quindi sottoposte all’influsso della legge di Hume, in realtà istituiscono delle relazioni di tipo analitico (di significato extralogico) tra termini normativi e termini descrittivi e perciò né sono naturalistiche nel senso da noi precisato, né possono essere contestate facendo leva sulla legge di Hume. Un esempio per tutte è rappresentato dall’etica aristotelica. Quando Aristotele afferma: «Il bene dell’uomo consiste in un’attività dell’anima secondo la sua virtù», egli non intende affatto ridurre nominalisticamente la nozione di bene alla nozione di natura umana espressa in termini meramente descrittivi. Al contrario, la definizione precedente può essere considerata come un postulato di significato che istituisce una relazione (analitica) di significato tra la nozione di bene e quella di natura umana. Vale a dire, i due termini vengono concepiti come nozioni semanticamente autonome, collegate tra loro nella 6591

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Logica del discorso etico proposizione – che non è di natura puramente descrittiva – secondo cui il perseguimento dei fini iscritti nella natura umana costituisce il valore morale supremo. La precisazione dei diversi termini in gioco consente dunque di concludere che se anche la legge di Hume esercita qualche influsso sul naturalismo inteso in senso stretto, la sua rilevanza nel contesto globale della critica al cognitivismo e al naturalismo in senso lato è di gran lunga minore di quanto normalmente si ritenga. III. POSTULATO DI GENERALIZZABILITÀ. – Il linguaggio normativo è caratterizzato dal fatto che i comandi (ovvero gli obblighi) valgono per tutti i soggetti che si trovano in condizioni rilevantemente simili. In altre parole, i doveri sono normalmente concepiti come comandi generali: alla persona a è comandato di fare F in una determinata situazione solo alla condizione che fare F sia comandato in generale, vale a dire a ciascuno in situazioni simili. Intendere i doveri come comandi generali significa condividere il cosiddetto principio di generalizzabilità. Di solito il principio di generalizzabilità viene formulato attraverso il seguente enunciato: PG1: ∀x∀y(O(A(x), B(x)) → O(A(y), B(y))) cioè, per tutte le persone x e y, se è comandato a x sotto la condizione B di fare A, allora, sotto la stessa condizione B, è comandata di fare A anche a y. Naturalmente il principio vale per condizioni e modalità d’azione opportunamente definite e non ci sono regole generali capaci di isolare quelle a cui sia possibile in generale applicarlo sensatamente. Per esempio, se è comandato a x d’amare il marito a, ciò non implica che anche y debba amare il marito di x, cioè a. In effetti, PG1 va applicato alla modalità d’azione di «amare il proprio marito», il che significa che l’obbligo d’essere amato compete ad a in quanto è marito di x e non in base a qualche altra caratteristica. Per questo la condizione B sotto la quale si deve considerare comandata a x la modalità d’azione d’amare a (in simboli, A(x,a)) è che a è marito di x (in simboli, a = m(x)). Ne segue la seguente esemplificazione corretta di PG1: ∀x∀y(O(A(x, a), a = m(x)) → O(A(y, b), b = m(y))) Talvolta il principio di generalizzabilità è fatto oggetto di critica a partire dall’osservazione che nella comunità sono talvolta previste norme che attribuiscono degli obblighi o dei diritti solo a determinati gruppi. Ciò solleva l’obie6592

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zione che gli obblighi o i diritti attribuiti non valgono per tutti e dunque non sono generalizzabili. L’obiezione è tuttavia facilmente superabile se si tiene conto del fatto che in tali casi l’appartenenza al gruppo costituisce la condizione di istituzione dell’obbligo o del diritto relativo, di modo che, fatta salva tale condizione, l’obbligo o il diritto è in se stesso generalizzabile. In effetti, il principio PG1 non viene falsificato neppure dal caso in cui una sola persona, ad esempio il presidente della repubblica, possa avere un certo diritto. Anche in tal caso, infatti, il diritto ha sempre carattere di generalità, in quanto non discende dal presidente in quanto è lui, ma dal presidente in quanto riveste la carica di presidente. Va infine notato che il principio di generalizzabilità non va confuso con il principio di generalizzazione. Questo è normalmente inteso nel modo seguente: PG2: se è male che tutte le persone (di un determinato gruppo P) facciano F, allora a tutti (i P) è vietato fare F (in simboli: N(∀x(Px → Fx)) → ∀x(Px → V(Fx))) Il principio di generalizzazione è spesso usato per fondare determinati divieti. Per esempio, se tutti potessero impossessarsi di un bene senza pagarlo, ne scaturirebbe un danno grave per l’economia di una società. Dunque a nessuno è permesso di impossessarsi di un bene senza pagarlo. Il principio PG2 contiene un aspetto che lo lega, ancorché parzialmente, al principio PG1. Si tratta del fatto che il principio di generalizzazione sarebbe ingiustificato se non valesse anche il principio di generalizzabilità. Infatti, perché sarebbe sensato ritenere che, se è negativo che tutti facciano F, si deve vietare a tutti di fare F? La negatività della situazione in cui tutti fanno F potrebbe essere tolta, almeno in certi casi, se solo alcuni fanno F. Perché allora è giustificato estendere a tutti il divieto di fare F? L’unica giustificazione sta nel fatto che l’eventuale divieto deve essere generalizzato. Non ci sono ragioni per escludere qualcuno dal divieto se il divieto è riconosciuto per qualcuno. Argomentare in questo modo, significa, però, argomentare in base al principio di generalizzabiltà PG1. Da questa breve riflessione si possono trarre due conclusioni importanti. Innanzitutto, il principio di generalizzazione richiede ai fini della sua applicazione l’uso giustificato (nel contesto di quella applicazione) del principio di generalizzabilità. PG1 costituisce, cioè, una

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condizione necessaria per la giustificazione di PG2 anche se PG1 non implica da solo PG2. Tuttavia, PG2 implica PG1. Chi ritiene giustificato PG2 non può esimersi dall’accettare anche la validità di PG1. A. Corradini BIBL.: F. VON KUTSCHERA, Einführung in die Logik der Normen, Werte und Entscheidungen, Freiburg 1973; F. VON KUTSCHERA, Semantic Analyses of Some Normative Concepts, in «Erkenntnis», 9 (1975), pp. 195-218; F. VON KUTSCHERA, Das Humesche Gesetz, in «Grazer Philosophische Studien», 4 (1977), pp. 1-14; N.J. MOUTAFAKIS, The Logics of Preference, Dordrecht 1987; A. CORRADINI, Semantica della preferenza e decisione etica, Milano 1989; A. CORRADINI, Il ruolo della legge di Hume in alcune argomentazioni etiche, in S. GALVAN (a cura di), Forme di razionalità pratica, Milano 1992, pp. 131-152; C. FEHIGE - U.WESSELS (a cura di), Preferences, Berlin 1998; F. VON KUTSCHERA, Grundlagen der Ethik, Berlin 19992 (1982), tr. it. a cura di A. Corradini, Fondamenti dell’etica, Milano 1991.

LOGICA DELLA RILEVANZA. – La logica Logica della rilevanza della rilevanza, o logica rilevante (in inglese relevance logic o relevant logic), è un recente settore di ricerche logiche che si è posto l’obiettivo di formalizzare in modo adeguato le proprietà dell’implicazione. È evidente che, per la natura stessa dell’indagine logica, l’implicazione è un concetto centrale: scopo della logica è stabilire quando una conclusione è ricavata da premesse mediante un ragionamento corretto, ossia determinare le condizioni affinché una proposizione sia implicata da una o più proposizioni. I logici rilevantisti pongono l’accento sul fatto che, affinché una implicazione sia veramente tale, le premesse devono intervenire in modo effettivo per pervenire alla conclusione. SOMMARIO: I. I limiti del condizionale materiale. - II. L’obiettivo della logica rilevante. - III. Il sistema R. - IV. Il paradosso negativo, la regola del sillogismo disgiuntivo e considerazioni sulle derivazioni rilevanti. - V. Implicazione e logica modale. - VI. Considerazioni semantiche. - VII. Conclusione. I. I LIMITI DEL CONDIZIONALE MATERIALE. – Nella logica classica l’implicazione viene ricondotta al connettivo biargomentale del condizionale materiale →, mediante il quale si formalizzano le proposizioni del tipo «se a, allora b». Dato il carattere vero-funzionale (estensionale) dei connettivi della logica classica, il valore di verità della proposizione α → β dipende unicamente dai valori di verità dell’antecedente a e

Logica della rilevanza del conseguente b, e non dai loro contenuti (e quindi prescinde completamente dagli ambiti di riferimento delle due proposizioni). La tavola di verità del condizionale stabilisce che il condizionale α → β è falso quando a è vera e b è falsa, ed è vero negli altri tre casi (e quindi α → β equivale sia a ¬(α ∧ ¬β), sia a ¬α ∨ β, e risulta definibile a partire dagli altri connettivi). Questa caratterizzazione del condizionale materiale, pur rivelandosi adeguata per formalizzare le proposizioni matematiche della forma «se a, allora b» e i loro nessi inferenziali, appare una semplificazione eccessiva per trattare le implicazioni nella loro generalità, tenendo conto di caratteristiche che siamo soliti attribuire ad esse. Tra l’altro, è opportuno sottolineare come, concettualmente, un connettivo sia uno strumento per costruire proposizioni composte a partire da proposizioni più semplici, mentre l’implicazione, trattandosi di una «relazione» tra proposizioni, vada collocata in modo naturale al livello del metalinguaggio. Pertanto, leggere α → β come «a implica b» risulta di per sé una forzatura (forzatura che, in effetti, coinvolge anche i sistemi elaborati nell’ambito della logica rilevante). Appare più corretto far corrispondere l’implicazione al concetto metateorico di «derivabilità», ossia tradurre «a implica b» con «da a deriva b» ( α  β). Tuttavia, il teorema di deduzione, ossia α  β se e solo se  α → β (e che corrisponde alla regola di introduzione del condizionale nei calcoli classici della deduzione naturale), stabilisce il nesso fra la derivabilità e il condizionale materiale, e quindi α  β equivale proprio alla dimostrabilità del condizionale α → β. Il concetto di implicazione della logica classica è messo sotto accusa dai logici rilevantisti poiché valgono, accanto ad altre (tra cui ad esempio la tautologia (α → β) ∨ (β → α)), le due seguenti regole (o le equivalenti tautologie), dette paradossi dell’implicazione materiale: (a) α  β → α ( α → (β → α) è una tautologia) (b) ¬α  α → β ( ¬α → (α → β) è una tautologia) (a), detto paradosso positivo, significa che una proposizione vera è implicata da ogni proposizione; (b), detto paradosso negativo, che esprime la regola (legge) di Scoto (ex absurdo sequitur quodlibet), significa che una proposizione falsa implica qualsiasi proposizione. Essi seguono direttamente dalla scelta che si effettua quan6593

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Logica della rilevanza do si assume l’usuale tavola di verità del condizionale materiale. Rivolgiamo l’attenzione ad (a) (su (b), che coinvolge anche la negazione, torneremo più avanti). La sua paradossalità può essere evidenziata con un esempio: «Roma è la capitale d’Italia» implica sia «Se gli asini volano, allora Roma è la capitale d’Italia», sia «Se gli asini non volano, allora Roma è la capitale d’Italia». L’essere Roma capitale d’Italia segue da due proposizioni (tra l’altro in contraddizione fra loro) che non presentano alcun nesso con la proposizione implicata: l’antecedente e il conseguente sono relative ad ambiti diversi, senza alcun collegamento fra loro, e il primo non è rilevante per inferire il secondo. II. L’OBIETTIVO DELLA LOGICA RILEVANTE. – I molteplici sistemi della logica rilevante sono stati sviluppati con l’obiettivo di formalizzare l’implicazione in modo da evitare i paradossi dell’implicazione materiale: quando una proposizione è implicata da altre occorre che queste ultime intervengano effettivamente per stabilirla. L’attributo «rilevante» è in sintonia con il suo significato intuitivo: se si ottiene a da b senza che b rivesta alcun ruolo, allora b è «irrilevante» (superflua) ai fini della conclusione a (in generale, se per risolvere un problema un dato non viene utilizzato, tale dato è «irrilevante» ai fini della soluzione). Si tratta di calcoli logici in cui l’implicazione (che si continua a rappresentare col simbolo →) deve possedere proprietà diverse dal condizionale materiale e che rientrano quindi nelle logiche «alternative» alla logica classica. Essi sono stati intensivamente studiati a partire dai lavori di A.R. Anderson e N.D. Belnap degli anni settanta del secolo scorso e, attualmente, vengono inquadrati nel settore in ampio sviluppo delle logiche «substrutturali». Infatti, in essi si rifiuta una delle regole strutturali della logica classica, la regola di indebolimento, in base alla quale, se certe premesse implicano una conclusione, a maggior ragione quest’ultima è implicata da un numero più ampio di premesse. Se non è difficile raggiungere un accordo nel ritenere accettabili dal punto di vista rilevantista determinate leggi o regole di derivazione e rifiutabili altre, la necessità di impedire derivazioni perfettamente legittime in logica classica ha dato origine a un largo spettro di calcoli logici, accomunati dall’obiettivo di evitare i parados6594

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si del condizionale materiale. Il problema principale, in imprese di questo genere, è giustificare le strategie che si adottano: molti calcoli logici della rilevanza sono apparsi come soluzioni ad hoc di portata limitata, altri hanno fornito soluzioni solo parziali, altri ancora hanno sostanzialmente raggiunto i loro obiettivi, ma presentano difetti non facilmente superabili o hanno conseguenze indesiderate. Infatti, la massiccia mole di lavoro sintattico prodotto dai logici rilevantisti ha incontrato non pochi ostacoli sul piano della giustificazione semantica. Date la sottigliezza delle argomentazioni filosofiche e la sofisticazione tecnica di questo settore di ricerche logiche, presentiamo con qualche particolare uno dei calcoli logici più frequentemente citati, in modo da evidenziare le principali problematiche che emergono nella trattazione dell’implicazione rilevante. III. IL SISTEMA R. – Per assiomatizzare l’implicazione rilevante si cerca di mantenere le leggi e le regole del condizionale della logica classica che, a livello intuitivo, non sollevano problemi poiché le premesse intervengono esplicitamente per ottenere la conclusione. Nel sistema R → (il frammento implicazionale di R) si assumono i seguenti (schemi di) assiomi: (1) α → α (identità o autoimplicazione) (2)(α → β) → ((γ → α) → (γ → β)) (transitività prefissa) (3)(α → (α → β)) → (α → β) (contrazione o assorbimento) (4)(α → (β → γ)) → (β → (α → γ)) (permutazione) e la regola del modus ponens: α, α → β  β . Questo sistema, introdotto da A. Church già nel 1951, coincide con il frammento implicazionale della logica intuizionista salvo per il fatto che, in quest’ultimo, lo schema (1) è sostituito dallo schema α → (β → α), ossia dal paradosso positivo, il quale, come si è detto, va assolutamente escluso nei sistemi di logica rilevante. Lo schema (2) può essere sostituito da: (2’)(α → β) → ((β → γ) → (α → γ)) (transitività) Lo schema (3) può essere sostituito da: (3’)(α → (β → γ)) → ((α → β) → (α → γ)) (legge di Frege) Lo schema (4) può essere sostituito da: (4’) α → ((α → β) → β) (asserzione)

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Gli schemi (1) e (4) possono essere sostituiti da: (1”)((α → α) → β) → β (4”) α → ((α → α) → α) dai quali segue l’equivalenza di a e (α → α) → α. Tutti questi schemi, quindi, oltre ad essere principi della logica classica (tautologie), valgono in R, e sono assunti, in toto o in parte, in altri sistemi della logica rilevante. Il sistema R+ si ottiene da R → aggiungendo congiunzione e disgiunzione, i seguenti schemi di assiomi: α∧β → β (5) α ∧ β → α (eliminazione della congiunzione) (6)((α → β) ∧ (α → γ) → (α → β ∧ γ) (introduzione della congiunzione) β → α∨ β (7) α → α ∨ β (introduzione della disgiunzione) (8)((α → γ) ∧ (β → γ)) → (α ∨ β → γ) (eliminazione della disgiunzione) (9) α ∧ (β ∨ γ) → (α ∧ β) ∨ γ (distributività) e la regola di aggiunzione: α, β  α ∧ β . È importante osservare che, se invece della regola di aggiunzione, si assumesse lo schema α → (β → α ∧ β)), si riuscirebbe a derivare il paradosso positivo. Questa e altre stranezze, ad esempio relative alla distributività che non segue dagli altri assiomi come in logica classica, testimoniano le sottigliezze tecniche che si incontrano in questo settore di ricerche. Il sistema R si ottiene aggiungendo la negazione e i seguenti schemi: (10)(α → ¬β) → (β → ¬α) (contrapposizione) (11) ¬¬α → α (doppia negazione classica) Il sistema R è uno dei sistemi di riferimento della logica rilevante (esso riveste un ruolo centrale nei lavori di Anderson e Belnap) e ne sono state considerate numerose varianti, sia più deboli, sia più forti. Alcuni rilevantisti, tra cui A. Avron, accettano estensioni di R, altri, tra cui R. Brady, R. Sylvan, G. Priest, G. Restall, ne accettano solo sottosistemi; alcuni, tra cui R. Meyer e E. Martin, per escludere qualsiasi implicazione di natura circolare, arrivano a considerare sistemi così deboli da rifiutare persino la legge di identità α → α. Una caratteristica negativa di R è l’indecidibilità, mentre vari suoi sottosistemi o loro varianti sono risultati decidibili. IV. IL PARADOSSO NEGATIVO, LA REGOLA DEL SILLOGISMO DISGIUNTIVO E CONSIDERAZIONI SULLE DERIVAZIONI RILEVANTI. – Per quanto riguarda il paradosso negativo, una sua dimostrazione nel calcolo

Logica della rilevanza classico della deduzione naturale è, ad esempio, la seguente: 1. ¬α assunzione 2. α assunzione 3. α ∨ β intr. della disgiunzione (2) 4. β sillogismo disgiuntivo (1, 3) 5. α → β intr. del condizionale (2, 4) Per evitare di derivare il paradosso negativo, quasi tutti i rilevantisti hanno rinunciato alla regola del sillogismo disgiuntivo: ¬α, α ∨ β  β . Essa, per le leggi della doppia negazione (ritenute non problematiche dal punto di vista rilevantista), equivale alla regola, abitualmente indicata con (g) nella letteratura, α,¬α ∨ β  β , che, in logica classica, è equivalente al modus ponens. La necessità di dover rinunciare alle regole del sillogismo disgiuntivo e a (g) è stata da alcuni interpretata come un ostacolo insormontabile per lo sviluppo stesso delle logiche della rilevanza. Per inciso, il rifiuto del paradosso negativo accomuna le logiche della rilevanza alle logiche paraconsistenti (o paracoerenti), nei cui sistemi la presenza di contraddizioni non conduce alla derivazione di qualsiasi conclusione (contrariamente a quanto avviene invece in logica classica proprio per la validità della legge di Scoto). Numerose strategie sono state escogitate per caratterizzare le «deduzioni rilevanti». Già a partire dallo studio del sistema R, dei suoi sottosistemi e delle loro varianti, la rilevanza delle premesse viene spesso evidenziata con una indicizzazione mediante insiemi di numeri delle formule che compaiono nelle derivazioni, in modo da riuscire a tenere conto delle ipotesi realmente utilizzate e a bloccare alcune derivazioni indesiderate della logica classica. Ad esempio, da α, β  α non si deve ottenere α  β → α (il paradosso positivo) poiché la formula b è irrilevante per ottenere a (che è assunta come premessa). Occorre quindi riformulare la regola di introduzione dell’implicazione in modo che sia applicabile solo se l’antecedente è effettivamente rilevante nella derivazione del conseguente. Per dare almeno un’idea, la seguente derivazione del paradosso positivo (1) α{1} assunzione (2) β{2} assunzione (3) α{1} ripetizione dell’aassunzione (4) β → α intr. dell’implicazione a (2) e (3) (5) α → (β → α) viene dichiarata illegittima poiché al passo (4) l’indice di b non figura tra gli indici di a. In sin6595

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Logica della rilevanza tesi, dal punto di vista sintattico, i sistemi della logica della rilevanza si basano su accorgimenti tecnici in grado di evitare la derivabilità dei paradossi dell’implicazione materiale, e ciò comporta il rifiuto di principi e procedimenti della logica classica. Ad esempio, per R e analoghi sistemi della logica rilevante, è ritenuta fondamentale la seguente proprietà, detta di condivisione di variabili: se è derivabile α → β, allora a e b hanno almeno una lettera proposizionale in comune, la quale garantisce che il nesso fra antecedente e conseguente dipenda da una condivisione dei loro contenuti. Questa condizione, tuttavia, pur essendo necessaria, non si rivela sufficiente per evitare vari paradossi dell’implicazione. V. IMPLICAZIONE E LOGICA MODALE. – Lo sviluppo della logica rilevante si ricollega a quello delle logiche modali. Per individuare il nucleo essenziale delle proprietà della relazione di implicazione C.I. Lewis ha introdotto i sistemi S1-S5 dell’implicazione stretta (entailment), basati sull’idea che, per superare i limiti del condizionale materiale, occorra rafforzarlo mediante l’operatore di necessità: a implica strettamente (implicita) b se e solo se è necessario α → β. Se neanche i sistemi di Lewis si sono rivelati adeguati allo scopo di fornire una formalizzazione adeguata dell’implicazione (si evitano i paradossi dell’implicazione materiale, ma si presentano analoghi paradossi per l’implicazione stretta), l’idea di impiegare operatori modali nell’ambito della logica della rilevanza ha condotto Anderson e Belnap a sviluppare, parallelamente al sistema R, il sistema E (da entailment, termine spesso tradotto anche con «implicitazione») per costituire, per così dire, una controparte modale al sistema R. Dato che E, per risultare in sintonia con gli obiettivi della logica rilevante, deve possedere la struttura modale del sistema S4 di Lewis, in esso si rinuncia allo schema (4) di permutazione di R e lo si sostituisce con ((α → α) → β) → β. Se si arricchisce R definendo un opportuno operatore modale (necessaria a equivale a (α → α) → α), si trova che nel nuovo sistema, abitualmente indicato NR, l’implicazione stretta ha proprietà in parte diverse da quelle del sistema E. Vi sono quindi almeno due assiomatizzazioni rilevanti dell’implicazione stretta in parziale conflitto tra loro. Molti logici rilevantisti, comunque, sono disposti ad accettare solo sottosistemi di R o di E. 6596

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VI. CONSIDERAZIONI SEMANTICHE. – Il problema principale dei diversi sistemi di logica rilevante è individuare adeguate semantiche in grado di non far apparire espedienti ad hoc le varie strategie adottate per evitare i paradossi dell’implicazione materiale e giustificare le scelte fra i molteplici calcoli che rispettano la rilevanza delle ipotesi nello sviluppo delle derivazioni. Interessanti risultati sono stati ottenuti da A. Urquhart, K. Fine, M. Dunn e altri con la considerazione di opportune strutture algebriche (semireticoli, monoidi di De Morgan). D’altra parte, come è noto, le semantiche algebriche, nonostante consentano quasi sempre di ottenere teoremi di correttezza e completezza, quasi sempre non sono in grado di fornire un «autentico» significato ai calcoli logici, vale a dire un significato indipendente dalla sintassi dei calcoli stessi. Alcune semantiche non algebriche proposte dai rilevantisti, adeguate per sottosistemi di R, impiegano più valori di verità; altre, sfruttando i legami con le logiche modali, hanno cercato di adattare alle logiche rilevanti la semantica dei mondi possibili di Kripke. In particolare, A. Urquhart, R. Routley, R.K. Meyer hanno proposto una variante della semantica di Kripke in cui, al posto dell’abituale relazione binaria di accessibilità, che si rivela insufficiente per interpretare i calcoli della logica rilevante, si assume una relazione ternaria R che consente maggiore libertà di azione. Nella semantica di Routley e Meyer si assume che α → β è vera in un mondo u se e solo se in tutti i mondi v e w tali che Ruvw o a è falsa in v o b è vera in w. Imponendo condizioni su R si rendono valide (o non valide) formule o regole di inferenza. Ad esempio, se si impone che, per ogni u, Ruuu, allora, se a e α → β sono vere in un mondo, lo è anche b. Così la legge α → ((α → β) → β) è valida se, per ogni u, v, w, se Ruvw allora Rvuw. In tal modo si riescono a individuare semantiche adeguate a vari sistemi della logica rilevante, tra cui lo stesso R. Il problema diviene quello di trovare «significati» plausibili per la relazione ternaria, analoghi a quelli individuati per la relazione binaria della usuale semantica di Kripke per le logiche modali. In una interpretazione di Dunn i mondi sono concepiti come «stati di informazione», i quali si possono fondere tra loro, e Ruvw si legge «la fusione degli stati di informazione u e v (che può non coincidere con l’unione insiemistica) è contenuto nello stato di informazione w». In un’altra interpre-

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tazione, di Barwise e Restall, i mondi sono concepiti come «siti» o «canali di informazione» e Ruvw si legge «u è il canale di informazione tra i siti v e w» (in tal caso si assume che α → β è vera in un mondo u se e solo se, ogni volta che u connette un sito v in cui vale a con un sito w, allora b è vera in w). Altre due interpretazioni, una legata sempre alla teoria dell’informazione e l’altra che concepisce i mondi come «situazioni», sono state recentemente proposte da E.D. Mares. In ogni caso, la relazione ternaria non è risultata adeguata a evitare alcuni paradossi della rilevanza, tra cui ad esempio α ∧ ¬α → β e α → β ∨ ¬β. Per trovare semantiche adeguate per la negazione si è fatto ricorso a mondi «non bivalenti», a mondi «incoerenti» e ad analoghi espedienti già impiegati per altre logiche (ad esempio le logiche paraconsistenti). VII. CONCLUSIONE. – A partire dai lavori di Anderson e Belnap la tradizione rilevantista si è consolidata dal punto di vista tecnico, ha prodotto una gran mole di risultati metateorici, ha applicazioni di notevole portata sia in matematica, sia in filosofia, sia, soprattutto, in computer science. Alcuni problemi delle inferenze sono stati risolti in modo soddisfacente e si sono chiariti vari aspetti di cosa deve intendersi per «deduzione rilevante». Le difficoltà che si sono incontrate, soprattutto sul versante semantico, non hanno impedito la ricerca di nuove interpretazioni, e le potenzialità delle semantiche alla Kripke con relazione ternaria di accessibilità e con mondi incoerenti o incompleti non si sono affatto esaurite (in alcune molto recenti si considerano relazioni ternarie che coinvolgono sia mondi che formule). Le logiche rilevanti hanno collegamenti, oltre che con le logiche modali, con vari settori dell’ampio spettro delle recenti indagini logiche (sono state elaborate, ad esempio, logiche deontiche rilevanti e logiche epistemiche rilevanti). Dato che ogni logica tratta inferenze e sviluppa derivazioni, il punto di vista rilevantista può essere adottato nei più diversi contesti. Il progetto originario di chiarificazione dell’attività inferenziale è nella sostanza condiviso con un altro settore dell’indagine logica, quello della logica condizionale, nel quale si sono ottenuti e si stanno ottenendo numerosi risultati relativi alla formalizzazione delle proposizioni del tipo «se a, allora b», in particolare per quanto riguarda la trattazione dei «condizionali controfattuali» (proposizioni condi-

Logica della rilevanza zionali con antecedente falso). I sistemi di logica condizionale hanno interpretazioni in varianti della semantica di Kripke che, per quanto non prive di problemi, sono più naturali di quelle finora proposte per i sistemi della logica rilevante. Interessanti prospettive di ricerca provengono dall’interazione di questi due settori dell’indagine logica. Ad esempio, alcuni recenti sistemi di logica rilevante consentono una trattazione dei condizionali controfattuali in grado di superare alcuni paradossi che sono risultati difficili da evitare nell’ambito della logica condizionale. Altri risultati sono collegati allo sviluppo di teorie formali per la matematica il cui apparato deduttivo sia un sistema di logica rilevante. Ad esempio, è stata dimostrata la coerenza di sistemi formali per l’aritmetica con apparato deduttivo R (in essi si dimostra costruttivamente che 0=1 non è un teorema). Concludiamo con una considerazione di carattere generale. Molto spesso si dimostra un teorema con una certa ipotesi e, in seguito, si riesce a ottenere la tesi a partire da un’ipotesi più debole. Ad esempio, Gödel ha dimostrato nel 1931 l’incompletezza sintattica dei sistemi formali sufficientemente potenti dell’aritmetica assumendo l’ipotesi della loro w-coerenza (teorema di Gödel). Successivamente, nel 1936, Rosser è pervenuto allo stesso risultato impiegando la più debole ipotesi della coerenza del sistema formale. Chi si sente di affermare che la dimostrazione del teorema da parte di Gödel sia lacunosa dal punto di vista inferenziale poiché in essa si sfrutta un’ipotesi rivelatasi in seguito non rilevante? Nella concreta ricerca scientifica non possono imporsi posizioni integraliste: l’atteggiamento rilevantista (al pari, ad esempio, di quello costruttivista) è utile e consente di ottenere significativi risultati, ma non può pretendere di essere l’unico in grado di legittimare i procedimenti che si adottano nell’ampio spettro dell’attività inferenziale. D. Palladino BIBL.: A.R. ANDERSON - N.D. BELNAP, Entailment: the Logic of Relevance and Necessity, vol. I, Princeton (New Jersey) 1975; M.R. DIAZ, Topics in the Logic of Relevance, München 1981; R. ROUTLEY - R.K. MEYER V. PLUMWOOD - R. BRADY, Relevant Logics and Their Rivals, vol. I: The Basic Philosophical and Semantical Theory, Atascardero (California) 1983; vol. II: A Continuation of the Work of Richard Sylvan, Robert Meyer, Val Plumwood and Ross Brady, Aldershot

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Logica del secondo ordine 2003; J.M. DUNN, Relevance Logic and Entailment, in D. GABBAY - F. GUENTHNER (a cura di), Handbook of Philosophical Locic, vol. III: Aternatives to Classical Logic, Dordrecht 1986, pp. 117-124; C. PIZZI, Dalla logica della rilevanza alla logica condizionale, Roma 1987; J. NORMAN - R. SYLVAN (a cura di), Directions in Relevant Logic, Dordrecht 1989; A.R. ANDERSON - N.D. BELNAP - J.M. DUNN, Entailment: the Logic of Relevance and Necessity, vol. II, Princeton (New Jersey) 1992; G. RESTALL, An Introduction to Substructural Logics, London 2000; G. PRIEST, An Introduction to Non-Classical Logic, Cambridge 2001; E.D. MARES, Relevant Logic: a Philosophical Interpretation, Cambridge 2004; F. RIVENC, Introduction à la logique pertinente, Paris 2005. ➨

GÖDEL, TEOREMI DI; LOGICA CONDIZIONALE; LOGICA INTUIZIONISTICA; LOGICA LINEARE; LOGICA MODALE; LOGICA PARACONSISTENTE; LOGICA PROPOSIZIONALE.

LOGICA SECONDO Logica delDEL secondo ordineORDINE (E DI ORDINI SUPERIORI). – Nella semantica classica della teoria dei modelli per i linguaggi formali, ogni interpretazione contiene una classe (normalmente non vuota), chiamata dominio del discorso e una funzione che assegna estensioni appropriate ai termini non logici del linguaggio: un membro del dominio viene assegnato a ogni costante individuale, un sottoinsieme del dominio a ogni predicato monadico ecc. Il dominio è l’universo oggettuale delle ordinarie variabili del primo ordine. È ciò cui si riferisce l’interpretazione. Un linguaggio formale è del secondo ordine se contiene variabili che stanno per relazioni, proprietà, classi o funzioni degli oggetti del dominio. Un linguaggio è del terzo ordine se contiene anche variabili che stanno per relazioni, proprietà, classi o funzioni relative agli elementi del dominio delle variabili del secondo ordine. E si può continuare, verso il quarto ordine, quinto ordine ecc. Tutti questi linguaggi sono chiamati di ordine superiore. Con l’introduzione di funzioni e relazioni complesse, non è appropriato usare i numeri ordinali per indicare l’ordine di un linguaggio. Per esempio, un linguaggio può contenere variabili per funzioni da proprietà sul dominio di discorso a relazioni di funzioni sul dominio di discorso. È consuetudine utilizzare lettere minuscole della fine dell’alfabeto latino, con o senza indice numerico sottoscritto, per variabili del primo ordine. Le variabili del secondo ordine sono lettere maiuscole, con o senza indice numerico sottoscritto, appartenenti alla fine 6598

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dell’alfabeto, segnate da un apice che indica il numero dei posti della variabile. Così per esempio, X1 è una variabile predicativa monadica (a un posto), X2 è una variabile relazionale binaria (a due posti) ecc. Le variabili funzionali sono lettere minuscole prese a metà dell’alfabeto, f, g, h, con indici che indicano il numero dei posti. Le altre variabili di ordine superiore devono essere segnate in qualche modo per indicare il loro «ordine» e il numero del tipo di oggetti cui si applicano. In questa sede ci concentreremo solo sui sistemi al secondo ordine. Le regole di formazione per la nuova terminologia sono molto chiare. Per la parte al secondo ordine, le nuove clausole sono: Se Xn è una variabile relazionale a n posti, ƒ n è una variabile funzionale a n posti e t1...tn sono termini, allora Xn t1...tn è una formula (atomica) e ƒ nt1...tn è un termine. Se Φ è una formula ben formata, Xn è una variabile relazionale a n posti e ƒ n è una variabile funzionale a n posti, allora ∀X n Φ, ∃X n Φ , ∀ƒ n Φ e ∃ƒ n Φ sono formule. Una logica consiste in un linguaggio formale insieme con un sistema deduttivo e/o una semantica basata sulla teoria dei modelli. Evidentemente la logica del secondo ordine è la logica che sta alla base dei linguaggi del secondo ordine; la logica del terzo ordine è alla base dei linguaggi del terzo ordine ecc. La logica dei linguaggi di ordini superiori dipende, naturalmente, dai possibili domini degli elementi a cui si riferiscono le variabili di ordine superiore e questo dipende dal tipo di tali elementi. Si tratta di classi, proprietà, funzioni in intensione, funzioni in estensione? I vari sistemi deduttivi e le varie semantiche basate sulla teoria dei modelli corrispondono a differenti approcci a queste possibilità. I sistemi deduttivi per linguaggi di ordine superiore contengono regole di inferenza analoghe a quelle per i quantificatori al primo ordine. Ciò non è, presumibilmente, in discussione. Se abbiamo quantificatori, di qualsiasi livello, questi dovrebbero ubbidire alle regole usuali. In un sistema di deduzione naturale, le regole di introduzione e di eliminazione per il quantificatore universale per variabili predicative monadiche (o classi) dovrebbero essere: da ∀X1Φ(X1) si può inferire Φ(T), dove T è o una variabile predicativa monadica libera per X1 in Φ, o una costante predicativa monadica non logica;

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Logica del secondo ordine

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da Ψ si può inferire ∀X1Ψ, sotto la condizione che X1 non occorra libera in nessuna delle premesse non scaricate. La maggior parte dei sistemi deduttivi per linguaggi del secondo ordine includono anche uno schema d’assioma di comprensione:

∃X n∀x1...∀x n ( X n x1...x n ≡ Φ ) esemplificato per ogni formula Φ che non contiene la variabile relazionale Xn libera. L’idea in questo caso è che ogni formula determina una proprietà o una relazione. Supponiamo, per esempio, che Φ possieda solo x1 e x2 libere. Allora, in una data interpretazione, la relazione binaria corrispondente vale di tutte e sole le coppie di oggetti u, v nel dominio tali che Φ è vero della coppia u, v. Ci sono esempi dello schema di comprensione nei quali la formula Φ contiene variabili libere diverse da quelle vincolate dai quantificatori iniziali. Allora la formula determina una relazione a n posti per ogni valore di questi «parametri». Supponiamo per esempio che Φ abbia tre variabili libere x1, x2, y. Allora, in una data interpretazione, per ogni oggetto u nel dominio, c’è una relazione binaria che vale di tutte e sole le coppie di oggetti v1, v2 tali che Φ è vero di v1, v2, u. In termini metafisici, l’inclusione di tutti gli esempi dello schema di comprensione rappresenta una concezione «ricca» delle relazioni (e delle classi). La tesi è che ogni modo di specificare una condizione rappresenta una relazione. Supponiamo, per esempio, che in una interpretazione, un predicato non logico F sia vero di tutte e sole le dita della mia mano sinistra e un altro predicato W sia vero solo della Casa Bianca. Pertanto l’assioma di comprensione esemplificato dalla proprietà Fx ∨ Wx genererebbe la proprietà (o la classe) di «essere-o-un-dito-della-mia-mano-sinistra-o-laCasa-Bianca». I metafisici che preferiscono un approccio più parsimonioso a proprietà e relazioni restringeranno lo schema di comprensione a formule più «naturali». Ci sono anche esempi dello schema di comprensione nei quali la formula Φ possiede variabili vincolate di ordine superiore. Tali casi impredicativi risultano problematici per quanti pensano che ogni istanza dell’assioma di comprensione debba in qualche modo costruire o creare la relazione indicata. Prima facie, non si può costruire una relazione riferendosi a un enunciato che si riferisce a tutte le relazioni,

dal momento che il raggio d’azione del quantificatore in esso occorrente includerà la relazione così costruita. Per un realista, d’altro canto, ogni esempio dello schema di comprensione descrive, o si riferisce, a una relazione (o classe) già esistente. Per lui non c’è quindi problema nel descrivere una relazione dicendo qualcosa riguardo a tutte le relazioni, esattamente come non c’è problema nel definire «lo scemo del villaggio» come «la persona più stupida del villaggio». Un altro elemento a volte incluso nei sistemi deduttivi è qualche forma di assioma di scelta. La seguente è la versione a un posto:

∀X2 ( ∀x∃yX2 xy → ∃ƒ 1∀xX2 x ƒ 1 x ) L’antecedente del condizionale asserisce che per ogni oggetto x c’è almeno un y tale che la coppia x, y soddisfa la relazione binaria X2. Il conseguente asserisce l’esistenza di una funzione che «sceglie» un tale y per ogni x. Benché l’assioma di scelta sia essenziale per una gran parte della matematica, alcuni matematici e filosofi nutrono ancora dubbi su di esso. Forse non dovrebbe essere incluso come un principio della logica. Se un dato linguaggio contiene variabili funzionali e il suo sistema deduttivo non include l’assioma di scelta, allora dovrebbe contenere un assioma di comprensione per funzioni. Eccone un esempio monadico:

(

)

∀X2 ∀x∃y∀z ( X2 xz ≡ y = z ) → ∃ƒ 1∀xX2 x ƒ 1 x L’antecedente del condizionale interno asserisce che per ogni oggetto x c’è un unico y tale che la coppia x, y soddisfa X2. Il conseguente asserisce l’esistenza di una funzione che «sceglie» un tale y per ogni x. Presumo che se si accettano in generale le funzioni, allora non dovrebbe esserci nulla di problematico in questo caso. Come notato precedentemente, un’interpretazione di un linguaggio formale contiene un dominio di discorso e una funzione di interpretazione che assegna estensioni ai termini non logici. Nella classica teoria dei modelli per linguaggi del primo ordine, le interpretazioni non contengono altre componenti, poiché non c’è nient’altro da interpretare. La nozione centrale in teoria dei modelli è quella di verità in un’interpretazione, e cioè una relazione che sussiste tra interpretazioni e formule che non hanno variabili libere, normalmente chiamate «enunciati». Tuttavia, dal momento che la definizio6599

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Logica del secondo ordine ne procede per recursione sulla complessità delle formule, è più conveniente estendere la nozione fino a includere le formule aperte. Ciò è possibile fornendo una procedura che assegna (provvisoriamente) le denotazioni alle variabili libere del primo ordine, considerandole, così, come costanti individuali. Definiamo un assegnamento di variabili (del primo ordine) una funzione che assegna un elemento del dominio a ogni variabile del primo ordine. Si definisce, quindi, una relazione di soddisfacibilità tra interpretazioni, formule e assegnamenti di variabili. Un enunciato è vero in un’interpretazione se è soddisfatto da ogni assegnamento di variabili in quella interpretazione. Un’esposizione più dettagliata è disponibile in ogni manuale di logica dei predicati. Le nozioni semantiche centrali possono essere definite in termini di soddisfacibilità. Un insieme Γ di formule è soddisfacibile se esistono un’interpretazione ℑ e un assegnamento di variabili s in ℑ tali che ogni membro di Γ è soddisfatto da ℑ sotto s. Una formula Φ è una conseguenza logica di un insieme Γ di formule, scritto Γ  Φ, se per ogni interpretazione ℑ e assegnamento s in ℑ; se ogni elemento di Γ è soddisfatto da ℑ sotto s, allora Φ è soddisfatto da ℑ sotto s. Questa definizione si accorda con l’intuizione comune che la validità di un’argomentazione preserva la verità. Se ci concentriamo sugli enunciati, avremo che Γ  Φ quando non è possibile che ogni elemento di Γ sia vero e Φ falso. Un semplice procedimento induttivo mostra che i comuni sistemi deduttivi sono corretti: per ogni insieme Γ di formule e ogni formula Φ, se esiste una derivazione di Φ le cui assunzioni non scaricate sono tutte presenti in Γ, allora Φ è una conseguenza logica di Γ. La correttezza è essenziale per ogni logica deduttiva, dal momento che le regole di inferenza devono preservare la verità. Nel 1930, Kurt Gödel stabilì l’inverso della correttezza e cioè che i comuni sistemi deduttivi di logica del primo ordine sono completi: se Γ  Φ, allora c’è una derivazione di Φ le cui assunzioni non scaricate sono tutte in Γ. Equivalentemente, se Γ è un insieme consistente di formule, allora Γ è soddisfacibile. Anche in questo caso ci si può riferire a un manuale per i dettagli. La completezza è, naturalmente, una proprietà desiderabile per una sistema di logica, ma non è essenziale. Se una logica non è completa allora ci sono argomenti validi, che 6600

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preservano la verità, che non possono essere derivati nel sistema deduttivo. Una semantica della teoria dei modelli per i linguaggi del secondo ordine deve fornire l’interpretazione delle variabili e dei quantificatori del secondo ordine, e cioè i soli elementi che non si trovano nei corrispettivi sistemi del primo ordine. È di primaria importanza, dunque, stabilire un dominio per le variabili del secondo ordine. Normalmente le variabili del secondo ordine si riferiscono a insiemi costruiti con elementi appartenenti al dominio di discorso: variabili per proprietà monadiche stanno per insiemi di elementi del dominio; variabili per relazioni binarie si riferiscono a insiemi di coppie ordinate di elementi del dominio ecc. Se il dominio inteso delle variabili consiste di elementi intensionali come proprietà, relazioni, funzioni proposizionali, piuttosto che classi, allora la teoria dei modelli si concentra sulle estensioni di tali oggetti. La questione se gli elementi nel dominio delle variabili del secondo ordine abbiano un carattere estensionale o intensionale non è cruciale se il linguaggio non contiene una relazione di identità tra elementi nel dominio delle variabili del secondo ordine (in modo tale che formule come X2 = Y2 non risultino ben formate) e se il linguaggio non contiene operatori per atteggiamenti proposizionali, come gli operatori della credenza e del sapere o gli operatori modali. È ragionevole iniziare a occuparsi di logica con variabili estensionali di ordine superiore, se non altro per semplicità. Chiarito questo, il punto fondamentale è determinare l’estensione del dominio dei quantificatori del secondo ordine. Adottando una semantica standard, in ogni interpretazione, le variabili predicative monadiche variano sull’intero insieme potenza del dominio di discorso, le variabili relazionali binarie variano sull’insieme di tutti gli insiemi di coppie ordinate di elementi del dominio, le variabili funzionali a un posto sull’insieme di tutte le funzioni da dominio a dominio ecc. Pertanto nella semantica standard un’interpretazione corrisponde esattamente a un’interpretazione di un linguaggio del primo ordine, e presenta, pertanto, un dominio di discorso e una funzione di interpretazione che assegna estensioni ai termini non logici. Dal momento che il dominio fissa da solo l’estensione delle variabili del secondo ordine, non vi sono altri elementi da interpretare.

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Secondo la semantica standard, un assegnamento di variabili è una funzione che assegna un elemento del dominio a ogni variabile del primo ordine, un sottoinsieme del dominio a ogni variabile predicativa monadica, un insieme di coppie ordinate di elementi del dominio a ogni variabile relazionale binaria, una funzione dal dominio su se stesso per ogni variabile funzionale a un posto ecc. Siano ℑ un’interpretazione e s un assegnamento di variabili. Di seguito ecco le nuove clausole per la definizione di soddisfacibilità: Se Xn è una variabile relazionale e t1...tn sono termini, allora ℑ soddisfa Xn t1...tn sotto s se e solo se la n-upla che costituisce la denotazione di t1...tn è nell’insieme che s assegna a Xn. Se χ è una variabile relazionale o funzionale, allora ℑ soddisfa ∀χΦ sotto s se e solo se ℑ soddisfa Φ sotto ogni assegnamento s’ che coincide con s rispetto a ogni variabile eccetto eventualmente χ. Se χ è una variabile relazionale o funzionale, allora ℑ soddisfa ∃χΦ sotto s se e solo se c’è un assegnamento di variabili s’ che coincide con s rispetto a ogni variabile eccetto eventualmente χ, tale che ℑ soddisfa Φ. Le nozioni semantiche principali sono quindi definite come precedentemente: un insieme Γ di formule è soddisfacibile in modo standard se c’è un’interpretazione standard ℑ e un assegnamento di variabili s in ℑ tale che ogni membro di Γ è soddisfatto da ℑ sotto s. Una formula Φ è una conseguenza logica standard di un insieme Γ di formule, in simboli Γ S Φ, se per ogni interpretazione standard ℑ e assegnamento s in ℑ, se ogni membro di Γ è soddisfatto da ℑ sotto s, allora Φ è soddisfatto da ℑ sotto s. È molto semplice verificare che la logica del secondo ordine è corretta rispetto alla semantica standard: se una formula Φ può essere derivata da un insieme Γ di formule, allora Φ è una conseguenza logica standard di Γ. Tuttavia, la logica del secondo ordine standard è intrinsecamente incompleta, nel senso che non c’è un sistema deduttivo effettivo che sia completo. Questo è un corollario del teorema di incompletezza dell’aritmetica di Gödel. Nel più importante sistema alternativo alla semantica standard, ideato da Leon Henkin, ogni interpretazione specifica un dominio di discorso, come il dominio delle variabili del primo ordine, e come dominio separato per ogni variabile del secondo ordine. Una inter-

Logica del secondo ordine pretazione di Henkin consiste in un dominio di discorso e in una funzione di interpretazione per la terminologia non logica, come in precedenza. In aggiunta, ogni interpretazione contiene una coppia di sequenze D, F. Per ogni numero naturale positivo n, D(n) è un insieme (non vuoto) di insiemi di n-uple di membri del dominio, F(n) è un insieme non vuoto di funzioni a n-posti dal dominio su se stesso. In questa interpretazione, D(n) è il dominio delle variabili relazionali a n posti e F(n) è il dominio delle variabili funzionali a n posti. Secondo un’interpretazione di Henkin, un assegnamento di variabili per un linguaggio del secondo ordine è una funzione che assegna un elemento del dominio a ogni variabile del primo ordine, un elemento di D(n) a ogni variabile relazionale a n posti, e un membro di F(n) a ogni variabile funzionale a n posti. Come in precedenza, il passaggio successivo consiste nella definizione della relazione di soddisfacibilità, tra interpretazioni di Henkin, formule e assegnamenti di variabili in quelle interpretazioni. Le nuove clausole sono identiche a quelle fornite per la semantica standard. L’unica differenza rilevante è che le espressioni quantificate come «ogni assegnamento di variabili s’» sono ristretti a assegnamenti di variabili sulla data interpretazione di Henkin. Un insieme Γ di formule è detto Henkin-soddisfacibile se c’è una Henkin-interpretazione ℑ e un assegnamento di variabili s in ℑ tale che ogni membro di Γ è soddisfatto da ℑ sotto s. Una formula Φ è una Henkin-conseguenza logica di un insieme Γ di formule, in simboli Γ H Φ, se per ogni Henkin-interpretazione ℑ e assegnamento s in ℑ, se ogni membro di Γ è soddisfatto da ℑ sotto s, allora Φ è soddisfatto da ℑ sotto s. I comuni sistemi deduttivi non sono corretti per la semantica di Henkin, dal momento che vi sono Henkin interpretazioni che non soddisfano alcune istanze dello schema di comprensione (e dell’assioma di scelta). Consideriamo, per esempio, una interpretazione di Henkin nella quale D(1) contiene solo insiemi non vuoti. Questa interpretazione non soddisfa la seguente istanza dello schema di comprensione: ∃X∀x(Xx ≡ x ≠ x) In effetti, questa formula asserisce l’esistenza di una proprietà (o classe) vuota, ma l’interpretazione data non esibisce tale insieme. 6601

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Logica deontica Definiamo una interpretazione di Henkin fedele se soddisfa ogni esempio dello schema di comprensione e l’assioma di scelta. I comuni sistemi deduttivi per la logica del secondo ordine sono corretti rispetto alle interpretazioni di Henkin fedeli: se una formula Φ può essere derivata da un insieme Γ di formule, allora, se ogni membro di Γ è soddisfatto da una data interpretazione di Henkin fedele sotto un certo assegnamento di variabili, allora Φ è soddisfatto da quella interpretazione sotto quell’assegnamento. Inoltre, la semantica di Henkin è completa: se Φ è soddisfatta da ogni interpretazione di Henkin fedele per ogni assegnamento che soddisfa tutti gli elementi di Γ, allora Φ può essere derivato a partire da Γ in un comune sistema deduttivo di logica del secondo ordine. Equivalentemente, se Γ è consistente, allora esiste una Henkin interpretazione fedele che soddisfa ogni membro di Γ. In aggiunta, se Φ è soddisfatta da ogni Henkin interpretazione (fedele o meno) che soddisfa ogni membro di Γ, allora Φ può essere dedotta da Γ senza utilizzare l’assioma di comprensione o scelta. Bisogna notare che i linguaggi formali, da soli, non determinano la loro semantica. Non c’è alcuna ragione a priori che giustifichi il fatto che le lettere maiuscole vengano interpretate su relazioni o classi. Infine, una terza opzione è considerare il linguaggio del secondo ordine come un linguaggio del primo ordine con due tipi distinti di variabili. Questo equivale a considerare la relazione di «predicazione» (o di appartenenza) tra «oggetti» e «relazioni» come non logica. Il risultato è equivalente alla semantica di Henkin (vedi Shapiro, Foundations without Foundationalism: a Case for Second-Order Logic, Oxford 1991, cap. 3). Pertanto la caratteristica fondamentale della semantica standard non è rintracciabile nel fatto che le variabili predicative monadiche, per esempio, si riferiscano a insiemi (o proprietà), ma che esse varino su tutti i sottoinsiemi del dominio. Questo requisito implica un approccio alle proprietà e relazioni di gran lunga più «inflazionista» di quello che è normalmente richiesto perchè ogni esempio dello schema di comprensione sia valido. La semantica standard presuppone, così, che l’operazione di insieme potenza sia del tutto determinata. Per alcuni filosofi, tutto ciò riguarda la teoria degli insiemi e pertanto essi non considerano la logica del secondo ordine logica. L’argomento è 6602

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piuttosto interessante e può essere approfondito grazie alle indicazioni bibliografiche seguenti. S. Shapiro BIBL.: S. SHAPIRO, Foundations without Foundationalism: a Case for Second-Order Logic, Oxford 1991 (una trattazione completa sulla logica di ordine superiore); S. SHAPIRO, Do not Claim too much: SecondOrder Logic and First-Order Logic, in «Philosophia Matematica» 7 (1999) (una risposta alle critiche a Shapiro [1991]); S. SHAPIRO, Higher-order logic, in «Handbook of the Philosophy of Mathematics and Logic», Oxford 2005, pp. 751-780 (una trattazione dell’argomento più compatta e aggiornata).

LOGICA DEONTICA (deontic logic; deontische Logica deontica Logik; logique déontique; lógica deóntica). – SOMMARIO: 1. Logica delle verità deontiche. - 2. Logica degli enunciati deontici. - 3. Logica della validità deontica. La logica deontica o deontica (deontics, Deontik, déontique, deóntica), è la logica del deontico. Ambo i nomi («logica deontica», «deontica») derivano da «to; devon» («il dovere», «il doveroso», «l’obbligatorio»). La logica del deontico si articola in tre logiche, ognuna connotata da una domanda originaria (Urfrage): (i) logica delle verità deontiche; (ii) logica degli enunciati deontici; (iii) logica della validità deontica. 1. Logica delle verità deontiche. – 1.1. Domanda: Vi sono formule deontiche (deontic formulas) le quali siano logicamente vere (logically true) in virtú della intensione (del senso) dei termini deontici ricorrenti in esse? - 1.2. Una risposta, affermativa, appare in Georg Henrik von Wright: verità logiche specificamente deontiche vi sono; la loro logica è la deontic logic. 2. Logica degli enunciati deontici. – 2.1. Domanda: Sono possibili relazioni di implicitazione (entailment) tra enunciati deontici (deontic sentences)? - 2.2. La risposta è, necessariamente, negativa, se affermiamo che relazioni di implicitazione (entailment-relationships) siano possibili solo tra enunciati apofantici (ossia tra enunciati veri-o-falsi), e se neghiamo che gli enunciati deontici siano apofantici. 3. Logica della validità deontica. – 3.1. Domanda: Sono possibili relazioni di implicitazione (entailment-relationships) a livello di validità deontica? - 3.2. La risposta è, necessariamente, negativa, se la validità deontica è intesa come esistenza (come «esistenza specifica [spezifische Existenz] d’una norma»). L’esistenza è logicamente inerte. La logica della validità deontica si

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inscrive nella filosofia della validità, o axiotica (axiotics, Axiotik, axiotique). L’axiotica è la filosofia della validità; l’axiologia è la filosofia del valore. A.G. Conte BIBL.: J. JORGENSEN, Imperativer og Logik, in «Theoria», 4 (1938), pp. 183-190; G.H. VON WRIGHT, Deontic Logic, in «Mind», 60 (1951), pp. 1-15; J. KALINOWSKI, Teoria normatywnych zdan, in «Studia Logica», 1 (1953), pp. 147-182; P. DI LUCIA, Deontica in von Wright, Milano 1992; A.G. CONTE, Three Levels of Deontics, in R. EGIDI (a cura di), In Search of a New Humanism. The Philosophy of Georg Henrik von Wright, Dordrecht 1999, pp. 205-214; G. LORINI, Il valore logico delle norme, Bari 2003. ➨ APOFANTICITÀ; AXIOLOGIA; ESISTENZA; LOGICA MODALE PROPOSIZIONALE; NORMA; ONTOLOGIA; SEMANTICA; VALIDITÀ; VALORE; VERITÀ.

LOGICA DEONTICA. – SOMMARIO: I. PremesLogica deontica sa. - II. Sistemi di logica deontica: 1. Sistemi deontici puri. - 2. Sistemi aletici di logica deontica. 3. Sistemi misti di logica deontica. - III. Logica deontica e legge di Hume: 1. Proposizioni ontiche e proposizioni deontiche. - 2. Formulazioni della legge di Hume. - IV. Linguaggio intenzionale e inferenza pratica. I. PREMESSA. – La logica deontica è una particolare logica intensionale. Essa studia il linguaggio delle proposizioni caratterizzate dagli operatori deontici e le leggi che regolano i rapporti tra di esse. Gli operatori deontici sono tipici dei linguaggi normativi e sono riconducibili a espressioni come «È obbligatorio che», «È permesso che», «È vietato che». Ci sono parecchi sistemi di logica deontica, che si possono distinguere in tre categorie: i sistemi deontici puri, i sistemi aletici e i sistemi misti di logica deontica. Una ulteriore distinzione, trasversale alla precedente, è data dal fatto che i sistemi possono presentare una struttura linguistica monadica o diadica. Nel primo caso i sistemi sono formulati in un linguaggio contraddistinto da un operatore logico a un solo posto, ossia tale da esprimere (in forma primitiva) solo obblighi non condizionati. Nel secondo il linguaggio è contraddistinto da un operatore d’obbligo a due posti, di cui uno esprime il contenuto dell’obbligo e l’altro la condizione della sua istituzione, ed è capace, pertanto, di esprimere (in forma primitiva) anche obblighi condizionati. Nel seguito ci occuperemo solo di sistemi monadici. La voce si articola in tre parti. Inizieremo con la distinzione

Logica deontica in sistemi deontici puri, sistemi aletici e sistemi misti di logica deontica. Quindi passeremo all’esposizione di due applicazioni filosoficamente importanti della logica deontica. In primo luogo tratteremo il tema della dimostrazione, entro il contesto di opportuni sistemi di logica deontica, della legge di Hume dichiarante la inderivabilità di proposizioni prescrittive da proposizioni descrittive. In secondo luogo forniremo le basi linguistiche (intenzionali) dell’inferenza pratica. II. SISTEMI DI LOGICA DEONTICA. – 1. Sistemi deontici puri. – Si tratta di un gruppo particolare di sistemi modali. Il loro linguaggio è costituito da tutte le formule costruibili induttivamente a partire dalle lettere proposizionali, attraverso i connettivi proposizionali ¬, ∧, ∨, → e l’operatore deontico della obbligatorietà O. Il risultato dell’applicazione alla formula α dell’operatore O, vale a dire Oα, si dice obbligazione di α. L’operatore del permesso è introdotto definitoriamente attraverso la definizione Pα =def . ¬O¬α. La loro base assiomatica comune è il sistema O-K. Questo è costituito dalle regole del calcolo proposizionale classico più la regola di necessitazione deontica O-N seguente: Xα O–N: O(X)  Oα (ove con O(X) si designa l’insieme delle obbligazioni di tutte le formule appartenenti a X). Ciascuno dei sistemi deontici si ottiene combinando in modo opportuno la base comune con qualcuno degli assiomi seguenti: O-D: Oα → Pα; O-4: Oα → OOα; O-5: Pα → OPα. Così, O-KD = O-K + O-D; O-KD4 = O-KD + O-4; O-KD45 = O-KD4 + O-5. Tali sistemi sono detti sistemi deontici puri, in quanto hanno a che fare solo con modalità deontiche. La semantica dei sistemi deontici puri si basa sulla nozione di struttura (o frame) deontica. Una struttura deontica è una coppia costituita da un insieme W di mondi possibili (u, v, w,...) e dalla relazione di accessibilità deontica R, che relaziona elementi di W a elementi di W. Se vale uRv, ciò significa che il mondo v è una alternativa deontica di u. La nozione di modello deontico risulta dalla struttura più una funzione di interpretazione I. La definizione di formula vera, rispetto al modello , è induttiva e ricalca la definizione di formula vera della semantica proposizionale non modale. La clausola nuova 6603

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Logica deontica concerne solo la definizione di obbligazione vera. Si dice che il modello rende vera la formula Oα nel mondo u se e solo se α è vera in tutti i mondi che sono alternative deontiche di u; in simboli: u Oα ⇔ (∀v)(uRv ⇒ v α) Gli elementi di semantica introdotti fino a questo punto sono comuni a tutti i sistemi deontici puri. Tuttavia è inevitabile che la semantica di un sistema si differenzi da quella degli altri. Da cosa dipende la differenza? La differenza è data dalle proprietà formali della relazione di alternatività deontica R. Sono molte le proprietà formali della relazione R rilevanti in tal senso. R è, innanzitutto, caratterizzata dalla proprietà di serialità per la semantica di O-KD e quindi per quella di tutti i sistemi sopra menzionati (che sono estensione di O-KD). La relazione R di una struttura deontica è seriale se e solo se, dato un mondo qualsiasi u della struttura, esiste un mondo v della stessa struttura accessibile a partire da u (in simboli: (∀u)(∃v)(uRv)). In altre parole, la relazione R di una struttura deontica è seriale se non esiste alcun mondo terminale della struttura, vale a dire nessun mondo da cui non sia possibile, per così dire, uscire. La R delle strutture per O-KD4 è, in più, caratterizzata dalla proprietà di transitività. Che R sia transitiva significa che, per ogni mondo u, v, w, se uRv e vRw a l l o r a uRw (i n si mbo l i: (∀u)(∀v)(∀w)(uRv et vRw ⇒ uRw)). I n f i n e , l a presenza in O-KD5 dell’assioma 5 richiede che la relazione R sia euclidea (oltre che seriale), il che significa che, per ogni mondo u, v, w, se uRv e uRw allora vRw (in simboli: (∀u)(∀v)(∀w)(uRv et uRw ⇒ vRw)) . N a t u r a l mente, nella semantica di O-KD45 la relazione di accessibilità sarà seriale, transitiva ed euclidea. A questo punto possiamo procedere con l’analisi dei modelli dei singoli sistemi deontici tenendo conto a un tempo delle loro proprietà formali e della specifica interpretazione deontica della relazione R. Ciò consentirà di comprenderne a fondo il significato e la rilevanza filosofica. Abbiamo visto che i modelli di O-KD sono tutti basati su strutture di mondi con R seriale. Dire che R è seriale significa affermare che a ogni mondo corrisponde almeno una sua alternativa deontica. Dato poi che l’assioma O-D è presente in ciascun sistema del gruppo deontico, l’associazione di almeno una alternativa deontica a ogni elemento della 6604

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struttura è una nota costante di tutti i modelli deontici. Questa non è una semplice coincidenza ma corrisponde a un preciso elemento costitutivo della obbligatorietà. In realtà, porre il dover essere di qualcosa significa postulare almeno una situazione alternativa a quella attuale in cui ciò che deve essere sia; significa richiedere che si dia almeno un mondo in cui sia realizzato quanto nel mondo di partenza è richiesto come dovuto. Niente vieta naturalmente che le situazioni alternative siano molteplici. Ci possono essere molteplici aspetti, irrilevanti ai fini della realizzazione del dovuto, a causa dei quali l’alternativa deontica si può configurare in maniera diversa. Così la molteplicità delle alternative è una semplice conseguenza del fatto che in un mondo ci sono anche aspetti deonticamente irrilevanti. In secondo luogo, niente vieta che un mondo sia alternativa deontica di se stesso. Questo accade nei casi in cui ciò che in quel mondo è dovuto è anche realizzato. Tuttavia questo non è il caso normale. La distinzione di principio tra essere e dover essere sta appunto nel fatto che ciò che è dovuto non è necessariamente realizzato, pena la riduzione della normatività deontica (obbligo deontico) con la normatività aletica (necessità modale, sia essa di tipo fisico che metafisico). Affermare, per esempio, che il rispetto è dovuto alla persona non significa affermare che non si danno persone che non siano rispettate; vuol dire soltanto che, se la persona è trattata secondo la sua dignità (ossia in conformità con un modello di persona coincidente con la sua realizzazione) allora (e solo allora) la persona è necessariamente rispettata. In altre parole il dover essere di qualcosa rimane perfettamente valido anche se di fatto è sempre violato; ciò che di fatto accade non è mai una prova decisiva contro ciò che dovrebbe deonticamente accadere. È questo il motivo per il quale i sistemi deontici non contengono né come assioma né come teorema il corrispettivo del principio modale ˆα → α, l’assioma T caratterizzante la nozione di normatività aletica. Dalla serialità della relazione di alternatività R segue, in terzo luogo, che ci sono alternative deontiche anche del le alternati ve. Quest’ultime, infatti, sono mondi altrettanto quanto i mondi di cui sono alternative. Perché non dovrebbero, di conseguenza, essere portatrici esse stesse di uno specifico standard di obblighi? Ma se sono tali, ci dovranno

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essere anche alternative deontiche per le alternative e così via indefinitamente. La diversità dei modelli dei vari sistemi deontici dipende dal modo con cui le alternative deontiche di un mondo postulato come iniziale sono relate tra di loro e con le rispettive alternative di ciascuna di esse. In conformità a quanto sopra si è detto a proposito della serialità, O-KD fornisce modelli strutturati schematicamente secondo una struttura segmentaria: le alternative deontiche di un mondo iniziale sono perfette rispetto agli obblighi presenti nel mondo di cui sono alternative. A loro volta, tuttavia, queste alternative deontiche non sono necessariamente perfette rispetto ai loro standards di obblighi e questi possono essere diversi dallo standard di obblighi del mondo di partenza. Per questo anch’esse avranno le rispettive alternative, di cui ognuna è perfetta solo rispetto al mondo di cui sono immediatamente alternative. In conclusione la serialità della relazione di accessibilità deontica è alla base della natura segmentaria (il modello è divisibile in segmenti) e non cumulativa (non c’è conservatività degli obblighi nel passaggio da mondo ad alternativa, ad alternativa di alternativa...) dei modelli di O-KD. A ogni alternativa deontica si instaura, per così dire, un nuovo progetto pratico (morale o di altro tipo). Si tratta più di un accostamento di diversi progetti pratici (segmento separato da segmento) che del disegno unitario di un unico progetto. È questo il motivo per il quale O-KD è detto sistema (normale) deontico minimale. In esso viene a espressione più la natura astratta della idealità deontica e della distinzione tra essere e dover essere che la struttura articolata di un progetto pratico ordinato alla realizzazione di un fine attraverso tappe intermedie. Quest’ultimo aspetto si può cogliere, invece, nella struttura cumulativa dei modelli di O-KD4. È noto, infatti, che l’assioma O-4 rende la relazione R transitiva. Ciò implica che nelle alternative delle alternative siano realizzati non solo tutti gli obblighi delle alternative ma pure quelli del mondo iniziale. Dunque gli standards degli obblighi delle alternative deontiche sono uguali o più comprensivi rispetto allo standard di partenza, di modo che la successione delle alternative deontiche (mondo iniziale, alternative deontiche del mondo iniziale, alternative delle alternative...) di un modello di O-KD4 presenta una struttura non segmentaria, ma

Logica deontica conservativa degli obblighi (e della positività che la loro soddisfazione comporta). Ne risulta che le interpretazioni più interessanti della semantica di O-KD4 sono costituite da modelli in cui, in primo luogo, gli obblighi tipici di ogni alternativa sono soddisfatti nelle rispettive alternative successive e, in secondo, ogni alternativa deontica presenta obblighi aggiuntivi rispetto a quelli delle alternative precedenti nell’ordine di successione. Tali modelli sono chiaramente significativi anche dal punto di vista pratico: i loro mondi corrispondono alle tappe intermedie della realizzazione di un progetto, nella costruzione del quale si procede solo gradualmente ponendo, a ogni tappa, nuovi obblighi in aggiunta a quelli già posti nelle situazioni precedenti. Così interpretato il sistema O-KD4 è molto appropriato per esprimere l’idea della tensione di un progetto morale che si realizza, a partire da u, attraverso vari stadi che sono le tappe intermedie di approssimazione allo stadio finale. O-KD4 non è però in grado di dare ragione di un fenomeno abbastanza normale nell’ambito pratico. Nella progettualità morale si verifica di norma un raffinamento degli obblighi caratterizzati, all’inizio, da una certa drasticità. Di essi, quindi, si dovrebbe prevedere la caduta parziale o almeno la trasformazione in obblighi più circostanziati. Immaginiamo, ad esempio, che a un bambino si insegni a non mentire mai in nessuna circostanza e che il soggetto, diventato adulto, si trovi di fronte all’obbligo di mentire a un malato grave. In questo caso, il primo obbligo dovrebbe cadere. Ebbene, il sistema deontico in questione, poiché prevede la cumulatività degli obblighi, non è in grado di ammettere all’interno dei suoi modelli tale eventualità. La caduta di certi obblighi si può avere solo in modelli meno rigidi come in quelli di O-KD. Ma cosa succede se al sistema KD4 si aggiunge l’assioma 5 oppure se al posto di 4 si mette l’assioma 5? Consideriamo prima il sistema O-KD5, poi O-KD45. Senza entrare nei dettagli, possiamo dire che nei modelli di O-KD5 solo i permessi sono conservati lungo tutta la rete delle alternative deontiche, mentre nel passaggio dal mondo iniziale alle alternative (e dalle alternative alle alternative delle alternative) ci può essere caduta di certi obblighi. I modelli di O-KD5 manifestano, dunque, una natura non segmentaria e conservativa solo nei confronti dei permessi. Non si è forse lontani dal vero se si dice che i modelli di 6605

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Logica deontica O-KD5 rappresentano il momento della posizione di un progetto pratico provvisoriamente impegnativo e il momento finale di realizzazione di tale progetto, momento in cui certi obblighi, prima ritenuti essenziali, si lasciano cadere e si mantengono, come naturale, solo i permessi. Che cosa succede, invece, nel passaggio da OKD5 a O-KD45? La relazione di alternatività acquisisce anche la proprietà della transitività. Ciò implica la caduta della caratteristica sopra evidenziata nei modelli di O-KD5 secondo la quale lo standard delle alternative può essere diverso dallo standard del mondo iniziale. Per la transitività, infatti, non si danno alternative delle alternative che non siano anche alternative del mondo iniziale. Per questo, le alternative deontiche dei modelli di O-KD45 contengono lo stesso standard di obblighi e tale standard coincide con quello iniziale. Nei modelli di O-KD45 non si dà incremento né decremento degli obblighi e neppure dei permessi. I modelli di O-KD45 manifestano così una natura chiaramente non segmentaria e conservativa nei confronti di obblighi e di permessi. La natura non segmentaria dipende dal fatto che il modello è costituito da un unico segmento: quello costituito dal mondo iniziale e dall’intera rete delle alternative. Quella conservativa dal fatto che il contenuto deontico (obblighi e permessi) delle alternative coincide con quello del mondo iniziale. Riassumendo in uno schema sintetico le caratteristiche generali dei modelli dei vari sistemi deontici si ha:

2. Sistemi aletici di logica deontica. – In questo paragrafo ci proponiamo di trattare alcuni sistemi aletici di logica deontica e, precisamente, KQ, K4Q, K5Q, K45Q e KT5Q. Tra questi particolare attenzione sarà dedicata al sistema KQ, che, costituendo la base comune di tutti 6606

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gli altri, svolge una funzione paradigmatica anche in ordine alla presentazione della parte sintattica e semantica dei rimanenti. Particolare attenzione sarà poi rivolta all’analisi delle capacità deduttive ed espressive di tutti i sistemi in oggetto, il che si farà, in questo paragrafo, studiandone il rapporto con i corrispettivi sistemi deontici. Nel paragrafo successivo saranno studiati anche alcuni rapporti con i sistemi misti. a) Sistema KQ. Sia K il sistema di logica modale normale minimale (logica proposizionale + regola di necessitazione). Ora, l’alfabeto di KQ coincide con l’alfabeto di K più la costante proposizionale (detta costante di idealizzazione o proeretica) Q. Tra le formule appartenenti al linguaggio di KQ sono da annoverare, oltre quelle appartenenti al linguaggio di K, anche tutte le formule costruibili a partire da Q nella sua qualità di specifica costante proposizionale. Sono introdotte, poi, le seguenti definizioni: Oα =def . ˆ(Q → α) e Pα =def . ¬O¬α. Le regole di KQ sono quelle usuali di K più l’assioma AQ: ◊Q. È da notare, infine, che in base alle definizioni precedenti e alle regole di KQ vale: KQ Pα ↔ ¬ˆ(Q → ¬α) da def. di P e O KQ Pα ↔ ◊(Q ∧ α) per logica La semantica di KQ è una estensione della semantica di K. Infatti i modelli per KQ, detti perciò anche b-modelli, hanno la forma di una quadrupla , ove la struttura, sulla quale è basato il modello, è e non . La struttura è una estensione di caratterizzata dal nuovo elemento b. Per questo essa è detta anche b-struttura. L’elemento b denota un sottoinsieme di W, costituito dai mondi di W che si possono considerare buoni (o perfetti), in base a qualche ordine assiologico. La relazione di accessibilità R è concepita come una relazione b-seriale, ossia tale che, dato un mondo qualsiasi, esiste almeno un mondo buono ad esso accessibile (formalmente: (∀u)(∃v)(uRv et v ∈ b) . Ciò implica che b non è vuoto. Si noti la differenza con la semantica dei sistemi puri. Là la relazione R è concepita come una relazione deontica (la relazione di alternatività deontica). Qui la relazione R è una relazione di accessibilità aletica. La componente deontica grava totalmente sull’insieme b dei mondi buoni. L’introduzione dell’elemento b consente di definire, in modo del tutto naturale, il concetto di verità per formule contenenti la costante pro-

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Logica deontica

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

posizionale Q. A tale scopo, infatti, basta aggiungere alla clausola base della definizione di formula vera per K la nuova clausola: u Q ⇔ u ∈ b. Con essa si viene a conferire a Q la funzione di denotare lo stato assiologico di perfezione, che caratterizza ogni mondo buono di W. Il significato attribuito alla costante Q è, poi, alla base della definizione di verità di una formula d’obbligo. u Oα def. O ⇔ u ˆ(Q → α)

⇔ (∀v)(uRv ⇒ v Q → α)

def. 

⇔ (∀v)(uRv ⇒ ( v Q ⇒ v α))

def. 

⇔ (∀v)(uRv et v Q ⇒ v α)

logica

⇔ (∀v)(uRv et v ∈ b ⇒ v α) def.  Dunque, la verità dell’obbligo Oa nel mondo u è equivalente al fatto che tutti i mondi accessibili a partire da u e buoni contengono a. Non è necessario che a sia vera in tutti i mondi accessibili da u (ciò farebbe coincidere la nozione di obbligo con quella di necessità). Essa deve essere vera però in tutti i mondi accessibili che sono considerati buoni, ossia in quelli che oltre ad essere accessibili sono appartenenti a b. A questo punto si può proseguire subito con l’enunciazione e la dimostrazione dei teoremi di correttezza e di completezza per KQ. Naturalmente, a tal fine è necessaria la nozione di conseguenza logica adatta al sistema KQ. La definizione di conseguenza logica per KQ è tuttavia ottenibile per estensione dalle corrispondenti definizioni della semantica modale. La differenza è data dal fatto che al posto di c’è sempre . La nozione di conseguenza logica per KQ sarà, perciò, quella di conseguenza logica nelle strutture con R b-seriale. Non potendoci impegnare in questa sede a fornire una dimostrazione esplicita di entrambi i teoremi, ci limitiamo alla parte specifica del teorema di correttezza. Mostreremo la correttezza dell’assioma Q. A questo fine, assumiamo che R sia b-seriale. Occorre dimostrare che, per un mondo u qualsiasi di un qualsiasi b-modello , vale u ◊Q.

Dimostrazione: u ◊Q Ipotesi per assurdo u ˆ¬Q def.  e ◊ (∀v)(uRv ⇒ v Q) def.  (¬∃v)(uRv et v Q) logica (¬∃v)(uRv et v ∈ b) def.  (∃v)(uRv et v ∈ b) b-serialità di R u ◊Q refutazione b) Sistemi K4Q, K5Q, KT5Q. Il linguaggio di tutti i sistemi in esame è identico a quello di KQ. Per quanto riguarda la parte assiomatica, i sistemi K4Q, K5Q e KT5Q si ottengono da KQ aggiungendo quali ulteriori assiomi rispettivamente gli assiomi 4, 5, T e 5. Anche il loro apparato semantico si ottiene per estensione di quello di KQ con le sole varianti richieste dalla presenza degli assiomi specifici. Così, oltre ad essere in generale b-seriale, la R dei modelli di K4Q è transitiva, la R dei modelli di K5Q è euclidea, la R dei modelli di KT5Q è riflessiva ed euclidea (ovvero è una relazione d’equivalenza). Infine, neppure le dimostrazioni di correttezza e completezza offrono difficoltà. Esse sono ottenibili dalle rispettive dimostrazioni di correttezza e completezza per i sistemi K4, K5, KT5 e KQ. In base a questi teoremi, alle sequenze derivabili rispettivamente in K4Q, K5Q e KT5Q corrispondono esattamente le conseguenze logiche in tutte le strutture con R b-seriale e transitiva, con R b-seriale ed euclidea e con R b-seriale, riflessiva ed euclidea. c) Equivalenza tra i sistemi deontici puri e i sistemi aletici di logica deontica. Tra i sistemi deontici puri O-KD, O-KD4, O-KD5 e O-KD45 e i sistemi aletici di logica deontica KQ, K4Q, K5Q e KT5Q esiste un rapporto di equivalenza modulo la seguente funzione di traduzione f delle formule deontiche dei sistemi deontici puri nel linguaggio dei sistemi aletici: φp ≡ p; φ(¬α) ≡ ¬φα; φ(α • β) ≡ φα • φβ (ove • sta per un qualsiasi connettivo biargomentale); φ(Oα) ≡ ˆ(Q → φα) . Ciò significa, ad esempio, che non esiste nessuna formula dimostrabile in O-KD, la cui traduzione nel linguaggio di KQ non sia dimostrabile già in KQ. Viceversa, tutte le formule, che sono la traduzione nel linguaggio di KQ di formule di O-KD e che sono dimostrabili in KQ, sono dimostrabili, nel linguaggio deontico, anche in O-KD. In breve si dice che il frammento deontico di KQ coincide con O-KD. Ebbene, un risultato analogo di equivalenza rispetto alla medesima funzione di traduzione, vale tra le estensioni di KQ e 6607

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Logica deontica le rispettive estensioni di O-KD. Precisamente, O-KD4 coincide con il frammento deontico di K4Q, O-KD5 coincide con il frammento deontico di K5Q e O-KD45 coincide con il frammento deontico di KT5Q. 3. Sistemi misti di logica deontica. – I sistemi deontici misti sono caratterizzati da un linguaggio in cui, accanto all’operatore d’obbligo (presente in qualità di segno primitivo), occorrono (sempre in qualità di segni primitivi) anche altri operatori intensionali, e da un opportuno insieme di regole e assiomi aventi la funzione di regolare l’uso di tutti gli operatori che figurano nel linguaggio. I sistemi misti di logica deontica si possono differenziare sia per il tipo di operatori intensionali diversi da quelli deontici che figurano nel linguaggio, sia per gli assiomi e regole che ne determinano l’uso. Si possono così avere sistemi in cui, accanto all’operatore d’obbligo O, figurano operatori modali di tipo aletico o d’altro tipo (per esempio epistemico) e sistemi, dell’una e dell’altra specie, caratterizzati esclusivamente da assiomi e regole specifici per ciascun tipo di operatore o da questi più altri (detti principi-ponte), che servono a stabilire la connessione tra parte modale non deontica del sistema e relativa parte deontica. Nel seguito noi siamo interessati a presentare solo due sistemi misti: uno con linguaggio proposizionale (monadico) in ˆ e O (ossia provvisto di operatori modali aletici e deontici) senza principi-ponte e uno dotato di principi-ponte. Nell’ultima sezione, riguardante il linguaggio pratico e l’inferenza pratica, saremo interessati anche a linguaggi provvisti di operatori aletici, deontici ed epistemici. a) Sistema misto senza principi-ponte KT5-OKD45. Esempio paradigmatico di sistema misto senza principi-ponte è il sistema KT5-OKD45. L’alfabeto del sistema contiene tra i segni primitivi sia ˆ che O, i quali non risultano pertanto interdefinibili. Le formule del linguaggio sono tutte le formule costruibili induttivamente a partire da tali segni. La base assiomatica è data dalla congiunzione delle basi assiomatiche rispettivamente di KT5 e di O-KD45. Un modello per KT5-O-KD45 è costituito da una quadrupla , ove R e S sono due relazioni diverse definite ambedue su W e tali che R è riflessiva ed euclidea, mentre S è seriale, transitiva ed euclidea. Si noti che mentre R svolge la funzione di relazione d’accessibilità, S svolge quella d’alternatività 6608

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

deontica. Chiaramente il sistema KT5-O-KD45 è corretto e completo rispetto al concetto di conseguenza logica basato sulla nozione di modello presentato. Le prove seguono da quelle rispettive per KT5 e O-KD45. b) Sistema misto con principi-ponte KT5-O-KDOˆO -ˆO (in breve K-ˆO ). Il sistema misto KT5-O-KD- OˆO -ˆO (in breve K-ˆO ) è costituito dal sistema modale KT5 più il sistema deontico O-KD più i principi-ponte OˆO e ˆO . Contrariamente a quanto può sembrare a prima vista si tratta di un calcolo misto molto potente anche per la parte deontica. Infatti in esso gli assiomi O-4 e O-5 sono derivabili come teoremi; inoltre vi sono dimostrabili molti principi-ponte tra cui in particolare O◊: ad O-4 Oα  ˆOα Oα  OOα

da OˆO per ˆO

ad O-5 O¬α  ˆO¬α ◊O¬α  ◊ˆO¬α ◊ˆO¬α  ˆO¬α ◊O¬α  ˆO¬α ◊O¬α  O¬α Pα  ˆPα Pα  OPα

da OˆO logica da A5 logica per T logica e def.ni P e ◊ per ˆO

ad O◊ : ˆ¬α  O¬α Pα  ◊α Oα  Pα Oα  ◊α

da ˆO logica e def.ni P e ◊ da O-D logica.

K-ˆO è dunque il sistema misto che unisce in sé tutta la forza di KT5, di O-KD45 e dei tre principi-ponte seguenti: O◊ (assioma kantiano), ˆO (assioma di Hintikka), OˆO (assioma di necessitazione dell’obbligo). Esso è perciò particolarmente importante nella trattazione formale della tesi di Hume di cui si parlerà nella prossima sezione. Inoltre l’interesse per KˆO è legato al fatto sorprendente che, mentre O-KD45 è equivalente al frammento deontico di KT5Q, K-ˆO ne contiene esattamente, oltre al frammento deontico, la parte eccedente modale e mista. KT5Q risulta, infatti, equivalente a K-ˆO rispetto alla seguente funzione di traduzione dal linguaggio di K- ˆO (linguaggio di un sistema misto) a quello di KT5Q (linguaggio di un sistema aletico): Φp ≡ p ;

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Logica deontica

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Φ(¬α) ≡ ¬Φα; Φ(α • β) ≡ Φα • Φβ (ove • sta per un qualsiasi connettivo biargomentale); Φ(Oα) ≡ ˆ(Q → Φα); Φ(ˆα) ≡ ˆΦα. In conclusione i rapporti tra i principali sistemi di logica deontica si possono riassumere nella seguente tabella: Sistemi deontici O-KD O-KD4 O-KD5 O-KD45

Sistemi aletici KQ K4Q K5Q KT5Q

Sistemi misti

KT5O-KD-

-

III. LOGICA DEONTICA E LEGGE DI HUME. – Come è noto, informalmente la tesi di Hume (o legge di Hume) dichiara che nessuna proposizione prescrittiva può essere derivata da un insieme di proposizioni puramente descrittive. Tale legge sancisce, dunque, la divisione tra il piano del dover essere e il piano dell’essere. Così formulata, tuttavia, la legge è generica e, fino a quando rimane tale, non può essere sottoposta a controllo e giudicata valida o non valida. La logica deontica fornisce gli strumenti essenziali per proporre formulazioni sufficientemente rigorose della legge e avanzarne la relativa dimostrazione, per quanto limitata all’uso di specifici sistemi. In questa sede non ci è possibile entrare nei dettagli di ogni singola formulazione e dimostrazione relativa. Ci limitiamo alla analisi del concetto di proposizione descrittiva come proposizione aletica (non modale o modale) e a quello di proposizione prescrittiva come proposizione deontica. Quindi forniremo due formulazioni della legge e le linee essenziali della loro dimostrazione. Per ulteriori approfondimenti si veda S. Galvan, Logiche intensionali. Sistemi proposizionali di logica modale, deontica, epistemica, Milano 1991; Id., Tesi di Hume e sistemi di logica deontica, in «Epistemologia», 11 (1988), pp. 183-210; G. Schurz, The Is-Ought Problem. An Investigation in Philosophical Logic, Dordrecht-BostonLondon 1997. 1. Proposizioni ontiche e proposizioni deontiche. – La formulazione della legge di Hume presuppone la definizione rigorosa di proposizione descrittiva e di proposizione prescrittiva. I linguaggi della logica deontica ci offrono la possibilità di fare questo. Sia dato il linguaggio

dei sistemi deontici misti o quello dei sistemi aletici di logica deontica. Allora si definisce proposizione descrittiva una formula ONN o, più strettamente, una formula ON. Una formula ONN (formula ontica non modale, ovvero aletica non modale) è una formula non contenente alcun operatore deontico e nessun operatore modale ontico. Formula ON (formula ontica, ovvero aletica) è invece una formula non contenente nessun operatore deontico (nel linguaggio aletico di logica deontica nessuna occorrenza della costante Q), ma aperta a contenere operatori modali ontici. Proposizioni prescrittive sono formule DON (formule deontiche). L’insieme delle formule DON (formule deontiche) è introdotto induttivamente. Base: sono formule deontiche gli obblighi elementari. Sono obblighi elementari tutte le obbligazioni delle formule ON. Passo: se a è DON allora anche Oa è DON. Se a è DON allora anche ¬α è DON. Se a è DON allora anche ˆα è DON. Se a e b sono DON allora anche α • β è DON (ove • sta per un qualsiasi connettivo proposizionale). È importante notare che gli insiemi ON e DON non coprono esaustivamente tutte le formule del linguaggio dei sistemi misti. Non sono comprese le formule miste, ovvero quelle formule che contengono una parte deontica ma che non sono a loro volta formule deontiche. Date le definizioni di formula aletica e di formula deontica appena introdotte, possiamo presentare due formulazioni significative della legge di Hume. La prima versione è valida per tutti i sistemi da noi presi in considerazione in questo scritto. Tuttavia tale versione è valida solo sotto la condizione che le formule da cui la legge dichiara l’inderivabilità di formule deontiche siano formule ONN. Tale formulazione non si impegna a escludere l’inderivabilità di formule deontiche da formule ON in generale. La seconda formulazione riguarda invece proprio tale caso. Il vantaggio conseguente alla generalizzazione del risultato (che si ottiene indebolendo le condizioni di partenza), è comunque compensato dal limite che si deve imporre al tipo di formule deontiche che la legge dichiara inderivabili. Si tratta solo di obblighi elementari. Nel seguito presentiamo l’enunciato della prima versione senza dimostrarlo. La seconda versione sarà dimostrata entro il contesto del sistema misto KT5-O-KD-OˆO-ˆO . 6609

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Logica deontica 2. Formulazioni della legge di Hume. Prima formulazione della legge di Hume: a sia una formula DON, X sia un insieme consistente (rispetto al calcolo proposizionale classico) di formule ONN, C sia uno qualsiasi dei calcoli O-KD, O-KD4, O-KD5, O-KD45. Allora: C α ⇒ X C α L’enunciato dichiara che non esiste nessun insieme di formule aletiche non modali capace di generare una formula deontica che non sia a sua volta una tesi logica. Tale formulazione si può, naturalmente, estendere alla serie dei sistemi aletici di logica deontica KQ, K4Q, K5Q, KT5Q. Questi sono infatti equivalenti ai primi rispetto al corrispondente frammento deontico. Seconda formulazione della legge di Hume: b sia una formula ON, X sia un insieme consistente (rispetto al calcolo KT5) di formule ONN, K-ˆO sia il sistema misto KT5-O-KD-OˆO-ˆO . Allora: X K -ˆO Oβ ⇒ K KT5 ˆβ . Si notino le differenze rispetto alla prima formulazione. Innanzitutto, l’insieme delle formule X è costituito da formule ontiche qualsiasi, dunque anche da formule modalizzate. Questo fatto rafforza notevolmente la tesi di inderivabilità, in quanto da essa risulta che neppure «fatti modali», più complessi dei semplici fatti aletici non modali, consentono di derivare proposizioni prescrittive. Il rafforzamento più significativo, tuttavia, è costituito dalla complessità e potenza del sistema KˆO . K-ˆO coincide, infatti, con il sistema KT5-O-KD-OˆO-ˆO , il quale è a sua volta equivalente al sistema aletico KT5Q, il sistema aletico più forte. In K-ˆO valgono non solo gli assiomi deontici O-4 e O-5, ma i principi-ponte (tra modalità ontiche e modalità deontiche) fondamentali: l’assioma hintikkiano ˆO , l’assioma kantiano O◊ e il principio di necessitazione degli obblighi OˆO . Ora, la presenza di tali principi tra le regole deduttive di K-ˆO è un elemento di estrema rilevanza per controllare la portata della legge di Hume. La circostanza che la legge valga nell’ambito di un sistema logico che prevede una serie di principiponte, costituisce una prova evidente del suo essere profondamente radicata nei contesti di ordine normativo e del suo essere un caposal6610

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do della logica che presiede ai rapporti tra essere e dover essere. E questo, anche se la forza della seconda formulazione è in parte attutita dal fatto che essa asserisce l’inderivabilità non di una formula deontica qualsiasi, ma solo di obblighi elementari. Dimostrazione: Sia per ipotesi (H) X K -ˆO Oβ. Occorre dimostrare X KT5 ˆβ. Assumiamo per assurdo che X KT5 ˆβ(Ha). Allora, per il teorema di caratterizzazione per KT5, esiste una struttura per KT5 (cioè, con R riflessiva ed euclidea), esiste una interpretazione I, esiste un mondo u appartenente a W, tali che u X e u ˆβ . Si rammenti, a questo punto, che le strutture per sistemi misti come KˆO sono caratterizzate da due relazioni di accessibilità, la relazione di accessibilità aletica R e quella di accessibilità deontica S. La prima soddisfa le condizioni di riflessività e di euclidicità, la seconda le condizioni di serialità, d’inclusione e di transitività mista. Chiariamo a questo punto il significato delle due condizioni ultime. Le altre sono state già introdotte. Che R e S soddisfino congiuntamente la condizione di inclusione significa che le alternative deontiche di un qualsiasi mondo sono accessibili a partire da esso (formalmente: (∀u)(∀v)(uSv ⇒ uRv) ). Che R e S soddisfino congiuntamente la condizione di transitività mista significa che sono tali da consentire l’accesso alle alternative deontiche di un mondo a partire da un qualsiasi mondo dal quale il primo è accessibile (formalmente: (∀u)(∀v)(∀w)(uRv et vSw ⇒ uSw)). Ebbene, si ponga S = R, ove R è la relazione di accessibilità del modello già introdotto per KT5. Si ottiene il modello per K-ˆO . Si tratta chiaramente di modello per K-ˆO , perché sono soddisfatte tutte le condizioni per R e per S. In particolare valgono le condizioni di inclusione e di transitività mista. Pertanto per il teorema di caratterizzazione di K-ˆO (ovvero di KT5Q) da H segue: per ogni per KˆO , per ogni I, per ogni u, u X ⇒ u Ob. Ora, da u X segue per coincidenza rispetto alla parte aletica u X. Pertanto u Ob. Ma, allora, data la coincidenza di S con R, si ha anche u ˆβ e, quindi, di nuovo per coincidenza rispetto alla parte aletica di con , u ˆβ . Questo contrasta, tuttavia, con la conseguenza imme-

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diata di Ha. In conclusione, per refutazione dell’ipotesi per assurdo, si ha la tesi X KT5 ˆβ. È da notare che il risultato appena ottenuto si può generalizzare, nel senso che esso vale anche per il caso dei permessi elementari. IV. LINGUAGGIO INTENZIONALE E INFERENZA PRATICA. – Gli operatori intenzionali (o pratici) sono strettamente collegati con quelli deontici. Sono operatori intenzionali, ad esempio, «x vuole» (operatore del volere) o «x intende». Gli operatori del secondo tipo sono meno forti del primo, nel senso che essi rappresentano atteggiamenti intenzionali meno determinati. Nel seguito, per ragioni di brevità e di importanza ci occuperemo solo dell’operatore di volontà. L’operatore di volontà presenta una struttura analoga a quella degli operatori epistemici. L’espressione «x vuole che p» diventa V(x,p), ove V è chiaramente un operatore biargomentale con primo argomento costituito dal soggetto di volizione e con secondo costituito dal contenuto della volizione. Ora, l’operatore di volontà potrebbe essere introdotto come operatore primitivo definibile implicitamente attraverso un sistema di regole e assiomi (come accade con altri operatori intensionali). Noi preferiamo introdurre l’operatore del volere come operatore definito esplicitamente attraverso l’operatore di ottimalità posto entro il raggio d’azione di un operatore di credenza. Noi partiamo, infatti, dall’idea che un contesto intenzionale nasca dall’inserimento di un particolare contesto deontico – quello stabilito dall’operatore di ottimalità – entro il contesto delle credenze del soggetto. Si rifletta sul significato dell’operatore di ottimalità. Ot(x,p) significa che p è ottimale rispetto all’ordinamento preferenziale in situazione (cioè completo rispetto a tutto ciò che è rilevante per la valutazione concreta di p) di x. Ma, allora, volere p da parte di x non vuol dire altro che accettare tale ottimalità, essere convinti che l’ordinamento che ne sta alla base sia quello da seguire concretamente. Formalmente: V(x,p) se e solo se C(x,Ot(x,p)). Si noti la peculiarità del rapporto che attraverso tale equivalenza si istituisce tra volizione e convinzione di ottimalità. La volizione è intesa quale convinzione di ottimalità: non è possibile volere qualcosa che alla fin fine – «tutto sommato» – non si giudica ottimale rispetto alle proprie preferenze. D’altro lato non è possibile giudicare ottimale ri-

Logica deontica spetto alle proprie preferenze concrete qualcosa che non si vuole. Entro il contesto di tale concezione del volere è naturale chiedersi qual è il rapporto diretto tra V(x,p) e Ot(x,p). A tale domanda si può rispondere ponendo a confronto Ot(x,p) direttamente con C(x,Ot(x,p)). Si tratta di riflettere sul fatto se Ot(x,p) possa essere opaco rispetto alla credenza di x (è possibile che p sia ottimale per x senza che ciò appaia al soggetto?) e se la credenza di ottimalità possa essere ingannevole (è possibile che al soggetto appaia ottimale ciò che non lo è?). Ci pare, innanzitutto, impossibile l’ultimo caso: se il soggetto è convinto che p sia ottimale per lui, allora è effettivamente tale. Infatti, C(x,Ot(x,p)) – ovvero V(x,p) – consiste nell’accettare da parte di x quel particolare ordinamento preferenziale in base al quale p è ottimale, il che presuppone che effettivamente p sia tale. Può darsi il caso, però, che p sia effettivamente ottimale per x, senza che di ciò x sia consapevole. È possibile, cioè, che dall’ordinamento preferenziale condiviso da x più qualche condizione di ordine aletico c segua l’ottimalità di p e che, tuttavia, tale ottimalità non sia consaputa da x perchè x è all’oscuro di c. Per questo, non si può escludere che Ot(x,p) sia opaco rispetto alla credenza di x. Un’ultima osservazione. Il rapporto tra Ot(x,p) e V(x,p) è la ragione del fatto che per l’operatore di volontà vale un principio di riflessività condizionata nella formulazione seguente: V(x,p) ∧ ◊(x,p) → p, ove ◊(x, p) significa che p rientra nelle concrete possibilità di x. L’operatore di volontà e il principio di riflessività appena richiamato sono particolarmente rilevanti ai fini della formalizzazione dello schema d’inferenza pratica, nella sua parte volizionale e in quella risolutiva. Si consideri infatti il seguente schema di inferenza pratica volizionale: V(x,p), C(x, ˆ(p → q)); dunque: V(x,q). Essa nasce dall’applicazione della regola di necessitazione epistemica al seguente schema di inferenza deontica: Ot(x,p), ˆ(p → q); dunque: Ot(x,q). Infatti, per necessitazione epistemica, si ha: C(x, Ot(x,p)), C(x, ˆ(p → q)); dunque: C(x, Ot(x,q)). A questo punto è sufficiente usare la definizione introdotta dell’operatore di volontà per ottenere il risultato. Lo schema dell’inferenza pratica risolutiva presenta, invece, la forma seguente: V(x,p), ◊(x, p). Dunque: p. È facile notare che si tratta di una immediata applicazione del principio di riflessività con6611

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Logica dialogica dizionata per l’operatore di volontà. Naturalmente, la conclusività dell’inferenza risolutiva dipende in modo essenziale dalla verità di entrambe le premesse. Diversamente dall’inferenza volizionale, per l’inferenza risolutiva è dunque essenziale la soddisfazione anche di una condizione esternalistica, quella espressa dalla premessa ◊(x, p). S. Galvan BIBL.: A.R. ANDERSON, A Reduction of Deontic Logic to Alethic Modal Logic, in «Mind», 67 (1958), pp. 100-103; G.H. VON WRIGHT, An Essay on Deontic Logic and the General Theory of Action, Amsterdam 1968; R. HILPINEN (a cura di), Deontic Logic. Introductory and Systematic Readings, Dordrecht 1971; H.N. CASTAÑEDA, The Structure of Morality, Springfield (Illinois) 1974; F. VON KUTSCHERA, Einführung in die intensionale Semantik, Berlin-New York 1976; A.G. CONTE - G. DI BERNARDO, Bibliografia, in G. DI BERNARDO (a cura di), Logica deontica e semantica, Bologna 1977, pp. 349-447; F. VON KUTSCHERA, Das Humesche Gesetz, in «Grazer Philosophische Studien», 4 (1977), pp. 1-14; B.F. CHELLAS, Modal Logic. An Introduction, Cambridge 1980; R. HILPINEN (a cura di), New Studies in Deontic Logic, Dordrecht 1981; J.E. VAN ECK, A System of Temporally Relative Modal and Deontic Predicate Logic and Its Philosophical Applications, in «Logique et Analyse», 100 (1982), pp. 249-381; F. VON KUTSCHERA, Grundlagen der Ethik, Berlin - New York 1982, tr. it. a cura di A. Corradini, Fondamenti dell’etica, Milano 1991; M. FITTING, Proof Methods for Modal and Intuitionistic Logic, Dordrecht 1983; L. AQVIST, Deontic Logic, in D. GABBAY - F. GUENTHNER (a cura di), Handbook of Philosophical Logic, vol. II: Extensions of Classical Logic, Dordrecht 1984, pp. 605-714; R. STUHLMANNLAEISZ, Über das logische Verhältnis zwischen Normen und Tatsachen, in «Allgemeine Zeitschrift für philosophie», 11 (1986), pp. 17-29; L. AQVIST, Introduction to Deontic Logic and the Theory of Normative Systems, Napoli 1987; S. GALVAN, Underivability Results in Mixed Systems of Monadic Deontic Logic, in «Logique et Analyse», 121-122 (1988), pp. 4568; G. SCHURZ, How Far Can Hume’ Is-Ought Thesis Be Generalized? An Investigation in Alethic-Deontic Modal Predicate Logic, in «Journal of Philosophical Logic», 20 (1991), pp. 37-95; S. GALVAN, Inferenza pratica e teoria del volere, in S. GALVAN (a cura di), Forme di razionalità pratica, Milano 1992, pp. 189211; J.J.CH. MEYER - R.J. WIERINGA (a cura di), Deontic Logic in Computer Science, Chichester 1993; G. HUGHES - M. CRESSWELL, A New Introduction to Modal Logic, London 1996; P. MCNAMARA - H. P RAKKEN (a cura di), Norms, Logics and Information Systems: New Studies on Deontic Logic and Computer Science, Amsterdam 1999; R. GIRLE, Mo-

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dal Logics and Philosophy, Montréal - Ithaca (New York) 2000; P. BLACKBURN et al., Modal Logic, Cambridge 2001; R. STUHLMANN-LAEISZ, Philosophische Logik. Eine Einführung mit Anwendungen, Paderborn 2002.

LOGICA DIALOGICA. – La logica dialogica Logica dialogica è un settore di ricerche che ha avuto origine da una proposta di P. Lorenzen degli anni 195960, volta a fondare la logica intuizionista partendo dai concetti di dialogo e di strategia. Nella logica dialogica, l’eventuale validità di una formula viene esaminata da due interlocutori che pronunciano alternativamente delle affermazioni, avendo entrambi una informazione completa della situazione (e vi è quindi una stretta analogia con le mosse dei giochi a perfetta informazione studiati nella teoria matematica dei giochi). La persona che inizia il dialogo, il proponente (P), ha l’obiettivo di giustificare la validità della formula, mentre l’opponente (Q) cerca di contrastare le affermazioni di P; il dialogo si sviluppa con una sequenza di attacchi a formule già affermate e di difese ad attacchi precedenti. La validità o meno della formula dipende dalla vittoria nel dialogo di P o di Q. Illustriamo con qualche particolare le caratteristiche dei dialoghi come sono stati rielaborati a partire dalla loro formulazione originaria di Lorenzen. SOMMARIO: I. Dialoghi e strategie. - II. Esempi. III. Dialoghi e logica intuizionista. - IV. Ulteriori considerazioni. I. DIALOGHI E STRATEGIE. – Un dialogo si svolge fra due interlocutori P e Q, che prendono alternativamente la parola asserendo formule logiche (e per brevità ci limitiamo a considerare formule della logica proposizionale), seguendo alcune regole a seconda del tipo di formula asserita (congiunzione, disgiunzione, condizionale, negazione). Le espressioni del dialogo hanno la forma Pa o Qa, e usiamo X e Y (con X ≠ Y ) per indicare indifferentemente P o Q. Il dialogo si sviluppa con un’alternanza di interventi dei due interlocutori che, eccetto il primo, consistono in attacchi o difese. Le regole per la costruzione di un dialogo (proposizionale) sono le quattro seguenti: (1) congiunzione ∧: asserzione: X α1 ∧ α2 attacco: Y ∧i (con i = 1 o 2) difesa: X αi

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(2) disgiunzione ∨: asserzione: X α1 ∨ α2 attacco: Y∨ difesa: X αi (con i = 1 o 2) (3) condizionale →: asserzione: X α1 → α2 attacco: Y α1 difesa: X α2 (4) negazione ¬: asserzione: X ¬α attacco: Yα difesa: nessuna Il significato delle regole è il seguente. Chi asserisce una congiunzione può venire attaccato con la richiesta di dimostrare uno dei due congiunti, e la difesa consiste nel provare il congiunto scelto dall’interlocutore. L’attacco a una disgiunzione si difende dimostrando uno dei due disgiunti a scelta di chi viene attaccato. Chi asserisce un condizionale può venire attaccato con l’affermazione dell’antecedente, e la difesa consiste nel provare il conseguente. Chi afferma una negazione può subire un attacco da cui non ci si può difendere. Come vedremo più avanti, la formulazione delle regole è in sintonia con le caratteristiche della logica intuizionista. Un dialogo è una sequenza i cui elementi sono espressioni contrassegnate alternativamente con P e Q (e si considerano solo dialoghi che iniziano con un’espressione contrassegnata da P) accompagnate da un indice numerico progressivo e, tranne la prima (alla quale si assegna indice numerico 0), dalla loro giustificazione, che è la coppia ordinata costituita dall’indice dell’espressione che viene attaccata o difesa e dalla specificazione se si tratta di un attacco (A) o di una difesa (D). Pertanto, le espressioni contrassegnate da P hanno indice pari e quelle contrassegnate da Q hanno indice dispari. I dialoghi possono essere efficacemente rappresentati mediante alberi nella cui radice si trova l’espressione Pa che dà inizio al dialogo e nei cui nodi figurano le espressioni precedute dal loro numero progressivo e seguite dalla loro giustificazione in base alle regole. Le diramazioni sono determinate dal fatto che le regole consentono scelte da parte dei due interlocutori: un dialogo può a volte proseguire in due modi differenti, e ogni ramo di un albero rappresenta un dialogo. I rami terminano quando le regole non consentono ulteriori svilup-

Logica dialogica pi (e, nel caso proposizionale al quale ci limitiamo, non vi sono dialoghi che proseguono all’infinito). I dialoghi sono soggetti a ulteriori clausole restrittive quali le seguenti: le ramificazioni possono essere provocate solo da Q; P può asserire una lettera proposizionale (più in generale una formula atomica) solo se è già stata asserita da Q; da un attacco ci si può difendere una sola volta; quando vi sono più attacchi da cui ci si può difendere, ci si può difendere solo dall’ultimo; una espressione contrassegnata da P può ricevere un solo attacco. I dialoghi vinti da P sono quelli in cui P ha l’ultima parola, ossia nel nodo terminale del ramo vi è una espressione contrassegnata da P (e Q non può ulteriormente proseguire nel dialogo perché non può applicare alcuna regola senza violare una delle precedenti clausole restrittive). Dato che nello sviluppo di un dialogo le formule via via asserite si semplificano, nei dialoghi vinti da P l’ultima formula asserita da P è una lettera proposizionale. Il concetto di dialogo viene accompagnato dallo sviluppo delle strategie da adottare per vincere un dialogo ed è proprio la loro analisi che ha condotto a raffinare le condizioni da imporre sui dialoghi, quali le clausole restrittive prima enunciate, per fare in modo che P vinca nelle situazioni desiderate (ossia, nel caso specifico, quando all’inizio P asserisce una delle leggi valide nella logica intuizionista). II. ESEMPI. – Illustriamo quanto precedentemente esposto con cinque esempi. (1) 0. P(p → ¬¬p) (0, A) 1. Qp (1, D) 2. P¬¬p (2, A) 3. Q¬p (3, D) 4. Pp (2) 0. P(¬¬p → p) 1. Q¬¬p (0, A) 2. P¬p (1, A) 3. Qp (2, A) (3) 0. P(p ∧ ¬p → q) (0, A) 1. Q(p ∧ ¬p) (1, A) 2. P ∧1 (2, D) 3. Qp (1, A) 4. P ∧2 5. Q¬p (4, D) 6. Pp (5, A) 6613

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Logica dialogica (4)

3. Qq 4. Pq 5. Qp 6. Pp (5)

0. P(((p → p) → q) → q) (0, A) 1. Q(p → p) → q (1, A) 2. P(p → p) (2, D) 3. Qp (2, A) (1, D) 4. Pp (3, D) (2,A) (2, D)) 5. Qq (5, D) 6. Pq (1, D)

0. P(((p → q) → p) → p) 1. Q(p → q) → p (0. A) 2. P(p → q) (1, A) 3. Qp (2, D) 3. Qp (2, A) 4. Pp (1, D) I dialoghi (1) e (3) sono vinti da P; P vince entrambi i dialoghi di (4); il dialogo (2) è perso da P; dei due dialoghi di (5), P vince in quello a sinistra e perde in quello a destra. III. DIALOGHI E LOGICA INTUIZIONISTA. – Lo sviluppo dei dialoghi, come emerge già dai semplici esempi appena proposti, è un procedimento piuttosto articolato. Passando al livello della logica dei predicati si complica ulteriormente e si verifica il fenomeno per cui i dialoghi possono procedere all’infinito. La loro definizione e l’individuazione delle precedenti clausole restrittive (e di altre tecnicamente più complesse su cui sorvoliamo) sono frutto di una lunga elaborazione il cui scopo, in sostanza, è stato quello di fare in modo che P avesse strategie vincenti in corrispondenza delle formule valide della logica intuizionista. Così l’esempio (1) sancisce la validità della legge della doppia negazione intuizionista, l’esempio (2) la non validità della legge della doppia negazione classica, l’esempio (3) la validità della legge di Scoto. Questo obiettivo è stato raggiunto, al termine di un iter più che ventennale che ha coinvolto vari studiosi, da W. Felscher con la dimostrazione del teorema di equivalenza il quale afferma che le formule valide della logica dialogica come la abbiamo prima delineata coincidono con quelle della logica intuizionista. Più precisamente, si è dimostrato che si può associare in modo effettivo a ogni dialogo vinto da P una derivazione della formula nel calcolo delle sequenze di Gentzen per la logica intuizionista (il quale si ottiene dal calcolo delle sequenze per la logica classica imponendo che il conseguente delle sequenze non contenga più di una formula). Le regole e le clausole della costruzione dei dialoghi sono state elaborate tenendo conto delle peculiarità della logica intuizionista, la 6614

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quale, come è noto, si basa su una concezione delle argomentazioni profondamente diversa da quella della logica classica. Essa si fonda infatti sulla dimostrabilità costruttiva delle proposizioni matematiche, e ciò comporta il rifiuto di alcune leggi della logica classica, prima fra tutte il principio del terzo escluso: una proposizione è vera quando è stata dimostrata con un procedimento costruttivo e falsa se è stato dimostrato costruttivamente che porta a contraddizione, e finché non si è ottenuta una delle due dimostrazioni il giudizio è sospeso. Nella logica intuizionista, quindi, la negazione ¬α equivale a α →⊥ (dove ⊥ è il simbolo dell’assurdo). La regola della negazione prima introdotta, in base alla quale all’attacco Ya a X ¬α (X α →⊥) non si può opporre alcuna difesa, è giustificata dal fatto che la difesa, per la regola del condizionale, consisterebbe nell’affermare l’assurdo. Nella logica intuizionista (e più in generale nella matematica costruttiva) una disgiunzione è provata solo quando è provato almeno uno dei disgiunti. All’attacco a una disgiunzione ci si difende scegliendo quale dei due disgiunti si vuole dimostrare. Una congiunzione si attacca scegliendo uno dei due congiunti, e la difesa consiste nel provare il congiunto scelto. Nel caso del condizionale l’interpretazione è più sottile. Chi asserisce il condizionale α1 → α2 si impegna a ottenere a2 assumendo a1. Ma a1 non è una proposizione che rientra tra quelle da dimostrare. L’attacco consiste nell’accettare come ipotesi a1 e la difesa nel provare a2, ma è anche possibile un contrattacco sull’accettazione dell’ipotesi assunta. In sintesi, gli studiosi della logica dialogica sono riusciti ad accostare ai perfezionamenti tecnici dei dialoghi opportune considerazioni sui loro significati, tanto che si può affermare che la logica dialogica costituisca una originale e riuscita semantizzazione della logica intuizionista. Va comunque ricordato che, se nel periodo delle prime elaborazioni dei dialoghi la logica intuizionista presentava aspetti controversi soprattutto al di fuori del contesto della problematica dei fondamenti della matematica, ambito dal quale si era costituita come vero e proprio sistema logico, essa ha poi ricevuto soddisfacenti interpretazioni semantiche con strumenti tecnici diversi da quelli offerti dalla logica dialogica, ad esempio tramite le interpretazioni topologiche o in strutture kripkiane a mondi possibili. Pertanto, la logica dialogica, pur avendo raggiunto il suo obiettivo, ha

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dovuto condividere il suo interesse fondazionale con interpretazioni di più immediata comprensione e della stessa natura di quelle impiegate in molti altri settori dell’indagine logica. IV. ULTERIORI CONSIDERAZIONI. – Da un punto di vista tecnico nell’ambito della logica dialogica si sono ottenuti interessanti risultati. Oltre al già citato teorema di equivalenza, alle sue estensioni e al raffinamento delle strategie per sviluppare i dialoghi, sono stati chiariti i suoi rapporti con la logica classica. Opportune modifiche nella caratterizzazione dei dialoghi consentono di accostare alla logica dialogica per la logica intuizionista una corrispettiva logica dialogica per la logica classica. Ciò ha consentito una migliore comprensione di alcune differenze concettuali tra logica intuizionista e logica classica. Tra l’altro, per inciso, sono evidenti le analogie formali tra i dialoghi e altri procedimenti di sviluppo della logica che si sono iniziati ad affermare nello stesso periodo. Ad esempio, il metodo degli alberi semantici, che attualmente costituisce un procedimento sempre più diffuso per sviluppare calcoli logici nei più svariati settori della disciplina, all’origine era stato concepito per fornire un’analisi delle dimostrazioni accettabili da un punto di vista intuizionistico. La differenza più rilevante tra i dialoghi prima esposti e gli alberi semantici per la logica classica è che in questi ultimi la chiusura dei rami avviene quando si ottiene esplicitamente una contraddizione (e ciò corrisponde all’adozione dell’usuale semantica bivalente del vero e del falso), mentre nei dialoghi la situazione è più complessa, data la maggiore sofisticazione della semantica intuizionistica. Da un punto di vista più generale, ha cominciato a diffondersi la concezione dei dialoghi come strumento applicabile anche ad altre logiche, ossia come metodo per affrontare l’analisi delle argomentazioni e per consentire al contempo di implementarle sui calcolatori. In questo senso si può parlare di un «accostamento dialogico» alla logica analogo ad altri che si sono sviluppati in tempi recenti (tra cui quello rilevantista), e che presenta interessanti prospettive anche di natura didattica. Ad esempio, sono stati elaborati sistemi di logica modale dialogica e di logica epistemica dialogica. Un altro esempio particolarmente significativo di «accostamento dialogico» è costituito dai giochi semantici elaborati da J. Hintikka con lo scopo di collegare

Logica dialogica logica, teoria dei giochi e teoria dell’informazione ad aspetti sempre più ampi delle argomentazioni nel linguaggio naturale, sfruttando le analogie fra i giochi di ricerca e ritrovamento e i procedimenti semantici della teoria dei modelli e le interpretazioni dei connettivi e dei quantificatori logici. In sintesi, negli ultimi tempi la considerazione dei rapporti fra logica e giochi ha prodotto una notevole quantità di ricerche volte a elaborare giochi di natura dialogica che, seppur indirizzati a obiettivi diversi da quelli della logica originaria (e quindi basati su sistemi di regole completamente differenti), ne conservano l’impianto strutturale di fondo. Attualmente la teoria dei giochi semantici ha importanti applicazioni nella teoria dei linguaggi di programmazione e nella verifica dei software, e molti studiosi di questi nuovi ambiti di ricerca riconoscono nella logica dialogica la fonte originaria delle loro ricerche. Si può osservare infine che, al di là degli aspetti tecnici particolari su cui ci siamo soffermati e che costituiscono nuclei di ricerche con precisi obiettivi logici, l’impianto della logica dialogica richiama alcune contrapposizioni di fondo tra logica e dialettica risalenti all’antichità e che sono all’origine di molte speculazioni filosofiche. Quello che in precedenza abbiamo qualificato come «accostamento dialogico» può costituire la chiave interpretativa delle concezioni di importanti studiosi del passato in modo non dissimile da quanto si è realizzato per altri settori degli studi logici, primo fra tutti quello della logica paracoerente per le interpretazioni della filosofia hegeliana. Inoltre, molti testi di logica medioevale contengono dibattiti in cui due disputanti, opponente e rispondente, argomentano su una proposizione (abitualmente falsa): il compito del rispondente è fornire risposte razionali assumendo la verità della proposizione assunta inizialmente ed evitando di contraddirsi, quello dell’opponente è forzare il rispondente a incorrere in una contraddizione. Si tratta in sostanza di dialoghi nei quali, però, all’inizio non venivano sufficientemente esplicitate le regole. Il metodo dialogico, di cui la logica dialogica può essere considerata il primo esempio compiutamente formalizzato, può consentire una migliore comprensione dei contributi dei logici medioevali (spesso difficili da interpretare) e, viceversa, questi ultimi possono fornire spunti per l’elaborazione di dialoghi basati su nuovi sistemi di regole. D. Palladino

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Logica epistemica BIBL.: P. LORENZEN, Formale Logik, Berlin 1967; J. HINTIKKA, Logic, Language-games and Information. Kantian Themes in the Philosophy of Logic, Oxford 1973, tr. it. di M. Mondadori - P. Parlavecchia, Logica, giochi linguistici e informazione. Temi kantiani nella filosofia della logica, Milano 1975; P. LORENZEN - D. SCHWEMMER, Konstructive Logik, Ethik und Wissenschafts theorie, Mannheim 1973; P. LORENZEN - K. LORENZ, Dialogische Logik, Darmstad 1978; E. SAARINEN (a cura di), Game-Theoretical Semantics, Dordrecht 1979; E.M. BARTH - E.C.W. CRABBE, From Axiom to Dialogue, Berlin 1982; W. FELSCHER, Dialogues, Strategies and Intuitionistic Provability, in «Annals of Pure and Applied Logic», 28 (1985), pp. 217-254; W. FELSCHER, Dialogues as a Foundation for Intuitionistic Logic, in D. GABBAY - F. GUENTHNER (a cura di), Handbook of Philosophical Logic, vol. III: Aternatives to Classical Logic, Dordrecht 1986, pp. 341-372; J. HINTIKKA G. SANDU, Game-Theoretical Semantics, in J. VAN BENTHEM - A. MEULEN (a cura di), Handbook of Logic and Language, Amsterdam 1997, pp. 361-410. ➨ LOGICA DELLA RILEVANZA; LOGICA INTUIZIONISTICA; LOGICA PARACOERENTE; LOGICA PROPOSIZIONALE.

LOGICA EPISTEMICA. – SOMMARIO: I. PreLogica epistemica messa. - II. Logica della credenza. - Calcolo della credenza (convinzione) cC. - III. Logica della fondazione: 1. Logica della dimostrabilità. - 2. Logica della fondazione internalistica. - 3. Logica della fondazione esternalistica. - IV. Logica del sapere: 1. Sistema del sapere come credenza retta. - 2. Sistemi del sapere come credenza retta e fondata. - V. Il problema delle garanzie del sapere. I. PREMESSA. – Con il termine generale di logica epistemica si intende la logica degli enunciati di credenza e di sapere. A rigore la logica epistemica è la logica degli enunciati di sapere e la logica doxastica è la logica degli enunciati di credenza. IPerò, proprio a causa dei molteplici rapporti che intercorrono tra i due tipi di logica, è invalso l’uso di intendere il termine «epistemico» in un senso lato comprensivo di entrambi i significati. Come è noto, la logica, in generale, è la disciplina che studia i rapporti di conseguenza tra enunciati. Ora, gli enunciati del linguaggio delle teorie si differenziano non solo per la diversità dei contenuti che essi esprimono, ma anche in forza delle diverse modalità secondo le quali tali contenuti sono affermati. Nel caso in cui i contenuti sono affermati come oggetto di una credenza o di un atteggiamento di sapere gli enunciati che svolgono la funzione di affermarli sono enunciati epistemici. In altre parole, sono enunciati epistemici quegli 6616

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enunciati che esprimono i diversi modi (le diverse modalità) del rapporto intenzionale tra soggetto e oggetto, di cui la credenza e il sapere sono le forme fondamentali. Di conseguenza, come la logica generale studia il rapporto di conseguenza tra gli enunciati non caratterizzati modalmente, così la logica epistemica studia i rapporti tra gli enunciati epistemici di credenza o di sapere. La ricerca nell’ambito della logica epistemica è approdata, innanzitutto, all’elaborazione di una serie di linguaggi provvisti di operatori proposizionali specifici aventi la funzione di esprimere i singoli atteggiamenti epistemici. Contestualmente ha proceduto alla costruzione dei corrispondenti calcoli logici (o, più brevemente, logiche) aventi la funzione di esplicitare le regole e i principi che regolano il comportamento di tali operatori, ovvero che sono in grado di caratterizzare formalmente i nessi di conseguenza logica vigenti tra proposizioni di quei linguaggi. Nel seguito affronteremo lo studio di alcuni di questi calcoli, avendo cura di soffermarci in particolare sulla elencazione (e commento) degli assiomi e sulla derivazione (e commento) dei principali teoremi. Dallo studio degli assiomi e dei teoremi potremo trarre tutte le informazioni utili per comprendere il significato dell’operatore o degli operatori che il calcolo intende formalizzare. A ogni logica è dedicata una sezione, articolata in sintassi, semantica intuitiva (significato di assiomi e teoremi) ed eventuali applicazioni. Il confronto dei vari sistemi e la loro applicazione a determinate problematiche filosofiche consentirà di vedere nella logica epistemica una sorta di organo per la teoria della conoscenza, come la logica in generale è considerata l’organo della filosofia tout court. Inizieremo con la presentazione della logica del credere, nell’accezione forte di logica della convinzione. Proseguiremo con l’analisi della logica della fondazione e della logica del sapere. Nell’ambito delle varie forme di sapere e delle sue componenti sarà trattata anche la logica dell’evidenza (con la serie di problemi connessi a tale concetto) e la logica della dimostrabilità. L’elaborazione della logica epistemica è il frutto di quarant’anni di ricerche che, a partire da J. Hintikka (Knowledge and Belief: an Introduction to the Logic of the Two Notions, Ithaca [New York] 1962), hanno dato luogo alla costruzione di precisi calcoli logici in cui sono assiomatiz-

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zate le principali nozioni epistemiche sopra menzionate. Apporti decisivi nello sviluppo sistematico di tale disciplina come particolare branca della logica modale sono stati dati da F. von Kutschera (Einführung in die intensionale Semantik, Berlin - New York 1976) e da W. Lenzen (Glauben, Wissen und Wahrscheinlichkeit: Systeme der epistemischen Logik, Wien - New York 1980). Un apporto innovativo di particolare significato è dovuto, poi, ad Alchourrón, Gärdenfors, Makinson e altri, i quali hanno introdotto nell’apparato formale la prospettiva della dinamica delle credenze, non presente nella prospettiva tradizionale statica. Anche noi seguiremo la prospettiva tradizionale, lasciando ad altri lo sviluppo autonomo della prospettiva dinamica inerente al tema del cambio delle credenze. II. LOGICA DELLA CREDENZA. – In un senso generale credere che a significa ritenere probabile che le cose stiano come viene descritto da a. Se poi la probabilità è massima, allora credere che a significa ritenere con certezza che a sia vera, se la probabilità non è massima, significa che a sia solo probabilmente vera, ovvero verosimile. In ogni caso credere che a significa credere che a sia possibile. Nell’affermazione di credenza da parte di un soggetto non è, tuttavia, in gioco, una nozione ontica di possibilità (come possibilità di uno stato di cose alternativo alla realtà attuale), ma una nozione epistemica (come possibilità di rappresentazioni alternative della medesima realtà attuale ammesse dal soggetto). Normalmente, infatti, un soggetto, limitato nelle sue capacità conoscitive, ammette rappresentazioni diverse e alternative della realtà, non potendone escludere alcuna sulla base delle conoscenze che ha a disposizione e considerando probabile solo quella che è da lui considerata con più sicurezza delle altre corrispondente alla realtà. Così definita, la nozione epistemica di possibilità sta al fondo di entrambe le nozioni di verità probabile e di verità certa. Per ragioni di economia espositiva, nel seguito ci occuperemo, tuttavia, solo della nozione forte di credenza, del credere come «essere convinto di», «tener per vero», «essere sicuro di». La logica della credenza, che ci accingiamo a studiare è, dunque, la logica della convinzione. Una seconda scelta, determinata questa volta da ragioni teoretiche, riguarda il carattere normativo (e non descrittivo) del concetto di credere trattato. La ragione di tale scelta è

Logica epistemica molto semplice. Lo scopo di una logica epistemica non è quello di descrivere i nessi che sussistono tra le credenze (o le forme di sapere) dei soggetti empirici (il che, d’altra parte, sarebbe una impresa pressoché impossibile già per il solo fatto che ogni soggetto empirico è diverso dagli altri) ma di fornire una esplicazione degli atteggiamenti epistemici e delle leggi che li regolano a prescindere dai limiti o difetti cognitivi che affliggono i singoli soggetti empirici. Si tratta di rendere esplicita la logica delle attitudini conoscitive di cui è capace a priori un soggetto almeno parzialmente idealizzato, senza mettere nel conto le eventuali sue carenze contingenti del momento. Per esempio non sempre accade che se a è una legge logica proposizionale, allora un soggetto empirico la conosca. Al contrario, non si può ammettere che una logica epistemica sia affetta da simili deficienze. Le incompetenze logiche dei singoli soggetti non devono influire sulla struttura logica delle modalità epistemiche. Fatta questa precisazione, è tuttavia d’obbligo precisare il grado di idealità del soggetto epistemico. Innanzitutto, il concetto di credenza da formalizzare è inteso in senso disposizionale, o – come si è soliti dire – si tratta di un concetto implicito. Se, ad esempio, si afferma che il soggetto crede che a (in simboli, considerando la generalità del soggetto ideale, Cα), vale a dire ritiene che sia reale (attuale) lo stato di cose descritto da a, non si intende dire con ciò che il soggetto creda attualmente che a, ma solo che gli è possibile, se vuole, attualizzare tale credenza. In altre parole Cα non esprime una forma di credenza esplicita del soggetto, ma una forma di credenza implicita, fondata sulle sue potenzialità conoscitive. Naturalmente, è del tutto legittimo chiedersi quali siano tali potenzialità, sulle quali alla fin fine vengono scaricate le esigenze di chiarificazione del concetto di credenza. Ma è proprio nel rispondere a questa richiesta che è possibile precisare – entro limiti ragionevolmente soddisfacenti – in che senso e in quale misura il soggetto epistemico è un soggetto ideale. Questi è ideale nel senso che le potenzialità conoscitive che gli vengono attribuite sono espressione di una potenza soggetta a vincoli di ordine puramente logico e metamatematico, ma non a limiti di tempo o a risorse di ordine fisico, e che per il resto è gestita dalla sua volontà. Ca, dunque, significa che a è il contenuto di una credenza iniziale del soggetto (a sua volta at6617

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Logica epistemica tuale o appartenente al dominio della cosiddetta memoria implicita, nel senso che il soggetto, se vuole, può senza difficoltà o limiti di ordine psicologico portare alla coscienza) o che è ottenibile da altre credenze iniziali del soggetto attraverso l’uso delle regole formali della logica o attraverso principi radicati nella struttura formale della stessa nozione disposizionale di credenza. La formalità della logica in uso è in definitiva il vincolo reale più forte a cui è sottoposta la capacità di credenza da parte del soggetto epistemico. Egli non può superare i limiti costituiti dal fatto che le regole di inferenza devono essere esplicite, corrette e complete rispetto a qualche semantica. Non giocano, invece, alcun ruolo limiti di ordine fisico o psicologico, nè altri legati alla finitezza del tempo a disposizione o delle risorse. Un’ultima osservazione va fatta sul carattere di generalità della nozione di credenza qui assiomatizzata. Credere significa semplicemente tenere per vero a prescindere dal tipo delle motivazioni che possono stare alla base del credere. Per esempio si può credere in qualcosa per una forma di intuizione o in forza della autorità di una persona o della fiducia che si nutre in lei. Si può, però, anche credere sulla base di motivazioni di altro tipo. Tutte queste distinzioni sono alla radice di altrettante forme particolari di credenza che qui non vengono prese specificamente in considerazione. La nozione che sarà assiomatizzata è una nozione generale di credenza (come convinzione) che prescinde dalla tipologia inerente a ognuna delle forme specifiche del credere. Calcolo della credenza (convinzione) cC. – Sia dato il calcolo proposizionale classico cP. Si aggiunga all’alfabeto di cP l’operatore della credenza C. Le regole di formazione delle formule siano esattamente quelle previste dal linguaggio di cP più la clausola aggiuntiva seguente: se a è una formula, allora anche Ca è una formula. Allora il calcolo della credenza cC si ottiene aggiungendo alle regole deduttive di cP la regola di necessitazione epistemica RC: se a è derivabile dall’insieme di formule X (in breve, X  α), allora Cα è derivabile dall’insieme delle formule che si ottengono anteponendo l’operatore C alle formule di X (in breve, C(X)  Cα) e gli assiomi C1, C2 e C3 seguenti: C1 : Cα → ¬C¬α C2 : Cα → CCα ¬Cα → C¬Cα C3 : 6618

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Cerchiamo in primo luogo di chiarire il significato della base assiomatica di cC. In un secondo momento passeremo alla derivazione di alcuni importanti teoremi di cC. RC (detta regola di necessitazione epistemica) dichiara che se a è derivabile da X e il soggetto epistemico è certo di X, allora è certo anche di a. Dalla regola segue poi che se a è dimostrabile in cC, allora anche Cα lo è. Ciò significa, in particolare, che ogni legge logica classica è oggetto di convinzione da parte del soggetto epistemico. Ci si potrebbe chiedere la ragione di ciò. Perché tutte le leggi logiche sono oggetto di convinzione? In primis si può rispondere dicendo che la credenza nei principi logici è un requisito minimale per un qualsiasi soggetto supposto razionale. Di qui ogni critica da tale versante alla regola RC non può che venire dalla confusione denunciata sopra tra il concetto normativo e quello descrittivo del credere. In questo modo, però, si risponde solo a una parte dell’obiezione e per di più alla parte meno impegnativa. L’obiezione, infatti, fa leva sull’uso pieno della regola RC, la quale dichiara non solo che le leggi logiche fanno parte integrante del patrimonio di credenze di un qualsiasi soggetto epistemico, ma afferma altresì che se a è un teorema di X e il soggetto tiene per vero X (o, in base al teorema di finitezza sintattica, un opportuno sottoinsieme finito di X), allora il soggetto tiene per vero anche a. In altre parole, la regola implica la chiusura delle credenze rispetto al nesso di derivabilità, vale a dire una sorta di onniscienza da parte del soggetto rispetto a tutte le conseguenze logiche (teoremi) di un qualsiasi insieme di sue credenze. Ora una situazione di onniscienza cognitiva, quale quella implicata dalla regola RC, sembra incompatibile con i limiti conoscitivi che, per quanto idealizzati, appartengono in ogni caso al soggetto epistemico. Che si può replicare a questa obiezione? Alla luce delle chiarificazioni precedenti sul grado di idealità del soggetto epistemico la risposta è semplice. La situazione di onniscienza menzionata non è incompatibile con i limiti inerenti al grado di idealizzazione fissato. È, infatti, un teorema della metamatematica che l’insieme delle proposizioni derivabili (teoremi) da un qualsiasi insieme decidibile di proposizioni X sia ricorsivamente enumerabile, il che significa che se a è uno di questi teoremi – vale a dire a è dimostrabile ovvero esiste la di-

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mostrazione di a –, allora dopo un numero finito di passi, per quanto grande, il soggetto può star sicuro di avere accesso attuale ad essa. In conclusione, se a è un teorema di X, allora la possibilità di accedere a X implica la possibilità di accedere a a. Si noti che l’assunzione di RC non implica l’assunzione del cosiddetto «ottimismo gödeliano», secondo il quale non esistono proposizioni matematiche vere inaccessibili alla nostra conoscenza. Infatti RC implica l’accessibilità alle conseguenze di X sotto la condizione della accessibilità di X, ma l’accessibilità a X non è garantita. C1 dichiara che se il soggetto è convinto della verità di a, allora non può essere convinto della verità di ¬α. Anche questo assioma è indicativo di una aperta assunzione di razionalità del soggetto credente, l’assunzione in base alla quale chi crede non può al contempo credere a e credere ¬α ossia non può condividere la contraddizione. C2 è strettamente connesso con C3, in quanto gli assiomi vengono a dichiarare rispettivamente che i fatti di credenza e non credenza sono, a loro volta, contenuti di credenza. Convenendo di dire che se vale α → Cα allora la proposizione a è aproblematica per il soggetto credente, allora C2 e C3 si possono parafrasare dicendo che formule del tipo Cα o ¬Cα sono aproblematiche per il soggetto epistemico. È da notare che entrambi gli assiomi sono giustificati dalla natura implicita della nozione di credenza e dalla capacità di introspezione del soggetto epistemico. È impossibile pensare che un soggetto ideale creda (o non creda) qualcosa e non sia convinto di credere (o non credere). Vediamo ora alcuni teoremi della logica epistemica. TC1 : Cα ∧ Cβ  C(α ∧ β) TC2 : C(α ∧ β)  Cα ∧ Cβ TC3 : Cα ∨ Cβ  C(α ∨ β)

TC4 :  C(Cα → α) Derivazione: parad. implicazione α  Cα → α Cα  C(Cα → α) RC ¬Cα  Cα → α parad. implicazione C¬Cα  C(Cα → α) RC ¬Cα  C(Cα → α) per C3  C(Cα → α) Logica TC5 :

CCα  Cα

Derivazione: ¬Cα  C¬Cα CCα  ¬C¬Cα CCα  Cα

da C3 da C1 Logica

TC6 : C¬Cα  ¬Cα Derivazione: CCα  ¬C¬Cα Cα  CCα C¬Cα  ¬Cα

da C1 da C2 Logica

Gli ultimi tre teoremi sono di particolare importanza e perciò degni di nota. Innanzitutto TC4 dichiara che il soggetto ideale di credenza è convinto della rettitudine delle sue convinzioni. Non può essere altrimenti, infatti, se credere significa tenere per vero. Con gli ultimi due si dichiara, invece, che i fatti di credenza sono affidabili rispetto allo status delle credenze, cioè che se il soggetto ideale crede di credere o di non credere, allora è vero rispettivamente che crede o non crede. In generale, se Cα → α , allora si dice che il credere a da parte del soggetto è affidabile rispetto a a, per cui CCα → Cα significa che i fatti di credenza sono affidabili rispetto alle credenze e C¬Cα → ¬Cα significa che i fatti di credenza sono affidabili rispetto alle non credenze. In conclusione, le proprietà caratterizzanti l’operatore di credenza C si trovano complessivamente sintetizzate nello schema seguente (ove fatto di credenza può significare contestualmente sia Cα sia ¬Cα ):

È da notare, infine, che il calcolo cC può essere inteso come un vero e proprio sistema modale. Ciò risulta dal fatto che C è interpretabile come ˆ e, conseguentemente, ¬C¬ come ◊. C1 diventa allora ˆα → ◊α (assioma D), C2 ˆα →ˆˆα (assioma 4) e C3 (ponendo ¬α al posto di a) ◊α →ˆ◊α (assioma 5). Il calcolo della credenza diventa così formalmente 6619

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Logica epistemica equivalente con il sistema modale KD45 ed è possibile fornire di esso anche una semantica kripkiana fondata sulla nozione di mondo possibile. In termini sommari e stringati, cC è contraddistinto da modelli basati su strutture con relazione di accessibilità R seriale (per ogni mondo u esiste un mondo v, tale che uRv) per C1, transitiva (per ogni u, v, w, se uRv e vRw, allora uRw) per C2 ed euclidea (per ogni u, v, w, se uRv e uRw, allora vRw) per C3. RC corrisponde a N e assicura la normalità del calcolo. Si rimanda a una trattazione dettagliata di semantica modale per opportuni approfondimenti. III. LOGICA DELLA FONDAZIONE. – Le condizioni necessarie del sapere sono almeno tre: perché α sia saputa occorre che a sia creduta (condizione soggettiva di credenza), che a sia vera (condizione oggettiva di verità), che a sia fondata (condizione di giustificazione epistemica). Pur non argomentando in modo completo in favore di tale tesi, osserviamo che l’aspetto più problematico della definizione classica di sapere è legata al fatto che essa fa assurgere le tre condizioni menzionate a condizioni necessarie e sufficienti. In ordine ai nostri scopi, tuttavia, ci basta assumere molto di meno e, precisamente, che le tre condizioni menzionate siano necessarie, ma non che siano sufficienti e neppure che siano le sole necessarie. (Per una discussione di tale problematica si veda la discussione del paradosso di Gettier in qualsiasi trattazione moderna di teoria della conoscenza). Ora, conosciamo già la logica dell’essere vero e la logica della credenza. Pertanto, allo scopo di proporre una analisi formale del concetto di sapere – inteso non come credenza retta, ma almeno come credenza fondata –, è necessario elaborare una logica della fondazione. Presenteremo tre gruppi diversi di logica della fondazione. Il primo gruppo comprende due sistemi della cosiddetta logica della dimostrabilità. Il secondo gruppo comprende alcuni sistemi di logica della fondazione intesa in senso implicito-internalistico (in breve internalistico). Il terzo gruppo è rappresentato da un solo sistema di logica della fondazione intesa in senso esternalistico-potenziale (in breve esternalistico). Il significato della distinzione tra secondo e terzo gruppo sarà introdotto rispettivamente nelle sezioni III.2 e III.3. Per ora, vale la pena di marcare la differenza tra il primo gruppo e gli altri due. I sistemi della logica della dimostrabilità 6620

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formalizzano le proprietà metateoriche della nozione formale di dimostrabilità in una teoria formale. Proprio per questo motivo essi riguardano un campo delimitato di procedure di fondazione. Al contrario, i sistemi degli altri due gruppi riguardano nozioni di fondazione più ampie e generali, non puramente formali, il che consente di formalizzare attraverso di essi anche i rapporti che la relazione di fondazione intrattiene con quella di credenza. Tuttavia, esiste un rapporto stretto tra la logica della dimostrabiltà e le altre due logiche. Come l’oggetto delle logiche della fondazione è più ampio di quello della dimostrabilità, così le logiche della fondazione sono da considerare una estensione della logica della dimostrabilità. Si tratta, dunque, di un rapporto di estensione, ma non di estensione in senso formale. Sono una estensione nel senso che le logiche della fondazione preservano della nozione di dimostrabilità formale tutti quei tratti che sono caratteristici di ogni forma di fondazione e che sono particolarmente evidenti a proposito della nozione formale. Per esempio, il carattere di non affidabilità incondizionata. Se la nozione di dimostrabilità formale è soggetta a questo limite, come risulta dai teoremi di incompletezza di Gödel, è necessario che essa venga ereditata da qualsiasi forma di fondazione, proprio per il fatto che le fondazioni via dimostrazione formale sono le più sicure in assoluto. Se, dunque, non risultano incondizionatamente affidabili le fondazioni formali, a fortiori saranno affette dallo stesso limite quelle non formali. Naturalmente, ci possono essere proprietà delle nozioni non formali di fondazione in opposizione con quelle che afferiscono al predicato di dimostrabilità. Tuttavia, ciò è giustificato solo nel caso in cui le nozioni non formali esibiscono caratteristiche tali (come il carattere olistico nettamente più spiccato che nelle altre) da legittimare le proprietà diverse e non viene leso il principio di preservazione delle proprietà che discendono da tratti comuni. Iniziamo, dunque, con la presentazione dei sistemi della logica della dimostrabilità. 1. Logica della dimostrabilità. – a) Sistema cD via D1-D3. Si tratta di un sistema non misto (in cui, cioè, è definito il solo operatore della fondazione senza l’operatore della credenza o altri operatori). L’operatore di tale sistema è il predicato aritmetico di dimostrabilità in una teoria for-

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male sufficientemente potente T. Una teoria formale è detta sufficientemente potente se è una estensione propria o impropria della teoria formale dell’aritmetica ricorsiva primitiva PRA, per esempio la teoria PRA stessa o la teoria PA dell’aritmetica peaniana. Esso è il predicato canonico PrT regolato dalle cosiddette tre condizioni di derivabilità D1-D3 (dei teoremi di Gödel). Dal momento che le condizioni di derivabilità si ottengono entro una qualsiasi teoria sufficientemente potente, la relazione di derivabilità nel calcolo cD (espressa dal segno ) coincide con la dimostrabilità in T, ove T è una teoria formale sufficientemente potente.  significa dunque T . Si ricordi, inoltre, che la formula a che cade entro il raggio d’azione del predicato PrT si trova sotto codice (il gödeliano della formula stessa, che si indica attraverso il segno  α ). Così, per dire, attraverso il predicato aritmetico PrT, che la formula α è dimostrabile in T si scriverà: PrT ( α) (per una analisi dettagliata di questa tematica si veda S. Galvan, Introduzione ai teoremi di incompletezza, Milano 1992, o qualche altra trattazione formale dei teoremi di Gödel). È da notare, infine, che il sistema cD è strutturato in modo molto diverso da tutti gli altri sistemi esposti nella presente voce. Esso, infatti, è caratterizzato da un operatore che è un predicato aritmetico, le cui proprietà sono teoremi della teoria sufficientemente potente T. Non si tratta di un sistema modale, anche se presenta analogie con qualcuno di questi. In particolare esso presenta analogie con il sistema modale di logica della dimostrabilità GL, che sarà presentato nel punto b) seguente, ma non è formalmente identico ad esso. Il sistema è costituito dalla regola seguente (ove PrT ( X ) denota l’insieme dei risultati della applicazione del predicato PrT a tutte le formule appartenenti a X): Xα R PrT : PrT ( X )  PrT ( α) la quale è equivalente alle due prime condizioni di derivabilità: D1:  α ⇒  PrT ( α) D2 :  PrT ( α → β) → (PrT ( α) → PrT ( β)) e alla terza condizione di derivabilità, che funge da primo e unico assioma, per il predicato PrT: D3 :  PrT ( α) → PrT (PrT ( α))

Logica epistemica Teoremi: TD1 (G1): g sia la formula indecidibile di Gödel relativa a T. Allora, se T è consistente, allora  γ e se T è ω-consistente, allora  ¬γ. TD2 (G2): se T è consistente, allora  ¬ PrT ( ⊥ ) , ovvero se T è consistente allora: PrT ( α)  ¬ PrT ( ¬α) TD3 (Löb):  PrT (PrT ( α) → α) → PrT ( α) (per una analisi dettagliata della enunciazione e dimostrazione di questi risultati si veda S. Galvan, Introduzione..., cit., o qualche altra trattazione formale dei teoremi di Gödel). b) Sistema GL. Il sistema GL è un sistema di logica modale proposizionale. Esso è costituito dalla regola e assiomi seguenti (in realtà si può mostrare che GL1 è un teorema): Xα N: ˆ(X)  ˆα GL1: ˆα →ˆˆα GL2 (Löb): ˆ(ˆα → α) →ˆα L’interesse di tale sistema è dato dalla correttezza e completezza rispetto all'interpretazione aritmetica. Al fine di fornire una definizione rigorosa di entrambe le proprietà definiamo due concetti: il concetto di realizzazione e quello di traduzione di una formula modale rispetto a una realizzazione. Una realizzazione (in simboli *) è una funzione che assegna a ogni lettera proposizionale una proposizione (formula chiusa) del linguaggio della teoria di Peano PA (*(p) designa la proposizione aritmetica associata alla lettera p). Il concetto di traduzione di una formula modale α rispetto alla realizzazione * è definibile induttivamente nella maniera seguente: 1. ⊥ * ≡ ⊥, 2. p* ≡ *(p), 3. (α → β)* ≡ (α* → β*) 4.ˆ(α)* ≡ PrT ( α *). Allora la correttezza aritmetica di GL consiste nel fatto che: se GL  α allora per ogni realizzazione * PA-  α*. Per il primo teorema di Solovay, vale anche l’inverso, vale a dire la completezza di GL rispetto alla medesima interpretazione aritmetica. Solovay ha poi generalizzato questo risultato. Per ulteriori dettagli si vedano C. Smorynski, Modal Logic and Self-Reference (in D. Gabbay - F. Guenthner [a cura di], Handbook of Philosophical Logic, vol. II: Extensions of Classical Logic, Dordrecht 1984, pp. 441495), e G. Boolos, The Logic of Provability (Cambridge - New York 1993). 6621

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Logica epistemica 2. Logica della fondazione internalistica. – Sopra si è detto che il concetto di fondazione è più ampio rispetto a quello di dimostrabilità formale. Ci sono almeno due modalità (corrispondenti a due livelli diversi) secondo le quali le forme di fondazione in generale si differenziano da quella formale e tra di loro. Secondo la prima modalità (internalistica), il significato della relazione di fondazione tra una formula α e il soggetto epistemico (in breve, considerando che il soggetto epistemico è generico, di Fα) risulta dalla seguente espressione: a è fondata per il soggetto epistemico se e solo se ci sono delle procedure di attestazione per a degne d’essere ritenute universalmente affidabili e condivise anche dal soggetto epistemico. Dunque, perché la relazione di fondazione si costituisca, è necessario che le buone ragioni per ritenere una certa proposizione a vera esistano in sé (elemento oggettivo). L’esistenza di buone ragioni, tuttavia, coincide con l’esistenza di procedure di attestazione per quella proposizione degne d’essere ritenute affidabili da tutti i soggetti razionali. Ma tra i soggetti razionali c’è per definizione anche il soggetto epistemico. Quindi esse esistono e devono essere affidabili anche per il soggetto epistemico (elemento soggettivo). In conseguenza di ciò, poi, il soggetto può giungere, se vuole, alla fondazione attuale di a. In conclusione, la stretta corrispondenza tra elemento soggettivo ed elemento oggettivo è alla base della natura disposizionale implicita dell’operatore di fondazione: questo è disposizionale nello stesso modo e nella stessa misura in cui è disposizionale l’operatore di credenza. In secondo luogo, tale corrispondenza è alla base del carattere internalistico della nozione. Proprio per il fatto che la procedura coinvolta nella relazione di fondazione è a disposizione del soggetto epistemico, i fatti di fondazione sono aproblematici rispetto alla credenza e, quindi, la fondazione implica la credenza. Nei sistemi misti di logica della fondazione (ovvero in quelli in cui accanto all’operatore di fondazione è presente anche quello di credenza) la relazione di implicazione tra fondazione e credenza è formalizzata esplicitamente. Iniziamo con il sistema della fondazione minimale cF1. Quindi passeremo a quattro sistemi misti cCF1, cCF2, cCE1, cCE2. Di questi, gli ultimi due hanno lo scopo di formalizzare l’idea di fondazione basata sull’evidenza. La seconda forma di fondazione (quella esternalistica) sarà introdotta nella sezione III.3, dopo la rassegna 6622

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di tutti i sistemi della fondazione internalistica (per approfondimenti di questi e altri sistemi si veda S. Galvan, Logiche intensionali: sistemi proposizionali di logica modale, deontica, epistemica, Milano 1991, pp. 224-272, e A. Giordani, Teoria della fondazione epistemica, Milano 2002, pp. 105-130, 185-230). a) Sistema della fondazione minimale cF. Il calcolo cF è un sistema modale non misto. Si differenzia dal calcolo della dimostrabilità cD per il fatto d’essere un calcolo modale. Ma la ragione della differenza è più profonda. L’operatore di fondazione F che in esso è formalizzato ha un ambito di riferimento più ampio rispetto a quello a cui si riferisce il predicato aritmetico di dimostrabilità PrT. Ciò dipende dal fatto che l’operatore F si può intendere, informalmente, come un predicato di dimostrabilità in cui l’indice T è una variabile. Così F dovrebbe essere inteso ora come FX e ora come FY, ove FX indica l’essere fondato in base alla procedura (teoria) X e FY l’essere fondato in base alla procedura (teoria) Y. Tuttavia, il sistema cF sta con cD in un rapporto di continuità, nel senso che in esso valgono – naturalmente in un contesto diverso – tutti i principi di cD che permangono validi anche nella interpretazione estesa di F, sono aggiunti i principi che compatibilmente con gli altri risultano corretti nella nuova interpretazione e sono tolti solo i principi resi scorretti da quest’ultima. Per questo, il sistema cF è costituito dalla regola RF e da due assiomi. Xα RF : F(X)  F α

F1: F2 :

F α → FF α F(F α → α)

Innanzitutto una osservazione su RF. RF corrisponde alla regola RPrT, che è a sua volta equivalente a D1 più D2. In cF è poi presente l’analogo di D3. F1, che esprime il carattere di aproblematicità dei fatti di fondazione rispetto all’operatore F, corrisponde esattamente all’assioma D3. Considerando i limiti del linguaggio di cF rispetto a cD e tenendo conto, al contempo, dell’estensione di significato dell’operatore F, cF rispetta anche i teoremi di impossibilità contenuti in cD. Per esempio è rispettato TD2 (G2), in quanto anche in cF non vale ¬F ⊥ , ovvero F α → ¬F¬α. Ed è rispettato anche il teorema TD3 (Löb), in quanto la falsificazione di TD3 a causa dell’assioma F2 è solo apparente. Dato l’assioma F2, infatti, si potrebbe es-

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Logica epistemica

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sere tentati di argomentare nella maniera seguente. Prendiamo l’istanza F(F ⊥→ ⊥) di F2. Ma allora, per l’analogo di TD3, si avrebbe anche F ⊥, il che sarebbe del tutto implausibile, in quanto è da escludere che una procedura di fondazione possa essere contraddittoria. Tale argomentazione è tuttavia scorretta, in quanto la plausibilità di F2 sta nella nuova interpretazione dell’operatore F. La procedura a cui l’operatore si riferisce è variabile, di modo che niente esclude che la procedura a cui si riferisce il primo operatore di fondazione in F2 sia diversa da quella a cui si riferisce il secondo. In tal modo l’istanza di F2 F(F ⊥→ ⊥) non è un’istanza dell’antecedente del teorema di Löb, nel quale l’indice teorico T presente in tutti i predicati di dimostrabilità dell’enunciato è sempre lo stesso. D’altra parte, proprio l’interpretazione estesa dell’operatore F è all’origine della giustificazione dell’assioma F2. Ci sono, infatti, dei buoni motivi per ritenere che se una proposizione è fondata allora è anche vera. Il principio F2 non contrasta, poi, con il fatto che le procedure di fondazione non sono in generale incondizionatamente affidabili (cioè non vale incondizionatamente Fα → α), ma che si possono al massimo ritenere tali sulla base di ragioni esterne alle procedure stesse. Data la generalità dell’operatore di fondazione e la conseguente variabilità delle procedure sottese a ciascuna delle sue occorrenze, le ragioni di affidabilità delle fondazioni sono interpretabili quali ragioni di secondo ordine diverse da quelle di primo ordine che stanno alla base delle fondazioni stesse. È da notare, infine, la non presenza di un assioma dichiarante l’aproblematicità dei fatti di non fondazione rispetto a F. La ragione di ciò sta nel fatto che le affermazioni di non fondazione (data una certa procedura) non sono necessariamente evidenziabili, neppure se il soggetto epistemico ricorre a procedure di fondazione d’altro livello. Fα è, invece, necessariamente aproblematico nei confronti di F. Infatti, se il soggetto epistemico ha delle buone ragioni per a, egli avrà delle ragioni altrettanto buone per ritenere di avere delle buone ragioni per Fα. Ciò non potrebbe essere, d’altra parte, falso, data l’accessibilità della procedura di fondazione al soggetto. Per quanto il sistema cF costituisca – come cD – una buona base per i sistemi della fondazione, esso non è un sistema misto e non consente perciò di trattare le importanti relazioni esistenti tra gli stati di credenza e quelli di fondazione. Questo compito viene affrontato con i

sistemi seguenti, che sono tutti sistemi della credenza più fondazione. b) Sistema della credenza razionale più fondazione internalistica cCF1. È un sistema misto. Infatti è una estensione di cC. Il suo linguaggio contiene oltre all’operatore della credenza C quello della fondazione F ed è caratterizzato da tutte le regole di cC, l’assioma C1 e in più da: Xα RCF : F(X)  F α

CF1: CF2 : CF3 : CF 4 : CF5 : CF 6 :

F α → Cα F α → FF α Cα → FCα ¬Cα → F¬Cα Cα → CF α F(F α → α)

Vediamo solo le caratteristiche principali degli assiomi (per altri risultati concernenti il sistema e ulteriori osservazioni si veda S. Galvan, Logiche intensionali..., cit., pp. 247-258). Da CF1 si ricava che l’operatore F è un rafforzamento dell’operatore di credenza C, in quanto l'assioma esprime il fatto che se a è fondata allora è anche creduta. F, cioè, contiene già implicitamente l’idea di una credenza fondata e in questo senso è un rafforzamento di C. Si noti, però, che l’incremento è nel senso della giustificazione e non in quello della certezza. La nozione di credenza non è, infatti, suscettibile di gradazioni sotto l’aspetto della certezza. È da notare, infine, che CF1 è compatibile solo con una nozione di fondazione implicita e dunque internalistica. CF2 è il corrispettivo di F2 e di D3 rispettivamente del sistema cF e del sistema cD. Per esso vanno, dunque, ripetute le osservazioni fatte a proposito di questi. Con CF3 non si vuole ovviamente dire che il credere a implichi l’avere buone ragioni per credere a, ma che il credere (a prescindere dalle ragioni per tale credere) α implica l’avere buone ragioni per ritenere di credere (a prescindere dalle ragioni per tale credere) a. In altre parole CF3 dichiara che, se il soggetto epistemico crede che a, allora egli ha buone ragioni (in effetti gli è introspettivamente evidente) per ritenere di credere a, anche se non necessariamente per credere a. Dire che tali buone ragioni siano buone ragioni per credere a (e non semplicemente per ritenere di credere a) sarebbe porre Cα → F α (e non semplicemente Cα → FCα). Analoga argomentazione vale per CF4. 6623

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Logica epistemica CF5, infine, è l’assioma che caratterizza il rapporto tra credenza (come convinzione) e l’esigenza di fondazione. Con esso infatti si vuole dichiarare che è impossibile che un soggetto sia convinto di qualcosa e non sia al contempo convinto di avere buone ragioni per credervi. Per quanto ci siano delle forme di convinzione cieca, questa sembra essere di fatto la nozione più comune di convinzione razionale. Anche qui va sottolineato, però, che CF5 non coincide con l’affermazione che le convinzioni sono convinzioni fondate (il che sarebbe espresso dal principio Cα → F α), ma che, data una qualsiasi convinzione, il suo contenuto è semplicemente ritenuto fondato. Il quadro generale dei risultati che riguardano tale sistema è riassunto nella seguente tabella:

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tati concernenti i rapporti di aproblematicità e di affidabilità, evidenziati dalla tabella seguente:

Vale inoltre anche in cCF2 CF α  Cα. d) Sistema della credenza più evidenza correggibile cCE1. È il calcolo che si ottiene da cCF2 sostituendo l’operatore di fondazione generico F con l’operatore d’evidenza E, lasciando cadere CF5 e m e t t e nd o a l s u o p os t o l ’ a ss i o m a E 5 : ¬Eα → E¬Eα . In tal modo cCE1 è costituito dalle regole di cC, dall’assioma C1 e inoltre da: Xα RE : E(X)  Eα

Vale inoltre CF α  Cα. c) Sistema della credenza più fondazione implicita cCF2. Si tratta del sistema cCF1 privato dell’assioma CF5 che, come si è visto sopra, caratterizza una nozione di credenza razionale molto forte e, forse, irrealistica. Il sistema risulta, pertanto, costituito dalla regola e assiomi seguenti: Xα RCF : F(X)  F α

CF1: CF2 : CF3 : CF 4 : CF5 :

F α → Cα F α → FF α Cα → FCα ¬Cα → F¬Cα F(F α → α)

Sono da riprendere le osservazioni agli assiomi del sistema precedente. Valgono gli stessi risul6624

E1: E2 : E3 : E4 : E5 :

Eα → Cα Eα → EEα Cα → ECα ¬Cα → E¬Cα ¬Eα → E¬Eα

È chiaro innanzitutto che E5 vale sotto la condizione che l’operatore E sia inteso nel senso dell’evidenza implicita più rigida. Mentre, infatti, si può dire sensatamente che, se al soggetto epistemico non risulta evidente che a, allora gli risulta evidente la non evidenza di a, non si può dire altrettanto che, se il soggetto epistemico non è capace di fondare a, allora gli risulta fondata la mancanza di tale fondazione. Non accade forse spesso che non ci riesca di giustificare qualcosa, anche se non vi è nessuna ragione perché ciò sia impossibile e che tale giustificazione possa venir da noi apportata in un secondo momento? In secondo luogo, anche al di là dell’interpretazione di E come «è evidente che» o «è evi-

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Logica epistemica

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denziabile che», E5 caratterizza una forma radicale di capacità fondativa, secondo la quale non esiste, per così dire, nessuna distanza tra il soggetto epistemico e la procedura che egli può attivare per attestare qualcosa. Si assume, cioè, che la procedura di fondazione sia del tutto trasparente al soggetto epistemico, nel senso che gli siano accessibili non solo le situazioni di fondabilità ma anche quelle di non fondabilità. Si tratta perciò chiaramente di una ipotesi idealmente realistica solo per una nozione implicita di evidenza o evidenziabilità. La presenza di E5 tra gli assiomi del sistema è gravida di conseguenze. La prima di queste è data dal fatto che se vale E5 non può valere l’analogo dell’assioma CF5 di cCF1. Ciò è vero già per motivazioni intuitive. Se si parte da una interpretazione forte del concetto di fondazione come l’evidenza, non si può pretendere che ogni credenza, per quanto elevata nel suo grado di certezza, sia accompagnata dalla convinzione che sia in tal senso fondata. Ci sono però anche ragioni tecniche che palesano l’incompatibilità tra E5 e CF5 di cCF1. Supponiamo che valga Cα → CEα. D’altra parte vale CEα → Eα, come risulta dallo schema riassuntivo seguente. Pertanto si avrebbe Cα → Eα, il che è falso. L’assunzione di CF5 di cCF1 obbliga dunque a escludere E5. Altre conseguenze importanti dell’assumere E5 al posto di CF5 e CF6 di cCF1 sono: (i) in cCE1 CF6 di cCF1 vale come teorema; (ii) in cCE1 valgono senza eccezioni tutti i principi che asseriscono la aproblematicità e l’affidabilità sia delle credenze e non credenze, sia delle fondazioni e non fondazioni rispetto a C e a E. In sintesi:

Sono ovviamente importanti i due risultati negativi seguenti: Cα  Eα e Eα  α. Dal primo segue, come si è visto sopra, l’impossibilità di assumere Cα → CEα. Il secondo, poi, mette in evidenza che, per quanto si richiedano forme di fondazione particolarmente forti come l’evidenza, con esse non si esce, per così dire, dal circuito chiuso della soggettività, che mai riesce a garantire l’affidabilità incondizionata dei propri contenuti. e) Sistema della credenza con evidenza incorreggibile cCE2. L’osservazione svolta alla fine della trattazione del sistema cCE1 riguardava il carattere di non affidabilità incondizionata dei fatti d’evidenza. Storicamente sono state tuttavia difese concezioni della conoscenza secondo le quali esistono forme d’evidenza incondizionatamente affidabile o, come talvolta si dice, incorreggibile. In sede di ricerca logica non è possibile assumere una posizione determinata in merito. È piuttosto utile chiarire assiomaticamente il tipo d’evidenza incorreggibile, giungendo alla esplicitazione delle conseguenze ultime a cui essa porta e mostrando quali altri principi epistemici sono da sacrificare se si vuole mantenere il principio di riflessività che assiomatizza l’idea di incorreggibilità. Il sistema cCE2 si ottiene dal sistema cCE1 lasciando cadere l’assioma E5 e mettendo al suo posto l’assioma di riflessività Eα → α . Nel seguito useremo il segno E come operatore per l’evidenza incorreggibile. Il sistema cCE2 è costituito dalle regole di cC, dall’assioma C1 e inoltre dalla regola e assiomi seguenti: Xα RE : E(X)  Eα

E1: E2 : E3 : E4 : E5 :

Eα → Cα Eα → EEα Cα → ECα ¬Cα → E¬Cα Eα → α

Perché è stato fatto cadere l’assioma E5 (¬Eα → E¬Eα) del sistema cCE1? È stato fatto cadere perché inutile o perché incompatibile con il nuovo assioma E5 ? E5 si è dovuto espungere dal sistema perché insieme con il principio di riflessività E5 conduce alla situazione paradossale secondo la quale è esclusa la possibilità dell’errore. Infatti, supponiamo che valgano insieme E5 : Eα → α e E5: ¬ Eα → E¬ Eα . 6625

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Logica epistemica Si ha allora: da E5 ¬ Eα  E¬ Eα ¬Eα  C¬Eα per E1 da C1 CEα  ¬C¬Eα per logica CEα  Eα per E5 CEα  α Ora, è altamente problematico che si diano delle forme d’evidenza non suscettibili d’essere minimamente ingannevoli, ossia tali che il semplice credere che siano forme d’evidenza incorreggibili le renda tali. Ma se si vuole evitare questa conseguenza e si vuole tenere fermo il principio di riflessione, si deve eliminare il principio E5. Da questo risultato viene la lezione che tra i due principi di riflessività dell’operatore (ovvero di affidabilità del fatto d’evidenza) e di aproblematicità dei fatti di non evidenza (rispetto all’evidenza) si deve optare. L’assunzione del primo caratterizza il sistema cCE2, mentre l’assunzione dell’altro caratterizza cCE1. Un quadro riassuntivo dei principi che valgono nel sistema è il seguente:

Valgono inoltre i risultati negativi Cα  Eα, e Cα  CEα. 3. Logica della fondazione esternalistica. – All’inizio della sezione III.2 si è detto che ci sono almeno due modalità secondo le quali le forme di fondazione in generale si differenziano da quella formale e tra di loro. Nel resto della sezione sono stati studiati alcuni sistemi che hanno alla base la prima delle due modalità, la modalità internalistica. Questa ha luogo perché il nesso tra componente soggettiva e componente oggettiva della relazione di fondazione è inteso in modo particolarmente stretto. Ebbene, se tale nesso viene inteso in modo meno vincolante si ottiene la seconda modalità. Cerchiamo di esa6626

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minare la natura della seconda forma di fondazione, mettendo in evidenza – in termini di contrasto – le differenze con la prima. Ciò ci consentirà di comprendere a fondo anche la ragione della sua denominazione come modalità esternalistico-potenziale (in breve esternalistica). Mentre, secondo il primo modo di intendere il rapporto tra componente soggettiva e componente oggettiva, il soggetto ha effettivo accesso all’uso della procedura alla base del processo di fondazione, in quanto questa gli è attualmente a disposizione, ciò gli è almeno parzialmente negato nella seconda interpretazione. Secondo la modalità esternalistica, infatti, la procedura, pur essendo in linea di principio accessibile al soggetto – nel senso che il soggetto saprebbe perfettamente riconoscerla come procedura affidabile di fondazione se fosse sufficientemente fortunato a scoprirla –, gli potrebbe essere di fatto attualmente sconosciuta. La procedura dunque esiste – e il suo impiego porterebbe alla fondazione della proposizione in gioco – eppure il soggetto non ne può far uso perché attualmente al di fuori della sua portata. Naturalmente la liberalizzazione del vincolo di accesso viene a ripercuotersi sull’interpretazione disposizionale del predicato di fondazione. In questa interpretazione, infatti, il carattere disposizionale della relazione di fondazione viene fortemente accentuato, in modo da non risultare analogo a quello della nozione di credenza, come vale, al contrario, per la nozione di fondazione basata su una procedura attualmente condivisa. Per chiarire: che cosa significa credere che a? Credere che a significa che a può diventare oggetto di credenza attuale da parte del soggetto epistemico, se quest’ultimo lo vuole. Non si pongono condizioni aggiuntive per l’attualizzazione, in quanto si assume che il soggetto si trovi nella condizione ideale di avere a disposizione risorse di tempo e di energia potenzialmente infinite. Ora, nel contesto della prima concezione del concetto di fondazione, Fα significa: il soggetto ha attualmente a disposizione una procedura tale che, date le condizioni ideali di disponibilià potenzialmente infinita delle risorse di tempo e di energia, gli è consentito, se vuole, di rendere attuale l’attestazione di a. Il significato del predicato di fondazione nella seconda concezione non è invece più questo. Fα, infatti, significa: esiste una procedura di fondazione non attualmente a disposizione del soggetto, a lui accessibile in linea di principio – anche se non in forza di un puro atto della sua volontà – tale che, date le condizioni ideali di disponibilità po-

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Logica epistemica

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tenzialmente infinita delle risorse di tempo e di energia, il suo possesso consentirebbe al soggetto di rendere attuale l’attestazione di a. L’accentuazione dell’aspetto potenziale (e dunque esternalistico) del carattere disposizionale della seconda nozione di fondazione dovrebbe risultare, a questo punto, evidente, ma un esempio concreto può essere d’aiuto per chiarire la differenza tra le due nozioni di fondazione. Il primo tipo d’operatore di fondazione è esemplificato dal predicato di dimostrabilità in una certa teoria T a disposizione del soggetto: Fα è esemplificato, cioé, da PrT ( α), ove PrT ( α) significa che a è dimostrabile in T, vale a dire che il soggetto epistemico ha a disposizione la procedura dimostrativa costituita dalla teoria T, attraverso la quale gli è consentito, se vuole, di ottenere il teorema a. Se, al contrario, Fα significa (ex T)(PrT ( α)), allora il soggetto potrebbe trovarsi nella condizione di non conoscere attualmente la teoria che garantisce di poter dimostrare a – il che gli precluderebbe la possibilità di rendere attuale la dimostrazione di a –, anche se in sé la dimostrazione esiste. In altre parole, nella prima concezione l’operatore di fondazione rappresenta semplicemente una disponibilità implicita (basta la sola volontà del soggetto per attualizzare la dimostrazione), mentre nella seconda si tratta di un concetto di disponibilità segnata da una potenzialità molto più sfumata (non attualizzabile attraverso un puro atto di volontà). E simmetricamente: mentre nella prima concezione il concetto di fondazione è internalistico, proprio perché il soggetto ha accesso implicito alla dimostrazione, nella seconda è esternalistico, in quanto tale accesso può essere negato anche se la dimostrazione esiste. Non si vuole negare la difficoltà del reperimento da parte del soggetto epistemico della dimostrazione di a anche nel primo caso. Si tratta tuttavia di difficoltà di altro livello rispetto a quella esemplificata nella seconda situazione. Nel primo caso, se la dimostrazione di a c’è, allora è sicuro che dopo un numero finito (per quanto grande) di tentativi il soggetto arriverà alla dimostrazione. Infatti, dati gli assiomi di T, l’insieme dei teoremi è ricorsivamente enumerabile. Nel secondo caso, invece, la sicurezza di trovare la dimostrazione non c’è, dal momento che, fino a che non sono trovati gli assiomi della teoria in questione (e ciò non è meccanicamente decidibile), l’insieme dei teoremi non è ricorsivamente enumerabile (la distinzione tra le due forme di fondazione è sviluppata in dettaglio in Giordani, op. cit., pp. 85-104).

Sistema della credenza più fondazione esternalistica cCFP. Il sistema è caratterizzato dalle regole di cC, dall’assioma C1 e inoltre da regola e assiomi seguenti: Xα RF : F(X)  F α

CFP1: CFP2 : CFP3 : CFP4 : CFP5 :

CF α → Cα F α → FF α Cα → FCα ¬Cα → F¬Cα F(F α → α)

Il sistema si differenzia da cCF2 per un solo assioma. cCFP nasce infatti da cCF2 per il solo fatto che l’assioma CF1 è rimpiazzato dall’assioma CFP1. Gli altri assiomi sono uguali. La differenza tra CF1 (F α → Cα) e CFP1 (CF α → Cα) è tuttavia essenziale. Nel contesto dei sistemi che formalizzano l’idea esternalistica di fondazione, c’è stacco tra l’elemento oggettivo dell’esistenza di una fondazione per a e il fatto soggettivo del riconoscimento di questa da parte del soggetto. Di conseguenza, il fatto che tale fondazione sussista, vale a dire il fatto che Fα, non è sufficiente affinché il soggetto creda che a. Non è sufficiente, perché non è detto che la procedura per fondare a sia a disposizione del soggetto, anche se esiste. In secondo luogo, non può valere neppure che F α → CF α. In tal caso, infatti, si avrebbe, attraverso CFP1, anche F α → Cα, che, come si è detto, è incompatibile con una concezione esternalistica della fondazione. Il quadro dei principali principi che valgono per l’operatore della fondazione esternalistica è riassunto nella seguente tabella:

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Logica epistemica Vale inoltre il solito risultato negativo Cα  F α. IV. LOGICA DEL SAPERE. – Ci sono nozioni diverse di sapere. La diversità dipende da due fattori: il numero delle componenti che costituiscono il sapere e la qualificazione di tali componenti. Per quanto riguarda il primo fattore, abbiamo già notato precedentemente che tre, almeno, sono le componenti necessarie del sapere: la credenza, la fondazione e la verità. Il sapere, in cui tali componenti sono anche sufficienti, è il sapere inteso, classicamente, come credenza retta e fondata. Tuttavia, è stata oggetto di studio anche la nozione di sapere (più debole) come semplice credenza retta e sono state studiate anche forme più ricche del sapere come credenza retta e fondata. Nel seguito della sezione presenteremo, senza nessuna pretesa di completezza, il calcolo del sapere come credenza retta e un gruppo di calcoli per il sapere come credenza retta e fondata. Che ci sia un solo calcolo del sapere nel primo senso dovrebbe risultare ovvio. Tale calcolo, infatti, formalizza l’idea di credenza vera, di modo che alla base della sua costruzione sta solo la logica della credenza e la logica proposizionale classica, logiche entrambe caratterizzate da un unico calcolo. Al contrario, i calcoli della logica della fondazione sono molteplici e ognuno di essi, caratterizzando in modo diverso la relazione di fondazione, costituisce la premessa per una qualificazione diversa della terza componente del sapere e indirettamente anche delle altre. Dal momento, poi, che la qualificazione delle componenti costituisce il secondo fattore della diversità delle varie nozioni di sapere, i calcoli della fondazione svolgeranno un ruolo primario nella costruzione dei vari sistemi di sapere come credenza retta e fondata. 1. Sistema del sapere come credenza retta. – Sia dato il calcolo della credenza cC. Si aggiunga ai segni dell’alfabeto di cC quale nuovo segno primitivo l’operatore epistemico (in senso stretto) S, in modo tale da aver formule del tipo Sα. Alle regole e assiomi di cC si aggiunga infine il seguente assioma definitorio per cS: AS: Sα ↔ Cα ∧ α. Il calcolo cS che si ottiene in questo modo è chiaramente l’estensione di cC che formalizza l’idea radicale del sapere come semplice forma di credenza retta. Infatti, secondo l’assioma AS due sono le condizioni necessarie e sufficienti perché si dia una forma di sapere: perché a sia 6628

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saputa occorre ed è sufficiente che a sia creduta (condizione soggettiva di credenza) e che a sia vera (condizione oggettiva di verità). Inoltre, cS è una estensione conservativa di cC, nel senso che in cS non sono derivabili sequenze costituite da sole formule appartenenti al linguaggio di cC che non siano derivabili già in cC. Infatti, in cS l’assioma AS svolge la stessa funzione della regola definitoria corrispondente: Sα =def . Cα ∧ α. Da ciò segue che tutti i risultati di inderivabilità in cC, come ad esempio Cα  α, sono estendibili anche a cS. I principali principi di cS sono sintetizzati nel seguente quadro:

Come è facilmente comprensibile, l’interesse è legato principalmente alle relazioni di non derivabilità. In particolare, dalla tabella si ricava che i fatti di non conoscenza non sono aproblematici. Quando non si sa qualcosa non è dato necessariamente di sapere (e neppure di credere) di non sapere. Inoltre, mentre se si crede di non sapere allora è vero che non si sa, se si crede di sapere allora è possibile ingannarsi riguardo al contenuto di tale credere. Ci può essere affidabilità sicura solo per il non sapere ma non per il sapere. Per questo e per la non aproblematicità dei fatti di non conoscenza il sapere, come credenza retta, è aperto all’errore. È da notare l’importanza della circostanza per la quale l’errore epistemico è reso possibile dal fatto che si può credere di sapere, pur non sapendo, e non dal fatto di poter sapere il falso. L’oggetto del sapere è definitoriamente il vero, per cui non è possibile sapere il falso. Si può credere il falso (caso dell’errore doxastico), ma

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Logica epistemica

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non saperlo. Si noti che l’apertura all’errore non potrebbe aver luogo se la logica del sapere fosse il sistema modale S5. In tal caso, infatti si avrebbe: ¬Sα → S¬Sα per assioma 5. Quindi ¬S¬Sα → Sα per contrapposizione. Ora, in base a un noto risultato di cS, vale ¬S¬Sα ↔ Cα. Perciò si ha Cα → Sα, e quindi CSα → Sα. Il credere di sapere non sarebbe, pertanto, compatibile con il non sapere. 2. Sistemi del sapere come credenza retta e fondata. – Il sapere internalistico è caratterizzato da un operatore della fondazione F, per il quale vale il principio che Fa implica CFa. Consideriamo, a questo punto, i sistemi della fondazione con operatori internalistici. Essi sono cCF1, cCF2, cCE1 e cCE2. Essi forniscono indistintamente una nozione di fondazione internalistica. Dunque tutte le nozioni di sapere in cui la componente fondazionale è formalizzata da qualcuno di questi sistemi saranno nozioni internalistiche. Vediamo due di tali sistemi, emblematici da tale punto di vista. a) Sistemi del sapere fondato internalistico. Sistemi del sapere fondato internalistico cSFi. Si aggiunga a cCF1 (o a cCF2) il seguente assioma definitorio del sapere: Si α ↔ F α ∧ α. Il sistema risultante formalizza l’idea del sapere come credenza retta e fondata, ove la relazione di fondazione coinvolta è quella formalizzata da cCF1 (o cCF2). È facile innanzitutto rendersi conto che l’assioma definitorio implica tutte le componenti della nozione di sapere introdotta. Le componenti della fondazione e della verità sono implicate esplicitamente. Ma è implicata – indirettamenta – anche la componente della credenza. Infatti cCF1 (e cCF2) contiene l’assioma F α → Cα, per cui la presenza di Fα garantisce l’implicazione anche di Cα. In secondo luogo, in cCF1 (e in cCF2) vale anche il principio F α → CF α. Dunque è soddisfatta la condizione perché il sapere sia internalistico. La condizione di fondazione è accessibile attualmente al soggetto, di modo che se la fondazione esiste, allora di ciò è consapevole anche il soggetto. È da notare che il carattere internalistico del sapere definito da cSi si riflette sul fatto che tale nozione di sapere soddisfa la condizione di transitività: Si α → SiSi α. Infatti:

F α ∧ α  (FF α ∧ F α) ∧ F α ∧ α FF α ∧ F α  F(F α ∧ α) F α ∧ α  F(F α ∧ α) ∧ F α ∧ α Si α  SiSi α  Si α → SiSi α

da assiomi esp. di F log ica per def. Si logica

Sistemi del sapere internalistico fondato sull’evidenza cSEi. L’evidenza è una particolare forma di fondazione. Se quale sistema caratterizzante l’operatore d’evidenza si assume cCE1, le cose non cambiano di molto rispetto al caso precedente. Se, invece, si assume il sistema dell’evidenza incorreggibile cCE2, l’assioma definitorio del sapere si può introdurre in forma ancor più semplificata. Si può porre: SEα ↔ Eα. In ogni caso anche per tale nozione di sapere è soddisfatta la condizione di internalismo, perché vale Eα → CEα. b) Sistema del sapere fondato esternalistico cSe. Il sistema caratterizzante l’operatore di fondazione sia cCFP. Si ricordi che in tale sistema non vale il principio F α → CF α. Proprio per questo motivo non vale neppure F α → Cα. Dunque, perché si abbia sapere in conformità con questa nozione di fondazione, occorre garantire volta per volta che ci sia l’accesso alla (la consapevolezza della) procedura potenziale di fondazione. Non basta che esista tale procedura, occorre garantire la consapevolezza che essa ci sia e sia accessibile. A tal fine è sufficiente porre, accanto alle componenti Fα e α anche la componente CFα. In sintesi l’assioma definitorio del sapere fondato esternalistico è: Se α ↔ CF α ∧ F α ∧ α. Con questa definizione si garantisce l’accesso di cui si è parlato. In secondo luogo si garantisce anche la componente della credenza, in quanto CF α → Cα. Fα non basta perché Fα non garantisce la credenza di α. È da notare che il carattere esternalistico del sapere definito da cSe si riflette sul fatto che tale nozione di sapere non soddisfa la condizione di transitività: Se α → Se Se α, condizione, al contrario soddisfatta dai sistemi internalistici cSi. Ciò per il motivo che non vale F α → CF α. V. IL PROBLEMA DELLE GARANZIE DEL SAPERE. – Nel corso delle riflessioni riguardanti il sapere come credenza retta si è osservato che tale nozione di sapere non è capace di autogaranzia, dal momento che essa si riduce a credenza di sapere e la credenza di sapere è compatibile con lo stato di non sapere. La ricerca di un fondamento per il sapere, implicita nella nozione di sapere come credenza retta e fondata, rappresenta un tentativo di risposta a questo problema. Con la richiesta di fondazione si tende a ridurre lo spazio esistente tra la semplice credenza del sapere e il sapere effettivo. Tuttavia, non è sufficiente porre la fondatezza come 6629

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Logica formale condizione necessaria del sapere per ottenere una forma di sapere completamente (vale a dire, incondizionatamente) autogarantito. Questo risultato scaturisce dalla non affidabilità incondizionata delle fondazioni: in tutti i sistemi (eccetto cCE2, per il quale va fatto un discorso a parte) non vale il principio Fα → α. Per questo, un sapere per il quale valga che credere di sapere implica l’effettivo sapere, ovvero, in termini formali, tale che FSα → Sα (tesi di incontrovertibilità del sapere fondato), non esiste (a parte la forma di sapere formalizzata in cCE2). Infatti, in tutti questi sistemi, il principio FSα → Sα (tesi di incontrovertibilità del sapere) è equivalente a Fα → α (tesi di affidabilità incondizionata delle fondazioni). In sintesi, dunque, non ci sono in generale garanzie assolute per asserire di trovarsi in una situazione di sapere, neppure se ci possono essere delle buone ragioni per dichiarare di sapere fondatamente qualcosa. Naturalmente tale risultato non vale per la forma di sapere formalizzato da cCE2. Per tale forma di sapere (basato su evidenze affidabili) vale infatti Eα → α. Viene a mancare, dunque, la ragione della fallibilità tipica delle altre forme di sapere. Il vantaggio del sapere per evidenza è, tuttavia, effimero, in quanto, anche se vale Eα → α, non può al contempo valere incondizionatamente CEα → Eα. È possibile credere di avere un’evidenza affidabile e tuttavia ingannarsi nel giudicare il tipo d’evidenza. La fallibilità del sapere evitata in forza della affidabilità dell’evidenza, rientra, dunque, attraverso l’inaffidabilità della credenza d’evidenza. Dato l’analogo esito di controvertibilità sia per il sapere come credenza retta sia per il sapere fondato, vale la pena di chiedersi che cosa si guadagna nel richiedere che il sapere autentico sia caratterizzato, oltre che dalle condizioni di verità e di credenza, dalla condizione aggiuntiva di fondatezza. Per quanto a prima vista non paia esserci alcuna differenza essenziale, in modo tale da sentirsi legittimati a dire che la differenza tra sapere e credere è data solo dalla presenza estrinseca della verità, in realtà il guadagno c’è. Esso si può cogliere facilmente se si riflette sul significato della non validità generale di Fα  α. La non validità di Fα  α, e quindi la controvertibilità del sapere fondato, discende dal fatto che non esiste una fondazione logica (incondizionata) dell’affidabilità delle fondazioni. Negare che α segua logicamente da Fα non significa però negare che 6630

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esista un fondamento (ossia che esistano delle ragioni) d’altro tipo per l’affidabilità di Fα. L’assioma F(F α → α) dichiara proprio l’esistenza di un fondamento in generale non logico dell’affidabilità delle fondazioni. Se si esplicita, attraverso l’apposizione di un indice, il riferimento alla procedura di fondazione implicita in ognuna delle occorrenze di F, il significato dell’assioma è, infatti, il seguente: se è data una procedura di fondazione x tale che Fx α, allora esiste una procedura y tale che Fy (Fx α → α). Dunque, anche se non vale  Fx α → α, ossia anche se non esiste un fondamento logico per l’affidabilità di Fx, esiste pur tuttavia un fondamento non logico, che fa capo a y, per l’affidabilità delle fondazioni che fanno capo a x, vale cioè  Fy (Fx α → α). S. Galvan BIBL.: J. HINTIKKA, Models for Modalities, Dordrecht 1969; W. LENZEN, Recent Work in Epistemic Logic, in «Acta Philosophica Fennica», 30 (1978), pp. 1-219; W. LENZEN, Epistemologische Betrachtungen zu [S4,S5], in «Erkenntnis», 14 (1979), pp. 33-56; G. BOOLOS, The Unprovability of Consistency: an Essay in Modal Logic, Cambridge - New York 1979; F. VON KUTSCHERA, Grundfragen der Erkenntnistheorie, Berlin - New York 1982; P. WEINGARTNER, Conditions of Rationality for the Concepts Belief, Knowledge, and Assumption, in «Dialectica», 36 (1982), pp. 243-263; C. SMORYNSKI, Self-Reference and Modal Logic, New York - Berlin - Heidelberg - Tokyo 1985; K. GÖDEL, The Collected Works of Kurt Gödel, ed. a cura di S. Feferman et al., New York - Oxford 1986-95, 4 voll., tr. it. parziale a cura di E. Ballo et al., Opere, Torino 19992002, 2 voll.; S. GALVAN, Logiche intensionali. Sistemi proposizionali di logica modale, deontica, epistemica, Milano 1991; P. HAJEK - P. PUDLAK, Metamathematics of First-Order Arithmetic, Berlin 1993; R. GIRLE, Modal Logics and Philosophy, Montréal - Ithaca (New York) 2000; P. BLACKBURN et al., Modal Logic, Cambridge 2001; R. STUHLMANN-LAEISZ, Philosophische Logik. Eine Einführung mit Anwendungen, Paderborn 2002; S. GALVAN, Einführung in die Unvollständigkeitstheoreme, Paderborn 2006.

LOGICA FORMALE. – SOMMARIO: I. IntroduLogica formale zione. - II. Operatori logici. - III. Teorie formali: sintassi e semantica. I. INTRODUZIONE. – In logica si analizzano le inferenze, ossia le concatenazioni di proposizioni in cui una conclusione è ottenuta da un insieme di premesse. Nelle inferenze logicamente corrette la conclusione è conseguenza logica delle premesse, ossia la verità delle premesse garantisce la verità della conclusione. Fin dalle

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Logica formale

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sue origini, che risalgono ad Aristotele, l’indagine logica si è caratterizzata per il suo carattere formale: ciò significa che la correttezza delle inferenze si basa sulla «forma» delle proposizioni e non sui loro particolari contenuti. Un classico esempio di inferenza corretta è: «Socrate è uomo» «Tutti gli uomini sono mortali» ________________________________ «Socrate è mortale» Per la correttezza dell’inferenza non è rilevante che si parli di Socrate, dell’essere uomo e dell’essere mortale. Le seguenti quattro inferenze sono corrette poiché hanno la stessa «forma» della precedente: «Napoleone è francese» «Tutti i francesi sono corsi» __________________________ «Napoleone è corso» «Napoleone è genovese» «Tutti i genovesi sono cinesi» __________________________ «Napoleone è cinese» «Napoleone è corso» «Tutti i corsi sono francesi» __________________________ «Napoleone è francese» «Napoleone è cinese» «Tutti i cinesi sono francesi» __________________________ «Napoleone è francese» Nella prima la conclusione è vera e una premessa è falsa, nella seconda la conclusione è falsa ed entrambe le premesse sono false, nella terza le premesse sono vere e la conclusione vera, nella quarta entrambe le premesse sono false e la conclusione vera. Tutte esemplificano la regola d’inferenza che viene solitamente così formalizzata nel linguaggio L1 della logica dei predicati: Pa ∀x(Px → Qx) Qa Pertanto, la correttezza di un’inferenza non dipende dai contenuti delle premesse e della conclusione, e la conclusione può seguire logicamente dalle premesse anche se è falsa. Anche l’inferenza: «Se sono colpevole, allora devo essere punito. Sono colpevole. Quindi

devo essere punito» è corretta in quanto la seguente regola: se α, allora β α→β α α β β della logica proposizionale, detta modus ponens, è corretta: qualsiasi siano le proposizioni α e β , se le premesse sono vere, allora la conclusione è vera. L’inferenza: «Se sono colpevole, allora devo essere punito. Ma io non sono colpevole. Quindi non devo essere punito» non è corretta in quanto la corrispondente regola: se α, allora β α→β non α ¬α non β ¬β può condurre da premesse vere a una conclusione falsa, come si vede da: «Se Fabio è genovese, allora Fabio è ligure» «Fabio non è genovese» _____________________________________ «Fabio non è ligure» La prima premessa è senz’altro vera, in quanto tutti i genovesi sono liguri; tuttavia, se Fabio è nato in una provincia ligure diversa da Genova, è vera anche la seconda premessa, ma è falsa la conclusione. II. OPERATORI LOGICI. – Nello studio delle inferenze si evidenzia la «forma logica» delle proposizioni in modo da prescindere dai particolari contenuti. La forma delle proposizioni è determinata dalla presenza di termini quali «se..., allora...», «non», «tutti», detti operatori logici. L’analisi logica delle inferenze si suddivide in molteplici settori, a seconda di quali operatori si prendono in considerazione. Il nucleo fondamentale della logica è costituito dalla logica classica, in cui si assume il principio di bivalenza: ogni proposizione può assumere uno e uno solo dei due valori di verità, il vero (V) o il falso (F), e si analizza il comportamento logico dei connettivi vero-funzionali (o estensionali), quali la negazione («non», simbolo ¬), il condizionale («se..., allora...», simbolo →), la congiunzione («e», simbolo ∧), la disgiunzione («o», simbolo ∨) e dei quantificatori («per ogni», «esiste», simboli ∀ e ∃). Lo studio delle inferenze si articola poi in molteplici settori che possono risultare estensioni della logica classica ottenute con l’aggiunta di operatori non vero-funzionali, (intensionali), 6631

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Logica formale ad esempio quelli modali aletici («necessario», «possibile», «contingente»), o deontici («obbligatorio», «permesso», «vietato»), o epistemici («sapere», «credere», «credere fondatamente»), oppure in cui non si assume il principio di bivalenza (logiche polivalenti, logiche fuzzy, logiche probabiliste), oppure in cui non valgono principi della logica classica, quali ad esempio il principio del terzo escluso, in formula α ∨ ¬α (logica intuizionista), la legge di Scoto, in formula α ∧ ¬α → β (logiche paracoerenti, ad esempio la logica minimale), le leggi distributive, tra cui in formula α ∧ (β ∨ γ) ↔ (α ∧ β) ∨ (α ∧ γ) (logica quantistica), e così via. In ogni caso, la formalizzazione delle inferenze conduce allo studio della logica nell’ambito di sistemi formali appositamente elaborati. In generale, in un sistema formale si opera sulle formule di un determinato linguaggio mediante l’applicazione di un complesso di regole che prescindono dal «significato» attribuito alle formule e fanno riferimento solo alla loro struttura sintattica. In questa accezione più ampia rientrano anche i giochi (per esempio gli scacchi), gli ambiti nei quali si procede mediante algoritmi (per esempio nell’esecuzione di operazioni), ossia ovunque si applichino regole meccaniche formali le quali, date certe espressioni, producono in modo meccanico nuove espressioni. Nel caso della logica l’obiettivo primario è ricondurre l’attività inferenziale all’applicazione di un sistema di regole d’inferenza, quali le due precedentemente esplicitate. In generale, un sistema formale è costituito da una coppia ordinata (L, D) formata da un linguaggio formale L e da un apparato deduttivo D. Esaminiamo separatamente le due componenti. 1) Linguaggio formale. In generale, un linguaggio formale L è costituito da una coppia (A, F) formata da un alfabeto A e da un insieme F di formule (che può assumere denominazioni diverse a seconda del sistema formale). L’alfabeto A è l’insieme dei simboli che si impiegano per costruire le formule. Concatenando i simboli dell’alfabeto si ottengono le sequenze finite di simboli, dette stringhe o espressioni di L. L’insieme F delle formule è un sottoinsieme opportunamente scelto dell’insieme delle stringhe di L. Usualmente l’insieme F è definito mediante un procedimento induttivo: si fissano alcune formule di base (o atomiche) e si elencano le regole di formazione, le quali con6632

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sentono di ottenere formule più complesse a partire da formule più semplici: le formule di F si ottengono a partire dalle formule base applicando un numero finito di volte le regole di formazione. Anche nei linguaggi naturali vi è un alfabeto (ad esempio di 21 lettere nell’italiano, di 25 nell’inglese) e le parole sono le «formule di base» con cui poi si costruiscono le proposizioni («formule più complesse»); le parole e le proposizioni non si ottengono però con regole meccaniche di formazione. Nella linguistica teorica si sviluppano sistemi formali in grado di rendere conto del carattere generativo dei sistemi linguistici, siano essi lingue naturali o linguaggi artificiali. Più in particolare, la teoria delle grammatiche formali studia le proprietà di sistemi che consentono di caratterizzare linguaggi eventualmente infiniti utilizzando strumenti finiti. Si tratta di un settore di ricerca nato nell’ambito della logica e della teoria della computabilità, che ha avuto importanti sviluppi in linguistica a opera soprattutto di Noam Chomsky e ha trovato in seguito applicazioni anche in informatica. In logica proposizionale, dove si studiano regole quali il modus ponens, il linguaggio formale L0 ha come alfabeto lettere proposizionali (p, q, r,...) che stanno per le proposizioni semplici, i connettivi proposizionali ( ¬, ∧, ∨, →, ↔) e le parentesi, e le formule di F, dette forme proposizionali (FP), si ottengono dalle formule base (le lettere proposizionali) applicando i connettivi (e stanno per le proposizioni composte). In logica dei predicati il linguaggio formale L1 è più ricco per consentire di formalizzare la struttura logica delle proposizioni semplici: l’alfabeto comprende costanti e variabili individuali, costanti predicative e funzionali e, oltre ai connettivi, anche i quantificatori ( ∀, ∃) e l’identità (=); le regole di formazione sono più articolate: prima si definisce l’insieme dei termini (che stanno per i nomi di individui) e poi l’insieme F delle formule ben formate (FBF) che formalizzano sia i predicati, ossia proprietà e relazioni ( FBF aperte), sia le proposizioni semplici e composte del linguaggio naturale (FBF chiuse). Le FBF chiuse sono le «forme logiche» delle proposizioni che intervengono nelle inferenze. Una caratteristica importante dei linguaggi formali quali L0 e L1, che li differenzia da quelli naturali, è che, pur contenendo infinite formule, sono definiti induttivamente, e quindi sono decidibili, ossia è possibile stabilire con un al-

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goritmo se una stringa di simboli dell’alfabeto è o non è una formula del linguaggio. 2) Apparato deduttivo. In generale, l’apparato deduttivo D di un sistema formale è costituito da una coppia (A, R) in cui A è un sottoinsieme di F i cui elementi sono assunti come assiomi e R è un insieme di regole di trasformazione, le quali consentono di operare in modo effettivo sulle formule di F. Una regola ha usualmente la forma seguente: se si sono ottenute le formule α1, α2,..., αn (n ≥ 0), allora si può scrivere la formula β . Ad esempio la regola del modus ponens significa: se si sono ottenute le FP α → β e α, allora si può scrivere la formula β . Mediante l’apparato deduttivo si sviluppano le derivazioni del sistema formale: partendo dagli assiomi e applicando le regole di trasformazione, si ottengono le formule derivabili del linguaggio, che sono i teoremi del sistema formale. Le regole sono tali che è possibile decidere se una sequenza di formule è o non è una derivazione nel sistema formale. In altri termini, lo sviluppo delle derivazioni si svolge come un vero e proprio calcolo, analogo a quelli che si eseguono in matematica. In logica l’apparato deduttivo D dei sistemi formali può essere costituito da sole regole e queste ultime possono assumere diversi aspetti a seconda dell’impostazione scelta: i calcoli logici della logica delle proposizioni e dei predicati possono operare su formule (calcoli assiomatici), su sequenze di formule (calcoli della deduzione naturale), su sequenti (calcoli dei sequenti) e altro (sistemi di tableaux e metodo dell’albero semantico) e pertanto le derivazioni assumono diverse configurazioni. III. TEORIE FORMALI: SINTASSI E SEMANTICA. – L’introduzione dei calcoli logici ha consentito lo sviluppo delle teorie formali. In generale, una qualsiasi teoria T, anche non formale, è una coppia (L, U) costituita da un linguaggio L (usualmente una lingua naturale arricchita con termini specifici della teoria) e dall’universo U di oggetti indagati dalla teoria. Scopo della teoria è individuare le proposizioni del linguaggio L vere a proposito dell’universo U. Lo studio di ogni teoria, detto metateoria, ha come oggetto L e si divide nella sintassi, che prende in esame le proprietà di L indipendentemente dall’essere il linguaggio di T, e la semantica, che studia i rapporti tra L e U, e in particolare la proprietà di essere vero in U. Ogni teoria ha i suoi criteri per stabilire la verità del-

Logica formale le proposizioni di L in riferimento a U. Anche i calcoli logici possono essere intesi come teorie in cui l’universo U è costituito dalle inferenze corrette e il linguaggio dipende da quali operatori logici si assumono come primitivi, come si è detto relativamente a L0 e L1. La sintassi dei calcoli logici studia le proprietà delle FP e delle FBF indipendentemente dalle loro applicazioni; nella semantica si studiano i rapporti tra le formule e le inferenze, in particolare tra la derivabilità delle formule e il nesso di conseguenza logica che caratterizza la correttezza delle inferenze. La logica ha un’applicabilità generale in quanto in tutte le teorie si accettano le proposizioni che sono conseguenza logica di proposizioni la cui verità è gia stata accertata. Nelle teorie matematiche si accettano alcune proposizioni come assiomi e le altre (teoremi) sono conseguenza logica degli assiomi. Il metodo matematico ha subito nel tempo alcune profonde trasformazioni. Nell’assiomatica classica (esemplificata dagli Elementi di Euclide) come assiomi si assumevano alcune proposizioni evidenti relative agli enti di U (ad esempio, in geometria «per due punti passa una e una sola retta») e alcuni principi validi di carattere generale (per esempio: «Cose uguali a una terza sono uguali tra loro»). Alla fine del diciannovesimo secolo è maturata la concezione moderna dell’assiomatica (esemplificata da I fondamenti della geometria di David Hilbert), secondo la quale gli assiomi non sono né veri, né falsi, ma sono suscettibili di molteplici interpretazioni: ogni sistema assiomatico è caratterizzato da un certo linguaggio e da un insieme di assiomi che stabiliscono delle relazioni fra alcuni concetti assunti come primitivi. Al matematico non interessa la natura di questi concetti, ma solo quanto stabilito dagli assiomi; lo stesso sistema, detto ipotetico-deduttivo, stabilendo una rete di rapporti tra concetti non definiti, è suscettibile di svariate interpretazioni (modelli). Se nella concezione classica erano rilevanti i contenuti della teoria, in quella moderna ha preminenza la coerenza logica del sistema di assiomi (l’universo U è costituito da strutture o «modelli» della teoria). L’elaborazione dei calcoli logici ha consentito l’ulteriore passo verso l’assiomatica formalizzata: le teorie matematiche possono essere sviluppate come sistemi formali. In molti casi (ossia per le teorie formalizzabili con la logica dei predicati con identità) l’alfabeto è costituito da variabili per indi6633

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Logica giuridica vidui, dai simboli per i connettivi e i quantificatori logici, dall’identità (=) e da simboli per i concetti primitivi della teoria. Ad esempio, nel linguaggio di un sistema formale per l’aritmetica, vi potrà essere una costante individuale 0 per il numero zero (0), una costante funzionale s per la funzione successivo, una costante predicativa < per la relazione di minore, e così via. Le regole di formazione sono quelle di formazione dei termini e delle FBF della logica dei predicati; intuitivamente i termini sono i «nomi» degli oggetti di cui parla la teoria e le FBF chiuse le proposizioni della teoria (nell’esempio s(0) è un «nome» per il numero 1, la FBF chiusa ∀x(s(x) ≠ 0) formalizza la proposizione «il successivo di un numero non è mai zero»). Nelle teorie matematiche formali gli assiomi sono le formule che formalizzano gli assiomi specifici della teoria (ad esempio che formalizzano gli assiomi di Peano per l’aritmetica) e gli assiomi logici, e le regole di trasformazione sono quelle di un calcolo logico (e variando il calcolo logico si possono sviluppare teorie diverse che hanno gli stessi assiomi specifici ma teoremi diversi, ad esempio l’aritmetica intuizionista o l’aritmetica rilevante). Le derivazioni della teoria matematica formale formalizzano le usuali dimostrazioni e quindi l’attività dimostrativa viene simulata dall’esecuzione di un calcolo logico. In sintesi, in un sistema formale le derivazioni sono condotte mediante regole meccaniche prestabilite ed effettive, e quindi l’attività deduttiva è ricondotta all’applicazione di un sistema di regole logiche. Dato che le regole logiche sono corrette, i teoremi sono conseguenza logica degli assiomi (ossia sono veri in qualunque struttura che soddisfa gli assiomi). Lo sviluppo delle teorie matematiche formali non intende «sostituire» con derivazioni le dimostrazioni usuali dei teoremi: il fatto che l’attività deduttiva sia esplicitata attraverso un complesso di regole di trasformazione consente di affrontare svariati problemi, detti metateorici, relativi all’insieme generato induttivamente dei teoremi di un sistema formale, i quali, prima dell’avvento dei calcoli logici, non potevano neppure essere formulati. Tra questi la completezza sintattica (se ogni formula chiusa del linguaggio è dimostrabile o refutabile) e semantica (se tutte le conseguenze logiche degli assiomi sono teoremi); la decidibilità (se vi è un algoritmo per stabilire in modo meccanico se una formula è o non è un teorema), la coerenza, o consistenza, o non con6634

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traddittorietà (se non è un teorema una formula e la sua negazione); l’indipendenza (se nessun assioma è derivabile dai rimanenti); la categoricità (se tutte le strutture che soddisfano gli assiomi sono isomorfe fra loro). I più significativi risultati della logica matematica riguardano le proprietà metateoriche dei sistemi formali che formalizzano le usuali teorie matematiche, ad esempio l’aritmetica o l’analisi matematica. Sono importanti dal punto di vista epistemologico le considerazioni di adeguatezza delle teorie formali con le corrispondenti teorie intuitive. D. Palladino BIBL.: W. HODGES, Logic, Harmondsworth 1977, tr. it. di G. Usberti, Logica, Milano 1986; E. BENCIVENGA, Il primo libro di logica, Torino 1984; E. AGAZZI, La logica simbolica, Brescia 1990; T.G. BUCHER, Introduzione alla logica, ed. it. a cura di G. Auletta, Bologna 1996; E. CASARI, Introduzione alla logica, Torino 1997; I.M. COPI - C. COHEN, Introduction to Logic, New York 1997, tr. it. di M. Stringa, Introduzione alla logica, Bologna 1999; M. MONDADORI - M. D’AGOSTINO, Logica, Milano 1997; D. PALLADINO, Corso di logica. Introduzione elementare al calcolo dei predicati, Roma 2002; J. NOLT D. ROHATYN - A. VARZI, Logica, Milano 2004; D. PALLADINO, Logica e teorie formalizzate. Completezza, incompletezza, indecidibilità, Roma 2004. ➨ ALGORITMO; COMPUTABILITÀ, TEORIA DELLA; LOGICA DEI PREDICATI; LOGICA PROPOSIZIONALE.

LOGICA GIURIDICA (legal logic; Logik des Logica giuridica Rechtes; logique juridique; lógica jurídica). – La logica giuridica è la teoria dell’impiego (e la sua applicazione) dei principi di identità e non contraddizione per stabilire i rapporti tra i termini di una «proposizione giuridica» e tra diverse «proposizioni giuridiche». Per «proposizione giuridica» qui si intende: a) l’enunciato al quale, in virtù di precedenti assunzioni, si attribuisce il carattere di norma giuridica; b) l’enunciato con il quale si ascrive a una norma giuridica un determinato significato; c) l’enunciato che vale a indicare un accadimento particolare e a qualificarlo in relazione a un determinato significato normativo. I criteri e problemi della logica giuridica riguardano tutti e tre i tipi di proposizione giuridica giacché, in genere, la presenza di ognuno nel discorso rinvia, in modo esplicito o implicito, alla presenza degli altri. La definizione iniziale, per ragioni di cui si avrà pieno conto in seguito, può così svilupparsi: la logica giuridica è l’insieme dei criteri (e lo studio degli stessi) per i quali

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le proposizioni giuridiche a) assumono un significato univoco; b) possono porsi tra di loro in un rapporto di identità, esclusione, inclusione, estraneità; c) possono funzionare come premesse per una derivazione necessaria. All’epoca delle codificazioni – secondo idee che avevano avuto tra i più autorevoli sostenitori G. Filangieri, Riflessioni politiche, Napoli 1774 e C. Beccaria (Dei delitti e delle pene, in Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, Milano 1984, vol. I, pp. 15-129) – il modello della logica giuridica era il cosiddetto sillogismo pratico (o giuridico): a) una premessa maggiore, costituita dal dettato normativo (fattispecie astratta); b) una premessa minore (fattispecie concreta) costituita dal fatto particolare dedotto in giudizio; c) una conclusione, costituita dalla qualificazione giuridica del fatto e in grado di fornire il contenuto necessario della sentenza. Credendo nell’efficacia del sillogismo giuridico si presuppone che: a) il significato del dettato normativo sia chiaro e univoco per tutti; b) la descrizione del fatto possa darsi in modo evidente e scontato per tutte le parti processuali. La progressiva sfiducia nei predetti presupposti ha fatto sì che – salvo qualche eccezione notevole, rappresentata, ad esempio da P. Comanducci e R. Guastini (Razionalità e legalità nel giudizio penale, in AA.VV. Diritto penale, controllo di razionalità e garanzie del cittadino, Padova 1988, pp. 163188) – il sillogismo pratico non venga più considerato come uno strumento dimostrativo, ma, casomai, un semplice schema, consigliabile, per ordinare in successione i diversi argomenti relativi all’interpretazione della legge, alla ricostruzione dei fatti, alle conclusioni (M. Taruffo, Il controllo di razionalità tra logica, retorica e dialettica, in AA.VV., Diritto penale, controllo di razionalità e garanzie del cittadino, Padova 1988, pp. 55-72). Per i contemporanei gli ostacoli a costruire una logica giuridica efficace derivano dalla difficoltà di risolvere due ordini di problemi: l’uno relativo alla scelta delle premesse; l’altro relativo alla loro struttura. Per la prima questione ha avuto enorme incidenza la lezione di H. Kelsen (cfr. soprattutto General Theory of Law and State, Cambridge 1945, tr. it. di S.Cotta - G. Treves, Teoria generale del diritto e dello stato, Milano 1963). Per il giurista tedesco ciò che costituisce una norma giuridica valida è dato dai suoi caratteri formali – l’essere dotata di un sanzione e l’essere pro-

Logica giuridica nunciata da un potere legittimo – nonché dall’effettività, nel suo complesso, dell’ordinamento in cui si inserisce. Si forniva così al giurista la premessa per giudicare con certezza: a) la presenza o meno dei caratteri della norma giuridica in una data prescrizione; b) l’idoneità di quella prescrizione ad essere assunta come premessa di ulteriori ragionamenti. In questa prospettiva la logica giuridica, se offre strumenti utili all’identificazione della norma giuridica valida, non è sufficiente ad affrontare le questioni relative alla sua interpretazione e al rapporto tra i contenuti di norme diverse. Ci introduciamo così al secondo ordine di problemi concernenti soprattutto due caratteristiche strutturali delle proposizioni giuridiche. a) Esse sono formate da un enunciato prescrittivo che, a differenza degli enunciati indicativi (o dichiarativi), non è predicabile di vero o di falso; perciò le proposizioni giuridiche, né sono derivabili da una proposizione indicativa (secondo la cosiddetta legge di Hume), né tra di loro si possono stabilire le stesse inferenze che valgono tra proposizioni indicative. b) Il linguaggio delle proposizioni giuridiche, pur adottando una terminologia specifica, come di recente ha mostrato in modo esauriente M. Jori, Libertà di parola e protezione dei dati (in A. Artosi et al. [a cura di], Problemi della produzione e dell’attuazione normativa, Bologna 2001, vol. II, pp. 369-409), rimane irrimediabilmente elastico, vago, privo di quell’univocità che spetta soltanto ai linguaggi simbolici o altamente formalizzati. Senza negare l’apporto kelseniano, alle difficoltà di cui sopra sono state avanzate risposte rilevanti soprattutto importando, e applicando alle norme giuridiche, certi risultati della deontica (la disciplina che pratica l’analisi delle proposizioni prescrittive). Rileva innanzi tutto la distinzione, risalente a Richard M. Hare, The Language of Morals (London 1952, tr. it. di M. Borioni, Il linguaggio della morale, Roma 1968), tra «frastico» e «neustico»: il primo designa l’azione che è passibile di descrizione ed è l’oggetto della prescrizione; il secondo designa il modo con cui è predicata l’azione. Quanto poi ai modi, G.H. Von Wright, Deontic Logic (in «Mind», 60 [1951]) e altri – sviluppando indicazioni peraltro risalenti ad Aristotele – li determina nel numero di quattro: permesso, proibito, obbligatorio, indifferente. Per questa via, specificando in una proposizione quale sia il frastico e in quale modo si declini il neusti6635

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Logica giuridica co, diventa possibile confrontare tra loro norme diverse e indicarne i rapporti con criteri logici. Malgrado l’indubbia importanza dell’analisi delle prescrizioni, la deontica – hanno osservato molti – non vale a vincere la strutturale vaghezza del linguaggio giuridico. Così alcuni si sono rivolti alla «logistica» (nella quale si raccolgono gli studi diretti a tradurre il linguaggio prescrittivo in un preciso linguaggio simbolico) nell’intento dichiarato di arrivare, se possibile, all’integrale assiomatizzazione del linguaggio giuridico (cfr. E. García Máynez, Introducción a la logica jurídica, Buenos Aires 1951). Tale programma ha dato certo origine a studi raffinati, come quelli di L. Ferrajoli (Teoria assiomatizzata del diritto: parte generale, Milano 1970), ma è risultato pressoché inutilizzato dai giuristi, specialmente nel loro impegno forense. Ciò non è dovuto a ragioni contingenti, ma a una questione di principio: il simbolo (ma anche ogni tentativo di attribuire un significato rigido e costante ai termini delle proposizioni giuridiche) esprime comunque un’astrazione dall’esperienza, indica una realtà che – come è per le figure geometriche – non accade propriamente mai; e il giurista, invece, ha bisogno di rappresentare e qualificare, attraverso le proposizioni giuridiche, accadimenti concreti, quelli che, nel mondo dei fenomeni, presentano sempre caratteri specifici e non si ripetono mai identici. Perciò tra i giuristi – che hanno spesso lamentato come un «difetto» irrimediabile la lontananza del loro linguaggio dal modello matematico (cfr. AA.VV. Teoria e tecnica dell’interpretazione, a cura dell’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale Forense, Milano 2003) – ha trovato maggior fortuna la posizione di C. Perelman. Questi, estendendo ai ragionamenti giuridici (Logique juridique, Bruxelles 1962) quanto aveva in generale sostenuto per tutti i discorsi che si svolgono con i linguaggi naturali, nega recisamente che tra proposizioni giuridiche possa stabilirsi un rapporto logico e che esse possano fondare una conclusione necessaria; e peraltro ammette che la loro formulazione non è arbitraria in quanto è ordinata a produrre un certo risultato nell’ascoltatore, e cioè la persuasione. I criteri per provocare la medesima, secondo Perelman, sono quelli propri dell’attività che, fin dall’antichità, fu generalmente denominata come retorica. Con tali criteri si pro6636

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ducono una serie di argomentazioni (ragionamenti distinti dalle dimostrazioni che appartengono solo alle discipline matematiche) degne di nota quando la loro struttura e la loro efficacia è ricorrente e osservabile. Perelman raccoglie, classifica un ampio numero di argomentazioni, aggruppandole in grandi famiglie secondo che procedano a simiglianza di un ragionamento logico, induttivo o per falsificazione: notando comunque, conclusivamente, che le argomentazioni risultano tanto più persuasive quanto più imitano – senza possederne mai il rigore – le dimostrazioni scientifiche. Perelman giustifica così il ritorno alla retorica come organo per disporre e sviluppare le proposizioni giuridiche verso un risultato; però si può discutere che tale risultato consista esclusivamente nella persuasione intesa al modo «psicologistico» del logico belga. È stato da più parti rilevato, (cfr., p. es., quanto afferma T. Mazzarese, Forme di razionalità delle decisioni giudiziali, Torino 1996), che l’esclusione dal linguaggio ordinario di connessioni logiche rigorose è frutto di un pregiudizio razionalistico-formalistico; ed è pure un pregiudizio l’idea che i termini linguistici mostrino un significato univoco solo quando il medesimo appaia costante in vari tempi e luoghi. In realtà l’esperienza della comunicazione attesta che termini vaghi, opportunamente associati tra di loro (siano essi esplicitamente pronunciati o implicitamente presenti nella cultura e nel linguaggio degli interlocutori) si specificano a vicenda: così che riescono, in genere, a stagliare inequivocabilmente, in una certa situazione, un determinato oggetto, come differente da tutti gli altri ivi presenti. Certo – ribadiamo – l’univocità del termine vago è raggiunta solo relativamente a un determinato contesto. Tanto basta, però, perché si guardi con interesse alla lezione del pensiero classico: per la quale anche i mezzi retorici – segnatamente nell’attività forense – possono produrre, localmente valida, un premessa (protasi) da cui si può derivare una conclusione stringente in un dato contesto. In questa prospettiva, c’è un criterio perché una protasi sia considerata valida, degna quindi di venire scelta: tale criterio – necessario ma non sufficiente, come vedremo – è quello che esige che la premessa sia costruita come dipendente dal sapere che un certo uditorio, in un certo contesto, non può rifiutare; se dipendente (nel senso che si chia-

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rirà) da un sapere irrinunciabile, anche la protasi diviene irrefutabile. D’altra parte può essere difeso, e non rifiutato, solo un sapere che può esprimersi in termini univoci (anche qui: nel senso e nei limiti che si diranno) così come, del resto, solo tra discorsi univoci può intercorrere un rapporto di dipendenza autentico. Ecco allora che, nella prospettiva classica, il criterio della dipendenza mira ad affrontare in solido i due problemi che imbarazzano, nella cultura moderna, la costruzione di una logica giuridica efficace: il problema fondativo (quali premesse adottare nelle diverse situazioni) e il problema semantico (come rendere una premessa sufficientemente univoca da poter derivarne una conclusione necessaria). Meglio articolando il criterio della dipendenza, possiamo dire che una premessa è valida quando soddisfa tre condizioni. a) Avendo a che fare con accadimenti, il retore non ha i mezzi per sostenere una premessa di principio; né può assumere come protasi una predicazione universale (con la quale si definisce una classe di oggetti dicendo gli elementi che costituiscono esclusivamente, tutti e soltanto, gli esemplari della medesima). Perciò la premessa retorica deve costituirsi come una «generalizzazione»: vale a dire una rappresentazione di una serie di fenomeni, menzionando alcune loro proprietà comuni che, effettivamente, si associano in modo ricorrente nell’esperienza, sì che la loro frequenza sia riconoscibile, ed attualmente riconosciuta, da chi ascolta. Una protasi, poi, è sufficientemente univoca (localmente valida) quando soddisfa due ulteriori condizioni. b) La premessa deve definire una serie di accadimenti, menzionando un insieme di proprietà che l’uditorio non possa né accrescere né diminuire senza rendere la premessa stessa «confusa»: tale cioè che quell’uditorio particolare non possa decidere a quale serie essa si riferisca. c) La premessa deve essere in grado di «includere» il caso particolare in discussione. Si ha inclusione quando: c.1) l’accadimento particolare sia riconosciuto dall’uditorio attribuendogli non solo, ma almeno le proprietà nominate nella generalizzazione iniziale; c.2) le ulteriori proprietà specifiche dell’accadimento appaiano all’uditorio irrilevanti: incapaci cioè di caratterizzare una serie opposta a quella rappresentata nella premessa.

Logica giuridica Quando queste tre condizioni si diano, l’uditorio non può rifiutare, se non immotivatamente, la protasi: che può essere costituita, indifferentemente, dalla ridefinizione di una fattispecie normativa, da una sua interpretazione, dalla generalizzazione di certi fenomeni in vista di una qualificazione normativa di uno di essi. E come non può rifiutare la premessa, l’uditorio non può nemmeno rifiutare, senza contraddirsi, che da essa si muova una deduzione secondo lo schema seguente. Se A è una serie di accadimenti definiti dalle proprietà a, b, c, e x è un accadimento che presenta, quanto meno, le stesse proprietà, x è un esemplare di A e gli va riservata la stessa posizione destinata ad A (se A è proibito, comandato o permesso, anche x lo è; se A definisce gli oggetti di un legato, anche x è legato). La logica giuridica, in questa prospettiva è costituita dai criteri con i quali, mediante il principio di identità e non contraddizione, in riferimento alle assunzioni presenti in un determinato ambiente, il retore-giurista guadagna e difende l’univocità di una certa generalizzazione, posta come premessa, e la necessità della conclusione che da essa sia derivata. Un uso affatto recente della logica giuridica è quello che si ritrova nell’informatica giuridica. F. Cavalla BIBL.: L. LOEVINGER, An Introduction to Legal Logic, in «Indiana Law Journal», 12 (1952), pp. 471-522; E. GARCIA MAYNEZ, Ensayos filosófico-jurídicos 19341979, Mexico 1959; A. CONTE, Bibliografia di Logica giuridica, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 38 (1961), pp. 120 ss, e in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 39 (1962), pp. 45-46; N. BOBBIO, Diritto e logica, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1962, pp. 9 ss.; R. SCHRIBER, Logik des Recht, Berlin 1962; G. KALINOWSKI, Introduction à la logique juridique, Paris 1965, tr. it. a cura di M. Corsale, Introduzione alla logica giuridica, Milano 1971; N. MACCORMICK, Legal Reasoning and Legal Theory, Oxford 1978, tr. it. a cura di V. Villa, Ragionamento giuridico e teoria del diritto, Torino 2001; E. BERTI, Le ragioni di Aristotele, Roma 1989; F. CAVALLA, s. v. Topica giuridica, in Enciclopedia del diritto, Milano 1992, vol. XLIV, pp. 720-739; J. WROBLEWSKI, The Judicial Application of Law, Dordrecht 1992; M.JORI A.PINTORE, Manuale di teoria generale del diritto, Torino 1995; G. SARTOR, Intelligenza artificiale e diritto: un’introduzione, Milano 1996; E. RESTA - A. MARIANI MARINI (a cura di), Linguaggio, argomentazione e metodo nel diritto, Roma 2003. ➨ INFORMATICA GIURIDICA; LOGICA DEONTICA; NORMA; RETORICA; SILLOGISMO PRATICO.

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Logica indiana LOGICA INDIANA. – Lo sviluppo della logiLogica indiana ca indiana prende le mosse dai pubblici dibattiti affrontati da maestri rivali a partire dagli ultimi secoli a. C. La codificazione delle regole di questi tornei dialettici (vadavidhi) – reperibile nella letteratura delle diverse scuole – comprende, oltre a una dettagliata tipologia di comportamenti che determinano automaticamente la sconfitta (ad es. andarsene accampando un pretesto, ammettere un punto in contrasto con le posizioni sostenute dalla propria scuola ecc.), un repertorio di sofismi e veri e propri errori logici che, ove siano rilevati dall’avversario, comportano le stesse conseguenze. Si distinguono diversi approcci adottati dai disputanti: quello pacifico in cui due dotti esperti nell’argomentazione, dal linguaggio mite ed eloquente, si misurano al fine d’accertare la verità, accrescendo il loro sapere, è una situazione ideale che ricorre di rado; normalmente si ha un dibattito improntato a ostilità, in cui, oltre a presentare ragionamenti corretti (yukti) appoggiati da opportune esemplificazioni, ci si serve di trucchi psicologici (far adirare l’avversario, confonderlo, metterlo in ridicolo, contestare la terminologia da lui impiegata ecc.) e di espedienti dialettici impiegati come siepi spinose a difesa dei propri dogmi: tali l’argomentazione capziosa (il jalpa, letteralmente «chiacchiera», usato sia in attacco che in difesa), e la demolizione eristica della posizione avversaria (la vitanda, «ribattuta» o dusana «contrattacco»). Quest’ultima attitudine sarà caratteristica a partire dai primi secoli d. C. dei seguaci della scuola buddhistica detta Madhyamika («a mezzo» tra affermazione e negazione), celebri anche per i loro tentativi d’eludere la legge del terzo escluso: sostenendo la tesi che ogni proposizione è erronea e solo l’intuizione mistica rivela la Realtà ineffabile, essi programmaticamente confuteranno le tesi avversarie nell’esatta misura necessaria alla loro demolizione e senza sostenere la correttezza di quelle contrarie: così ad es. se l’avversario asserisce che il mondo è eterno gli opporranno pro tempore la non-eternità di esso, non per asserire che questa sia la tesi corretta, ma per sconfiggerlo, mostrando le aporie del suo discorso dottrinale. Quanto alla loro posizione, negano che ve ne sia alcuna, sicché sono invincibili: qualsiasi avversario non sarà in grado di obbiettare alcunché a chi dichiara a priori di non difendere alcun dogma. Gli esperti nell’arte del dibattito sono 6638

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detti tarkin o tarkika, da tarka, «congettura, dubbio, confutazione per assurdo», un termine abbracciante ogni tipo d’argomentazione diversa dalla corretta applicazione dei processi conoscitivi universalmente accettati, i pramana. Tra questi ultimi figura in modo preeminente il sillogismo indiano, detto anumana, «misurazione – scilicet dell’oggetto appreso – posteriore – scilicet all’impiego della percezione diretta –». Mentre quest’ultima, il pratyaksa (letteralmente «innanzi agli occhi»), ci fa conoscere soltanto quel che è presente hic et nunc, in contatto con i nostri sensi, lo anumana, partendo da ciò, estende la portata della nostra apprensione a dati non immediatamente percepiti (ad es. il fuoco su un’altura lontana, che inferiamo dal pennacchio di fumo scorto in lontananza), anche passati (ad es. le piogge a monte, inferite dalla piena del fiume a valle) o futuri. Ciò che va accertato (il sadhya, «probandum» o dharma, «elemento distintivo») è correlato all’indizio (il linga, detto anche hetu, «causa» e sadhana «prova») reperibile in una situazione esperita (il paksa, letteralmente «ala», il lato veduto d’un dato oggetto, o dharmin, «dotato dell’elemento distintivo») da una relazione di pervasione (la vyapti) che va accertata a partire da una serie di esempi (i drstanta) portati a sostegno della argomentazione. Ogni forma di conoscenza certa riguarda, come si vede, fatti ed eventi nell’ambito dell’esperienza; le entità matematiche e altre cotali astrazioni ne sono escluse. L’elemento induttivo presente nella concezione più antica dell’anumana , in cui l’esemplificazione è della massima importanza, viene posto in crisi dalla critica nel trattato Tattvopaplavasimha di Jayarasi (VII secolo d. C.), il solo pensatore che si richiami all’antica scuola dei Carvaka, i materialisti indiani, che ammettevano come unica fonte di conoscenza sicura il pratyaksa: egli nota che se gli esempi portati non includono la totalità delle situazioni presenti nell’universo, v’è sempre la possibilità che il caso in esame costituisca un’eccezione, mentre se l’includono, anche il caso in esame, che vi è ricompreso, è già noto e dunque il ricorso all’anumana risulta pleonastico. Così com’è strutturato, esso tutt’al più arriva a fornire una conoscenza probabile, sicché non costituisce davvero un pramana. Medhatithi Gautama detto Aksapada («con i piedi dotati d’occhi» in ragione della cautela del suo procedere; i suoi aforismi, codificanti la scuola dell’indagine critica, il Nya-

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ya, apparentemente più volte aggiornati e rimaneggiati, sono da collocarsi tra gli ultimi secoli a. C. e i primi d. C.) distingue tre varietà di anumana: a) purvavat , in cui dall’indizio che vien prima (il purva) inferiamo un probandum che vien dopo (lo sesa, letteralmente «restante»); b) sesavat, in cui dall’indizio che vien dopo inferiamo un probandum che vien prima; c) samanyato drsta, in cui da un indizio normalmente esperito in correlazione ad esso inferiamo un probandum che gli è strutturalmente connesso, ad es. dalle corna d’un bovino possiamo arguire che le sue zampe, che non scorgiamo nella situazione attuale, hanno il piede fesso. Per Uddyotakara (VI-VII secolo d. C.) questa terza varietà include tutte le varietà di vyapti che non sono riconducibili al rapporto causale. La struttura del sillogismo indiano nel periodo più antico comprendeva dieci membri. Nella sistematizzazione testimoniata dal commentatore Dramila Vatsyayana (forse del III-IV secolo d. C.) essi sono: 1) la pratijña, proclamazione o notificazione della tesi che s’intende provare – ad es. su quell’altura v’è un fuoco; 2) la jijiñasa, il conseguente desiderio di appurarla; 3) lo hetu, motivo addotto per corroborare la tesi – ad es. perché v’è fumo; 4) il samsaya, dubbio nei confronti del suo valore probatorio; 5) lo udaharana, esemplificazione addotta a provare la validità del motivo offerto – ad es. ogni volta che si percepisce del fumo, v’è fuoco, come in cucina; 6) la sakyaprapti, attingimento conseguente alla esemplificazione del valore probatorio anzidetto; 7) lo upanaya, applicazione al caso in esame del motivo addotto – ad es. ora, qui percepiamo il fumo; 8) il prayojana, accertata utilità del motivo in discorso; 9) il nigamana, ribadimento della tesi così provata – ad es. dunque v’è fuoco, quod erat demonstrandum; 10) il samsayavyudasa, la dissipazione del dubbio. I Jaina conoscono una serie leggermente discrepante, che fa posto all’enunciazione d’una tesi opposta (il vipaksa) e alla sua confutazione come momenti essenziali della dimostrazione. Abbastanza rapidamente si è giunti da parte dei seguaci del Nyaya a ridurre i membri del sillogismo ai soli cinque dispari, espungendo quelli pari in quanto relativi a momenti psicologici piuttosto che logici dell’argomentazione. 1) La pratijña sancisce la situazione di partenza, su cui i disputanti concordano e asserisce in essa la presenza del probandum; 2) lo hetu asserisce la presenza dell’indizio nella situazione anzidet-

Logica indiana ta (la paksadharmata del linga) – correlativamente occorre accertare la paksata del paksa, ossia che si tratti d’una situazione che non comporta l’apprensione diretta del probandum: il ricorso all’anumana è sensato solo se il suo oggetto non è già reso noto dal pratyaksa; 3) lo udaharana vale ad accertare la pervasione (la vyapti) dell’indizio da parte del probandum – e non vice versa: ci basta che il fumo sia pervaso in tutti i casi dal fuoco per inferirne la presenza a partire da esso, mentre eventuali casi di fuoco senza fumo non sono rilevanti per il nostro processo inferenziale – introducendo il riferimento all’esperienza tramite esempi su cui i disputanti concordino, idealmente sia positivi, appartenenti a situazioni omologhe (che presentino un sadharmya, comunità di tratti distintivi, nei suoi confronti), che negativi, appartenenti a situazioni eterologhe (che presentino invece un vaidharmya, discrepanza di tratti distintivi), situazioni già esperite in passato e certificate dalla percezione diretta; 4) lo upanaya accerta fattualmente la paksadharmata del linga dianzi dichiarata; 5) il nigamana completa il processo inferenziale confermando la presenza del probandum. Un’ulteriore riduzione dei membri è operata dai logici buddhisti: l’autore dell’Upayakausalyahrdaya, identificato con il grande Nagarjuna (I-II secolo d. C.), ritiene sufficienti alla prova hetu e udaharana, mentre Dignaga (520-600 circa d. C.) distingue il sillogismo finalizzato a noi stessi (lo svarthanumana), consistente in un giudizio inferenziale immediato che coglie intuitivamente il probandum (ad es. «questo è fumo derivante da fuoco») da quello finalizzato alla persuasione altrui (il pararthanumana), che esige una articolazione più rigorosa. Poiché egli nega, coerentemente alle dottrine della sua scuola, l’attendibilità del riferimento alle passate percezioni, il suo sillogismo comporta: 1) accertamento del paksa, che fonde il dato immediato dell’esperire con le categorie erroneamente ad esso sovrapposte dall’attività mentale; 2) accertamento del probandum, in veste d’un’entità costruita mentalmente (ad es. il fuoco) o d’una caratteristica del pari costruita mentalmente del paksa (ad es. l’essere dotato di fuoco); 3) accertamento dell’indizio, che opera automaticamente l’inferenza – anch’essa produttrice d’una erronea sovrapposizione al dato immediato del prodotto delle nostre strutture immaginativo-interpretative. Dharmottara (il fondatore della scuola logica 6639

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Logica indiana buddhistica del Kasmir, contemporaneo di Carlo Magno) distinguerà il pratyaksa dall’anumana osservando che il primo processo «conoscitivo» costruisce sul particolare il generale, il secondo costruisce il particolare sul generale. Sono entrambi in ultima analisi erronei, ma il secondo corregge gli errori del primo e pertanto va riguardato come dotato di maggior dignità, al contrario di quanto sostenuto dalle altre scuole indiane. Dharmakirti, allievo di Isvarasena diretto discepolo di Dignaga, riduce le relazioni su cui può basarsi la vyapti a due sole: identità (il tadatmya) e dipendenza causale (tadutpatti), nessuna delle due richiedendo un’esemplificazione ripetuta: un solo esempio avanzato basta a comprovarle. Dottrina caratteristica dei logici buddhisti è quella dell’indizio triforme (il trirupalinga), introdotta da Vasubandhu (316-396 d. C.), a quanto sembra mutuandola dalla teorizzazione jaina. Giocando su tre accezioni della particella eva, questo maestro stabilisce che esso deve essere correlato 1) al probandum sempre o interamente – segnatamente nel caso in cui esso costituisca un insieme di diversi elementi; 2) all’esempio simile soltanto (e, naturalmente, almeno talora); 3) all’esempio dissimile mai. Basandosi su tale triade Dignaga crea la Ruota dei motivi (descritta nel trattato Hetucakra), elegante mandala che presenta nitidamente le diverse possibili combinazioni suscettibili di dare origine ad argomentazioni fondate o infondate. Al centro si trova la situazione limite (asadharana) che non offre né esempi simili, né esempi dissimili, data l’unicità dell’indizio: di conseguenza esso non prova alcunché – ad es. «il suono è eterno, per il suo esser suono», caratteristica che è propria di esso e di null’altro. A nord si trova la situazione ottimale in cui l’indizio ricorre in tutti gli esempii simili e in nessun esempio dissimile. A sud troviamo quella, sufficiente alla dimostrazione, in cui possono essere indicati almeno alcuni esempi simili e nessuno dissimile. A ovest v’è la situazione contraria (viruddha) in cui l’indizio non compare in alcun esempio simile ed è presente in tutti i dissimili: qui viene provata la tesi contraria a quella che si vorrebbe sostenere. Lo stesso succede per la situazione a est, in cui l’esempio compare in alcuni esempi dissimili e in nessuno simile. Nei punti cardinali intermedi sono collocate le diverse varianti dell’errore detto anikantika, nelle quali, essendo l’indizio troppo specifico o troppo 6640

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generico, la presenza della pervasione non è sicura e il suo valore probante resta incerto. In particolare troviamo: a nord-ovest la situazione in cui l’indizio è presente dappertutto, ossia nei casi simili come nei dissimili, nessuno escluso; a sud-est quella simmetrica in cui esso compare solo in alcuni casi simili e dissimili; a sud-ovest quella in cui si presenta in alcuni casi simili e tutti i dissimili; a nord-est quella simmetrica in cui si presenta in tutti i casi simili e in alcuni dissimili. Uddyotakara, brahmano sivaita del gotra dei Bharadvaja fiero avversario dei buddhisti, confuta il fondamento stesso della costruzione, osservando che si danno casi in cui i soli esempii simili o dissimili bastano a provare una tesi, e procede ad arricchire la struttura della Ruota di Dignaga portando le sezioni a sedici, con l’aggiunta di cinque senza esempi dissimili, tre senza esempi simili e una senza alcun esempio, perché la situazione si riferisce all’universo intero, indi le tripartisce a seconda dell’assenza o della presenza parziale o totale dell’indizio nel paksa, suddividendo ulteriormente gli ultimi due casi in corrispondenza delle sedici situazioni di base e introducendo un’ulteriore quadripartizione a seconda se l’indizio sia provato, non provato, rilevante o irrilevante. Le centosettantasei sezioni risultanti vengono ancora moltiplicate portandole a duemila e trentadue; Uddyotakara considera possibile accrescerle all’infinito. M. Piantelli BIBL.: S.C. VIDYABHUSANA, A History of Indian Logic. Ancient, Mediaeval and Modern Schools, Calcutta 1920; H.N. RANDLE, Fragments fromDignaga, in «The Royal Asiatic Society of Great Britain», London 1926; TH. STCHERBATSKY, Buddhist Logic, in «Bibliotheca Buddhica» vol. XXVI, parte I e II, Leningrad 1930; H.S. BHATTACHARYA, Pramana-naya-tattvalokalamkara of Vadi Devasuri (english translation and commentary (along with Sutrapat ha, indices ecc.), Bombay 1967; R.S.Y. CHI, Buddhist Formal Logic Part I. A Study of Dignaga’s Hetucakra and K’ueichi’s Great Commentary on the Nyayapravesa, in «The Royal Asiatic Society of Great Britain Dr. B.C. Law Trust Fund» vol. I, London 1969; N. BANDYOPADHYAY, The Concept of Logical Fallacies. Problems in Hetvabhasa in Navya-Nyaya in the Light of Gangesa and Raghunatha Siromani, Calcutta 1977; S.S. BARLINGAY, A Modern Introduction to Indian Logic, New Delhi 19762; K.H. POTTER (a cura di), Indian Metaphysics and Epistemology: the Tradition of Nyaya-Vaisesika up to Gangesa, in Encyclopaedia of Indian Philosophies, vol. II, Princeton (New Jersey) 1977; C. GUHA,

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Navya Nyaya System of Logic (Basic Theories and Techniques), Delhi 1979; S. ANACKER, Seven Works of Vasubandhu, The Buddhist Psychological Doctor, DelhiVaranasi-Patna-Madras 1984; P. DELLA SANTINA, Madhyamaka Schools in India. A Study of the Madhyamaka Philosophy and of the Division of the System into the Prasangika and the Svatantrika Schools, Delhi-Varanasi-Patna-Madras 1986; D.S. LOPEZ, JR., A Study of Svatantrika, Ithaka (New York) 1987; M.R. CHINCHORE, Dharmakirti’s Theory of Hetu-Centricity of Anumana, in Buddhist Tradition, vol. V, Delhi 1989; K.H. POTTER - S. BHATTACHRYYA (a cura di), Indian Philosophical Analysis. Nyaya-Vaisesika from Gangesa to Raghunatha Siromani, in Encyclopaedia of Indian Philosophies, vol. VI, Princeton (New Jersey) 1992; B.K. MATILAL, The Character of Logic in India, Albany (New York) 1998; D.N. SHASTRI, Problems of the Conflict Between the Nyaya-Vaisesika and the Buddhist Dignaga School, Delhi s. d.

LOGICA INDUTTIVA. – Seguendo una conLogica induttiva solidata tradizione, le inferenze effettuate nella pratica scientifica e in diversi ambiti della vita quotidiana possono venire raggruppate in due classi ben distinte: le inferenze deduttive e quelle induttive. La «logica induttiva» si propone di analizzare sistematicamente le inferenze induttive, con l’obiettivo di formulare rigorosi criteri per distinguere quelle plausibili da quelle infondate. Anzitutto si definiranno e classificheranno le inferenze induttive; si faranno poi alcuni richiami storici allo sviluppo della logica induttiva (cap. I). Successivamente si prenderà in esame l’approccio bayesiano alla logica induttiva, che consiste in una specifica forma di analisi probabilistica delle inferenze induttive, a partire da quelle operate nelle scienze empiriche (capp. II-IV): in particolare, verranno illustrate le nozioni di probabilità induttiva (cap. II), conferma (cap. III) e accettazione induttiva (cap. IV). Nonostante il crescente successo registrato negli ultimi decenni, l’approccio bayesiano non è l’unica teoria dell’inferenza induttiva; nel cap. V si considereranno due esempi di teorie non-bayesiane dell’inferenza induttiva, vale a dire la statistica non-bayesiana e il metodo delle variabili rilevanti, proposto da L. Jonathan Cohen. Si deve a Charles S. Peirce (1839-1914) la proposta di sostituire la tradizionale dicotomia tra deduzione e induzione con una tricotomia nella quale trova posto anche un terzo tipo d’inferenza, nota come abduzione. In primo luogo si illustrerà la forma logica dell’inferenza abduttiva, intesa come inferenza di ipotesi esplicati-

Logica induttiva ve; si forniranno poi alcuni ragguagli sulla possibilità che l’abduzione possa costituire il nocciolo di una «logica della scoperta scientifica» (cap. VI). Infine, si prenderà in esame una recente teoria non-bayesiana dell’inferenza induttiva, nota come «inferenza alla spiegazione migliore», secondo la quale le inferenze abduttive consentono di inferire induttivamente l’ipotesi esplicativa migliore, vale a dire l’ipotesi che, tra quelle in competizione, fornisce la migliore spiegazione dei fatti (cap. VII). SOMMARIO: I. Inferenza induttiva: 1. Definizione e classificazione delle inferenze induttive. - 2. Richiami storici allo sviluppo della logica induttiva. - II. Probabilità induttive. L’approccio bayesiano alla logica induttiva. - III. La conferma delle ipotesi nell’approccio bayesiano. - IV. L’accettazione delle ipotesi nell’approccio bayesiano. - V. Teorie non-bayesiane dell’inferenza induttiva: 1. La statistica ortodossa. - 2. Il metodo delle variabili rilevanti. - VI. Abduzione: 1. La forma logica dell’abduzione - 2. Il ruolo metodologico dell’abduzione: scoperta o giustificazione? - VII. Inferenza alla spiegazione migliore: 1. L’approccio esplicazionista all’inferenza scientifica - 2. Esplicazionisti o bayesiani? I. INFERENZA INDUTTIVA. – In questo capitolo verrà delineata la nozione di inferenza induttiva e si passeranno in rassegna i tipi fondamentali di inferenza induttiva (§ 1); successivamente si ripercorreranno le principali tappe dello sviluppo della logica induttiva da Francesco Bacone ai giorni nostri (§ 2). 1. Definizione e classificazione delle inferenze induttive. – Un’inferenza consente di derivare, sulla base di appropriate regole, un enunciato, detto «conclusione», da uno o più enunciati, detti «premesse». La distinzione tra inferenze deduttive e induttive può venire così tracciata. Un’inferenza deduttiva è caratterizzata da due aspetti strettamente connessi: (1) la conclusione non dice «nulla di più», e «nulla di nuovo», rispetto alle premesse; ciò significa che tutte le informazioni veicolate dalla conclusione sono già incluse, più o meno esplicitamente, nelle premesse; (2) la conclusione deriva «necessariamente» dalle premesse, nel senso che non è possibile che le premesse siano vere e la conclusione falsa. Al contrario, due aspetti distintivi dell’inferenza induttiva, sono i seguenti: (1*) la conclusione dice qualcosa di più o, almeno, qualcosa di nuovo, rispetto alle premesse; ciò significa che il «contenuto informativo» della conclusione non è interamente 6641

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Logica induttiva incluso in quello delle premesse; (2*) proprio per questo, le premesse non possono conferire alla conclusione una totale certezza, ma solo un certo grado, più o meno elevato, di probabilità. Con riferimento a (1*) le inferenze induttive vengono spesso denominate «inferenze ampliative»; con riferimento a (2*) vengono invece chiamate inferenze «non-dimostrative», o «probabili». Il carattere ampliativo delle inferenze induttive emerge con grande chiarezza nella cosiddetta «induzione universale», o «induzione per enumerazione», presa in esame già da Aristotele, che consiste nel raggiungere conclusioni di carattere universale sulla base di un certo numero di casi particolari. Un esempio di induzione per enumerazione è il seguente: Premesse: Il primo corvo osservato è nero. Il secondo corvo osservato è nero. ... Il millesimo corvo osservato è nero. Conclusione: Tutti i corvi sono neri. Con implicito riferimento all’induzione per enumerazione, le inferenze induttive vengono talvolta caratterizzate come «inferenze dal particolare all’universale». Tale caratterizzazione, però, non può venire applicata a tutte le inferenze induttive. Alcune di esse sono costituite, per esempio, da «inferenze da particolari a particolari», cioè da inferenze in cui le premesse si riferiscono a un certo numero di oggetti già osservati e la conclusione a un oggetto non ancora osservato. Diversamente dall’inferenza universale, ove la conclusione afferma qualcosa di più delle premesse, nelle inferenze da particolari a particolari la conclusione si limita ad affermare qualcosa di nuovo rispetto alle premesse. Quando, come abitualmente accade, la conclusione si riferisce a casi futuri, si parla anche di «inferenze predittive». Un esempio di inferenza predittiva è il seguente: Premesse: Il primo corvo osservato è nero. Il secondo corvo osservato è nero. ... Il millesimo corvo osservato è nero. Conclusione: Il prossimo corvo osservato sarà nero. Quando sia le premesse sia la conclusione di un’inferenza induttiva si riferiscono a entità osservabili parliamo di «inferenze osservative». Fin dall’antichità si comprese che non tut6642

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te le inferenze induttive operate nelle scienze empiriche sono osservative. Per esempio, gli atomisti inferirono certe conclusioni relative a entità inosservabili partendo da premesse che descrivevano le caratteristiche di entità osservabili. Più precisamente, dall’osservazione di fenomeni quali il disordinato movimento del pulviscolo atmosferico in una stanza illuminata dai raggi del sole, essi inferirono l’esistenza e alcune caratteristiche degli atomi. Quando le premesse o la conclusione di un’inferenza induttiva contengono termini che si riferiscono a entità o proprietà inosservabili, possiamo parlare di «inferenze teoriche». In molte inferenze induttive, sia osservative sia teoriche, la conclusione consiste nell’ipotizzare che i fatti descritti nelle premesse siano gli effetti di una determinata causa; tali inferenze vengono abitualmente denominate «inferenze causali». Una sia pur breve rassegna dei diversi tipi di inferenze induttive sarebbe gravemente incompleta se non si menzionassero le «inferenze statistiche». Di norma, le premesse di un’inferenza statistica descrivono un campione estratto casualmente da una data popolazione, mentre la conclusione concerne determinate caratteristiche dell’intera popolazione, o di altri campioni che verranno da essa estratti in futuro. Il ruolo delle inferenze statistiche in tutte le scienze empiriche, dalla biologia all’economia, si è enormemente accresciuto nel corso degli ultimi due secoli al punto che, già all’inizio del Novecento, l’analisi sistematica dei vari tipi di inferenze statistiche è giunta a costituire un’apposita disciplina, vale a dire la «statistica», caratterizzata da un elevato grado di sofisticazione matematica. 2. Richiami storici allo sviluppo della logica induttiva. – Il Novum Organum (1620) di Francesco Bacone (1561-1626) può venire considerato il primo trattato di logica induttiva mai scritto. In quest’opera Bacone, oltre a mettere in rilievo la funzione del ragionamento induttivo nella crescita della conoscenza scientifica, analizza le induzioni teoriche circa le cause nascoste dei fenomeni. Supponiamo, per esempio, di voler determinare la causa del calore. A tale scopo Bacone suggerisce di classificare i dati osservativi in tre diverse tavole. Nella prima, detta tavola di presenza (tabula presentiae), si dovranno registrare tutti i casi di oggetti, eventi e situazioni nei quali il calore si presenta. In questa tavola troveremo, per esempio, i raggi solari, le fiamme, la calce viva cosparsa d’ac-

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qua, i vegetali in corso di fermentazione, i bagni caldi naturali, e così via. Nella seconda, detta tavola dell’assenza (tabula declinationis, sive absentiae in proximo), andranno registrati tutti quei casi di oggetti e fenomeni «prossimi», o «affini», a quelli inclusi nella prima tavola, dove però il calore risulta assente. La tavola dell’assenza include i raggi lunari – che, pur essendo luminosi come quelli solari, non sono caldi – la cenere mescolata con l’acqua, i fuochi fatui, e così via. Infine, nella tavola dei gradi (tabula graduum), si registreranno tutti quei fenomeni nei quali il calore si presenta con diversi gradi di intensità. In quest’ultima tavola includeremo le variazioni quotidiane della temperatura, i pezzi di ferro che si surriscaldano quando vengono percossi con un martello, diversi tipi di fiamme, e così via. A questo punto può cominciare una complessa procedura di interpretazione dei dati disponibili che è stata denominata «induzione per eliminazione», poiché mira all’eliminazione di tutte le ipotesi circa il calore a eccezione, beninteso, di quella vera. Più specificamente, l’esame delle tre tavole ci porta a escludere, tra le possibili cause del calore, tutte quelle qualità che non sono presenti in alcuni casi nei quali è presente il calore, tutte quelle che sono presenti in alcuni casi nei quali il calore è assente e, infine, tutte quelle il cui grado resta invariato, o si accresce, quando l’intensità del calore diminuisce. Così, per esempio, possiamo escludere che la luce sia la causa del calore, poiché essa è presente anche nei raggi lunari, che sono freddi. In tal modo, attraverso la ripetuta eliminazione di ipotesi, si arriva a quella che Bacone chiama prima vendemmia (vindemiatio prima), cioè a una prima provvisoria ipotesi circa la causa del calore. Tuttavia questa prima ipotesi, per poter essere definitivamente accettata, dovrà venire sottoposta a un complesso insieme di controlli. Tra questi una particolare importanza va attribuita alle cosiddette instantiae crucis, così chiamate a ricordare le croci poste ai bivi delle strade, davanti alle quali ci troviamo nella condizione di dover decidere quale strada imboccare e quale abbandonare. Le instantiae crucis corrispondono a quelli che oggi vengono chiamati esperimenti cruciali, cioè a quegli esperimenti dal cui risultato dipende l’accettazione o, viceversa, il rifiuto di un’ipotesi compatibile con i dati fino a quel momento disponibili.

Logica induttiva Nel secolo successivo alla morte di Bacone si diffuse l’idea, grazie soprattutto all’opera di David Hume (1711-1776), che le conclusioni di un’inferenza induttiva non potessero mai essere completamente certe, ma soltanto probabili. Hume fu condotto al problema dell’induzione dalla sua riflessione sulle relazioni causali. Dopo avere attentamente considerato diversi esempi di supposte relazioni causali, Hume concluse che – mentre si poteva osservare che le cause erano spazialmente contigue agli effetti e venivano sempre prima di essi – non si poteva trovare alcuna connessione necessaria fra una causa e un effetto. Hume offrì una spiegazione psicologica della convinzione, tanto diffusa quanto infondata, che fra cause ed effetti ci fosse qualche connessione necessaria, argomentando che, dopo aver sperimentato il congiungimento costante di due tipi di eventi – la cosiddetta causa e il cosiddetto effetto – noi arriviamo a credere che tra di essi sussista una connessione necessaria. In tal modo Hume si trovò ad affrontare il problema dell’induzione e, più specificamente, la questione della possibilità di «previsioni induttive» circa i possibili effetti futuri di certe cause operanti nel presente. A tale proposito, egli affermò che la supposizione che il futuro assomigli al passato deriva unicamente dall’abitudine, grazie alla quale siamo portati ad aspettarci dal futuro lo stesso ordine di fenomeni da noi ripetutamente sperimentato nel passato. Si apriva, a questo punto, il problema di offrire una giustificazione razionale delle nostre previsioni circa il verificarsi di certi eventi futuri. È appunto l’invito a risolvere questo problema che costituisce la cosiddetta «sfida di Hume» sull’induzione. Nella Gran Bretagna del diciannovesimo secolo le ricerche di Bacone e Hume sull’induzione e il metodo scientifico furono proseguite da scienziati e filosofi come John F. W. Herschel (1792-1871), John Stuart Mill (1806-1873) e William Whewell (1794-1866). Herschel concepiva la ricerca scientifica come un processo di «ascesa induttiva» nel quale, dapprima, i fatti particolari venivano raggruppati in leggi generali e, successivamente, tali leggi venivano usate come base per procedere alla formulazione di teorie ad ampio raggio. Per quanto riguarda, più specificamente, la formulazione di leggi generali intorno alle relazioni causali tra diversi tipi di eventi, Herschel suggerì un insieme di regole metodologiche che anticiparo6643

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Logica induttiva no i famosi «canoni dell’induzione» di Mill. I più importanti fra i cinque canoni proposti da Mill nel System of Logic (1843) sono i metodi della concordanza, della differenza, dei residui e delle variazioni concomitanti. Secondo il «metodo della concordanza», se tutti i casi del fenomeno sottoposto a indagine sono accomunati da un’unica circostanza, quest’ultima costituisce la causa, o l’effetto, del fenomeno. Secondo il «metodo della differenza», dato un caso in cui il fenomeno indagato si verifica e uno nel quale non si verifica, se i due casi hanno tutte le circostanze in comune a eccezione di una, che si presenta solo nel caso in cui il fenomeno si verifica, allora quest’ultima circostanza costituisce l’effetto, o la causa, o una parte indispensabile della causa, del fenomeno. Secondo il «metodo dei residui», se sottraiamo da un fenomeno la parte che, grazie a precedenti induzioni, sappiamo essere l’effetto di certi eventi antecedenti, il residuo del fenomeno è l’effetto degli antecedenti rimanenti. Infine, secondo il «metodo delle variazioni concomitanti», possiamo indurre l’esistenza di una relazione causale tra due fenomeni ogniqualvolta essi variano sincronicamente in modo concomitante, cioè secondo una certa proporzione. Una concezione metodologica assai diversa da quella di Mill – e, su molti punti, in aperto conflitto con essa – venne proposta da Whewell. Anticipando alcune concezioni sviluppate un secolo più tardi da Karl R. Popper (1902-1994), egli riteneva che la ricerca scientifica mirasse a conseguire un progressivo avvicinamento alla verità. A suo giudizio, la ragione per cui si poteva aver fiducia nel carattere progressivo della scienza consisteva nel fatto che di tanto in tanto, nella storia della scienza, era possibile conseguire «concordanze (consiliences) di induzioni», attraverso le quali quelle che inizialmente erano fatti, leggi o teorie isolati, venivano gradualmente sussunti sotto leggi e teorie con un livello crescente di generalità. In questo modo, per esempio, fenomeni precedentemente isolati, come i moti osservati dei pianeti, le maree e la caduta delle mele dagli alberi, trovarono alla fine una spiegazione unitaria attraverso la loro sussunzione sotto la teoria newtoniana della gravitazione universale. Nei primi decenni del secolo scorso gli studi sull’induzione, e la sua applicazione nella pratica scientifica, furono ripresi con particolare vigore dai membri del Circolo di Vienna e, più 6644

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in generale, dagli esponenti dell’empirismo logico. Entro questa corrente filosofica gli studi sull’induzione si intrecciarono alle discussioni sul cosiddetto «principio di verificabilità», il quale asserisce che il significato di una proposizione è equivalente al metodo per verificarla. Rudolf Carnap (1891-1970), per esempio, aveva riconosciuto l’impossibilità di un procedimento di verifica completo per le leggi e le teorie scientifiche e – rinunciando al «verificazionismo» rigoroso della prima fase del Circolo di Vienna – aveva suggerito che ci si doveva accontentare di «confermare» una teoria sulla base dei dati sperimentali. A conclusioni simili giunse Hans Reichenbach (18911953) il quale riteneva che l’intera conoscenza scientifica fosse essenzialmente probabilistica. Tra gli studiosi che, nel corso del ventesimo secolo, diedero forte impulso all’analisi probabilistica dell’induzione, occorre ricordare almeno John M. Keynes (1883-1946), Frank P. Ramsey (1903-1930), Bruno de Finetti (19061985), Harold Jeffreys (1891-1989) e Leonard J. Savage (1917-1971). II. PROBABILITÀ INDUTTIVE. L’APPROCCIO BAYESIANO ALLA LOGICA INDUTTIVA. – Le inferenze induttive svolgono un ruolo molto importante nelle scienze empiriche. Si può infatti ritenere che le ipotesi scientifiche possano venire inferite induttivamente da un certo numero di premesse che descrivono la cosiddetta «evidenza», la quale include tutti i dati empirici rilevanti in possesso degli scienziati – oltre, eventualmente, alla «conoscenza di sfondo» teorica che, in un determinato istante, essi ritengono non problematica. A tale riguardo, basterà notare che alcune locuzioni ampiamente utilizzate dagli scienziati – come, per esempio, «e costituisce una buona evidenza a favore di h», «h è altamente probabile alla luce di e», «e fornisce un alto grado di conferma a h», o «h può venire accettata sulla base di e» – si riferiscono a diversi tipi di relazioni induttive intercorrenti tra l’evidenza e e una determinata ipotesi h. Nel seguito avremo spesso occasione di considerare enunciati complessi formati applicando i connettivi «non», «e», e «oppure» a enunciati più semplici. Tali connettivi verranno indicati con i consueti simboli logici vale a dire, rispettivamente, con « ¬», « ∧», e « ∨». Così, per esempio, dati gli enunciati a e b, « ¬a» starà per «non a» (cioè «non si dà il caso che a»), «a ∧b» per «a e b» e, infine, «a ∨b» per «a oppure b». Si noti che « ∨» va interpretato in senso

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inclusivo, cosicché «a ∨b» è falso nel caso in cui sia a sia b sono falsi, ed è vero in tutti gli altri casi. Tra i diversi approcci all’analisi delle inferenze induttive particolare rilievo ha assunto, nell’ultimo mezzo secolo, l’approccio bayesiano, così denominato in onore del reverendo Thomas Bayes (1702-1761). Tale approccio si fonda sull’idea che la credenza in un’ipotesi scientifica h – e, più in generale, in qualsiasi enunciato fattuale – sia suscettibile di diversi gradi di intensità e che l’intensità della nostra credenza nella verità di h possa venire rappresentata da una determinata probabilità. Le probabilità utilizzate per esprimere i gradi di credenza degli scienziati vengono denominate «probabilità induttive» – termine che verrà usato nel seguito – o anche «epistemiche», «soggettive», «personali». Dal punto di vista bayesiano, il nocciolo dell’inferenza induttiva da una data evidenza e a un’ipotesi h consiste nell’attribuire un certo grado di probabilità a h, sulla base di e. Più precisamente, all’inizio di un’indagine empirica gli scienziati dovrebbero determinare, sulla base della conoscenza di sfondo in loro possesso, la probabilità di tutte le ipotesi prese in esame; successivamente essi dovrebbero «aggiornare» tali probabilità alla luce dei dati acquisiti attraverso osservazioni ed esperimenti. Lo studio sistematico dei principi che governano l’attribuzione delle probabilità iniziali alle ipotesi, e il loro aggiornamento in risposta a svariati tipi di informazioni empiriche, costituisce un compito fondamentale dell’approccio bayesiano. Una funzione di probabilità (induttiva) p sulla classe di enunciati Z può essere definita come una funzione che attribuisce un numero reale p(a) a ciascun enunciato a di Z in modo tale da soddisfare le seguenti condizioni: (C.1) p(a)>0 per qualunque enunciato a di Z; (C.2) se a è una tautologia, allora p(a)=1; (C.3) se a e b sono logicamente incompatibili, allora p(a ∨b)=p(a)+p(b). Dati gli enunciati a e b di Z, sia p(a ∧b) la probabilità attribuita alla loro congiunzione a ∧b. Allora, la probabilità condizionale p(a,b) (che si legge: probabilità di a dato b) viene così definita: (D.1) p(a,b)=p(a ∧b)/p(b) a condizione che p(b)>0. Un’importante proprietà delle probabilità condizionali viene espressa dal teorema di Bayes che può venire così formulato:

Logica induttiva (TB) p(a,b)=[p(a) ×p(b,a)]/p(b) a condizione che p(b)>0. La regola fondamentale per aggiornare la probabilità delle ipotesi alla luce delle informazioni empiriche acquisite nel corso dell’indagine è costituita dal «principio di condizionalizzazione». Supponiamo che, nell’istante iniziale di un’indagine, lo scienziato X abbia attribuito la probabilità p(h) all’ipotesi h e che le sole informazioni acquisite da X dopo tale istante consistano nell’evidenza e, cioè nella certezza che l’enunciato e è vero. Allora, in base al principio di condizionalizzazione, X dovrà aggiornare la «vecchia» probabilità p(h), sostituendola con una «nuova» probabilità, data da p(h,e). Nella terminologia bayesiana, p(h) rappresenta la «probabilità a priori», o «probabilità iniziale», di h, mentre p(h,e) è la «probabilità a posteriori», o «probabilità finale». In accordo con (TB), la probabilità finale p(h,e) sarà uguale a (1) p(h,e)=[p(h) ×p(e,h)]/p(e). Sul lato destro della formula (1) compaiono, oltre alla probabilità iniziale p(h), anche la probabilità iniziale p(e) dell’evidenza e e la probabilità condizionale p(e,h), che può venire interpretata come una misura del grado di «prevedibilità relativa» di e sulla base di h, ed è comunemente denominata «verosimiglianza di h relativamente a e». III. LA CONFERMA DELLE IPOTESI NELL’APPROCCIO BAYESIANO. – Diciamo che l’ipotesi h viene confermata dall’evidenza empirica e nel caso in cui e rafforza la plausibilità di h, cioè la nostra fiducia che h sia vera o, almeno, vicina al vero. Un’adeguata analisi della nozione di conferma deve condurre a una precisa definizione del concetto di conferma, stabilendo in quali condizioni un’evidenza e «conferma» l’ipotesi h, «disconferma» h, o è «neutrale» nei confronti di h. Nell’approccio bayesiano la nozione di conferma viene abitualmente definita mediante il «criterio di rilevanza positiva», in base al quale e conferma h se e solo se e è «positivamente rilevante» per h, cioè se ne accresce la probabilità iniziale. In simboli: e conferma h se e solo se p(h,e)>p(h). Analogamente, e disconferma h nel caso in cui p(h,e) u A ) base: < F,I > u p ⇔ u ∈ I[p] passo: < F,I > u ¬A ⇔ < F,I > u A

< F,I > u A ∧ A ’ ⇔ < F,I > u A et < F,I > u A ’ < F,I > u ˆA ⇔ (om v)(uRv ⇒ < F,I > v A) Corollario alla definizione: < F,I > u ˆn A ⇔ (om v)(uR nv ⇒ < F,I > v A) Inoltre, si definisce la verità di un insieme X di formule: < F,I > u X ⇔ (om A)(A ∈ X ⇒ < F,I > u A) Definizione 2.4: conseguenza logica (  ) Secondo la concezione classica, A è conseguenza logica di X, in un determinato modello, se e solo se la verità di X implica la verità di A in ogni mondo del modello. La definizione è poi generalizzata in relazione a strutture e a classi di strutture. Conseguenza logica in un modello ( X  A ): X  A ⇔ (om u)(< F,I > u X ⇒ < F,I > u A) Conseguenza logica in una certa struttura ( X F A ): X F A ⇔ (om I)(X  A) Conseguenza logica in ogni struttura in una classe ( X F A ) X F A ⇔ (om F ∈ F )(X F A) Le definizioni di validità e soddisfacibilità derivano direttamente dalla definizione di conseguenza logica: A è valida, in un modello, in una struttura o in una classe di strutture se e solo se è conseguenza logica, in quel modello, 6691

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Logica modale proposizionale quella struttura o quella classe di strutture, dell’insieme vuoto di premesse; A è soddisfacibile, ossia possibile dal punto di vista logico, in un modello, in una struttura o in una classe di strutture se la sua negazione non è una conseguenza logica in quel modello, quella struttura o quella classe di strutture. 3. Località del linguaggio modale. – La definizione di verità di una formula evidenzia il carattere locale dei linguaggi modali: mentre la verità di p dipende esclusivamente da come stanno le cose nel mondo in cui p è valutata, la verità di ˆ p dipende da come stanno le cose nei mondi accessibili al mondo in cui p è valutata. Il carattere locale può essere precisato utilizzando il seguente teorema, in cui sono messi in luce i limiti descrittivi del linguaggio modale. Il teorema mira a determinare con precisione le condizioni delle quali la verità di una formula modale in un dato mondo è funzione. Definizione 2.6: grado modale di A (g(A)) b a s e : g ( p ) = 0 ; p a s s o : g ( ¬A ) = g ( A ) ; g( A ∧ A ’ )=max(g(A),g(A’)); g(ˆA )=g(A)+1. In termini intuitivi, il grado modale indica il numero delle nidificazioni di operatori presenti in una formula: ad esempio, g(ˆˆA )=g(ˆ (A ∧ˆA))=2. Sia data una struttura F=. Sia u un mondo di W. La struttura Fu=, in cui Wu è l’insieme dei mondi accessibili da u in un numero finito di passi e Ru è la relazione di accessibilità originaria ristretta a questo insieme, è chiamata sottostruttura generata da u. La struttura Fu/n=, in cui Wu/n è l’insieme dei mondi accessibili da u in un numero di passi minore o uguale a n e Ru/n è la relazione di accessibilità originaria ristretta a questo insieme, è chiamata sottostruttura n-generata da u. Teorema di continuità: i) sia g(A)=n; ii) sia P={p|p occorre in A} ; iii) sia I' tale che per ogni p in P, I'[p]=I[p]∩ Wu n; iv) infine, sia B una sottoformula di A con g(B) ≤ (n–i). Allora: uR(n-i)x ⇒ x B ⇔ v(b), e che sono state successivamente assiomatizzate. Essi hanno introdotto anche un sistema a infiniti valori di verità, rappresentati dai numeri razionali compresi fra 0 e 1 (estremi inclusi). Nel 1932 K. Gödel ha studiato alcuni sistemi di logica polivalente per cercare di caratterizzare mediante matrici la logica intuizionista, e ha dimostrato che tale caratterizzazione non può essere ottenuta con un numero finito di valori di verità. Per inciso, nella logica intuizionista si rifiuta il principio del terzo escluso, ma si assume quello di bivalenza. Nel 1936 S. Jaskowski ha individuato una matrice a infiniti valori di verità adeguata, almeno entro certi limiti, per caratterizzare la logica intuizionista. Nei decenni successivi sono stati ottenuti molti risultati metateorici relativi ai sistemi finora menzionati e ad altri analoghi introdotti nel frattempo. Si può affermare che, per un lungo periodo di tempo, la logica polivalente è stato il settore della logica non-classica matematicamente più studiato, anche se gran parte degli approfondimenti tecnici non sono stati accompagnati da un parallelo aumento della loro rilevanza e applicabilità da un punto di vista più strettamente logico. Più significative e di vasta portata sono risultate le ricerche condotte nell’ambito dell’accezione più ampia di polivalenza cui si è accennato in precedenza. In esso sono state sviluppate semantiche relative alle varie logiche studiate nei diversi settori della disciplina mediante l’impiego di molteplici strutture algebriche (algebre di Boole, algebre di Heyting, reticoli, bireticoli, monoidi, e così via). Rinviando, per questi aspetti, alle altre vo6709

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Logica polivalente ci di questa enciclopedia, ricordiamo solo le interpretazioni, in opportune algebre di Boole, della teoria degli insiemi (modelli booleani della teoria degli insiemi), mediante le quali D. Scott e R. Solovay hanno dimostrato, nel 1967, l’indipendenza dell’assioma di scelta e dell’ipotesi del continuo (ottenuta pochi anni prima da P.J. Cohen con il metodo del forcing). VI. LOGICHE PROBABILISTICHE E FUZZY. – Le logiche probabilistiche e le logiche fuzzy, pur costituendo due settori abitualmente considerati autonomi dell’indagine logica, si possono far rientrare nelle logiche polivalenti a infiniti valori di verità. Nella logica probabilistica le circostanze in cui si è sicuri della verità o della falsità di una proposizione a costituiscono due casi limite, e tra di essi si situa uno spettro continuo di casi, nei quali si attribuisce alla proposizione un valore di probabilità intermedio. La probabilità che si verifichi l’evento (descritto dalla proposizione) a viene rappresentata con un numero reale compreso tra 0 e 1 (estremi inclusi) indicato con P(a); si ha quindi che 0 ≤ P(a) ≤ 1. Se P(a)=1, allora siamo sicuri che a è vera; se P(a)=0, allora siamo sicuri che a è falsa. In generale, P(a)=p significa attribuire la probabilità p al verificarsi di a. La logica delle probabilità costituisce quindi un’estensione della logica proposizionale classica: tutto quello che vale in quest’ultima può essere esteso alla logica delle probabilità se si sostituisce al valore di verità V il valore di probabilità 1 e al valore di verità F il valore di probabilità 0. I valori di probabilità delle proposizioni composte mediante connettivi si ottengono con le regole matematiche del calcolo delle probabilità. Ad esempio: (a) P(¬α)=1–P(a) (b) P(α ∨ β)=P(a)+P(b) (se a e b sono mutualmente esclusive) (c) P(α ∧ β)=P(a)⋅P(b) (se a e b sono indipendenti) Nelle logiche vaghe (fuzzy) le proposizioni assumono valori di verità intermedi tra il vero e il falso per trattare logicamente proprietà di cui un individuo gode o non gode a diversi gradi (perciò definiti predicati fuzzy o «vaghi»), come giovane, anziano, grande, piccolo, veloce, in cui non c’è un confine netto tra gli individui che godono della proprietà e quelli che non ne godono. Ad esempio, una persona di vent’anni è certamente giovane, una persona di settanta non lo è. Ma a che età una persona smette di essere giovane? Non è plausibile individuare un confine preciso. Si smette di essere giovani un po’ alla volta. Di conseguenza, per proposizioni quali 6710

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«Renzo è giovane», appare poco ragionevole assumere il principio di bivalenza. «Renzo è giovane» smette di essere vera un po’ alla volta (proprio come Renzo smette un po’ alla volta di essere giovane). Nella logica fuzzy i valori di verità delle proposizioni vengono espressi come numeri reali compresi tra 0 e 1 (estremi inclusi). v(a)=0 corrisponde al falso, v(a)=1 corrisponde al vero, gli altri numeri a valori intermedi tra il vero e il falso. I valori delle proposizioni composte con i connettivi si determinano con opportune funzioni matematiche. Ad esempio: (a) v(¬α)=1–v(a) (b) v(α ∧ β)=Min{v(a),v(b)} (c) v(α ∨ β)=Max{v(a),v(b)} Per la trattazione del condizionale sono possibili più alternative ciascuna delle quali presenta pregi e difetti. Interessanti applicazioni della logica fuzzy si hanno nell’analisi di alcuni paradossi, tra cui quello del mucchio di grano (o del sorite), in informatica e in teoria dei controlli: sono usate ad esempio nella metropolitana di Sendai in Giappone, in apparecchiature di largo consumo come cineprese e lavatrici, nelle diagnosi mediche, nell’ingegneria delle trasmissioni automatiche e nella previsione dei tassi di cambio monetari. D. Palladino BIBL.: H. REICHENBACH, Philosophic Foundation of Quantum Mechanics, Berkeley (California) 1944, tr. it. di A. Caracciolo di Forino, I fondamenti filosofici della meccanica quantistica, Torino 1960; R. ACKERMANN, Introduction to Many-Valued Logics, London 1967; N. RESCHER, Many-Valued Logic, New York 1968; I. UKASIEWICZ, On Determinism, in Selected Works, ed. a cura di L. Borkowski, Amsterdam 1970, pp. 110-128; M. MARSONET, Introduzione alle logiche polivalenti, Roma 1976; A. URQUHART, Many-Valued Logic, in D. GABBAY - F. GUENTHNER (a cura di), Handbook of Philosophical Logic, vol. III: Aternatives to Classical Logic, Dordrecht 1986, pp. 71-116; L. BOLC - P. BOROWIK, Many Valued Logics, vol. I: Theoretical Foundations, Berlin 1992; G. MALINOWSKI, Many-Valued Logics, Oxford 1993; S. GOTTWALD, A Treatise on Many-Valued Logics, Baldock 2001; R. HÄHNLE, Advanced Many-Valued Logic, in D. GABBAY - F. GUENTHNER (a cura di), Handbook of Philosophical Logic, vol. II, Dordrecht 20012, pp. 297-395; L. BOLC - P. BOROWIK, Many Valued Logics, vol. II: Automated Reasoning and Practical Applications, Berlin 2003; M. FITTING - E. ORLOWSKA (a cura di), Beyond Two, Heidelberg 2003. ➨ ALGEBRA, TEMI FILOSOFICI DELLA; ALGORITMO; LOGICA DELLA RILEVANZA; LOGICA INTUIZIONISTICA; LOGICA PROPOSIZIONALE; LOGICA QUANTISTICA; LOGICA TEMPORALE; LOGICHE FUZZY; TEORIA DEGLI INSIEMI; TEORIA DELLA COMPUTABILITÀ.

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LOGICA PROPOSIZIONALE. – SOMMARIO: I. Logica proposizionale Premessa. - II. Il linguaggio della logica proposizionale: 1. Operatori estensionali/connettivi proposizionali. - 2. Alcune considerazioni sui connettivi proposizionali. - 3. Il linguaggio formale della logica proposizionale. - III. Tautologie, equivalenza e conseguenza logica: 1. Tavole di verità delle forme proposizionali. - 2. Alcuni schemi di tautologie. - 3. Equivalenza logica. - 4. Conseguenza logica. - IV. Regole logiche. - V. Calcoli logici: 1. Calcoli assiomatici (o alla Hilbert). - 2. Calcolo della deduzione naturale. 3. Sistemi di tableaux. - 4. Calcoli dei sequenti (o alla Gentzen). - VI. Regole della negazione, logica intuizionista e minimale. - VII. Semantica formale: 1. Correttezza. - 2. Completezza. - 3. Compattezza. 4. Nozioni alternative di conseguenza logica. I. PREMESSA. – Uno degli scopi principali dell’indagine logica, da Aristotele a oggi, è studiare le inferenze logiche. Quando si esegue un’inferenza si concatenano proposizioni, alcune delle quali sono assunte come premesse e le altre ne sono dedotte applicando regole d’inferenza. Per analizzare le inferenze si parte da quelle più semplici, in cui l’ultima proposizione (conclusione) è ottenuta dalle precedenti (premesse) mediante l’applicazione di una sola regola (ossia, un’inferenza articolata in vari passaggi, quale ad esempio una dimostrazione matematica, viene scomposta nei suoi costituenti più elementari). Per analizzare logicamente le inferenze occorre dapprima rendere totalmente esplicito il linguaggio con cui si formulano, e poi individuare le regole che sono corrette, ossia che rispettano il nesso di conseguenza logica tra le proposizioni (tali che, se le premesse sono vere, allora è vera la conclusione). A tal fine si rivela necessario formalizzare le proposizioni per fissare univocamente il loro significato e rendere totalmente esplicita la loro struttura logica, in modo che sia possibile verificare se sussiste il nesso di conseguenza logica tra le premesse e la conclusione. Occorre pertanto isolare le componenti del linguaggio che hanno rilevanza logica, disambiguarne il significato e tradurle in espressioni formalmente strutturate. In sintesi, per analizzare logicamente un’inferenza, occorre individuare la «forma logica» delle proposizioni che intervengono in essa e stabilire quanti e quali «valori di verità» si assumono per esplicitare il nesso di conseguenza logica. La formalizzazione viene condotta a livelli successivi di approfondimento a seconda di quali componenti linguistiche si vogliono considerare. Nella logica classica si isolano alcune componenti linguistiche e si assume il principio di bi-

Logica proposizionale valenza: ogni proposizione può assumere uno e uno solo dei due valori di verità, il vero (V) o il falso (F). L’analisi si articola a diversi livelli a seconda della minore o maggiore complessità della formalizzazione che si adotta. Nel seguito ci soffermeremo sul primo livello, ossia quello della logica proposizionale classica (per il secondo livello vedi «logica dei predicati con identità»). Vedremo anche alcune logiche (ad esempio la logica intuizionista e la logica minimale) che sono sottoteorie di quella classica. II. IL LINGUAGGIO DELLA LOGICA PROPOSIZIONALE. – Detta semplice (o atomica) è una proposizione che non contiene al suo interno un’altra proposizione, e composta altrimenti; nella logica proposizionale classica si considerano solo inferenze contenenti proposizioni composte mediante connettivi (operatori) vero-funzionali, tali che il valore di verità di una proposizione composta dipende unicamente dai valori di verità delle proposizioni più semplici che la compongono. Nel linguaggio formale L0, in cui si studiano le inferenze al livello di logica proposizionale, si introducono lettere per indicare le proposizioni semplici: p, q, r,... e simboli per denotare i connettivi che si assumono come primitivi in L0. Le formule che denotano proposizioni composte sono ottenute a partire dalle lettere proposizionali applicando successivamente i connettivi. Prima di definire rigorosamente L0 esaminiamo i connettivi che si considerano comunemente nella logica proposizionale classica. Usiamo lettere greche minuscole: α , β , γ ,... per denotare proposizioni generiche sia semplici che composte. 1. Operatori estensionali/connettivi proposizionali. I connettivi (operatori) che si considerano usualmente in logica si applicano o a una singola proposizione (connettivi monoargomentali) o a due (connettivi biargomentali). La definizione dei connettivi vero-funzionali, detti anche connettivi estensionali, può essere formulata mediante una tavola di verità che stabilisce come operano rispetto ai valori di verità delle proposizioni componenti. L’attributo «estensionale» si contrappone a «intensionale»: il comportamento logico degli operatori e dei connettivi intensionali non può essere ricondotto a una tavola di verità. Ad esempio «È possibile» è un operatore intensionale in quanto la proposizione «È possibile a» può essere vera sia nel caso in cui a sia vera, sia nel caso in cui a sia falsa. Lo studio delle inferenze in cui le proposizioni contengono operatori intensionali è oggetto di ampliamenti della logica classica: la logica modale aletica (che tratta 6711

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Logica proposizionale gli operatori di «necessario», «possibile», «contingente»), la logica deontica (che tratta gli operatori di «obbligatorio», «permesso», «vietato»), la logica epistemica (che tratta gli operatori di «credere», «credere fondatamente», «sapere»), e altre ancora. Vediamo ora i principali connettivi estensionali caratteristici della logica proposizionale classica. (A) NEGAZIONE. La negazione è il connettivo monoargomentale che inverte il valore di verità di una proposizione. Per essa si usa il simbolo ¬ (che si legge «non»). Se α è vera, ¬α è falsa e, viceversa, se α è falsa, ¬α è vera. Pertanto, la tavola di verità della negazione è:

Il simbolo ¬ si legge «non» poiché nel linguaggio comune è proprio mediante «non» che usualmente si inverte il valore di verità di una proposizione. (B) CONGIUNZIONE. La congiunzione di due proposizioni a e b è la proposizione che è vera se entrambe le proposizioni a e b sono vere, e falsa in tutti gli altri casi. La congiunzione è un connettivo a due argomenti che si indica con il simbolo ∧ ; la proposizione α ∧ β si legge «a e b» (a e b si dicono congiunti) poiché nel linguaggio comune, per asserire la verità simultanea di due proposizioni, si adopera normalmente la «e» inserendola fra di esse. La tavola di verità della congiunzione è la seguente:

(C) DISGIUNZIONE (INCLUSIVA ED ESCLUSIVA). La disgiunzione (inclusiva) di due proposizioni a e b è la proposizione che è vera se almeno una delle due proposizioni a e b è vera, e falsa se entrambe sono false. La disgiunzione è un connettivo a due argomenti e si indica con il simbolo ∨ ; la proposizione α ∨ β si legge «a o b» (a e b si dicono disgiunti) poiché nel linguaggio comune, 6712

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per asserire che almeno una di due proposizioni è vera, si adopera «o». La tavola di verità della disgiunzione è la seguente:

La disgiunzione inclusiva ∨ corrisponde all’uso di «o» nel senso del vel latino; nel linguaggio comune è frequente l’impiego di «o» con altri significati, ad esempio nel senso «esclusivo» dell’aut latino, quando si vuole affermare che almeno una di due proposizioni a e b è vera, ma che non sono entrambe vere, né entrambe false. Indicando con ∨ (leggi «aut») la disgiunzione esclusiva, la corrispondente tavola di verità risulta essere la seguente:

(D) CONDIZIONALE (CONDIZIONE NECESSARIA/CONDIZIONE SUFFICIENTE). Il condizionale (materiale) di due proposizioni a e b è il connettivo, che si indica con →, definito dalla seguente tavola:

Il condizionale α → β (che si legge «se a, allora b»), in cui a è detto antecedente e b conseguente, ha il significato di «non si dà il caso che sia vera a e falsa b». α → β è logicamente equivalente (v. infra, § III.3: Equivalenza logica) a ¬(α ∧ ¬β) in quanto la sua tavola di verità corrisponde a quella di ¬(α ∧ ¬β):

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Il condizionale α → β si legge «se a, allora b» in quanto in molte inferenze il connettivo «se..., allora...» ha proprio il significato espresso dalla tavola precedente. Molti teoremi matematici e le proposizioni che si ottengono come conclusioni di un’inferenza hanno sovente un enunciato del tipo «Se a (ipotesi), allora b (tesi)». Talvolta si usano con lo stesso significato altre espressioni equivalenti: «b, se a» «a solo se b» «da a segue b» «a implica b» «a è condizione sufficiente per b» «b è condizione necessaria per a». Anche se è usuale leggere α → β con «a implica b», è utile tener distinto il condizionale come connettivo proposizionale (che produce una proposizione composta) dall’implicazione intesa come la relazione biargomentale fra due proposizioni che sussiste quando da a si deduce b. (E) BICONDIZIONALE. Si dice bicondizionale, e si indica ↔ , il connettivo avente la seguente tavola di verità:

α ↔ β è vero se a e b hanno lo stesso valore di verità e falso se a e b hanno valore di verità diverso; come si può vedere dalla seguente tavola, α ↔ β equivale a (α → β) ∧ (β → α):

Logica proposizionale α ↔ β si legge «a se e solo se b» (e il «se» si riferisce al condizionale β → α e il «solo se» al condizionale inverso α → β). Anziché «a se e solo se b» si dice talvolta (soprattutto in matematica) «a è condizione necessaria e sufficiente per b», la quale congiunge le due proposizioni «a è condizione necessaria per b» (β → α) e «a è condizione sufficiente per b» (α → β). Il bicondizionale è commutativo: α ↔ β ha la stessa tavola di verità di β ↔ α, per cui α ↔ β è logicamente equivalente a β ↔ α: se vale che «a è condizione necessaria e sufficiente per b», vale anche che «b è condizione necessaria e sufficiente per a». Quando è vero il condizionale α → β («se a, allora b»), ma non è vero il condizionale inverso β → α («se b, allora a»), per sottolineare la dissimmetria che si instaura tra le proposizioni a e b, si può dire: «a è condizione sufficiente, ma non necessaria, per b» oppure «b è condizione necessaria, ma non sufficiente, per a». Ad esempio, dato che vale «Se una persona è nata a Genova, allora è nata in Liguria» ma non è vero il condizionale inverso «Se una persona è nata in Liguria, allora è nata a Genova», si può dire: «Per una persona, essere nata a Genova è condizione sufficiente, ma non necessaria, affinché sia nata in Liguria», oppure «Per un persona, essere nata in Liguria è condizione necessaria, ma non sufficiente, affinché sia nata a Genova». 2. Alcune considerazioni sui connettivi proposizionali. – (1) Anche se i connettivi si leggono come termini del linguaggio naturale ( ¬ si legge «non», ∧ si legge «e»,...) non tutti gli usi di «non», «e»,... del linguaggio naturale corrispondono ai connettivi logici: ciò avviene solo quando il loro uso è vero-funzionale. Ad esempio, nella proposizione «Vado al bar e prendo un caffè», l’uso di «e» non è vero-funzionale poiché la verità della proposizione composta non dipende solo dalle verità delle proposizioni componenti, ma anche dal loro succedersi temporale. Mentre α ∧ β è logicamente equivalente a β ∧ α, evidentemente la proposizione precedente non equivale a «Prendo un caffè e vado al bar». (2) I connettivi introdotti non sono indipendenti tra loro: si è visto che α → β equivale a ¬(α ∧ ¬β) e c h e α ↔ β e q u i v a l e a (α → β) ∧ (β → α). Ciò si può esprimere dicendo che il condizionale → si può definire mediante la negazione ¬ e la congiunzione ∧ , e che il bicondizionale ↔ si può definire mediante il condizionale → e la congiunzione ∧ . Vi è un procedimento mediante il quale si può definire un connettivo vero-funzionale qualsiasi mediante i tre connettivi di negazione ¬ , 6713

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Logica proposizionale congiunzione ∧ e disgiunzione ∨ . Illustriamolo nel caso della disgiunzione esclusiva α ∨ β. Si considera la tavola di verità della disgiunzione esclusiva:

e si procede come segue. Si considerano le righe in cui α ∨ β ha valore V, ossia la seconda e la terza. Dato che nella seconda riga a ha valore V e β ha valore F, si scrive la congiunzione α ∧ ¬β in modo che, se α ha valore V e b ha valore F, α ∧ ¬β ha valore V. Dato che nella terza riga a ha valore F e b ha valore V, si scrive la congiunzione ¬α ∧ β che ha valore V quando a ha valore F e b ha valore V. α ∨ β ha valore V se e solo se si verifica uno dei due casi sopra citati, ossia se e solo se è vera una delle due congiunzioni α ∧ ¬β e ¬α ∧ β. Pertanto, si verifica facilmente che α ∨ β equivale alla disgiunzione delle due congiunzioni, ossia a (α ∧ ¬β) ∨ (¬α ∧ β) . Tale procedimento si può applicare anche a connettivi con più di due argomenti e consente di enunciare l’importante teorema di completezza funzionale: ogni connettivo vero-funzionale (a qualsiasi numero di argomenti) si può esprimere mediante ¬ , ∧ e ∨ . Per tale ragione si dice che l’insieme {¬, ∧, ∨} costituisce una base di connettivi. Incontreremo altre basi più avanti. 3. Il linguaggio formale della logica proposizionale. – Il linguaggio formale L0 della logica proposizionale è costituito da formule, quali ¬(p ∧ ¬q), (p → q) ∧ (q → p), dette forme proposizionali, ottenute a partire dalle lettere proposizionali mediante i connettivi (e ci si potrebbe limitare ai connettivi di una base). Una definizione più rigorosa di un linguaggio formale quale L0 è di tipo induttivo: una volta precisato l’alfabeto, ossia i simboli che intervengono nelle forme proposizionali, si fissano le forme proposizionali di base e si enunciano le regole con cui si ottengono le forme proposizionali più complesse a partire da quelle più semplici. D’ora in poi le lettere a, b, g,... indicano forme proposizionali qualsiasi. (A) ALFABETO DI L0: (1) lettere proposizionali: p, q, r,... (2) connettivi logici: ¬, ∧, ∨, →, ↔ 6714

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(3) segni ausiliari: (, ) (parentesi tonda aperta e chiusa). (B) FORME PROPOSIZIONALI. L’insieme delle forme proposizionali è definito induttivamente come il minimo insieme che soddisfa le seguenti clausole: (i) le lettere proposizionali sono forme proposizionali (ii) se a è una forma proposizionale, allora ( ¬α) è una forma proposizionale (iii) se a e b sono forme proposizionali, allora (α ∧ β), (α ∨ β), (α → β), (α ↔ β) sono forme proposizionali. (C) ESEMPI DI FORME PROPOSIZIONALI: (a) (p → q) → ((¬p) → q) (b) ((p → q) → ((¬q) → (¬p))) (c) ((p → q) ↔ ((p ∨ r) → (q ∧ r))) (d) ((p → r) ∧ (q → r)) ↔ ((p ∨ q) → r) Le parentesi, come in algebra, stabiliscono l’ordine con cui vanno applicati i connettivi. Così, nella forma proposizionale (¬(p ∧ (¬q))) prima si congiungono p e la negazione ¬q , e poi si nega tale congiunzione; in ((¬p) ∧ (¬q)) prima si negano p e q e poi si congiungono le due negazioni. Per evitare troppe parentesi si possono eliminare le parentesi più esterne e si adotta la convenzione che la negazione ¬ lega più strettamente della congiunzione ∧ e della disgiunzione ∨ , le quali a loro volta legano più strettamente del condizionale → e del bicondizionale ↔ . Pertanto la forma proposizionale p ∧ q → r si interpreta come (p ∧ q) → r (prima si esegue la congiunzione e poi il condizionale) ed è diversa da p ∧ (q → r) (in cui si esegue prima il condizionale e poi la congiunzione). Così la forma proposizionale ¬p → q si interpreta come (¬p) → q (prima si esegue la negazione e poi il condizionale) ed è diversa da ¬(p → q) (in cui si esegue prima il condizionale e poi la negazione). Le forme proposizionali (c) e (d) si possono scrivere con meno parentesi nel modo seguente: (c) (p → q) ↔ (p ∨ r → q ∨ r) (d) (p → q) ∧ (q → r) ↔ (p ∨ q → r) III. TAUTOLOGIE, EQUIVALENZA E CONSEGUENZA LOGICA. – 1. Tavole di verità delle forme proposizionali. – Utilizzando le tavole di verità dei connettivi si possono calcolare i valori di verità che le forme proposizionali assumono quando si attribuisce un valore di verità alle lettere proposizionali che compaiono in esse. Abbiamo già in precedenza illustrato il procedimento per a ¬(α ∧ ¬β), (α → β) ∧ (β → α). Si tenga presente che ¬(p ∧ ¬q) è una forma proposizionale, mentre ¬(α ∧ ¬β) è uno schema di forma proposizionale, ossia sta per le (infinite) forme

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proposizionali che si ottengono sostituendo a e b con forme proposizionali qualsiasi. I risultati della logica proposizionale si esprimono solitamente facendo ricorso a schemi di forme proposizionali. Calcoliamo ora la tavola di verità di alcune forme proposizionali. Esempio 1. Calcolo della tavola di verità della forma proposizionale:

(p → q) → (¬p → q)

Nelle prime due colonne si considerano le possibili assegnazioni di valori di verità a p e q. Da essi si ricavano quelli delle sottoforme proposizionali della forma proposizionale data: ¬p , p → q e ¬p → q . Dai valori ottenuti di p → q e ¬p → q si determina, sfruttando la tavola del condizionale, quello della forma proposizionale in esame (p → q) → (¬p → q) . Esempio 2. Calcolo della tavola di verità della forma proposizionale: (p → q) → (¬q → ¬p)

La tavola di verità può essere compilata scrivendo i risultati intermedi direttamente sotto i connettivi. Esempio 3. La tavola di verità della forma proposizionale (p ∧ ¬q) ∨ ¬(p ↔ q) è:

Logica proposizionale La tavola si costruisce nel modo seguente, compilando le colonne nell’ordine indicato dai numeri in basso. Nelle colonne (1) (quelle sotto p e q) si riportano i valori di verità di p e di q come figurano nella parte sinistra. Nelle colonne (2) si calcolano i valori di verità di ¬q (basta scambiare V con F e F con V) e di p ↔ q. Nella colonna (3) a sinistra si calcolano, sfruttando la tavola della congiunzione, i valori di p ∧ ¬q e nella colonna (3) a destra quelli di ¬(p ↔ q) (invertendo i valori della colonna (2) immediatamente a destra). Infine, nella colonna (4), si calcolano, servendosi dei valori delle colonne (3) e della tavola della disgiunzione, i valori della forma proposizionale data (p ∧ ¬q) ∨ ¬(p ↔ q) . Il connettivo sotto cui figura il risultato finale, in questo caso ∨ , è detto connettivo principale della forma proposizionale: la forma proposizionale data è una disgiunzione. Esempio 4. Calcolare la tavola di verità della forma proposizionale: ¬(p → (¬p → q ∨ r))

Data una qualsiasi forma proposizionale, mediante la costruzione della sua tavola di verità, si determina come varia il suo valore di verità in funzione dei valori di verità delle lettere proposizionali che compaiono in essa. A questo proposito si possono verificare tre casi: - La forma proposizionale ha sempre valore V: in tal caso è detta tautologia (come quella dell’Esempio 2). - La forma proposizionale ha almeno un valore V e almeno un valore F: in tal caso è detta contingente (come quelle degli Esempi 1 e 3). - La forma proposizionale ha sempre valore F: in tal caso è detta contraddizione (come quella dell’Esempio 4). 6715

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Logica proposizionale 2. Alcuni schemi di tautologie. – (1) α ∨ ¬α (principio del terzo escluso) (2) ¬(α ∧ ¬α) (principio di non contraddizione) (3) α ∧ (β ∧ γ) ↔ (α ∧ β) ∧ γ (proprietà associativa della congiunzione) (4) α ∨ (β ∨ γ) ↔ (α ∨ β) ∨ γ (proprietà associativa della disgiunzione). Dalle (3) e (4) segue che, in analogia a quanto accade in algebra per l’addizione e la moltiplicazione, si può scrivere semplicemente ad esempio α ∧ β ∧ γ o α ∨ β ∨ γ ∨ δ senza parentesi, in quanto il valore di verità finale non dipende dall’ordine con cui si eseguono le congiunzioni o le disgiunzioni. (5) α ∧ β ↔ β ∧ α (proprietà commutativa della congiunzione) (6) α ∨ β ↔ β ∨ α (proprietà commutativa della disgiunzione) (7) α ∧ (β ∨ γ) ↔ (α ∧ β) ∨ (α ∧ γ) (proprietà distributiva della congiunzione rispetto alla disgiunzione) (8) α ∨ (β ∧ γ) ↔ (α ∨ β) ∧ (α ∨ γ) (proprietà distributiva della disgiunzione rispetto alla congiunzione) (9) α ∧ β ↔ ¬(¬α ∨ ¬β) (prima legge di De Morgan) (10) α ∨ β ↔ ¬(¬α ∧ ¬β) (seconda legge di De Morgan). La (9) afferma che la congiunzione di due proposizioni a e b equivale alla negazione della disgiunzione delle negazioni di a e di b; la (10) che la disgiunzione di due proposizioni a e b equivale alla negazione della congiunzione delle negazioni di a e di b. (11) (α → β) → ((β → γ) → (α → γ)) (prima forma della legge di concatenazione) (12) (α → β) ∧ (β → γ) → (α → γ) (seconda forma della legge di concatenazione) (13) α ∧ ¬α → β (prima forma della legge di Scoto) Un condizionale con antecedente falso è vero, per cui un condizionale con antecedente sempre falso, quale α ∧ ¬α , è sempre vero. Intuitivamente la legge di Scoto (ex absurdo sequitur quodlibet) afferma che da una contraddizione si può dedurre qualsiasi proposizione. (14) α → (¬α → β) (seconda forma della legge di Scoto) (15) α ↔ ¬¬α (legge della doppia negazione) (16) (¬α → ¬β) → (β → α) (I legge di contrapposizione) (17) (α → β) → (¬β → ¬α) (II legge di contrapposizione) (18) (α → ¬β) → (β → ¬α) 6716

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

(III legge di contrapposizione) (19) (¬α → β) → (¬β → α) (IV legge di contrapposizione) (20) ((α → β) → α) → α (legge di Peirce) (21) (α → β) ↔ ¬α ∨ β (legge di Filone Megarico) (22) (α → β) ↔ ¬(α ∧ ¬β) (legge di Crisippo) (23) α ∧ β ↔ ¬(α → ¬β) (24) α ∨ β ↔ (¬α → β) 3. Equivalenza logica. – Si dice che la forma proposizionale a è logicamente equivalente alla forma proposizionale b se e solo se a e b hanno lo stesso valore di verità in corrispondenza di ogni assegnazione di valori di verità alle lettere che compaiono in esse. Se a è logicamente equivalente a b, allora b è logicamente equivalente ad a, per cui, anziché «a è logicamente equivalente a b», si può dire «a e b sono logicamente equivalenti». È evidente che, se a e b sono logicamente equivalenti e b e g sono logicamente equivalenti, anche a e g sono logicamente equivalenti. In precedenza abbiamo stabilito l’equivalenza logica di: α → β e ¬(α ∧ ¬β); α ↔ β e (α → β) ∧ (β → α) Vale che due forme proposizionali a e b sono logicamente equivalenti se e solo se la forma proposizionale α ↔ β è una tautologia. Pertanto tutte le tautologie che sono dei bicondizionali sanciscono l’equivalenza logica dei loro due membri. Dalle tautologie elencate in precedenza segue ad esempio l’equivalenza logica delle forme proposizionali: α ∧ (β ∧ γ) e (α ∧ β) ∧ γ α ∨ (β ∨ γ) e (α ∨ β) ∨ γ α∧β e β∧ α α∨ β e β∨ α α ∧ (β ∨ γ) e (α ∧ β) ∨ (α ∧ γ) α ∨ (β ∧ γ) e (α ∨ β) ∧ (α ∨ γ) α∧β e ¬(¬α ∨ ¬β) α∨ β e ¬(¬α ∧ ¬β) α→β e ¬α ∨ β α→β e ¬(α ∧ ¬β) α∧β e ¬(α → ¬β) α∨ β e ¬α → β Col procedimento precedentemente illustrato a proposito della disgiunzione esclusiva, si giustifica facilmente che, comunque data una forma proposizionale, esiste una forma proposizionale ad essa logicamente equivalente che contiene solo i connettivi ¬, ∧, ∨ e quindi che {¬, ∧, ∨} formano una base di connettivi. Dall’equivalenza fra α ∧ β e ¬(¬α ∨ ¬β) (prima legge di De Morgan) segue che una forma pro-

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

posizionale contenente i connettivi ¬, ∧, ∨ è equivalente a una forma proposizionale contenente solo ¬ e ∨ , e quindi anche {¬, ∨} è una base di connettivi. Analogamente, dalla seconda legge di De Morgan, segue che {¬, ∧} è un’altra base di connettivi. Le ultime due equivalenze dell’elenco precedente consentono, data una forma proposizionale contenente i connettivi ¬, ∧, ∨ , di trovarne una equivalente contenente solo i connettivi ¬ e →, per cui anche {¬, →} è una base. Quando si studia la logica proposizionale si possono assumere come primitivi solo i connettivi di una base e introdurre gli altri definendoli a partire da questi ultimi. Le considerazioni precedenti sono giustificate dal seguente teorema: se in una forma proposizionale a si sostituisce una sottoformula con un’altra ad essa logicamente equivalente, si ottiene una forma proposizionale b logicamente equivalente ad a. 4. Conseguenza logica. – Si dice che la forma proposizionale a è conseguenza logica della forma proposizionale b se e solo se, per ogni assegnazione di valori di verità alle lettere proposizionali che compaiono in esse, se b ha valore V, allora a ha valore V (più semplicemente: se e solo se ogni volta che b è vera, allora è vera anche a). Ad esempio, se α ∧ β ha valore V, allora a ha valore V, per cui a è conseguenza logica di α ∧ β. Se a ha valore V, allora α ∨ β ha valore V, per cui α ∨ β è conseguenza logica di a. Vale che la forma proposizionale a è conseguenza logica della forma proposizionale b se e solo se la forma proposizionale β → α è una tautologia: tutte le tautologie che sono dei condizionali sanciscono la conseguenza logica del conseguente dall’antecedente. Ad esempio, dalla legge di Scoto segue che b è conseguenza logica di α ∧ ¬α . Dalla prima forma della legge di concatenazione segue che (β → γ) → (α → γ) è conseguenza logica di α → β. Vale che, se due forme proposizionali a e b sono logicamente equivalenti, allora ciascuna delle due è conseguenza logica dell’altra. Ad esempio: α ∧ (β ∨ γ) è conseguenza logica di (α ∧ β) ∨ (α ∧ γ) ; (α ∧ β) ∨ (α ∧ γ) è conseguenza logica di α ∧ (β ∨ γ); α∨ β è conseguenza logica di ¬(¬α ∧ ¬β); ¬(¬α ∧ ¬β) è conseguenza logica di α ∨ β. Generalizzando la definizione al caso di più premesse, si dice che la forma proposizionale

Logica proposizionale a è conseguenza logica delle forme proposizionali β1, β2,..., βn se e solo se a è vera per tutte le assegnazioni di valori di verità alle lettere proposizionali che rendono vere β1, β2,..., βn . Vale che la forma proposizionale a è conseguenza logica delle forme proposizionali β1, β2,..., βn se e solo se la forma proposizionale β1 ∧ β2 ∧ ... ∧ βn → α è una tautologia. Esempio. Stabilire se la forma proposizionale p ∧ q è o non è conseguenza logica delle due f o r m e p r o p o s i z i o n a l i (p ↔ q) ↔ q e ¬p → (q → p) Calcoliamo la tavola di verità delle tre forme proposizionali:

Dalle tavole emerge che le due forme proposizionali (p ↔ q) ↔ q e ¬p → (q → p) possono essere entrambe vere e la forma proposizionale p ∧ q falsa (seconda riga della tavola, quando p ha valore di verità V e q ha valore di verità F). Quest’ultima forma proposizionale, pertanto, non è conseguenza logica delle prime due. Se p ∧ q e (p ↔ q) ↔ q sono entrambe vere (e ciò accade solo in corrispondenza della prima riga della tavola), anche ¬p → (q → p) ha valore V. Pertanto ¬p → (q → p) è conseguenza logica delle forme proposizionali p ∧ q e (p ↔ q) ↔ q . Analogamente si può constatare che (p ↔ q) ↔ q è conseguenza logica delle due forme proposizionali p ∧ q e ¬p → (q → p). IV. REGOLE LOGICHE. – Una regola logica è una scrittura del tipo:

β1 β2  βn α dove le forme proposizionali β1, β2,..., βn sono le premesse e la forma proposizionale a è la conclusione della regola. Una regola logica è corretta se e solo se la conclusione a è conseguenza logica delle premesse β1, β2,..., βn , ossia se e solo se la forma proposizionale β1 ∧ β2 ∧ ... ∧ βn → α è 6717

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Logica proposizionale una tautologia. Per dimostrare che la seguente regola, detta regola del sillogismo disgiuntivo:

α∨ β ¬β α è corretta, dobbiamo verificare se la forma proposizionale a è conseguenza logica di α ∨ β e ¬β , ossia se la forma proposizionale (α ∨ β) ∧ ¬β → α è una tautologia. La tavola di verità è:

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Regola del modus ponens: α→β α β Regola del modus tollens: α→β ¬β ¬α Regole di contrapposizione: ¬α → ¬β α→β β→α ¬ β → ¬α

α → ¬β β → ¬α

per cui (α ∨ β) ∧ ¬β → α è una tautologia e la regola è corretta. La regola: α→β ¬α ¬β non è corretta. Infatti, calcolando la tavola di verità della forma proposizionale (α → β) ∧ ¬α → ¬β , si verifica che non è una tautologia:

Alcune semplici regole corrette sono: Regole della doppia negazione: α ¬¬α ¬¬α α Regola di introduzione della congiunzione: α β α∧β Regole di eliminazione della congiunzione: α∧β α∧β α β 6718

¬α → β ¬β → α

Regola di concatenazione: α→β β→γ α→γ V. CALCOLI LOGICI. – Scopo di un calcolo logico è di ricondurre il nesso di conseguenza logica a quello di derivazione. Un calcolo logico è costituito da un linguaggio formale e da un apparato deduttivo costituito da assiomi e regole di derivazione. I calcoli logici si suddividono in quattro categorie: calcoli assiomatici, della deduzione naturale, dei tableaux semantici e dei sequenti. In ciascuna categoria sono possibili numerose varianti. 1. Calcoli assiomatici (o alla Hilbert). – Nei calcoli assiomatici per la logica proposizionale classica si assumono come assiomi alcuni schemi di forme proposizionali e regole per derivarne altre a partire da quelle già ricavate. Gli assiomi sono tutti (schemi di) tautologie e le regole conservano la proprietà di essere una tautologia; lo scopo è quello di derivare altre tautologie, possibilmente tutte le altre, e di derivare da un insieme di forme proposizionali le sue conseguenze logiche, possibilmente tutte. Vi sono svariate assiomatizzazioni alternative, tutte tra loro equivalenti. In una di esse si assume come linguaggio L0 e il seguente apparato deduttivo. Assiomi: (1) α → (β → α) (2) (α → (α → β)) → (α → β) (3) (α → β) → ((β → γ) → (α → γ)) (4) α ∧ β → α (5) α ∧ β → β

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Logica proposizionale

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

(6) (α → β) → ((α → γ) → (α → β ∧ γ)) (7) α → α ∨ β (8) β → α ∨ β (9) (α → β) → ((γ → β) → (α ∨ γ → β)) (10) (α ↔ β) → (α → β) (11) (α ↔ β) → (β → α) (12) (α → β) → ((β → α) → (α ↔ β)) (13) (α → β) → (¬β → ¬α) (14) α → ¬¬α (15) ¬¬α → α Regola: modus ponens (MP) se si sono ottenute le forme proposizionali α → β e α si può ottenere β :

α→β α β Si può assumere un linguaggio ridotto avente come primitivi i connettivi di una base, solitamente {→, ¬ } , e gli assiomi si riducono ai tre seguenti (e l’unica regola è MP): (A1) α → (β → α) (A2) (α → (β → γ)) → ((α → β) → (α → γ)) (A3) (¬α → ¬β) → (β → α) In tal caso, gli altri tre connettivi di congiunzione ∧ , disgiunzione ∨ e bicondizionale ↔ sono introdotti mediante le seguenti definizioni: α ∧ β =def ¬(α → ¬β) α ∨ β =def ¬α → β α ↔ β =def (α → β) ∧ (β → α) Una derivazione è una sequenza finita di forme proposizionali α1, α2,..., αn tale che ogni αi (i = 1, 2,..., n) o è un assioma, o è ottenuta da due forme proposizionali che la precedono mediante un’applicazione della regola MP. Si dice derivabile una forma proposizionale a (e si scrive  α) se e solo se esiste una derivazione di cui a è l’ultima forma proposizionale. Dato un insieme G (anche infinito) di forme proposizionali, si dice derivazione della forma proposizionale a dall’insieme G una sequenza finita di forme proposizionali α1, α2,..., αn tale che αn = α e ogni αi (i = 1, 2,..., n) è o un assioma, o è un elemento di G, o è ottenuta da due forme proposizionali che la precedono mediante l’applicazione della regola MP. Si dice che a è derivabile da G, e si scrive Γ  α , se e solo se esiste una derivazione di a da G. Esempio. Verificare che α → β, β → γ  α → γ .

(β → γ) → (α → (β → γ)) (A1) β→γ elemento di Γ α → (β → γ) da (1)(2) e MP (α → (β → γ)) → ((α → β) → (α → γ)) (A2) (5) (α → β) → (α → γ) da (3)(4) e MP (6) α → β elemento di Γ (7) α → γ da (5)(6) e MP 2. Calcolo della deduzione naturale. – Nel calcolo della deduzione naturale si opera con sequenze finite di forme proposizionali. Una sequenza è una scrittura del tipo: α1, α2,..., αn α in cui le forme proposizionali α1, α2,..., αn formano l’insieme degli antecedenti, il quale può essere anche vuoto, e a è il conseguente. Indicando gli insiemi di forme proposizionali con lettere greche maiuscole quali Γ, Δ, ... una sequenza si può scrivere più brevemente G a. Dato che G è un insieme, non contano né l’ordine degli antecedenti, né le eventuali ripetizioni. Nei sistemi di deduzione naturale il calcolo è basato solo su regole che consentono di scrivere delle sequenze e di ottenerne di nuove partendo da sequenze già date. Più precisamente, una regola a zero premesse consente di scrivere una sequenza di un certo tipo, una regola a una premessa, data una sequenza di un certo tipo, consente di scriverne una ad essa collegata, una regola a due premesse, date due sequenze di un certo tipo, consente di scriverne una terza, e così via. Nell’applicazione delle regole a due o più premesse non conta l’ordine con cui figurano le sequenze che fungono da premesse. D’ora in poi limitiamo le regole a quelle relative ai connettivi ¬, ∧, ∨, → (ossia supponiamo che ↔ sia definito). Assunzione [As]: per ogni forma proposizionale a si può scrivere la sequenza α α Introduzione della congiunzione nel conseguente [I∧] (a due premesse): α Γ β Δ α∧β Γ∪Δ (1) (2) (3) (4)

Eliminazione della congiunzione nel conseguente [E∧] (a una premessa): Γ α∧β Γ α∧β Γ α Γ β 6719

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Logica proposizionale

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Introduzione della disgiunzione nel conseguente [I∨] (a una premessa): Γ α Γ α Γ α∨ β Γ β∨ α Introduzione della disgiunzione [∨I] (a due premesse): Γ, α Δ, β Γ ∪ Δ, α ∨ β

nell’antecedente

γ γ γ

Introduzione del condizionale nel conseguente [I →] (a una premessa): β Γ,α α→β Γ Eliminazione del condizionale nel conseguente [E →] (o modus ponens) (a due premesse): α Γ α→β Δ β Γ∪Δ Regola di negazione classica [¬k] (a due premesse) Γ, ¬α β Δ, ¬α ¬β Γ∪Δ α La regola di negazione classica formalizza il ragionamento per assurdo: per dimostrare a da un insieme di ipotesi basta ottenere una contraddizione, b e ¬β , da parti dell’insieme delle ipotesi e assumendo come ulteriore ipotesi ¬α, ossia la negazione di ciò che si vuole dimostrare. Una sequenza Ga è derivabile, e si scrive  G a, se si ottiene applicando un numero finito di volte le regole del calcolo della deduzione naturale. a è derivabile da un insieme (anche infinito) Δ , e si scrive Δ  α , se e solo se esiste un sottoinsieme finito Γ di Δ tale che  G a. Esempio. α → γ. Verificare che  α → β, β → γ (1) α [As] α (2) α → β [As] α→β (3) α, α → β [E →](1), (2) β (4) β → γ [As] β→γ (5) α, α → β, β → γ γ [E →](3), (4) (6) α → β, β → γ α→γ [I →](5) Intuitivamente, nel calcolo della deduzione naturale si derivano sequenze in cui il conseguente è conseguenza logica degli antecedenti oppure è una tautologia (se è vuoto l’insieme degli antecedenti). Nel calcolo della deduzio6720

ne naturale si possono derivare altre regole dette eliminabili. Esempio. Derivare la regola di concatenazione: α Γ β Δ, α β Γ∪Δ Ipotesi (1) Δ, α β α→β (2) Δ [I →](1) Ipotesi α (3) Γ (4) Γ ∪ Δ β [E →](2),(3) Altre regole eliminabili saranno formulate più avanti (nel punto VI). 3. Sistemi di tableaux. – Nei sistemi di tableaux (o tavole semantiche) si parte con due insiemi α1, α2,..., αn e β1, β2,..., βm di forme proposizionali, e si imposta una tavola con due colonne I e II: in I si mettono le forme proposizionali del primo insieme e in II quelle del secondo (può essere n = 0 o m = 0). Le forme proposizionali iniziali e quelle che si introducono sviluppando il procedimento si intendono numerate in un certo ordine, che non è essenziale per l’esito finale, ma guida lo svolgersi del procedimento. Quando si dice «la prima forma proposizionale» di una tavola si intende la prima secondo tale numerazione e quando si inserisce una nuova forma proposizionale alla fine di una colonna, le si assegna un numero d’ordine maggiore di quelli assegnati alle forme proposizionali presenti nell’intera tavola. Il procedimento di sviluppo della tavola consiste nell’esaminare via via nell’ordine stabilito le forme proposizionali e, quando se ne esamina una, la si contrassegna, ad esempio con un asterisco, per evitare di ritornare a considerarla. Allo stadio n del procedimento si opera come segue: si verifica che una stessa forma proposizionale (con o senza asterisco) non compaia in entrambe le colonne: se ciò accade (cioè se una forma proposizionale compare in entrambe) la tavola si dice chiusa e il procedimento termina; altrimenti si individua la prima forma proposizionale non asteriscata presente nella tavola; se non ce ne sono il procedimento è finito e la tavola è detta terminata. Se α è la forma proposizionale individuata, si applica una delle seguenti regole a seconda della natura di a: (1) se a è una lettera proposizionale, la si asterisca e si passa allo stadio successivo; (2) se α ≡ ¬β è nella colonna I, la si asterisca e si aggiunge b alla fine della colonna II; (3) se α ≡ ¬β è nella colonna II, la si asterisca e si aggiunge b alla fine della colonna I;

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

(4) se α ≡ β ∧ γ è nella colonna I, la si asterisca e si aggiungono b e g alla fine della colonna I; (5) se α ≡ β ∨ γ è nella colonna II, la si asterisca e si aggiungono b e g alla fine della colonna II; (6) se α ≡ β → γ è nella colonna II, la si asterisca, si aggiunge b alla fine della colonna I e si aggiunge g alla fine della colonna II; (7) se α ≡ β ∧ γ è nella colonna II, la si asterisca, la tavola si divide in due sottotavole ciascuna delle quali è uguale alla precedente e in una di esse si aggiunge b alla fine della colonna II e nell’altra si aggiunge g alla fine della colonna II; (8) se α ≡ β ∨ γ è nella colonna I, la si asterisca, la tavola si divide in due sottotavole ciascuna delle quali è uguale alla precedente e in una di esse si aggiunge b alla fine della colonna I e nell’altra si aggiunge g alla fine della colonna I; (9) se α ≡ β → γ è nella colonna I, la si asterisca, la tavola si divide in due sottotavole ciascuna delle quali è uguale alla precedente e in una di esse si aggiunge b alla fine della colonna II e nell’altra si aggiunge g alla fine della colonna I. Le regole si giustificano supponendo vere le forme proposizionali della colonna I e false quelle della colonna II: se è vera ¬β allora è falsa b; se è falsa ¬β allora è vera b; se è vera β ∧ γ sono vere b e g, e così via. Le regole (7), (8) e (9) sono più complesse. Se è falsa β ∧ γ, allora o è falsa b oppure è falsa g: la tavola si divide in due e nel procedimento si devono sviluppare entrambe in parallelo e la suddivisione può ripetersi se si riapplica la stessa regola, o la (8) o la (9). Quando una tavola si divide in due sottotavole, si tratta ciascuna come una tavola, per cui una sottotavola si chiude se contiene la stessa forma proposizionale in entrambe le colonne e termina se non è chiusa e tutte le forme proposizionali sono asteriscate. Una tavola si chiude se tutte le sottotavole sono chiuse ed è terminata se almeno una sottotavola è terminata (e non chiusa). La chiusura di una sottotavola equivale ad aver trovato una contraddizione (la stessa forma proposizionale nelle due colonne, ossia contemporaneamente vera e falsa). Il chiudersi della tavola equivale all’impossibilità che si realizzi la situazione iniziale, ossia significa che le forme proposizionali α1, α2,..., αn non possono essere tutte vere e simultaneamente tutte le forme proposizionali β1, β2,..., βm false. In particolare:

Logica proposizionale (a) se m = 0, non esiste una valutazione che rende vere tutte le forme proposizionali α1, α2,..., αn (in tal caso si dice che l’insieme { α1, α2,..., αn } non è soddisfacibile), e quindi la forma proposizionale ¬(α1 ∧ α2 ∧ ... ∧ αn ) è una tautologia; (b) se n = 0 e m = 1, ossia nella tavola iniziale vi è solo una forma proposizionale b nella II colonna, allora b è una tautologia; (c) se n ≠ 0 e m = 1, allora l’unica forma proposizionale b della II colonna è conseguenza logica delle forme proposizionali α1, α2,..., αn della I colonna. Pertanto, col metodo delle tavole, si può verificare se una forma proposizionale b è una tautologia (e in tal caso si scrive  β ) o se b è conseguenza logica di α1, α2,..., αn (e si scrive α1, α2,..., αn  β ) e se un insieme di forme proposizionali è o non è soddisfacibile. Come nei calcoli precedenti b è derivabile da un insieme (anche infinito) G se e solo esiste un sottoins i e m e f i n i t o { α1, α2,..., αn } d i G t a l e c h e α1, α2,..., αn  β. Viceversa, se la tavola termina senza chiudersi, non valgono le precedenti affermazioni. Si può dimostrare che l’esito del procedimento non dipende dall’ordine con cui si esaminano le forme proposizionali. Il metodo delle tavole, più difficile a descriversi che a effettuarsi, può essere reso ancora più intuitivo in una sua variante, detta metodo dell’albero semantico, in cui si considerano forme proposizionali segnate con V (quelle della I colonna) e con F (quelle della II colonna). Invece di tavole si sviluppa un albero (i cui elementi sono detti nodi) e la chiusura o la terminazione avviene nei rami dell’albero. Le regole di costruzione dell’albero semantico, che richiamano le precedenti (2)-(9), sono le seguenti (le regole del primo tipo corrispondono a (2)-(6), quelle del secondo a (7)-(9)): Regole del primo tipo: V[¬α] F[¬α] V[α ∧ β] | | | F[α] V[α] V[α] | V[β]

F[α ∨ β] | F[α] | F[β]

F[α → β] | V[α] | F[β] 6721

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Logica proposizionale Regole del secondo tipo:

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

F V V V F F

V

Il ramo di sinistra si chiude ( ) poiché in esso figura V[α] e F[α] (una contraddizione). Nel ramo a destra si esamina ora il nodo V[β → γ] e si ottiene:

Illustriamo il metodo mediante due esempi. Esempio 1. Verificare che α → β, β → γ  α → γ . Si inizia l’albero segnando con V le premesse e con F la conclusione: F[α → γ]

V[α → β] V[β → γ] Esaminiamo il primo nodo, lo asterischiamo e applichiamo la regola del condizionale falso (intuitivamente: se è falso un condizionale, allora è vero l’antecedente e falso il conseguente): F[α → γ]*

V[α → β] V[β → γ] V[α] F[γ] Esaminiamo il secondo nodo applicando la relativa regola (intuitivamente: se è vero un condizionale allora è falso l’antecedente oppure è vero il conseguente); l’albero si biforca e sono presenti due rami, dove con ramo si intende una sequenza di nodi che parte dall’inizio dell’albero (radice) e termina in un nodo senza successori (foglia): 6722

Il ramo che ha foglia F[β] si chiude (contiene V[β] e F[β]) e anche il ramo che ha foglia V[γ] si chiude (contiene F[γ] e V[γ]). Dato che tutti i rami si chiudono, l’albero è chiuso e si è verificato quanto richiesto. Esempio 2. Verificare se  ((α → β) → β) → β . Proponiamo l’albero già sviluppato:

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

Il ramo a destra si chiude, ma quello a sinistra termina senza chiudersi. Pertanto non vale  ((α → β) → β) → β , e quindi la forma proposizionale ((α → β) → β) → β non è una tautologia. 4. Calcoli dei sequenti (o alla Gentzen). – Un sequente è una scrittura del tipo: (a) α1, α2,..., αn ⊃ β1, β2,..., βm in cui le forme proposizionali α1, α2,..., αn formano l’insieme degli antecedenti e β1, β2,..., βm quello dei conseguenti. Il simbolo ⊃ di sequente serve per separare gli antecedenti dai conseguenti. Inoltre, uno o entrambi gli insiemi possono risultare vuoti (n = 0 o m = 0), ossia il sequente può assumere anche una delle seguenti forme particolari: se è vuoto l’insieme dei conseguenti: (b) α1, α2,..., αn ⊃ se è vuoto l’insieme degli antecedenti: (c) ⊃ β1, β2,..., βm se è vuoto sia l’insieme degli antecedenti, sia quello dei conseguenti: (d) ⊃ Indicando gli insiemi di forme proposizionali con lettere greche maiuscole quali Γ, Δ, Σ, Π, i sequenti dei quattro tipi (a), (b), (c) e (d) si possono indicare rispettivamente nel modo seguente: (a) Γ ⊃ Δ (b) Γ ⊃ (c) ⊃ Δ (d) ⊃ Chiariamo il nesso con quanto esposto nei calcoli precedenti: (i) il significato intuitivo del seguente α1, α2,..., αn ⊃ β1, β2,..., βm è : d a l l ’ i n s i e m e α1, α2,..., αn consegue almeno una delle formule β1, β2,..., βm, ossia un sequente di tipo (a) equivale all’unica forma proposizionale α1 ∧ α2 ∧ ... ∧ αn → β1 ∨ β2 ∨ ... ∨ βm (ii) il significato di un sequente di tipo (b) α1, α2,..., αn ⊃ è: dalle formule α1, α2,..., αn consegue una contraddizione, ossia (b) equivale all’unica forma proposizionale ¬(α1 ∧ α2 ∧ ... ∧ αn ) (iii) il significato di un sequente di tipo (c) ⊃ β1, β2,..., βm è: si può dedurre (senza antecedenti) almeno una delle formule β1, β2,..., βm, ossia (c) equivale all’unica forma proposizionale β1 ∨ β2 ∨ ... ∨ βm (iv) il significato del sequente vuoto (d), ⊃ , è quello della contraddizione, ossia equivale, ad esempio, ad α ∧ ¬α . Il calcolo dei sequenti per la logica proposizionale classica, del quale i sistemi di tableaux (e

Logica proposizionale il metodo dell’albero semantico) possono essere ritenute varianti, si basa su una regola a zero premesse (uno schema di assiomi) che consente di scrivere sequenti di un certo tipo e da otto regole di inferenza (due per ciascuna costante logica ∧, ∨, →, ¬ , una di introduzione nel conseguente e una di introduzione nell’antecedente). Schema di assiomi: Γ, α ⊃ Δ, α[Ax]. Sono assiomi tutti i sequenti in cui l’insieme degli antecedenti e l’insieme dei conseguenti hanno una forma proposizionale in comune. Si osservi, quindi, che con G, a intendiamo l’insieme che ha come elementi gli elementi di G e a, e analogamente per D, a (questa scrittura è già stata impiegata in precedenza nella formulazione delle regole del calcolo della deduzione naturale). Regole. Introduzione della congiunzione nei conseguenti [∧C] (a due premesse): Γ ⊃ Δ, α Γ ⊃ Δ, β Γ ⊃ Δ, α ∧ β Introduzione della congiunzione negli antecedenti [∧A] (a una premessa): Γ, α, β ⊃ Δ Γ, α ∧ β ⊃ Δ Introduzione della disgiunzione nei conseguenti [∨C] (a una premessa): Γ ⊃ Δ, α, β Γ ⊃ Δ, α ∨ β Introduzione della disgiunzione negli antecedenti [∨A] (a due premesse): Γ, α ⊃ Δ Γ, β ⊃ Δ Γ, α ∨ β ⊃ Δ Introduzione del condizionale nei conseguenti [→ C] (a una premessa): Γ, α ⊃ Δ, β Γ ⊃ Δ, α → β Introduzione del condizionale negli antecedenti [→ A] (a due premesse): Γ, α ⊃ Δ Γ, β ⊃ Δ Γ, α → β ⊃ Δ Introduzione della negazione nei conseguenti [¬C] (a una premessa): Γ, α ⊃ Δ Γ ⊃ Δ, ¬α 6723

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Logica proposizionale Introduzione della negazione negli antecedenti [¬A] (a una premessa): Γ ⊃ Δ, α Γ, ¬α ⊃ Δ Un sequente Γ ⊃ Δ è derivabile, e si scrive  Γ ⊃ Δ, se si ottiene applicando un numero finito di volte le regole del calcolo dei sequenti; la forma proposizionale a è derivabile da un insieme (anche infinito) D se e solo se esiste un sottoinsieme finito G di D tale che  Γ ⊃ α . Le derivazioni del calcolo dei sequenti assumono una configurazione ad albero con o senza diramazioni. Un aspetto importante del calcolo dei sequenti è che, data la simmetria delle regole (per ogni connettivo vi è una regola di introduzione nell’antecedente e nel conseguente), il rinvenimento delle derivazioni di un sequente derivabile è un procedimento meccanico. Vediamolo in due esempi. Esempio 1. Verificare che  ⊃ α ∨ ¬α. Il sequente ⊃ α ∨ ¬α deriva da ⊃ α, ¬α mediante [∨C] . Quest’ultimo si ottiene da α ⊃ αmediante [¬C]. α ⊃ α è un assioma. La derivazione è: α ⊃ α [Ax] ⎯⎯⎯⎯⎯ [¬C] ⊃ α, ¬α ⎯⎯⎯⎯⎯ [∨C] ⊃ α ∨ ¬α Esempio 2. Verificare che  α → β, β → γ ⊃ α → γ . Il sequente α → β, β → γ ⊃ α → γ è ottenibile mediante [→ C] da α → β, β → γ, α ⊃ γ , il quale è ottenibile mediante [→ A] dai due sequenti: β → γ, α ⊃ γ, α e β, β → γ, α ⊃ γ. Il primo è un assioma ( α figura sia a sinistra che a destra del simbolo ⊃ ), il secondo è ottenibile mediante [→ A] dai due sequenti β, α ⊃ γ, β e β, γ, α ⊃ γ che sono entrambi assiomi. La derivazione è:

β, α ⊃ γ, β [Ax] β, γ, α ⊃ γ [Ax] [ → A] β → γ, α ⊃ γ, α [Ax] β, β → γ, α ⊃ γ [ → A] α → β, β → γ, α ⊃ γ [→ C] α → β, β → γ ⊃ α → γ Nel calcolo dei sequenti proposto gli antecedenti e i conseguenti sono insiemi, e quindi non contano né l’ordine delle forme proposizionali, né le (eventuali) ripetizioni. In un’altra 6724

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impostazione (quella originale del logico tedesco Gerhard Gentzen), invece, gli antecedenti e i conseguenti formano delle sequenze ordinate e, quindi, conta l’ordine delle forme proposizionali e sono possibili ripetizioni. Nel calcolo originario di Gentzen accanto alle regole che governano l’uso delle costanti logiche (dette regole logiche), vi erano altre regole, dette regole strutturali, tutte a una sola premessa, che sono le seguenti: Regole di scambio (exchange): Γ ⊃ Δ, α, β, Π Γ, α, β, Σ ⊃ Δ Γ ⊃ Δ, β, α, Π Γ, β, α, Σ ⊃ Δ Regole di indebolimento (weakening): Γ⊃Δ Γ⊃Δ Γ ⊃ Δ, α Γ, α ⊃ Δ Regole di contrazione (contraction): Γ ⊃ Δ, α, α Γ, α, α ⊃ Δ Γ ⊃ Δ, α Γ, α ⊃ Δ In sintesi, si può procedere considerando gli antecedenti e i conseguenti come insiemi, e allora non servono le regole strutturali, oppure li si considerano come sequenze ordinate, e allora vanno introdotte le regole strutturali che servono a spostare le forme proposizionali negli antecedenti e nei conseguenti, a inserirne di nuove e a eliminare le ripetizioni. Recentemente sono state studiate varie logiche in cui si rinuncia a una o più delle regole strutturali (e per questo sono dette logiche substrutturali). Nel sistema originale di Gentzen, era presente la seguente: Regola del taglio (cut-rule) (a due premesse): Γ ⊃ Δ, α α, Σ ⊃ Π Γ, Σ ⊃ Δ, Π Un fondamentale teorema di logica, detto Teorema di eliminazione del taglio, afferma che ogni sequente derivabile con la regola del taglio lo è anche senza applicare tale regola (ed è per questo che abbiamo potuto non inserire la regola del taglio fra quelle che abbiamo assunto nel calcolo). Se si esaminano le otto regole logiche relative ai connettivi, si può osservare che in esse, nel sequente risultante, figura una forma proposizionale di complessità maggiore di quelle che figurano nei sequenti premessi, ossia quella in cui compare il connettivo introdotto nell’antecedente o nel conseguente. In altre parole, nelle derivazioni con il calcolo dei sequenti si procede da sequenti contenenti

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Logica proposizionale

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forme proposizionali più semplici verso sequenti che contengono forme proposizionali più complesse. L’unica regola che fa eccezione è proprio la regola del taglio, che consente, «tagliando» la forma proposizionale α , di pervenire a un sequente più ridotto dei sequenti premessi. Ma questa regola, come si è detto, in virtù del teorema di eliminazione del taglio, è superflua. Quindi, quando si deve trovare la derivazione di un sequente derivabile, si può risalire verso i sequenti più semplici da cui deriva, fino a pervenire agli assiomi, e ottenere così la derivazione richiesta. VI. REGOLE DELLA NEGAZIONE, LOGICA INTUIZIONISTA E MINIMALE. – Illustriamo ora le principali regole logiche relative alla negazione. Le formuliamo con riferimento al calcolo della deduzione naturale. Nel calcolo prima esposto l’unica regola relativa alla negazione è: Regola di negazione classica [¬k] (a due premesse) Γ, ¬α β Δ, ¬α ¬β ⎯⎯⎯⎯⎯⎯ Γ∪Δ α che formalizza il ragionamento per assurdo. Mediante essa e le regole per gli altri connettivi si possono giustificare altre regole relative alla negazione. Tra di esse sono importanti le due seguenti: Regola di negazione intuizionista [¬i] (a due premesse): Γ β Δ ¬β ⎯⎯⎯⎯⎯⎯ Γ∪Δ α che corrisponde alla legge di Scoto, e la: Regola di negazione minimale [¬m] (a due premesse): Γ, α β Δ, α ¬β ⎯⎯⎯⎯⎯⎯ Γ∪Δ ¬α L’interesse di queste due regole risiede nel fatto che, se si assumono [¬i] e [¬m] al posto di [¬k], si ottiene una logica più debole della logica classica, detta logica intuizionista e, se si assume solo [¬m], si ottiene una logica più debole della logica intuizionista, detta logica minimale. Si può infatti dimostrare che assumen-

do [¬i] e [¬m] non si può derivare [¬k] e, assumendo [¬m], non si può derivare [¬i]. Nella logica minimale (e quindi sia nella logica intuizionista, sia in quella classica) valgono i seguenti risultati di derivabilità: α → β  ¬(α ∧ ¬β) ¬α → β  ¬(¬α ∧ ¬β) ¬(α ∧ β)  α → ¬β α ∨ β  ¬(¬α ∧ ¬β) ¬α ∨ ¬β  ¬(α ∧ β) α  ¬¬α Nella logica intuizionista (e quindi anche in quella classica, ma non nella logica minimale) valgono i seguenti risultati di derivabilità: α ∨ β  ¬α → β ¬α ∨ β  α → β I seguenti risultati di derivabilità valgono nella logica classica, ma non nelle altre due: ¬¬α  α α → β  ¬α ∨ β ¬(¬α ∧ ¬β)  α ∨ β ¬(α ∧ β)  ¬α ∨ ¬β Se si considerano le seguenti regole relative alla negazione (che valgono tutte nella logica classica): Regole della doppia negazione (a una premessa): Γ ¬¬α Γ α [DNk ] [DNm] Γ α Γ ¬¬α Regola di autofondazione [AF] (a una premessa): Γ, ¬α α Γ α Regola di autocontraddizione [AC] (a una premessa): Γ, α ¬α ¬α Γ Regole di contrapposizione [CP] (a una premessa): Γ, α β Γ, α ¬β [CP1m] [CP2m] Γ, ¬β ¬α Γ, β ¬α

[CP3k ]

Γ, ¬α ¬β Γ, β α

[CP4k ]

Γ, ¬α Γ, β

β α

solo [DNm], [AC], [CP1m] e [CP2m] valgono nella logica intuizionista e nella logica minimale. Altre tre regole relative alla negazione sono: Regola di esaustione [ES] (a due premesse): Γ, α β Δ, ¬α β ⎯⎯⎯⎯ Γ∪Δ β 6725

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Logica proposizionale Principio del terzo escluso [TND] (a zero premesse): per ogni forma proposizionale α si può scrivere la sequenza α ∨ ¬α . Principio di non contraddizione [NC] (a zero premesse): per ogni forma proposizionale α si può scrivere la sequenza ¬(α ∧ ¬α). Si può dimostrare che [ES] e [TND] sono deduttivamente equivalenti e che, sempre assumendo le regole relative agli altri connettivi, la regola di negazione classica [¬k] si può giustificare assumendo [¬i] e una tra [ES], [TND], [AF]. La logica intuizionista (nella quale non valgono tra le altre [TND] e [DNk]) corrisponde a una logica costruttiva, che si può qualificare come logica della dimostrabilità, secondo la quale affermare una proposizione a significa averla dimostrata in modo costruttivo e affermare una negazione ¬α significa aver dimostrato costruttivamente che da ¬α segue una contraddizione (se si introduce il simbolo ⊥ per la contraddizione si può porre ¬α ≡ α →⊥). Gli intuizionisti rifiutano il ragionamento per assurdo, che non ha carattere costruttivo, e accettano un’alternativa solo in presenza della dimostrazione di uno dei due disgiunti (per derivare α ∨ β bisogna aver derivato a o aver derivato b). Un’altra caratteristica della logica intuizionista, come si vede dai risultati prima citati, è che non valgono le equivalenze che consentono di interdefinire i connettivi, e si dimostra che in essa ¬ , ∧ , ∨ e → sono indipendenti fra loro. La logica intuizionista, come le altre che ora citeremo, può essere esposta come calcolo assiomatico o come calcolo dei sequenti. Il calcolo dei sequenti per la logica proposizionale intuizionista si ottiene da quello classico imponendo che i sequenti debbano avere al massimo un conseguente (si osservi che nella precedente derivazione di ⊃ α ∨ ¬α abbiamo impiegato un sequente con due conseguenti). In tal caso la regola di introduzione della disgiunzione nei conseguenti [∨C] va spezzata in due:

Γ⊃α Γ ⊃ α∨ β

Γ⊃β Γ ⊃ α∨ β

La logica minimale è una teoria ancora più debole della logica intuizionista in quanto in essa si rifiuta la legge di negazione intuizionista, che corrisponde alla legge di Scoto, nota anche come primo paradosso dell’implicazione materiale: α  ¬α → β . La legge di Scoto è quella 6726

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che banalizza ogni teoria incoerente (se da una teoria è derivabile una contraddizione, allora è derivabile ogni proposizione). La logica minimale, quindi, rientra tra le logiche paracoerenti, nelle quali la presenza di una contraddizione non banalizza la teoria. Si possono poi considerare logiche subminimali: si può dimostrare che, assumendo [AC], non si può derivare [NC] e, assumendo [NC], non si può derivare [¬m], per cui considerando come sola regola per la negazione [AC] (o [NC]) si ottengono logiche ancora più deboli di quella minimale. Un’altra logica più debole di quella minimale (non basata su considerazioni relative alla negazione) si ottiene considerando il secondo paradosso dell’implicazione materiale: α  β → α (se si deriva a si derivano anche i condizionali con conseguente a, anche se l’antecedente non ha alcun ruolo nella derivazione di a). Nelle logiche rilevanti si vogliono mantenere solo i condizionali β → α nei quali b interviene nella derivazione di a. Nella logica minimale rilevante si evitano entrambi i paradossi dell’implicazione e si rende il significato del condizionale più conforme a quello del «se..., allora...» del linguaggio naturale. VII. SEMANTICA FORMALE. – In tutti i calcoli logici classici proposti si è definito il concetto sintattico di derivabilità di una forma proposizionale a da un insieme G di forme proposizionali, in simboli Γ  α . Si dice poi che un insieme di forme proposizionali G è contraddittorio (in simboli: CtrG) se e solo se esiste una forma proposizionale a tale che Γ  α ∧ ¬α. Un insieme G non contraddittorio (o coerente), in simboli NctrG, è un insieme da cui non deriva alcuna contraddizione. Valgono le seguenti proprietà: (1) NctrG se e solo se esiste almeno una forma proposizionale b che non è derivabile da G. (2) Ctr Γ ∪ {¬α} se e solo se Γ  α . Richiamiamo in modo sintetico e rigoroso i concetti semantici relativi alla logica proposizionale prima introdotti. Si dice valutazione (o interpretazione) l’attribuzione di un valore di verità, V o F, a tutte le lettere proposizionali p, q, r,... Tecnicamente una valutazione è una funzione V : L  { V, F} dove L è l’insieme delle lettere proposizionali. Data una qualsiasi valutazione V, la si può estendere a una e una sola funzione V * , detta valutazione booleana, dall’insieme delle forme proposizionali in {V, F} in modo che siano soddisfatte le seguenti proprietà:

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(1) V *(¬α) = V (2) V *(α ∧ β) = V

se e solo se V *(α) = F se e solo se V *(α) = V e V *(β) = V (3) V *(α ∨ β) = V se e solo se V *(α) = V o V *(β) = V (4) V *(α → β) = V se e solo se V *(α) = F o V *(β) = V In sostanza, data una valutazione V, a ciascuna forma proposizionale a resta associato uno e un solo valore di verità: se V *(α) = V , si dice che V è modello di a, e si scrive V  α; in caso contrario, se V *(α) = F, V non è modello di a, e si scrive V  α. Il calcolo del valore di verità di a si può eseguire, come si è visto, mediante la compilazione della tavola di verità di a. Inoltre, se G è un insieme di forme proposizionali, V  Γ se e solo se V  α per ogni α ∈ Γ (V è modello di tutte le forme proposizionali appartenenti a G). Si dice che una forma proposizionale a è una tautologia, e si scrive  α, se e solo se, per ogni V, V  α. Dati una forma proposizionale a e un insieme G di forme proposizionali, si dice che a è conseguenza logica di G, e si scrive Γ  α , se e solo se per ogni V, se V  Γ , allora V  α. Inoltre, si dice che un insieme G di forme proposizionali è soddisfacibile, e si scrive Sod G, se e solo se esiste V tale che V  Γ . Pertanto, un insieme non è soddisfacibile, e si scrive NonSod G, se e solo se non esiste alcuna valutazione che è modello di G. I concetti sintattici di derivabilità e di non contraddittorietà sono legati ai concetti semantici di conseguenza logica e soddisfacibilità, da alcuni fondamentali teoremi che valgono per tutti i calcoli proposti. 1. Correttezza. – Teorema di correttezza debole: se  α, allora  α Teorema di correttezza forte: se Γ  α , allora Γ  α . I teoremi di correttezza sanciscono una proprietà basilare dei calcoli logici: ogni forma proposizionale derivabile è una tautologia e una forma proposizionale derivabile da un insieme G di forme proposizionali ne è conseguenza logica, ossia il nesso di derivabilità nel sistema formale corrisponde al nesso semantico di conseguenza logica (essi garantiscono che il calcolo «formale» non è un gioco formale qualsiasi, ma un calcolo «logico»).

Logica proposizionale 2. Completezza. – Teorema di completezza debole: se  α, allora  α Teorema di completezza forte: se Γ  α , allora Γ  α . I teoremi di completezza esprimono una proprietà massimale dei calcoli logici: ogni tautologia, per quanto complessa, è derivabile dagli assiomi con le regole assunte, e ogni forma proposizionale che è conseguenza logica di G è anche derivabile da G. Unitamente ai teoremi di correttezza esprimono la perfetta equivalenza tra derivabilità e tautologia e tra la derivabilità da Ge la conseguenza logica da G. Valgono anche i seguenti teoremi che sanciscono l’equivalenza tra la nozione sintattica di non contraddittorietà e la nozione semantica di soddisfacibilità: Teorema di coerenza: se Sod G, allora Nctr G (ogni insieme soddisfacibile è non contraddittorio) Teorema di esistenza del modello: se Nctr G, allora Sod G (ogni insieme non contraddittorio è soddisfacibile) Vale che il teorema di coerenza è equivalente al teorema di correttezza forte e il teorema di esistenza del modello è equivalente al teorema di completezza forte. 3. Compattezza. – Un’importante proprietà della nozione di conseguenza logica è espressa dal Teorema di compattezza che può essere formulato in due modi equivalenti: 1) Se Γ  α , allora esiste un sottoinsieme finito D di G tale che Δ  α . 2) Se ogni sottoinsieme finito D di G è soddisfacibile, allora G è soddisfacibile. Essi sono conseguenza dei teoremi precedenti e della definizione di derivabilità secondo la quale Γ  α se e solo se esiste un sottoinsieme finito D di G tale che Δ  α . Interessanti conseguenze della proprietà di compattezza si registrano a livello di logica dei predicati. Si può dimostrare che dal teorema di compattezza e dal teorema di completezza debole segue il teorema di completezza forte. 4. Nozioni alternative di conseguenza logica. – La nozione di conseguenza logica finora adottata è adeguata alla logica proposizionale classica. Sono possibili altre nozioni di conseguenza logica adeguate per altri calcoli logici, ad esempio per la logica intuizionista e per la logica minimale. 6727

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Logica proposizionale Come si è detto, nella logica intuizionista non valgono principi della logica classica, quali il principio del terzo escluso o la legge di autofondazione (spesso citata nella letteratura col nome di consequentia mirabilis: (¬α → α) → α ). Una nozione di conseguenza logica adeguata per la logica intuizionista è stata elaborata nell’ambito della semantica dei mondi possibili di Kripke introdotta per fornire una semantica alle logiche citate alla fine della premessa (logiche modali, deontiche, epistemiche). Per definire le nozioni semantiche della logica intuizionista si considerano strutture dove W è un insieme di mondi ( W = {u, v,...}) e R è una relazione binaria, detta di accessibilità, tra mondi, che gode delle proprietà riflessiva e transitiva (se uRv si dice che v è accessibile da u). Una valutazione V delle lettere proposizionali p, q, r,... assegna un valore di verità a ciascuna lettera in ciascun mondo e, se assegna valore V a una lettera in un mondo u, deve assegnare alla stessa lettera valore V in tutti i mondi accessibili da u. La definizione di verità per una forma proposizionale a in un mondo u rispetto a (detta struttura intuizionista) si comporta come nella logica classica per quanto riguarda la congiunzione e la disgiunzione. Invece, affinché α → β sia vera in un mondo u, deve esserlo in tutti i mondi accessibili da u e, affinché ¬α sia vera in un mondo u, a deve essere falsa in tutti i mondi accessibili da u. Si dice poi che a è intuizionisticamente valida ( i α) se e solo se è vera in ogni mondo di ogni struttura intuizionista e che a è conseguenza logica intuizionista di un insieme G di forme proposizionali ( Γ i α ) se e solo se, per ogni struttura intuizionista, se in un mondo u sono vere le forme proposizionali di G, allora in u è vera anche a. Esempio. p i ¬¬p. Se non valesse la relazione di conseguenza logica, dovrebbe esserci un mondo u di una struttura intuizionista in cui p è vera e ¬¬p non lo è. Ma allora dovrebbe esserci un mondo v accessibile da u in cui vale ¬p . Ciò non è possibile poiché, essendo p vera in u, deve esserlo anche in v. Esempio. Non vale ¬¬p i p. Consideriamo la struttura intuizionista con due mondi u e v tale che uRu, vRv, uRv e la valutazione che assegna a p valore F in u e valore V in v. In u è vera ¬¬p poiché sia in u che in v la forma proposizionale ¬p è falsa. Dato che in u, ¬¬p è vera 6728

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e p falsa, non sussiste la relazione di conseguenza logica. Si possono dimostrare i teoremi di correttezza e completezza deboli e forti. Indicando con i la derivabilità con le regole della logica intuizionista, si ha: Teorema di correttezza debole: se i α, allora i α Teorema di correttezza forte: se Γ i α , allora Γ i α Teorema di completezza debole: se i α, allora i α Teorema di completezza forte: se Γ i α , allora Γ i α che sanciscono la perfetta adeguatezza della semantica proposta con la derivabilità nella logica intuizionista. Un’altra presentazione della semantica della logica intuizionista si basa su tavole di verità a infiniti valori che formano una struttura algebrica, detta algebra di Heyting. Al di là delle considerazioni tecniche, la semantica a mondi possibili di Kripke giustifica la concezione della logica intuizionista come logica basata sulla verità come conoscenza. Ciò che è vero in un mondo u vale in tutti mondi accessibili da u, ossia, intendendo la relazione di accessibilità come «sviluppo delle conoscenze», il passaggio da un mondo a uno ad esso accessibile corrisponde a un aumento di conoscenze: tutto ciò che è stato già stabilito in u si conserva in v (e questo è determinato dal modo come sono definite le valutazioni nelle strutture intuizioniste). Ad esempio, se in un mondo u non vale p, mentre nel mondo v accessibile da u vale p, in u non vale ¬p , e quindi in u non vale la forma proposizionale p ∨ ¬p : se in u non è stata stabilita costruttivamente né una proposizione, né la sua negazione (derivando costruttivamente una contraddizione da ¬p ), non vale p ∨ ¬p . Aumentando le conoscenze, si può avere uno sviluppo che porta a un mondo v in cui vale p (come pure a un mondo in cui vale ¬p ). Partendo dalle strutture intuizioniste è possibile definire delle strutture più particolari, dette strutture minimali, che consentono di definire una relazione di conseguenza logica tra forme proposizionali adeguata alla derivabilità nella logica minimale. Senza entrare in particolari tecnici, rispetto alle strutture intuizioniste i mondi dell’insieme W si dividono in normali e non normali, e la definizione di verità

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delle formule negate si basa su questa distinzione ( ¬α è vera nel mondo u, se a è falsa in tutti i mondi normali accessibili da u). Questa definizione comporta che nei mondi non normali sono vere tutte le formule negate e quindi, ad esempio, in ciascuno di essi valgono sia ¬p che ¬¬p , ossia sono presenti delle contraddizioni. Ciò non significa che in essi siano presenti tutte le contraddizioni o tutte le forme proposizionali del linguaggio (in conformità col fatto che la logica minimale è una logica paracoerente). Con le modifiche cui si è accennato valgono anche per la logica minimale i teoremi di correttezza e completezza deboli e forti. D. Palladino BIBL.: E. CASARI, Lineamenti di logica matematica, Milano 1959; E. MENDELSON, Introduction to Mathematical Logic, Princeton (New York) 1964, tr. it di T. Pallucchini, Introduzione alla logica matematica, Torino 1972; A. TARSKI, Introduction to Logic, New York 1965, tr. it. di E. Ballo - S. Bozzi, Introduzione alla logica, Milano 1978; R.J. SHOENFIELD, Mathematical Logic, Reading (Massachusetts) 1967, tr. it. di D. Cagnoni, Logica matematica, Torino 1980; J.L. BELL - M.A. MACHOVER, A Course in Mathematical Logic, Amsterdam 1977; M. BORGA, Fondamenti di logica. Introduzione alla teoria della dimostrazione, Milano 1995; E. CASARI, Introduzione alla logica, Torino 1997; S. GALVAN, Non contraddizione e terzo escluso. Le regole della negazione nella logica classica, intuizionistica e minimale, Milano, 1997; D. PALLADINO, Corso di Logica. Introduzione elementare al calcolo dei predicati, Roma 2002; J. NOLT - D. ROHATYN - A. VARZI, Logica, Milano 2004; D. PALLADINO, Logica e teorie formalizzate. Completezza, Incompletezza, Indecidibilità, Roma 2004. ➨ ALGEBRA, TEMI FILOSOFICI DELLA (ALGEBRA BOOLEANA); LOGICA DEI PREDICATI; LOGICA DEI PREDICATI CON IDENTITÀ; LOGICA FORMALE.

LOGICA PURA (pure logic; natürliche oder reiLogica pura ne Logik; logique pure; lógica pura). – Così Husserl e la sua scuola chiamano la logica, in opposizione alla logica psicologistica di Mill e del positivismo in genere. Nella I parte delle Logische Untersuchungen, col sottotitolo Prolegomena zur reinen Logik, Husserl dice che il risultato della sua ricerca sarà di formulare una logica quale «nuova e pura scienza teoretica che costituisce il fondamento principale di ogni metodica della conoscenza scientifica e che possiede il carattere di scienza aprioristica e puramente dimostrativa» («Husserliana», vol. XVIII, Den Haag 1975, § 3, pp. 23-24). La logica pura è nel senso hus-

Logica quantistica serliano la scienza eidetica per eccellenza, la fenomenologia. Red. ➨ FENOMENOLOGIA; LOGICA.

LOGICA QUANTISTICA. – SOMMARIO: I. La Logica quantistica nascita della logica quantistica: Birkhoff e von Neumann. - II. La logica quantistica ortodossa e le sue anomalie semantiche. I. LA NASCITA DELLA LOGICA QUANTISTICA: BIRKHOFF E VON NEUMANN. – L’atto di nascita ufficiale delle ricerche sulla logica quantistica è rappresentato da un famoso articolo di Birkhoff e von Neumann (The Logic of Quantum Mechanics, in «Annals of Mathematics», 37, 1936, pp. 823843), pubblicato nel 1936. L’articolo inizia con la seguente osservazione: «Uno degli aspetti della teoria quantistica che ha suscitato maggiore attenzione è la novità delle nozioni logiche che essa presuppone. [...] Oggetto del presente lavoro è scoprire quali strutture logiche si possano scoprire in quelle teorie fisiche che, come la meccanica quantistica, non sono conformi alla logica classica». Perché la teoria quantistica «non è conforme» alla logica classica? Per giustificare la loro tesi, Birkhoff e von Neumann fanno una analisi approfondita dei concetti di sistema fisico, stato, osservabile, proprietà e proposizione fisica. Ogni teoria fisica si occupa di sistemi fisici, che possono assumere stati diversi e su cui è possibile fare delle osservazioni. In generale, una osservazione si realizza come una misura di una o più grandezze fisiche (o osservabili), che devono essere simultaneamente misurabili (o, come si dice anche, compatibili fra loro). Fare una misurazione su n grandezze (compatibili fra loro) determina n risultati. La domanda generale che viene posta è la seguente: come scegliere un adeguato rappresentante matematico per lo spazio delle osservazioni? In meccanica classica, lo spazio delle osservazioni è rappresentato dallo spazio delle fasi (indicato con S), i cui punti corrispondono a possibili informazioni massimali intorno al sistema fisico che viene studiato. Una informazione massimale (che rappresenta un massimo di conoscenza possibile, non estendibile a una informazione più ricca rispetto a un insieme di parametri considerati rilevanti) determina un possibile stato puro per il sistema in questione. 6729

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Logica quantistica Come scegliere un adeguato rappresentante matematico per il concetto di proprietà fisica di cui il nostro sistema può godere? In generale, una proprietà fisica interessante corrisponde a una domanda del tipo: «Il valore della tale grandezza cade nel tale insieme di possibili valori?». Ogni stato puro permette di rispondere in maniera precisa (sì/no) a ogni domanda del genere. Nella letteratura logico-quantistica più recente domande di questo tipo vengono spesso chiamate questioni. Birkhoff e von Neumann parlano di proposizioni sperimentali. Ne viene che ogni proprietà fisica determina univocamente un insieme di stati puri: l’insieme degli stati che verificano la nostra proprietà. Tale insieme rappresenta un oggetto matematico, che costituisce un buon rappresentante astratto per la corrispondente proprietà. Su questa base ha senso identificare i rappresentanti matematici delle possibili proprietà fisiche del sistema con i sottoinsiemi dello spazio delle fasi S. Se vogliamo fare una adeguata teoria della probabilità, risulta conveniente scegliere come punto di partenza, anziché l’insieme di tutti i possibili sottoinsiemi dello spazio della fasi S, l’insieme F(Σ) costituito da tutti i sottoinsiemi misurabili di S. Ogni sottoinsieme misurabile X dello spazio delle fasi può anche essere visto come una proposizione fisica astratta, che ogni stato puro p può verificare o falsificare. Diremo che: a) p verifica la proposizione X quando p appartiene a X; b) p falsifica X quando p non appartiene a X (ossia appartiene al complemento relativo di X rispetto allo spazio S). Questo modo di rappresentare matematicamente le proposizioni fisiche permette di rispondere subito alla domanda: «Qual è la logica della meccanica classica?». La logica della meccanica classica è la logica classica. Infatti, l’insieme Y(S) dei sottoinsiemi misurabili dello spazio delle fasi S è un campo di insiemi e dunque ha la struttura di un’algebra di Boole (F (Σ), , ,’,1, 0) dove  ,  e ' sono, rispettivamente, le operazioni insiemistiche di intersezione, riunione e complemento (relativo), mentre 1 e 0 rappresentano rispettivamente l’elemento massimo (S) e l’elemento minimo (l’insieme vuoto ∅ ). Secondo l’interpretazione logica standard, le operazioni insiemistiche corrispondono ai fondamentali connettivi logici: congiunzione ( ∧ ), disgiunzione ( ∨ ), negazione ( ¬ ). E, come vedremo meglio più avanti, la logica classica 6730

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rappresenta quella particolare logica che corrisponde naturalmente al concetto algebrico di algebra di Boole. Otteniamo così, per la struttura delle proposizioni fisiche, l’usuale comportamento semantico, codificato dalle tavole di verità. Perché questa costruzione semantica non risulta trasferibile al caso della meccanica quantistica? Birkhoff e von Neumann osservano: «Nella teoria quantistica, i punti di S corrispondono alle cosiddette “funzioni d’onda”; quindi S è uno spazio di funzioni, che di solito si assume essere uno spazio di Hilbert». Lo spazio delle fasi S viene dunque sostituito da uno spazio di Hilbert H1 (per la definizione di spazio di Hilbert, si veda M.L. Dalla Chiara R. Giuntini - R. Greechie, Reasoning in Quantum Theory, Dordrecht 2004); mentre gli stati puri del sistema quantistico studiato sono rappresentati da vettori di lunghezza unitaria y in H (corrispondenti alle funzioni d’onda). Su questa base scatta subito una fondamentale differenza semantica fra il caso della meccanica classica e quello della meccanica quantistica. Nella meccanica delle particelle classiche vale il principio semantico del terzo escluso: ogni proposizione è vera o falsa rispetto a qualsivoglia stato puro. Ossia: per ogni X e per ogni p: p ∈ X o p ∈ X ’ Tertium non datur! In meccanica quantistica, invece, le funzioni d’onda permettono di associare a ogni questione sperimentale «il valore della tale grandezza cade nel tale insieme?» soltanto valori di probabilità. Avremo dunque per ogni questione sperimentale Q e ogni funzione d’onda y ψ(Q) ∈ [0,1] Otteniamo così una caratteristica situazione semantica polivalente (che costituisce una refutazione del principio semantico del terzo escluso). Sono possibili almeno tre casi: 1) y verifica Q perché y associa a Q valore di probabilità 1; 2) y falsifica Q, perché y associa a Q valore di probabilità 0; 3) Q resta indeterminata per y, perché y associa a Q un valore di probabilità diverso sia da 1 sia da 0. Tertium datur! A questo punto si tratta di rispondere alla domanda: quale sarà un buon rappresentante matematico per il concetto intuitivo di pro-

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prietà fisica, nel formalismo degli spazi di Hilbert? Alcune argomentazioni stringenti conducono Birkhoff e von Neumann a postulare che: «Il rappresentante matematico di una proposizione sperimentale è un sottospazio chiuso di uno spazio di Hilbert.» Un sottospazio lineare chiuso (che noi chiameremo semplicemente sottospazio) è un sottoinsieme dello spazio H chiuso rispetto alle combinazioni lineari e alle successioni di Cauchy (per la definizione di queste nozioni, si veda Dalla Chiara - Giuntini - Greechie, op. cit.). Indichiamo con C(H) l’insieme dei sottospazi di H : l’insieme dei sottospazi di ℜ2, per esempio, è costituito dal singoletto che contiene solo il vettore nullo, dalle rette e dall’insieme di tutti i vettori. Analogamente al caso dello spazio delle fasi, sorge il problema: qual è la struttura algebrica naturale di C(H) ? Ha senso definire su C(H) delle operazioni che, come nel caso booleano, corrispondano ai connettivi logici negazione, congiunzione e disgiunzione? Le operazione insiemistiche, in generale non vanno bene, perché non tutte (per esempio, la riunione) trasformano sottospazi in sottospazi. Nel caso della negazione, la risposta di Birkhoff e von Neumann è la seguente: «Il rappresentante matematico della negazione di una proposizione sperimentale è il complemento ortogonale del rappresentante matematico della proposizione stessa». Il complemento ortogonale (o ortocomplemento) X' di un sottospazio X è quel sottospazio che contiene tutti e soli i vettori ortogonali a ogni elemento di X, l’insieme dei sottospazi di ℜ2, per esempio, è costituito dal singoletto che contiene solo il vettore nullo, dalle rette e dall’insieme di tutti i vettori. Quale operazione sarà un rappresentante adeguato per la congiunzione? In questo caso la risposta è facile. Basta scegliere (come nelle situazioni booleane) l’intersezione insiemistica: infatti, l’intersezione di due sottospazi è sempre un sottospazio. Per quanto riguarda la disgiunzione, invece, non è possibile ricorrere alla riunione, perché la riunione di due sottospazi non è in generale un sottospazio. Tuttavia, la classe dei sottospazi risulta chiusa rispetto a un’altra operazione, l’ortoriunione  che viene così definita: X  Y è il più piccolo sottospazio che include sia X e sia Y.

Logica quantistica (In ℜ2, l’ortoriunione di due rette distinte è l’insieme di tutti i vettori di ℜ2). Si tratta di una buona generalizzazione del concetto classico di disgiunzione, anche perché congiunzione e disgiunzione risultano, in tal modo, connesse (esattamente come nel caso booleano) dalla relazione di de Morgan: X  Y = (X ’  Y ’)’ Otteniamo così, per l’insieme dei sottospazi C(H) una struttura che «simula» molto da vicino un’algebra di Boole: C(H) = (C(H), , ,’,1, 0) , dove , , ’, sono rispettivamente le operazioni di ortocomplemento, intersezione e ortoriunione su C(H) ; mentre 1 e 0 rappresentano, rispettivamente, il sottospazio massimo (l’intero spazio H ) e quello minimo (il sottospazio che contiene soltanto il vettore nullo). In che cosa differisce tale struttura da un’algebra di Boole? Per rispondere a tale domanda, ricordiamo innanzitutto la definizione del concetto di algebra di Boole, che in questo caso ci conviene dare in modo ridondante: Definizione 1.1: Un’algebra di Boole è una struttura B = (B,,’,1, 0) che soddisfa le seguenti condizioni: 1) B è un insieme non vuoto (detto supporto), ordinato da una relazione di ordine parziale ( ). Ossia, ogni elemento precede se stesso (riflessività); se un elemento precede un altro elemento e viceversa, allora i due elementi sono uguali (antisimmetria); se un primo elemento precede un secondo elemento e il secondo precede un terzo elemento, allora il primo precede il terzo (transitività). 2) L’ordine determina un reticolo: ossia, per ogni a e b ∈ B, esistono il supremo (sup) e l’infimo (inf) di a e b, che indicheremo, rispettivamente, con a  b e a  b . Ciò significa che a  b è il più grande elemento minore sia di a e sia di b (rispetto all’ordine  ); mentre a  b è il più piccolo elemento maggiore sia di a e sia di b (rispetto a  ). 3) Il reticolo è distributivo. Ossia, il sup si distribuisce sull’inf (e viceversa): a  (b  c) = (a  b)  (a  c) a  (b  c) = (a  b)  (a  c) 4) Il reticolo è limitato dagli elementi 0 (il minimo) e 1 (il massimo): per ogni a: 0  a e a 1 5) L’operazione ' è un ortocomplemento, che soddisfa le condizioni: a  a ’ =1 (principio logico del terzo escluso) 6731

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Logica quantistica a  a ’ = 0 (principio logico di noncontraddizione) (a')' = a (doppia negazione) La struttura dei sottospazi C(H) risulta violare soltanto una delle condizioni definitorie delle algebre di Boole: la distributività. Il reticolo dei sottospazi non è, infatti, distributivo. Per «vedere» un controesempio basti pensare al caso di uno spazio di Hilbert costruito sul piano e considerare tre sottospazi rappresentati da tre rette a,b c non ortogonali fra loro. Avremo: a  (b  c) = a  1 = a Ma: (a  b)  (a  c) = 0 Invece che la distributività, è soddisfatta una condizione più debole, chiamata ortomodularità: presi tre qualsiasi sottospazi a, b, c, se a  b allora b = a  (a ’  b). Poiché questa condizione vale per ogni spazio di Hilbert, possiamo concludere che la struttura dei sottospazi risulta un reticolo limitato, ortocomplementato e ortomodulare. La caduta della distributività è connessa a una caratteristica atipica della disgiunzione. Diversamente da quello che è previsto dalle tavole di verità classiche, una disgiunzione quantistica può essere vera senza che nessuno dei due membri sia vero. Può accadere infatti che uno stato puro y appartenga al sottospazio X  Y , benché y non appartenga né a X né a Y. II. LA LOGICA QUANTISTICA ORTODOSSA E LE SUE ANOMALIE SEMANTICHE. – La logica quantistica ortodossa (LQ) è stata descritta per la prima volta come una logica da Birkhoff e von Neumann (nell’articolo a cui abbiamo fatto riferimento nel par.1). Come molte altre logiche, anche LQ si lascia caratterizzare sia algebricamente e sia kripkianamente. Il linguaggio di LQ contiene due connettivi primitivi: la negazione ( ¬ ) e la congiunzione ( ∧ ). La disgiunzione ( ∨ ) viene definita assumendo (come nel caso classico) una legge di de Morgan: α ∨ β =def. ¬(¬α ∧ ¬β) Un connettivo condizionale → può essere definito attraverso il cosiddetto «uncino di Sasaki»: α → β = ¬α ∨ (α ∧ β) Nella logica classica (ma non nella logica quantistica!) l’uncino di Sasaki collassa sulla usuale implicazione materiale ¬α ∨ β. 6732

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Definizione 2.1: Un modello algebrico di LQ è una coppia M = (A, v) dove a) A = (A, , ,’,1, 0) è un reticolo ortomodulare; b) v (la funzione di interpretazione) interpreta la negazione come l’ortocomplemento ('), e la congiunzione come l’infimo reticolare ( ); ossia: (i) v(¬α) = v(α)’ (ii) v(α ∧ β) = v(α)  v(β) (iii) v(α ∨ β) = v(α)  v(β) Definizione 2.2: Un enunciato a è detto vero in un modello (A, v) se e solo se v(a)=1. Su questa base otteniamo che: b è una conseguenza di a nella semantica algebrica ( α  β) se e solo se v(α)  v(β) in ogni modello (A, v) fondato su un reticolo ortomodulare A . Inoltre, a sarà una verità logico-quantistica nella semantica algebrica (  α) se e solo se a risulta vera in ogni modello algebrico di LQ. Usando la proprietà dell’ortomodularità, è possibile dimostrare una versione semantica del «lemma di deduzione»: Lemma: α  β se e solo se  α → β Da un punto di vista intuitivo, ciò significa che → rappresenta un «buon connettivo condizionale»: α → β è una verità logica se e solo se b è una conseguenza di a. Definizione 2.3: Un modello kripkiano per la logica LQ ha la forma (I,R, Π, v ) dove: a) la relazione di accessibilità R è riflessiva e simmetrica (ossia, ogni mondo è accessibile a se stesso; se un primo mondo è accessibile a un secondo mondo, allora anche il secondo è accessibile al primo). Scriveremo anche i ⊥/ j invece di Rij; e i ⊥ j per non Rij. Inoltre, se X ⊆ I, scriveremo i ⊥ X per i ∈ X(⊥) (dove X(⊥) = {i ∈ I : i ⊥ j, per ogni j ∈ X} ) e i ⊥/ X per i ∉ X(⊥) . Una proposizione possibile rappresenta un insieme X massimale di mondi: ossia X deve contenere tutti e soli i mondi i cui mondi accessibili sono accessibili ad almeno un elemento di X ( i ∈ X se e solo se per ogni j [se i ⊥/ j, allora j ⊥/ X ]). Si dimostra facilmente che: X è una proposizione possibile per ogni X ⊆ I; ∅ e I sono proposizioni possibili; se X,Y sono proposizioni possibili allora anche X ∩ Y è un proposizione possibile; b) P è un insieme di proposizioni possibili che contiene I , ∅ ed è chiuso rispetto alle operazioni ∩ e (⊥);

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Logica quantistica

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c) P è ortomodulare; d) i) v(α) ∈ Πper ogni enunciato atomico a; ii) v(¬α) = v(α)(⊥) iii) v(α ∧ β) = v(α)  v(β) Definizione 2.4: Un enunciato a è vero in un modello ( I, R, Π, v ) quando è verificato in ogni mondo i (per ogni i ∈ I : i ∈ v(α) ). Su questa base risulta: b è una conseguenza di a nella semantica kripkiana di LQ se e solo se per ogni modello kripkiano ( I, R, Π, v ) di LQ e per ogni mondo i: se i ∈ v(α), allora i ∈ v(β). Inoltre, a è una verità logica di LQ nella semantica kripkiana se e solo se a è vera in ogni modello kripkiano di LQ. Si dimostra che la semantica algebrica e quella kripkiana per LQ caratterizzano la stessa logica. In altri termini, le due semantiche catturano la stessa idea di conseguenza logica. Entrambe le semantiche, algebrica e kripkiana, ammettono una esemplificazione naturale negli spazi di Hilbert. Ciò costituisce il punto di partenza per l’interpretazione fisica di LQ. LQ è una logica assiomatizzabile. Molte assiomatizzazioni diverse (tutte equivalenti fra loro) sono state proposte. Di seguito, ne presentiamo una che è una sorta di «calco sintattico» degli assiomi dei reticoli ortomodulari. Questo calcolo non ha assiomi logici ed è determinato come un sistema di regole. Ogni regola ha la seguente forma: α1  β1,..., αn  βn α  β (Se b1 è inferita da a1,...,bn è inferita da an allora b può essere inferita da a). Le configurazioni α1  β1,..., αn  βn rappresentano le premesse della regola, mentre α  β rappresenta la conclusione. Una regola impropria è un regola il cui ∅ insieme di premesse è vuoto. In luogo di αβ scriveremo semplicemente α  β . Regole di LQ (1) α  α (identità) (2) α ∧ β  α (3) α ∧ β  β α  β, β  γ (4) (transitività) αγ

γ  α, γ  β γ α∧β (6) α  ¬¬α (doppia negazione debole) (7) ¬¬α  α (doppia negazione forte) (5)

(8)

αβ (contrapposizione) ¬β  ¬α

αβ (ortomodularità) β  α ∨ (¬α ∧ β) Definizione 2.1.1: Una dimostrazione è una successione finita di configurazioni dove ogni elemento della successione è una regola impropria oppure la conclusione di una regola propria le cui premesse sono elementi precedenti della successione. Definizione 2.1.2: b è una conseguenza deduttiva di a (o è dimostrabile a partire da a) ( α  β ) se e solo se esiste una dimostrazione che abbia come ultima configurazione α  β . Definizione 2.1.3: a è una conseguenza deduttiva di un insieme T di enunciati (o è dimostrabile a partire da T) ( T  α ) se e solo se T include un sottoinsieme finito T* = {α1,..., αn } tale che α1 ∧ ... ∧ αn  α . Definizione 2.1.4: Un enunciato a o un insieme T di enunciati è chiamato contraddittorio quando permette di dimostrare una contraddizione ( α  β ∧ ¬β o T  β ∧ ¬β ). Altrimenti è detto non contraddittorio. Le relazioni di conseguenza deduttiva e semantica per LQ risultano equivalenti. In altri termini, è possibile dimostrare un teorema di validità e di completezza per la nostra logica (si veda Dalla Chiara - Giuntini, Quantum Logics, in D. Gabbay - F. Guenthner [a cura di], Handbook of Philosophical Logic, vol. VI, Berlin 2002, pp. 129-228): Teorema di validità: Se α  β allora α  β. Teorema di completezza: Se α  β allora α  β . Una caratteristica «anomalia» di LQ è rappresentata dalla violazione di una condizione metalogica, che risulta invece soddisfatta non solo dalla logica classica ma anche da molte importanti logiche non classiche. Si tratta della cosiddetta proprietà di Lindenbaum. Una logica L soddisfa la proprietà di Lindenbaum quando ogni insieme non contraddittorio T di enunciati ammette una estensione T* che sia contemporaneamente non contraddittoria e completa (ossia, per ogni enunciato a, l’insieme T* deve contenere a oppure la sua negazione ¬α). Da un punto di vista intuitivo, la proprietà di Lindenbaum assicura che ogni teoria non contraddittoria è estendibile a una sorta di «teoria onnisciente», dove in modo coerente ogni problema espresso nel linguaggio ammette una (9)

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Logica sociale soluzione. Un controesempio logico-quantistico alla proprietà di Lindenbaum si può ottenere negando una importante legge logica classica, il principio dell’ a fortiori (se qualcosa vale, allora vale a fortiori sotto qualsivoglia ipotesi): α → (β → α) Da un punto di vista intuitivo, la violazione della proprietà di Lindenbaum rappresenta un risultato di incompletezza logica molto forte: il principio del terzo escluso cade a un livello molto profondo. Esistono teorie che sono intrinsecamente incomplete anche in mente Dei, indipendentemente dalla conoscibilità e decidibilità del loro sistema di assiomi. Tutto questo va ben oltre i limiti sanciti dai famosi teoremi di Gödel, secondo cui ogni teoria classica non contraddittoria e assiomatizzabile (che soddisfi alcuni requisiti sintattici canonici) è logicamente incompleta (ossia esprime enunciati che sono indecidibili nella teoria). L’incompletezza forte di LQ rappresenta una naturale controparte logica per l’indeterminismo essenziale della meccanica quantistica: in un certo senso, si tratta di un principio molto generale di indeterminazione semantica. Fra i problemi metalogici che risultano ancora aperti, limitiamoci a ricordare i seguenti: 1) LQ è decidibile? Ossia è possibile, per ogni enunciato del linguaggio, decidere in un numero finito di passi se si tratta o meno di una verità logica? 2) LQ gode della proprietà del modello finito? In altri termini, quando un enunciato non è una verità logica, esiste sempre un modello finito che non lo verifica? Un risposta positiva al secondo problema comporterebbe automaticamente una risposta positiva al primo, ma non viceversa. R. Giuntini BIBL.: G. BIRKHOFF, Lattice Theory, «American Mathematical Society Colloquium Publications», vol. XXV, Providence 1967; P. MITTELSTAEDT, Quantum Logic, Dordrecht 1978; E. BELTRAMETTI - G. CASSINELLI, The Logic of Quantum Mechanics, in G. ROTA (a cura di), Encyclopedia of Mathematics and its Applications, vol. XV, Reading 1981; G. KALMBACH, Orthomodular Lattices, New York 1983; P. BUSCH - P. LAHTI - P. MITTELSTAEDT, The Quantum Theory of Measurement, Berlin 1991; P. PTÀK - S. PULMANNOVÀ, Orthomodular Structures as Quantum Logics, Dordrecht 1991; R. GIUNTINI, Quantum Logic and Hidden Variables, Mannheim 1991.

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LOGICA Logica sociale SOCIALE (social logic; Soziallogik; logique sociale; lógica social). – Fin dalla nascita della sociologia è stato posto il problema se l’azione sociale e i fenomeni collettivi non posseggano una propria logica autonoma rispetto a quella individuale. Paradigmaticamente il problema è stato tematizzato da G. Tarde, che nello spirito del suo «psicologismo» sociale distingue la logica tradizionale in «logica individuale» e «logica sociale» a significare una presunta analogia fra l’organizzazione sociale e le forme del ragionamento individuale. Alle funzioni e alle categorie logiche e teleologiche dello «spirito individuale» (giudizio e volontà, materia-forza e spazio-tempo, piacere-dolore) corrisponderebbero, secondo Tarde, funzioni (religione e politica), categorie logiche (divinità e linguaggio) e categorie teleologiche (bene-male) dello «spirito sociale» (cfr. Logique sociale, Paris 1894). In maniera analoga ma speculare anche Durkheim (De la division du travail social, Paris 1893, tr. it. di F. Airoldi Namer, La divisione del lavoro sociale, Milano 19894) pone l’accento sul carattere sui generis delle «rappresentazioni collettive», cioè delle forme di razionalizzazione prodotte dalla vita sociale. Ma anziché insistere su una supposta derivazione della logica sociale da quella individuale, egli concepisce la coscienza collettiva come un principio spirituale sopraindividuale responsabile delle rappresentazioni e delle idee che inevitabilmente si impongono ai membri di una certa società. Questa impostazione analogica è stata in seguito abbandonata con l’introduzione nelle scienze sociali del funzionalismo, il quale ha posto l’accento non più sull’esistenza di una specifica logica dell’agire sociale, quanto piuttosto sulla specificità dello sguardo scientifico che si occupa di esso. Tale sguardo si fonda per il funzionalismo su tre analisi essenziali interessate ai rapporti psico-organici-materiali dei fenomeni sociali: analisi della struttura materiale delle dimensioni collettive, analisi funzionale, analisi formale (prodotti formali della vita collettiva: segni, simboli, opinioni). Fin dal principio le scienze sociali hanno fatto propria la logica scientifica delle scienze della natura, basata sul principio della spiegazione: un fenomeno diviene intelligibile quando lo si possa interpretare come il caso particolare di una regolarità generale. L’attività conoscitiva è volta a determinare tali regolarità o invarianze attraverso teorie basate su enunciati nomo-

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logici (enunciazioni di leggi generali). Tuttavia si è ben presto osservato che nelle scienze sociali gli enunciati nomologici hanno solitamente un essenziale carattere di incompletezza, se non altro perché non è mai possibile circoscrivere con esattezza la classe dei possibili effetti di disturbo. Perciò un ruolo fondamentale è giocato nella logica delle scienze sociali dalle idealizzazioni (già a partire dal concetto weberiano di «tipo ideale»), cioè dalla formulazione di enunciati nomologici che hanno valore solo in condizioni ideali. P. Volonté BIBL.: F. BARBANO, Teoria e ricerca nella sociologia contemporanea, Milano 1955; S. ACQUAVIVA, Il problema della logica nelle scienze umane, Padova 1961; G. SCHURZ (a cura di), Erklären und Verstehen in der Wissenschaft, München 1988. ➨ ANALISI FUNZIONALE; AZIONE SOCIALE; FUNZIONALISMO; NOMOLOGIA; RAZONALIZZAZIONE; SCIENZE SOCIALI.

LOGICA Logica temporaleTEMPORALE. – SOMMARIO: I. Introduzione. - II. Questioni e notazione di base. III. Il tempo ramificato come ambito entro il quale discutere argomenti filosofici in logica del tempo. - IV. La struttura del tempo e la logica del tempo e delle temporalità. - V. Conclusioni. I. INTRODUZIONE. – La logica temporale è nella sua essenza lo studio logico del tempo e delle relazioni temporali. Essa è iniziata, infatti, come studio del tempo e delle relazioni temporali, secondo una prospettiva e finalità d’indagine filosofiche – non essendoci dubbio che le sue origini siano state in filosofia. Per questo, la logica temporale può essere vista, nelle sue caratteristiche fondamentali, come un ramo della logica filosofica. E filosofica è la prospettiva secondo la quale affronteremo l’argomento. Tuttavia, possiamo anche constatare fin d’ora che il termine logica temporale non è facilmente circoscrivibile. Innanzitutto lo studio della logica temporale non può essere distinto dallo studio delle nozioni modali di possibilità e necessità, come viene messo in evidenza proprio dal titolo del lavoro che fondò la logica temporale moderna, cioè Time and Modality (Oxford 1957) di A.N. Prior. Oltre a questo, sono ovviamente e inevitabilmente collegate a questioni riguardanti tempo e modalità questioni filosofiche concernenti il libero arbitrio e la contrapposizione tra determinismo e indeterminismo. In secondo luogo, la logica

Logica temporale temporale può anche essere vista come un modo di porsi all’interno della filosofia della logica. Nella concezione di Prior si sostiene correttamente che tutto in logica è effettivamente temporale e che linguaggi logici senza alcun tipo di operatori temporali in realtà si applicano solo a un sottoinsieme della logica. In terzo luogo, la logica temporale è studiata e anche applicata in altri campi, specialmente in informatica e in linguistica logica. Tali studi portano e hanno portato anche a risultati rilevanti per la logica filosofica. Tenendo presenti queste precisazioni, guarderemo ora alla logica temporale come a un ramo della logica filosofica. II. QUESTIONI E NOTAZIONE DI BASE. – Le relazioni temporali spesso corrispondono a inflessioni temporali nei linguaggi naturali. Così in italiano, «Maria vede Giovanni» suggerisce che l’evento riguarda il presente, «Maria vedrà Giovanni» suggerisce il futuro, «Maria vide Giovanni» il passato, e costruzioni più complicate come «Maria vedrà Giovanni prima di andare a Roma» suggerisce relazioni temporali più complesse riguardo al futuro (in questo contesto dobbiamo usare termini non troppo impegnativi come «indica» e «suggerisce», poiché la logica temporale non dipende dalla semantica del linguaggio naturale. Il fatto che gli enunciati linguistici abbiano o non abbiano di fatto significati logici definiti e determinabili è una questione che va discussa in linguistica teorica e in filosofia del linguaggio. Tuttavia, gli esempi linguistici sono senza dubbio il mezzo migliore per una prima comprensione di questioni in logica temporale). Per stabilire simili relazioni temporali in un linguaggio formale, possiamo procedere in due modi. Possiamo usare il cosiddetto approccio operazionale. Se p è una proposizione («Maria vede Giovanni»), possiamo renderla futura usando l’operatore F , in modo che Fp debba essere letto «si verificherà che p» («Maria vedrà Giovanni»). O potremmo usare il cosiddetto approccio quantificazionale, dove ci riferiamo direttamente a momenti temporali e a un ordine temporale, come in ∃t ’ ∈ TIME : t < t ’∧ T(t ’, p), dove t è un dato momento d’asserzione (dell’enunciato p) e TIME è l’insieme dei momenti. Così la relazione temporale per Fp , cioè «Maria vedrà Giovanni», viene in questo caso catturata da una formula che si riferisce esplicitamente a momenti temporali (cioè t, t’), a un ordine temporale co6735

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Logica temporale me in t < t ’ e a un predicato di verità T(t ’, p) , che significa «p è vera al tempo t’». Il passato viene trattato in modo completamente analogo. Possiamo organizzare nella seguente tabella questo primo scorcio di sistemi di logica temporale più completi:

I due approcci possono essere sistematicamente messi in relazione – come già riconoscibile nella tabella – e possono essere persino integrati in un unico linguaggio logico. Ciononostante, una delle questioni classiche riguardanti il tempo e la logica del tempo si riferisce proprio alla differenza tra i due approcci. L’approccio operazionale costituisce l’espressione formale della cosiddetta concezione del tempo secondo le A-serie, o semplicemente della A-teoria, dove ogni proposizione viene intesa come riferita a un ora assoluto, corrispondente al momento dell’affermazione per un enunciato linguistico. Possiamo intendere l’enunciato «Maria vedrà Giovanni» come l’indicazione di un evento «Maria vede Giovanni», che si trova nel futuro se visto dal momento dell’affermazione – l’ora dell’enunciato. Sulla base di questa concezione, l’idea di momento temporale deriva effettivamente da quella di evento, e l’idea di ordine temporale deriva da quella di temporalità (o tempo verbale) – come verrà spiegato a fondo più avanti, dopo aver discusso il punto di vista opposto. L’approccio quantificazionale, invece, è associato alla cosiddetta concezione del tempo secondo le B-serie, o semplicemente B-teoria, che vede le cose esattamente nel modo opposto: i momenti temporali e l’ordine temporale sono nozioni primarie, mentre le temporalità e gli operatori temporali sono nozioni derivate; 6736

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in particolare, non c’è nessun tempo privilegiato da poter chiamare ora (bisogna qui ricordare che i termini A-serie e B-serie furono per la prima volta suggeriti da J.E. McTaggart, che, in The Unreality of Time [in «Mind: a Quaterly Review of Psycology and Philosophy», 17, 1908, pp. 456-473], mise chiaramente in evidenza le due concezioni del tempo note ora con questi nomi). Nella B-teoria, possiamo scegliere di chiamare ora qualche momento temporale, se vogliamo avere una controparte linguistica della percezione umana del tempo, ma dal punto di vista logico tutti i momenti sono in senso stretto sullo stesso piano. Nella formula ∃t ’ ∈ TIME : t < t ’∧ T(t ’, p), t e t’ sono semplicemente variabili e l’idea che il momento dell’asserzione t sia l’ora non ha riscontro nel formalismo. Infatti, lavorando in senso stretto internamente all’approccio quantificazionale, una proposizione deve sempre comparire assieme a un’indicazione del tempo, come in T(t ’, p) – non ci sono oggetti come la semplice proposizione p. D’altra parte, possono comparire operatori temporali, ma questi sono definiti in termini di momenti temporali e di ordine temporale per mezzo delle seguenti definizioni: (T1) T(t, Pq) ⇔ ∃t ’ ∈ TIME : t ’ < t ∧ T(t ’, q) (T2) T(t, Fq) ⇔ ∃t ’ ∈ TIME : t < t ’∧ T(t ’, q) Questo è il senso in cui, nella B-teoria, le temporalità sono entità derivate sulla base della nozione di momento e di ordine temporale, e ciò mostra anche che le formule permesse nel linguaggio della B-teoria rendono in tutti i casi completamente esplicito il momento dell’asserzione. In modo del tutto opposto, secondo la concezione delle A-serie, l’idea di momento temporale è realmente basata su quella di evento e l’idea di ordine temporale deriva da quella di temporalità. La seguente citazione di Prior vuole spiegare questo (la citazione è presa da una nota non pubblicata, conservata con i lavori di Prior nella biblioteca Bodleian. Essa è quindi stilisticamente poco raffinata, ma riassume nel modo più chiaro il punto di vista della A-teoria e inoltre stabilisce alcuni punti essenziali su cui si basa la preferenza di Prior per questo punto di vista). Nella citazione A rappresenta una persona che sostiene il punto di vista delle B-serie: «A vuole che io relativizzi i miei tempi a date. Mi sembra che dietro questa richiesta ci sia una metafisica. Dietro questa richiesta c’è l’idea che la totalità del tempo

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sia fissata in modo assoluto con tutte le sue date, e che tutti gli eventi e processi siano proprio allocati in varie parti di questa gigantesca struttura fissa. Io non lo credo. Io penso che in questo modo si tratti il tempo come se fosse già passato. Io non lo credo. Io non credo che gli eventi e i processi siano; credo piuttosto che gli eventi avvengano (e quindi passino ad essere avvenuti) e che i processi si sviluppino (e quindi passino ad essersi sviluppati), e perfino questa è un’astrazione – la realtà di base è costituita da cose che agiscono. Ma anche in questo fluire c’è un modello, e io provo a tracciare questo modello nella mia logica delle temporalità; ed è perché questo modello esiste che gli uomini sono stati in grado di costruire la loro struttura di date apparentemente atemporale. Le date, come le classi, sono una invenzione meravigliosa e tremendamente utile, ma un’invenzione; la realtà è costituita da oggetti che agiscono» (Bodleian Library, ms. nella scatola 6, 1 foglio, senza titolo e data). Bisogna ricordare che la contrapposizione tra A-serie e B-serie è stata in qualche modo «sdrammatizzata» internamente alla logica temporale negli ultimi decenni, poiché lo sviluppo delle cosiddette logiche ibride (vedi P. Blackburn - M. de Rijke - Y. Venema, Modal Logic, Cambridge [New York] 2001, cap. 7) ha reso perfettamente possibile (come già accennato) la coesistenza dei due insiemi basilari di nozioni internamente allo stesso linguaggio. Ciononostante, da un punto di vista filosofico, questa questione riguardante la «natura» del tempo è ugualmente importante oggi. Inoltre, poiché stiamo considerando la logica temporale come un ramo della logica filosofica, è prioritario identificare le assunzioni sottostanti ai nostri formalismi, nonché l’eventuale loro rilevanza filosofica – e questi due modi di esprimere le relazioni temporali sono ciò che costituisce la logica temporale. In questo contesto vale la pena di notare che proprio lo sviluppo che ha sdrammatizzato la differenza tra i due approcci – e in particolare lo sviluppo della logica ibrida – fu in effetti iniziato e fondato da A.N. Prior in Papers on Time and Tense (in P. Hasle et al. [a cura di], Second Revised and Extended Edition of Arthur N. Prior: Papers on Time and Tense, Oxford 2003 [1968]), cap. XI (e anticipato in A.N. Prior, Past, Present and Future, Oxford 1967), proprio per mostrare che una Bteoria potrebbe essere immersa in un linguag-

Logica temporale gio per A-teorie e quindi, se si vuole (come infatti Prior voleva), che è possibile sostenere la primarietà della A-teoria. Il fatto che, paradossalmente, la B-teoria sia un linguaggio «atemporale» può essere forse meglio capito se ammettiamo la semplificazione di identificare TIME con i numeri naturali. Enunciare per esempio T(7, Fp) («“Maria vedrà Giovanni” è vera al tempo 7») è semplicemente dire che «per qualche N > 7 , “Maria vede Giovanni” è vera al tempo N». Il momento dell’asserzione è semplicemente un parametro oggettivo senza uno status speciale, come essere l’ora. Ciò non si concilia bene con la percezione umana del tempo o con i sistemi dei tempi verbali per esempio dell’italiano – dove il tempo e le relazioni temporali sono normalmente espresse da inflessioni temporali e più raramente da indicazioni esplicite del tempo (p. es. date, ore dell’orologio ecc.). Si concilia bene, tuttavia, con la teoria della relatività, dove non c’è un ora privilegiato. Per una discussione sulla relazione tra teoria della relatività e logica temporale si può vedere P. Ohrstrom - P. Hasle, Temporal Logic, in D. Gabbay - J. Woods (a cura di), Logic and the Modalities in the Twentieth Century. The Handbook of the History Logic, vol. VI, Amsterdam-Boston 2005, cap. 7. Possiamo identificare cinque fondamentali argomenti filosofici interconnessi nella logica temporale: (1) l’asimmetria tra passato e futuro (2) la relazione tra tempo e modalità (3) l’idea di struttura temporale (4) l’argomento del determinismo (e lo status dei futuri contingenti) (5) la contrapposizione tra le concezioni del tempo come A-serie e B-serie. Abbiamo trattato l’ultimo punto. Torneremo ora ai rimanenti quattro (lo status dei futuri contingenti e la discussione sull’indeterminismo sono trattati in dettaglio alla voce Futuri contingenti, ma il problema è anche introdotto più avanti in questo lavoro, poiché è impossibile presentare le caratteristiche salienti della logica temporale senza toccare questo argomento). Infine, considereremo brevemente da un punto di vista prettamente formale qualche possibile sistema di logica temporale. III. IL TEMPO RAMIFICATO COME AMBITO ENTRO IL QUALE DISCUTERE ARGOMENTI FILOSOFICI IN LOGICA DEL TEMPO. – Anziché presentare la simbologia e i

sistemi di logica temporale e le questioni filo6737

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Logica temporale sofiche collegate una alla volta, inizieremo la discussione presentando un tipo abbastanza avanzato di logica temporale, cioè la cosiddetta «logica del tempo ramificato» (TR). Il motivo di questo è semplicemente che il TR fornisce un ambiente intuitivamente attraente, in cui si possono discutere alcuni punti filosofici basilari pertinenti alla logica temporale, cioè quelli enumerati sopra come (1)-(4). L’idea di tempo ramificato non compare nei primi lavori in logica temporale. Infatti non è ancora formulata in Time and Modality (1957) di A.N. Prior, che come precedentemente detto segnò il passo in avanti più importante nella nuova logica del tempo. Come idea esplicita (o formalizzata), il tempo ramificato venne per la prima volta suggerito a Prior in una lettera di Saul Kripke nel settembre 1958 (la lettera è conservata assieme al Nachlass di Prior nella biblioteca Bodleian, Oxford, scatola 2). Questa lettera contiene una versione iniziale dell’idea e anche un sistema di tempo ramificato, sebbene naturalmente non sviluppato nei dettagli. Kripke suggeriva che si potrebbe considerare il presente come un punto di «livello 0», e possibili «eventi» o «stati» al momento successivo come punti di «livello 1»; per ognuno di tali stati possibili ci sarebbero, a sua volta, vari possibili stati futuri al momento successivo a quello di «livello 1», il cui insieme potrebbe essere indicato come «livello 2», e così via.

In questo modo è possibile formare una struttura ad albero che rappresenta l’intero insieme di possibili futuri che si espandono dal presente (livello 0) – si può dire, infatti, che ogni stato, o nodo dell’albero, identifica un insieme di possibili futuri. In questa struttura ogni punto determina un sottoalbero formato dal presente e dal futuro di quel punto. È evi6738

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dente che Prior trovò questa visione del tempo molto interessante e negli anni seguenti la sviluppò in modo sostanziale. Possiamo raffinare la rappresentazione intuitiva del tempo ramificato discutendo la figura seguente:

In questo disegno, è sensato dire che per ogni nodo c’è un passato non-ambiguo. I nodi stessi possono essere pensati come istanti o, forse meglio, come stati. Essenzialmente, E1 è qui considerato il presente (lo stato presente), E0 è lo stato precedente più vicino, e l’albero che si propaga da E1 viene considerato l’insieme dei futuri possibili, cioè delle successioni di stati futuri, o ciò che possiamo chiamare più colloquialmente corsi di eventi futuri. Chiaramente, tuttavia, E1 non resterà lo stato presente, e il disegno cattura un’importante idea di ciò che significa «trascorrere» per quanto riguarda il tempo. Se i prossimi stati che si realizzano sono E2 ed E5, allora E5 è ora diventato lo stato presente. In relazione allo stato E5 il passato contiene l’organizzazione lineare di stati rappresentata da E0, E1 ed E2. In relazione a E5, visto come stato presente, o tempo presente, gli stati E9 ed E10 sono possibilità future alternative. In relazione a E5, gli stati E4, E6 ed E7 saranno controfattuali; cioè, supponendo che E5 «si realizzi», E4, E6 ed E7 risultano «ora» (E5) al di là della possibile realizzabilità. Ciascun nodo E rappresenta realmente un insieme di eventi e fatti. Se due fatti, diciamo p e q, «appartengono» entrambi a uno stesso nodo, diciamo E5, essi sono ovviamente genuinamente simultanei in E5, E4, E6 ed E7, d’altra parte, stabiliscono una pseudo-simultaneità con E5 per ciò che sarebbe stato reale sotto diverse condizioni controfattuali. L’intero disegno illustra anche bene l’idea fondamentale di asimmetria tra passato e futuro: il passato è «chiuso», esso è l’inalterabile organizzazione di tutti gli stati fino al tempo presente, mentre il futuro così come è visto dal «tempo presente» E1 è aperto (fino a quando il tempo trascor-

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re, ed E1 diventa passato). L’idea che qualche proposizione futura – diciamo, «pioverà» – sia necessaria in E1 può essere facilmente capita in questo disegno; è cioè l’idea che indipendentemente da quale ramo, cioè sequenza di stati, risulterà quella reale, «piove» è vera in qualche stato su ciascun ramo. Naturalmente, la possibilità – come in «è possibile che pioverà» – può essere intesa in modo analogo, cioè come l’idea che dal dato E1 ci sia almeno un ramo sul quale la condizione «piove» si verifica (almeno in uno stato). Queste osservazioni chiarificano come il TR renda conto dell’indeterminismo: è un modello in cui è possibile avere reali alternative viste da ogni «dato ora» (in questo caso, E1). Intuitivamente, ciò è conseguenza proprio della struttura del tempo (ramificato), che viene suggerita dal disegno. Ciò contrasta con una rappresentazione in cui il tempo viene rappresentato come una semplice linea. In una tale struttura, «pioverà» e «necessariamente pioverà» essenzialmente vengono a coincidere: entrambe sono vere se e solo se in qualche tempo successivo piove. La conseguenza è che tutto ciò che succede, succede necessariamente, cioè il determinismo filosofico – per questo motivo J.P. Burgess scrive: «Se il determinismo vede il tempo come una linea, l’indeterminismo lo vede come un sistema di sentieri che biforcano» (The Unreal Future, in «Theoria», 44, 1978, p. 157). È tuttavia possibile interpretare l’idea generale del TR in modi diversi. Lo stesso Prior sviluppò due diverse interpretazioni, suggerite rispettivamente da Occam e da Peirce (A.N. Prior, Past, Present and Future, Oxford 1967, pp. 122 ss.). Egli considerò anche un sistema più basilare detto Kb. Un buon punto di partenza per discutere questi argomenti è il capitolo IX del lavoro di Aristotele De Interpretatione – senza dubbio il testo filosofico che ha avuto il maggior impatto nel dibattito sulle relazioni tra tempo, verità e modalità. In questo lavoro troviamo il famoso esempio della «battaglia navale di domani», una discussione che testimonia come la filosofia antica fosse altamente consapevole del problema delle temporalità logiche (vedi per esempio R. Gaskin, The Sea Battle and the Master Argument: Aristotle and Diodorus Cronus on the Metaphysics of the Future, Berlin - New York 1995; B. Mates, Stoic Logic, Berkeley 1961). Ha una posizione centrale nella discus-

Logica temporale sione il problema di come interpretare i seguenti due enunciati: «Domani ci sarà una battaglia navale». «Domani non ci sarà una battaglia navale». Aristotele discusse l’ipotesi che uno di questi enunciati sia vero, mentre l’altro sia falso (come di fatto devono essere in base al principio di bivalenza), e fece la seguente osservazione: «Se per contro domani un qualcosa né sarà né non sarà, ciò che può accadere in due modi indifferenti – ad esempio una battaglia navale – non potrà realizzarsi: si dovrebbe dire, in effetti, che la battaglia navale né si verifica né non si verifica. Alle suddette conclusioni assurde, e ad altre consimili, si giunge dunque, se davvero si vuol sostenere, a proposito di ogni affermazione e di ogni negazione – si riferiscano poi queste a oggetti universali, presentati in forma universale, oppure a oggetti singolari – che uno dei due giudizi contrapposti è necessariamente vero, mentre l’altro è falso, e se si vuol dire che nulla tra ciò che diviene può sussistere in due modi differenti, ma che piuttosto tutte le cose sono e divengono per necessità» (De Interpretatione, 18 b 23, tr. it. di G. Colli et al., in Opere, vol. I, Roma-Bari 1994). Nel seguito indicheremo con q l’enunciato «si sta verificando una battaglia navale» e indichiamo con F(1) il cosiddetto operatore temporale metrico che possiamo leggere come «nella prossima unità temporale si verificherà che...», o più liberamente «domani si verificherà che...». Ora il problema è come intendere F(1)q. Per studiare le possibili interpretazioni di questo enunciato il modello del tempo ramificato si rivela il più utile. Per semplicità useremo un tempo metrico nei nostri esempi, ma i risultati possono essere generalizzati al caso non metrico (un approccio alla questione dei futuri contingenti, o rispettivamente a come trattare il problema sollevato sopra da Aristotele, è considerare quegli enunciati come indeterminati per quanto riguarda il valore di verità, o alternativamente assegnare loro un terzo valore di verità diverso dal vero e dal falso. Tuttavia questo approccio non verrà considerato in questo lavoro). (1) La prima risposta alla questione di come intendere F(1)q e F(1)¬q è che nessuna delle due possibilità future, battaglia navale e nessuna battaglia navale, ha uno status superiore in relazione all’altra. Questa risposta può es6739

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Logica temporale sere rappresentata graficamente nel modo seguente:

Le frecce alla fine delle due ramificazioni verso il futuro indicano che gli enunciati «(domani) ci sarà una battaglia navale» e «(domani) non ci sarà nessuna battaglia navale» sono entrambi veri in questa rappresentazione del tempo ramificato. Ciò vuol dire che la formula F (1)q ∧ F (1)¬q risulta vera. Il corrispondente sistema di logica temporale viene chiamato Kb. (2) Secondo il cosiddetto modello occamista, solo uno dei possibili futuri è quello vero, anche se noi, in quanto esseri umani, non sappiamo quale sia. Supponiamo che effettivamente domani non ci sia nessuna battaglia navale. In questo caso il futuro potrebbe essere rappresentato graficamente in questo modo:

Una linea che non finisce con una freccia indica un possibile corso degli eventi che tuttavia non si realizzerà – cosicché sarà falsa l’asserzione che il corrispondente stato-di-cose si verificherà domani. Quindi, con q e F(1) definiti come sopra, ¬F (1)q ∧ F (1)¬q è la corretta descrizione della situazione, anche se potremmo non essere in grado di conoscere questo al momento attuale. Il sistema che stiamo considerando offre una buona opportunità per rendere più precisa la preceden6740

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te discussione sulle modalità. Indichiamo con p l’affermazione «piove». Introduciamo ora un operatore di necessità ˆ e il suo duale, l’operatore di possibilità ◊ per il quale vale ◊ =def ¬ˆ¬. Per impostare la discussione supponiamo che p sia vera sia in H1 sia in H2. In questo caso abbiamo ovviamente che «necessariamente pioverà», cioè ˆF(1)p è vera. L’operatore di necessità corrisponde quindi a una quantificazione su tutti i rami che si espandono dal presente. Inoltre, a dispetto del fatto che ¬F(1)q sia vera, cioè F(1)q sia falsa, ◊F(1)p è vera perché c’è un ramo sul quale q è vera – anche se questa asserzione non è vera sul ramo privilegiato che consideriamo il futuro vero. L’idea di «futuro vero» non è sicuramente esente da problemi, ma è una caratteristica interessante del modello temporale occamista che, per ogni proposizione s, esso permetta una distinzione genuina tra – F(1)s : vera se e solo se s è vera sul ramo designato come «il futuro vero» – ◊F(1)s : vera se e solo se c’è qualche ramo su cui s è vera (indipendentemente dal fatto che tale ramo venga designato come «il futuro vero») – ˆF(1)s: vera se e solo se s è vera su tutti i rami. (3) Secondo il modello di Peirce – che Prior stesso adottò come proprio punto di vista – non è sensato parlare del futuro vero come uno dei possibili futuri. Non c’è ancora un futuro, solo un numero di possibilità. Quindi, il futuro dovrebbe essere rappresentato graficamente in questo modo:

Nessuna delle formule F(1)q, F(1)¬q , ¬F(1)q, e ¬F(1)¬q risulta vera in questo disegno. Tuttavia, se qualche proposizione s vale domani su tutte le storie possibili – cioè, se la verità di s domani è vista come necessaria – allora F(1)s è vera (così come ¬F(1)¬s ). In questo modo

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non viene effettivamente fatta nessuna distinzione tra F(1)s e ˆF(1)s. I sistemi di tempo ramificato di Prior sono stati ulteriormente sviluppati, in particolare da H. Nishimura (Is the Semantics of Branching Structures Adequate for Non-metric Ockhamist Tense Logics?, in «Journal of Philosophical Logic», 8, 1979, pp. 477-478), i cui modelli quasi-occamisti coinvolgono non solo istanti temporali, ma anche «storie» definite come insiemi linearmente ordinati di istanti. Un ulteriore raffinamento di queste idee noto come «sistema di Leibniz» è sviluppato in P. Ohrstrom - P. Hasle, Temporal Logic: from Ancient Ideas to Artificial Intelligence (Dordrecht 1995), capitolo 3.3, e ancora in un’altra versione in A. Zanardo, Branching-Time as a Relative Closeness Relation among Histories (in R. Asatiani et al. [a cura di], Proceedings of The Fifth Tbilisi Symposium on Language, Logic and Computation, October 610, 2003, Amsterdam 2004, pp. 11-18), e in A. Zanardo, Moment/History Duality in Prior's Logics of Branching-Time (in T. Braüner et al. [a cura di], The Logic of Time and Modality, Norwell [Massachusetts] 2005). Sono state studiate e in alcuni casi dimostrate importanti proprietà logiche come la validità e la completezza (vedi p. es. D. Gabbay - I. Hodkinson - M. Reynolds, Temporal Logic: Mathematical Foundations and Computational Aspects, vol. I, Oxford 1994, e D. Gabbay - M.A. Reynolds - M. Finger, Temporal Logic: Mathematical Foundations and Computational Aspects, vol. II, Oxford 2000). Il costante interesse e la continua espansione della conoscenza dei sistemi di TR testimoniano la centralità di questa concezione del tempo. IV. LA STRUTTURA DEL TEMPO E LA LOGICA DEL TEMPO E DELLE TEMPORALITÀ. – Molti logici e filosofi che si sono occupati della concezione del tempo si sono concentrati sullo studio delle caratteristiche del tempo inteso come una struttura lineare. Questi studi hanno un interesse generale indipendentemente dal fatto che alla fine si decida di optare per il TR oppure no. In tali ricerche il tempo è visto tipicamente come un insieme ordinato di istanti, e talvolta anche come un corrispondente insieme parzialmente ordinato di durate (o intervalli). Visto come un sistema di istanti, il tempo viene inteso come un insieme ordinato (TIME, =, ka; lovgia). Attribuiti un tempo a Zoroastro, furono raccolti probabilmente da un certo Giuliano il Caldeo, oppure da suo figlio Giuliano il Teurgo, entrambi comunque vissuti all’epoca di Marco Aurelio. Formavano un poema greco in esametri omerici che esponeva una sequenza di oscuri e pretenziosi responsi espressi in forma oracolare. I frammenti (conservati da Proclo, Siriano, Simplicio, Olimpiodoro, Damascio, Giovanni Lido e altri) sono ora editi da E. des Places (Oracles chaldaiques: avec un choix de commentaires anciens Paris 1996 3 [1971]), R.D. Majercik (The Chaldean Oracles: Text, Translation and Commentary, 8167

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Oralità Santa Barbara 1982, Leiden 1989) e tradotti in italiano a cura di A. Tonelli (Oracoli caldaici, Milano 20022). Considerati fin dall’antichità testo esoterico di eccezionale importanza, gli Oracoli caldaici attirarono l’attenzione di famosi commentatori: Porfirio, Giamblico, Ierocle, Proclo, Damascio, Giuliano l’Apostata, e altri. Nel secolo XI furono annotati da Michele Psello (I ed. con tr. latina di J. Opsopoeus, Oracula magica Zoroastris, Paris 1599). Attraverso la ripresa di Giorgio Gemistio Pletone, che si appellò alla loro sacra autorità nel suo ambizioso progetto di riforma religiosa (I ed. di L. Tiletanus, Magika logia ton apo tou Zoroastrou magon, Paris 1538; ora: Brigitte Tambrun-Krasker [ed., tr. e commento], Oracles Chaldaïques. Recension de Georges Gémiste Pléthon, Athens-ParisBrusselles 1995), circolarono ampiamente nell’ambiente di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola e altri (cfr. E.V. Maltese, L’esordio degli «Oracula Chaldaica» in ambiente umanistico, in C. Leonardi [a cura di], Gli umanesimi medievali, «Atti del II Congresso dell’Internationales Mittellateinerkomitee. Firenze, Certosa del Galluzzo, 11-15 settembre 1993», Firenze 1998, pp. 355-373). Ancora oggi gli Oracoli caldaici sono studiati come uno dei più interessanti e misteriosi documenti del sincretismo religioso-filosofico del II secolo. Più o meno contemporanei al sorgere del Corpus Hermeticum, essi gli sono affini anche per il singolare miscuglio di interessi soteriologico-metafisici e per il gusto delle astrazioni e dell’esotismo. Anche se non si può dimostrare che fossero il libro sacro di una setta religiosa, essi si rivelano tuttavia come una professione di fede molto vicina al medioplatonismo di Numenio di Apamea, con evidenti tracce di pensiero neopitagorico e gnostico: i concetti di monade e diade tradiscono affinità con il neopitagorismo; la metafisica del fuoco rivela influssi non soltanto stoico-eraclitei, ma soprattutto iranici; la teoria dei demoni intermediari richiama concezioni care al medioplatonismo e al giudaismo. L'opera conteneva, inoltre, alcune istruzioni per compiere rituali teurgici e alcune indicazioni relative alle «visioni» che tali rituali procuravano. Il sistema cosmologico e teologico che si riesce a ricostruire approssimativamente dagli scarsi frammenti (con le sue complicate serie triadiche destinate a minimizzare progressivamente l’infinita distanza che si frappone fra l’«abisso paterno» e la realtà visibile; 8168

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con il concetto della «seconda mente» mediatrice; con la teoria dell’anima pellegrina destinata a tornare al suo principio per mezzo della gnosi e dell’arte teurgica) s’inquadra agevolmente all’interno di quello schema metafisico che in Plotino troverà compiuta formulazione. D.M. Cosi BIBL.: sugli Oracoli sibillini: traduzioni: E. SUÁREZ DE LA TORRE, Oráculos Sibilinos, in A. DIEZ MACHO (a cura di), Apócrifos del Antiguo Testamento, Madrid 1982, vol. III, pp. 241-396; J.J. COLLINS, Sibylline Oracles, in J.H. CHARLESWORTH (a cura di), The Old Testament Pseudepigrapha, vol. I: Apocalyptic Literature and Testaments, Garden City 1983, pp. 317-472. Saggi e studi: V. NIKIPROWETZKY, La Troisième Sibylle, Paris-La Haye 1970; J.J. COLLINS, The Sibylline Oracles of Egyptian Judaism, Missoula 1974; L. BREGLIA PULCI DORIA, Oracoli sibillini tra rituali e propaganda, Napoli 1983; J.J. COLLINS, The Development of the Sibylline Tradition, in H. TEMPORINI - W. HAASE (a cura di), Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, Berlin - New York 1987, t. II, vol. 20., pp. 421-459; A. MOMIGLIANO, Dalla Sibilla pagana alla Sibilla cristiana: profezia come storia della religione, in «Annali della Scuola Superiore di Pisa», 17 (1987), pp. 407-428 (ed. ingl. From Pagan to the Christian Sibyl. Prophecy as History of Religion, in Nono Contributo, Roma 1992, pp. 725-744); H.W. PARKE, Sibyls and Sibylline Prophecy in Classical Antiquity, London - New York 1988; D.S. POTTER, Prophecy and History in the Crisis of the Roman Empire. A Historical Commentary of the Thirtheenth Sibylline Oracles, Oxford 1990; I. CERVELLI, Questioni sibilline, in «Studi Storici», 4 (1993), pp. 895-1001; I. CHIRASSI COLOMBO - T. SEPPILLI (a cura di), Sibille e linguaggi oracolari. Mito storia tradizione, «Atti del Convegno, Macerata-Norcia, settembre 1994», Pisa 1998. Sugli Oracoli caldaici: H. LEWY, Chaldaean Oracles and Theurgy, Mysticism Magic and Platonsim in the Later Roman Empire, ed. a cura di M. Tardieu, Paris 1978 (1956); ed. E. DES PLACES, Les Oracles Chaldaïques, in H. TEMPORINI - W. HAASE (a cura di), Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, Berlin - New York 1984, t. II, vol. 17.4, pp. 2299-2335; S.I. JOHNSTON, Hekate Soteira. A Study of Hekate’s Roles in the Chaldaen Oracles and Related Literature, Atlanta 1989; FR. GARCÍA BAZÁN, Oráculos caldeos, Madrid 1991; M. STAUSBERG, Faszination Zarathustra. Zoroaster und die europäische Religionsgeschichte der frühen Neuzeit, Berlin - New York 1998; C. VAN LIEFFERINGE, La théurgie. Des «Oracles Chaldaïques» à Proclus, Liège 1999. ➨ CULTO; MANTICA; RITO; TEMPIO.

ORALITÀ Oralità (orality; Oralitat; oralité; oralidad). – In filosofia, nelle scienze umane e nelle altre discipline che si occupano del linguaggio con

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il termine oralità si fa riferimento a due fondamentali ordini di problemi. SOMMARIO: I. Oralità e linguaggio. - II. Oralità e scrittura. I. ORALITÀ E LINGUAGGIO. – In primo luogo, si vuole indicare la caratteristica universale del linguaggio umano di manifestarsi attraverso la voce, quindi come produzione fonica. Le lingue naturali esistono primariamente in forma orale e il bambino apprende la lingua della comunità in cui nasce attraverso la comunicazione orale. Ciò pone importanti questioni di carattere biologico e fisiologico: lo studio della fonazione ha mostrato che quest’attività richiede un complesso coordinamento tra cervello e muscolatura e, d’altro lato, che essa si è sviluppata come funzione secondaria rispetto alla respirazione, condizionando fortemente l’evoluzione umana. Inoltre, la fonazione si collega e/o si oppone alla gestualità come modalità espressiva e si è a lungo dibattuto sulla relazione tra linguaggio orale e linguaggio dei gesti (particolarmente nella sua manifestazione sistematica quale «linguaggio dei segni» dei sordomuti). La fonetica e la fonologia, nelle loro diverse specializzazioni, si sono occupate di descrivere dettagliatamente le caratteristiche e le proprietà universali dei suoni linguistici e di capire il modo in cui essi acquistano un valore comunicativo specifico, anche in rapporto alla manifesta diversità delle lingue. Lo studio dei suoni linguistici ha riguardato anche il cosiddetto simbolismo fonetico e il problema dell’iconicità dei segni verbali. Onomatopee, legami e somiglianze tra suoni e rumori non linguistici e forma fonica delle parole che denotano un riferimento ad essi (o alle loro sorgenti) sono presenti in tutte le lingue e ripropongono l’attualità del problema sollevato già da Platone nel Cratilo della natura arbitraria o non arbitraria del linguaggio umano. II. ORALITÀ E SCRITTURA. – In secondo luogo, il termine oralità indica la modalità espressiva fonica del linguaggio in contrapposizione alla modalità scritta. La dicotomia oralità/scrittura attraversa tutta la cultura occidentale e costituisce anche attualmente uno dei temi più controversi. La prima formulazione sistematica si può trovare nel Fedro (274 b - 275 c) di Platone, in cui si immagina il dialogo tra il dio Theuth, inventore della scrittura, e il faraone Thamus. Theuth sostiene che la scrittura renderà gli uomini più sapienti poiché più capaci

Oralità di ricordare, ma Thamus è di opinione radicalmente contraria. Egli sostiene che la scrittura sarà un danno, poiché gli uomini cercheranno al di fuori di se stessi un aiuto per la memoria, per cui la memoria si indebolirà, e con essa le capacità introspettive. Il mito platonico ci consente di precisare i termini del problema dell’oralità. L’espressione del linguaggio mette in gioco più fattori complessi: in primo luogo, abbiamo la memoria e l’attenzione, che acquistano un valore e una funzionalità diverse a seconda della forma espressiva orale o scritta; inoltre, le produzioni linguistiche (i testi) che i parlanti elaborano sono anch’esse fortemente legate alla forma; infine, la vita psicologica e la stessa organizzazione sociale dipendono dalla prevalenza dell’oralità oppure della scrittura. In questo senso, Goody ha significativamente denominato lo scarto tra cultura orale e cultura scritta great divide, confermando l’opinione che il senso della storicità sia una conquista delle società in cui si è sviluppata la scrittura. Nel Novecento, l’indagine del rapporto tra oralità e scrittura è partita, in ambito filologico e storico-letterario, da un’approfondita riflessione sulla nascita della scrittura alfabetica nella Grecia antica e sui poemi omerici, originati nella cultura orale. Gli studi di Parry, Lord e Havelock hanno costituito la base della sintesi di Ong, che ha avuto grande risonanza. In Orality and Literacy: the Technologizing of the Word (London - New York 1982, tr. it. di A. Calanchi, Qualità e scrittura, Bologna 1986) Ong definisce culture a oralità primaria quelle che non conoscono la scrittura e culture chirografiche quelle che, invece, si fondano sulla scrittura. Nella cultura orale primaria, la memoria e il pensiero si devono modellare sul suono, in quanto le parole svaniscono dopo esser state percepite. L’udito acquista un valore preminente, in quanto assicura la percezione del suono e la sua interiorizzazione, con un’attività di sintesi. La parola scritta, al contrario, si basa su una rappresentazione spaziale esterna all’individuo e, quindi, porta a un atteggiamento analitico. I testi orali tendono ad essere paratattici invece che ipotattici, spesso ridondanti e ricchi di espressioni fisse e formulaiche. L’importanza della metrica si inscrive in questo quadro così come la caratteristica enfasi dei testi orali, rivolta a ottenere un impatto emotivo sull’ascoltatore e, perciò, una più facile memorizzazione. La memoria, inoltre, 8169

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Orano avrà un carattere cosiddetto omeostatico, tendente a eliminare i ricordi non legati alle situazioni contingenti; perciò, i testi orali faranno riferimento a tradizioni e fatti della vita concreta dell’uomo e il pensiero non sarà rivolto a ragionamenti astratti, particolarmente di carattere scientifico. I testi orali dovranno facilitare il ricordo e la narrativa sarà basata su legami immediati e non su complessi intrecci causali. Per Ong l’invenzione della scrittura ha trasformato il corso della storia umana, modificando in modo irreversibile le capacità cognitive. Nella cultura occidentale profondamente alfabetizzata, alcuni mezzi di comunicazione di massa hanno però ricreato una situazione di oralità secondaria, che incorpora elementi sia orali che chirografici. L’oralità secondaria si inscrive nella cultura scritta, ma presenta somiglianze con l’oralità primaria, poichè genera un senso di appartenenza alla comunità, una forte concentrazione sugli eventi e i fatti presenti e l’uso di stereotipi comunicativi. Nello strutturalismo la dicotomia oralità/scrittura è stata trattata in rapporto all’opposizione tra significato e significante introdotta da De Saussure e all’importanza attribuita all’espressione orale come significante fondamentale rispetto alla sussidiarietà della scrittura. In particolare, Derrida ha criticato la posizione saussuriana, considerando la scrittura non semplice elemento accessorio, meramente alfabetico, ma carattere originario della capacità semiotica umana di lasciare «tracce», che inscrivono in una dimensione spaziale permanente l’espressione linguistica e perciò fondano la possibilità di avere un sistema di comunicazione, come la lingua, basato su differenze. M. Castelli BIBL.: sulla natura orale del linguaggio e la descrizione fonetico-fonologica: R. JAKOBSON - M. HALLE, Fundamentals of Language, The Hague - Paris 1956; E. LENNEBERG, Biological Foundations of Language, New York 1967, tr. it. di G. Cabella, Fondamenti biologici del linguaggio, Torino 1971; R. JAKOBSON - L. WAUGH, The Sound Shape of Language, Brighton 1979. Sul simbolismo fonetico: E. SAPIR, A Study in Phonetic Symbolism, I: Homer and Homeric Style, in «Journal of Experimental Psychology», 12 (1929), pp. 225-239; R.W. WESCOTT, Linguistic Iconism, in «Language», 47 (1971), pp. 416-428. Sul rapporto tra oralità e scrittura: M. PARRY, Studies in the Epic Technique of Oral Verse-Making, II: The

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Homeric Language as the Language of an Oral Poetry, in «Harvard Studies in Classical Philology», 1930, pp. 73-147; M. PARRY, Studies in the Epic Technique of Oral Verse-Making, in «Harvard Studies in Classical Philology», 1932, pp. 1-50; H.M. MCLUHAN, The Gutenberg Galaxy, Toronto 1962, tr. it. di S. Aizzo, La Galassia Gutenberg, Roma 1976; E.A. HAVELOCK, Preface to Plato, Cambridge (Massachusetts) 1963, tr. it. di M. Carpitella, Cultura orale e civiltà della scrittura: da Omero a Platone, Bari 1973; J. DERRIDA, De la grammatologie, Paris 1967, tr. it. in AA.VV., Della Grammatologia, Milano 1969; J. GOODY, The Domestication of the Savage Mind, Cambridge 1977, tr. it., L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano 1981; R. BARTHES - E. MARTY, Orale/scritto, in Enciclopedia Einaudi, vol. X, Torino 1980, pp. 60-86; W.J. ONG, Orality and Literacy, London - New York 1982, tr. it. di A. Calanchi, Oralità e scrittura, Bologna 1986; P. ZUMTHOR, Introduction à la poésie orale, Paris 1983, tr. it. di C. Di Girolamo, La presenza della voce, Bologna 1984; E.A. HAVELOCK, The Muse Learns to Write, London - New Haven 1986, tr. it. di M. Carpitella, La musa impara a scrivere, Roma-Bari 1987; R. CARDONA, Antropologia della scrittura, Torino 19872; J. GOODY, The Interface Between the Written and The Oral, Cambridge 1987, tr. it. di P. Cesaretti, Il suono e i segni: l’interfaccia tra scrittura e oralità, Milano 1989; R. FINNEGAN, Literacy and Orality, Oxford 1988; R. CARDONA, I linguaggi del sapere, Roma-Bari 1990; A.B. LORD, Epic Singers and Oral Tradition, IthacaLondon 1991; L. BOLZONI - P. CORSI, La cultura della memoria, Bologna 1992.

ORANO, PAOLO. – Scrittore politico, n. a PeOrano rugia il 15 giu. 1875, m. nel campo di concentramento di Padula il 7 apr. 1945. Studioso di problemi del sindacalismo ruppe definitivamente col marxismo, cui in precedenza aveva aderito, in nome di un «proletariato nazionale», destinato poi a confluire nel fascismo. Sui rapporti fra chiesa e stato scrisse Cristo e Quirino (Foligno 19284). Si ricordano ancora di lui: Rinascita dell’anima (Bari 1913; 19213), e i due volumi Il fascismo (Roma 1931). Veemente ed irreconciliabile fu la sua opposizione all’idealismo di Gentile (Il fascismo, II, pp. 269, 280). Cfr. L. Salvatorelli - G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Torino 1959, pp. 465-466, 484. S. Contri

ORATIO (gr. lovgo"). – Nella logica formale Oratio classica, oratio è il discorso, la frase composta di più dictiones, l’espressione in cui le singole parti hanno un determinato significato appun-

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Orazio

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to in quanto parti di un tutto: «vox significativa ad placitum, cuius aliqua pars separata significat ut dictio, non ut affirmatio vel negatio» (Aristotele, De int., 4, 16 b 26 ss.; cfr.: Tommaso, In I Perí hermeneias, lezione VI). L’oratio si distingue in perfetta e imperfetta: la prima esprime un senso compiuto, tale da non lasciare sospeso chi ascolta (p. es.: «tutto è retto dalla divina provvidenza»); l’imperfetta, invece, non esprime un senso compiuto e lascia sospeso l’ascoltatore (p. es.: «se ti comporterai bene»; oppure: «uomo bianco» – per l’espressione senza verbo si parla di termine complesso). L’oratio perfetta si distingue in enunciativa, che esprime il vero o il falso, e in non enunciativa, dotata di senso compiuto ma non contenente il vero o il falso (non esprimente un giudizio), come la preghiera, l’imprecazione, il comando, l’interrogazione (cfr.: Aristotele, ibi, 17 a 2 ss.; Tommaso, ibi, lezione VII). L’oratio si dice soluta, se è una successione arbitraria di brevi frasi; perpetua, se è una sequenza sintatticamente lineare di proposizioni (cfr. H. Lausberg, Elementi di retorica, Bologna 1976, §§ 450-451). Red. ➨ DICTIO; GIUDIZIO; RETORICA.

ORAZI, CESARE DEGLI. – Pensatore antisensiOrazi sta vissuto nella seconda metà del Settecento. Insegnò a Roma nell’Archiginnasio della Sapienza. Rosmini lo giudicò filosofo non spregevole. Nel De universali methodo philosophandi officioque philosophi liber singularis (Romae 1778) combatte il sensismo e pone nella ragione il criterio della verità e dell’oggettività. A. Viviani BIBL.: B. POLI, Supplimenti a G. TENNEMANN, Manuale della storia della filosofia, Milano 18552, vol. IV, p. 835; E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Torino 19783, pp. 1005-1006.

ORAZIO FLACCO, QUINTO. – Poeta, n. a VenoOrazio sa nel 65 a. C., m. probabilmente a Roma l’8. a. C. I suoi primi studi nella scuola di grammatica furono sulla poesia arcaica latina, ma le tendenze meditative e riflessive della sua anima lo condussero alla filosofia. La sua prima iniziazione filosofica, ad Atene, intorno al 45 a. C., fu accademica; poi all’influsso accademico si accompagnò quello epicureo, senza che tra i due momenti si debba parlare di vera e propria contraddizione: infatti, nella prassi, en-

trambi gli indirizzi consigliavano la ricerca dell’intimità e l’amore per la libertà. Ma, nei difficili anni dopo il ritorno a Roma in seguito alla battaglia di Filippi, forse per reazione al suo scontento, l’epicureismo dovette tanto più sembrargli consolatore e benefico. Nelle Satire (scritte, come gli Epodi, tra il 40 e il 30 a. C.) la polemica antistoica è visibile, e la fede epicurea dichiarata: ciò nel senso di un equilibrio interiore, di una saggezza moderata nel vedere le cose, di una virtù semplice e sincera. Tali ideali di pace, di tranquillità e di misura, cui il suo spirito anelava, diventano generali, e trovano un’applicazione pratica nella politica di Augusto, quando questi si fa promotore di restaurazione morale. Questo periodo coincide con la composizione delle Odi (i primi tre libri furono pubblicati nel 23 a. C.; e l’ultimo, assieme al Carmen saeculare, circa sei o più anni dopo), nelle quali la saggezza riflessiva dell’epicureismo oraziano si fa ancora più profonda. Non è escluso che negli ultimi anni Orazio propendesse per le filosofie accademico-peripatetica e stoica. La sua ultima opera, le Epistole (in due libri), pur riprendendo gli argomenti delle Satire, se ne distanzia per il tono più pacato, alieno dal contrasto violento, e per i richiami a una più complessa sapientia. L’ultima delle Epistole, la cosiddetta Ars poetica, mentre risente di precetti del peripatetico Neottolemo di Pario, polemizza con le posizioni dell’epicureo Filodemo, patrocinando un tipo di poesia ricca di saggezza e di grandi ideali. La poetica di Orazio è di carattere edonistico e didascalico: i poeti hanno il compito di giovare e dilettare, unendo l’utile al piacevole. La poesia è frutto più di studio e di elaborazione dottrinale e tecnica che d’ingegno e d’ispirazione: un canone, questo, predicato e praticato dall’arte ellenistica. L. Alfonsi BIBL.: G. CRISPINO, Le idee morali ed educative di Orazio, Napoli 1935; C. BIONE, Orazio e Virgilio, Firenze 1936; C. DIANO, Orazio e l’epicureismo, in «Nuova Antologia», 1595 (1938); E. BODIERO, Orazio e la filosofia, in Studi, saggi ed elogi, Padova 1941; W. WILI, Horaz und die Augusteische Kultur, Basel 1948; H. DREXLER, Horaz. Lebenswirklichkeit und ethische Theorie, Göttingen 1953; F. KLINGNER, Römische Geisteswelt, München 1956, pp. 309-400; E. CASTORINA, Poetica e poesia in Orazio, Bari 1964; E. CASTORINA, La poesia d’Orazio, Roma 1965; G. PASQUALI, Orazio lirico, Firenze 1966; A. LA PENNA, Orazio e l’ideologia del principato, Torino

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Ordinamento giuridico 1974; E. FRAENKEL, Horace, Oxford 1980, tr. it. a cura di S. Lilla, Orazio, Roma 1993; A. LA PENNA, Saggi e studi su Orazio, Firenze 1993; A. ROSTAGNI, Orazio, Venosa 1994.

ORDINAMENTO GIURIDICO (legal order; Ordinamento giuridico Rechtsordnung; ordre juridique; ordenamiento jurídico). – Con l’espressione ordinamento giuridico, spesso utilizzata quale sinonimo di diritto, si designa il carattere ordinativo della giuridicità, all’un tempo intesa come comportamento disciplinato conforme alla norma e come misura o criterio ordinante. Nell’uso corrente «ordinamento giuridico» riconduce anche a un modello per così dire frazionario costituito dall’insieme di condotte il cui incontro tende a realizzare l’ordine di una data società. In questa chiave è possibile distinguere il diritto di una determinata struttura sociale e politica da quello di un’altra indagandolo sincronicamente e diacronicamente. Dalla concezione di diritto alla quale ci si rifaccia discende anche l’idea di ordinamento giuridico. Nel corso del Novecento le due soluzioni più rilevanti sono state quelle rispettivamente avanzate da Hans Kelsen e da Santi Romano. La prima individua l’ordinamento come un sistema di norme gerarchicamente ordinate e giustificate da atti di posizione validamente emessi da organi legittimamente deputati a emanarle, fino a giungere alla norma fondante dell’intero sistema (peraltro giustificabile solo storicamente). La seconda identifica l’ordinamento con la struttura sociale organizzata che si istituzionalizza nel momento stesso in cui si rende effettiva. Queste due concezioni si sono venute, nella moderna cultura giuridica, intersecando e saldando, posto che nessuna norma è valida in sé dipendendo invece dalla validità dell’ordinamento, intesa nel senso di esistenza-vigenza-effettività. L’atto di posizione della regola si invera quindi nel riconoscimento concreto che ne fanno i consociati sia rispettandola sia violandola (peraltro nella consapevolezza di contraddire a un modello riconosciuto). Da qui il passaggio, ormai pacificamente condiviso, da una costituzione formale, come atto storicamente definito di un particolare assetto ordinamentale, a una costituzione materiale, intesa come modo d’essere concreto delle forze sociali e politiche che, nella continuità sempre variabile dell’esperienza giuridica, danno vita a un tessuto di rapporti rico8172

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nosciuti e condivisi. Non a caso la corte costituzionale italiana fa sempre più frequente riferimento al concetto di «diritto vivente», inteso come il risultato precettivo che, in un determinato momento storico, emerge dal modo concreto in cui l’ordinamento giuridico viene inteso dai consociati e dagli assetti istituzionali nel raccordo fra norme alle quali adeguare i comportamenti, criteri di valore che consentono di intenderne il significato, prassi attuate in nome di quelle norme e di quei valori. Il criterio unificante che permette di definire l’ordinamento giuridico come momento unitario di valutazione delle regole e dei modelli comportamentali, degli assetti istituzionali e dei criteri di valore operanti, in un determinato momento storico, con riferimento a una realtà sociale individuata, permette di superare le difficoltà che, nell’esperienza contemporanea, si riconducono all’intersecarsi delle fonti di produzione degli enunciati (norme interne e norme comunitarie, norme di derivazione autoritativa e norme di produzione privata o legate a prassi mercantili di rilievo internazionale) o al vario sovrapporsi di contesti sociali diversi. Il riferimento all’idea di ordinamento giuridico suppone necessariamente un’ottica unitaria che, sia pure a fini definiti, individui in chiave totalizzante il raccordo tra prassi, comportamenti, valutazioni individuali e collettive. È ben possibile quindi che, con riferimento a un soggetto determinato, si valuti alternativamente la sua collocazione nell’uno o nell’altro ordinamento giuridico in funzione del quadro di riferimento unitario (si pensi al cittadino battezzato che può essere considerato come parte sia dell’ordinamento giuridico dello stato sia di quello della chiesa). Al di là della frammentazione propria della moderna realtà giuridica, ogni ordinamento suppone (o quanto meno aspira a realizzare) un quadro sistematico unitario. La valutazione dell’ordinamento giuridico come sistema esprime quindi l’esigenza, sempre storicamente variabile, di intendere il diritto nel coordinamento fra le sue varie componenti riaffermando il criterio interpretativo del «nisi tota lege perspecta», cioè dell’impossibilità di intendere qualsiasi precetto se non nel raccordo sistematico con tutte le altre parti dell’ordinamento giuridico. In questo senso può dirsi che l’ordinamento giuridico è sempre anche ordi-

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ne potenziale, dinamicamente aperto ad arricchirsi di nuovi contenuti. N. Lipari BIBL.: H. KELSEN, General Theory of Law and State, Cambridge 1945, tr. it. di S. Cotta - G. Treves, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano 1952; N. BOBBIO, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino 1960; AA.VV., Il diritto come ordinamento, «Atti del X Congresso nazionale della Società italiana di Filosofia giuridica e politica» (3-5 ottobre 1974 Bari), Milano 1976; S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 19773 (1918); F. MODUGNO, s. v. Ordinamento giuridico, dottrine generali, in AA.VV., Enciclopedia del diritto, vol. XXX, Milano 1980; C. MORTATI, La costituzione in senso materiale, rist. Milano 1998. ➨ DIRITTO, TEORIA PURA DEL; ISTITUZIONE; ISTITUZIONALISMO; NORMA; VALIDITÀ, DIRITTO; COSTITUZIONE; SISTEMA GIURIDICO.

ORDINE (order; Ordnung; ordre; orden). – NelOrdine la sua accezione più generale e comune esprime il concetto di disposizione appropriata di cose. Ciò risulta anche dalle celebri definizioni: «Ordinem sic definiunt: compositionem rerum aptis et accommodatis locis» (Cicerone, De officiis, l. I, c. 40); «Ordo est parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio» (Agostino, De civ. D., l. XIX, cap. 13). Pertanto l’ordine include, come elemento materiale, una pluralità, e come elemento formale, un aspetto unificatore che permette di dare a quella pluralità una disposizione determinata. SOMMARIO: I. Pensiero greco. - II. Pensiero cristiano. - III. Lo sviluppo del concetto di ordine nella filosofia moderna e contemporanea.- IV. Nuovi concetti di ordine. I. PENSIERO GRECO. – Storicamente, la speculazione filosofica si è orientata fin dagli inizi verso la ricerca di un ordine cosmico che potesse soddisfare l’istanza strettamente razionale da cui prende le mosse la filosofia. L’esigenza unitaria, che spinge i presocratici alla ricerca dell’ajrchv, costituisce uno dei motivi dominanti di tale processo che, dapprima embrionale e indistinto, va assumendo, con l’affinarsi della potenza speculativa, posizioni sempre più esplicite. Anche se non vogliamo interpretare in senso teleologico l’espressione di Talete, riferitaci da Aristotele: De an., I, 5, 411 a 7, cfr. H. Diels (a cura di), Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 1903, 3 voll; poi a cura di H. Diels e W. Kranz, Berlin 1934-375, 1951-526 (rist. Zürich 1996), tr. it. di G. Giannantoni et al., I Presocratici. Testi-

Ordine monianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari 20048 (Bari 1969), 2 voll.: 11 A 22: «tutto è pieno di dei», dobbiamo però riconoscere che già in Anassimandro e in Anassimene (cfr. Diels cit.,12 A 9-18; 13 A 4-6, 11) si va delineando una dottrina abbastanza coerente intorno al concetto di ordine. Lo pseudo-lppocrate (De hebdomadibus, capp. 1, 2, 6; cfr. W. Kranz, Altionische Makro-Mikrokosmoslehre, in Vorsokratische Denker, II ed., Berlino - Francoforte sul Meno 1949, pp. 46-50) riferisce l’insegnamento di un ignoto esponente della stessa scuola, che descrive accuratamente come l’ordine del cosmo si riveli secondo sette articolazioni principali (ibi, p. 46: ou[twß oiJ tw'n xunpavntwn kovsmoi ejptamereva e[cousi th;n tavxin. Cfr. anche: W. Kranz, Kosmos als philosophischer Begriff frühgriechischer Zeit, in «Philologus», 1939; W. Jaeger, Die Theologie der frühen griechischen Denker, Stoccarda 1953, cap. 2, pp. 28-49, 226242). Tra i pitagorici, Filolao elabora attraverso la dottrina dei numeri (cfr. Diels cit., 44 A 1013; B 4, 5, 8, 11) e dell’armonia (ibi, B 6), una nozione di ordine che può essere rigorosamente determinata mediante rapporti matematici, e fonda una visione del mondo (kovsmoß), come complesso armonico universale, rimasta classica. In Eraclito (cfr. Diels cit., 22 B 1, 2, 5, 11, 14, 15, 114; W. Jaeger, op. cit., pp. 127-146, 270-277) si delinea, con tratti sufficientemente sistematici, la dottrina del Lovgoß, come principio ordinante, ragione e legge del mondo, che determina l’unità di tutti gli elementi cosmici verso l’affermazione di un ordine universale. Ma un’affermazione più esplicita di ordine si ha in Anassagora (cfr. Diels cit., 59 A 49, 55, 100; B 12) con la dottrina del Nou'ß, sostanza sottilissima (leptovtatoß), fornita di moto intrinseco e di conoscenza, la cui funzione specifica appunto è quella di ordinatore; tale funzione non sempre si attua in modo perfettamente coerente, come hanno notato Platone (Phaed., 97 b ss.) e Aristotele (Metaph., I, 4, 985 a 18), i quali però non risparmiano lodi ad Anassagora per aver egli affermato un principio intelligente come causa dell’ordine del mondo. La dottrina di Anassagora fornirà ai filosofi posteriori un tema ricchissimo per ulteriori approfondimenti e determinazioni. In Diogene d’Apollonia (cfr. Diels cit., 64 A 5, 8, 7, 19, 44; B 1, 2, 3, 4, 5, 8) è il tentativo di inserire nella cosmologia ionica (specialmente nella dottrina 8173

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Ordine di Anassimene) la concezione anassagorea del Nous, conferendole in tal modo una maggiore coerenza, ma esponendola, al tempo stesso, alle difficoltà del monismo ilozoistico (cfr. W. Theiler, Zur Geschichte der teleologischen Naturbetrachtung bis auf Aristoteles, Zurigo 1925). La dottrina di Diogene è passata con tutta probabilità nel Socrate di Senofonte (cfr. p. es. Memorabilia, I, 4, 6; IV, 3, 3-9), il quale fonda appunto sulla considerazione dell’ordine della natura la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Una prima sistemazione teoretica dell’abbondante materiale, elaborato specialmente da Anassagora e da Diogene d’Apollonia (chiamati «i pensatori teleologici»), intesa a stabilire speculativamente le condizioni di possibilità dell’ordine universale, si ha nella sintesi platonica. Platone riesce a connettere l’ordine al suo fondamento intelligibile, separandolo nettamente da ogni carattere di sensibilità e assicurando così il raggiungimento di quell’unità, alla quale, per l’interna esigenza della nozione di ordine, deve essere ricondotto il molteplice. L’intelligibile puro, o idea (ijdeva, ei\doß), è l’essere stesso, senza alcun miscuglio di forma estranea (aujto; o{ ejsti: Phaed., 75 d; cfr. 78 d, 79 d, 80 b; aujto; kaq´auJto; meq´auJtou' monoeidevß: Conv., 211 b; cfr. 210 a ss.; Phaed., 249 d - 250 c; Phaed., 74 a - 75 d, 76 e; Resp., V, 479 a - 480 A; VII, 532 a b); ad esso deve riportarsi l’apparente dispersione e la molteplicità delle cose sensibili, che ne sono partecipazione mevqexiß cfr. Phaed., 100 c, 101 c; Conv., 211 b; Resp., V, 476 d, 478 e), e imitazione (mivmhsiß; cfr. Soph., 265 a-b; Tim., 52 ab; per l’azione ordinatrice del Demiurgo, cfr. Tim., 37 d, 41 a). La concezione platonica ha un significato speculativo che trascende l’effettiva posizione del suo autore, il quale non ha potuto condurre a una piena coerenza logica la tesi relativa all’ordine universale, impeditone soprattutto dalla dottrina delle idee e dell’eternità della materia. Lo stesso limite storico si deve riscontrare nella dottrina di Aristotele. Questi individua innanzi tutto nell’ordine la caratteristica dei fenomeni naturali e vi assegna come causa la natura stessa (cfr. Phys., VIII, 1, 252 a 11: oujdevn ge a[takton tw'n fuvsei kai; kata; fuvsin hJ ga;r fuvsiß aijtiva pa'sin tavxewß; ibi, a 17; De Cae., III, 2, 301 a 4; II, 12, 293 a 2; Part. an., I, 1, 641 b 1823; Gen. an., III, 10, 760 a 31; IV, 4, 770 b 14; Rhet., I, 10, 1369 a 35); tra ordine e finalità può essere stabilito un rapporto reciproco talmen8174

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te evidente da non aver bisogno di dimostrazione esplicita (cfr. Part. an., I, 1, 641 b 18-25; 5, 645 a 23-26; De cae., II, 8, 289 b 25; 290 a 31; III, 2, 301 a 11). L’applicazione della nozione di ordine comporta una gamma che va dall’universo e dalle diverse parti dell’universo all’essere particolare; l’ordine reciproco delle diverse parti e le relazioni che le loro nature hanno scambievolmente costituiscono precisamente il bene dell’universo (bene che si riporta, in definitiva, al bello [cfr. Metaph., XIII, 3, 1078 a 31-32] e allo stesso ordine della finalità [cfr. Part. an., I, 5, 645 a 23-26; I, 1, 639 b 19-21]). Calando nelle cose l’idea platonica, Aristotele pone il fondamento metafisico dell’ordine, per cui l’essere risulta interiormente fissato, strutturato, determinato (genericamente e specificamente), cioè ordinato in se stesso e finalizzato, in modo da costituire un nucleo essenziale di realtà dal quale si irradiano rapporti molteplici e reciproci verso gli altri enti. L’unità ontologica di ciascun ente è data appunto dal suo contenuto intelligibile, mediante il quale l’apparente dispersione e sconnessione dei dati empirici assurge a significato intelligibile che la determina come «specie» (ei\doß; cfr. Phys., III, 3, 194 b 26; Metaph., V, 2, 1013 b 23; H. Bonitz, Index aristotelicum, Berlino 1870, 217 b 58 ss.). II. PENSIERO CRISTIANO. – Nel pensiero cristiano la visione di un ordine universale, fondato sull’approfondimento della realtà intelligibile, investe tutti gli aspetti del mondo e della vita; s. Agostino, oltre a riservare all’ordine una trattazione a parte (nel De ordine libri duo, in Migne, Patrologia Latina, 32, coll. 977-1020, intorno all’ordine universale e alla Provvidenza), elabora una dottrina della verità, cioè dell’intelligibile, nella quale è posto il fondamento più solido per una nozione coerente di ordine (cfr. Ch. Boyer, L’idée de vérité dans la philosophie de st. Augustin, II ed., Parigi 1941, capp. 2-3). La definizione agostiniana di ordine, riportata sopra, è stabilita in modo induttivo, esaminando le varie manifestazioni di ordine: «pax civitatis; ordinata imperandi atque oboediendi concordia civium; pax coelestis civitatis, ordinatissima et concordissima societas fruendi Deo et invicem in Deo. Pax omnium rerum, tranquillitas ordinis. Ordo est parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio» (De civ. D., l. XIX, cap. 13, n. 1).

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Questa disposizione appropriata di cose, in cui consiste essenzialmente l’ordine, suppone che ogni cosa sia già ordinata in se stessa, che realizzi cioè un elemento intelligibile conferitole da Dio (indicato da Agostino con i termini idea, forma, species, o anche modus o ordo: cfr. De diversis quaestionibus, 83, q. 46, 1-2; De natura boni, cap. 3): «Creator Deus non priore tempore fecit informem materiam, et eam postea per ordinem quarumque naturarum, quasi secunda consideratione formavit; formatam quippe creavit materiam» (De Genesi ad litteram, l. I, cap. 15, n. 12). Così gli esseri creati costituiscono una gerarchia di perfezioni e di rapporti (cfr. De civ. D., l. XII, c. 2: «Aliis dedit esse amplius, aliis minus; acque ita naturas essentiarum gradibus ordinavit») regolata appunto dall’ordine che esige la subordinazione dell’inferiore al superiore (questa dottrina ha un’ampia applicazione nel campo morale: cfr. p. es. De lib. arb., l. I, cap. 6, n. 15; cap. 8, n. 18; cap. 7, n. 16; De doctr. chr., l. I, cap. 27, n. 28; De civ. D., l. XV, cap. 22; l. XIX, cap. 12, n. 2; cap. 13, n. 1; cap. 23, n. 5). Ed è la stessa esigenza di questo ordine universale, scandito dalla gerarchia degli esseri, che, attraverso la dialettica della partecipazione, porta Agostino a una dimostrazione pienamente elaborata dell’esistenza di Dio (cfr. De lib. arb., l. II, capp. 3-15 e, in compendio, Conf., l. VII, cap. 17, n. 23; l. IX, cap. 10, n. 24). Una stupenda meditazione, nella quale può dirsi sintetizzata tutta la dottrina agostiniana sull’ordine, presenta Agostino nelle Confessioni (l. XIII, cap. 9): «In bona voluntate tua, pax nobis est. Corpus pondere suo nititur ad locum suum. Pondus non ad ima tantum est, sed ad locum suum. Ignis sursum tendit, deorsum lapis. Ponderibus suis aguntur, loca sua petunt. Oleum infra aquam fusum, supra aquam attollitur; aqua supra oleum fusa, infra oleum demergitur. Ponderibus suis aguntur, loca sua petunt. Minus ordinata, inquieta sunt, ordinantur et quiescunt. Pondus meum, amor meus; eo feror quocumque feror». Nella filosofia di Tommaso, in cui i motivi aristotelici, sottratti ai loro limiti storici per influsso del concetto di creazione, trovano pieno sviluppo, la dottrina dell’ordine occupa una posizione centrale. Un ampio commento dedica l’Aquinate al testo agostiniano: «Haec tria, modus, species et ordo, tamquam generalia bona, sunt in rebus a Deo factis» (De natura

Ordine boni, cap. 3 ; cfr. sopra), quando si chiede appunto «utrum ratio boni consistat in modo, specie et ordine» (Sum. theol., I, q. 5, art. 5 ; cfr. Ia-IIae, q. 85, art. 4; De veritate, q. 21, art. 6; C. Gent., l. III, cap. 97), tenendo presente, per la corrispondenza delle espressioni, il testo scritturistico: «Omnia in mensura et numero et pondere disposuisti» (Sap 11, 21). La dottrina che riguarda l’ordine è così espressa: «Ad formam autem consequitur inclinatio ad finem, aut ad actionem, aut ad aliquid huiusmodi; quia unumquodque, in quantum est actu, agit et tendit in id quod sibi convenit secundum suam formam. Et hoc pertinet ad pondus et ordinem» (Sum. theol., I, q. 5, art. 5); una ulteriore spiegazione si ha nel De verit. (q. 21, art. 6). In questi passi e in molti altri l’ordine compare nel suo aspetto statico-dinamico: l’aspetto statico è costituito dalla forma, per la quale ogni cosa è collocata nella propria specie secondo un determinato modo commisurato alla perfezione dell’essere; l’aspetto dinamico consiste nella estrinsecazione della perfezione formale propria a ciascun essere, cioè in quell’azione connaturale rivolta al conseguimento del fine interno dell’essere stesso. I due aspetti, statico e dinamico, sono intimamente congiunti, in quanto l’inclinazione che porta l’essere al conseguimento del proprio fine è quella che fa sì che la forma, affermandosi, si consolidi nel possesso della propria perfezione ontologica; altrimenti (se si negasse l’insidenza reciproca dei due aspetti) bisognerebbe ammettere l’assurdo di un essere interiormente sconnesso, in quanto indifferente (e, nel caso, per sua natura) a ciò che ne costituisce l’essenza. Ulteriori determinazioni circa il concetto di ordine vengono indicate da Tommaso in occasione del suo commento alla Fisica di Aristotele, dove ritorna costantemente il motivo fondamentale del finalismo della natura colto nella disposizione ordinata del tutto e delle parti (cfr. In II Phys., Iezione XIV, n. 510; In VIII Phys., lezione III, n. 2064; In I Phys., lezione I, n. 10). Nell’illustrare il concetto di provvidenza, Tommaso, dopo aver rilevato che «in rebus potest considerari duplex ordo: unus secundum quod egrediuntur a principio, alios secundum quod ordinantur ad finem», conclude: «Dispositio ergo pertinet ad illum ordinem quo res progrediuntur a principio [...]. Sed providentia importat illum ordinem qui est ad finem»; e nota 8175

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Ordine ancora, onde stabilire un nesso tra Ia dispositio e l’ordo ad finem, che questo «est fini propinquior quam ordo partium ad invicem, et quodammodo causa eius; ideo providentia quodammodo est dispositionis causa» (De veritate, q. 5, art. 1 ad 9um). E posto qui in luce il rapporto immanenza-trascendenza che presiede alla dialettica interna dell’ordine. L’ordine reciproco che lega le parti fra di loro (immanenza) realizza un fine (parziale) che è subordinato al fine del tutto, per cui le parti vanno oltre la loro disposizione reciproca (trascendenza), cioè verso un principio esteriore: «Quantumcumque ergo multitudinem invenimus ordinatam ad invicem, oportet eam ordinari ad exterius principium» (ibi, art. 3 ; cfr. In I Metaphysicorum, lezione II, nn. 41-42; In XII Metaphysicorum, lezione XII, nn. 2629-31). L’intera dottrina viene riassunta nel commento In I Ethicorum (lez. I, nn. 1-6), in cui, tra l’altro, è detto che l’ordine «quadrupliciter ad rationem comparatur. Est enim quidam ordo quem ratio non facit, sed solum considerat, sicut est ordo rerum naturalium. Alius autem est ordo, quem ratio considerando facit in proprio actu, puta cum ordinat conceptus suos ad invicem, et signa conceptuum, quia sunt voces significativae. Tertius autem est ordo quem ratio considerando facit in operationibus voluntatis. Quartus autem est ordo quem ratio considerando facit in exterioribus rebus, quarum ipsa est causa, sicut in arca et domo» (ibi, n. 1). (Per un’esposizione accurata della dottrina tomistica dell’ordine, cfr. in particolare: A. Silva Tarouca, Thomas heute, Vienna 1947; tr. it. Merlo, Torino 1949). III. LO SVILUPPO DEL CONCETTO DI ORDINE NELLA FILOSOFIA MODERNA E CONTEMPORANEA. – Nella filosofia moderna l’ordine viene gradatamente sottratto all’affermazione della trascendenza, legato ora al meccanismo dei processi naturali, ora alla funzione organizzatrice della ragione. Un indizio di questa mentalità può già riscontrarsi nella speculazione del Pomponazzi (cfr. De naturalium effectuum admirandorum causis sive de incantationibus, Basilea 1556), che, mentre si propone di giustificare l’ordine razionale del mondo, data la sua concezione deterministica, viene a limitare l’azione divina. Questa fondamentale nota deterministica, con una forte accentuazione in senso immanentistico, caratterizza il naturalismo rinascimentale. Per Telesio (cfr. De rerum natura iuxta 8176

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propria principia, Napoli 1586-87), il principio dell’autonomia della natura si può conciliare con un’azione divina che costituisce la garanzia dell’ordine naturale, in cui tutti i fenomeni sono determinati dalle azioni opposte del caldo e del freddo; per Bruno (cfr. Summa terminorum metaphysicorum, in Opera latina, IV, 101), Dio non si distingue dall’ordine naturale (un tentativo di riportare la molteplicità all’unità, ponendo così i presupposti di una dottrina dell’ordine, è contenuto nella trilogia De minimo, De monade e De immenso et innumerabilibus, con fondamenti animistici, magici e fantastici). Campanella, fedele alla fisica di Telesio per ciò che riguarda la preminenza della sensibilità, ritiene che l’azione divina va molto al di là di una semplice garanzia dell’ordine naturale, essendo la natura la statua e l’immagine di Dio (cfr. Epilogo magno e Del senso delle cose e della magia). Pertanto lo sbocco del naturalismo rinascimentale è l’eliminazione di ogni considerazione finalistica del mondo naturale. Dopo Leonardo, Galilei e Bacone, Cartesio rappresenta la fase conclusiva del processo che conduce gradualmente al ripudio delle forme sostanziali e al meccanicismo, nel quale il principio intelligibile di un ordine intrinseco viene sostituito col principio della deducibilità del concetto di una cosa da un’altra. Infatti «les connaissances qui ne surpassent point la portée de l’esprit humain, sont toutes enchaînées avec une liaison si merveilleuse, et se peuvent tirer les unes des autres par des considérations si nécessaires, qu’il ne faut point avoir beaucoup d’adresse et de capacité pour les trouver, pourvu qu’ayant commencé par les plus simples, on sache se conduire de degré en degré jusques aux plus relevées » (Recherche de la vérité, in Oeuvres, a cura di Ch. Adam e P. Tannery, Paris 1897-1913, vol. X, pp. 496-497). Ciò viene espresso sistematicamente nella VI delle Regulae ad directionem ingenii: il «semplice», a cui bisogna ricondurre il complesso e il confuso (per poi risalire sinteticamente al complesso), non è un universale, ma il primo anello di una catena deduttiva. A proposito di tale regola, Cartesio rileva: «Etsi nihil valde novum haec propositio docere videatur, praecipuum tamen continet artis secretum, nec ulla utilior est in toto hoc Tractatu: monet enim res omnes per quasdam series posse disponi, non quidem in quantum ad aliquod ge-

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nus entis referuntur, sicut illas Philosophi in categorias suas diviserunt, sed in quantum unae ex aliis cognosci possunt» (Regulae, VI, in Oeuvres, cit., vol. X, p. 381). Lo stesso carattere deduttivo si ritrova, interpretato immanentisticamente, nella speculazione di Spinoza, per il quale «forma verae cogitationis in eadem ipsa cogitatione, sine relatione ad alias debet esse sita; nec obiectum tamquam causam agnoscit, sed ab ipsa intellectus potentia et natura pendere debet» (De intellectus emendatione, ed. Gebhardt, II, p. 27); l’ordine, di conseguenza, non si connette ad un elemento trascendente e, come suo fondamento, non può avere che la legge del parallelismo psicofisico, la quale governa il mondo degli attributi e dei modi primitivi e derivati, così che «ordo et connexio idearum idem est hac ordo et connexio rerum» (Ethica, II, prop. 7). L’aspetto unificatore che caratterizza l’ordine viene privato, in tal modo, di una effettiva oggettività, in quanto per Spinoza l’unità è soltanto un modo di pensare «quo rem ab aliis separamus, quae ipsi similes sunt, vel cum ipsa aliquo modo conveniunt» (Cogitationes metaphysicae, I, 5). Né si può dire che il problema trovi una soddisfacente soluzione in Leibniz, nonostante che questi si sforzi costantemente di difendere le cause finali e affermi con energia il principio di ragion sufficiente. In realtà, questi elementi, indubbiamente favorevoli ad una concezione coerente di ordine, urtano col principio dell’armonia prestabilita (cfr. Monadologie, n. 51 ss.; Philosophische Schriften, ed. Gerhardt, III, pp. 121 ss., 607; IV, p. 498; VI, p. 620), la cui affinità col parallelismo spinoziano ripropone, oltre al problema del rapporto fra immanenza e trascendenza, il problema della conciliazione della necessità razionale con l’esistenza di una contingenza ontologica. Malgrado queste difficoltà, resta che, secondo Leibniz, per il «principio dell’ordine generale» (cfr. Lettre sur un principe général, ed. Gerhardt, III, p. 52), le monadi esistenti sono connesse tra di loro mediante una legge che le ordina in serie infinite e continue di cui la causa è la «ragione» universale trascendente: «Rationes igitur Mundi latent in aliquo, extramundano, differente a catena statuum seu serie rerum quarum aggregatum mundum constituit» (De rerum originatione, ed. Gerhardt, VII, p. 303). Nell’ambito di questa problematica leibniziana una correzione al concetto dell’ordine in fa-

Ordine vore della necessità è apportata da Wolff, per il quale l’ordine universale è da paragonarsi a quello di una macchina, con l’esclusione di una finalità intrinseca delle cose (cfr. Cosmologia generalis, Francoforte-Lipsia 1731; Vernünftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des Menschen, ivi 1719, nn. 333, 557, 561 ss.). In Kant, la nozione di ordine si collega al tentativo della terza Critica di superare l’alternativa fra causalità meccanica e finalità, posta dalle due Critiche precedenti. Nonostante che l’universale sia intuito nel particolare mediante l’applicazione della rispettiva categoria ai dati della sensibilità (giudizio determinante), la mente avverte, secondo Kant, la necessità che l’universale sia come sotteso al particolare (giudizio riflettente); tale necessità, tuttavia, non può essere espressa da un concetto, ma appunto solo nella dimensione del giudizio riflettente. Perciò l’intelletto (Verstand) e la ragione (Vernunft) trovano una specie di intermediario nella «facoltà di giudicare» (Urteilskraft), la quale è da considerarsi come una disposizione soggettiva, senza oggetto determinato, la cui inclinazione è di trattare di fatto la natura come se questa recasse una intelligibilità (o finalità: Zweckmässigkeit) immanente. Quanto si dice della finalità, si dice, insieme, dell’ordine che ne deriva: questo non può essere considerato appartenente alla scienza della natura, che richiede principi determinanti; appartiene, soltanto, alla critica del giudizio riflettente. Procedendo in tal senso è consentito giungere fino a considerare l’uomo «l’ultimo fine della natura sulla terra, in modo che rispetto a lui tutte le altre cose naturali costituiscono un sistema di fini» (Critica del giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, Bari 1938, p. 296). (Sulla posizione kantiana circa la nozione di ordine cfr. in particolare G. Siegmund, Naturordnung als Quelle des Gotteserkenntnis, Friburgo in Brisgovia 1950, pp. 104-119). La dottrina dell’ordine, con Hegel, s’inserisce nella più sistematica visione immanentistica. E, invero, l’impegno di riportare la molteplicità all’unità, cioè in definitiva, di assurgere a una certa interpretazione dell’ordine pervade intimamente tutto il pensiero hegeliano: impegno assolto nel riconoscimento della fondamentale identità di pensiero e di essere. Nelle Vorlesungen über die Beweise des Daseins Gottes (ed. Lasson, XIV), Hegel tende a conferire un significato puramente antropomorfico 8177

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Ordine

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al concetto di ordine implicato nella prova teleologica, in quanto tutte le prove dell’esistenza di Dio non sono puri prodotti dell’attività razionale, ma altrettanti gradi di sviluppo della coscienza religiosa nel suo dinamismo per sollevarsi dalle cose a Dio (cfr. H. Ogiermann, Hegels Gottesbeweise, Roma 1948). Cosi, p, es., la coscienza della struttura organica del corpo umano di fronte al mondo organico in cui è situato, come pure la coscienza del finalismo ad esso immanente (cui fa riscontro la corrispondenza armonica tra mondo organico e inorganico), costituiscono il punto di partenza della prova teleologica. In questo senso, Hegel, che pure critica Kant per non aver tenuto conto dell’esigenza unitaria (cfr. Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, §§ 56-60: ed. Lasson, V), si associa con entusiamo alle tesi fondamentali della Critica del giudizio relative al «regno dei fini» (cfr. Philosophie der Religion, I: ed. Lasson, XII, p. 216). Una consimile affermazione dell’ordine in senso fortemente immanentistico si può riscontrare anche nell’opera del Bergson, L’évolution créatrice (Parigi 1907), a cui fa eco Le Roy (cfr. L’exigence idéaliste et le faste de l’évolution, ivi 1928, pp. 42 ss.). Si potrebbe osservare tuttavia che proprio la condizione dell’ordine nel senso dell’idealismo immanentistico si trova chiusa entro una visione antropomorfica; mentre il carattere negativo che essa attribuisce alla realtà finita come tale toglie all’ordine ciò che garantisce la sua positività. La critica esistenzialistica metterà in luce le sconnessioni, le fratture, il disordine, che quella concezione non riesce a risolvere nel vincolo pacificante della sua unificazione dialettica, ma finirà per coinvolgere nella sua opposizione all’intellettualismo esagerato i capisaldi della posizione intellettualistica in quanto tale. Nella filosofia dell’esistenza, infatti, si ha una negazione radicale dell’ordine essenzialistico, l’ordine sorge dalla progettualità umana e di conseguenza appare esposto alle derive della contingenza. G. Giannini

IV. NUOVI CONCETTI DI ORDINE. – Il riconoscimento di un ordine intrinseco alle cose era legato nell’epoca premoderna alla metafisica della forma sostanziale come natura delle cose, mentre l’ordine universale era esplicitato nella teoria dei luoghi naturali, in un contesto di pensiero pervaso dal finalismo. Indubbiamente questa concezione dell’ordine è stata spez8178

zata dallo sviluppo della scienza moderna, che ha favorito una concezione meccanicistica, non lontana dall’antico atomismo, ma rinnovata dall’applicazione rigorosa della matematica e della geometria. Anche il vitalismo della prima biologia è stato contestato soprattutto dopo la scoperta dei meccanismi di feed-back, mentre Darwin ha messo in questione la finalità a livello del cosmo. Sul versante razionalistico l’ordine è stato stabilito soprattutto tra i concetti, sul modello del ragionamento deduttivo. La concezione aprioristica della conoscenza colloca solo nel soggetto umano il sorgere dell’ordine, del senso e del significato, una prospettiva ampliata ma non smentita dagli sviluppi totalizzanti di una storicizzazione idealistica della realtà, rovesciata ma non ripensata dal materialismo. La critica dell’idealismo e del materialismo storico e i nuovi contributi della fenomenologia hanno aperto la strada anche a una fenomenologia esistenziale nel primo Heidegger e nella filosofia di Sartre, critici di una concezione metafisica e onnicomprensiva dell’ordine della storia. È stato superato il soggettivismo che si basava sulla separazione di soggetto e oggetto, ma è stata ribadita la concezione dell’ordine fondata nella progettualità e libertà dell’esistenza individuale. L’essere-al-mondo è descritto come una connessione inscindibile di rinvii sensati e ordinati che caratterizzano il soggetto e il mondo umano nelle faccende quotidiane come pure nell’esperienza percettiva del mondo. In particolare M. MerleauPonty, sulla scia della psicologia della forma, insiste sulla priorità percettiva del tutto sulle parti e sulla priorità della struttura del comportamento vissuto rispetto alle sue analisi e ricostruzioni scientifiche sia di ispirazione empiristica che razionalistica. Alla fine di questo percorso le domande ultime sull’ordine nel mondo si orientano alla fenomenologia e alla storia e scienza delle religioni. Nella filosofia esistenziale il problema del senso della totalità è stato affrontato solo riguardo all’esistenza personale, sviluppando il concetto di anticipazione riferito alla propria morte, mentre il problema di un ordine o senso globale della realtà è stato trascurato. Anzi, anche in prospettiva teologica, R. Bultmann ha dichiarato «senza senso» la domanda sul senso totale della storia. Tuttavia, in controtendenza, W. Pannenberg, riprendendo

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Hegel, ha elaborato la problematica inaggirabile di un possibile senso totale della storia, ripensandola in chiave filosofico-teologica come anticipazione di un futuro ultimo ancora aperto. Sono piuttosto le scienze, in particolare la cosmologia fisica, a riproporre oggi su nuove basi il problema dell’evoluzione complessiva dell’universo e della sua origine e fine, a partire dall’ipotesi circa l’evento iniziale del bigbang. In questo contesto è stato formulato il «principio antropico» che, nella sua forma forte, richiede un’interpretazione finalistica della realtà. Anche la teoria dell’evoluzione, dopo la scoperta dei codici genetici, può a stento accontentarsi della spiegazione mediante «il caso e la necessità». Th. Dobzhansky ha sviluppato un concetto statistico di teleonomia che evita sia il caso che la necessità e si presta a concettualizzare una evoluzione biologica, orientata anche se non strettamente finalizzata. Anche l’etologia di K. Lorenz non si può facilmente accomodare a una mentalità meccanicistica. Ma la filosofia teoretica in ambito continentale non si occupa normalmente dei problemi emergenti nelle scienze, mentre W. Stegmüller ha fatto notare che ormai le scienze stanno affrontando quei «problemi di totalità» per i quali tradizionalmente si ritenevano competenti solo filosofia e teologia, esigendo così dei ripensamenti più accurati di queste problematiche. Anche l’emergenza ecologica pone oggi dei problemi di ripensamento filosofico, in quanto evidenzia un ordine ed equilibrio interno alla realtà naturale sia nelle singole entità ed ecosistemi, sia nel quadro d’insieme. Anzi, secondo diversi pensatori, l’ordine ecologico impone un rispetto morale dei suoi sistemi ed equilibri ed esige dall’umanità presente una presa a carico anche dell’umantià futura. Se poi pensiamo al fenomeno della globalizzazione e al concetto di rete, come ordine del complesso, che solo consente di pensare alle relazioni molteplici che articolano e unificano un mondo reale e virtuale sempre più comunicante, scorgiamo le più diverse modalità di ordine – anche senza soffermarci sulle riflessioni che riguardano l’ordine sociale e la dimensione normativa delle esigenze di giustizia cosmopolitica, oltre a tacere delle ricerche formali, logiche, matematiche e informatiche, che inventano o riconoscono i più diversi tipi di ordine

Ordine possibile. Il concetto di ordine si mostra quindi polimorfo, universale e pervasivo, e propriamente coestensivo a quello di realtà. G.L. Brena BIBL.: Oltre alle opere citate nel testo, cfr. F. KLIMKE, Der Monismus und seine philosophischen Grundlagen, Freiburg im Breisgau 1911; H. DRIESCH, Ordnungslehre, Jena 1923; H. RICKERT, Das Eine, die Einheit und die Eins, II ed., Tubinga 1924; E.A. PACE, The Concept of Order in the Philosophy of St. Thomas, in «The New Scholasticism», 1928, pp. 51-72; G. SCHULEMANN, Die Lehre von den Transzendentalien in der scholastischen Philosophie, Leipzig 1929; H. DRIESCH, Wirklichkeitslehre, Leipzig 1930; L. ANDRIAN, Die Stände-Ordnung des Alls, München 1930; A. MÜLLER, Struktur und Aufbau der biologischen Ganzheiten, Leipzig 1933; J. WEBERT, St. Thomas d’Aquin, le génie de l’ordre, Paris 1934; J. GOERTZ, Conceptus totalitatis in philosophia H. Driesch, Mödling 1934; A. BERR, Grössenordnungen des Lebens, München 1935; A. BRUNNER, Der echte Gegensatz, die Gestalt und die Seinsstufe des Biologischen, in «Scholastik»,1935, n. 10; A. MITTERER, Wandel des Weltbildes von Thomas auf heute, 2 voll., lnnsbruck 1935-36; D. FEULING, Hauptfragen der Metaphysik, Salzburg-Leipzig 1936; C. FECKERS, Die Harmonie des Seins, Paderborn 1937; A. SILVA-TAROUCA, L’idée d’ordre dans la philosophie de st. Thomas, in «Revue néoscolastique de Philosophie», 1937, pp. 341 ss.; H. CONRAD-MARTIUS, Ursprung und Aufbau des lebendigen Kosmos, Salisburg 1938; K. RAHNER, Geist in Welt, Innsbruck I939; H. KRINGS, Ordo. Philosophisch-historische Grundlegung einer abendländischen Idee, Halle 1941 (sono esposte le posizioni di Agostino, Alberto Magno, Tommaso e Bonaventura); C. BARENDSE, L’unité d’ordre, in «Proceedings of the Xth International Congress of Philosophy», Amsterdam 1949, pp. 417 ss.; A. CHOLLET, De la notion d’ordre, Parigi s. d.; B. COFFEY, The Notion of Order according to St. Thomas Aquinas, in «The Modern Schoolman», 1949, pp. 1-18; G. MARTIN, Wilhelm von Ochkam. Untersuchungen zur Ontologie der Ordnungen, Berlin 1949; L. OEING-HANHOFF, Ens et unum convertuntur, Münster 1953; F. KRUEGER, Zur Philosophie und Psychologie der Ganzheit, Berlin 1953; H. PICHLER, Über die Einheit und die Immanenz des Ganzen, in «Kantstudien», 1956-57, pp. 55-72; H.J. WRIGHT, The Order of the Universe in the Theology of St. Thomas Aquinas, Roma 1957; H. MEYER, Thomas von Aquin, Paderborn 19612, pp. 367-653; M. GUÉRARD DES LAURIERS, La hiérarchie métaphysique de l’ordre, in «Aquinas», 1962, pp. 206-29; I.M. RAMÍREZ, Doctrina s. Thomae Aquinatis de bono communi immanenti totius universitatis creaturarum, in «Doctor communis», 1963, pp. 41-68; I.M. RAMÍREZ, De ordine placita quaedam thomistica, Salamanca 1963 (importante); L. COUTURAT, Les principes des mathématiques, ripr., Hil-

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Ordine

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desheim 1965, cap. 3; AA.VV., The Concept of Order, London 1968. IV. W. PANNENBERG, Hermeneutik und Universalgeschichte, e Was ist Wahrheit, in Grundfragen systematischer Theologie, Göttingen 1967, tr. it. di D. Pezzetta, Ermeneutica e storia universale, e Che cos’è la verità, in Questioni fondamentali di teologia sistematica, Brescia 1975, pp.107-141 e 228-250; J. MONOD, Le hazard et la nécessité, Paris 1970, tr. it. di A. Busi, Il caso e la necessità, Milano 1970; K. LORENZ, Die Rückseite des Spiegels, München 1973, tr. it. di C. Beltramo Ceppi, L’altra faccia dello specchio, Milano 1974; TH. DOBZHANSKY, Chance and Creativity in Evolution, in F.J. AYALA - TH. DOBZHANSKY (a cura di), Studies in the Philosophy of Biology, Berkeley - Los Angeles 1974, pp. 307-337; H. JONAS, Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt am Main 1979, tr. it. a cura di P.P. Portinaro, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino 1990; J.D. BARROW - F.J. TIPLER, The Anthropic Cosmological Principle, Oxford - New York 1986; W. PANNENBERG, Schöpfungstheologie und moderne Naturwissenschaft, in H. DEUSER et al. (a cura di), Gottes Zukunft - Zukunft der Welt (Festschrift für Jürgen Moltmann zum 60. Geburtstag) München 1986, pp. 276-291; W. STEGMÜLLER, Hauptströmungen der Gegenwartsphilosophie, vol. III, Stuttgart 19878; E. AGAZZI, Filosofia della natura. Scienza e cosmologia, Casale Monferrato 1995. ➨ COSMOLOGIA; ECOLOGIA; GLOBALIZZAZIONE; PRINCIPIO ANTROPICO; TELEOLOGIA; VITALISMO.

ORDINE, Ordine

EMERGENZA SPONTANEA DELLO

(spontaneous order; spontane Ordnung; l’ordre spontané; orden espontáneo). – In un senso molto generale, l’ordine spontaneo può essere pensato come un concetto atto a dare una spiegazione di regolarità che si osservano in determinati contesti sociali, ma delle quali sembra poco ragionevole ritenere che siano state preordinate da un potere coercitivo superiore, in analogia con quanto appare dall’osservazione di determinati fenomeni naturali. In un senso più specifico, il concetto di ordine spontaneo trova origine nell’opera di quegli studiosi di matrice liberale che interpretano gli esiti sociali delle economie di mercato come il risultato non intenzionalmente perseguito dell’azione individuale. Tale tradizione di pensiero può essere fatta risalire a Bernard de Mandeville, David Hume e Adam Smith. Riprendendo l’idea centrale de The Fable of the Bees ([London 1705-29], a cura di F.B. Kaye, Indianapolis (Indiana) 1988, tr. it. a cura di T. Magri, La favola delle api, Roma 2002) di Ber8180

nard de Mandeville, seppure per trarne conseguenze etiche e politiche diametralmente opposte, Adam Smith usa la metafora della «mano invisibile» che guida il mercante a promuovere un fine che non è parte delle sue intenzioni per illustrare i benefici di un sistema di organizzazione degli scambi decentrato e impostato sulla divisione del lavoro. In tale accezione, l’ordine che si genera spontaneamente nel sistema è considerato un risultato che porta benessere ai membri della società, un benessere che per i pensatori della tradizione liberale è superiore a quello che si sarebbe potuto ottenere in modo pianificato, sebbene non necessariamente ottimo. Su questa tradizione illuminista anglosassone si innesca la tradizione austriaca avviata da Karl Menger, intesa a chiarire gli aspetti genetico-causali della formazione dell’ordine. Hume aveva osservato il carattere convenzionale dell’uso di monete d’oro e d’argento, accettate da ognuno in cambio di beni, non solo per il loro valore intrinseco, ma in parte per il fatto che ogni altro membro di una certa comunità le accetta a tal fine. Menger spiega l’emergere della moneta come un processo graduale che muove da una società basata sul baratto di beni, all’interno della quale gli individui si rendono conto che determinate merci risultano più facilmente scambiabili di altre, ovviando così alla necessità che lo scambio si realizzi solo ove vi sia la doppia coincidenza del bisogno degli individui che scambiano. È la considerazione del proprio benessere individuale, derivante da uno scambio delle merci più agevole, e non la presupposta consapevolezza della necessità di un bene di pubblica utilità, che porta a selezionare il bene che più di ogni altro ha caratteristiche di scambiabilità unanimemente riconosciute: tale bene è, per Menger, la moneta. In analogia con l’emergere della moneta, Menger distingue istituzioni organiche, che producono benessere collettivo senza essere state originate da una volontà comune, fra le quali include il linguaggio, la religione, la legge e il mercato, e istituzioni pragmatiche, prodotto della deliberazione e della volontà umana. A tale classificazione fa riferimento Friedrich von Hayek nel proporre la distinzione fra ordine spontaneo e ordine costruito, o organizzazione, accettata universalmente come una delle

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basi della filosofia sociale del pensiero liberale del Novecento. Hayek definisce l’ordine come «uno stato di cose in cui una molteplicità di elementi di vario genere sono in relazione tale, gli uni rispetto agli altri, che si può imparare, dalla conoscenza di qualche particolare spaziale o temporale dell’intero insieme, a formarsi aspettative corrette sulle altre parti di quell’insieme, o, almeno, aspettative che hanno una buona possibilità di dimostrasi corrette» (Law, Legislation and Liberty. Rules and Order, London 1973, tr. it. a cura di A. Petroni - S. Monti Bragadin, Legge, Legislazione, Libertà, Milano 1986, p. 49). Il processo sociale di generazione di regole condivise che sostanzia una situazione di ordine è, per Hayek, la trasformazione di consuetudini e atteggiamenti abitudinari degli individui in proposizioni esplicite e articolate accettate universalmente. Nel caso dell’ordine spontaneo tali proposizioni sono la risultante di una evoluzione adattiva non preordinata. La discussione ancora aperta fra gli studiosi di matrice liberale e i loro critici verte sulle proprietà di benessere attribuibili all’ordine spontaneo di mercato, e sull’impossibilità di principio, affermata da Hayek, di influenzare in senso migliorativo gli esiti dell’ordine con specifici atti dell’autorità di governo economico e politico. C. Zappia BIBL.: B. SMITH, The Tradition of Spontaneous Order, in «Literature of Liberty», 5 (1982), pp. 7-58; R. SUGDEN, The Economics of Rights, Cooperation, and Welfare, Oxford 1986; R. SUGDEN, Spontaneous Order, in «Journal of Economic Perspectives», 3 (1989), pp. 85-97.

ORDINE PUBBLICO (public order; öffentliche Ordine pubblico Ordnung; ordre public; orden público). – Il concetto di ordine pubblico si presenta di difficile inquadramento dogmatico, perché, pur esprimendo la primaria esigenza di ogni comunità politica di garantire le condizioni essenziali per lo svolgimento tranquillo e pacifico della vita sociale, il suo significato giuridico varia in relazione ai diversi settori del diritto positivo e risente delle caratteristiche del regime costituzionale di riferimento. Anzitutto, con riguardo alle sue modalità di applicazione, l’ordine pubblico assume una duplice valenza a seconda che esso venga in rilievo nel campo del diritto civile e del diritto internazionale privato o

Ordine pubblico in quello del diritto amministrativo e del diritto penale: nel primo caso l’ordine pubblico si pone come limite di efficacia per le manifestazioni di autonomia negoziale dei privati, rendendo illecita la causa del contratto ad esso contraria (art. 1343 c.c.), e per gli atti giuridici di uno stato estero (legge, sentenza, atto amministrativo), impedendo il ricorso alle ordinarie tecniche di rinvio agli ordinamenti stranieri; nel secondo caso l’ordine pubblico previsto dalle leggi di sicurezza e dalle leggi penali opera, a difesa degli interessi generali della collettività, come limite alle attività materiali che normalmente costituiscono esercizio di libertà fondamentali. Inoltre, sul piano dei beni giuridici che sono oggetto di tutela, occorre distinguere tra una concezione cosiddetta «materiale» di ordine pubblico (ordre dans la rue), che mira a preservare da ogni lesione o minaccia di lesione la sicurezza materiale di tutti i cittadini «nell’esplicamento delle loro forze riconosciute e protette dal diritto» (O. Ranelletti, La polizia di sicurezza, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, diretto da V.E. Orlando, vol. IV, Milano 1904, p. 438) – attraverso l’introduzione di specifici delitti a pericolo presunto e la previsione di un’attività amministrativa di tipo preventivo denominata polizia di sicurezza –, ed una concezione «ideale» di ordine pubblico, da intendere come «sistema coerente ed unitario di valori e di principi» dell’ordinamento giuridico (L. Paladin, Ordine pubblico, in Novissimo Digesto Italiano, XII, Torino 1965, p. 130) che deve essere salvaguardato nei rapporti sociali. Se nei regimi autoritari, come quello fascista, si accentua la tendenza a privilegiare l’ordine pubblico ideale, che diventa fonte di legittimazione di un generale potere di polizia nei confronti delle libertà civili e consente la repressione del dissenso politico ed ideologico, nei sistemi democratico-liberali, ai fini dell’individuazione delle limitazioni apponibili ai diritti fondamentali, prevale la concezione dell’ordine pubblico in senso materiale, di portata più limitata. Secondo la dottrina giuspubblicistica (G. Corso, Ordine pubblico nel diritto amministrativo, in Digesto disciplina pubblicistica, X, 1995, pp. 436 ss.), anche la Costituzione italiana del 1948 – non menzionando formalmente la nozione di ordine pubblico, ma scomponendo tale concetto nei suoi elementi costitutivi (incolumità, sicurezza, salute, buon costume), 8181

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Oressi ciascuno dei quali è assunto a limite soltanto di singole libertà (domiciliare art. 14, di circolazione art. 16, di riunione art. 17) –, ha sostanzialmente accolto il modello dell’ordine pubblico materiale. La giurisprudenza della corte costituzionale sembra, però, dilatare l’ambito applicativo dell’ordine pubblico qualificandolo come un «bene inerente al vigente sistema costituzionale» (sentenza n. 15 del 1973) e trasformandolo in un limite di tutti i diritti costituzionalmente garantiti; tuttavia, nelle sentenze più recenti la valutazione delle situazioni di pericolo e delle misure di protezione dell’ ordine pubblico viene effettuata dalla corte ricorrendo al criterio del bilanciamento «in concreto» tra i diritti di libertà e gli interessi pubblici e i valori che sono riconducibili al concetto di ordine pubblico. A partire dalla seconda metà degli anni settanta l’ordine pubblico, recessivo nella legislazione di polizia e nel codice penale per effetto dei nuovi principi costituzionali e delle pronunce della corte in tema di pluralismo ideologico e politico, acquista una nuova rilevanza nella legislazione penale cosiddetta d’emergenza ed assume la fisionomia di ordine pubblico «democratico», per giustificare un’ampia gamma di misure in difesa delle istituzioni democratiche dall’aggressione del terrorismo politico e della criminalità organizzata. Con la revisione del titolo V, parte II della Costituzione ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, la nozione di ordine pubblico viene espressamente inserita nell’elenco di materie riservate alla legislazione esclusiva dello stato (art. 117, comma 2, lettera h), in modo da riaffermare, nel contesto della riforma federale dell’ordinamento costituzionale, la centralità della disciplina nazionale in tema di sicurezza pubblica, anche se viene prevista la possibilità di attivare forme di coordinamento con le regioni (art. 118, comma 3). N. Gullo BIBL: S. ROMANO, Principi di diritto amministrativo, Milano 19123, pp. 244 ss.; G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, V, Le principali manifestazioni dell’azione amministrativa, Milano 1957, pp. 71 ss.; G. CORSO, L’ordine pubblico, Bologna 1979; G. CORSO, Ordine pubblico (diritto pubblico), in «Enciclopedia del diritto», vol. XXX, Milano 1962, pp. 1057 ss.; C. LAVAGNA, Il concetto di ordine pubblico alla luce delle norme costituzionali, in «Democrazia e diritto», 1967, pp. 359 ss.; A. CERRI, Ordine pubblico, II Diritto costituzionale, in «Enciclopedia giuridica», vol. XXII, Roma 1990; F.

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GALGANO, Diritto privato, Padova 19969, p. 261; M. MAZZAMUTO, Poteri di polizia e ordine pubblico, in «Diritto Amministrativo», 1998, pp. 441 ss.; G. CAIA, L’ordine e la sicurezza pubblica, in Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale, a cura di S. Cassese, vol. I, Milano 2003, pp. 157 ss.; D. DELLA PORTA - H. REITER, Polizia e protesta, Bologna 2003. ➨ MAFIA; TERRORISMO.

ORESSI (o[rexi"). – Termine aristotelico traOressi dotto in latino con appetitus, da ad-petere «tendere a», «desiderare». Indica la tendenza di ogni ente verso il suo fine o il suo bene. Per Aristotele è principio del movimento insieme all’intelletto pratico (distinto per fine da quello teoretico), il quale tuttavia non muove mai senza oressi, poiché «l’intelletto muove in quanto il suo principio è l’appetibile». L’oressi, potendo essere retta o non retta, come l’immaginazione, può muovere anche contro la facoltà razionale, mentre «l’intelletto è sempre retto». Oggetto dell’oressi è infatti l’appetibile, che può essere un bene reale o apparente (De an., 433 a 9 ss.; cfr. 431 a 12). I. Ramelli BIBL.: W. WRÓBLEWSKI, Die Seelenteilungslehre im Ethischen bei Plato & Aristoteles, in «Wissenschaftliche Zeitschrift Rostock», 37 (1988), pp. 7-11; M. RIEDENAUER, Orexis und Eupraxia. Ethikbegrundung im Streben bei Aristoteles, Würzburg 2000. ➨ APPETITO; APPETIZIONE; DESIDERIO; SFORZO; TENDENZA.

ORESTANO, FRANCESCO. – Filosofo, n. ad Orestano Alia (Palermo) nel 1873, m. a Roma nel 1945. Laureatosi in giurisprudenza presso l’università di Padova, trascorre poi un periodo di studio a Lipsia. Dopo alcuni lavori storici (Der Tugendbegriff bei Kant, Palermo 1901; Le idee fondamentali di F. Nietzsche nel loro progressivo svolgimento, ivi 1903; Comenio, Roma 1906; Rosmini, ivi 1908), Orestano elabora una propria teoria che esprime con I valori umani, Torino 1907, 2 voll., dove tenta una soluzione realistica e scientifica dell’etica attraverso quella connessione del valore con i rapporti funzionali in cui consiste l’atto morale al momento della valutazione. Tale realismo si consolida in senso positivistico e sociologistico con i Prolegomeni alla scienza del bene e del male, Roma 1911-1915, 2 voll. Dal 1907 è professore di Filosofia morale e di Storia della filosofia presso l’università di Pa-

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lermo, dove rimane sino al 1924; nello stesso anno viene nominato accademico d’Italia. Con i Nuovi principi, Roma 1925, tenta la fondazione di un superrealismo che possa incarnare la filosofia italiana allineata con il programma fascista di rinascita. Di fronte all’idealismo Orestano ripropone la realtà in sé, valida indipendentemente dal soggetto. La trascendenza dell’oggetto, poi, implica la trascendenza di Dio, quale garanzia suprema della validità degli oggetti stessi. A fronte del teismo cristiano, tuttavia, l’elogio della cattolicità e della patria sembrano prevalere sulla discussione razionale. Presidente dal 1931 della Società filosofica italiana, intende rappresentare la filosofia del regime. In seguito allo scontro tra neotomisti e attualisti, poi, si allontana da Gentile, allaccia rapporti con Carlini, Olgiati e altri, e propone come filosofia ufficiale un realismo cattolico italico. Organizzatore di congressi, rappresentante ufficiale della filosofia italiana all’estero, Orestano ne diventa il promotore con l’appoggio dell’Accademia d’Italia. Altre opere: Lezioni di filosofia morale, Roma 1905; Pensieri, Milano 19354 (1910); Corso di filosofia del diritto, Palermo 1924; Il realismo, Milano 1936, in collaborazione con monsignor Olgiati; Il nuovo realismo, ivi 1939. M. Laffranchi BIBL.: Opera omnia, a cura di C. Dollo - A. Di Stefano, Padova 1960-1969, 12 voll. Su Orestano: C. OTTAVIANO, Il pensiero di Francesco Orestano, Palermo 1933; F. SELVAGGI, Religione e filosofia in Francesco Orestano, in «La Civiltà cattolica», 106 (1945), pp. 157-167; R. DA CASTELBUONO, Francesco Orestano a un decennio dalla morte, in «Sophia», 23 (1953), pp. 139-155; C. DOLLO, Francesco Orestano grande filosofo italiano del sec. XX, in «Sophia», 24 (1956), pp. 297-299; C. DOLLO, Il pensiero filosofico di Francesco Orestano, Padova 1968; E. GARIN, La filosofia italiana di fronte al Fascismo, in O. POMPEO (a cura di), Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, Livorno 1985, pp. 17-40, 25-26.

ORESTANO, RICCARDO. – N. nel 1909 e m. Orestano nel 1989, insigne romanista, formatosi – per sua esplicita affermazione – alla scuola del padre, Francesco Orestano, dal quale apprese che i concetti possono essere buoni servitori, ma sono sempre cattivi padroni; di Salvatore Riccobono, dal quale apprese l’assurdità di considerare unità statica un mondo – come

Orfismo quello di Roma antica – che si svolge per secoli; di Giuseppe Capograssi, dal quale apprese la concezione del diritto in termini di esperienza giuridica. Gli aspetti fondamentali del suo pensiero storico-giuridico possono essere così sintetizzati: a) unità della conoscenza giuridica e conseguente superamento della tradizionale distinzione fra conoscenza scientifica e conoscenza storica del diritto; b) configurazione del sapere giuridico come sintesi inscindibile del profilo conoscitivo e del profilo operativo: conoscere per operare e operare conoscendo; c) postulazione di una invalicabile barriera fra conoscenza del giuridico (passato o presente) e conoscenza storica, imputabile al fatto che la prima coinvolge necessariamente la sfera del dovere essere (anche nel caso in cui abbia per oggetto il passato) e la seconda ha per oggetto soltanto quanto è stato; d) impiego degli schemi concettuali e dello stesso linguaggio del presente come imprescindibili strumenti di rilevazione, per comprendere e valutare le peculiarietà dell’esperienza giuridica del passato, avendo però cura – in conformità all’insegnamento di G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto (in Opere, Milano 1959, vol. I, pp. 605-606) – di non incorporarli e immedesimarli con i dati dell’esperienza storica esaminata. P. Cerami BIBL.: Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, Torino 1965; I fatti di normazione nell’esperienza arcaica romana, Torino 1967; Azione, diritti soggettivi, persone giuridiche: scienza del diritto e storia, Bologna 1978; Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987; Scritti, ed. a cura di M. Campolunghi - C. Lanza, Napoli 1998, voll. I-IV, con nota di lettura di A. Mantello (vol. I, pp. XV-LXXX).

OREXIS (o[rexi"). – Secondo Aristotele è uno Orexis dei tre elementi della conoscenza vera, insieme alla sensazione (ai[sqhsi") e al pensiero o intelletto (nou'" ). Nell’Etica Nicomachea (cfr. 1139 a ss.) la orexis si esprime tramite la ricerca (divwxi") e la fuga (fughv). E. Vimercati

ORFISMO. – Movimento religioso esoterico Orfismo dalla lunga storia, che comincia a manifestarsi in Grecia verso il VI secolo a. C., raggiunge l’acme di notorietà e d’influsso tra l’età ellenistica e i primi secoli dell’impero e sopravvive ancora nelle esegesi neoplatoniche in voga ad Ales8183

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Orfismo sandria al tempo di Olimpiodoro (VI secolo d. C.). La complessità dell’orfismo, che spesso viene definito semplicemente un «fascio di idee», si manifesta in tre fenomeni religiosi relativamente autonomi: l’utilizzazione di alcune tradizioni riguardanti la nascita, la vita, la discesa agli inferi di Orfeo, il potere del suo canto e la sua tragica morte; la produzione e diffusione di scritti attribuiti a Orfeo e di narrazioni teogoniche; l’elaborazione di alcune pratiche e regole di condotta alle quali devono conformarsi coloro che scelgono di vivere secondo il modo orfico. Tutto ciò sottende, con buona evidenza, una dottrina filosofica e religiosa, che va faticosamente ricostruita nella sua coerenza attraverso fonti assai diverse per epoca, natura e ispirazione, e spesso notevolmente contraddittorie. Oltre agli scritti, quasi sempre frammentari, attribuiti a Orfeo e alle teogonie «orfiche» (su cui v. sotto), possediamo, infatti, numerosi documenti che paiono doversi collegare a posizioni o dottrine orfiche (forse in Pindaro, certamente in Empedocle e nel pitagorismo, sicuramente, anche se contraddittoriamente, in Platone, e poi ampiamente in alcuni autori di età ellenistica e romana, specialmente nei neoplatonici e senza escludere alcuni padri della chiesa). Ma la ricerca archeologica ha recentemente messo a disposizione nuovi documenti, che paiono provenire direttamente dall’interno di antiche comunità orfiche, che testimoniano la presenza e l’importanza dell’orfismo fin da tempi assai antichi e che ne illustrano in modo più completo la natura. Alludiamo al papiro di Derveni (località vicina a Salonicco), scoperto nel 1962 all’interno di una tomba, che contiene ampi frammenti di un commento filosofico a una teogonia e a una cosmogonia orfiche, composto probabilmente prima del 400 a. C. e perciò indipendente da qualsiasi influenza platonica; alle cosiddette «tavolette in osso di Olbia» (città greca sul Mar Nero), scoperte nel 1978, che attestano l’esistenza nel V secolo a. C. di un gruppo di «orfici» e il loro specifico interesse per il dio Dioniso; e alle continue scoperte di nuove «laminette orfiche», che, accostandosi a quelle note fin dalla fine dell’Ottocento, hanno portato a nuove edizioni e a studi generali. SOMMARIO: I. Le tradizioni su Orfeo. - II. Gli scritti orfici. - III. Le regole della vita orfica. - IV. Le dottrine dell’orfismo. 8184

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I. LE TRADIZIONI SU ORFEO. – Secondo una delle versioni più antiche, il culto di Dioniso, dapprima contrastato, in Tracia, da Licurgo, re degli edoni, finì per trionfare, dopo la crudele punizione del nemico del dio. Orfeo, sacerdote di Apollo, citarista e cantore capace di trascinare con il canto uomini e fiere, venerava il Sole, quale manifestazione diurna del suo dio, sul monte Pangeo, salendo sulla cima nel corso della notte per esser il primo, all’alba, a salutare l’astro nascente. Dioniso, geloso, sollecitò contro Orfeo le sue seguaci, le bassàridi, che lo uccisero e ne smembrarono il corpo. La sua testa, staccata dal corpo, continuò per sempre a cantare profetizzando il futuro. Altre importanti tradizioni mitiche vedono Orfeo protagonista della spedizione degli argonauti e amante appassionato ma infelice della moglie Euridice, che non riuscì a strappare al crudele destino di morte che la legava all’Ade. Tutte queste tradizioni presentano Orfeo non come fondatore dell’orfismo, ma piuttosto come modello per i suoi adepti, come eroe benvoluto dagli dei, che rinnova su di sé l’esperienza del dio e che attraverso le pratiche rituali e il contatto con la morte (e oltre la morte) raggiunge il dono dell’essere in una misteriosa dimensione oltremondana. II. GLI SCRITTI ORFICI. – Al mitico personaggio, ritenuto in genere autentico scrittore vissuto qualche generazione prima di Omero, o ai suoi seguaci, venivano attribuite numerose opere, sulla cui genuinità disputavano già gli antichi. Si conserva il ricordo di una Catabasi, dei Discorsi sacri in 24 libri, dei Bacchici, dei Testamenti, attribuiti spesso a Onomacrito di Atene, contemporaneo di Pisistrato (VI secolo a. C.), il quale li avrebbe scritti e poi divulgati attribuendoli a Orfeo. Sotto il nome di Orfeo la tradizione tarda ha conservato alcune opere in esametri dattilici: i Litica, che trattano delle virtù e dei poteri magici delle pietre, gli Argonautica, sulla spedizione guidata da Giasone, opera probabilmente del X secolo che elabora materiali precedenti, e gli Inni, raccolti da un compilatore bizantino e di datazione e provenienza assai discusse, ma di certo non antiche. Questi 87 componimenti, preceduti da un proemio in cui Orfeo insegna a suo figlio Museo come bisogna pregare e a quali divinità è necessario rivolgersi, risentono evidentemente del sincretismo religioso che si diffonde a partire dall’epoca ellenistica e delle speculazioni

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neoplatoniche nelle loro forme estreme, tra i secoli IV e V d. C. L’antica tradizione della mitologia classica è qui filtrata da interpretazioni esoteriche e la forma liturgica di preghiera assume l’aspetto dello schema litanico, con le tipiche sequenze di epiteti divini e di nomi funzionali ossessivamente ripetute. Le diverse divinità, che vengono invocate perché concedano benefici (e perché la preghiera stessa fornisca sollievo alle pene degli uomini), appaiono ipostasi o manifestazioni di un’unica divinità suprema: questo tratto, insieme ad alcuni dettagli descrittivi, ha fatto ipotizzare una mutuazione dal cristianesimo o almeno forme di interdipendenza. La scoperta del papiro di Derveni ha rinnovato (e complicato) le conoscenze sulle teogonie e cosmogonie orfiche, di cui ci erano pervenuti pochi frammenti ascrivibili a diverse tradizioni distinte. Per trasformare l’ordine delle cose e per elaborare una genealogia alternativa dei poteri, gli orfici procedettero a riscrivere il divino (rispetto, per esempio, alla canonica sistematizzazione di Esiodo), in una serie di composizioni poetiche dallo stile raffinato. All’inizio, all’interno della sfera perfetta della notte primordiale, c’era la totalità, unicità e completezza di Phanes (detto anche Metis, Protogonos o Erikepaios), autonomo nella sua perfezione ma dalla conformazione corporea affatto irregolare (androgino, dotato di ali dorate, di quattro occhi, di voce di leone e di toro). Questa unità ideale degli inizi sfocia nella differenziazione attuale attraverso complessi processi di separazione e divisione. Si susseguono, infatti, cinque regni successivi e grazie all’intervento di una straordinaria profusione di divinità multiformi e di mostri polimorfici – che tuttavia assume senso dal suo stesso sviluppo interno – si giunge infine a Zeus, che dal suo grembo, guscio di un uovo le cui dimensioni sono quelle del «Tutto», partorirà Dioniso, il sovrano della sesta generazione divina. La differenziazione si manifesta anche a livello linguistico: tutte le cose esistevano già in precedenza, ma ricevettero il loro nome soltanto quando furono separate. Come si accennava, dopo la pubblicazione della laminetta di Hipponion (1973) si sono intensificate le scoperte e gli studi relativi a questa singolarissima classe di documenti. Si tratta di sottili lamelle d’oro, di piccolissime dimensioni, ritrovate (talvolta ripiegate) quasi

Orfismo sempre all’interno di sepolture, su cui sono incisi brevi testi in greco (simili tra loro, ma non identici, riconducibili, dunque, soltanto ipoteticamente a un archetipo comune), spesso in versi. Provengono dalla Magna Grecia e dalla Sicilia, ma anche da Creta, dalla Tessaglia e da altre aree comunque periferiche del mondo greco. Sono datate tra il V secolo a. C. e il III d. C. Variamente classificate in gruppi distinti dagli studiosi, contengono i nomi di numerose divinità, soprattutto dell’oltretomba (Persefone, Mnemosyne ecc.), descrivono l’itinerario che il defunto dovrà percorrere dopo la morte («c’è sulla destra una fonte»), alludono con linguaggio oscuro a riti da praticare in vita («capretto caddi nel latte») e a formule da pronunciare nell’aldilà («sono figlio della Terra e del Cielo stellato») e mostrano problematiche analogie e connessioni con il dionisismo. Ma soprattutto fanno trasparire una dottrina relativa alla caduta dell’anima, di natura e di origine divina, nell’involucro corporeo e nel ciclo delle rinascite, provocata da qualche indistinta colpa iniziale («ho pagato la pena per azioni non giuste»), e alla necessità della purificazione rituale per raggiungere, nell’aldilà, il destino di reintegrazione nel divino, espresso in alcuni casi dalla formula «da mortale sei diventato dio». III. LE REGOLE DELLA VITA ORFICA. – Costituivano elementi essenziali dell’esistenza degli orfici il rifiuto di ogni uccisione, l’astensione dai cibi carnei (e dalle uova), l’orrore per il sangue che macchia gli altari degli dei, la rinuncia ai piaceri sessuali, speciali regole relative al seppellimento. Variamente giustificate nelle fonti, queste norme si accompagnavano a ripetute pratiche di purificazione, rivolte, in linea generale, a tenere separata l’esistenza degli orfici da tutto ciò che è soggetto alla morte e alla corruzione. Con questi atteggiamenti il fedele finisce per rifiutare i valori dello stato e del suo sistema religioso, che propone poteri divini separati, divinità differenziate e una profonda distanza tra piano divino e piano umano. Lo stile di vita orfico, anche se non implica un radicale rifiuto del politeismo tradizionale, ne condanna, dunque, uno dei fondamenti rituali, il sacrificio, e la conseguente instaurazione dei legami sociali che si stabiliscono all’interno della comunità quando una vittima animale viene sacrificata sull’altare e la sua carne spartita in una cerimonia collettiva. 8185

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Organicismo IV. LE DOTTRINE DELL’ORFISMO. – Se è difficile, come si diceva, ricostruire nei dettagli le dottrine dell’orfismo, è possibile probabilmente coglierne gli elementi centrali nell’idea misteriosofica (e platonica) della caduta dell’anima divina nel corpo. Incarcerata o sepolta nel suo involucro materiale, essa aspira alla liberazione dal ciclo delle rinascite (con la dottrina della reincarnazione, o metempsicosi) e, attraverso le purificazioni, i riti e lo stile di vita, alla fuga dalla materialità e alla riunificazione con il divino. Questa fondamentale parentela con il divino appare sviluppo filosofico della più antica familiarità rituale con gli dei proposta dai riti di tipo misterico (come a Eleusi) e si fonda sopra un nuovo mito antropogonico: Dioniso fanciullo viene attirato con l’inganno dai malevoli titani, che infine lo uccidono, lo smembrano, ne cucinano le carni e le mangiano. Dalle ceneri della fulminazione con cui Zeus distrugge i titani sorge l’umanità, costituita, dunque, di una parte titanica, materiale, sensibile e soggetta alle passioni terrene, e di una parte dionisiaca, pura, celeste e del tutto innocente. Questa nuova antropogonia orfica propone una umanità «democratica» ed egualitaria nel suo possedere un’origine comune e in qualche modo universale, un’origine che si radica nel divino e si struttura lungo il nuovo asse verticale secondo cui si dispiega la consueta dialettica tra «Uno» (divino) e molteplice. Tutti gli uomini, indifferentemente, provengono dal medesimo evento mitico e la loro attuale esistenza terrena – in attesa della reintegrazione finale – è segnata dalla temporanea ma rovinosa presenza nel loro corpo di un elemento divino decaduto e per ora racchiuso. La coscienza di questa discendenza divina, oggetto della conoscenza sapienziale dell’orfismo, offre ora agli uomini una rivoluzionaria prospettiva di liberazione dalle angustie dell’esistenza mondana. D.M. Cosi BIBL.: oltre alla nuova edizione critica dei frammenti e delle testimonianze curata da A. BERNABÉ, Poetae Epici Graeci, parte II, fasc. 1: Orphicorum et orphicis similium testimonia et fragmenta, Monachii et Lipsiae 2004, si possono consultare alcune edizioni di singoli testi o raccolte di documenti: FR. VIAN, Les Argonautiques orphiques, Paris 1987; G. RICCIARDELLI, Inni orfici, Milano 2000; G. PUGLIESE CARRATELLI, Le lamine d’oro “orfiche”, Milano 2001 (1993); A. BERNABÉ - A.I. JIMÉNEZ SAN CRISTÓBAL, Instrucciones para el Más

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Allá. Las laminillas órficas de oro, Madrid 2001; R. JANKO, The Derveni Papyrus. An Interim Text, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», 141 (2002), pp. 1-62; F. JOURDAN, Le papyrus de Derveni, Paris 2003; G. BETEGH, The Derveni Papyrus, Cambridge 2004. Comode raccolte parziali: G. COLLI, La sapienza greca, Milano 1981 (1977); P. SCARPI, Le religioni dei misteri, vol. I: Eleusi, Dionisismo, Orfismo, Milano 2002. Rassegna bibliografica: M.A. SANTAMARIA ÁLVAREZ, Orfeo y el orfismo. Actualización bibliográfica (19922003), in «Ilu. Revista de ciencias de las religiones», 8 (2003), pp. 225-264. E inoltre: M.L. WEST, The Orphic poems, Oxford 1983, tr. it. di M. TORTORELLI, I poemi orfici, Napoli 1993; PH. BORGEAUD (a cura di), Orphisme et Orphee. En l’honneur de Jean Rudhardt, Genève 1991; A. MASARACCHIA (a cura di), Orfeo e l’orfismo, «Atti del Seminario nazionale. Roma-Perugia, 1985-1991», Roma 1993; L. BRISSON, Orphée et l’orphisme dans l’Antiquité gréco-romaine, Aldershot 1995; A. LAKS - G.W. MOST (a cura di), Studies on the Derveni Papyrus, Oxford 1997; M. TORTORELLI GHIDINI - A. STORCHI MARINO - A. VISCONTI (a cura di), Tra Orfeo e Pitagora. Origini e incontri di culture nerll’antichità, Napoli 2000; A.-F. MORAND, Études sur les Hymnes orphiques, Leiden-Boston-Köln 2001. ➨ ANDROGINIA; APOLLINEO E DIONISIACO; METEMPSICOSI; ORACOLI; PITAGORA; PITAGORICA, SCUOLA; PURIFICAZIONE.

ORGANICISMO (organicism; OrganismusgeOrganicismo danke; organicisme; organicismo). – Il termine organicismo designa la dottrina che assimila l’essere vivente, e per estrapolazione la natura, l’universo e la società, a un organismo. L’idea è già presente nella concezione finalistica di Anassagora, opposta al meccanicismo atomistico. Platone la riprende nel Timeo e nella Repubblica; in quest’ultimo dialogo, in particolare, propone l’analogia – poi di grande successo – della società come corpo umano, le cui parti concorrono al bene comune. Le idee di Platone sono state riprese prima nel periodo rinascimentale da Ficino, Bruno e Campanella, e poi dalla filosofia della natura di Schelling e dei romantici. In biologia teorica sono stati assertori dell’organicismo W.E. Ritter, J.S. Haldane, A.N. Whitehead, J.C. Smuts, B. Dürken, E.S. Russell, A. Meyer, J.S. Woodger, J. Needham, L. von Bertalanffy e altri. Ogni autore ne ha dato, comunque, accezioni e denominazioni in parte diverse, tra le quali quelle di «teoria organismica», «olismo», «dottrina della totalità».

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Elemento comune dell’organicismo è il «principio olistico», secondo il quale l’organismo vivente è un tutto, un’unità, una totalità organizzata finalisticamente, irriducibile alla semplice somma delle parti che lo compongono. Si oppone, pertanto, alle concezioni analiticosommative, secondo le quali il tutto è il semplice risultato della somma delle sue parti. Altra caratteristica dell’organicismo è il rifiuto di considerare l’organismo come una macchina (opponendosi in questo al meccanicismo) e la negazione di un «principio vitale» di carattere immateriale, come l’«entelechia» di Driesch, che governi l’organismo materiale. Per comprendere meglio l’organicismo bisogna considerare i motivi che ispirano tale posizione e che sono fondamentalmente tre: 1) L’opposizione all’argomento di Driesch, secondo cui, poiché la formazione di un organismo vivente e soprattutto la sua capacità di autoregolazione non possono essere dovuti alla sola causalità materiale (o fisica) delle strutture molecolari costituenti l’uovo, allora è necessario ammettere un «principio organizzatore». Molti organicisti o negano validità a questa argomentazione (come Needham), oppure (come Haldane, Russell, Dürken e altri), pur accettandola e ammettendo la necessità di un fattore di organizzazione, non ritengono però che esso debba essere di natura immateriale, come ha dedotto Driesch, bensì lo considerano di carattere fisico e immanente all’organismo stesso. 2) Il riconoscimento di un’organizzazione finalistica tra le parti che compongono un essere vivente, di una loro coordinazione in vista di un fine: la vita dell’organismo come un tutto unitario. Per spiegare la coesistenza e l’integrazione di molteplici organi e l’interdipendenza delle loro attività, gli organicisti hanno sostenuto la necessità di ammettere un «disegno», un «progetto» immanente allo stesso essere vivente e di gran lunga superiore a quello che un artefice può aver concepito per una macchina. Infatti, poiché considerano il puro «caso» del tutto insufficiente a spiegare l’esistenza delle strutture viventi e negano che esse siano la realizzazione del «disegno» di una mente divina, questi autori sono costretti ad ammettere come immanente nello stesso organismo vivente qualcosa che corrisponda a un «disegno finalistico». Ed è proprio la presenza intrinseca di questo «progetto» a far sì

Organicismo che l’organismo sia un «tutto» che è più della somma delle parti. Alcuni organicisti, ad es. Russell, asseriscono che anche Aristotele abbia usato un’argomentazione simile. Aristotele, infatti, ha percepito chiaramente il finalismo della natura e soprattutto dei viventi, ma non ne ha attribuito la causa a un Dio ordinatore; si comprende, allora, perché e in che senso abbia affermato che i viventi e tutti gli enti naturali hanno in sé la causa finale: non solo, infatti, obbediscono a una causalità efficiente per cui naturalmente tendono nello sviluppo a raggiungere un certo «termine» o «stadio terminale», ma hanno anche in sé, come immanente, qualcosa di corrispondente al «disegno» di un artefice. E tutti gli organicisti sono fortemente influenzati da questo tipo di argomentazione. 3) La concezione unitaria della dicotomia mente-corpo. Gli organicisti che usano questo argomento sostengono, in quanto dato primario della nostra introspezione, sia l’unità indivisibile dell’io psichico, sia l’identità dell’io psichico col corpo. Essi quindi attribuiscono anche al corpo quell’unità totale che riscontrano nell’io psichico. Nella storia della filosofia si sono avute più volte concezioni del mondo in cui quest’ultimo è stato inteso come un organismo. Tuttavia, è chiamata propriamente «organicistica» in particolare la filosofia della natura di Whitehead, il quale sostituisce all’atomo o materia-sostanza del materialismo l’evento, che, in tensione spazio-temporale, si costituisce in organismo con il sistema degli altri eventi. Si rinnova così il monadismo di Leibniz, sostituendo alla categoria di sostanza quella di relazione: ed è appunto questo universale «relazionismo» che rappresenta l’aspetto organicistico della natura di Whitehead (cfr. The Concept of Nature, Cambridge 1920). In psichiatria l’organicismo (orientamento noto anche come psichiatria biologica) assume connotazioni molto diverse: «organicistico» è, infatti, l’orientamento teorico che concepisce i disturbi psichici come malattie organiche, determinate cioè da fattori biologici come lesioni anatomiche, disfunzioni fisiologiche e alterazioni biochimiche. Vi si contrappone l’orientamento psicogenetico, che insiste al contrario sul ruolo dei fattori psichici di natura inconscia, esperienziale, sociale e culturale. 8187

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Organismo In sociologia è detta «organicistica» la teoria – sviluppatasi nella seconda metà dell’Ottocento e poi conclusa nella prima decade del Novecento – che assimila la società a un organismo vivente. Immagini analogiche del corpo sociale con il corpo umano sono state già espresse in filosofia politico-sociale; celebri sono le analogie di Platone e Aristotele, e l’apologo di Menenio Agrippa. La scuola sociologica organicistica, tuttavia, ha cercato di dare base scientifica al criterio bio-analogico, fondando la sociologia sulla biologia. Tra i più noti rappresentanti di questa scuola ricordiamo H. Spencer (Principles of Sociology, London 187685), P. Lilienfeld (Gedanken über die Sozialwissenschaft der Zukunft, Mitau 1873, 1881), A. Schäffle, Guillaume De Greef (Introduction à la sociologie, Bruxelles 1886; Structure générale des sociétés, Paris 1908), A. Espinas (Des sociétés animales, Paris 1877), R. Worms (Organisme et société, Paris 1896; Philosophie des sciences sociales, Paris 1903-1907; Principes biologiques de l’évolution sociale, Paris 1909). Uno strenuo oppositore del modello organicistico in sociologia è stato, invece, Durkheim, che condanna come superficiali e puramente verbali le analogie invocate da questi autori. È opportuno ricordare, però, come già Spencer e Schäffle riconoscessero il carattere solo analogico e spesso inadeguato di tale modello esplicativo; l’organismo sociale, infatti, non corrisponde in senso stretto all’organismo animale, se non altro per le complesse implicazioni psicologiche del primo. In ogni caso, il principale interesse dell’organicismo consiste nella sua visione dell’organismo vivente e sociale come qualcosa di diverso dalla semplice giustapposizione delle parti. Nella politica e nel diritto, per organicismo politico si intende una dottrina che, estendendo all’ambito politico categorie proprie del mondo naturale, considera la società e lo stato come «organismi», nei quali le parti esistono soltanto in funzione del tutto. L’organicismo si oppone pertanto essenzialmente al giusnaturismo, sia perché concepisce la società come una totalità organica di membri anziché un aggregato meccanico di individui indipendenti, sia perché afferma la priorità del tutto sulle parti anziché sostenere il valore incondizionato dell’individualità. F. Barbano - G. Blandino - P. Palmieri - A.M. Ferreri

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BIBL.: L. VON BERTALANFFY, Kritische Theorie der Formbildung, Berlin 1928; W. MAC DOUGALL, The Riddle of Life, London 1938; M. MAROTTA, Organicismo e neoorganicismo, Milano 1959; G. BLANDINO, Problemi e dottrine di biologia teorica, Torino 1960; D. MARTINDALE, The Nature and Types of Sociological Theory, Boston 1960, tr. it. di N. Greggi - G. Piazzi, Tipologia e storia della teoria sociologica, Bologna 1968, parte 2ª: L’organicismo positivistico, cc. 3-5; D.C. PHILLIPS, Holistic Thought in Social Sciences, Stanford 1976, tr. it. di E. Riverso, Organicismo e riduzionismo nelle scienze naturali e sociali, Roma 1980; E. MAYR, The Growth of Biological Thought. Diversity, Evolution and Inheritance, Cambridge (Massachusetts) 1982, tr. it. a cura di P. Corsi, Storia del pensiero biologico, Torino 1990; R. FONDI, Organicismo ed evoluzionismo: intervista sulla nuova rivoluzione scientifica, Padova 1984; M. KRIEGER, A Reopening of Closure: Organicism against Itself, New York 1989; C. POGLIANO, Mistero o semplicità: la difficile scelta, in La parte del tutto, saggi sull’olismo, Udine 1992; J. KIRK, Organicism as Reenchantment: Whitehead, Prigogine, and Barth, New York 1993; P. DURIS - G. GOHAU, Histoire des sciences de la vie, Paris 1997, tr. it. di P.D. Napolitani, Storia della biologia, Torino 1999; E. SHORTER, A History of Psychiatry, New York 1997. ➨ ORGANISMO.

ORGANISMO (organism; Organismus; orgaOrganismo nisme; organismo). – È il nome che si applica in senso stretto ai corpi viventi, definiti appunto organici in contrapposizione a quelli non viventi (inorganici). La ragione di questa denominazione era inizialmente dovuta alla struttura stessa dei corpi viventi: essi, infatti, sono costituiti da molte parti che, pur tra loro diverse per struttura e funzioni, servono al tutto in modo da sembrarne semplici strumenti: da qui il nome di organismo come insieme di «organi», termine che in greco significa appunto strumento. L’organismo è dunque un aggregato di parti che «servono al tutto», che operano per la sopravvivenza dell’individuo e della specie; ed è questa la caratteristica essenziale e irriducibile che distingue l’organismo, o corpo vivente, da ogni corpo inorganico. Organismo è, perciò, l’unità vivente composta da parti che, pur compiendo funzioni diverse, concorrono al funzionamento del tutto. Una chiara definizione di organismo come essere vivente dotato di una precisa finalità immanente la si trova già in Aristotele. Nel suo pensiero, infatti, la scienza della natura si occupa della composizione e della totalità della sostanza, e non delle parti che non possono

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esistere separatamente dalla sostanza stessa. L’intera struttura dell’organismo, per Aristotele, è subordinata alla sua funzione, cioè al suo fine di sopravvivere come organismo; ed è da questo principio che deriva poi quello della subordinazione delle parti al tutto. È proprio questa «subordinazione delle parti al tutto», determinata dalla struttura finalistica dell’organismo, che è diventata la caratteristica fondamentale dell’organismo da Aristotele in poi: infatti, dal momento che l’organismo nella sua totalità deve essere adatto al suo fine e subordinato ad esso, le parti dell’organismo devono essere subordinate alla totalità dell’organismo stesso. Nel filosofia cartesiana l’organismo è equiparato a una macchina. Con questo, tuttavia, Cartesio non intende negare la finalità dell’organismo; vuole, invece, asserire che la struttura finalistica dell’organismo dipende non da una forza esterna, ma dalla coordinazione delle sue parti, cioè dalla sua organizzazione interna. Anche in Leibniz, che ha fortemente insistito sull’ordinamento finalistico dell’universo, l’organismo è assimilato a una macchina, nel senso però di «macchina divina», dominata da una monade centrale o dominante, che, nell’uomo, è di natura razionale (spirito in senso stretto); come l’uomo, ogni altro organismo ha una entelechia dominante (Monadologie, 64). È solo con Kant che la finalità di una macchina è distinta da quella dell’organismo: nel caso della macchina, infatti, ogni parte che la costituisce è lo strumento che serve al movimento delle altre, ma non ne può essere la causa efficiente, che deve necessariamente risiedere all’esterno; nell’organismo, invece, ogni parte è al tempo stesso causa ed effetto l’una rispetto all’altra, e tutte rispetto alla totalità dell’organismo. Se per Kant il finalismo intrinseco dell’organismo fa passare in secondo piano il finalismo complessivo della natura, le speculazioni della filosofia romantica sull’organismo tendono a risolvere la finalità intriseca dell’organismo in quella dell’intero universo. Espressioni tipiche di questo orientamento, in cui il finalismo dell’organismo è appunto dissolto nel finalismo cosmico, sono ad es. l’idealismo di Schelling e di Hegel, e il pensiero di Bergson, che vede nell’organismo il risultato di uno slancio vitale. In opposizione a questo orientamento

Organismo di pensiero, in cui emerge una disposizione finalistica di tutta la natura, Hermann Lotze vede nell’organismo una direzione e combinazione di processi meccanici (Kleine Schriften, Leipzig 1885), non precludendosi però una interpretazione spiritualistica del reale secondo l’orientamento leibniziano. Vale la pena di evidenziare, comunque, come il dibattito tra finalismo e meccanicismo, o tra materialismo e vitalismo, non abbia influito significativamente sul concetto di organismo e sui suoi attributi. Oggi, comunque, in biologia si tende a evitare l’antitesi tra meccanicismo e finalismo, restando valida invece la necessità del concetto di totalità per la comprensione dell’organismo. Da questo punto di vista l’organismo è considerato come una macchina dotata di unità funzionale, coerente e integrale. In psicologia, il termine organismo è stato introdotto nella sua accezione moderna da E. Ebbinghaus, che definisce lo studio della psicologia come quello rivolto appunto allo «studio della formazione e delle funzioni di un organismo, di un individuo organizzato» (1897). A partire dalla fine del XIX secolo (ad es. con W. James e il funzionalismo americano), si è andato delineando un orientamento psicologico che considera il corpo e la mente come un tutto unico e integrato, analogamente a quanto è avvenuto in biologia generale con le teorie olistiche od organicistiche. A questo stesso orientamento psicologico si ricollega, oltre la medicina psicosomatica, anche in parte la psicologia della forma. Il più autorevole rappresentante di questa impostazione è però Kurt Goldstein (The Organism, a Holistic Approach to Biology derived from Pathological Data in Man, New York 1939), che presenta una teoria integrata e globale dell’organismo (olismo): secondo Goldstein, l’organismo è una organizzazione dinamica di funzioni somatiche e psichiche, che non possono essere considerate separatamente ma solo nella loro interazioneintegrazione nel processo di «accomodamento» con l’ambiente; in tale prospettiva, la personalità è un’organizzazione costantemente in evoluzione e in trasformazione, sorgente di motivazione e autoregolantesi, con un carattere di unicità. Tuttavia, vi sono altri indirizzi simili a quello di Goldstein per la centralità assegnata al concetto di organismo. Tra questi, meritano di essere ricordati in particolare la psicologia della 8189

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Organizzazione

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personalità di Andras Angyal (Foundations for a Science of Personality, New York 1941), l’approccio centrato sulla persona di Carl R. Rogers (autore di una «teoria del sé» organismica e olistica), la psicobiologia di A. Meyer e Ia «teoria biosociale» di Gerard Murphy. G. Pedrazzini - A.M. Ferreri BIBL.: J. LOEB, Organisms as a Whole, from a PhysicoChemical Viewpoint, New York 1916; M. MCCLURE, On Organism, Canton (New York) 1974; L. MECACCI, Storia della psicologia del Novecento, Roma-Bari 1992; T. RACHWAL - T. SLAWEK (a cura di), Organ, Organisms, Organizations: Organic Form in 19th-Century Discourse, Frankfurt am Main-New York, 2000; J.S. TURNER, The Extended Organism: The Physiology of Animal-Built Structures, Cambridge (Massachusetts) 2000; F.W. COKER, Organismic Theories of the State: Nineteenth Century Interpretations of the State as Organism or as a Person, Kitchener (Ontario) 2001; R.C. LEWONTIN, The Triple Helix: Gene, Organism, and Environment, Cambridge (Massachusetts) 2001. ➨ MEDICINA PSICOSOMATICA; ORGANICISMO; ORGANO; PSICOLOGIA DELLA FORMA.

ORGANIZZAZIONE (organisation; OrganiOrganizzazione sation; organization; organización). – In sociologia, gruppo sociale caratterizzato da una forte istituzionalizzazione dei ruoli e delle posizioni, e quindi delle relazioni sociali al suo interno. Le organizzazioni sono solitamente delle aggregazioni di persone vaste e complesse (per. es.: un’azienda industriale), che non potrebbero sopravvivere né raggiungere i propri scopi se non fossero basate su una rigida istituzionalizzazione dei comportamenti. Le loro caratteristiche peculiari sono fondamentalmente tre: un fine collettivo (lo «scopo» dell’organizzazione); una rigorosa divisione dei compiti (la «divisione del lavoro»); una formale attribuzione di ruoli («posizioni» in un organigramma). Questa marcata istituzionalizzazione fa sì che le interazioni all’interno dell’organizzazione siano essenzialmente impersonali, cioè dettate dai rapporti tra le posizioni (per es. tra la posizione del dirigente e quella dell’impiegato), non dalle caratteristiche individuali di chi di volta in volta le ricopre. In tal modo si produce una liberazione dell’azione collettiva dalle peculiarità dei singoli individui di cui la collettività è composta, e in ciò sta la fondamentale razionalità delle organizzazioni sociali. Red.

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ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE Organizzazione internazionale (international organisation; internationale Organisation; organisation international; organización internacional). – Il fenomeno dell’organizzazione internazionale ha conosciuto un periodo di notevole espansione in tempi recenti, a causa dell’intensificarsi delle relazioni internazionali, tanto sul piano interstatale, tanto sul piano interindividuale. Al suddetto fenomeno sono infatti riconducibili sia l’istituzione di organizzazioni internazionali governative – si pensi alle Nazioni Unite (ONU) o all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) sul piano universale, e all’Unione Europea (UE) su scala regionale – sia il proliferare di organizzazioni internazionali non governative. Se queste ultime si definiscono internazionali solo per il fatto che gli individui o i gruppi di individui che ne costituiscono il sostrato hanno la nazionalità di più stati, le prime sono associazioni fra stati, volte al perseguimento di scopi ad essi comuni e costituite tramite atti di diritto internazionale, quali i trattati. Per il minor grado di centralizzazione che le caratterizza e per l’assenza di apparati autonomi di coercizione, le organizzazioni internazionali governative si distinguono inoltre dalle unioni costituzionali di stati, p. es. dagli stati federali. Gli organi delle organizzazioni internazionali governative risultano classificabili come organi di stati, di individui, o di popoli, a seconda che siano formati da rappresentanti dei governi degli stati membri, da rappresentanti dei popoli di tali stati, da individui indipendenti. Fra questi, quelli dotati dei poteri normativi più rilevanti (che si traducono nell’adozione di atti vincolanti gli stati membri) sono, in prevalenza, organi di stati – come il consiglio di sicurezza dell’ONU e il consiglio dell’unione europea –, benché non manchino esempi di organi di individui con competenze normative certamente significative – come, p. es., la commissione UE. Gli organi direttamente o indirettamente eletti dai popoli degli stati membri sono invece sprovvisti, in linea generale, di simili competenze, pur potendo svolgere un ruolo importante tramite l’adozione di atti di notevole rilievo politico (assemblea generale dell’ONU, parlamento europeo), o partecipando in forme diverse all’esercizio della funzione legislativa o di altre funzioni (parlamento europeo). Mentre l’esercizio delle funzioni giudiziarie è sempre affidato a organi formati da

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giuristi di provata competenza e indipendenza, per l’esercizio delle funzioni amministrative o di rappresentanza è talvolta prevista l’istituzione di un segretariato, i cui componenti sono parimenti tenuti all’indipendenza dagli stati membri dell’organizzazione (ONU, consiglio d’Europa). La partecipazione a un’organizzazione internazionale comporta il trasferimento a quest’ultima di competenze statali più o meno importanti nei settori interessati, ma non si traduce nella cessione di porzioni di sovranità. Questa circostanza è importante per i riflessi che ne derivano. A differenza che negli ordinamenti costituzionali di matrice liberal-democratica, i rapporti fra gli organi delle organizzazioni internazionali sono infatti improntati più al principio della reciproca cooperazione, che al principio della separazione dei poteri, proprio perché nell’ambito di siffatte organizzazioni gli stati restano enti sovrani, capaci dunque di salvaguardarsi, in quanto tali, dagli eventuali abusi dei suddetti organi. Il fatto che gli stati membri di organizzazioni internazionali mantengano intatta la loro sovranità, è manifestato poi dalla loro stessa resistenza a trasferire poteri particolarmente penetranti a tali organizzazioni; resistenza espressa, a sua volta, sia dalla persistente diffusione del principio dell’unanimità per l’adozione di atti normativi, sia dalla natura, ancora prevalentemente non vincolante, di questi ultimi atti. Inoltre, la soggettività di un’organizzazione internazionale, lungi dal configurarsi come una conseguenza automatica della natura giuridica internazionalistica del trattato istitutivo, dipende dall’effettiva capacità dell’organizzazione di imporsi nelle relazioni giuridiche internazionali quale ente autonomo, rispetto sia agli stati sovrani che ne sono membri, sia agli stati terzi. Il proliferare di organizzazioni internazionali rappresenta l’aspetto centrale dell’evoluzione del fenomeno della cooperazione istituzionale fra gli stati, pur non comportando un superamento dell’assetto strutturale della comunità internazionale e del suo ordinamento, in particolare del principio dell’eguale sovranità degli stati stessi sul piano formale. Tale assetto, che lascia evidentemente spazio a disuguaglianze sostanziali, si riflette infatti sia nella posizione di parità che gli stati posseggono in linea generale all’interno di dette organizzazioni, sia nel maggior peso che risulta attribu-

Organo ito agli stati più forti nell’ambito dei meccanismi deliberativi di talune di esse (si pensi al diritto di veto dei cinque membri permanenti del consiglio di sicurezza ONU o al sistema del voto ponderato nell’ambito del Fondo Monetario Internazionale). D’altra parte, la tendenza di detti stati a utilizzare una certa organizzazione per fini propri può giungere a incidere sull’indipendenza di quest’ultima, sino a minacciarne la stessa soggettività giuridica. P. De Sena BIBL.: B. CONFORTI, Organizzazioni internazionali, in Enciclopedia del Novecento, Roma 1979, pp. 950 ss; R.J. DUPUY, Manuel sur les organisations internationales, London 1988; G. ARANGIO-RUIZ - L. MARGHERITA E. TAU ARANGIO-RUIZ, Soggettività nel diritto internazionale, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Torino 1995, vol. X, pp. 299 ss.; R.L. BINDSCHEDLER, International Organizations, General Aspects, Encyclopedia of Public International Law, Amsterdam 1995, vol. II, pp. 1289 ss.; I. SEIDL-HOENVELDERN - G. LOIBL, Das Recht der Internationale Organisationen einschließlich der Supernationalen Gemeinschaften, Köln 20007; M. DIEZ DE VELASCO VALLEJO, Las Organizaciones internationales, Madrid 200313; H. SCHERMERS - N.M. BLOKKER, International Institutional Law, Dordrecht 20034. ➨ RELAZIONI INTERNAZIONALI; SOVRANITÀ.

ORGANO (organ; Organ; organe; órgano). – Il Organo significato originario del termine greco o[rganon è quello di «strumento». È stato Aristotele ad attribuirvi un senso propriamente biologico, per cui ogni strumento e ogni parte del corpo ha un suo fine, cioè una sua azione specifica. La connotazione biologica del termine organo è diventata poi molto comune, anche se i commentatori di Aristotele gli hanno conferito un’accezione relativa soprattutto al campo della logica. Nella tradizione biologica, l’organo designa ogni parte del corpo, animale o vegetale, formata da più tessuti, dotata di una propria e differenziata struttura unitaria, destinata allo svolgimento di una specifica funzione in ordine alla vita del tutto (ad es. organi di senso, organi di locomozione, organi della respirazione, ecc.). In questo senso l’organo è concepito come unità fisiologica e non anatomica. L’organo rappresenta, quindi, nella molteplicità delle parti del corpo, un nucleo di unità ordinato a un’unità di grado superiore, quella dell’essere vivente stesso; si riferisce, perciò, alla totalità del vivente, cioè all’organismo cui l’organo è subordinato. 8191

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Organon Secondo Tommaso, la molteplicità degli organi accoglie in sé la ricca complessità dell’azione vitale che si esplica nelle facoltà; in questa accezione, il concetto di organo fa riferimento alla facoltà specifica di cui l’organo è sede e da cui è informato (cfr. Tommaso, Sum. theol., I, q. 18, art. 3). La facoltà è una «strumentalità» che si articola dall’anima (principio della vita) sul corpo attraverso gli organi; perciò essa è intesa, in senso compiuto, come un tutto che consta di una virtù operativa e dell’organo da essa informato (Sum. theol., I, q. 78, art. 3): da questo tutto si genera l’operazione. Questa dottrina è svolta particolarmente nella corrente aristotelica. Il concetto di organo è stato poi applicato per analogia ad altre unità complesse, specialmente al corpo sociale. In logica, il termine organo è stato introdotto dai commentatori di Aristotele per indicare la raccolta delle opere logiche del maestro, cioè il libro delle Categorie, il libro De interpretatione, i due libri degli Analitici primi, i due libri degli Analitici posteriori, gli otto libri dei Topici e il libro degli Elenchi sofistici. La logica, infatti, è intesa dallo stesso Aristotele come lo «strumento», l’«organon» che mira a enucleare e possedere la forma corretta del ragionamento per impiegarla poi nell’attività del pensare e assicurarne la validità innanzitutto formale. Affine è il concetto della logica come ars. L’idea strumentale della logica ha la sua più alta manifestazione, oltre che nell’Organon aristotelico, anche nell’Arte di R. Lullo, che è essenzialmente il tentativo di creare lo strumento atto a costruire tutto l’edificio della scienza attraverso la combinazione di pochi termini semplici. Questa idea è poi presente nel Novum Organum (1620) di F. Bacone, che segna però il trapasso a una concezione opposta: non è la conoscenza di forme logiche oggettive, ma piuttosto l’attività soggettiva della mente, in un suo procedere insieme cauto e spregiudicato, attraverso la sperimentazione e l’induzione, a costruire la scienza e a delineare il metodo stesso del suo procedere. Il concetto di «strumento» viene pertanto trasferito dal piano della logica a quello di tutta la scienza, intesa come fonte di potere. L’interpretatio naturae, per Bacone, altro non è che lo «strumento» per assoggettare la natura allo spirito umano (Novum Organum, l. I). Neues Organon è pure il titolo di un’opera del filosofo illumi8192

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nista tedesco J.H. Lambert (Leipzig 1964), in cui il carattere strumentale e formale della logica permane ed è anzi inteso in senso matematico. Il concetto di organo viene analizzato pure da Kant, che distingue l’organo inteso come metodo di ogni disciplina in particolare dal «canone» che si riferisce al pensiero in generale, intendendo per canone «l’insieme dei principi a priori che fissa il legittimo uso di certe facoltà di conoscere in generale». Nella sua Logica (Einleitung, § 1), opponendo Organon a Kanon, Kant nega alla logica d’essere un organo, dal momento che essa non fornisce l’indicazione (Anweisung) sul modo di raggiungere certe conoscenze e ottenere il dominio delle verità scientifiche; essa è, invece, soltanto un «canone», in quanto formula le leggi necessarie che il pensiero deve rispettare e verifica se le applicazioni sono coerenti. Nel pensiero moderno, specialmente dopo Kant, il concetto strumentale della logica è in genere avversato, ma permane, e anzi si fa più acuto, nella logica simbolica. In psicologia il termine organo ricorre principalmente in tre accezioni: 1) S. Freud usò il termine «piacere d’organo» per indicare il piacere, legato al soddisfacimento di pulsioni parziali, che ha luogo nell’organo in cui esse si producono; 2) A. Adler introdusse il concetto di «inferiorità d’organo» a proposito delle manifestazioni psicologiche indotte per la compensazione di una deficienza organica; 3) F. Alexander utilizzò il concetto di «nevrosi d’organo» per riferirsi alle disfunzioni organiche a sfondo psicogeno, senza la concomitanza di alterazioni anatomo-patologiche. I. Bertoni - A.M. Ferreri BIBL.: L. MECACCI, Storia della psicologia del Novecento, Roma-Bari 1992; P. DURIS - G. GOHAU, Histoire des sciences de la vie, Paris 1997, tr. it. di P.D. Napolitani, Storia della biologia, Torino 1999; T. RACHWAL - T. SLAWEK (a cura di), Organ, Organisms, Organizations: Organic Form in 19th-Century Discourse, Frankfurt am Main - New York 2000. ➨ LOGICA SIMBOLICA; ORGANICISMO; ORGANISMO.

ORGANON. – Rivista Internazionale, fondata Organon nel 1964 presso l’Insitut d’Histoire de la Science et de la Techinque dell’Accademia polacca delle scienze. Gli articoli sono soprattutto in inglese, ma anche in francese. Annuale, esce con qualche irregolarità. Le collaborazioni sono internazionali. L’attuale comitato di dire-

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Origene

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zione è presieduto da J. Dobrzycki. Le materie di cui la rivista si occupa riguardano la psicologia e l’antropologia, la matematica e la medicina, la storia e la filologia, le scienze naturali. G. Bastianoni

ORGOGLIO (pride; Stolz; orgueil; orgullo). – Orgoglio Consapevolezza fiduciosa e fiera della propria dignità, del proprio valore e della propria capacità; concetto affine a quello di superbia e, per l’essenziale, nella storia del pensiero morale, ambiguamente identico ad esso. Come specificazione, rispetto alla superbia, si può segnalare il fatto che l’orgoglio sia stato anche considerato non già come vizio, ma come espressione di virtù, distinguendosi perciò dalla superbia, che significa esclusivamente un vizio. R. Gherardi ➨ MERITO E DEMERITO; SUPERBIA.

ORIANI, ALFREDO. – Scrittore politico, n. a Oriani Faenza il 22 ag. 1852, m. a Casola Valsenio (Ravenna) il 18 ott. 1909. Fu deciso avversario del positivismo e dello spirito borghese. Della lotta politica, della conquista coloniale e dello sport fu esaltatore appassionato. Mediante l’amicizia con Angelo De Meis conobbe e fece propria la filosofia di Hegel, il suo concetto di assoluto, che si esplica nella storia. Egli propose un risveglio del Volksgeist nella nazione italiana e in tale opera di educazione civile rientra anche la sua esaltazione dell’indissolubilità del matrimonio. L’idealismo, nel quale confluivano larghe vene di irreligiosità anticattolica e di attivismo fine a se stesso, non soddisfece definitivamente Oriani, che, alla fine della vita, si riconciliò col cristianesimo. Croce lo esaltò e il fascismo lo vedrà come un suo precursore. G. Morra BIBL.: Memorie inutili, Milano 1876; Matrimonio e divorzio, Milano 1886; Fino a Dogali, Milano 1889; La lotta politica in Italia, Torino 1892; La disfatta, Milano 1896; Bicicletta, Bologna 1902; Rivolta ideale, Napoli 1908; raccolta delle Opere, Bologna 1927-33, 30 voll. Su Oriani: G. GENTILE, Guerra e fede, Napoli 1919; B. CROCE, La letteratura della nuova Italia, Bari 19293, vol. III, pp. 227-258; G. PAPINI, Ritratti italiani, Firenze 1944, pp. 209-237; G. BIANCHI, Oriani. La vita, Urbino 1965; M. BAIONI, Il fascismo e Alfredo Oriani: il mito del precursore, Ravenna 1988; V. PESANTE, Il problema

Oriani: il pensiero storico-politico, le interpretazioni storiografiche, Milano 1996.

ORIBE, EMILIO. – Filosofo uruguayano, n. nel Oribe 1893 a Montevideo, m. nel 1975. È stato professore di estetica a Montevideo. Opere principali: Poética y plástica, Montevideo 1930; Teoria del Nus, Buenos Aires 1934; El Mito y el Logos, ivi 1945; Platonismo y trascendencia en poesía, Montevideo 1947; La dinámica del verbo, ivi 1948. Le caratteristiche principali del pensiero di Oribe sono: spiritualismo, razionalismo, idealismo. Concetto centrale è il Nous, inteso come ordinatore dell’universo: categoria suprema, simile all’Uno di Plotino, di là dall’intelligenza e dall’amore, sue massime manifestazioni. Lo spirito se ne differenzia in quanto trascende l’azione, mentre il Nous è azione immanente e ordinatrice. L’intelligenza come immanente all’essere definisce l’essere come un assoluto spirituale e razionale. Questa dottrina fra idealista e spiritualista s’allontana da tutte quelle correnti che fanno della libertà l’essenza dell’essere e concepiscono la ragione come strumento della libertà. L’azione è sterile perché tende al disordine; il pensiero ordina, rinnova, purifica, rischiara. È una filosofia decisamente antipragmatistica. M.A. Virasoro BIBL: A. ARDAO, La filosofía en el Uruguay en el siglo XX, Buenos Aires 1956; S. SARTI, Panorama della filosofia ispanoamericana contemporanea, Milano 1976, pp. 588-589.

ORIGENE. – Nato intorno al 185 da una famiOrigene glia cristiana (il padre Leonida fu martire) nella città egiziana di Alessandria, a quel tempo uno dei più vivaci centri culturali e religiosi per la compresenza di filosofi e maestri cristiani, gnostici ed ebrei, Origene è il più grande pensatore dell’antichità cristiana, iniziatore delle più significative tradizioni esegetiche, teologiche e spirituali posteriori. Profondamente segnato dall’incontro con la tradizione filosofica greca, in particolare con quella del platonismo, il suo pensiero si caratterizza per il costante confronto con il testo biblico, assunto a occasione e fondamento di ogni riflessione speculativa, condotta nell’ambito dell’ormai consolidato canone della fede condivisa dalle chiese. Origene si limita tuttavia a enunciare soltanto i punti imprescindibili della dottrina cristiana (trinità, incarnazione, creazione, giudizio e libero arbitrio dell’uomo), ritenendo 8193

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Origene che spetti ai «filosofi cristiani» il compito di dimostrare razionalmente tali enunciati e di approfondire una serie di altri contenuti, che il canone di fede lascia maggiormente aperti alla speculazione (gerarchie angeliche, forme, modi e tempi della retribuzione, origine dell’anima e trasmissione del peccato). Il marcato intellettualismo di un simile approccio al cristianesimo fa di Origene il continuatore della tradizione dei didascali («maestri»), figure fondatrici e animatrici dei primitivi gruppi cristiani, destinate ad essere soppiantate da quelle dei vescovi e da forme più gerarchiche e istituzionalizzate di comunità. Proprio per questo ebbe con Demetrio, vescovo di Alessandria, forti contrasti, che lo portarono a trasferirsi intorno al 230 a Cesarea di Palestina, dove, godendo della protezione del vescovo locale, venne ordinato sacerdote e affiancò un’intensa attività di predicazione a quella più marcatamente filosofico-scolastica, sostenuta e incoraggiata da Ambrogio, ricco esponente cristiano della classe dirigente egiziana, che gli mise a disposizione tachigrafi e copisti per la trascrizione e redazione dei suoi scritti. La stessa fama che lo aveva portato a entrare in contatto (intorno al 232) persino con Giulia Mamea, madre dell’imperatore Alessandro Severo, lo espose alla persecuzione di Decio della metà del secolo; imprigionato e torturato in vista di una clamorosa abiura, Origene non capitolò e, una volta rilasciato, morì non molto dopo il 250 in seguito alle ferite riportate. Ci è pervenuta solo una parte della sterminata sua opera (Gerolamo, Epistulae, 33, 4 ricorda oltre 800 tt.), e per di più prevalentemente in traduzione latina, a motivo dei dibattiti scatenati dalle dispute intorno al suo pensiero dopo la morte, che portarono alla condanna ecclesiastica del 543, riguardante alcuni punti su cui aveva formulato ipotesi poi smentite dalla successiva evoluzione dottrinale ecclesiastica. È soprattutto il trattato Sui principi, opera peraltro giovanile e giuntaci solo in traduzione latina, a delineare il quadro di riferimento del sistema origeniano. L’altro grande scritto origeniano integralmente pervenutoci è il Contro Celso, opera apologetica redatta in opposizione a uno scritto anticristiano. La parte restante della sua produzione a noi giunta consiste per lo più di scritti esegetici, distinti tra omelie e commentari, questi ultimi più impegnati e 8194

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condotti secondo la tradizione delle scuole filosofiche, tra cui spicca il Commento a Giovanni, di cui abbiamo alcuni libri. L’esegesi e la teologia di Origene si fondano, nella scia della tradizione platonica, sulla distinzione tra il piano del sensibile e quello dell’intelligibile, o in termini paolini tra la lettera e lo spirito della Scrittura: al significato letterale corrisponde l’esperienza dell’uomo nella carne, che questi è chiamato a trascendere volgendosi alla contemplazione delle realtà superiori (intelligibili), proprie di Dio e del mondo angelico, che sono celate nel significato profondo della Scrittura (i «misteri»). Una simile concezione fonda la prassi interpretativa dell’allegoria, per cui, una volta chiarito il significato letterale del testo grazie anche all’ausilio di una vasta strumentazione grammaticale, filologica e storica, l’esegeta deve cogliere il significato più profondo del testo nelle sue implicazioni cristologiche, teologiche e spirituali. A un simile movimento esegetico corrisponde nel credente il passaggio da una fede «semplice» a una «progrediente», sino alla fede «perfetta» che consente all’uomo di accogliere in sé la presenza del logos di Dio, incarnatosi storicamente in Cristo e altrettanto presente – in una sorta di seconda incarnazione – nelle Scritture. Il progresso così delineato del credente su questa terra è però soltanto parte di un più generale movimento cosmico che per Origene ha inizio nel momento in cui Dio crea le anime individuali, preesistenti alla creazione del mondo materiale e dei corpi; le nature razionali (noes), create a propria immagine da Dio in forza soltanto della sua propria giustizia e bontà, godono in origine di una condizione di beatitudine e di contemplazione divine, ma in seguito per loro libera scelta, invece di progredire nella imitazione e nella partecipazione a Dio, volgono questa dinamica in una differente direzione, e decadono così dalla loro originaria condizione; il grado differente di «raffreddamento» nell’amore per Dio ne determina il diverso statuto che vengono così ad assumere le intelligenze preesistenti: angeli, demoni, uomini, e questi ultimi più o meno malvagi; con una «seconda creazione», adombrata dal doppio racconto genesiaco della creazione dell’uomo, le anime ricevono un sostrato materiale, in grado di ricevere ogni determinazione, che nel caso dell’uomo coincide con la cor-

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poreità carnale. In un quadro siffatto, l’esistenza umana e la connessa economia della redenzione vengono a costituire solo una tappa di un complessivo itinerario cosmico destinato a sfociare nella ricostituzione della situazione originaria, in cui bontà di Dio e libero arbitrio dell’uomo trovino il loro specifico equilibrio, e da cui soprattutto venga eliminata ogni possibilità di dualismo – in opposizione agli gnostici – che sorgerebbe con la presenza di una qualche forma di realtà sottratta al bene e consegnata al male. È questa la dottrina dell’apocatastasi, strettamente connessa a quella della preesistenza e della caduta delle anime, secondo cui il momento dell’instaurazione del regno finale non coincide, come nelle dottrine escatologiche precedenti, con il giudizio e la retribuzione conseguente, bensì con la completa espiazione da parte di tutte le creature della propria pena e la riconduzione del loro libero arbitrio nella originaria direzione della contemplazione e della assimilazione a Dio. M. Rizzi BIBL.: J.-P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series I: [Patres] Ecclesiae Grecae, Parisiis 1857-66, voll. XIIXVI; Origenes Werke, ed. a cura di P. Koetschau et al., Leipzig-Berlin 1899 ss. (include tutte le opere pervenute in greco o in tr. latina; in corso di aggiornamento); Sur la Pâque, ed. a cura di O. Guéraud P. Nautin, Paris 1979 (ed. di un testo papiraceo); Opere di Origene, ed. a cura di M. Simonetti - L. Perrone, Roma 2002 ss. (tr. it. con testo a fronte di tutte le opere, in corso di realizzazione); importante resta la tr. di E. Corsini del Commento al Vangelo di Giovanni, Torino 19952. Su Origene: H. CROUZEL, Bibliographie critique d’Origène, Steenbrugis - Hagae Comitis 1971; H. CROUZEL, Bibliographie critique d’Origène. Supplément, Steenbrugis - Hagae Comitis 1983, 2 voll.; dal 1995 la rivista «Adamantius» (Bologna) pubblica annualmente una bibl. origeniana pressoché completa. Cfr. inoltre: H. KOCH, Pronoia und Paideusis: Studien über Origenes und sein Verhältnis zum Platonismus, Berlin-Leipzig 1932; H. CROUZEL, Origène et la philosophie, Paris 1962; R.M. BERCHMAN, From Philo to Origen: Middle Platonism in Transition, Chico (California) 1984; H. CROUZEL, Origène, Paris 1985, tr. it. di L. Fatica, Origene, Roma 1986; M. RIZZI, La scuola alessandrina: da Clemente a Origene, in E. DAL COVOLO (a cura di), Storia della teologia, Bologna-Roma 1995, vol. I, pp. 81-120; J.W. TRIGG, Origen, London 1998; M.J. EDWARDS, Origen Against Plato, Aldershot 2002; M. SIMONETTI, Origene esegeta e la sua tradizione, Brescia 2004; E. PRINZIVILLI (a cura di), Il commento a

Originalità Giovanni di Origene: il testo e i suoi contesti, «Atti dell’VIII convegno di studi del gruppo italiano di ricerca su Origene e la tradizione alessandrina, Roma, 28-30 settembre 2004», Villa Verrucchio 2005.

ORIGENE NEOPLATONICO. – Discepolo Origene neoplatonico di Ammonio Sacca ad Alessandria nel sec. III d. C. insieme con Plotino, Erennio, Cassio Longino. Secondo Porfirio (Vita Plotini, 3) i condiscepoli avevano stretto il patto di non rivelare le dottrine di Ammonio, se non che Erennio lo infranse e Origene ne seguì l’esempio. Da Porfirio (ibid.), sappiamo che scrisse un trattato Sui démoni e uno Sul Re, solo creatore (cfr. anche, Proclo, In Platonis theologiam, II, 4). Delle sue opere, tuttavia, non ci rimane nulla. Secondo Porfirio (Eusebio, Historia Ecclesiastica, VI 19: F 39 Harnack), fu discepolo di Ammonio anche l’Origene esegeta e filosofo cristiano, che R. Cadiou (La jeunesse d’Origène, Paris 1935) identificò con l’Origene neoplatonico. Questa tesi, respinta da J. Daniélou (Origène, Paris 1948, pp. 88-89), non è generalmente accettata, pur non essendo in sé impossibile, data anche la cultura medioplatonica e neopitagorica dell’Origene cristiano: Porfirio (Eusebio, op. cit., F 39) attesta che conosceva bene Platone, Numenio di Apamea, Apollofane, Longino, Moderato, Nicomaco e i più importanti pitagorici. Appare comunque più prudente separare le due figure. I. Ramelli BIBL.: R. BENTLER, s. v., in A. PAULY, Real-Encyklopädie der klassischen Altertumswissenschaft, a cura di C. Wissowa, Stuttgart 1893-1965, vol. XVIII, coll. 10331036; H. LEWY, Chaldaean Oracles and Theurgy, vol. Il, Cairo 1956, specialmente cap. 11: The Work of the Neoplatonist Origen «Concerning the Demons»; K.O. WEBER, Origenes der Neuplatoniker. Versuch einer Interpretation, München 1962; R. GOULET, Porphyre, Ammonius, les deux Origène et les autres, in «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieuses», 57 (1977), pp. 471-496; R. GOULET, Sur la datation d’Origène le Platonicien, in PORPHYRE, La Vie de Plotin, vol. II, a cura di L. Brisson et al., prefazione di J. Pépin, Paris 1992, pp. 461-463; J.-M. NARBONNE, Plotinus and the Secrets of Ammonius, in «Hermathena», 157 (1994), pp. 117-153; M.J. EDWARDS, Porphyry’s Egyptian De abstinentia II. 47, in «Hermes» 123 (1995), pp. 126-128; I. RAMELLI, Origen and the Stoic Allegorical Tradition, in «Invigilata Lucernis», 27 (2005).

ORIGINALITÀ (originality; Originalität; origiOriginalità nalité; originalidad). – Il concetto di originalità 8195

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Origine (dal lat. Origo «origine») si riferisce sul piano estetico al carattere di unicità dell’opera d’arte, sentito come un plusvalore che, sovrapponendosi alla perizia tecnica, è visto come l’espressione dell’individualità dell’artista in quanto origine dell’opera. Presupponendo un fare inventivo ed emancipato da ogni vincolo imitativo o prescrizione canonica, l’originalità è qualcosa di pressoché sconosciuto nella concezione greco-classica della produzione artistica. Quest’ultima infatti, considerando l’arte come imitazione della natura, sembra escludere ogni forma di invenzione e libertà. Le cose non cambiano neanche con l’introduzione del concetto cristiano di creazione, che paradossalmente relegò l’artista allo statuto di semplice imitatore delle leggi divine della natura: ogni tentativo di attribuire un ruolo liberamente inventivo al fare artistico è considerato nella cultura medievale come l’indebita assunzione di una prerogativa che è esclusiva di Dio. Il concetto di originalità nasce solo con il Rinascimento: se ne trova una prefigurazione nella teoria del disegno di Leon Battista Alberti, secondo la quale l’opera, pur dovendo aderire all’ordine della realtà, è comunque realizzazione dell’idea concepita liberamente dall’artista sulla base delle leggi interne a quell’ordine. Il concetto emerge anche nella concezione manieristica – poi ripresa dalla cultura barocca – dell’artista come alter deus capace di creare una natura altera; successivamente, trova una sua esplicita teorizzazione nel Settecento, in riferimento al rapporto che sussiste tra la dimensione tecnica della pratica artistica (che presuppone sempre delle regole) e l’apporto individuale e inventivo del soggetto creatore. Questo è chiaro particolarmente in Immanuel Kant: l’originalità è la caratteristica dell’opera del genio che, essendo tale non per apprendistato ma per dono naturale, non è capace di esporre le regole della propria arte. L’originalità dell’opera, che reca in sé la sua costitutiva irriproducibilità, sottolinea pertanto la dimensione meta-tecnica di ogni arte bella: nella sua eccedenza rispetto alle regole e alle procedure reiterabili, l’arte reca il segno della soggettività irriducibile dell’artista e della sua libera spontaneità produttiva, elementi alla base dell’intero movimento romantico. Secondo Friedrich Schlegel l’originalità è il segno costitutivo della poesia romantica, che riconosce come sua unica legge l’arbitrio del poeta. Espressione della soggettività arbitraria dell’artista, il concetto di originalità diventa 8196

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così la cifra di quell’emancipazione del fatto artistico da ogni forma rappresentativa o riproduttiva della realtà che troverà la sua apoteosi nel fenomeno novecentesco delle avanguardie: di qui la rivendicazione del nuovo come unico valore estetico ascrivibile all’arte e dello shock come rottura con le abitudini di fruizione estetica. Il concetto di originalità dell’opera è stato posto in discussione per la prima volta nel Novecento da Walter Benjamin, in rapporto alla nascita di forme artistiche quali il cinema e la fotografia, caratterizzate dal principio della riproducibilità tecnica (Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Frankfurt am Main 1977 [1936], tr. it. di E. Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 2000). Il fatto che l’opera fotografica e cinematografica non conoscano la distinzione tra originale e copia obbliga infatti a rimettere in discussione proprio il carattere di originalità unica e irripetibile dell’opera d’arte, messo in crisi come valore propriamente estetico dal moderno intreccio tra fare artistico e tecnologia. C. Cantelli BIBL.: G. AGAMBEN, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino 1977; R. MORTIER, L’originalité, une nouvelle categorie esthétique au siècle de Lumières, Genève 1982; R. KRAUSS, The Originality of the Avant-garde and Other Modernist Myths, Cambridge-London 1985; T. MCFARLAND, Originality & Imagination, Baltimore-London 1985. ➨ CANONE; BAROCCO; IMITAZIONE; MANIERISMO; NOVITÀ; ROMANTICISMO.

ORIGINE (lat. origo, da orior « nasco » - origin; Origine Ursprung; origine; origen). – Secondo il significato etimologico, è il nascimento di qualcosa; non meno propriamente, si può intendere anche come principio da cui una cosa in qualunque modo procede. Tuttavia, la parola «origine» quando si esprime nel termine ajrchv e si riferisce ai primi filosofi della physis ha un significato più vasto del semplice «cominciamento», in quanto designa «ciò da cui originariamente derivano e in cui si risolvono da ultimo tutte le cose», ovvero ciò che nel divenire «continua a esistere» (Aristotele, Metaph., A 3 983 b 9 ss.). In altre espressioni si prende l’origine come sinonimo di causa. Per l’origine delle idee, del male, del mondo, dell’uomo, della vita, cfr. le rispettive specificazioni. R. Radice ➨ PRINCIPIO.

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ORLANDO, VITTORIO EMANUELE. – Giurista e Orlando uomo politico, n. a Palermo il 19 magg. 1860, m. a Roma l’1 dic. 1952. Nel 1886 ottiene la cattedra di Diritto costituzionale a Messina, nel 1888 viene chiamato a Palermo a insegnare Diritto amministrativo e nel 1903 passa a Roma a ricoprire, dapprima, la cattedra di Diritto pubblico interno e, successivamente, di Diritto costituzionale. Oltre al notevole impegno didattico e scientifico, Orlando ha svolto un’intensa attività politico-istituzionale che lo ha portato ad assumere la carica di presidente del consiglio durante la prima guerra mondiale. Dopo il delitto Matteotti si ritira a vita privata e nel 1931 per non sottoporsi al giuramento fascista si dimette dall’insegnamento universitario. Nel 1946 Orlando viene eletto deputato all’assemblea costituente e presiede la seduta inaugurale. Il contributo speculativo di Orlando va ricercato nell’elaborazione del cosiddetto metodo giuridico con cui, adattando i concetti e le categorie della pandettistica tedesca agli studi giuspubblicistici, si propone di fondare lo statuto disciplinare del diritto pubblico in modo da liberarlo dagli influssi sociologici e filosofici e dalla dipendenza nei confronti delle discipline privatistiche e comparatistiche. I presupposti teorici di questa rinnovazione metodologica, riassunti nella celebre prolusione di Palermo del 1889, I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del Diritto pubblico (in «Archivio giuridico», 42 [1889]), si basano sull’idea che anche il diritto pubblico si debba considerare «nel modo stesso che il diritto privato, come un complesso di principii giuridici sistematicamente coordinati» (ibi, p. 20), qualificati come assoluti e ritenuti immanenti all’ordinamento giuridico, che la legge si deve limitare a riprodurre. Il compito della scienza giuridica è quello di costruire una dogmatica finalmente sganciata dai modelli del diritto civile, che sia capace di disvelare i principi e i caratteri giuridici delle attività pubblicistiche dello stato, e in particolare dell’attività amministrativa. Dietro l’apparente neutralità metodologica propugnata da Orlando si rintraccia un progetto ideologico di legittimazione giuridica delle istituzioni liberali dello stato italiano, che viene perseguito, sulla scia della giuspubblicistica tedesca, attraverso il consolidamento della figura dello «stato-persona» e l’affermazione

Ornamento / decorazione della teoria della sovranità statale in contrapposizione alle teorie democratiche della sovranità popolare. Nel liberalismo orlandiano si registra, peraltro, la contraddizione, tipica dell’epoca, tra la tendenza statalista e giuspositivista e l’esigenza di limitare il ruolo dello stato, che Orlando cerca di ricomporre sostenendo la preesistenza del diritto alla legge e la sostanziale irriducibiltà della società allo stato. Il gruppo di giovani giuristi (Oreste Ranelletti, Federico Cammeo, Santi Romano) che si è raccolto intorno all’opera e all’insegnamento di Orlando ha dato avvio alla cosiddetta scuola nazionale di diritto pubblico, che ha avuto una grande influenza sullo sviluppo del diritto costituzionale e amministrativo e ha favorito la formazione di un modello unitario di sapere per i funzionari delle amministrazioni statali. N. Gullo BIBL.: per gli scritti si confronti l’elenco in AA.VV., Scritti giuridici in memoria di Vittorio Emanuele Orlando, Padova 1957, vol. I, pp. XV-XXV (comprende oltre 200 titoli). Fra essi: Principii di diritto costituzionale, Firenze 1889; Principii di diritto amministrativo, Firenze 1890; Diritto pubblico generale e diritto pubblico positivo, Milano 1924; Discorsi parlamentari, Roma 1965, 4 voll. Su Orlando: G. CAPOGRASSI, Il problema di Vittorio Emanuele Orlando, Milano 1953; V. CRISAFULLI, Significato dell’opera giuridica di Vittorio Emanuele Orlando, Città di Castello 1953; AA.VV., Scritti giuridici in memoria di Vittorio Emanuele Orlando, Padova 1957; G. AMBROSINI, Vittorio Emanuele Orlando maestro di diritto e uomo di stato, in AA.VV., Raccolta di scritti in onore di A.C. Jemolo, Milano 1963, vol. III; S. CASSESE, Cultura e politica del diritto amministrativo, Bologna 1971; G. CIANFEROTTI, Il pensiero di Vittorio Emanuele Orlando e la giuspubblicistica italiana tra Ottocento e Novecento, Milano 1980; G. MELIS, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna 1996; L. FERRAJOLI, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari 1999; M. FIORAVANTI, La scienza del diritto pubblico: dottrina dello stato e della costituzione tra Otto e Novecento, Milano 2001; F. GRASSI ORSINI, Orlando, profilo dell’uomo politico e dello statista: la fortuna e la virtù, in V.E. ORLANDO, Discorsi parlamentari, Bologna 2002, pp. 13 ss.

ORNAMENTO / DECORAZIONE (arabesco Ornamento / decorazione - ornament / decoration; Ornament / Dekoration; ornement / décoration; ornamento / decoración). – Comunemente ciò che apposto a un oggetto lo arricchisce, ne enfatizza il valore estetico. Nel lessico estetico s’intende solitamente per or8197

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Ornato namento una composizione ritmica di linee (arabesco), o una stilizzazione geometrica di motivi ispirati alla natura (grottesca). Alla nozione di ornamento corrisponde una categoria stilistica in uso dalla classicità (in primo luogo in retorica). Il termine arabesco, che sottolinea l’ascendente islamico di un’estetica del decoro non figurativo, assume un significato tecnico non solo in architettura, ma nella danza (una posizione), o in musica (forma compositiva usata da Claude Debussy e Robert Schumann). Tuttavia, la definizione di ornamento pone un problema: l’idea di accessorietà presuppone infatti la possibilità di individuare un concetto dell’oggetto ornato distinto dalla finalità secondaria dell’ornamento. È la questione che solleva il §16 della Kritik der Urteilskraft (Berlin 1790, tr. it. di A. Gargiulo revisionata da V. Verra, Critica del Giudizio, Roma-Bari 1992) di Immanuel Kant, dove proprio i «disegni alla greca» e l’arabesco musicale, vengono portati ad esempio di «bellezza libera»: questo aspetto è posto in relazione col fatto che essi «non significano niente». Su tale «astrattezza» dell’ornamento può fondarsi un apprezzamento: esso è allora manifestazione della regolarità delle forme della sensibilità, private di ogni intenzionalità rappresentativa e lasciate essere allo stato di diagramma (prevarrà qui la valenza geometricomatematica dell’ornamento), o di combinatoria inesauribile. Tale accezione tende a sollevare l’ornamento perfino dalla funzione decorativa, e a considerarlo non in relazione all’opera, ma come grado zero della disponibilità alla creazione e all’arte (cfr. P. Valéry, Introduction à la Méthode de Léonard de Vinci, Paris 1894, tr. it. a cura di S. Agosti, Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci, Milano 2002). D’altra parte, i detrattori dell’ornato hanno spesso radicato la critica all’esteticità dell’ornamento nella medesima idea di una sua matrice puramente sensibile (è il caso di Johann J. Winckelmann). L’ornamento è però inteso questa volta come meramente piacevole, in opposizione al «bello» come eccedenza inutile e dunque nociva. La ripresa della questione dell’ornamento è riemersa nel Novecento soprattutto in architettura, dove, dopo secoli di trattazioni tecniche, da Vitruvio (inscindibilità di costruzione e 8198

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ornamento, critica della «grottesca» intesa come ornamento figurativo) a Leon Battista Alberti (ornamento come fattore di pulchritudo e dignitas degli edifici), si è assistito al radicalizzarsi di posizioni estetiche antitetiche: mentre la critica moraleggiante dell’ornamento come elemento fallace o deteriore è riemersa nella difesa di una finalità estetica pura o di un’eleganza funzionale (modernismo, funzionalismo), l’idea di ornamento come catalizzatore di un piacere sensibile (erede semmai del movere della retorica classica) ha portato a una concezione pedagogica dell’ornamento valorizzato in senso democratico (si pensi alla vocazione al grande pubblico dello stile «Liberty»). La polemica alimentata dall’ambivalenza di questa nozione sembra destinata a durare, se è vero che in tempi recenti, mentre l’architettura postmoderna ha fatto suo un rinnovato (e «decostruito») impiego dell’ornamento, filosofi come Gilles Deluze e Felix Guattari lo hanno preso ad esempio di machine de désir. B. Zaccarello BIBL.: S. KRACAUER, Das Ornament der Masse, Frankfurt am Main 1963, tr. it. a cura di R. Bodei, La massa come ornamento, Napoli 1982; AA.VV., «Rivista d’Estetica», n. mon. sull’Ornamento, 12 (1982); E. GOMBRICH, The Sense of Order. A Study in the Psychology of Decorative Art, London 1984, tr. it. di R. Pedio, Il senso dell’ordine. Studio sulla psicologia dell’arte decorativa, Milano 2000; M. COLLOMB - G. RAULET (a cura di), Critique de l’ornement de Vienne à la postmodernité, Paris 1992; O. GRABAR, The Mediation of Ornament, Princeton 1992; M. CARBONI, Estetica dell’ornamento, Palermo 1996; M. COSTA, Dall’estetica dell’ornamento alla computerart, Napoli 2000.

ORNATO, Ornato LUIGI. – Pensatore, n. a Caramagna di Saluzzo nel 1787, m. a Torino nel 1842. Svolse un attivo lavoro presso la Regia Accademia delle scienze di Torino. Implicato nei moti rivoluzionari del 1821, fu esule a Parigi, insieme con Santorre di Santarosa fino al 1832. La sua fama è legata all’elegante traduzione dei Ricordi di Marco Aurelio, lasciata manoscritta, sino a quasi tutto il libro VI, e completata e pubblicata dall’amico G. Picchioni (Torino 1853; Milano 1914; Firenze 1924; Milano 1933). Gli altri manoscritti sono andati perduti e il pensiero di Ornato è stato ricostruito attraverso le testimonianze dei molti filosofi, che altamente lo stimavano, fra i quali V. Gio-

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berti e G.M. Bertini, che lo ebbe come maestro. La filosofia di Ornato pare essere stata una specie di platonismo, assai simile a quello di F. Jacobi (del quale Ornato tradusse le Lettere sulla dottrina dello Spinoza, e Delle cose divine e della loro rivelazione, andate perdute): in questa dottrina Ornato vedeva confluire in felice sintesi l’idealismo di Platone, l’ontologismo di Malebranche e l’antiintellettualismo di Vico. Viene considerato un anticipatore del movimento spiritualistico antifrancese, per la sua concezione dello spirito come attività unitaria, di cui la filosofia costituisce il culmine. Anche Rousseau, di cui fu ammiratore, agì positivamente su di lui, portandolo al rifiuto della filosofia meramente speculativa e all’affermazione di una concezione della filosofia come «pratica di tutta la vita». G. Morra BIBL.: L. OTTOLENGHI, Vita, studi e lettere inedite di Luigi Ornato, Torino 1878; A. D’ANCONA, Varietà storiche e letterarie, Milano 1883, vol. I, pp. 231-243; G. GENTILE, Le origini della filosofia italiana, vol. I: I platonici, Messina 1917, pp. 141-157 (con bibliografia; nuova ed., Firenze 1958); P. GOBETTI, La filosofia di Luigi Ornato e la coltura politica dell’800, in «Rivista d’Italia», 34 (1921), 6, pp. 194-206.

OROSIO, PAOLO. – Storico ecclesiastico, proOrosio babilmente n. a Braga, in Portogallo; m. dopo il 418. Allievo e prete di Agostino, poi frequentatore di Gerolamo, su invito di Agostino compose Historiarum adversum paganos libri VII (ed. a cura di C. Zangemeister, in Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum, vol. V, Vindobonae 1882, rist. Hildesheim 1967; ed. it. a cura di A. Lippold, tr. it. di A. Bartalucci, Le storie contro i pagani, Milano 19983 [1976]; ed. fr. a cura di M.-P. Arnaud Lindet, Histoires contre les Païens, Paris 1990-91). L’interesse speculativo di Orosio attiene alla concezione della storia presente nella sua opera. Secondo Orosio, il peccato ha prodotto nel corso del tempo un frazionamento dell’unica potestas, di origine divina, in una serie caotica di organizzazioni politiche imperfette, dove vigono una importuna libertas e una libido dominandi. La provvidenza (dispensatio) di Dio polarizzò nel corso del tempo queste organizzazioni in quattro grandi imperi (babilonese-persiano; macedone; cartaginese; romano), di cui l’ultimo – diversamente da quanto sostiene Agostino – non è una tappa

Ors transeunte della città dell’uomo, ma è l’incarnazione della monocrazia di Dio e lo stato finale della storia. Le crisi nella storia sono prodotte dai peccati dell’uomo, che generano punizioni dirette di Dio, secondo una concezione materialistica e miracolistica del divino, e una concezione moralistica della storia. Per questo in Orosio si ha quella confusione tra ordine storico e ordine soprannaturale che aveva già caratterizzato la concezione eusebiana e la dottrina della cristianità (christiana tempora). Tale concezione, impropriamente assimilata a quella agostiniana, esercitò grande influsso sulla res publica christiana del Medioevo e produrrà una lettura scorretta e semplificante della stessa opera De civitate Dei di Agostino. L.F. Pizzolato BIBL.: J.-P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Parisiis 1845-55, vol. XXI, coll. 663-1216. Su Orosio: A. SOLIGNAC, s. v., in M. VILLER (a cura di), Dictionnaire de spiritualité, Paris 1937-95, vol. XI, coll. 965-969; E. CORSINI, Introduzione alle Storie di Orosio, Torino 1968; H.-I. MARROU, Saint Augustin, Orose et l’augustinisme historique, in AA.VV., La storiografia altomedievale, «Settimane di studio del centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 10-16 aprile 1969», Spoleto 1970, pp. 59-87.

ORS, EUGENIO DI. – Letterato e filosofo, n. a Ors Barcellona il 28 sett. 1881, m. a Villanueva y la Geltrú il 25 sett. 1954. Studente di diritto a Barcellona e poi di lettere e filosofia a Madrid, perfezionò la sua formazione all’estero (soprattutto a Parigi, dove seguì Bergson e approfondì il pragmatismo americano). Inizialmente seguace del modernismo, se ne distaccò aderendo alle istanze artistico-politiche del novecentismo. Teorizzò il superamento della filosofia dell’essere in una «metafisica del germe»: sulla base di una distinzione tra intelligenza e ragione (simili a una composizione musicale e a una macchina generatrice di concetti astratti) sviluppò una dialettica come armonia di elementi non riducibili in una unità sintetica di tipo hegeliano, perché il pensiero ha un carattere figurativo. Principi della ragione sono per lui quello di identità e di ragion sufficiente, principi intellettivi la «partecipazione» (ogni realtà ha un significato che la trascende) e la función exigida (sintassi armonica del mondo). Dopo studi di impronta vitalistica (tra cui La Filosofía del hombre que trabaja y juega, Madrid 1914) e ope8199

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Ørsted re dedicate all’arte, quali Tres horas en el museo del Prado, Madrid 1922, tr. it. di C.E. Oppo, Tre ore nel Museo del Prado, Milano 1948 e El barroco, ivi 1943, tr. it. di L. Anceschi, Del barocco, Milano 1945, la sua teoria trovò una certa sistematizzazione in El secreto de la filosofía, Barcelona 1947, dedicato alla «dialettica dell’intelligenza» (che si sarebbe strutturata in una parte speculativa, suddivisa in dialettica, fisica e poetica, e una parte applicata, dedicata a cultura, angeli e arte). Dense furono le sue attività giornalistiche, letterarie, politiche e istituzionali (in Catalogna, Spagna, e per un ideale europeista). Tra le altre opere: Introducción a la vida angélica, Buenos Aires 1939; Glosario completo, Madrid 1920-45, 4 voll., (in parte in catalano), diario intellettuale in vari volumi, e La ciencia de la cultura, Madrid 1964, postumo. F.V. Tommasi BIBL.: J.L.L. ARANGUREN, La filosofía de E. d’Ors, Madrid 1981; E. JARDÍ, E. d’Ors. Obra i vida, Barcelona 1990 (in catalano); A. GARCÍA-NAVARRO, E. d’Ors. Bibliografía, Pamplona 1994.

ØRSTED, ANDERS SANDØE. – Filosofo, giuriØrsted sta e uomo politico danese, n. a Rudkjøbing il 21 dic. 1778, m. a Copenhagen il 1 mag. 1860. Fratello di Hans Christian. Già studente Ørsted si meritò la medaglia d’oro dell’Università di Copenhagen per lo studio Over sammenhoengen mellen Dydeloerens og Retsloerens Princip (La connessione tra il principio della dottrina della virtù e della dottrina del diritto), 2 voll., Copenhagen 1798, nel quale espone e discute brillantemente le relative dottrine kantiane. Sempre più chiaro gli apparve poi lo stretto rapporto tra la scienza giuridica e la vita; abbandonando del tutto le concezioni tradizionali, Ørsted diede alla scienza giuridica danese del tempo fondamenti validi ancora oggi, esposti nelle sue grandi opere classiche: Haandbog over den danske og norske Lovkyndighed (Manuale di giurisprudenza danese e norvegese), 6 voll., Copenhagen 182235; Eunomia, 4 voll., ivi 1815-22; Abhandlungen aus dem Gebiete der Moral- und GesetzgebungsPhilosophie, 3 voll., ivi 1818-26. Una scelta degli scritti di Ørsted è stata edita da T.J. Jørgensen, 7 voll., 1930-36. A. Nyman BIBL.: F. DAHL, A.S. Ørsted som Retsloerd (Il giurista A.S. Ø.), Copenhagen 1927; tr. ingl., London 1932; tr. fr., L’oeuvre juridique d’A.S. Ørsted, Paris 1934; F.

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DAHL, Geschichte der danischen Rechtswissenschaft, Leipzig 1940.

ØRSTED (OERSTED), HANS CHRISTIAN. – FisiØrsted co, chimico e filosofo danese, n. a Rudkøbing il 14 ag. 1777, m. a Copenaghen il 9 mar. 1851. È noto in campo scientifico come lo scopritore dell’elettromagnetismo. Figlio di un farmacista, fin dalla giovane età si dedica alla chimica e alla pratica sperimentale. Trasferitosi nel 1793 a Copenaghen, ivi frequenta l’Elers Kollegium, che nel 1802 diverrà teatro delle lezioni con cui H. Steffens introdurrà in Danimarca la Naturphilosophie schellinghiana e le idee romantiche del circolo di Jena. Durante gli anni dell’università, oltre ad approfondire gli studi di farmacia, si appassiona anche di estetica e di filosofia, soprattutto quella kantiana, sulla quale nel 1799 scrive la propria Dissertatio de forma metaphysices elementaris naturae externae. Tra il 1801 e il 1803 intraprende il primo dei numerosi viaggi di studio in Europa, nel corso dei quali avrà modo di venire a contatto con alcuni tra i maggiori filosofi e scienziati dell’epoca: Fichte, Schelling, Goethe, Fr. Schlegel, J.W. Ritter, Fr. Baader e Rumford in Germania, Vaquelin, Fourcroy, Thenard, Berthollet, Charles, Biot e Cuvier a Parigi. Nel 1806 diviene professore straordinario di Fisica all’università di Copenaghen. Nel 1807 pubblica le Betragninger over Chemiens Historie (Considerazioni sulla storia della chimica) e nel 1809 esce la prima parte del manuale di fisica Videnskaben om Naturens almindelige Love (La scienza delle leggi generali della natura), che avrà diverse edizioni. Del 1812 è l’Ansicht der chemischen Naturgesetze, con cui Ørsted espone le proprie teorie chimiche e fornisce una prima trattazione del rapporto tra elettricità e magnetismo, di cui darà completa comunicazione pubblica il 21 luglio 1820: Experimenta circa effectum conflictus electrici in acum magneticam. Il suo pensiero filosofico è descritto in una serie di trattati e dialoghi raccolti nel 1850 nei due voll. di Aanden i Naturen (Lo spirito nella natura), lavoro presto tradotto in svedese, tedesco e francese. L’idea centrale che anima la concezione filosofica di Ørsted è l’unità delle forze fisiche, alla quale si può pervenire per via sperimentale e non solamente attraverso la speculazione, tratto, questo, che distingue la peculiare posizione di Ørsted nell’ambito della Naturphilosophie romantica. Le leggi della Natura sono inoltre le stesse leggi della ragione, per cui

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l’intera esistenza si definisce come la rivelazione vivente della ragione nel tempo e nello spazio, la quale, se considerata come personalità e autocoscienza, prende il nome di Dio. Le leggi della natura sono quindi «pensieri divini», così che per Ørsted è esclusa la possibilità di un conflitto tra religione e ragione, tra religione e scienza. In ambito matematico egli fu inoltre il primo a utilizzare l’espressione Gedankenexperimente, esperimenti mentali, che verrà propriamente teorizzata in seguito da E. Mach, per designare la scoperta e la verifica a priori propria della conoscenza matematica. L’opera di Ørsted si caratterizza anche per un’accurata riflessione linguistica sulla prosa scientifica. I. Basso BIBL.: Samlede og efterladte Skrifter, København 185152, 9 voll.; Gesammelte Schriften, a cura di K.L. Kannegiesser, Leipzig 1851-53, 6 voll.; Breve fra og til H.C. Ørsted, a cura di M. Ørsted, København 1870, 2 voll.; Naturvidenskabelige Skrifter, a cura di K. Meyer, København 1920, 3 voll.; Correspondance de H.C. Ørsted avec divers savants, a cura di M.C. Harding, København 1920, 2 voll. Su Ørsted: G. HENNEMANN, H.C. Ørsted als Naturphilosoph, in «Philosophia Naturalis», 5 (1958), pp. 348-353; B. DIBNER, Ørsted and the Discovery of Electromagnetism, Norwalk (Connecticut) 1961; G. HENNEMANN, Der danische Physiker H.C. Ørsted und die Naturphilosophie der Romantik, in «Philosophia Naturalis», 10 (1967), pp. 112-122; F.J. BILLESKOV JANSEN, Aanden i Naturen. H.C. Ørsteds metafysiske System, in Oversigt over Det Kongelige Danske Videnskabernes Selskabs Virksomhed, København 1970-71, pp. 218-229; W.L. PEARCE, H.C. Ørsted, in C.C. GILLISPIE (a cura di), Dictionary of Scientific Biography, New York, 1974, vol. X, pp. 182-186; R. DE A. MARTINS, Ørsted e a descoberts do electromagnetismo, in «Cadernos de História e Filosofia da Ciência», 10 (1986), pp. 89-114; K.H. WIEDERKEHR, Ørsteds «Ansicht der chemischen Naturgesetze» (1812) und seine naturphilosophischen Betrachtungen über Elektrizitat und Magnetismus, in «Gesnerus», 47 (1990), pp. 161-183, 54; P. THUILLIER, De la philosophie à l’electromagnetisme: le cas Ørsted, in «La Recherche», 219 (1990), pp. 344-351; J. WITT HANSEN, H.C. Ørsted, I. Kant, and the Thought Experiment, in AA. VV., Kierkegaard and His Contemporaries, Berlin - New York 2003, pp. 62-77; C.H. KOCH, H.C. Ørsted, in Den danske Idealisme, København 2004, pp. 57-85.

ORTEGA Y GASSET, JOSÉ. – Saggista e filoOrtega y Gasset sofo spagnolo, n. il 9 magg. 1883 a Madrid, m. ivi il 18 ott. 1955.

Ortega y Gasset Conseguì la licenza in filosofia e lettere all’università di Madrid nel 1902, e vi si addottorò nel 1904.Nel 1906 visita le università di Lipsia, Berlino e Marburgo; a Berlino conosce Riehl, e a Marburgo studia la filosofia di Hermann Cohen, interessandosi di filosofia della cultura. Nel 1908 è nominato titolare di psicologia, logica ed etica nella scuola superiore di magistero a Madrid. Nel 1910 è nominato professore di metafisica nell’università di Madrid e nel 1914 membro dell’Accademia reale di scienze morali e politiche, non prendendo però possesso del posto. Nel 1923 fonda e dirige la Revista de Occidente, salutata come un passo decisivo sulla via della europeizzazione della Spagna e che servirà a presentare agli spagnoli le grandi opere dei pensatori tedeschi. È protagonista agli eventi culminanti nella proclamazione della prima repubblica il 14 apr. 1931 ed è eletto deputato. Ma nel 1932, deluso dal settarismo dei seguaci di Manuel Azaña, abbandona l’attività politica, dopo aver espresso critiche alla costituzione repubblicana. A partire dal 1936-39 vive in esilio a Parigi, indi a Lisbona e poi in Argentina, dispiegando un’intensa attività come scrittore e conferenziere. Ritorna in Spagna nel 1946, ma è praticamente relegato dal franchismo ai margini della vita pubblica, oltre che dalla cattedra universitaria. Ciò nonostante continua la sua attività filosofica, che perviene al culmine nell’incontro di Darmstadt con M. Heidegger nel 1951. L’itinerario filosofico orteghiano può essere scandito in quattro fasi: 1) Il periodo giovanile (1902-14), contrassegnato dall’esperienza neokantiana (H. Cohen e P. Natorp), verso la quale ben presto avanzò critiche e perplessità aprendosi alla fenomenologia. 2) Una fase antropologica (1914-28), durante la quale, in ragione dei diversi influssi di volta in volta recepiti, privilegiò la dimensione biologico-vitalistica della vita (1923), per poi dedicarsi, alla maniera di Max Scheler, alla concezione dell’uomo; della «circostanza», l’aspetto patriottico, riflettendo, dopo il fondamentale libro Meditazioni del Chisciotte (1914), su un altro simbolo universale spagnolo: Don Giovanni. Questo gli consentì di approfondire la dinamica dei sentimenti e dell’amore nella vita umana, che, pertanto, non è solo ragion pura. 3) Mutuando decisive suggestioni da Dilthey e Heidegger, dal 192835 Ortega approda all’ontologia o metafisica della vita umana, intesa come biografia e sto8201

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Ortega y Gasset ria, delineando un’analitica esistenziale (distinta, però, sia dall’esistenzialismo, sia dalle varie tendenze della Lebensphilosophie) e dando origine alla «Scuola di Madrid». 4) Verso la metà degli anni trenta, anche a seguito dell’esilio, si assiste a una «radicalizzazione» dell’idea di filosofia, in relazione a quel pessimismo e a quell’ansia sistematica non disgiunti dalle preoccupazioni per i tragici fatti spagnoli ed europei. Il pensiero filosofico di Ortega potrebbe riassumersi e fissarsi nella frase che si legge già nelle Meditaciones del Quijote (1914): «Io sono io e la mia circostanza». Il mondo è concepito come una «prospettiva» che rientra in modo essenziale nell’esistenza umana, nel momento esistenziale concreto, nella «circostanza»; perciò la vita è sempre prospettiva e, con questo, «convivenza». Nello stesso tempo, la vita è una somma delle possibilità concrete proprie a ognuno, ed è da queste che si costituisce il reale, che è sempre oltre il puro «io», e tuttavia da esso inseparabile, in quanto sua circostanza. II porsi della possibilità concreta della mia circostanza, il suo manifestarsi e discoprirsi nel mio atto è, per Ortega, il momento in cui si compie la verità. Egli rivendica, in questo senso, il significato originario del termine greco alétheia: come lo scoprirsi luminoso e illuminante della possibilità di ogni uomo. La «circostanza» costituisce un’assunzione del mondo e delle cose nella vita: le cose vi prendono l’impronta umana e umanizzandosi si fanno appunto cultura; la quale poi entra a orientare la vita stessa come convivenza e coesistenza. In particolare, la relazione intellettuale soggetto-oggetto è in Ortega superata nella «occupazione vitale». La sostituzione dell’attività puramente intellettuale o razionale con l’occupazione vitale non significa sfiducia verso la ragione, ma sublimazione della vita, in quanto si considera la vita come realtà radicale e intima, ma vista dal punto della ragione e con essa. Ortega ha designato questo concetto col nome di «ragione vitale». La ragione non è forgiatrice di concetti, di immagini sostitutive delle cose, ma funzionalità vitale; e la vita è indissolubilmente legata alla ragione. La realtà radicale a cui bisogna riferire tutte le altre è la vita umana, ed è il carattere della vita come fare e come occupazione intrasferibile, ciò che ci spiega p. es. la collocazione in alcune credenze in cui «siamo», costitutive della condizione 8202

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dell’uomo. La «ragione» della «ragione vitale» orteghiana è, dunque, solo una funzione della vita; la «vita», poi, di questa stessa «ragione vitale» è conformatrice della storia, di cui ciascuna vita è una prospettiva. La prospettiva è, a sua volta, uno dei componenti della realtà; perciò, una prospettiva che pretendesse di essere assoluta sarebbe, per la sua stessa pretesa, falsa e fallace. La ragione vitale è quindi ragione storica. Il tema del nostro tempo (1923), dove emergono suggestioni mutuate da G. Simmel, consiste nel far emergere la realtà radicale della vita in opposizione alle visioni unilaterali del razionalismo, del relativismo e dell’idealismo. La vita deve essere colta, ma la cultura deve essere vitale. Pur esaltando i valori biologico-vitali, tuttavia, Ortega insiste sul fatto che la ragion pura deve cedere il passo alla ragion vitale, al fine di rovesciare il tradizionale aforisma «la vita per la cultura» con «la cultura per la vita». Perciò, né vitalismo, né razionalismo, ma ragion vitale in relazione dinamica con la circostanza. Con la celebre opera Cos’è filosofia? (1929), Ortega intraprende quella «seconda navigazione» contrassegnata dal passaggio dall’antropologia alla metafisica, grazie al decisivo contributo di Heidegger e Dilthey, armonizzati col pensiero di Hartmann, Scheler e Husserl. In particolare, Essere e tempo di Heidegger ha rappresentato una sfida per Ortega, la cui opera sarebbe rimasta effimera e aneddotica se egli non avesse riorganizzato il suo pensiero a un livello metafisico, salvandolo dalle ambiguità psicologiche e antropologiche degli anni anteriori. Il ritorno alla filosofia all’altezza degli anni trenta dipende dai motivi di sempre, essendo la filosofia un problema assoluto alla ricerca del fondamento. Quale conoscenza dell’universo, la filosofia è eterogenea alla scienza, dal momento che non è solo il problema dell’assoluto, ma è in assoluto un problema, sovente drammatico non essendone certa la soluzione, come avviene al contrario per la scienza, che si differenzia anche in ordine al grado di verità conseguita, rispetto alla filosofia. Ciò nonostante, l’inesatta verità filosofica è più vera e più radicale di quella scientifica, poiché nell’uomo c’è un’inesauribile sete di conoscenza che può essere soddisfatta solo dalla disinteressata ricerca teoretica, alla quale egli si dedica con un’attitudine ludico-sportiva. È impellente superare le «due grandi me-

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tafore» della filosofia: il realismo e l’idealismo. La verità è la pura coesistenza di un io con le cose, delle cose dinanzi all’io. Insomma, il semplice fatto o realtà radicale è la nostra vita, quella di ciascuno, rileva Ortega al seguito di Dilthey, per il quale la vita è il fatto fondamentale e il punto di partenza della filosofia. Per descrivere tale concretissima realtà radicale, è impellente procedere alla riforma della filosofia, onde esibire una nuova tavola delle categorie, secondo le quali la vita è essere nel mondo, decisione, «da-fare» in confrontoscontro con la propria circostanza, preoccupazione per il futuro, vocazione, progetto; in definitiva, è strutturalmente biografia e storia. Negli altri scritti di questa fase della maturità, Ortega affronta i temi del conoscere e la stessa riforma della metafisica col metodo della ragion vitale e storica, sulla base di un serrato confronto con Heidegger e Dilthey. Rispetto a quest’ultimo, Ortega parla di un approccio «distinto e distante, in quanto ambedue affrontano il problema ad un diverso livello, l’uno più avanzato e più completo dell’altro. L’idea della ragion vitale rappresenta, nel tema della vita, un livello più elevato rispetto alla ragion storica, di cui si accontentò». Si assiste, nel frattempo, a una puntigliosa quanto polemica rivendicazione di priorità riguardo a certe tematiche fondamentali del libro heideggeriano del 1927, anche se bisogna rilevare che invero manca nel pensatore spagnolo quella sistematicità e radicale originarietà, per sottacere della sottovalutazione del ruolo determinante della «differenza ontologica» nelle opere della «Kehre». Ciò nonostante, negli anni trenta Ortega aveva elaborato una via autonoma, che darà luogo alla «Scuola di Madrid», sulla base di un progetto organico, purtroppo incompiuto, delineato negli anni 1928-35 e incentrato sulla riforma dell’idea dell’essere e del conoscere (rispettivamente negli scritti su Che cos’è la conoscenza?, dove approfondisce la teoria dell’esecutività; e nelle Lezioni di metafisica, in cui viene affrontata nientemeno che la questione dell’essere); e inoltre sulle celebri analisi dell’uomo-massa, rispetto a cui la filosofia è l’attività lussuosa e superflua dell’uomo nobile; ed infine nelle riflessioni sulla pedagogia sociale, implicante una riforma dell’intelligenza e del ruolo dell’intellettuale, alla luce di un rinnovato rapporto tra cultura e vita all’altezza del proprio tempo. L’originalità

Ortega y Gasset del pensiero orteghiano consiste nell’aver coniugato storia e sociologia alla luce della concezione della ragione storica che, lungi dal rinvenire la razionalità nella storia (Hegel), individua la storicità della ragione. Non c’è storia, parlando con rigore, se manca una teoria generale della società. Di qui, le suggestive analisi sulla statica e dinamica sociale sulla base della teoria delle generazioni, del sistema degli usi e delle credenze; sul rapporto minoranze-masse, onde rendere ragione dell’evoluzione storica senza trascurare la dimensione politica. Ma gli eventi socio-politici spagnoli, connessi alla fine dell’esperienza della seconda repubblica e culminati nei tragici fatti del 1936 col conseguente esilio volontario di Ortega, diedero origine a quella «fase radicale» sul piano filosofico e al silenzio sulle questioni pubbliche, per concentrarsi nel vano intento di dare una veste organico-sistematica alla sua opera, che verrà pubblicata postuma (tt. VIXII). Di questo ventennio assume particolare interesse la «radicalizzazione» della concezione dell’essere e del conoscere e, in ultima analisi, dell’idea stessa di filosofia. Questa, lungi dal costituire una possibilità permanente dell’uomo, ha un’origine storica; essa, in quanto metafisica, sorse «un bel giorno in Grecia ed è giunta certamente fino a noi ma senza alcuna garanzia della sua continuazione». Perciò, la filosofia non è un modo costante dell’uomo, non è ubiqua e ucronica. Nasce e rinasce in determinate congiunture della storia, che si caratterizzano perché in esse una fede, un repertorio di vigenze noetiche tradizionali soccombono. La riprova sta anche nel fatto che ciò che oggi si pratica «sotto l’etichetta tradizionale di filosofia non è filosofia, ma qualcosa di nuovo e di diverso rispetto a tutte le filosofie». I temi classici della filosofia (anima, mondo, Dio, il trascendente ecc.) non sono trattati da Ortega in modo speciale, mantenendosi egli fedele alla «ragione vitale» come elemento originario nel quale soltanto potranno essere impostati e compresi i problemi, che saranno poi sempre necessariamente occasionali. Allo stesso modo, i concetti tradizionali della filosofia non servono a cogliere la vita nella sua radicalità e quindi sono pure incapaci di spiegare soddisfacentemente le stesse cose che vogliono esprimere, non essendo fondati sulla realtà vitale singolare, unica, circostanziale. La metafisica possibile e filosofi8203

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Ortega y Gasset camente feconda è, per Ortega, quella che ci insegna ciò che è la vita nella sua radicalità. L’importanza di Ortega nel pensiero spagnolo contemporaneo è decisiva, nel senso che la filosofia e la cultura spagnola gli sono debitrici di uno stile e di una struttura di pensiero in ogni settore. Tra i filosofi che apertamente si sono ispirati al suo pensiero, a tal punto da potersi parlare di una vera e propria «Scuola di Madrid», ricordiamo Julián Marías, José Gaos, Manuel García Morente, Joaquín Xirau, María Zambrano, Eugenio Imaz, Alejandro Díez Blanco, Eduardo Nicol, José Ferrater Mora, Juan David García Bacca, Luis Recaséns Siches, Xavier Zubiri. Più che all’esistenzialismo, la «Scuola di Madrid» si richiama alla filosofia della ragion vitale e storica orteghiana. Non si tratta di una scuola in senso stretto: i pensatori che ad essa si richiamano condividono un’ispirazione, un metodo e un orientamento dottrinale, sebbene ciascuno abbia poi delineato una peculiare prospettiva filosofica. A. Muñoz Alonso - A. Savignano BIBL.: opere: Obras Completas, Madrid 1932-1983, 12 voll. I primi sei furono pubblicati a cura dell’autore, con un Prologo, apparso nel vol. I ed ora in VI, pp. 342-354. Nel 1962 apparvero i voll. VII-IX, che contengono importanti opere inedite di carattere essenzialmente filosofico. I voll. X-XI, pubblicati nel 1969, contengono gli scritti politici, pubblicati tardivamente per difficoltà di censura; il vol. XII comprende quattro importanti corsi universitari, finora inediti. Gran parte delle Obras sono state pubblicate dalla «Revista de Occidente» presso Alianza Editorial, a cura di P. Garagorri, a partire dal 1979. In tale collezione sono state edite per la prima volta alcune opere inedite di Ortega, tra cui Qué es conocimiento?, Madrid 1984, che non fa parte dei 12 voll. delle Obras. Diamo qui di seguito il piano delle Obras Completas, la cui prima pubblicazione è avvenuta con il seguente ordine: vol. I, 1932; vol. II, 1946; voll. III-VI, 1947; voll. VII-IX, 1962; vol. X-XI, 1969; vol. XII, 1983. Vol. I: Articulos (1902-13), Vieja y nueva politica; Meditaciones del Quijote; Articulos, Personas, Obras, Cosas; vol. II: El Espectador (1916-34); vol. III: Articulos (1917-20); España invertebrata; Articulos (1923); El tema de nuestro tiempo; El ocaso de las revoluciones; Articulos (1924); Las Atlantidas; Ideas sobre la novela; Articulos (1925); La deshumanización del arte; Articulos (1926-27); Espiritu de la letra; Mirabeau o el político; vol. IV: Articulos (1929); Kant; Articulos (1930); La rebelión de las masas; Misión de la Universidad; Goethe desde dentro; La «Filosofía de la historia» de Hegel y la historiología; Articulos (1933); vol. V: En torno a Gali-

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leo; Articulos (1934-35); Misión del bibliotecario; Articulos (1935-37); Ensimismamiento y alteración; Meditación de la técnica; Ideas y creencias; Articulos (194041); vol. VI: Historia como sistema; Del imperio romano; Teoría de Andalucia; G.Dilthey y la idea de la vida; Brindisis; (1917-43); Prologos (1914-43); Prólogo a «Veinte años da caza Mayor» del Conde de Yebes; vol. VII: Prólogos (1950-55); El hombre y la gente; Qué es filosofía?; Idea del teatro; vol. VIII: Prólogo para alemanes; La idea de principio en Leibniz y la evolución de la teoría deductiva; Meditación del pueblo joven; Velázquez; vol. IX: Una interpretación de la historia universal; Meditación de Europa; Origen y epilógo de la filosofía; La caza y los toros; Pio Baroja; Vives - Goethe; Pasado y porvenir para el hombre actual; Comentario al «Banquete» de Platón; Vol. X: Escritos políticos (1908-14); Escritos políticos (1914-20); Vol. XI: Escritos políticos (1922-30); Escritos políticos (1931-33); La redención de las provincias y la decencia nacional; Rectificacion de la República; El estatuto catalán; vol. XII: Unas lecciones de metafísica; La razón histórica; Investigaciones psicológicas. Epistolario: Epistolario, a cura di P. Garagorri, Madrid 1974; Epistolario completo Ortega - Unamuno, a cura di L. Robles, Madrid 1987. Traduzioni it.: L’uomo e la gente, a cura di L. Infantino, Milano 1978; Una interpretazione della storia universale, Milano 1978; Scritti politici, a cura di L. Pellicani, Torino 1979; La disumanizzazione dell’arte, a cura di O. Lottini, Cosenza 1980; Saggi sull’amore, con una Prefazione di F. Alberoni, Milano 1982; Aurora della ragione storica, con una Prefazione di L. Pellicani, Milano 1983; Idee per una storia della filosofia, a cura di A. Savignano, Firenze 1983; Storia e sociologia, con un’Introduzione di L. Infantino, Napoli 1983; Sul romanzo, con una Prefazione di O. Lottini, Milano 1983; Carte su Velázquez e Goya, con un’Introduzione di Cesco Vian, Milano 1984; La missione del bibliotecario, Milano 1984; La ribellione delle masse, con un’Introduzione di L. Pellicani, Bologna 1984; Lo spettatore, con una Postfazione di C. Bo, Parma 1984; Scienza e filosofia, con un’Introduzione di L. Pellicani, Roma 1984; Il tema del nostro tempo, Milano 1985; Meditazione del Chisciotte, a cura di O. Lottini, Napoli 1986; Meditazioni sulla felicità, Milano 1986; Vitalità, anima, spirito, Rimini 1986; Metafisica e ragione storica, a cura di A. Savignano, Milano 1989, rist. 1995; Missione dell’università, a cura di A. Savignano, Napoli 1992; Cos’è filosofia?, a cura di A. Savignano, Genova 1994; Origine ed epilogo della filosofia, a cura di A. Savignano, Milano 2002. Per la bibliografia, cfr. U. RUSKER, Bibliografía de Ortega, Madrid 1971; A. SAVIGNANO, Introduzione a Ortega, Bari 1996, pp.171-187. Su Ortega: J. FERRATER MORA, Ortega y Gasset. An Outline of His Philosophy, New Hawen 1957; tr. sp. ri-

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veduta e aumentata: Ortega y Gasset: etapas de una filosofía, Barcelona 1958; CH. CEPLECHA, The Historical Thought of Ortega y Gasset, Washington 1958; P. GARAGORRÍ, Ortega, una reforma de la filosofía, Madrid 1958; J.L. LÓPEZ ARANGUREN, La ética de Ortega, Madrid 1958; S. RAMÍREZ, La filosofía de Ortega y Gasset, Barcelona 1958; S. RAMÍREZ, Un orteguismo católico? Diálogo amistoso con tres epigonos de Ortega, españoles, intellectuales y católicos, Salamanca-Madrid 1958; J.P. BOREL, Raison et vie chez Ortega y Gasset, Neuchâtel 1959; B. V. GALEN, Die Kultur- und Gesellschaftsethik J. Ortega y Gassets, Heidelberg 1959; S. RAMÍREZ, Ortega y el núcleo de su filosofía. EI tema del hombre. Los primeros principios, Madrid 1959; U. CASANOVA SÁNCHEZ, Ortega, dos filosofías, Madrid 1960; M. GRANELL MUÑIZ, Ortega y su filosofía, Madrid 1960; FR. ROMERO, Ortega y Gasset y el problema de la jefatura espiritual y otros ensayos, Buenos Aires 1960; FR. DÍAZ DE CERÍO, J. Ortega y Gasset y la conquista de la conciencia histórica (Mocedad, 1912-15), Barcelona 1961; G. FERNÁNDEZ DE LA MORA, Ortega y el 98, Madrid 1961; R. TREVES, Libertà politica e verità, Milano 1962, pp. 63-101; A. GUY, Ortega y Gasset critique d’Aristote, Paris-Toulouse 1963; F. GOYENECHEA, Lo individual y lo social en la filosofía de Ortega y Gasset, Zürich 1964; A. RODRÍGUEZ HUÉSCAR, Con Ortega y otros escritos, Madrid 1964; J. HIERRO SÁNCHEZ-PESCADOR, El derecho en Ortega, Madrid 1965; C. MORON ARROYO, El sistema de Ortega, Madrid 1968; N.R. ORRINGER, Ortega y sus fuentes germánicas, Madrid 1979; J. MARÍAS, Ortega, Madrid 1983, 2 voll.; A. SAVIGNANO, Ortega. La ragion vitale e storica, Firenze 1983; P. CEREZO GALÁN, La voluntad de aventura, Barcelona 1984; A. REGALADO GARCIA, El labirinto de la razón. Ortega y Heidegger, Madrid 1990; G. MORÁN, El maestro en el erial, Barcelona 1998; J. ZAMORA BONILLA, Ortega, Barcelona 2002.

ORTES, GIAMMARIA. – N. il 2 mar. 1713 a VeOrtes nezia, m. il 22 lug. 1790 a Venezia. Visse prevalentemente a Venezia dedicandosi alla ricerca in diversi campi del sapere. Fu influenzato dalla cultura materialista e meccanicistica che prendeva a modello la fisica newtoniana ma insieme professava un generale scetticismo sulla conoscibilità delle infinite «combinazioni» dei fenomeni. A partire dagli anni cinquanta si dedicò a tematiche storico-sociali e in particolare all’economia, alla politica e alla religione. Il progetto di introdurre nelle discipline «morali» il «metodo geometrico» è realizzato in Calcolo sopra il valore delle opinioni, e sopra i piaceri, e i dolori della vita umana (Venezia 1757) che svolge un esempio di «calcolo felicifico» che pone piace-

Orti y Lara re e dolore quali moventi dell’azione. Sollecitato dal dibattito sui privilegi ecclesiastici, ritenuti da larga parte dell’opinione pubblica un ostacolo allo sviluppo economico, pubblicò nel 1771 Errori popolari intorno all’economia nazionale, dove sono contenute in nuce tematiche che saranno sviluppate nell’Economia nazionale (Milano 1774) e in Della Religione e del Governo dei popoli (1780). La veste geometrica e la modernità dell’approccio metodologico convivevano in Ortes con concezioni fortemente anti-illuministiche, quali l’idea stazionaria dell’economia e la legittimazione dei privilegi ecclesiastici in fatto di possesso dei beni. Pubblicate nel 1790 all’indomani della morte, le Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto all’Economia Nazionale contengono numerosi spunti che si ritroveranno nella teoria della popolazione di Thomas R. Malthus, economista al quale Ortes viene frequentemente associato. T. Maccabelli BIBL.: Scritti editi e inediti di Gianmaria Ortes, ed. a cura di G. Torcellan, Milano 1961; L’Economia nazionale, Bologna 1976 (comprende Riflessioni sulla popolazione delle nazioni); Errori popolari intorno all’Economia Nazionale e al governo delle nazioni: considerati sulle presenti controversie fra laici e chierici sopra queste materie, Milano 1999; tutti gli scritti di Ortes furono ristampati in «Scrittori classici italiani di Economia politica. Parte moderna», voll. 21-27, Milano 1804-06, e supplementi, 1816. Su Ortes: B. ANGLANI, L’apologista libertino. La religione «atea» di Giammaria Ortes, in «Le Spectateur européen/The European Spectator», 3 (2002), pp. 141169; P. FARINA, «Investigare e spiegare l’apparente per il reale delle cose»: «Il metodo de’ geometri» in Giammaria Ortes, in «Giornale critico della filosofia italiana», 22 (2002), pp. 58-105.

ORTI LARA, JUAN MANUEL. – N. a MarmoOrti y YLara lejo (Jaén) il 29 ott. 1826, m. a Madrid il 7 genn. 1904. Professore all’Università di Madrid; dal punto di vista del tomismo più rigido affrontò il problema delle relazioni tra la scienza e la fede, e scrisse opere di tono molto polemico contro il krausismo spagnolo e contro il pensiero moderno : El racionalismo y la humildad, Madrid 1862 ; Ensayo sobre el catolicismo en sus relaciones con la alteza y dignidad del hombre, ivi 1864; Lecciones sobre el sistema de filosofía panteística del alemán Krause, ivi 1865. A. Muñoz Alonso

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Orwell BIBL.: D. ISERN, Orti y Lara y su época, Madrid 1904; A. GÓMEZ IZQUIERDO, Don J. M. Orti y Lara. Su labor filosófica, in «Anales de la Facultad de Filosofía y letras de la Universidad de Granada», 1927, pp. 67-86.

ORWELL, GEORGE. – Pseudonimo di Eric ArOrwell thur Blair, n. a Motiari (Bengala) il 25 giu. 1903 e m. a Londra il 21 genn. 1950. Nel 1922 interruppe gli studi per arruolarsi nella Indian Imperial Police, ove lavorò fino al 1927. Venne successivamente in Europa, vivendo in condizioni estremamente precarie nei quartieri poveri di Parigi e di Londra. Partecipò alla guerra civile in Spagna, e ne ricostruì l’esperienza nel romanzo autobiografico Homage to Catatonia (London 1938). Dal 1939 al 1943 lavorò come commentatore radiofonico della BBC, ma poi serie lesioni polmonari ne condizionarono fortemente le attività. Nei primi anni quaranta iniziò la stesura di Animal Farm (London 1944) che inizialmente fu rifiutato dagli editori Secker & Warburg, per ragioni di opportunità politica, ed edito successivamente, nel 1944. Nel 1946 iniziò a scrivere Nineteen Eighty-Four (London 1949) che completerà nel 1948 e pubblicherà nel 1949. Come il precedente, anche questo romanzo ottenne un successo immediato. Orwell appartiene, a buon diritto, alla storia dell’evoluzione dell’utopia, nella forma del genere letterario che si è sviluppato maggiormente nel Novecento, l’antiutopia o controutopia. Si avvale, quest’ultima, della tecnica narrativa propria delle costruzioni utopiche, ma si caratterizza per un rovesciamento di prospettiva: l’ideale e lo stato di perfezione della vita comportano un esito contrapposto, la negazione di ciò che più costruisce e interessa l’uomo. Cupa, per alcuni versi terrificante, appare la controutopia di Orwell che presenta, già in Animal Farm, una dura satira contro il totalitarismo, mostrando come la rivoluzione russa, alla quale il suo scritto si riferisce, compiuta in nome dell’uguaglianza e della libertà, si sia trasformata in una feroce tirannide. Il suo pensiero si rende più esplicito nell’opera Nineteen Eighty-Four, ove esibisce i caratteri di un sistema politico-sociale oppressivo e totalmente regolato al quale reagisce l’uomo, in forza dei suoi sentimenti. Quel sistema totalitario è vigilato, in modo inesorabile, dallo sguardo del «Grande Fratello», al cui potere non è consentito sottrarsi. Un potere rafforza8206

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to anche da quella che Orwell definisce la «neolingua». G. Crinella BIBL.: Altre opere: Down and Out in Paris and London, Paris 1933, tr. it. di I. Leonetti, Senza un soldo a Parigi e a Londra, Milano 1966; The Collected Essays, Journalism and Letters, London 1968, tr. it. a cura di E. Giacchino, Tra sdegno e passione: una scelta di saggi, articoli, lettere, Milano 1977. Su Orwell: J. MEYERS, G. Orwell, London 1975; G. ZANMARCHI, Invito alla lettura di Orwell, Milano 1975; S. MANFERLOTTI, G. Orwell, Firenze 1979; B. CRICK, G. Orwell, Boston 1980, tr. it. di M.L. Bassi, G. Orwell, Bologna 1991; G. BULLA, Muro di vetro. Nineteen eighty-four e l’ultimo Orwell, Roma 1989; K. KUMAR, Utopia e antiutopia. Wells, Huxley, Orwell, Ravenna 1995.

OSCURANTISMO (obscurantism; ObscuranOscurantismo tismus; obscurantisme; obscurantismo). – Nato quasi contemporaneamente a «illuminismo» e con significato ad esso antitetico, il termine indica un atteggiamento di opposizione sistematica e organizzata al progresso dei «lumi» in campo teoretico e pratico. Il termine ebbe fortuna, soprattutto in senso polemico, nel corso del sec. XIX, quando assunse una prevalente connotazione politica, in particolare nella polemica intorno all’istituzione della scuola pubblica. Inizialmente il contrasto tra illuminismo e oscurantismo si svolse principalmente nella Francia di Luigi XV, il quale, a differenza dei sovrani «illuminati» d’Europa (Federico II di Prussia, Caterina II di Russia), lasciò alla chiesa nazionale il compito di combattere il movimento che faceva capo a Voltaire e all’Encyclopédie. Questa opposizione fu diretta dai gesuiti; nella polemica s’inserirono anche i giansenisti, senza tuttavia assumere una posizione decisa a favore degli uni o degli altri. L’avvenimento culminante dell’opposizione antilluministica fu la condanna dell’Encyclopédie pronunciata nel 1759 da papa Clemente XIII, il quale ne proibiva l’acquisto e scomunicava i fedeli che ne avessero conservate le copie. L’anno dopo fu rappresentata a Parigi una commedia di Ch. Palissot de Montenoy, Les Philosophes, in cui era derisa la «mania filosofica» del secolo. La commedia fu poi denunciata da Diderot (in Le neveu de Rameau) come un barbaro documento di oscurantismo. Gli illuministi combatterono un oscurantismo anche nel campo politico ed economico, opponendo

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Osipovskij

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per esempio il fisiocratismo a tutte quelle sovrastrutture di privilegi, dazi, pedaggi ecc. che impedivano il naturale e libero svolgimento del commercio e delle relazioni sociali. Q. Principe - M. Longo BIBL.: si confronti la voce «Illuminismo». ➨ ILLUMINISMO.

OSCURO (obscure; Dunkel; obscur; oscuro). – Oscuro Nella filosofia moderna il significato del termine si contrappone alla chiarezza che è garanzia della validità conoscitiva delle nostre rappresentazioni. Per Cartesio sono oscure le idee che derivano dai sensi, dall’immaginazione (idee avventizie e fattizie), dalla memoria (cfr. I Meditatio; Discours, 4; Principia philosophiae, vol. I, §§ 4-73). Esse, infatti, si oppongono alla conoscenza chiara, «quae menti attendenti praesens et aperta est» (Principia philosophiae, vol. I, § 45). Locke considera causa di oscurità delle idee l’imperfezione degli organi, la debolezza delle impressioni o della memoria e l’indeterminatezza che non lascia distinguere gli oggetti o non dà di essi una percezione piena ed evidente (cfr. Essay, libro II, capp. 9, 11, 29). Per Leibniz una conoscenza è oscura quando con essa non si riconosce una cosa distintamente da un’altra (cfr. Discours de Métaphysique, 24), ed è tale precisamente la natura delle «piccole percezioni», che, prese a parte, non hanno nulla che le distingua sufficientemente l’una dall’altra (cfr. Nouveaux essais, prefazione; Monadologie, 14, 19, 20, 21, 23, 49, 52; Théodicée, 32, 66, 386). S. Alberghi

OSGOOD, CHARLES EGERTON. – Psicologo Osgood americano, n. a Somerville, Massachusetts, nel 1916, m. nel 1991 a Champaign, Illinois, USA. Professore di psicologia presso le università del Connecticut e dell’Illinois, ha diretto dal 1957 al 1984 il Communications Research Center di quest’ultima sede. Nel 1963 è stato presidente dell’American Psychological Association. È uno dei fondatori della moderna psicolinguistica, curatore (insieme a T. Sebeok) di una celebre antologia (Psycholinguistics: A Survey of Theory and Research Problems, Bloomington, 1965), nel momento di passaggio dal paradigma comportamentista a quello cognitivista. Osgood si è occupato principalmente della dimensione connotativa del linguaggio e il suo

nome è legato al metodo sperimentale noto come «differenziale semantico» (in collaborazione con G.J. Suci e P. Tannenbaum, The Measurement of Meaning, Champaign, Illinois, 1957). Attraverso tale tecnica è possibile misurare l’atteggiamento dei parlanti nei confronti di determinate parole, proiettando i giudizi connotativi su una scala tridimensionale che prende in considerazione i fattori di valutazione (positivo/negativo), forza (forte/debole) e attività (attivo/passivo). F. Lorenzi BIBL.: in collaborazione con M.S. MIRON e W.H. MAY, Cross-Cultural Universals of Affective Meaning, Champaign (Illinois) 1976; Focus on Meaning, The Hague Paris 1976. Su Osgood: C.E. OSGOOD - O. TZENG (a cura di), Language, Meaning, and Culture: The Selected Papers of C.E. Osgood, New York 1990, con una bibliografia completa delle opere.

OSIPOVSKIJ, TIMOFEJ FEDOROVIC. – MateOsipovskij matico e pensatore russo, n. a Vladimir nel 1766, m. a Mosca nel 1832. Studia prima al seminario di Vladimir, poi all’Istituto pedagogico di San Pietroburgo; diventa professore di matematica all’università di Char’kov. Si oppone alla concezione idealistica della natura, e specialmente alla filosofia della natura di Schelling. Critica anche Kant e la sua dottrina dello spazio e del tempo. Traduce in russo la Logica di Condillac (Moskva 1805). Oltre a un corso di matematica (180123) che presto diviene un’opera di riferimento, scrive O vremeni i prostranstve (Del tempo e dello spazio), Char’kov 1809; Razsuzdenie o dinamiceskoj sisteme Kanta (Considerazioni sul sistema dinamico di Kant), ivi 1813; Recherches sur les phénomènes lumineux qu’on aperçoit quelquefois au ciel dans les positions déterminées par rapport au Soleil ou à la Lune, Paris 1828. L. Gancikov BIBL.: I.N. KRAVEC, Timofey F. Osipovskij vydajuscijsja russkij filosof-materialist i estestvoispytatel (Osipovskij eminente filosofo materialista russo), in «Voprosy filosofii», 1-3, 1951, pp. 111-120; G.F. RYBKIN, I tratti materialistici della Weltanschauung di Michail Vasilevich Ostrogradskii e del suo maestro Timofey Fedorovic Osipovskij (in russo), in «Uspekhi Matematicheskikh Nauk», 48 (1952), 2, pp. 123-144; G.F. RYBKIN, Timofey Fedorovic Osipovskij – vydajuscijsja russkij ucenyj i myslitel‘ (Timofey Fedorovic Osipovskij – Uno straordinario intellettuale e pensatore russo), Moskva 1955.

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Osorio OSORIO, JERONIMO. – Umanista portoghese, Osorio n. a Lisbona nel 1506, m. a Tavira nel 1580. Studiò a Salamanca, Parigi e Bologna; scrittore fecondo e facondo (fu detto il «Cicerone portoghese»), nel 1564 fu eletto vescovo di Silves. Accanto ai trattati storiografici, le opere di Orosio che hanno rilevanza filosofica sono le seguenti: De nobilitate civili et christiana (Olyssipone 1542), De gloria (Basiliae 1549), De iustitia (Venetiis 1564), Epistola Hieronymi Osorii ad Serenissimam Elisabetam Angliae Reginam (Venetiis 1563), De vera sapientia (Olyssipone 1578), De regis institutione et disciplina (Coloniae Agrippinae 1572, dialogo). Nel trattato sulla giustizia, Orosio definisce in generale la giustizia in relazione alla nozione di bene, congiunta a quella di bello, entrambe fatte confluire nell’ideale di perfezione che si distribuisce nell’ordine, nell’armonia e nella perfezione del creato. La giustizia è l’universo definito dalla legge e dal diritto, stante che la legge somma e perfettissima è rappresentata dalla mente e dalla ragione di Dio. Orosio elabora un ideale di ragione strettamente convergente con la fede, giungendo a una concezione della filosofia come conoscenza di Dio; le filosofie greco-romane vanno perciò integrate con l’apporto della sapienza della croce di Gesù Cristo. Critico nei confronti di Lutero, nel De nobiliate civili et christiana Orosio si confrontò altresì con la concezione della storia di Machiavelli, respingendo l’accusa di indebolimento delle strutture politiche da questi mossa al cristianesimo: non i valori cristiani hanno minato la compattezza degli stati del passato, bensì l’ipertrofia espansiva degli imperi e la rottura dell’equilibrio compaginante la società civile degli uomini, rottura determinata dalla mancanza di controllo delle passioni. Proprio a Machiavelli Orosio rimprovera di aver voluto istruire il principe invitandolo all’uso sregolato delle passioni, e fornendo una visione assolutizzata, e perciò abbagliante, del potere fine a se stesso. A. Ghisalberti BIBL.: Hieronimi Osorii Lusitani Episcopi Algarbiensis Opera Omnia, Romae 1592; Cartas, ed. a cura di A. Guimaraes Pinto, Silves 1995 (epistolario). Su Osorio: D. BIGALLI, La trama delle passioni nel «De regis institutione et disciplina» di Jeronimo Osorio, in «Cultura, Historia e Filosofia», 5 (1985), pp. 319337; D. BIGALLI, Isole di dottrina: il dialogo De gloria di Jeronimo Osorio, in D. BIGALLI - G. CANZIANI (a cura di),

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Il dialogo filosofico nel Cinquecento europeo, «Atti del convegno internazionale di studi, Milano, 28-30 maggio 1987», Milano 1990, pp. 171-174; D. BIGALLI, Jeronimo Osorio: tra crisi dell’erasmismo politico ed emergere della ragion di stato, in A.E. BALDINI (a cura di), Aristotelismo politico e ragion di stato, «Atti del convegno internazionale di Torino, 11-13 febbraio 1993», Firenze 1995, pp.103-114; P. CALAFATE, D. Jeronimo Osorio, in P. CALEFATE (a cura di), História do pensamento filosófico portugues, vol. II: Renascimento e Contra-Reforma, Lisboa 2001, pp. 84-123.

OSPITALITÀ (hospitality; Gastlichkeit; hospitaOspitalità lité; hospitalidad). – L’ospitalità si svolge come un incontro, ma di cosa è fatto l’incontro ospitale? Oggi sono soprattutto le scienze sociali a occuparsene. Quando studiano i riti connessi all’arrivo degli stranieri nelle società arcaiche, oppure prendono in considerazione il patto di ospitalità che i greci sancivano con gli stranieri. A Roma nasce con un carattere interfamiliare e svolge rapporti d’accoglienza privata laddove lo stato non tutelava ancora lo straniero. Coniugata da Kant come diritto ospitale, oggi si torna a guardare all’ospitalità e al suo bagaglio di idee ed esperienze per affrontare una delle sfide più complesse della storia contemporanea: i flussi migratori. Esistono poi forme di ospitalità ancora tutte da indagare come l’affido, un istituto che permette a un bambino in difficoltà di essere ospitato temporaneamente da una famiglia. Si tratta solo di alcuni esempi, sufficienti per comprendere quanto le esperienze di ospitalità siano diverse tra loro per tempi, luoghi e soggetti in questione. Ma tutte queste esperienze – caratterizzate da geometrie variabili – hanno qualcosa in comune. Secondo Jacques T. Godbout, l’ospitalità è una relazione che si stabilisce attraverso un particolare operatore simbolico: il dono. Colui che riceve parla con l’invitato la lingua del dono. Per questa ragione, se sulla porta della casa ospitante comparisse l’insegna bed and breakfast, l’ospite resterebbe un po’ confuso. Già Rousseau, d’altra parte, lamentava che solo in Europa si esercitasse l’ospitalità a pagamento e ancora non era in grado di osservare, come più tardi farà Max Weber, che nel sistema economico moderno l’economia domestica non fornisce più il modello di tutte le relazioni economiche, ma al contrario il mercato costituisce ormai il grande attrattore. Benché l’ospitalità a pagamento (il turismo) sia divenuta oggi uno dei

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più floridi business planetari, ciò non toglie che l’ospitalità-dono resti un’esperienza perfettamente praticabile, e difatti qua e là praticata. Si tratta però di un’esperienza esigente. Colui che riceve infatti assume su di sé il rischio di effettuare una prestazione senza garanzia, il rischio di dare senza contropartita. Anche l’ospite, accettando l’invito, entra in un difficile gioco di ruoli. L’ospitalità infatti è un incontro in cui i protagonisti non hanno lo stesso statuto: uno riceve, l’altro è ricevuto. Lo spazio sociale dell’ospitalità non è uno spazio neutro come quello del mercato, ma è sempre lo spazio di qualcuno: la casa dell’amico o la società d’accoglienza. Anche se la formula del ricevere dice: «Fate come se foste a casa vostra», questo significa proprio che si è a casa di un altro, nel suo spazio, e l’ospite lo sa, come sa che non può installarsi a tempo indefinito. La relazione di ospitalità crea limiti e frontiere e ci obbliga a ridefinire continuamente il dentro e il fuori, il noi comunitario e lo straniero sconosciuto. Ma il ciclo temporale del dono – secondo Marcel Mauss – non si è ancora completato. Oltre al dare e al ricevere, esiste una terza obbligazione morale: il ricambiare. Entrare in un rapporto di dono significa infatti contrarre un debito. Sappiamo che talvolta il dono si trasforma e anche nella famiglia – il luogo della gratuità per eccellenza – circolano doni avvelenati. Ma quando il dono si sottomette al giogo della sua triplice obbligazione (dare, ricevere, ricambiare), allora nasce con l’altro una relazione di philia, simpatia, condivisione, capace di generare e rigenerare il legame sociale. D. Falcioni BIBL.: I. KANT, Zum ewigen Frieden, Berlin 1900, tr. it. di R. Bordiga, Per la pace perpetua, Milano 1995; M. MAUSS, Essai sur le don, in Sociologie et anthropologie, Paris 1950, tr. it. di F. Zannino, Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Torino 2002; J.T. GODBOUT, Recevoir, c’est donner, in «Communication», 65 (1997), pp. 35-47. ➨ ADOZIONE; DONO.

OSSERVAZIONE (observation; Beobachtung, Osservazione Wahrnehmung; observation; observación). – È la considerazione attenta e metodica di un oggetto o di un fenomeno, esterno o interno al soggetto conoscente, naturale-spontaneo oppure artificiale-provocato, fatta con lo scopo di conoscere le sue proprietà, le sue componenti, le sue leggi.

Osservazione Già nell’antichità alla osservazione è attribuito un ruolo importante nella ricerca, soprattutto come base per individuare cause e per risolvere problemi tecnici (Ippocrate, Aristotele e Galeno). In età medievale viene accentuata la dimensione progettuale, ovvero l’aspetto per cui l’osservazione si presenta come consapevole raccolta e organizzazione di dati e informazioni. Questa caratteristica sarà ulteriormente sviluppata da R. Bacone, Leonardo, Vives e altri, che possono essere considerati i precursori della procedura e del metodo scientifico. Spetterà comunque a F. Bacone di sottolineare che «l’uomo, interprete e ministro della natura, non estende le sue cognizioni e Ia sua azione se non in quanto scopre l’ordine naturale delle cose, sia con l’osservazione, sia con la riflessione» (Novum Organum, vol. I). Per Galileo la scienza consiste in «sensate esperienze e certe dimostrazioni». In questo contesto, l’osservazione, intesa genericamente come accertamento deliberato e metodico di fatti, svolge un duplice ruolo: all’inizio, quale constatazione di fatti che suggeriscono l’elaborazione di una ipotesi; nella fase conclusiva, come verifica, cioè come riproduzione organizzazione sistematica e intenzionale dell’esperienza, come sperimentazione. La distinzione, nell’ambito della prassi o della logica della ricerca scientifica, tra la constatazione spontanea di eventi e l’accertamento organizzato dei fatti (entrambi definibili come osservazione), quale si ritrova a esempio in C. Bernard (Introduction a l’étude de la médicine expérimentale), comporterebbe una distinzione tra una osservazione naturale (ingenua, primitiva, comune) e una osservazione scientifica (deliberata, metodica, progettata e formalizzata in modo da controllare le possibili variabili). Siffatta distinzione è negata o fortemente ridimensionata sia dal pragmatismo, che sottolinea l’intrinseco carattere attivo o operativo o sintetico dell’esperienza, sia dagli orientamenti epistemologici, che rilevano il ruolo attivo dell’osservatore nell’organizzazione dei dati empirici. L’empirismo logico ha cercato di individuare un «linguaggio osservativo», qualificante il discorso scientifico e costituito da termini relativi a proprietà o relazioni osservabili, anche formalmente distinto dal «linguaggio teorico», che può riferirsi a fatti o eventi non osservabili. Questa distinzione, proposta da Car8209

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Ostensivo nap, è stata contestata da Heisenberg (Die physikalisten Prinzip der Quantentheorie, 1930), ma ancor più da Popper, per il quale le «osservazioni sono sempre interpretazioni di fatti osservati; sono interpretazioni alla luce di teorie» (Logik der Forschung, 1934). Il carattere teorico dell’osservazione è stato radicalizzato da Hanson e, soprattutto, da Feyerabend, secondo il quale ogni fatto o dato osservato è in qualche modo precostituito dal quadro teorico che ne permette il rilevamento. Un significato particolare ha assunto l’osservazione in psicologia e in medicina. Nella scuola tradizionale (Herbert, Beneke) la psicologia si basa sull’osservazione di sé, cioè su un metodo introspettivo che tende a mettere in luce le percezioni interne dell’anima, prescindendo dal loro rapporto con il mondo esterno. Da parte sua la medicina evidenzia che ogni osservazione, e ancor più quella sistematica, comporta una selezione dei fenomeni osservati, dal momento che nessun fenomeno può essere percepito nella sua totalità. Per ridurre l’influenza di fattori inconsci o delle tendenze personali nella selezione dei fatti sono stati proposti due tipi di precauzioni: la raccolta precisa di informazioni in condizioni diverse e l’elaborazione di protocolli tipo, cioè la costruzione di schemi sistematici nei quali siano previsti i diversi aspetti che dovranno essere osservati, ripartiti in modo da costituire un campione rappresentativo di comportamenti. In tal senso significativo è il contributo della fenomenologia husserliana. Al metodo dell’introspezione si oppone Comte, il quale considera contraddittoria la posizione de «l’homme se regardant penser» (Cours de philosophie positive, Paris 1830-32, vol. I, p. 35, vol. Il, p. 773) e, più recentemente, il behaviorismo, che ritiene fondamentale la considerazione dei comportamenti esteriori per la comprensione della vita interiore. M. Sancipriano BIBL.: A. GUZZO, L’io e la ragione, Brescia 1947; L. GEYMONAT, L’intuizione nei processi dimostrativi matematici, in Saggi di critica delle scienze, Torino 1950; W. HEISENBERG, I principi fisici della teoria dei quanti, tr. it. di M. Ageno, Torino 19532; L. BOURGEY, Observation et expérience chez Aristote, Paris 1955; A. GUZZO, La scienza, Torino 1955; H.U. ASEMISSEN, Strukturanalytische Probleme der Wahrnehmung in der Phänomenologie Husserls, Köln 1957; S. MORGENBESSER (a cura di), Philosophy of Science Today, New York 1967; N.R. HANSON, Observation and Explanation, New

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York 1971; E. NAGEL, Observation and Theory in Science, Baltimore 1971; R.E. GRANDY (a cura di), Theories and Observation in Science, Englewood Cliffs, (New Jersey) 1973; A. CAPECCI, La scienza tra fede ed anarchia, Roma 1977; S. FENYO, Teoria, osservazione ed esperienza nella discussione epistemologica contemporanea, Roma 1982; G. RIGAMONTI, Teoria e osservazione, Bologna 1984; P. ACHINSTEIN (a cura di), Observation, Experiment, and Hypothesis in Modern Physical Science, Cambridge (Massachusetts) 1985; H.I. BROWN, Observation and Objectivity, New York 1987; F. BARONE, Teoria e osservazione nella metodologia scientifica, Napoli 1990; D. GOODING, Experiment and the Making of Meaning: Human Agency in Scientific Observation and Experiment, Dordrecht-Boston 1990; P. PARRINI, Conoscenza e realtà. Saggio di filosofia positiva, Bari 1995; R. INHETVEEN-R. KÖTTER (a cura di), Betrachten, Beobachten, Beschreiben: Beschreibungen in Kultur- und Naturwissenschaften, München 1996; M.C. GALAVOTTI (a cura di), Observation and Experiment in the Natural and Social Sciences, Dordrecht-Boston 2003; A. WIEGNER, Observation, Hypothesis, Introspection, Amsterdam - New York 2005.

OSTENSIVO (ostensif; ostensiv; ostensive; Ostensivo ostensivo). – a) Cosi è chiamato, nel processo dimostrativo, ciò che vale a chiarire il rapporto di consequenzialità fra quanto si è dimostrato e i principi o le premesse da cui muove la dimostrazione. È un procedimento che si contraddistingue da quello detto apagogico, o mediante l’assurdo. Stabilito già da Aristotele (cfr. An. pr., II, 8 ss.), è stato poi abbondantemente sviluppato nella logica formale scolastica. I sillogismi imperfetti, quelli cioè che concludono legittimamente ma non in maniera evidentissima (e sono, dei 21 modi utili classificati, tutti tranne i primi quattro) devono essere ridotti in altra forma per poter manifestare questa evidenza. La reductio ostensiva si compie attraverso la conversione, o rivolgimento di una o più proposizioni, e magari anche la trasposizione dell’una rispetto all’altra; la reductio ad impossibile si fa mostrando che la contraddittoria della conclusione ottenuta porterebbe alla contraddittoria di una delle premesse. La riduzione ostensiva non è ammessa per i due modi detti Baroco e Brocardo. Dei due tipi di procedimento dimostrativo parla anche Leibniz (cfr. Nuovi saggi, l. IV, VIII, § 2, Torino 1968). b) La definizione ostensiva è considerata dai filosofi del linguaggio ordinario come la forma più semplice di definizione. Essa sta alla base

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Oswald

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delle relazioni semantiche fondamentali del linguaggio ordinario e consta di un’operazione logica e di una pragmatica. La sua forma è: «questo si dice e si chiama x», dove x è una variabile che sta per i termini indicanti cose semplici dell’esperienza elementare. Accanto all’operazione logica, inclusa nella forma enunciata, è necessario, affinché la definizione sia valida, anche l’atto indicativo (od ostensivo: il dito della mano) verso la cosa da definire. La x può essere anche interpretata in modo più complesso, p. es. « questo è rosso, pesante, cubico ecc.». S. Alberghi ➨ APAGOGIA.

OSTWALD, WILHELM JAMES. – Chimico e filoOstwald sofo tedesco, n. a Riga (Lituania) nel 1853, m. a Grossbothen (Leipzig) nel 1932. Professore di chimica a Riga e Lipsia e Nobel per la chimica (1909), giunse alla filosofia attraverso un’interpretazione generalizzante e metafisica dei problemi fisici di trasformazione dell’energia. Ad es., contro il materialismo, egli sostiene le teorie dell’«energetismo», per cui l’elemento fondamentale della realtà è l’energia (Autopresentazione, p. 134). Tuttavia, lo sfondo metafisico della sua «filosofia della natura» contrasta con la metodologia della ricerca scientifica che egli delinea in accordo con le tesi dell’empiriocriticismo di Mach. L’energia, per l’appunto, è proprio una di quelle «ipotesi intuitive» o «immagini fisiche» che egli stesso propone di eliminare dalla scienza. Ostwald offre inoltre una classificazione delle scienze assai vicina a quella di Comte. Ai gradi più alti della classificazione appartengono le scienze fisiche (meccanica, fisica, chimica) e quelle biologiche (fisiologia, psicologia, sociologia), in cui il concetto fondamentale è quello di «energia», mentre, alla sua base, rientra non solo la matematica ma anche la «dottrina dell’ordine» (Ordnungslehre) che comprende la logica. Accanto a quello di energia, quindi, anche il concetto di ordine è di fondamentale importanza per la ricerca scientifica; ad esso si ricollegano anche le ricerche sui colori e le tesi estetiche sull’armonia sostenute da Ostwald nell’ultimo periodo della sua attività. F. Barone BIBL.: Die Energie und ihre Wandlungen, Leipzig 1888; Die Überwindung des wissenschaftlichen Mate-

rialismus, Leipzig 1895; Vorlesungen über Naturphilosophie, Leipzig 19053 (1895); Naturphilosophie, in Systematische Philosophie; Die Kultur der Gegenwart, I, Berlin-Leipzig 1907; Energetische Grundlagen der Kulturwissenschaft, Leipzig 1909; Die Philosophie der Werte, Leipzig 1913; Moderne Naturphilosophie, I: Ordnungswissenschaften, Leipzig 1914; Die Harmonie der Farben, Leipzig 1918; Die Harmonie der Formen, Leipzig 1922; Lebenslinien, Leipzig 1932-332 (192627), 3 voll. Su Ostwald: A. DOCHMANN, W. Ostwalds Energetik, Bern 1908 (dissertazione); W. BURKAMP, Die Entwicklung des Substanzbegriffs bei Ostwald, Stuttgart 1913; AA.VV., Festschrift aus Anlaß seines 60. Geburstages, Leipzig 1913; V. DELBOS, Une théorie allemande de la culture. W. Ostwald et sa philosophie, Paris 1916; Autopresentazione in Philosophie der Gegenwart, in R. SCHMIDT (a cura di), Selbstdarstellungen, Leipzig 1923, vol. IV; G. OSTWALD, W. Ostwald, mein Vater, Stuttgart 1953; J. BARRIO, El energetismo de W. Ostwald, in «Revista de Filosofía», 22 (1963), 84-85, pp. 63-98; J. ZEMAN, On the Critique of Energetism and Neoenergetism, in «Filosoficky Casopis», 37 (1989), 6, pp. 761-772; D. SOBCZYNSKA, Szientismus in der Praxis. Das Wirken W. Ostwalds im Deutschen Monistenbund, in «Philosophisches Jahrbuch», 105 (1998), 3.

OSWALD, JAMES. – Filosofo scozzese, n. il 23 Oswald lug. 1703 probabilmente a Dunnet (Caithness), m. il 2 ag. 1793 a Scotstoun, nei pressi di Glasgow. Studiò ad Aberdeen e a Edimburgo; fu ministro della Chiesa di Scozia prima a Dunnet, e poi, dal 1750 al 1783, a Methven (Perthshire). Oltre ad alcuni sermoni, scrisse An Appeal to Common Sense in Behalf of Religion (Edinburgh 1766-72, 2 voll., tr. ted. Appellation an den gemeinen Menschenverstand zum Vortheil der Religion, Leipzig 1774), che ebbe discreta fortuna. Associato alla scuola del «senso comune» di Th. Reid, del quale fu però piuttosto un volgarizzatore, Oswald insistette sul fatto che i principi del senso comune non possono essere provati, ma vanno accettati come fatti costitutivi della mente; inoltre moltiplicò i principi del senso comune fino a includere alcune verità religiose, come l’esistenza di Dio, e i valori morali e civili. Un esame critico delle tesi di Oswald venne compiuto da Priestley in An Examination of Dr. Reid’s Inquiry, Dr. Beattie’s Essay, and Dr. Oswald’s Appeal to Common Sense (London 1774). G. Micheli BIBL.: A. GAVIN, The Common Sense Philosophy of James Oswald, Aberdeen 1980; M. KÜHN - H.F. KLEMME,

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Otlone di St. Emmeran Die schottische Philosophie des Common Sense, in F. UEBERWEG, Die Philosophie des 18. Jahrhunderts, vol. I: Grossbritannien und Nordamerika, Niederland, Basel 2004, pp. 678-680; R.B. SHER - M.A. STEWART, s. v., in Oxford Dictionary of National Biography, vol. XLII, pp. 84-87.

OTLONE (OTLOH) DI ST. EMMERAN (OthloOtlone di St. Emmeran nus Sancti Emmerammi, Ratisponensis monachus). – Monaco e mistico cristiano, n. nel 1010, m. a Ratisbona nel 1070. Autore di un Liber de suis tentationibus, varia fortuna et scriptis (ed. a cura di J.-P. Migne, in Patrologiae cursus completus, Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Parisiis 1845-55, vol. CXLVI, coll. 27-58; ed. critica e tr. ted. a cura di S. Gäbe, in Lateinische Sprache und Literatur des Mittelalters, vol. XXIX, Bern et al. 1999), di un Dialogus de tribus quaestionibus (ed. a cura di J.-P. Migne, in op. cit., vol. CXLVI, coll. 59-136) e di un Liber visionum (ibi, coll. 341-388). Nelle sue opere Otlone narra i profondi turbamenti che gli procura la scissione interiore tra l’aspirazione dell’anima alla perfezione morale e il tormento del peccato. Il suo avversario è dunque interno alla sua persona: è la sua intelligenza, il suo amore per la logica e per il sapere profano. Questa sorta di nevrosi sembra risolversi soltanto nel Dialogus, dove Otlone si confronta con un monaco di nome Enrico su alcune questioni cruciali per l’equilibrio tra la fede e la ragione, utilizzando una serie di felici immagini simboliche che appagano, anche se non del tutto, le ambizioni della razionalità. L. Catalani BIBL.: G. D’ONOFRIO, La crisi dell’equilibrio teologico altomedievale (1030-1095), in G. D’ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, vol. I: I principi, Casale Monferrato 1996, pp. 461-465 (bibliografia alle pp. 479-480); N.F. USKOV, Die «Conversio» eines Mönchs im 11. Jahrhundert. Otloh von Sankt Emmeram bei der Arbeit an seinen Erinnerungen, in «Verhandlungen des Historischen Vereins für Oberpfalz und Regensburg», 139 (1999), pp. 7-45.

OTTAVIANO, CARMELO. – Filosofo realista, Ottaviano n. a Modica il 18 genn. 1906 e m. a Terni nel 1980. Si laureò all’Università cattolica di Milano. Dal 1939 è stato titolare della cattedra di Storia della Filosofia, successivamente, nelle Università di Cagliari, Napoli e Catania. Ha diretto la rivista «Sophia», da lui fondata nel 1933. È stato membro onorario dell’Università di Maiorca per la scoperta di 12 opere scono8212

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sciute di R. Lullo. Cultore dapprima della filosofia scolastica, Ottaviano si allontanò da essa in nome di un’apologetica cristiana più ampia e di una metafisica costruita su nuove basi. Opere principali: Critica dell’idealismo (Napoli 1936; Padova 19482; 19484; tr. ted., 1941); Metafisica dell’essere parziale (Padova 1942; 19472; III ed., 2 voll., Napoli 1954-55; tr. rumena, Bucarest 1944). Il primo lavoro costituisce una serrata critica del principio d’immanenza: l’idealismo vi si rivela interiormente contraddittorio; il secondo rappresenta la costruzione personale di Ottaviano, di cui è riduzione La tragicità del reale ovvero la malinconia delle cose (Padova 1964). L’esistenza del mondo reale è data come coesistente all’io e quindi come «essere in sé». La realtà è appresa dal soggetto mediante un contatto diretto: «Conoscere è sommare a sé dell’essere reale». Il «realismo immediato critico» introduce così due nozioni metafisiche: la «quantità di essere» e la sua «variabilità», per cui vengono a soluzione nuova i problemi del divenire, concepito come «progressivo annullamento dell’essere», e della molteplicità, spiegata con la «gradazione» irripetibile della quantità ontica. L’ente finito, in quanto diveniente, si rivela necessitato a porre il suo essere nello spazio e nel tempo, ogni volta come parte di sé, «parziale». Tale nozione chiarifica la realtà negativa dello spazio-tempo e conduce alla «tragicità» del finito, ove la teologia s’innesta alla filosofia. Dio-Ottimo, volendo la creazione, ha previsto, come sua condizione, l’elevazione degli enti finiti a un ordine superiore. È il soprannaturale che risponde alle funzioni di rendere infinito il finito e di liberarlo dalla tragicità spazio-temporale, con la conseguente spiritualizzazione dei corpi. In questa prospettiva, l’Incarnazione, canale della grazia, tornerebbe al centro della speculazione e i dogmi cristiani sarebbero difesi con un’apologetica più convincente. Assai importante è la teoria del «giudizio sineterico», con cui Ottaviano pensa di superare i giudizi sintetici a priori di Kant. Notevoli sono nell’etica di Ottaviano la nuova classificazione dei doveri e delle virtù e l’interpretazione dei rapporti tra grazia e libero arbitrio. Anche l’estetica, la prassiologia (fondata da Ottaviano) e la pedagogia sono indagini ricche di visioni e spunti interessanti, dedotti dalle premesse metafisiche. Ma è da sottolineare parti-

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colarmente l’unità del suo sistema, strettamente collegato dal filo della «sinetericità» (il greco ejtairiva richiama appunto l’idea di associazione): nulla è accettato che non sia «irrecusabile» e tutto è retto dal nesso necessario tra diversi. L’«anima» del pensiero di Ottaviano è la visione cristiana della vita come frutto della speculazione e, per essa, attesa di una nuova era filosofica. Fra i lavori di carattere storico ricordiamo: Pietro Abelardo. La vita, le opere, il pensiero, Roma 1929; Guglielmo d’Auxerre. La vita, le opere, il pensiero, ivi 1929; Riccardo di S. Vittore, in «Memorie dell’Accademia dei Lincei, Classe delle scienze morali», 1933; L’unità del pensiero cartesiano e il cartesianismo in Italia, Padova 1943; Il problema morale come fondamento del problema politico, ivi 1952; Valutazione critica del pensiero di B. Croce, ivi 1953. Tra le edizioni e traduzioni di testi medievali: S. Anselmo, Opere filosofiche, 3 voll., Lanciano 1928; R. Lullo, Ars compendiosa, Parigi 1930; Tractatus de universalibus, Roma 1932; Testi medievali inediti, Firenze 1933; Gioacchino da Fiore, Liber contra Lombardum, Roma 1934; Abelardo, Epistolario completo, Palermo 1934; Guglielmo di Conches, Philosophia seu summa philosophiae, Napoli 1935; T. Campanella, Epilogo Magno, Roma 1939. Lavori politicosociali: Lineamenti programmatici per una riforma della scuola italiana, in 2 parti, Padova 1962; Progetto di un disegno di legge per salvare la democrazia dalla dittatura, ivi 1961; Critica del socialismo, ossia Introduzione alla teoria delle proprietà per tutti, ivi 1964 (riduzione nei §§ 510523 di La tragicità del reale, cit.). G. Pigini BIBL.: A. MESSINEO, Critica dell’idealismo, in «La Civiltà cattolica», 1937, II, pp. 67-74; S. CULTRERA, La filosofia cristiana e la «Metafisica dell’essere parziale», in «La Civiltà cattolica», 1943, I, pp. 297-304; N. PICARD, Notae ad metaphysicam Carmeli Ottaviani, in «Antonianum», 1943, pp. 177-192; A. PIZZUTO, Note su una nuova estetica, in «Sophia», 1954, pp. 251259; F. OLGLIATI, Carmelo Ottaviano e la prassiologia, in «Rivista di Filosofia neoscolastica», 1954, pp. 584-591; P. MAZZARELLA, Il contributo di C. Ottaviano agli studi di Filosofia medievale, in «Sophia», 1956, pp. 334-376; P. MAZZARELLA, Tra finito e infinito. Saggio sul pensiero di C. Ottaviano, Padova 1961; G. COLETTI, La teoria del giudizio in C. Ottaviano, in «Sophia», 1958, pp. 167-171; S. MAROTTA, I grandi sistemi e la concezione unitaria. L’idea cristocentrica nel pensiero di C. Ottaviano, in «Educare», 1959, pp. 104-109; L. PAGGIARO, L’indagine religiosa nel pensiero

Ottimismo di C. Ottaviano, in «Giornale di Metafisica», 1960, pp. 283-296.

OTTIMISMO (optimism; Optimismus; optimiOttimismo sme; optimismo). – Il termine sembra sia stato adoperato per la prima volta nei «Mémoires de Trévoux» (febbr. 1737, p. 207), per definire la dottrina esposta da Leibniz nella Teodicea. In seguito il termine fu ripreso da Voltaire nel celebre opuscolo Candide, ou l’optimisme. Attualmente il vocabolo presenta due principali significati: quello acquisito appunto dalla Teodicea leibniziana (essere questo mondo il migliore dei mondi possibili), e quello, più lato, che consiste nella considerazione positiva della vita, per cui essa, nonostante i suoi mali, è giudicata essenzialmente un bene, senza tuttavia la pretesa che essa rappresenti la migliore delle vite possibili. ottimismo assoluto il primo, relativo il secondo. Ottimistiche, in senso lato, sono tutte quelle concezioni che pongono a fondamento della realtà un principio razionale. Spunti notevoli di ottimismo si possono perciò ritrovare nei filosofi greci, soprattutto in Platone («Infatti non è lecito a chi è ottimo di fare se non ciò che è bellissimo»: Tim., 30 a, 32 d, 34 b, 92 b (tr. it. di G. Reale, Milano 1994, p. 91), nonostante che il fondamentale dualismo classico, per cui accanto al principio razionale è collocata la materia, principio di irrazionalità, rappresenti un ostacolo insormontabile ad una visione della vita pienamente ottimistica. Così soltanto con la concezione monistica dello stoicismo si perviene nell’antichità a una posizione di ottimismo che sembra addirittura preludere a quella leibniziana (cfr. Epitteto, Manuale, 31; Cleante, Inno a Zeus; Stobeo, I, 1, 12; Cicerone, De natura deorum, II, 37). Essenzialmente ottimistica è la concezione cristiana, per la quale la realtà tutta, materia compresa, è creata da Dio, Sapienza e Bontà infinite. La bontà della creazione non esclude però l’esistenza del male, che ha le sue prime manifestazioni nella ribellione di Lucifero e di Adamo. Ne consegue una visione pessimistica della natura umana esposta sin dall’origine alla colpa, senza però che la fondamentale considerazione ottimistica venga meno: Dio sa trarre anche dal male il bene; il male ha certamente una funzione dialettica anche se è impossibile all’intelletto umano comprendere concretamente i superiori disegni della provvidenza divina. «Dio non solo non avrebbe crea8213

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Ottimismo to alcun angelo, ma neppure alcun uomo, se avesse previsto la sua malvagità e nello stesso tempo avesse ignorato in vista di quali vantaggi dei buoni utilizzarlo e così adornare, quasi sotto forma di antitesi, l’ordine dei secoli, come per un bellissimo poema» (Agostino, De civ. D., XI, 18, tr. di L. Alici, La città di Dio, Milano 1984; cfr. ancora: ibi., 23; Conf., XII, 11; De vera religione, 23, n. 44). Si tratta però, nella concezione cristiana, di un ottimismo sempre relativo. Tutto ciò che esiste è un bene («è necessario che ogni ente sia buono per il fatto stesso che ha l’essere»: Tommaso, De verit., q. 21, a. 2); ma il male metafisico, cioè la limitazione necessaria di ogni creatura, in quanto creatura, impedisce che possa essere raggiunto da una creatura un limite di perfezione insuperabile. Ciò implicherebbe d’altronde una limitazione della potenza e della libertà divina; quasi prevenendo la tesi leibniziana, Tommaso avverte: «di qualsiasi cosa da lui fatta Dio ne può fare un’altra migliore» (Sum. theol., I, q. 25, art. 6); «Dio potrebbe, tuttavia, fare altre cose, o aggiungerne altre a queste; e così quell’universo sarebbe migliore» (ibid.). L’ottimismo assoluto è tesi caratteristica del razionalismo moderno. Lo troviamo formulato esplicitamente in Spinoza. «Le cose sono prodotte da Dio con la massima perfezione: giacché sono state necessariamente dedotte da una natura perfettissima» (Etica, parte I, prop. XXXIII, scol. 2). Il male, il disordine non hanno realtà, perché dipendono da una veduta finalistica che è frutto dell’immaginazione umana (cfr. ibi, parte I, append.; parte IV, Prefazione). Ma la più classica espressione dell’ottimismo assoluto è contenuta nella Teodicea (Amsterdam 1710) di Leibniz. Tra tutti i mondi possibili presenti nell’intelletto divino, Dio ha scelto nell’atto della creazione il migliore, in ciò obbedendo all’infinita bontà sua e al criterio del meglio che rappresenta la ragion sufficiente senza la quale Dio stesso non si sarebbe determinato a creare questo piuttosto che un altro dei mondi possibili (Teodicea, 8; cfr. ancora: 116, 194, 195, 416 e passim; tr. it. di V. Mathieu Saggi di Teodicea sulla bontà di Dio, sulla libertà dell’uomo, sull’origine del male, Cinisello Balsamo 1994; Principes de la nature et de la grâce, 10; Monadologia, 90). A questa tesi si oppose Voltaire. In occasione del terremoto di Lisbona del 1755 egli scrisse il poemetto Sur le dé8214

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sastre de Lisbonne (Ginevra 1756) in cui contrappone al principio ottimistico il doloroso quadro delle immani sciagure che affliggono l’umanità. L’opera provocò una lettera di Rousseau a Voltaire, in data 18 apr. 1756, in cui il ginevrino difende la tesi leibniziana. Voltaire ribadisce la sua tesi nel Candide, ou l’optimisme (Ginevra 1759), nel quale la dottrina di Leibniz è posta in parodia. Nella disputa sull’ottimismo, provocata dal disastro di Lisbona, intervenne tra gli altri anche Kant con lo scritto Versuch einiger Betrachtungen über den Optimismus (Königsberg 1759). In questa fase precritica del suo pensiero Kant difende la tesi ottimistica nello spirito dell’argomentazione leibniziana. La conclusione però, di intonazione pragmatistica («se nel pericolo di errare devo decidermi [...] preferisco la buona necessità, nella quale si sta bene, e dalla quale non può derivare che il meglio»), prelude già alla fase critica nella quale egli giunge a condannare come impossibile ogni teodicea (Ueber das Misslingen alter philosophischen Versuche in der Theodizee, Königsberg 1791). La tesi ottimistica trova la sua più vigorosa ripresa nella filosofia hegeliana secondo la quale nella storia del mondo si realizza la stessa Ragione assoluta, gli aspetti negativi dell’esistenza non risultando che momenti dialettici attraverso i quali si rende attuale quell’ideale che fuori della storia concreta non è che vuota fantasia (Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it., Firenze 1947, p. 30) Ma come l’ottimismo leibniziano provocò la reazione di Voltaire, così il razionalismo ottimistico di Hegel ebbe la sua risposta nella concezione irrazionalistica e pessimistica di Schopenhauer. II principio stesso dell’ottimismo assoluto è da Schopenhauer capovolto nel principio del pessimismo assoluto (Il mondo come volontà e rappresentazione, II, tr. it. di G. Riconda, Milano 1969, p. 453). La disputa tra ottimismo e pessimismo include talvolta una concezione astrattamente oggettivistica e spesso deterministica della realtà, nella quale nessun posto vien fatto all’apporto della libera azione dell’uomo, da cui il mondo possa venire migliorato o peggiorato. Si veda quanto dice James a proposito di tale controversia: «Ricordatevi, vi prego, che ottimismo e pessimismo sono definizioni del mondo, e che le nostre proprie reazioni su di esso, per quanto piccole di volume, sono parti

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integranti del tutto e contribuiscono necessariamente a determinare la definizione. Può darsi anche che siano gli elementi decisivi nel determinare la definizione» (La volontà di credere, tr. it., Milano 1941, p. 65). Nel secondo Novecento, in particolare nel pensiero continentale, la tematica dell’ottimismo si contrappone nettamente a quella – assai diffusa – del crollo delle ideologie ottimistiche e del conseguente nichilismo e, in quanto tale, non viene particolarmente sviluppata. Essa tuttavia viene ripresa, in certa misura, sul piano della ragione pratica come tema del senso dell’esistenza umana e del postulato del senso. Cfr., per es., B. Welte, Religionsphilosophie, Freiburg-Basel-Wien 1980, cap. V, § 3 (tr. it di A. Rizzi, Dal Nulla al Mistero Assoluto, Genova 1985). P. Faggiotto - A. Campodonico BIBL.: G. MORANDO, Ottimismo e pessimismo, Milano 1890; D. KERLER, Jenseits von Optimismus und Pessimismus, Ulma 1914; L. NUTRIMENTO, La definizione del bene in relazione al problema dell’ottimismo, Padova 1936; E. GILSON, L’esprit de la philosophie médiévale, Paris 19322 (tr. it. di P. Sartori Treves Lo spirito della filosofia medioevale, Brescia 19697, serie I, cap. 6: L’ottimismo cristiano); L. STEFANINI, Ottimismo tomistico e pessimismo esistenzialistico, in «Sapientia Aquinatis», «Atti del IV Congresso tomistico internazionale, Roma 1955», pp. 562-572; G. BONAFEDE, Spiritualismo, ottimismo e pessimismo, Palermo 1957; C. VEREKER, Eighteenth Century Optimism, Liverpool 1967; G. CUNICO, Da Lessing a Kant, La storia in prospettiva escatologica, Genova 1992; R. CELADA BALLANTI, Erudizione e teodicea. Saggio sulla concezione della storia di G.W. Leibniz, Napoli 2004. ➨ NICHILISMO; SENSO.

OTTO, RUDOLF. – Teologo protestante, storiOtto co e filosofo della religione tedesco, n. a Peine (Hannover) il 25 sett. 1869, m. a Marburgo il 6 mar. 1937. Fu professore di teologia a Gottinga (1904), a Breslavia (1915), a Marburgo (dal 1917 al 1929). Studioso appassionato del misticismo religioso, volle conoscere il pensiero dei grandi maestri delle religioni orientali, e a questo scopo soggiornò a lungo in India, Cina e Giappone, come testimoniano moltissimi suoi contributi, a cominciare dal precocissimo resoconto di viaggio, Briefe von einer Reise nach Ägypten, Jerusalem und dem Berge Athos um Ostern 1895, pubblicato a puntate nel 1897 sul periodico «Der Hannoversche Sonntagsbote».

Otto Proseguì poi per gli studi su mito e psicologia in W. Wundt (Mythus und Religion in Wundts Völkerpsychologie, in «Theologische Rundschau», 13, 1910, pp. 251-275, 293-305), le osservazioni su Parallelisms in the Development of Religion East and West (in «Transactions of the Asiatic Society of Japan», 40, 1912, pp. 153158), un discorso tenuto nel 1912 che prelude direttamente ai contributi successivi, fino alla pubblicazione del suo testo sul «sacro». Attraverso l’opera del mistico medievale tedesco Meister Eckhart, cui è dedicato lo scritto Meister Eckehardt’s Mystik im Unterschiede von östlicher Mystik (in «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 6, 1925, pp. 325-350, 418-436), approfondì l’indagine su alcuni aspetti peculiari del misticismo cristiano, esponendo i risultati del suo lungo studio prima in numerose conferenze (Oberlin College, Ohio), poi nel volume West-östliche Mystik (Gotha 1926), preceduto dalla pubblicazione nella rivista «Logos» (13, 1924, pp. 1-30), di un saggio intitolato Östliche und westliche Mystik. Molte delle sue opere sono traduzioni e analisi di testi religiosi indiani: p. es., Vischnu Narayana. Texte zur indischen Gottesmystik I, Jena 1917 (ed. riveduta, Tübingen 19232); Siddhanta des Ramanuja. Texte zur indischen Gottesmystik II, Jena 1917 (Tübingen 19232); Die Gnadenreligion Indiens und das Christentum, Gotha 1930. Nelle sue opere, mettendo a confronto le varie forme e i diversi gradi della religiosità umana, quale si manifesta attraverso i secoli, Otto cercò di individuare gli elementi comuni alla mistica indiana e a quella cristiana, dando vita a un’indagine comparata del fenomeno del «sacro» e del «numinoso» come esperienza concreta del «rapimento» dalla realtà quotidiana, analisi suscettibile degli sviluppi più vari in discipline anche apparentemente lontane tra loro (p. es. antropologia, estetica ed etnologia, nonché psicologia e sociologia, storia e fenomenologia delle religioni, o infine teologia in senso stretto). Però Otto è molto conosciuto anche per la sua teoria sull’origine delle religioni, la quale, pur tenendo conto dei risultati dell’etnografia religiosa a lui contemporanea, mantenne sempre un carattere prettamente filosofico, così da inserirsi a pieno titolo nel filone tradizionale delle grandi prospettive di filosofia della religione, per quanto «corretta», quest’ultima, in un’accezione fenomenologica che del pari contribuisce all’originalità complessiva del 8215

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Otto suo pensiero, specialmente lì dove l’impulso fenomenologico «verso le cose stesse» viene tradotto nell’impulso verso il «più proprio», l’ineliminabile, della religione, ciò senza cui (il sacro, appunto, e l’esperienza che ne ha l’uomo) essa non sarebbe. In generale, egli subì l’influsso delle dottrine di Kant, di Schleiermacher, di Fries e di De Wette, che fanno scaturire la religione dal sentimento religioso, di carattere extrarazionale, e in esso pongono l’essenza stessa della religione, eliminando in tutto, o in gran parte, l’elemento intellettuale dal novero delle «fonti» dell’esperienza del sacro (ma Otto stesso, del quale pure dobbiamo qui rammentare un’edizione annotata, nel 1930, del volume kantiano Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, dichiarò a J. Hessen [del quale cfr. Religionsphilosophie, I, München-Basel 19552, p. 288] di non intendere la categoria a priori del sacro nel senso strettamente kantiano, bensì in quello agostiniano dell’illuminatio Dei). Il suo pensiero sull’origine, sull’essenza e sul valore universale del sentimento religioso viene esposto nel ben noto Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen (Breslau 1917) e in Aufsätze das Numinöse betreffend (Gotha 1923, ampliato in Das Gefühl des Überweltlichen [Sensus Numinis], München 1932; cfr. anche Reich Gottes und Menschensohn, München 1934, 19402). Il sentimento religioso non è soltanto il sentimento di dipendenza che si ingenera nel finito (la creatura) nei confronti dell’infinito (dottrina di Schleiermacher), ma piuttosto l’effetto, il risultato, di una speciale e immediata intuizione di un «qualchecosa» che, non creato dall’uomo, esiste, oggettivamente, al di fuori di esso, e verso il quale la creatura sente simultaneamente attrazione e repulsione, in forza di misteriosi elementi piacevoli e fascinatori, tremendi e repulsivi. I diversi momenti di questo sentimento particolarissimo e caratterizzante sono: a) un sentimento di terrore (numinoso tremendum) che proviene dall’idea della «maiestas» della divinità e impone rispetto e obbedienza; b) un sentimento di fascino che attrae l’individuo verso la divinità (numinoso fascinosum) e crea in lui la gioia e la felicità; c) un sentimento d’assoluta inferiorità in confronto dell’augustum, la divinità altissima «assolutamente altro da noi», che può da una parte condurre l’uomo all’annichilimento 8216

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di se stesso e dall’altra però sospingerlo verso uno slancio energico di purificazione (numinoso energicum); d) un desiderio di espiazione e di sofferenza per diminuire la distanza, colmare l’abisso che separa l’umano dal divino, e portare il singolo a un contatto con la divinità. Tutti questi diversi momenti della percezione del numinoso sono in rapporto diretto con l’evoluzione dello spirito umano e quindi variano sia riguardo al tempo (non-coesistenza) sia riguardo al loro grado d’intensità. L’autore, specialmente dopo i suoi studi delle manifestazioni religioso-mistiche d’Oriente e Occidente, ha variamente sottolineato che il numinoso è indipendente dalle formazioni storiche e dalle molteplicità rituali delle diverse religioni, e dipende soltanto dalle complesse profondità dello spirito umano. Inoltre, Otto prende le distanze da qualsiasi prospettiva soggettivistica, in ambito religioso, affermando che «l’idea di Dio non è una proiezione del nostro “io”, ma qualche cosa di totalmente altro». Se, infine, egli usa e applica al numinoso il termine «irrazionale», non è tanto poiché lo concepisce come contrario alla ragione, quanto piuttosto perché esso gli appare come irraggiungibile dalla ragione, e attingibile, appunto, solo ricorrendo al sentimento come legame a-razionale con il sacro nella sfera del mistero. Però il sentimento religioso del numen si trova sempre accompagnato da un orizzonte di razionalità all’interno del quale inserirsi; orizzonte che, nella sua più o meno ampia e radicata presenza, dà vita e caratterizza una sorta di gerarchia delle varie religioni storiche. S. Offelli - G. Moretti BIBL.: Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, tr. it. di E. Buonaiuti, Bologna 1926, nuova ed. Milano 1966 e successive ristampe, sulla base dell’ed. ted., in parte modificata, del 193625; Mistica orientale, mistica occidentale. Interpretazione e confronto, tr. it. a cura di M. Vannini, Casale Monferrato 1985. Su Otto: A. PAUS, Religiöser Erkenntnisgrund. Herkunft und Wesen der Aprioritheorie R. Ottos, Leiden 1966; AA.VV., Die Diskussion um “Das Heilige”, Darmstadt 1977; TH.M. LUDWIG, s. v. Rudolf Otto, in M. ELIADE et al. (a cura di), Encyclopedia of Religion, New York 1987, vol. 11, pp. 139-141; G. PFLEIDERER, Theologie als Wirklichkeitswissenschaft. Studien zum Religionsbegriff bei Georg Wobbermin, Rudolf Otto, Heinrich Scholz und Max Scheler, Tübingen 1992; B. RAZZOTTI, R. Otto (1869-1937). L’universalità del religioso, in G. PENZO - R. GIBELLINI (a cura di), Dio nella

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filosofia del Novecento, Brescia 1993; P.A. SEQUERI, Estetica e teologia. L’indicibile emozione del Sacro: R. Otto, A. Schönberg, M. Heidegger, Milano 1993; G.D. ALLES, Rudolf Otto (1869-1937), in A. MICHAELS (a cura di), Klassiker der Religionswissenschaft. Von Friedrich Schleiermacher bis Mircea Eliade, München 1997, pp. 198-210; A. CAPUTO, La filosofia e il sacro. M. Heidegger lettore di R. Otto, Bari 2002.

OTTO, WALTER FRIEDRICH (GUSTAV HERMANN). Otto – Filologo classico e storico delle religioni tedesco, n. a Hechingen il 22 giu. 1874, m. a Tubinga il 23 sett. 1958. Dopo aver studiato teologia nello «Stift» di Tubinga, passò alla filologia classica e nel 1897 si laureò a Bonn. Chiamato all’università di Vienna nel 1913, strinse amicizia con H. von Arnim. Successivamente fu professore a Basilea (1913), Francoforte (1914), Königsberg (1934), Monaco e Gottinga (1945) e infine Tubinga (1946). L’opera di Otto, che ha avuto in K. Kerényi un originale prosecutore, si articola nel tempo in una sempre più approfondita ricerca e rivendicazione del significato del mito, della sua peculiarità e del suo valore di verità, motivo per cui Otto costantemente ne richiama l’etimo originario: non semplice favola, bensì racconto o meglio attestazione di un evento reale direttamente constatato, parola vera che testimonia dell’incontro dell’uomo con la divinità. In aspra polemica contro ogni tentativo di giudicare il mito a partire dal pregiudizio che il nostro modo «scientifico» di vedere le cose sia l’unico valido e che l’unica universalità sia quella dei concetti astratti, Otto mira a distinguere la propria prospettiva da quella di Cassirer e degli etnologi e sociologi a lui contemporanei, che accusa di evoluzionismo e antropomorfismo «primitivista» nello studio della sfera mitica. Anche culto e rito rientrano nella sua indagine, che poggia su concetti come Ergriffenheit e Gestalt, risalenti a Frobenius e a Goethe, allo scopo di delineare una complessa filosofia del mito come spazio rivelativo del divino nel mondano, in polemica, su questo punto, con Rudolf Otto. V. Verra - G. Moretti BIBL.: Der Geist der Antike und die christliche Welt, Bonn 1923, tr. it. di C. Calabresi, Spirito classico e mondo cristiano, Firenze 1973; Die altgriechische Gottesidee, Berlin 1926; Die Götter Griechenlands, Bonn 1929, 19473, tr. it. di G. Federici Ajroldi, Gli dei della Grecia. L’immagine del divino nello specchio dello spirito greco, a cura di G. Moretti - A. Stavru, Milano 2004

Ottone di Freising (con inediti); Dionysos. Mythos und Kultus, Bonn 1933, tr. it. di A. Ferretti Calenda, Dioniso. Mito e culto, Genova 1990; Der Dichter und die alten Götter, Frankfurt 1942, tr. it. Il poeta e gli antichi dei, Napoli 1991; Die Musen und der göttliche Ursprung des Singens und Sagens, Düsseldorf 1954 (19562 ), tr. it. a cura di S. Mati, Le Muse e l’origine divina della parola e del canto, premessa di G. Moretti, postfazione di F. Rella, Roma 2005; Die Gestalt und das Sein. Gesammelte Abhandlungen über den Mythos und seine Bedeutung für die Menschheit, Düsseldorf 1955, tr. it. parziale di A. Stavru, Il volto degli dei. Legge, archetipo e mito, a cura di G. Moretti, Roma 1996; Theophania. Der Geist der altgriechischen Religion, Hamburg 1956, tr. it. a cura di A. Caracciolo, Theophania. Lo spirito della religione antica, Genova 1983; e le due raccolte postume Das Wort der Antike, Stuttgart 1962 (elenco degli scritti, pp. 383-386) e Mythos und Welt, Stuttgart 1962, tr. it. parziale a cura di G. Moretti, Il mito, Genova 1993.

OTTONE FREISING (Ottone di Frisinga, Ottone di DI Freising Otto Frisingensis). – Storico e pensatore, n. fra il 1111 e il 1116 a Neuburg presso Vienna, m. a Morimund il 22 sett. 1158. Zio di Federico Barbarossa, lo accompagnò nella prima spedizione italiana, e ne fu lo storico (il suo notaio Rahewin ne continuò il lavoro, Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I. imperatoris, ed. a cura di G. Waitz - B. de Simson, «Monumenta Germaniae Historica. Scriptores rerum germanicarum in usum scholarum separatim editi», vol. XLVI, Hannover-Leipzig 1912, pp. 338-493; ripr. riveduta da F.-J. Schmale, Berlin 1965). Studiò a Parigi ed ebbe una buona cultura filosofica ispirata al pensiero di Gilberto di Poitiers (de la Porrée) di cui però non fu forse scolaro diretto; fu monaco cistercense a Morimund (Borgogna) e vescovo di Frisinga. L’opera fondamentale, scritta tra il 1143 e il 1146, è il Chronicon sive historia de duabus civitatibus (ed. a cura di A. Hofmeister, «Monumenta Germaniae Historica. Scriptores. Scriptores rerum germanicarum in usum scholarum separatim editi», vol. XLV, Hannover-Leipzig 1912, pp. 83-301; ripr. con poche modifiche a cura di W. Lammers, Darmstadt 19722, con traduzione tedesca e bibliografia) manifestamente ispirata, oltre che a Orosio, ad Agostino, per la concezione della storia del mondo come storia della città di Dio e della città del diavolo; frequenti nell’opera le digressioni di carattere filosofico nelle quali Ottone mostra acuto interesse per il pensiero antico e per quello a lui contemporaneo. Anche nelle 8217

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Oudèn mallon Gesta Friderici non mancano i ricordi delle personalità filosofiche del suo tempo e delle loro dispute dialettiche (Bernardo, Abelardo, Roscellino, Guglielmo di Champeaux, Anselmo di Laon, Bernardo e Teodorico di Chartres). Ottone di Freising conobbe fra i primi e introdusse in Germania nella scuola di Frisinga la Logica nova di Aristotele (Analitici, Topici, Elenchi). Egli segue in metafisica e in logica Boezio e il commentatore di questi e suo maestro Gilberto Porretano. Cfr. Grande antologia filosofica, a cura di U.A. Padovani, Milano 1954, vol. V, pp. 470-477. G. Santinello BIBL.: J. SCHMIDLIN, Die geschichtsphilosophische und kirchenpolitische Weltanschauung Ottos von Freising: ein Beitrag zur mittelalterlichen Geistesgeschichte, Freiburg im Breisgau 1906; C. MIEROW, Introduction a The Two Cities: A Chronicle of Universal History of the Year 1146 A. D. by Otto of Freising, New York 1928 (bibliografia alle pp. 81-84), rist. New York 2002; K. HAID, Otto von Freising, Bregenz 1933; P. BREZZI, Ottone di Frisinga, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano», 54 (1939), pp. 129-328; Otto von Freising, n. mon. «Analecta Sacris Ordinis Cisterciensis», 14 (1958); J.A. FISCHER (a cura di), Otto von Freising, Gedenkgabe zu seinem 800. Todesjahr, Freising 1958; J. KOCH, Die Grundlagen der Geschichtsphilosophie Ottos von Freising, in W. LAMMERS (a cura di), Geschichtsdenken und Geschichtsbild im Mittelalter, Darmstadt 1961, pp. 321-349 e poi anche in J. KOCH, Kleine Schriften, vol. I, Roma 1973, pp. 87-113; H.W. GOETZ, Das Geschichtsbild Ottos von Freising: ein Beitrag zur historischen Vorstellungswelt und zur Geschichte des 12. Jahrhunderts, Köln-Wien-Böhlau 1984 (con ampia bibliografia); L. STURLESE, Storia della filosofia tedesca nel Medioevo. Dagli inizi alla fine del XII secolo, Firenze 1990, pp. 133-146.

OUDÈN MALLON (oujde;n ma'llon). – RibadiOudèn mallon ta l’interscambiabilità di tale espressione rispetto a quella sinonimica «non più» (ouj ma'llon), Sesto Empirico nei Lineamenti pirroniani (I, 188-191) spiega che si tratta di una voce tecnica pirroniana impiegata indifferentemente e non, come vorrebbero alcuni, selettivamente, a seconda che si abbia a che fare con indagini specifiche o generiche. Sul piano della forma essa ha valore ellittico, poiché sta per «non più (questo che quello e viceversa)». Formulata in modo diverso (o come mera asserzione o quale vera e propria domanda), ma in realtà utilizzata dai pirroniani «impropriamente», l’espressione si limita a registrare tramite 8218

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segni linguistici lo stato d’animo (o meglio il pavqo") generato dalla ugual forza di discorsi o fatti contrapposti, con una evidente evoluzione di significato rispetto alle originarie formulazioni democritee. E. Spinelli BIBL.: P. DE LACY, Ouj ma'llon and the Antecedents of Ancient Skepticism, in «Phronesis», 3 (1958), pp. 5971; A. GRAESER, Demokrit und die skeptische Formel, in «Hermes», 98 (1970), pp. 300-317; W. BURKERT, Logik und Sprachspiel bei Leukippos/Demokritos: Ouj ma'llon als These und Denkform, in H.CH. GÜNTHER - A. RENGAKOS (a cura di), Beiträge zur antiken Philosophie. Festschrift für Wolfgang Kullmann, Stuttgart 1997, pp. 1-11; L. CASTAGNOLI, Self-bracketing Pyrrhonism, in «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 18 (2000), pp. 263-328.

OUSIA (oujsiva). – Termine il cui senso filosoOusia fico, fluttuante fra essenza e sostanza, si precisa nel periodo platonico-aristotelico. Dai documenti non pare infatti avesse uso determinato nel periodo presocratico, né che fosse usato come termine filosofico: esso, pur apparendo nella dossografia dei presocratici, non entra in frammenti riconosciuti autentici, se non in uno di Filolao (H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di W. Kranz, Berlin 1961-64, 44 B 11), dove però fu introdotto da Teone di Smirne come espressione del linguaggio filosofico a lui coevo. Platone usa il termine ousia in molte accezioni, determinanti il concetto di essenza, cui poi corrisponderà fondamentalmente l’ousia aristotelica. L’ousia platonica, escluso sia oggetto di sensazione (Theaet., 186 a-187 a), è attingibile solo razionalmente. Essa va considerata per rispondere alla domanda «che cos’è?» riferita a molti individui sensibili (peri; oujsiva" o{ti pot´ ejstivn, Men., 72 b), fra loro diversi nei particolari (bellezza, grandezza ecc.), ma che però non differiscono quanto all’essere che li fa comprendere e denominare («è ape», «è virtù»). Il valore dell’ousia platonica dunque è sia quello dell’essere come categoria logica (Parm., 186 a; Soph., 243 d, 295 a), sia quello dell’essere come essenza reale (Men., 72 b ss.). In ciò andrebbe ravvisata una determinazione del suo significato attuatasi prima di Aristotele, il quale «non uni rerum generi exclusis reliquis omnibus hoc tribuit ut oujsivai sint, sed diversis rerum generibus quodammodo oujsiva" dignitatem assignandam iudicat» (H. Bonitz, Index aristotelicus, Graz 1955, 544 a 46).

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Il termine però, per la sua semanticità dell’essere semplicemente, indipendentemente da un’attribuzione di valore che non sia l’essere stesso (essenza o esistenza), non conviene alla realtà prima e trascendente, al bene, che perciò è ejpevkeina th'" oujsiva", di là dell’essenza (ei\do" o specie separata; Resp., 509 b): ad esso non convengono l’essenza e l’esistenza apprese con l’intelligenza e dette degli esseri conosciuti da noi e d’altra parte l’ousia è espressione del lovgo" della cosa, cioè a un tempo della sua essenza o specie e della sua ragione. Tale duplicità nell’uso di ousia si spiegherebbe rispetto all’evolvere del pensiero platonico quale risulta dalla successione dei dialoghi stilometricamente accertata: vi sarebbe dunque una prima fase in cui l’ousia coincide con ei\do" o specie, ma ciò non è affermato sistematicamente, e una seconda in cui si pone l’ousia anche dell’essere che diviene, come ousia non del processo, ma dei singoli momenti dialettici implicati nel divenire. Con Aristotele il senso filosofico di ousia si determina definitivamente. I testi base per la sua definizione come sostanza e essenza sono i libri V (cap. 8) e VII della Metafisica e il cap. 5 delle Categorie. Le definizioni di Metaph. V e di Cat. non confliggono, come talora ipotizzato, ma si corrispondono e si integrano: «ousia si dice in due modi: l’ultimo sostrato che non si dice mai di altra cosa, e che è un tovde ti e separabile; e ciò che di ciascuna cosa è la forma e la specie» (1017 b 23-6); «ousia, nel senso più fondamentale, primo e principale della parola è ciò che né è detto di un soggetto, né è in un soggetto, per esempio un qualche uomo o un qualche cavallo. Ma si chiamano oujsivai seconde le specie, nelle quali sono contenute le oujsivai prese nel primo senso, e alle specie bisogna aggiungere i generi di queste specie: per esempio, un qualche uomo è contenuto nella specie che è l’uomo, e il genere di questa specie è l’animale. Si definiscono dunque con il nome di seconde queste ultime oujsivai come l’uomo e l’animale» (5, 2 a 11-18). La distinzione in ousiai, o sostanze, prime e seconde, cioè tra individui da un lato, e generi e specie di essi dall’altro, benché discussa dalla critica, facilita l’interpretazione, nel passaggio dal concetto platonico di ousia, indicando la mediazione aristotelica tra l’accoglienza di tratti platonici e il loro ripudio critico. Solo le ousiai o sostanze prime (individui o sinoli,

Ousia composti di forma e materia) sono, di diritto, oggetto della filosofia prima, mentre le ousiai seconde la interessano solo mediatamente, essendo di esse più proprie le discipline logico-conoscitive (anche le ousiai seconde, comunque, di recente si è ammesso valgano non come forme universali, ma come individuali). Inoltre quando si parla della categoria della ousia, poiché le ousiai prime non sono predicabili di altro da sé, e cioè non sono categorie in senso aristotelico stretto, si devono intendere tali solo le ousiai seconde, aventi appunto carattere predicativo. La problematica di tali definizioni è svolta in Metaph. VII, dove, detto che «l’ousia viene intesa [...] per lo meno in quattro modi principali, che paiono costituire l’essere di ogni cosa: come to; tiv h\n ei\nai (o essenza specifica nell’ente individuo), come universale (separato), come genere, e infine come sostrato (l’individuo esistente)», si analizza però solo il sostrato (cap. 3), il to; tiv h\n ei\nai (capp. 4-12), e l’universale (capp. 13-16), trascurando il genere, di cui ribadisce l’impossibilità che sia ousia. Il suo carattere predicativo ne fa un toiovnde e non un tovde ti, mentre «ousia non par possibile che sia nessuna delle cose che si dicono in universale poiché ousia è in primo luogo quella propria di ciascun essere, la quale non appartiene a nessun’altra» (13, 1038 b 8-10). Chiara la polemica antiplatonica. D’altronde Aristotele, mentre, in polemica coi platonici, combatte gli universali resi ousiai separate, non può staccarsi dalla visione dell’universale inerente nelle realtà concrete e individuali, come presupposto della loro intellezione. Perciò se il senso primo e definitivo di ousia è quello di sostanza individua, d’altra parte, per la necessità di costituire una scienza che sia sapere delle ousiai, s’intende anche ousia come essenza, ma di una sostanza individua, termine di mediazione tra sensibile e intelligibile, di cui viene dato nel to; tiv h\n ei\nai il concetto definitivo. In Metaph. XII si discute anche della sostanza immobile, di cui si dimostra l’esistenza, a partire dal dato del moto eterno del cosmo (Phys., VIII), che esige causa adeguata. Il senso di ousia resta stabilito nella tradizione posteriore, che, come in Plotino (Enn., V 5, 6, 5-7), accanto al significato di sostanza individuale, necessario perché si abbia una ousia, usa il termine anche per indicare il cosmo in8219

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Overbeck telligibile; o, come nella teologia patristica, accentua il significato di essenza e natura (cfr. oJmousiva e oJmoiousiva); o, come in Tommaso, trae da tale concetto sia il senso di essentia sia quello di existentia, liberandolo dall’equivocità. L. Napolitano BIBL.: G. RODIER, Quelques remarques sur la conception aristotélicienne de la substance, in «Année philosophique», 20 (1909); C. ARPE, Das tiv h\n ei\nai bei Aristoteles, Hamburg 1938 (ristampa 1976); A. PREISWERK, Das Einzelne bei Platon und Aristoteles, in «Philologus», 32 (1939); S. MANSION, La première doctrine de la substance: la substance selon Aristote, in «Revue Philosophique de Louvain», 44 (1946), pp. 349-369; J. MOREAU, L’un et les êtres selon Plotin, in «Giornale di Metafisica», 11 (1956), pp. 204-224; J.G. DEHNINGER, «Wahres Sein» in der Philosophie des Aristoteles, Meisenheim am Glan 1981; A.C. LLOYD, Form and Universal in Aristotle, Liverpool 1981; M.L. O’ HARA (a cura di), Substance and Things: Aristotle’s Doctrine of Physical Substances in Recent Essays, Washington 1982; W. VIERTEL, Der Begriff der Substanz bei Aristoteles, Königstein/Ts 1982; M. FREDE, Substance in Aristotle’s «Metaphysics», raccolto in Essays in Ancient Philosophy, Minneapolis 1987 (già edito in A. GOTTHELF [a cura di], Aristotle on Nature and Living Things, Pittsburg-Bristol 1985, pp. 72-80); D.W. GRAHAM, Aristotle’s Two Systems, Oxford 1987; C. WITT, Substance and Essence in Aristotle, Ithaca (New York) 1989; M.L. GILL, Aristotle on Substance, Princeton 1989; F.A. LEWIS, Substance and Predication in Aristotle, Cambridge 1991; M.J. LOUX, Primary «Ousia»: an Essay on Aristotle’s «Metaphysics Z», Ithaca (New York) 1991; H. STEINFATH, Selbständigkeit und Einfachheit. Zur Substanz-theorie des Aristoteles, Frankfurt am Main 1991; M. MIGNUCCI, In margine al concetto di forma nella «Metafisica» di Aristotele, in A. BAUSOLA G. REALE (a cura di), Aristotele. Perché la metafisica, Milano 1994, pp. 145-170; T. SCALTSAS, Substance and Universals in Aristotle’s «Metaphysics», Ithaca (New York) 1994; G. FREUDENTHAL, Aristotle’s Theory of Material Substance, Oxford 1995; C. RAPP, Identität, Persistenz und Substantialität, München 1995; L. SPELLMAN, Substance and Separation in Aristotle, Cambridge 1995; S.M. COHEN, Aristotle on Nature and Incomplete Substance, Cambridge 1996; C. RAPP (a cura di), Aristoteles, Metaphysik, Die Substanz-Bücher (Z, H, Q), Berlin 1996.

OVERBECK, FRANZ CAMILLE. – Teologo proOverbeck testante, n. a Pietroburgo il 26 nov. 1837, m. a Basilea il 26 giu. 1905. Dopo un periodo di insegnamento a Jena dal 1864 in qualità di libero docente, fu dal 1870 al 1897 professore di teologia a Basilea. Overbeck accoglie da F.C. Baur e dalla scuola di Tu8220

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binga la convinzione della legittimità – anche in ambito teologico – di uno studio puramente storico del cristianesimo, del tutto indipendente dalle formulazioni della dogmatica. Non condivise mai, invece, la filosofia della religione di Baur, fondata sul pensiero di Hegel. Polemizzò anzi duramente con l’incoerenza del progetto di Baur, come di altri, che mirava in realtà alla dimostrazione della perfetta congruenza fra l’evidenza storica e l’elaborazione speculativa della verità cristiana. Un tale giudizio di incoerenza finirà per investire l’intera teologia, la quale, a giudizio di Overbeck, non traeva le debite conseguenze della sua nuova apertura alla ragione storico-critica. Nel momento in cui la forma scientifica viene applicata all’oggetto religioso questo ne risulta inevitabilmente stravolto dal punto di vista della fede. Overbeck esplicita la portata generale di questo assunto, prendendo egli stesso consapevolezza dell’esito iscritto nel suo lavoro di storico del cristianesimo, nello scritto Sulla cristianità della teologia dei nostri tempi, pubblicato nel 1873, in contemporanea con la prima «Inattuale» del grande amico e confidente Nietzsche (edita col titolo: David Strauss: l’uomo di fede e lo scrittore, e pubblicata presso lo stesso editore Fritsch, di Lipsia). L’approccio della fede e quello della scienza sono inconciliabili, secondo Overbeck, anche nei riguardi del cristianesimo storico. Sbagliano dunque i teologi che pensano di trarre vantaggio apologetico dall’analisi scientifica del cristianesimo. Particolarmente censurabile è il «filisteismo» con il quale i teologi moderni hanno omologato l’approccio scientifico al cristianesimo e continuano a proclamare la sua possibilità di inverare una determinata interpretazione filosofica o teologica della sua verità dogmatica. La teologia, in quanto rappresenta la pretesa di convertire la fede religiosa in sapere scientifico, espone fin dal suo inizio la fede e il sapere al loro rispettivo snaturamento. L’incoerenza e l’aporia rimangono però anche dal punto di vista di un uso irreligioso della scienza storico-critica, in quanto anch’esso suppone confusione e reciproca strumentalizzazione della critica ideologica e del sapere scientifico. La posizione radicale che Overbeck finisce per assumere, escludendo la possibilità di una qualche evidenza mondana della verità cristiana e proiettando la dimensione della fede unicamente sull’orizzonte del compi-

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mento escatologico, influisce sulla formazione della teologia dialettica e in modo particolare su K. Barth. Di lui vanno ricordate, oltre al citato e più noto saggio Über die Christlichkeit unserer heutigen Teologie, Leipzig 1873: Nietzsches Briefwechsel mit Overbeck, a cura di C.A. Bernoulli - R. Oehler, Leida 1916 ; Vorgeschichte und Jugend der mittelalterlichen Scholastik, Basilea 1917; Christentum und Kultur, a cura di C.A. Bernoulli, ivi 1919; Selbstbekentnisse, a cura di E. Vischer, Basilea 1941. Dal 1994 è in corso, per i tipi dell’editore Metzler (Stuttgart-Weimar) la pubblicazione dell’edizione critica delle opere di Overbeck e di una scelta del suo Nachlaß. P. A. Sequeri BIBL.: C.A. BERNOULLI, F. Overbeck und F. Nietzsche. Eine Freundschaft, 2 voll., Lipsia 1908 (tr. it. delle Erinnerungen an Friedrich Nietzsche, in F. OVERBECK , Ricordi di Nietzsche, a cura di C. Angelino, Genova 2000; H. SCHINDLER, Barth und Overbeck, Gotha 1936; K. LÖWITH, Von Hegel zu Nietzsche, 19502, (tr. it., Torino 1949, pp. 561-570); R. WEHRLI, Alter und Tod des Christentums bei Franz Overbeck, Zürich 1977; R. ROSSI, Tempo e sacralità in Nietzsche e Overbeck, Roma 1985; R. ROSSI, Le radici del nichilismo nel Novecento: Burkhardt, Nietzsche, Overbeck, Genova 1995; P. NIKLAUS, Im Schatten der Modernität: Franz Overbecks Weg zur Christlichkeit unserer heutigen Theologie, Stuttgart-Weimar, 1992; P. NIKLAUS, Franz Overbeck (1837-1905). Christliche Eschatologie in der Sicht eines radikalen Theologiekritikers, in B. BÜRKI - ST. LEIMGRUBER (a cura di), Theologische Profile, Freiburg 1998, pp. 81-94; A. PELLEGRINO, La «teologia del futuro» di Franz Overbeck, in F.OVERBECK, Sulla cristianità della teologia dei nostri tempi, tr. it. a cura di A. Pellegrino, Pisa 2000, IX-LXXVIII; A. PELLEGRINO, La città piena di idoli. Franz Overbeck e la crisi della teologia scientifica, Pisa 2005.

OVERTON, RICHARD. – N. intorno al 1615 e Overton m. intorno al 1664, teologo eterodosso ed esponente del movimento dei Levellers durante la Prima Rivoluzione Inglese. Poche le notizie prima e dopo la Rivoluzione: vissuto ad Amsterdam, dove fu forse membro di una congregazione battista, agli inizi degli anni quaranta tornò in Inghilterra, dove fu editore di numerosi pamphlet clandestini. Nel 1643 pubblica anonimo il libello Mans Mortalitie (ed. a cura di H. Fisch, Liverpool 1968) scritto per sostenere il mortalismo, dottrina teologica secondo la quale l’anima dell’uomo non è immortale, ma muore con il corpo per risuscitare a vita immortale, per la grazia di Cri-

Ovidio sto, solo nel momento della resurrezione. Questa tesi, pur non nuova nella teologia cristiana e riproposta nell’Inghilterra del Seicento anche da John Milton e Thomas Hobbes, acquista nel pensiero di Overton il senso di una rivendicazione dell’autonomia del giudizio di ogni individuo: rifiutando il tradizionale dualismo corpo-anima, Overton intende combattere il potere spirituale dei teologi e rivendicare alla ragione individuale il diritto di sottoporre a critica non le credenze religiose soltanto, ma l’intero edificio sociale e politico del suo tempo. Più razionalista e anticlericale che non materialista ateo, Overton difese nei suoi numerosi pamphlet le idee di tolleranza e di libertà di coscienza, per proclamare in nome della «retta ragione» il diritto innato di ogni individuo a una uguale sfera di libertà fondamentali, che si riassumono nell’idea di autoappartenenza di ciascuno a sé medesimo. Col suo individualismo radicale Overton fu tra i capi della lotta condotta, fra il 1646 e il 1649, dal movimento Levellers contro i nuovi assetti di potere prodotti dalla Rivoluzione; per questo ruolo politico fu più volte imprigionato. Dopo la sconfitta dei Levellers, Overton continuò la sua lotta politica contro il potere costituito, prima di Cromwell e poi della restaurata monarchia Stuart. G. Fiaschi BIBL.: H.N. BRAILSFORD, I livellatori e la rivoluzione inglese, Milano 1962; G.E. AYLMER, The Levellers in the English Revolution, Ithaca (New York) 1975; M. GIMELFARB-BRACK, Liberté, Egalité, Fraternité, Justice! La vie et l’oeuvre de Richard Overton, Niveleur, BernFrankfurt 1979; C. WATNER, “Come What, Come Will!”, in «The Journal of Libertarian Studies», 1980, pp. 405-432; P. KURRILD-KLITGAARD, Self-Ownership and Consent: The Contractarian Liberalism of Richard Overton, in «The Journal of Libertarian Studies», 2000, pp. 43-99.

OVIDIO. – Poeta latino, n. a Sulmona nel 43 Ovidio a. C., m. a Tomi sul Mar Nero nel 17 (o 18 d. C.). Ancora giovinetto venne a Roma dove compì gli studi di retorica, conclusi con il canonico soggiorno in Grecia. A Roma risiedette fino all’8 d. C. quando un editto di Augusto, per cause mai del tutto chiarite, lo relegò a Tomi: un esilio che si protrasse fino alla morte. La sua poesia, dalla fluente musicalità sorretta da una tecnica raffinata coltivata nelle scuole di retorica, presenta caratteri fortemente innovativi rispetto al «classicismo» augusteo, grazie 8221

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Oviedo al sostanziale antinaturalismo che la configura non già come mimesi della realtà (secondo il principio aristotelico-oraziano della poetica) ma piuttosto come esibizione della propria letterarietà, frutto di un’ars in grado di attingere, con sensibilità alessandrina, a tutte le risorse del sistema letterario. Una letterarietà in cui confluiscono, armonizzandosi in delicato equilibrio, anche motivi propri della filosofia, Ovidio essendo imbevuto più di quanto non si creda di dottrine filosofiche. In particolare, il principio pitagorico del mutamento universale (caso particolare la metempsicosi) appare funzionale alla concezione delle Metamorfosi, epopea delle «forme» dall’origine del mondo alla trasformazione di Giulio Cesare in astro. In questa prospettiva il discorso di Pitagora nel libro conclusivo delle Metamorfosi (15, 75-478), se da un lato risente della moda letteraria, ellenistica e contemporanea, dell’enumerazione poetica di temi filosofici (con richiami a Empedocle, Eraclito e Lucrezio), d’altro lato mostra sorprendenti analogie col trattato pseudo-aristotelico Peri; kovsmou (De mundo), dalla «forte componente neopitagorica» (come ha scritto A. Setaioli), databile tra la fine del sec. I a. C. e i primi decenni del I d. C., con elementi comuni allo stoicismo (Posidonio) e al platonismo. Ovidio godette di ampia fortuna nel Medioevo, che riconobbe in lui il codice delle galanterie cavalleresche e la miniera della preziosa erudizione mitologica. P. Mantovanelli BIBL.: A. SCHMEKEL, De Ovidiana Pythagoreae doctrinae adumbratione, Diss Gryphiswald 1885; A. ROSTAGNI, Il verbo di Pitagora, Torino 1924, pp. 248 ss.; E. MARTINI, Einleitung zu Ovid, Darmstadt 1970 (e in «Schriften der philosophischen Fakultät der Deutschen Universität in Prag», 12 [1933]); H. FRÄNKEL, Ovid: A Poet between Two Worlds, Berkeley - Los Angeles 1945, pp. 108-109; L. ALFONSI, L’inquadramento filosofico delle Metamorfosi ovidiane, in N. I. HERESCU (a cura di), Ovidiana: Recherches sur Ovide publiées à l’occasion du bimillénaire de la naissance du poète, Paris 1958, pp. 265-272; R.A. SWANSON, Ovid’s Pythagorean Essay, in «Classical Journal», 54 (1958), pp. 2124; K. SARA MYERS, Ovid’s Causes. Cosmogony and Aetiology in the Metamorphoses, Ann Arbor 1994, pp.133 ss.; PH. HARDIE, The Speech of Pythagoras in Ovid Metamorphoses 15: Empedoclean Epos, in «Classical Quarterly», 45 (1995), p. 212; A. SETAIOLI, L’impostazione letteraria del discorso di Pitagora nel XV libro delle Metamorfosi, in W. SCHUBERT (a cura di), Ovid. Werk und Wirkung: Festgabe für Michael von Albrecht zum 65 Geburgstag, vol. I, Frankfurt am

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Main - Berlin - Bern - New York - Paris - Wien 1999, pp. 487-514 (con esauriente e documentata analisi delle varie posizioni critiche circa il ruolo di Pitagora nelle Metamorfosi).

OVIEDO, FRANCISCO DE. – Filosofo e teologo Oviedo spagnolo, gesuita, n. a Madrid nel 1602, m. ad Alcalá il 9 febbr. 1651. Insegnò filosofia e teologia a Oropesa, Alcalá e Madrid. Seguace di Hurtado de Mendoza, ne sviluppa l’orientamento nominalistico, pur entrando spesso in contrasto con l’altro grande discepolo di Hurtado, Rodrigo de Arriaga. Il suo Cursus philosophicus ad unum corpus redactus, Lugduni 1640, 2 voll. (riedito 1651 e 1663) esercitò notevole influenza. È autore anche di due volumi di Tractatus theologici (Lugduni 1646-51). M. Forlivesi BIBL.: E. CARUSO, Pedro Hurtado de Mendoza e la rinascita del nominalismo nella Scolastica del Seicento, Firenze 1979; P. DI VONA, Univocazione dell’ente in Louis Lavelle e nella controversia secentesca su François de Meyronnes, in «Annuario filosofico», 7 (1991), pp. 121-153; P. DI VONA, I concetti trascendenti in Sebastiàn Izquierdo e nella scolastica del Seicento, Napoli 1994; M. LUNA ALCOBA, El problema del continuo en la escolástica española: Francisco de Oviedo (16021651), in «Daimon. Revista de filosofía», 12 (1996), pp. 37-47.

OVINK, BERNARD JAN HENDRIK. – Filosofo Ovink neokantiano olandese, n. a Dinxperlo il 24 lug. 1862, m. ad Amsterdam il 15 ag. 1944. Studioso di lingue antiche, si laureò in filologia e filosofia a Leida nel 1886 e, dopo molti anni di insegnamento nella scuola media superiore, divenuto professore di filosofia all’università di Utrecht, vi insegnò dal 1913 al 1932. Scritti: Overzicht der Grieksche wijsbegeerte (Compendio di filosofia greca), Amsterdam 1895; De zekerheid der menschelijke kennis (La certezza della conoscenza umana), Zutfen 1928; Philosophische Erklärung der Platonischen Dialoge Meno und Hippias minor, Amsterdam 1931; De filosofie en het wezen van de mens (La filosofia e l’essenza dell’uomo), ivi 1938; Philosophie und Sophistik, Den Haag 1940. Dopo aver inizialmente aderito al neokantismo della Scuola di Marburgo, Ovink si riallacciò sempre più a Kant e cercò con la sua «Doxokritik» l’esame critico dei concetti filosofici («idealismo critico») e, con metodo socratico, di spianare il terreno alla fede cristiana come

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atteggiamento di umiltà e di abbandono. Nel suo libro Philosophie und Sophistik diede un’esposizione complessiva del suo pensiero: la filosofia è soltanto una critica del conoscere e ha unicamente il compito di determinare logicamente e psicologicamente l’apriori dello spirito umano; la presunzione della ragione, che vuole costruire metafisicamente una concezione del mondo, deve essere giudicata come una «sofistica». M. Marlet BIBL.: C.J. DE VOGEL, Bernard Jan Hendrik Ovink, zijn wetenschappelijke en persoonlijke betekenis (Bernard Jan Hendrik Ovink e il significato della sua filosofia e della sua personalità), in «De Gids», 1946, pp. 3145; F. SASSEN, Bernard Jan Ovink, in Wijsgeerig leven in Nederland in de twintigste eeuw, Amsterdam 19603, pp. 21-24; B. DELFGAAUW, s. v. in Les grands courants de la pensée contemporaine, parte Panoramas nationaux, pp. 697 ss.

OWEN, ROBERT. – Teorico e promotore di riOwen forme sociali, n. a Newtown (Montgomeryshire) il 14 magg. 1771, m. ivi il 17 nov. 1858. Pur movendo da umili gradi, ben presto raggiunse elevata fortuna come industriale del cotone, prima nel Lancaster, poi a Glasgow. Nelle fabbriche di New Lanark (Scozia) si prodigò ad attuare miglioramenti e opere assistenziali per i suoi dipendenti, anticipando così la posteriore legislazione sociale. Due le sue proposte di maggiore spicco che applicò anche nei suoi opifici: la limitazione in generale delle ore di lavoro e la limitazione del lavoro dei fanciulli nelle manifatture. Nell’opera principale A New View of Society or Essais upon the Formation of Human Character (anonimo, London 1813-26), Owen, richiamandosi a Rousseau, studia il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, e teorizza un sistema in cui il lavoro venisse esercitato entro piccole comunità, vicine il più possibile alla vita di natura. II suo piano per rendere felice l’umanità si basava sul desiderio naturale di associarsi e sulla religione della benevolenza. Nella comunità da lui auspicata l’educazione comune avrebbe reso uguali tutti i membri, e ogni forma di ricchezza personale sarebbe stata abolita. Nel 1824 Owen si recò negli Stati Uniti e fondò le colonie di New Harmony nell’Indiana e nel Texas, ma senza quello sviluppo che si riprometteva per cui, dopo qualche anno, tornò in patria. Frattanto in Inghilterra le tendenze al

Owen rinnovamento della legislazione verso il 1825 venivano concretandosi nella proclamazione della libertà di coalizione dei lavoratori, con la soppressione delle vecchie leggi contrarie del 1799. Si cominciò allora a considerare illegittimo lo sfruttamento dei salari da parte dei capitalisti, e il profitto come una forma di ingiusto prelievo. Tutto il movimento cooperativistico che ne derivò si sviluppò sulle orme di Owen, il quale nel 1832 istituì il «National Labour Equitable Exchange», dove i prodotti si scambiavano secondo il numero delle ore di lavoro contenute in ciascuno di essi: mezzo di scambio era un buono con l’indicazione del numero delle ore di lavoro. Tentativo presto fallito, ma che doveva più tardi essere ripreso da teorici e mutualisti socialisti. Tra gli altri scritti di Owen sono notevoli pure: A Book of the New Moral World (7 parti, London 1826-44, tr. it. in Biblioteca dell’economista, terza serie, vol. IX); Revolution in Mind and Practice (ivi 1949); Letters to the Human Race (ivi 1850), e molti articoli apparsi sul settimanale «The New Moral World» tra il 1834 e il 1841. Da un punto di vista pedagogico, Owen è importante per la cura che prodigò per l’educazione dei fanciulli più piccoli. Il primo gennaio 1816 aprì a New Lanark un «Istituto per la formazione razionale del carattere giovanile», diviso in una sezione per gli alunni dai due ai sei anni e in un’altra per alunni dai sei ai dieci anni. La prima sezione rappresentò uno dei primi esperimenti di scuola materna. La risonanza della sezione materna della scuola di New Lanark fu grande presso pedagogisti e filantropi, i quali ottennero l’appoggio di Owen per la creazione di asili a Londra e in altre città inglesi. Cfr., di Owen anche Autobiography (2 voll., Londra 1857-58, in appendice la New View). Raccolta degli scritti principali, a cura di G.D.H. Cole (ivi 1927). Red. BIBL.: Per una bibliografia esauriente degli scritti di Owen e relative traduzioni, nonché degli scritti su Owen: G. DOLLEANS, Robert Owen, Paris 1905; J. MCCABE, Robert Owen, London 1920; G.D.H. COLE, The Life of Robert Owen, London 19302; R. KOSPERT, New Harmony, Nurnberg 1937; R.R. WAGNER, Robert Owen, Zürich 1942; R.H. HARVEY, Robert Owen, Social Idealist, Berkeley 1949; B. RUSSELL, Freedom and Organization:1814-1914, London 1964, tr. it., Storia delle idee del sec. XIX, Milano 1985; V. PARETO, Les systemes socialistes, Genève 19653, tr. it., I sistemi socialisti, Torino 1974; S. POLLARD, Il sogno di Robert Owen:

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Oxford mito e realtà. Le origini della cooperazione in Gran Bretagna, Roma 1992, pp. I-XI, 243-256.

OXFORD. – L’università di Oxford, la prima Oxford in Inghilterra, costituitasi tra il XII e il XIII secolo (la corporazione venne riconosciuta nel 1231), divenne presto un centro filosofico dell’Europa del tempo. Questa scuola, che si può far cominciare con Roberto Grossatesta, insegnante nello Studio francescano, si differenziò da quella di Parigi – pur subendone l’influsso – sia per l’indirizzo più platonico-agostiniano che aristotelico, sia per l’accentuato interesse scientifico-sperimentale; a queste caratteristiche, con le quali continuava la tradizione del secolo XII, essa congiunse lo studio del greco e dell’arabo, che permetteva l’accesso alle fonti del sapere scientifico, varie delle quali furono da essa fatte conoscere all’Occidente. Tali aspetti della scuola spiegano le vivaci polemiche avutesi a Oxford intorno al tomismo (Roberto Kilwardby, John Peckam, letteratura dei correttòri). Alla tradizione oxoniense, rappresentata da una nutrita schiera di maestri, per lo più francescani, a cominciare da Ruggero Bacone, si collegano chiaramente anche Duns Scoto e Occam. Il nuovo indirizzo logico terminista dominerà poi a Oxford, confluendo, insieme con la nuova fisica, in quella «scuola di mertoniani» (secolo XIV) rappresentata specialmente da Guglielmo Heytesbury (Regulae solvendi Sophismata), e Riccardo Swineshead (Liber calculationum), che molto seguito ebbe in vari centri di studio dell’Italia settentrionale fino all’inizio del Cinquecento. Red. BIBL.: D.E SHARP, Franciscan Philosophy at Oxford in the XIIIth Century, Oxford 1930; S. GIBSON (a cura di), Statuta antiqua Universitatis Oxoniensis, Oxford 1931; H. RASHDALL, The Universities of Europe in the Middle Ages, Oxford 1936; D.A. CALLUS, Introduction of Aristotelian Learning to Oxford, London 1943; A.C. CROMBIE, Oxford’s Contribution to the Origins of Modern Science, Oxford 1954; A.B. EMDEN, A Biographical Register of the University of Oxford to A. D. 1500, Oxford 1957-59, 3 voll.; R.W.T. GUNTHER, Early Science in Oxford, Oxford 1920-67, 15 voll.; E.D. SYLLA, The Oxford Calculators, in N. KRETZMANN - A. KENNY - J.

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

PINBORG (a cura di), The Cambridge History of Later Medieval Philosophy, Cambridge 1982, pp. 540-563; J.I. CATTO - R. EVANS (a cura di), The History of the University of Oxford, voll. I-II, Oxford 1986-92. ➨ CORRETTÒRI; PADOVA, SCUOLA DI.

OXFORD, SCUOLA DI: V. SCUOLA DI OXFORD. Oxford OXFORD STUDIES IN ANCIENT PHIOxford Stud. anc. Philos. LOSOPHY. – Rivista che si occupa specificamente di filosofia antica, è pubblicata dalla Oxford University Press con cadenza semestrale. Il primo volume è stato pubblicato nel 1983 dal fondatore J. Annas (direttore fino al 1992). Dal 1983 al 1998 è stato direttore C.W. Taylor. Dal 1999 gli è succeduto D. Sedley. Ogni volume raccoglie ampi contributi su tutti gli aspetti della filosofia antica. Oxford Studies in Ancient Philosophy commissiona anche recensioni dei più recenti e importanti contributi sulla filosofia antica che poi trovano spazio nella rivista, oggi diventata uno strumento molto importante per tutti gli specialisti sull’argomento. M. Marianelli

OYARZÚN PEÑA, LUIS. – Filosofo e scrittore Oyarzún Peña cileno, n. a Santa Cruz il 14 nov. 1920 e m. nel 1972. Poeta di valore e studioso di teoria dell’arte, è stato professore di filosofia e di estetica nella facoltà di filosofia dell’Università statale di Santiago ed in quella delle belle arti. Nella «Sociedad chilena de filosofia» è stato eletto vicepresidente. Oltre ai numerosi scritti di letteratura (Poemas en prosa, Santiago 1943; Mediodía, Santiago 1958), va citato l’equilibrato e compiuto studio El pensamiento de Lastarria (Santiago 1953). V. anche La idea de inspiración en Bergson, Santiago 1959; Meditaciones estéticas, Santiago 1981. J. Jiménez B. BIBL: S. VIDAL M., Apuntes sobre la filosofía en Chile, Buenos Aires 1956; «Atenea» (Concepción), 1958, p. 400; S. SARTI, Panorama della filosofia ispanoamericana contemporanea, Milano 1976, pp. 597-600.

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[P] PACE (peace; Friede; paix; paz). – La pace può Pace essere vista – secondo Agostino (De Civitate Dei, XIX, 13) – come la tranquillità nell’ordine. La pace della coscienza è in relazione con l’obbedienza alla voce di Dio, che si manifesta nell’ordine del cuore e nell’ordine del tempo. Per ottenere la pace integrale, risulta necessario che l’ordine si dia nei diversi ambiti esistenziali, dalla coscienza alla società internazionale, seguendo la progressione «casa, urbe, orbe» (ibi, XIX, 7). La pace è indirettamente opera della giustizia, in quanto elimina gli ostacoli, ma è indirettamente opera della carità, che la causa in essenza (T. D’Aquino, IIa-IIae, q. 29, art. 3, ad 3um). SOMMARIO: I. Pace e perdono. - II. Pace e diritti umani. I. PACE E PERDONO. – Parte essenziale dell’ordine dell’amore è la capacità di perdonare e di chiedere perdono. Questa capacità di perdonare è in relazione con la retta comprensione del meccanismo del capro espiatorio. Così come le etiche e le religioni chiuse usano questo meccanismo per mantenere la violenza fuori dalla comunità, nelle religioni aperte e, specialmente nel cristianesimo, la violenza è esclusa anche nei confronti degli estranei. Ciò si ottiene attraverso la imitatio Christi, assumendo le colpe altrui (R. Girard). L’idea di perdono è anche presente nell’Islam. Così nel versetto 42, 41 del Corano si può leggere «chi perdona l’altro avrà una ricompensa maggiore». La rinuncia alla legge del taglione aiuta a redimere le colpe (Corano, 3, 45). II. PACE E DIRITTI UMANI. – In ambito giuridico internazionale, oggi si assiste al recupero di un concetto positivo di pace come rispetto dei diritti umani, superando così il concetto negativo che ha dominato da Hobbes a Kelsen, secondo cui la pace è l’assenza di guerra (F. Viola). Mentre il concetto negativo di pace è in relazione con il concetto di sicurezza nazionale e non esclude la guerra all’esterno, il concetto positivo è in relazione con il concetto di dignità umana e nega la possibilità delle guerre giuste al giorno d’oggi.

Un attentato molto grave contro la pace è costituito dal terrorismo. Ma è necessario combatterlo nel più stretto rispetto dello Stato di diritto e delle istituzioni del diritto internazionale, se non si vuole tornare allo stato di natura hobbesiano. Il terrorismo è un tipo di guerra provocata dalle identità assassine (A. Maalouf). Per ottenere la pace, occorre evitare l’identità unica, base dell’opposizione noi-loro, che conduce alla violenza, intendendo l’identità come la somma di tutte le nostre appartenenze e considerando l’appartenenza alla comunità umana come l’identità principale, senza perciò annullare le altre identità particolari. Allo stesso tempo occorre evitare le cause dell’odio, provocato da un uso diseguale delle armi nei conflitti, cosa che finisce per fomentare che il corpo di colui che è umiliato diventi un’arma esso stesso. Le spese in armamenti, specialmente da parte dell’unica superpotenza, è in se stesso un crimine, perché il diverso impiego delle risorse economiche per lo sviluppo permetterebbe che gli abitanti della terra che vivono senza risorse elementari possano uscire dalla miseria. La filosofia della pace deve partire dalla distinzione netta tra la dovuta intransigenza dinnanzi alle ingiustizie e l’indebita intolleranza nei confronti delle persone. Già Gandhi aveva messo in evidenza l’interdipendenza tra satyagraha (forza della verità) e ahimsa (non violenza). La dichiarazione e il programma di azione della conferenza di Durban contro il razzismo (2003) manifesta l’esigenza di mostrare intransigenza contro gli arcaismi del secolo XXI: il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e altre forme di intolleranza. È necessario che tutti, e in ogni luogo, attraverso l’educazione egalitaria, interiorizzino i diritti umani e, in particolare, l’eguale dignità delle persone, e li mettano in pratica nel contesto sociale, nazionale e internazionale. J. Ballesteros BIBL.: AGOSTINO, De Civitate Dei; M. KLEIN, Love, Hate, and Reparation, London 1953, tr. it. di F. Molfino, Odio, amore, riparazione, Roma 1969; MAHATMA GANDHI, Collected Works, Delhi 1958-84; A. MITSCHERLICH -

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Pace A.A. HASLER, El odio en el mundo actual, Madrid 1973; N. BOBBIO, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna 1979; J. KRISTEVA, Etranger à nous-memes, Paris 1988, tr. it. di A. Serra, Stranieri a noi stessi, Milano 1990; S. COTTA, Dalla guerra alla pace, Milano 1989; W. HUBER - H.R. REUTER, Friedens-ethik, Stuttgart 1990; P. BRUCKNER, La tentation de l’innocence, Paris 1995, tr. it. di A. Cavicchia Scalamonti, La tentazione dell’innocenza, Napoli 2001; R. GIRARD, Je vois Satan tomber comme l’éclair, Paris 1999, tr. it. a cura di G. Fornari, Vedo Satana cadere come la folgore, Milano 2001; J. RAWLS, The Law of Peoples, London 1999, tr. it. a cura di S. Maffettone, Il diritto dei popoli, Torino 2001; J. CONILL (a cura di), Glosario para una sociedad intercultural, Valencia 2002; J. HABERMAS, Philosophy in a Time of Terror, New York 2003; F. VIOLA, Pace giusta e guerra giusta, in «Rivista di Diritto Costituzionale», 2003, pp. 212-243; GIOVANNI PAOLO II, Discorso del 1° gennaio 2004. ➨ CARITÀ; DIGNITÀ UMANA; DIRITTI UMANI; GIUSTIZIA; GUERRA; PERDONO; RAZZISMO; SICUREZZA; TERRORISMO; TOLLERANZA.

PACE (Pacio, Pacius), GIULIO DI BERIGA. – N. a Pace Vicenza l’8 apr. 1550, m. molto probabilmente a Valenza in Spagna nel 1635. Appartenente alla nobile famiglia dei Beriga. Si laureò in giurisprudenza a Padova, dove aveva studiato la logica con Jacopo Zabarella. Intorno al 1575, ricercato dall’Inquisizione per avere – ma non è certo – aderito alla religione riformata, si rifugiò a Ginevra. Ebbe qui la cattedra di Diritto per dieci anni, come poi, per altri dieci, fino al 1595, a Heidelberg. A Sédan insegnò logica; dopodiché fu nuovamente a Ginevra, poi a Montpellier e a Valenza. Morì dopo essersi riconciliato con Roma, sebbene se ne ignori il tempo preciso. La sua opera di insegnante di filosofia e diritto fu richiesta da varie parti, anche da Padova, dove però non risulta abbia insegnato. Curò edizioni generali e parziali, annotate, del Corpus iuris (fra cui Genevae 1580); recensì e tradusse il corpus logico aristotelico: Aristotelis Stagiritae Peripateticorum Organum, hoc est, libri omnes ad logicam pertinentes (Morgiis 1584; rist. ivi 1592), che nella seconda edizione, più accurata e basata su diversi manoscritti (Francofurti 1597; ripr. Hildesheim 1967; Hanoviae 1633; ripr. Frankfurt 1965), accompagnò col In Porphyrii Isagogen et Aristotelis Organum commentarius analyticus (ripr. Hildesheim 1966); e fece edizioni, restate notevoli, di Fisica, con traduzione e commento analitico (Francofurti 1596; ripr. New York - Frankfurt 1964); De anima (Franco8226

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furti 1596); e nel 1601 di De caelo, De generatione et corruptione, Meteorologia, De mundo, Parva Naturalia. Da citare anche De honore orationes duo (Spirae 1591; ivi 1597). Pace è studioso attento, ma non sembra dotato di un proprio pensiero. L. Posa BIBL.: G.F. TOMASINI, Illustrium virorum elogia iconibus exornata, Patavii 1630, p. 169; L. CRASSO, Elogii d’huomini letterati, Venezia 1666, vol. II, pp. 84 ss.; J.P. NICÉRON, Mémoires pour servir à l’histoire des hommes illustres dans la république des lettres, Paris 172745, t. XXXIX, pp. 270 ss.; rist. Farnaborough 196869; J.-B. TOSELLI, Biographie niçoise ancienne et moderne, Nice 1860, vol. II, p. 120; rist. Marseille 1973.

PACE, STEFANO LUIGI GIULIO. – Aristotelico, Pace n. a Salò il 15 ag. 1655, m. a Venezia il 3 sett. 1717. Dapprima fu gesuita e insegnò filosofia e matematica; nel 1697 passò al Terz’Ordine regolare di san Francesco. È noto per l’opera La fisica dei peripatetici, cartesiani ed atomisti al paragone della vera fisica di Aristotele (Venezia 1718), nella quale, dopo aver confrontato le tesi di tali scuole filosofiche, conclude che i filosofi moderni o dicono quello che già aveva detto Aristotele,o, quando si sono allontanati dalle sue dottrine, non hanno detto nulla di meglio, se non a proposito di esperienze che Aristotele non poté svolgere. Concorda tuttavia con le critiche che Gassendi muove a Cartesio. M. Baravelli BIBL.: E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Torino 19783, p. 876; G. PIAIA, Le storie generali della filosofia in Italia tra Seicento e Settecento, in G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. II: Dall'età cartesiana a Brucker, Brescia 1979, p. 246.

PACEM INterris TERRIS. – Enciclica di papa GioPacem in vanni XXIII, pubblicata l’11 apr. 1963 («Acta Apostolicae Sedis», 1963, pp. 257-304), intorno ai massimi problemi che caratterizzano la moderna vita dei popoli e ne minacciano la pacifica convivenza. L’uso del termine «pace», senza escludere il senso corrente, mantiene in questo contesto un fondamentale riferimento teologico. Secondo Pacem in terris, la pace deve essere costruita ai diversi livelli della convivenza umana: a) tra i singoli uomini; tutti uguali quanto a essenza e dignità, diritti e doveri; b) tra individui e poteri pubblici: persone, «gruppi intermedi», autorità hanno identico fine, il conse-

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Paci

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

guimento del bene comune; c) tra le diverse comunità politiche: i loro rapporti vanno regolati nella verità (tutte sono uguali, senza discriminazione di razza, cultura, sviluppo economico-sociale), nella giustizia (rinunciando alla forza e alla frode per risolvere le controversie di interesse, e rispettando le minoranze etniche), nella solidarietà (il bene comune delle singole comunità è una componente di quello di tutte), nella libertà (nel rispetto cioè delle comunità minori o in via di sviluppo, che le maggiori sono tenute ad aiutare); d) degli individui e comunità politiche particolari con l’umanità nel suo complesso. L’ultima parte del documento è dedicata a impartire direttive ai fedeli, ai quali è richiesto nel loro agire temporale il perseguimento anzitutto dell’unità interiore e di saper poi stimolare e valorizzare quel tanto di bene che ciascuno può offrire. L’enciclica riscosse consensi eccezionalmente unanimi e vasti, sia per la natura dei temi illustrati, sia per il suo linguaggio che parve nuovo, e che fu ritenuto segno di un nuovo approccio della chiesa cattolica al mondo moderno. È in questo senso significativo che essa fosse indirizzata «a tutti gli uomini di buona volontà». Colpì molto l’idea che ogni passo in favore di una vera unità del genere umano, anche se compiuto da chi si trovi nell’«errore» (sempre da distinguersi dall’«errante»), debba essere considerato come un risultato valido per la predicazione cristiana. È l’accettazione, sul piano pratico, del pluralismo delle convinzioni: preludio e passo decisivo alla proclamazione della necessità di una piena libertà religiosa in campo civile quale sarebbe stata fatta dal concilio Vaticano II. M. Castelli BIBL.: «Vita e Pensiero», 46 (1963), pp. 613-763; M. GOMES DOS SANTOS, 5 artt. in «Brotéria», 77 (1963/a); G. DUBOIS, 5 artt. in «Bulletin social», 1963; J. MESSNER, Der naturrechtliche Gehalt von «Pacem in terris», in «Neue Ordnung», 17 (1963), pp. 334-53; E. FOGLIASSO, Papa Giovanni spiega come giunse alla «Pacem in terris», Roma 1964 (con testi autobiografici); P. RIGA, Une analyse de Pacem in terris, in «Justice dans le monde», 6 (1964-65), pp. 20-49; G. JARLOT, L’encyclique «Pacem in terris» et ses commentaires récents, in «Gregorianum», 46 (1965), pp. 840-852; G. MURTAS, La libertà religiosa nella Pacem in terris, Cagliari 1970; W. HRDLITSCHKA, Frieden in dieser Welt, in R. WEILER - J. WEINBACHER (a cura di), Pacem in Terris (die Friedensenzyklika Johannes’ XXIII), Wien 1974, pp. 44-53; A. KLOSE, «Pacem in Terris» und die Friedenshoffnung, in R. WEILER - J. WEINBACHER (a cura di),

Pacem in Terris (die Friedensenzyklika Johannes’ XXIII), Wien 1974, pp. 54-71; M. ROY, 10 Jahre «Pacem in Terris», in R. WEILER - J. WEINBACHER (a cura di), Pacem in Terris (die Friedensenzyklika Johannes’ XXIII), Wien 1974, pp. 116-179; S. VEROSTA, Das Völkerrecht und die Vereinten Nationen in der Enzyklika «Pacem in Terris», in R. WEILER - J. WEINBACHER (a cura di), Pacem in Terris (die Friedensenzyklika Johannes’ XXIII), Wien 1974, pp. 72-105; R. WEILER, Die Bedeutung «Pacem in Terris» Entwicklung internationalen Moral aus österreichischer Sicht, in R. WEILER - J. WEINBACHER (a cura di), Pacem in Terris (die Friedensenzyklika Johannes’ XXIII), Wien 1974, pp. 106-115; M. WALSH - B. DAVIES, Proclaiming Justice and Peace, London 1984; P. STILWELL, Caminhos da justiça e da paz, Lisboa 1989; P. HART, Pacem in Terris (Book Review), in «Cistercian Studies Quarterly», 36 (2001), p. 537. ➨ LIBERTÀ RELIGIOSA.

PACHIMERE, GIORGIO. – Nato a Nicea nel Pachimere 1242 da una famiglia di rifugiati costantinopolitani, si trasferì nella capitale dopo la riconquista del 1261, e probabilmente vi morì intorno al 1310. Ricevette una compiuta educazione scientifica e letteraria. Diacono della Grande Chiesa di Costantinopoli dal 1265, svolse per il patriarcato attività di insegnante e di giudice. Matematico, astronomo, retore, filosofo, teologo, deve la sua fama all’ampia Storia contemporanea (1255-1308), scritta in tredici libri con stile ricercato. Sue opere di carattere filosofico sono la continuazione del commentario di Proclo al Parmenide, un’Epitome della filosofia di Aristotele in dodici libri (che ancora attende un’edizione), un notevolissimo Trattato delle quattro scienze (aritmetica, musica, geometria e astronomia), una Parafrasi esegetica al Corpus Dionysiacum, un opuscolo dialettico sulla processione dello Spirito santo dal padre attraverso il Figlio. C.M. Mazzucchi BIBL: testi in J.-P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series I: [Patres] Ecclesiae Grecae, Parisiis 1857-66, voll. III-IV, CXLIV; Quadrivium, ed. a cura di P. Tannery, Città del Vaticano 1940; Relationes historiques, ed. a cura di A. Failler - V. Laurent, Paris 1984-2000, 5 voll.; Commentary on Plato’s Parmenides, ed. a cura di Th.A. Gadra et al., Athens 1989; E. TRAPP - H.-V. BEYER - S. KAPLANERES, Prosopographisches Lexikon der Palaiologenzeit, Wien 1989, fasc. IX, pp. 177-178, n. 22186.

PACI, Paci ENZO. – Filosofo italiano, n. a Monterado (Ancona) il 18 sett. 1911, m. a Milano il 21 lug. 1976. Professore di Filosofia teoretica dal 8227

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Paci 1951 al 1957 presso l’università di Pavia e dal 1958 in quella di Milano. Ha fondato nel 1951 la rivista bimestrale di filosofia e cultura «Aut Aut». Insieme ad Abbagnano e a Pareyson, Paci è stato il filosofo che negli anni quaranta ha introdotto in Italia l’esistenzialismo, dedicando numerosi studi al pensiero di Kierkegaard, poi raccolti nel secondo tomo di Relazioni e significati; egli ha continuato questa funzione di apertura della filosofia italiana ai temi della filosofia europea con l’introdurre nel dibattito filosofico, a partire dalla fine degli anni cinquanta del Novecento, la fenomenologia husserliana, raccordata alla dialettica hegeliana e al marxismo. Il filo conduttore di tutta la sua elaborazione è il «relazionismo», imperniato sulla struttura intersoggettiva della verità, e svolto nella prospettiva di una «enciclopedia fenomenologica». Le due coordinate del suo relazionismo sono, da una parte, la teleologia della ragione di Antonio Banfi; dall’altra parte, l’attenzione all’indagine del negativo, in particolare alle problematiche dei bisogni e dell’inconscio, alla luce della tematica husserliana dell’originarietà del mondo della vita, e della lezione che Paci trae dalla critica dell’economia politica di Marx, ossia la denuncia della riduzione dell’uomo a categoria astratta e al feticismo della merce. Nella sua prima fase esistenzialista, Paci rivendica la funzione dell’esistenza come possibilità, ossia libertà di fronte ai valori del vero, del bene e del bello. Egli ricongiunge tale nozione di esistenza, da una parte, all’interpretazione del pensiero vichiano – intendendo l’ingens sylva di Vico come l’esistenza, la barbarie sempre ritornante in lotta con la ragione – e, dall’altra, all’interpretazione della categoria crociana dell’economia nella sua contrarietà allo spirito, come natura o cosa in sé, praxis e vitalità. L’esistenza è ambivalente: o si nega nel valore o si afferma contro il valore. La chiusura dell’esistenza in se stessa genera l’egoismo, è il male. Ove l’esistenza si faccia mezzo per realizzare il valore, l’individuo si eleva alla dignità di persona. Esistenza e valore si implicano e la mediazione è operata dall’arte nella quale temporale ed eterno, inconscio e coscienza, uomo e Dio s’incontrano, e dalla politica con le sue creazioni che sono le istituzioni giuridiche. La connessione dell’esistenza col valore implica il riconoscimento della sua strutturalità co8228

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me tempo e, quindi, come storia, donde il compito di svolgere la filosofia dell’esistenza in filosofia del tempo e della storia, affrontato, a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, con l’apertura del relazionismo a Husserl e a Marx. Il raccordo con la precedente fase esistenzialista è dato dalla riconferma finale della concezione dell’esistenza concreta o io come punto focale di un processo di eventi, in cui le esistenze attuano la propria libertà secondo la legge del tempo. Questa legge è l’unica necessità in un mondo la cui categoria è il possibile. La necessità del tempo è la sua irreversibilità, ossia l’impossibilità di tornare indietro dal futuro al passato: perciò il futuro, quale appello del possibile o del valore non ancora realizzato, è il fondamento del mondo. Compito dell’uomo, nell’orizzonte segnato dal tempo, è attuare nella misura più alta il valore, cioè la trascendenza come più ampia armonia e più vasta comunicazione interumana. All’irreversibilità del tempo si riporta la responsabilità individuale, che è fedeltà alla legge nel superamento della legge, coerenza tra pensiero e azione. L’istanza prassista conduce infine all’incontro con Marx, dal cui pensiero Paci enuclea la critica dei rapporti sociali alienati, nei quali viene smarrito il significato umano e teleologico delle scienze, delle tecniche e dell’economia. G. Semerari BIBL.: opere principali: Il significato del Parmenide nella filosofia di Platone, Messina 1938; Ingens sylva, Messina 1949; Esistenzialismo e storicismo, Milano 1950; Il nulla e il problema dell’uomo, Messina 1950; Tempo e relazione, Torino 1954; Dall’esistenzialismo al relazionismo, Firenze 1957; Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Bari 1961; Diario fenomenologico, Milano 1961; Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Milano 1963; Relazioni e significati, Milano 1965-66, 3 voll.; Idee per una enciclopedia fenomenologica, Milano 1973, Fenomenologia e dialettica, Milano 1974; Il senso delle parole (1963-1974), a cura di P.A. Rovatti, Milano 1987; cfr. infine l’autopresentazione, in M.F. SCIACCA (a cura di), La filosofia contemporanea in Italia, Asti-Roma 1958, pp. 289-301. Su Paci: A. CIVITA, Bibliografia degli scritti di Enzo Paci, Firenze 1983; B. MAIORCA, Centodieci scritti di E. Paci, in «Rivista di Storia della Filosofia», 42 (1987), pp. 747-758; A. VIGORELLI, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci. Una biografia intellettuale (1929-1950), Milano 1987; S. ZECCHI (a cura di), Vita e verità. Interpretazione del pensiero di Enzo Paci, Milano 1991; L. SEMERARO, L’etica come radice. La filosofia di Enzo Paci, Lecce 1993; S. MANCINI, Sentire la verità. Enzo Pa-

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Pacioli

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

ci trent’anni dopo, in S. MANCINI, L’orizzonte del senso, Milano 2005, pp. 245-342.

PACIFIC PHILOSOPHICAL QUARTERPac. philos. Quart. LY. – Rivista con cadenza trimestrale, fondata nel 1980 a Los Angeles, edita dalla facoltà della School of Philosophy della University of Southern California che si avvale di uno staff editoriale composto da alcuni dei più influenti filosofi analitici. Rivolta a un pubblico internazionale, la rivista si propone di discutere tematiche filosofiche di interesse generale della tradizione analitica, provenienti da tutte le aree della filosofia, inclusa l’epistemologia, la filosofia del linguaggio, l’estetica, la storia della filosofia, la filosofia della mente, la filosofia morale e politica. Ogni fascicolo comprende saggi originali di carattere storico e teoretico dei più autorevoli studiosi scelti da competenti referee anonimi. Periodicamente «Pacific Philosophical Quarterly» pubblica edizioni speciali che affrontano importanti argomenti di un particolare campo filosofico da parte dei più noti specialisti. Le edizioni speciali più recenti sono state dedicate alle ipotesi ilomorfiche di Aristotele, alla filosofia morale e politica di Hobbes e al liberalismo politico di Rawls. Pubblicata attualmente dalla Blackwell publishing, è disponibile anche in una versione elettronica consultabile on-line in internet. G. Marchetti

esponenti più significativi del pacifismo si ricordano pensatori come Thoreau, Tolstoj, Gandhi. Sul piano etico-pratico è possibile distinguere tra un pacifismo «assoluto» e un pacifismo «relativo». Il primo sostiene che ogni forma di guerra e di violenza è da considerarsi incondizionatamente errata, sia perché la pace, deontologicamente, costituisce in sé un valore assoluto che impone a ognuno un comportamento non-violento in qualsiasi circostanza, sia perché, teleologicamente, il male procurato dall’aggressione supera sempre di gran lunga i vantaggi che possono derivarne. In questa prospettiva i conflitti devono risolversi esclusivamente attraverso la mediazione o il compromesso. Il secondo tipo di pacifismo ritiene invece che la pace non sia un valore assoluto, ma un dovere che l’agente morale deve valutare in relazione ad altri doveri, come ad esempio quello di difendere se stesso o terzi innocenti dall’aggressione. G. Cosi BIBL.: R.A. WASSERSTROM (a cura di), War and Morality, Belmont 1970; J. GALTUNG (a cura di), Essays in Peace Research, København 1975-80, 5 voll.; M. WALZER, Just and Unjust wars, New York 1977, tr. it. a cura di S. Maffettone, Guerre giuste e ingiuste, Napoli 1990; A. CARTER, Peace Movements. International Protest and World Politics since 1945, New York 1992. ➨ GUERRA; MEDIAZIONE; NON-VIOLENZA; OBIEZIONE DI COSCIENZA; PACE; VIOLENZA.

PACIFISMO (pacifism; Pazifismus; pacifisme; Pacifismo pacifismo). – Con pacifismo può intendersi la

PACIOLI, LUCA. – Matematico, n. a Borgo San Pacioli

posizione etica che, opponendosi alla guerra e in generale alla violenza fisica nella gestione dei conflitti, sostiene la pace in quanto valore fondamentale nelle interazioni umane. Il pacifismo si sostanzia in un insieme complesso di comportamenti, che possono andare dal semplice atteggiamento personale, alla vera e propria formulazione di teorie filosofiche e sociali. Sul piano dell’azione politica, alcuni tipi di strategia pacifista ricorrono spesso a strumenti tattici come l’obiezione di coscienza e la disobbedienza civile, la non-violenza e la resistenza passiva. In ambito filosofico-giuridico, la prima moderna elaborazione teorica del pacifismo si ha con il trattato di Kant Per la pace perpetua (1795), in cui si ipotizza il definitivo instaurarsi della coesistenza pacifica tra i popoli a seguito dell’instaurarsi di una federazione mondiale tra liberi stati dotati di governi democratici. Tra gli

Lorenzo (Firenze) verso il 1445, m. dopo il 1509. Esercita la mercatura, poi entra nell’ordine dei Frati minori e insegna matematica in varie città italiane, tra cui Milano, ove stringe amicizia con Leonardo da Vinci. Nel 1494 pubblica a Venezia la Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalita, il primo vasto trattato di aritmetica e algebra dato alle stampe; vi figurano i primi esempi di calcolo delle probabilità e vi sono raccolti i risultati delle ricerche matematiche delle età medievale e umanistica. Ancora a Venezia nel 1509 pubblica il De divina proportione, che per lo più ha un andamento matematico (si occupa della sezione aurea, «divina proporzione», nella costruzione dei poliedri regolari), ma nei primi capitoli presenta un complesso di considerazioni scientifiche e filosofico-mistiche. La proporzione è «divina» perché Pacioli vi ravvisa ana8229

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Padilha logie con concetti teologici e collega la costruzione dei poliedri regolari con la cosmogonia del Timeo platonico. Sotto le forme di una metafisica arcana della matematica, è tuttavia presente in Pacioli l’intuizione dell’indispensabilità dello strumento matematico per la penetrazione del mondo fisico e la consapevolezza dell’importanza delle «forme» geometriche nella creazione artistica (cfr. U. Spirito [a cura di], Storia antologica dei problemi filosofici: Estetica, Firenze 1965, pp. 212-214). F. Barone BIBL.: De divina proportione, ed. a cura di C. Winterberger, Wien 1889. Su Pacioli: P. SPEZIALI, Léonard de Vinci et la «Divina proportione» de Luca Pacioli, in «Bibliothèque d’humanisme et renaissance. Travaux et documents», 15 (1953), pp. 295-305; A. FRAJESE, Luca Pacioli nella storia della matematica, in AA.VV., Filosofia e cultura in Umbria tra Medioevo e Rinascimento, «Atti del IV Convegno di studi umbri, Gubbio, 22-26 maggio 1966», Perugia 1967, pp. 367-376; E. MIRRI, Elementi di filosofia platonica in Luca Pacioli, in AA.VV., Filosofia e cultura in Umbria tra Medioevo e Rinascimento, «Atti del IV Convegno di studi umbri, Gubbio, 22-26 maggio 1966», Perugia 1967, pp. 377-389; A. MARINONI, Leonardo, Luca Pacioli e il «De ludo geometrico», in «Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze di Arezzo», nuova serie, 40 (1970-72), pp. 180-205; A. RIERA, Saggio sul Tractatus de computis et scripturis di Luca Pacioli, Bari 1994; A. DONNINI, Fra Luca Pacioli: memoria di un anniversario, in «Studi Francescani», 92 (1995), pp. 127-142; M.P. NEGRI, Luca Pacioli e Daniele Gaetani: scienze matematiche e retorica nel Rinascimento, Cremona 1996; E. GIUSTI (a cura di), Luca Pacioli e la matematica del Rinascimento, Città di Castello 1998; S. CASTRUCCI, Luca Pacioli: da ’l Borgo San Sepolcro, Torino 1999; A. PRESAS I PUIG, Luca Pacioli, Autor de «Summa de arithmetica, geometria proportioni et proportionalita», 1498, Berlin 2002; A. CIOCCI, Luca Pacioli e la matematizzazione del sapere nel Rinascimento, Bari 2003.

PADILHA, TARCISIO. – Filosofo brasiliano, n. Padilha a Rio de Janeiro il 17 apr. 1928. Membro dell’«Accademia brasiliana di lettere» (di cui è stato presidente), è presidente dell’«Associazione brasiliana di filosofi cattolici», e ha ricoperto numerose altre cariche, tra cui la presidenza del dipartimento di filosofia dell’università di stato di Rio de Janeiro e della «Federazione mondiale delle società cattoliche di filosofia»; è inoltre coordinatore della sezione brasiliana della «Bibliographie de phi8230

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losophie», rivista dell’Institut international de philosophie. Fondatore della rivista «Presença Filosófica» e direttore di «A Ordem», organo del centro Dom Vital, che presiede, è impegnato a sostenere un pensiero aperto al cattolicesimo; si è interessato principalmente di filosofia dei valori, del rapporto tra filosofia e ideologia e del tema della speranza. F.V. Tommasi BIBL.: opere principali (tutte in portoghese): L’ontologia assiologica di Louis Lavelle, Rio de Janeiro 1955; Filosofia, ideologia e realtà brasiliana, Rio de Janeiro 1971; Brasile in questione, Rio de Janeiro 1975; Una filosofia della speranza, Rio de Janeiro 1977; Il dott. Alceu e il laicato oggi in Brasile, Rio de Janeiro 1993 (di Alceu Amoroso Lima ha curato anche un’antologia degli scritti: Tutto si trasfigura, San Paolo 1995); Il realismo della speranza, Rio de Janeiro 1996.

PADOA, ALESSANDRO. – Matematico e logico, Padoa n. il 14 ott. 1868 a Venezia, m. il 25 nov. 1938 a Genova. Docente di matematica nell’istituto tecnico a Genova, libero docente dello stesso insegnamento all’università, fu discepolo e collaboratore, per quarant’anni, di Peano, e ne diffuse il pensiero, che completò cercando soprattutto di ridurre il numero dei termini primitivi della logica e della matematica. (Per una sintesi facilmente accessibile si veda: La logique déductive dans sa dernière phase de développement, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 19, 1911, pp. 828-883; 20, 1912, pp. 48-67, 207-231). La logica deduttiva è al primo posto nella gerarchia delle scienze, delle quali si deve considerare, in base alla prospettiva logica, il solo linguaggio. Le ambiguità del linguaggio comune sono evitate dall’ideografia di Peano: «come il microscopio permette di vedere i bacilli che sfuggono all’occhio nudo, così l’ideografia logica ci permette di rappresentare dei concetti che, per la loro sottigliezza, sfuggono a ogni determinazione precisa mediante il linguaggio ordinario» (ibi, p. 15); essa garantisce anche l’inoppugnabilità delle argomentazioni e la validità del sillogismo (meglio delle sue famose «regole»). I primitivi della logica sono ridotti, da Padoa, a tre soli: «è uguale a», «e», «tale che»; quelli dell’aritmetica a: «numero intero assoluto» e «successivo»; in base ad essi egli definisce «zero» come «il numero intero assoluto che non è successivo di nessun numero intero assoluto» (Théorie des nombres entiers absolus; remarques et modifications au Formulaire, in «Revue de Ma-

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ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

thematiques», vol. 8, 1902-06, pp. 45-54; per altri contributi al Formulaire di Peano, cfr. ibi, vol. 6, 1896-99, pp. 90-94, 105-121; vol. 7, 19001901, pp. 73-84; Additions et corrections au Formulaire, Torino 1901). Egli definisce inoltre il concetto di relazione (cfr. Che cos’è una relazione?, in «Atti Accademici», 17, 1905-06, pp. 1084-1092), e dimostra numerose proposizioni assunte come primitive da Russell. Padoa si oppone alla riduzione dell’aritmetica alla logica in quanto la «coppia», non definibile mediante altri termini logici, deve essere considerata come appartenente alla sola aritmetica; questa è perciò una scienza che «segue» immediatamente alla logica, ma ne è distinta (D’où convient-il de commencer l’arithmétique?, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 19, 1911, pp, 549-554). Altri scritti: Logica, in Enciclopedia delle matematiche elementari, vol. 1, Milano 1930, pp. 1-79; Logica ideografica, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 25 (1933), pp. 75-90, 188-190; 26 (1934), pp. 277-284 (l’elenco delle opere logiche si trova in «The Journal of Symbolic Logic», 1, 1936). F. Rivetti Barbò BIBL.: AA.VV., Necrologio di Alessandro Padoa, in «Bollettino dell’Unione matematica italiana», 16 (1938), p. 248; A. GIANNATTASIO, Due inediti di Alessandro Padoa, in «Physis-Rivista Internazionale di Storia della Scienza», 10 (1968), pp. 309-336; H.C. KENNEDY, Alessandro Padoa, in CH.C. GILLISPIE (a cura di), Dictionary of Scientific Biography, vol. X, New York 1974; H.C. KENNEDY, Giuseppe Peano, Basel-Stuttgart 1974, tr. it. (dall’inglese) di P. Pagli, Peano. Storia di un matematico, Torino 1983, pp. 133-139.

PADOVA, SCUOLA DI: V. SCUOLA DI PADOVA. Padova PADOVANI, UMBERTO ANTONIO. – N. ad AnPadovani cona il 27 nov. 1894, m. a Gaggiano il 5 apr. 1968. Studiò a Milano con Martinetti, e si volse presto al tomismo sotto la guida di G. Mattiussi, per maturare poi una sua posizione personale e sotto più aspetti nuova. Insegnò all’Università Cattolica di Milano (dal 1924) e all’università di Padova (1948-65). Padovani accettò la metafisica aristotelico-tomistica mirando a epurarla dai residui naturalistici e a svilupparla in rapporto ai problemi, meno avvertiti, della storia, dell’esperienza, del male. La filosofia è teoresi metafisica, ma rinuncia a qualsiasi atteggiamento «postulatorio esigenziale fideistico» (La mia prospettiva

Padovani filosofica, Padova 1950 [autopresentazione], p. 164). Il trascendimento dell’essere dell’esperienza attraverso la ragione conduce necessariamente a Dio, e quindi dalla metafisica alla teologia razionale. La metafisica resta tuttavia limitata, perché mediata e astratta, un dover essere rispetto all’esperienza come essere effettuale, individuale e storico (e in quanto tale problematico). L’uomo dovrebbe realizzare la sua essenza razionale; effettualmente non la realizza: è il problema del male, per il singolo e l’umanità tutta, che la storia ci rivela sconvolta dal peccato, dall’ignoranza, dalla concupiscenza, dall’errore, dal dolore, dalla morte, e dalla deturpazione storica dello stesso culto di Dio. La storia non può risolvere il problema, perché è legata all’empirico, che può essere solo descritto; la filosofia non sa risolverlo per l’irrazionalità del male; una filosofia della storia è impossibile (nei limiti umani) perché implicherebbe una visione razionale e insieme concreta del reale, possibile solo come teologia della storia: essa, attraverso il dogma della caduta originale e della redenzione per la croce, ne spiega la sua trascendente dialettizzazione, risolvendo il problema del male né fideisticamente (Dio è dedotto razionalmente e la Rivelazione fondata storicamente), né misticamente (la divinità di Cristo è comprovata con argomenti storici e positivi). E allora, sul piano morale, non vi può essere vita integrale se non nella prassi ascetica, qual è appunto la morale cristiana. A. Cardin BIBL.: altre opere: Rivelazione e filosofia, Milano 1923; A. Schopenhauer: l’ambiente, la vita, le opere, Milano 1934; Storia della filosofia per i licei, Como 1941-42; S. Tommaso d’Aquino nella storia della cultura, Como 1945; Il problema religioso nel pensiero occidentale, Milano 1951; Filosofia e teologia della storia, Milano 1953; Filosofia e religione, Milano 1956; Filosofia e morale, Padova 1960; Il mio itinerario alla metafisica classica, Milano 1966 (di grande interesse); Sommario di storia della filosofia, Roma 1966. Su Padovani: R. LOMBARDI, La filosofia della religione secondo il pensiero di Umberto Padovani, in «La Civiltà Cattolica», 1939, pp. 48-60; M.F. SCIACCA, Umberto Antonio Padovani: problema della vita ed ascesi, in Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale, Brescia 1944, pp. 234-238; M.F. SCIACCA, Il secolo XX, vol. II, Milano 19472, pp. 573-577, 862-863 (bibliografia); A. CARDIN, Filosofia e teologia della storia, in «Studia Patavina», 1954, pp. 114-121; A. CARDIN, La filosofia della religione secondo Umberto Antonio Pado-

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Padri apostolici vani, in «Studia Patavina», 1956, pp. 154-162; P. FAGGIOTTO (a cura di), Umberto Antonio Padovani nel centenario della nascita, Padova 1995.

PADRI APOSTOLICI. – Autori cristiani così Padri apostolici chiamati per un vero o presunto loro contatto con gli Apostoli. Sotto questa categoria (coniata da J.B. Cotelier, Patres aevi apostolici, Paris 1672, e oggi contestata e addirittura cassata per la sua artificiosa incongruità) si raggruppa, ormai tutt’al più per comodità di riferimento, una serie di autori e opere cristiani in lingua greca dei secoli I-II di varia provenienza (Clemente di Roma, Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, Papia di Gerapoli; l’Epistola di Barnaba, il Pastore di Erma, la Didaché). L’Ad Diognetum, storicamente ad essi annesso, è in realtà un’apologia più tarda (fine II secolo). Se si volesse trovare una cifra unificante, questa potrebbe essere la natura più kerygmatica che riflessa di tale produzione. Essa rappresenta infatti un raccordo immediato con la letteratura neotestamentaria, di cui assumono anche generi letterari (Clemente, Ignazio e Policarpo l’epistolografia; Erma l’apocalittica); o trattazioni di tipo disciplinare (soprattutto la Didaché e il Pastore). Alcuni, come Clemente, riflettono posizioni genericamente stoiche (o della diatriba) sull’armonica struttura del mondo e del corpo umano come modello dell’ordine e della concordia intraecclesiali (con interessanti anticipazioni sul primato della chiesa di Roma). Altri, come Ignazio e Policarpo, combattono posizioni docetistiche, di stampo gnostico, e affermano, specie Ignazio, una concezione paolina del martirio come mistica dell’unione con Dio e una concezione della chiesa modellata gerarchicamente. Altri, come Barnaba, insistono di più su aspetti morali, facendosi trasmettitori (insieme con la Didaché), in area cristiana della dottrina morale classica (che parte da Prodico e Senofonte; ma era già presente anche in area palestinese, a Qumran) della scelta tra le «due vie» (della virtù e del vizio), e polemizzano con l’interpretazione letterale della legge, operata dagli ebrei, e con il misconoscimento della sua natura spirituale e transitoria. Altri, come Papia, presentano una tendenza millenaristica e accennano al valore di una non ancora spenta tradizione orale, parallela a quella neotesta8232

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mentaria. Il Pastore di Erma sembra avvertire la necessità di una catechesi morale sistematica. L.F. Pizzolato BIBL.: celebri raccolte di padri apostolici: O. GEBHARDT - A.HARNACK - TH. ZAHN (a cura di), Patrum apostolicorum opera, Lipsiae 1875-77; J.B. LIGHTFOOT (a cura di), The Apostolic Fathers, London 1889-90; F.X. FUNK - F. DIEKAMP (a cura di), Die apostolischen Väter, Tübingen 1901-13; K. BIHLMEYER (a cura di), Die apostolischen Väter, Tübingen 1924 ss.; G. BOSIO (a cura di), I padri apostolici, Torino 1940-42 (con traduzione italiana); per un maggiore approfondimento cfr. le edizioni dei singoli autori, presenti nella collane di testi cristiani; per indicazioni puntuali cfr. M. Geerard (a cura di), Clavis Patrum Graecorum, vol. I: Patres antenicaeni, Turnhout 1983. Sui padri apostolici: per uno sguardo di insieme cfr. A. CASAMASSA, I padri apostolici. Studio introduttivo, Roma 1938; L.W. BARNARD, Studies in the Apostolic Fathers and their Background, Oxford 1966. Ma è preferibile rivolgersi agli studi sui singoli autori.

PADRI DELLA CHIESA. – Sono gli scrittori Padri della chiesa ecclesiastici antichi riconosciuti dalla chiesa come testimoni particolarmente qualificati della tradizione divina. L’uso antico di indicare col nome di «padre» il maestro, l’educatore (Ireneo, Adversus haereses, IV, 41, 2) dai primi cristiani fu esteso a coloro che li avevano formati nella fede (Alessandro di Gerusalemme in Eusebio, Historiae ecclesiasticae, VI, 14, 9), specialmente ai vescovi (ibi, V, 4, 2: «pater Eleuthere»; Cipriano, Epistolae, 8, 30, 31, 36: «Cypriano papae» ecc.), anche defunti (Eusebio, op. cit., VII, 7, 7). Nel IV secolo il titolo era più spesso usato a indicare i vescovi del passato in quanto testimoni della dottrina della chiesa (Basilio Magno, Epistolae, 52, 1; 140, 2; Gregorio Nazianzeno, Orationes, 33, 15; Cirillo d’Alessandria, Epistolae, 39 ecc.). Però già in principio del secolo seguente Agostino diede tale denominazione anche a Girolamo, che non era vescovo (Contra Julianum, 1, 7, 31, 34), e più tardi il Decreto Gelasiano (2, 12) al laico Prospero d’Aquitania. Mentre nei concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451) assumeva una grande importanza la prova desunta dai padri, Vincenzo di Lerino ne dava la prima teorizzazione (Commonitorium, 41 ss.), e il Decreto Gelasiano stendeva il primo elenco di padri. Così storia e teologia hanno fissato le note distintive dei padri: a) l’antichità, che per i padri occidentali arriva fino a Gregorio Magno (m. nel 604) o a Isidoro di Siviglia (m. nel 636), per gli orientali a Giovanni Damasceno (m. nel

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749); b) l’eccellenza ed ortodossia della dottrina, per essersi particolarmente distinti per il grado o il modo con cui hanno proposto o spiegato o difeso la dottrina della vera chiesa, con la quale devono essere vissuti e morti in comunione di animo, anche se non sempre furono immuni da errori materiali; c) la santità della vita, nel senso che la loro testimonianza deve essere confermata in grado superiore dal martirio o dalla coerenza della vita con il loro insegnamento; d) il riconoscimento della chiesa esplicito o anche solo implicito. Alcuni di essi furono insigniti del titolo di dottori, titolo poi esteso dalla chiesa anche a scrittori ecclesiastici non padri (Tommaso d’Aquino, Bonaventura ecc.). Sono detti «grandi dottori» i padri greci Atanasio, Basilio, Giovanni Crisostomo e Cirillo d’Alessandria e i padri latini Ambrogio, Agostino, Girolamo e Gregorio Magno. Secondo la teologia cattolica nessuno dei padri è per sé infallibile, neanche limitatamente a uno scritto o a una dottrina, a meno che non si tratti di definizione d’un papa o di dottrine convalidate da un concilio ecumenico. Invece è infallibile l’insegnamento moralmente concorde (unanimis consensus) dei padri in materia di fede e di costumi. I. Daniele BIBL.: E. AMANN, Pères de l’église, in A. VACANT - E. MANGENOT - E. AMANN (a cura di), Dictionnaire de théologie catholique, Paris 1909-47, vol. XII, coll. 11921215; G. QUELL - G. SCHRENK, s. v. Pathvr, in G. KITTEL - G. FRIEDRICH (a cura di), Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Stuttgart et al. 1933-79, vol. V, pp. 946-1016, tr. it. Pathvr, in Grande lessico del Nuovo Testamento, a cura di F. Montagnini - G. Scarpat - O. Soffritti Brescia 1965-92, vol. IX, coll. 11111306; H. VAN LAAK, Theses quaedam de patrum et theologorum magisterio necnon de fidelium sensu, Romae 1933; D. VAN DEX EYNDE, Les normes de l’enseignement chrétien dans la littérature patristique des trois premiers siècles, Gembloux-Paris 1933; TH. CAMELOT, Les Pères et les Docteurs de l’Église, in Initiation théologique, vol. I: Le sources de la théologie, Paris 1952, pp. 153-174, tr. it. a cura dei padri domenicani del convento di Bergamo, I Padri e i Dottori della Chiesa, in AA.VV., Iniziazione teologica, vol. I: Le sorgenti della teologia, Brescia 1953, pp. 129-146; Y.M.-J. CONGAR, La tradition et les traditions, Paris 1960-63, vol. I, pp. 41-121; vol. II, pp. 191-206 (tr. it. del vol. I a cura di G. Auletta, La tradizione e le tradizioni: saggio storico, Roma 19642, tr. it. del vol. II di B. Chiarabolli, Saggio teologico, Roma 1965); Y.M.-J. CONGAR, Les saints Pères, organes privilégiés de la Tradition, in «Irénikon», 35 (1962), pp. 479-498; L. BOUYER, Histoire de spiritualité

Paesaggio chrétienne, Paris 1960, ed. italiana a cura di L. Dattrino - P. Tamburrino, La spiritualità dei padri, Bologna 1986; C. BURINI - E. CAVALCANTI, La spiritualità della vita quotidiana negli scritti dei Padri, Bologna 1988; F. PIERINI, Mille anni di pensiero cristiano: le letterature e i monumenti dei Padri, Torino 1988.

PADULA, VINCENZO. – Scrittore, n. ad Acri Padula (Cosenza) il 25 mar. 1819, m. ivi l’8 genn. 1893. Fu ecclesiastico e si dedicò al giornalismo e all’insegnamento, diffondendo ideali liberali. Autore di numerosi scritti in prosa e in versi, si occupò soprattutto di estetica (Prose giornalistiche, Napoli 1878; rist. anast. Acri 1985), distinguendo l’estetica come arte e come scienza, e negando la seconda in nome della prima. La distinzione non è chiara, ma pare che egli voglia intendere, sotto la seconda denominazione, l’estetica come un insieme di rigide regole che dovrebbero produrre meccanicamente l’arte; e, sotto la prima, l’estetica come indicazione approssimativa del bello, come suggerimento di quanto nell’arte andrebbe ricercato e gustato. Il pensiero di Padula riflette l’estetica romantica nei suoi canoni fondamentali imperniati sulla spontaneità e la genialità e ormai diffusasi, da Giambattista Vico in poi, in tutta la critica letteraria italiana fino a Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini. G. Pullini BIBL.: C. MUSCETTA, Persone in Calabria. Vincenzo Padula, Milano 1950; N. SAPEGNO, Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari 1972; B. CROCE, La letteratura della nuova Italia, Roma 1974, 6 voll., vol. I; V. NAPOLILLO, Ideologia e letteratura di Vincenzo Padula, Chiaravalle Centrale 1980; V. JULIA, Vincenzo Padula, Cosenza 1981; D. SCAFOGLIO, L’immaginazione filologica: la teoria della lingua e la ricerca dialettologica di Vincenzo Padula, Napoli 1984; V. NAPOLILLO, Aspetti della personalità e della poesia di Padula, Bisignano 1986; Padula nella letteratura, Cosenza 1991; P. RESTA, Agli albori della nazione: la scrittura antropologica di Vincenzo Padula, Lecce 2000.

PAESAGGIO Paesaggio (landscape; Landschaft; paysage; paisaje). – La parola «paesaggio», nelle lingue europee moderne, è connotata da una singolare ambivalenza, designando sia la rappresentazione di una porzione di spazio dotata di valori estetici (secondo la definizione sintetica di J. Ritter, «paesaggio è natura che si rivela esteticamente a chi la osserva e contempla con sentimento»), sia la cosa stessa, ossia il territorio nella sua concreta realtà fisica e morfologica. Anche la storia dei termini impiegati nel8233

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Paesaggio le varie lingue europee conserva questa duplicità, la quale, però, si è prodotta solo a un certo punto della storia dell’Occidente, nel XV secolo, quando la parola Landschap ha cominciato ad essere usata per designare un nuovo genere di pittura, quella appunto «di paesaggio». Nata in ambito fiammingo, la pittura di paesaggio debutta con la rappresentazione, all’interno della rappresentazione di soggetti religiosi, di uno scorcio esterno visto attraverso un’apertura (finestra o loggiato). La sua imprescindibile condizione è l’elaborazione della prospettiva artificiale, «forma simbolica» al cui interno la cultura moderna potrà progressivamente dare forma alla sua visione spaziale, ordinandola, anche nella raffigurazione artistica, in modo coerente con i presupposti razionali della nascente scienza moderna. L’entrata sulla scena pittorica compiuta dal paesaggio avviene appunto attraverso la finestra, citazione del riquadro prospettico, che schiude la scena verso una nuova profondità spaziale, ritagliando, dall’estensione naturale dello spazio, un «paesaggio» come veduta, che si trasformerà successivamente nell’inquadratura fotografica o cinematografica. La delimitazione operata dall’inquadramento ottico (orizzonte, apertura) è indispensabile affinché si possa costituire un «paesaggio», come definizione di un frammento che rimanda alla più ampia totalità della natura e del mondo. Orizzonte e limite hanno una valenza articolatoria, mettendo in relazione uno spazio visibile con uno invisibile, un’identità visiva con l’alterità cui pure appartiene, un vicino e un lontano: il paesaggio è parziale, ma rimanda a un insieme più ampio che rimane non visibile all’interno dell’orizzonte dato. Nella fondamentale analisi del breve saggio simmeliano Filosofia del paesaggio, questa distinzione corrisponde alla relazione tra parte e tutto; il paesaggio è unificato al suo interno da una Stimmung in cui acquistano necessità formale e coerenza i molteplici aspetti empiricamente eterogenei che lo costituiscono. Nel saggio di Simmel la «tonalità emotiva», estrema versione del sentimento con il quale lo spettatore romantico si poneva di fronte alla natura costituita come paesaggio, rimane sospesa tra sensazione soggettiva e carattere oggettivo del paesaggio. Sarà, nel 1950, il geografo H. Lehmann a tracciare una possibile griglia analitica di corrispondenza fra tratti morfologici del paesaggio fisico e percezione soggettiva, inizian8234

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do un dialogo tra ragioni filosofiche e geografiche destinato a essere effettivamente ripreso solo in tempi recenti, quando la geografia, nello studio paesaggistico, si volgerà a paradigmi umanistici e filosofici e all’analisi dello spazio vissuto, spostando il luogo del paesaggio dalla percezione soggettiva (paesaggio come immagine) alla singolarità concreta del luogo («paesaggio culturale»). Molti fattori concorrono a questa riconcettualizzazione, dopo che per molti decenni, nella cultura novecentesca, il paesaggio era stato pensato perlopiù come percezione estetica e rappresentazione artistica legate a modelli fruitivi non più corrispondenti alla sensibilità e all’esperienza della modernità (il che lo fa giudicare cosa del passato, relitto, sopravvivenza nostalgica), come «veduta» o panorama, con pesanti ipoteche nel modo di sancirne giuridicamente la tutela e la valorizzazione. Né va dimenticato che il turismo trae origine dalla valorizzazione e dal consumo dei paesaggi come immagini in gran parte codificate tra Settecento e Ottocento, quando ad agire come rivelatrici del fascino paesaggistico furono le forme di fruizione e di gusto proposte da fortunate poetiche pittoriche e letterarie: grazie alle poetiche del sublime e del pittoresco l’orizzonte paesaggistico classico conobbe un ampliamento decisivo, conferendo attrattiva estetica a paesaggi naturali fino ad allora rimasti estranei, se non invisi, al gusto della cultura europea. La propensione per l’orrido, l’immenso, il disarmonico, il pauroso, il desolato, i forti contrasti, codificata dalla poetica del sublime, grazie alla reinterpretazione nella sensibilità moderna dello Pseudo-Longino, forniva un codice estetico e un repertorio, successivamente arricchito da Burke, di luoghi sublimi in cui si manifesta la forza indomita della natura e la sua sproporzione rispetto alla misura umana. A partire dagli anni settanta del XX secolo l’ecologia riporta l’attenzione sul paesaggio concepito come ambiente naturale, ma questa identificazione riduttiva, all’interno di un paradigma biologico, non riesce ancora a pensarne la costitutiva specificità simbolica e culturale (un’eccezione isolata è rappresentata dagli studi estetici di R. Assunto) né a rispondere alla questione della tutela: degrado e perdita non riguardano solo la dimensione naturale, bensì anche i tratti storicamente sedimentati ed embricati dell’identità culturale che in un

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paesaggio trova manifestazione visibile e complessiva. Decisivo sarà l’apporto geografico, nel mostrare la sostanziale identità culturale del paesaggio (dallo stesso ambiente naturale possono essere realizzati paesaggi culturali diversi, a partire da una specifica selezione e interpretazione delle possibilità presenti) e nello studio dei significati, delle valenze simboliche ed emotive che possiede per le comunità insediate (geografia postmoderna). La riflessione recente, dialogando geofilosoficamente con vari approcci disciplinari, guarda al paesaggio come luogo dell’abitare, conservato e trasmesso nell’individualità della sua forma vivente. L’idea di singolarità della forma paesaggistica è rintracciabile nell’etimologia del termine (latino pagus, pagensis; tedesco e nederlandese Land, Landschap), che rimanda alla demarcazione simbolica e spaziale, all’articolazione e differenziazione nell’uso, in particolare per quanto concerne gli aspetti implicati nell’idea del colere o del bauen (nel senso heideggeriano). Al paesaggio come memoria e identità, insieme di luoghi qualificati eticamente, esteticamente, ecologicamente e simbolicamente, si rivolge una domanda sempre più ampia, da parte di singoli e di comunità, e questa concezione ispira il dettato della Convenzione europea sul Paesaggio (Firenze 2000). Non più salienza straordinaria di contro agli spazi quotidiani e funzionali, ma quadro di vita per le popolazioni interessate, esso deve essere gestito nella sua specificità tipologica (quotidianità, degrado, eccezionalità) e riconosciuto giuridicamente «come componente essenziale del quadro di vita delle popolazioni, come espressione della diversità del loro patrimonio comune culturale e naturale e come fondamento della loro identità». L. Bonesio BIBL.: M. HEIDEGGER, Bauen Wohnen Denken e «...dichterisch wohnet der Mensch...», in Vorträge und Aufsätze, Pfullingen 1954, tr. it. di G. Vattimo, Costruire, abitare, pensare e «...poeticamente abita l’uomo...», in Saggi e discorsi, Milano 1976; E. BURKE, A Philosophical Enquiry into the Origin of our Ideas of the Sublime and Beautiful (1757), ed. a cura di J.T. Boulton, London 1958, tr. it. a cura di G. Sertoli, Inchiesta sul bello e il sublime, Palermo 1985; J. RITTER, Landschaft. Zur Funktion des Ästhetischen in der modernen Gesellschaft, Münster 1963, tr. it. di G. Catalano, Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna, Milano 1994; G. SIMMEL, Filosofia del paesaggio, in Il volto e il ritratto, ed. it. a cura di L. Perucchi, Bologna 1985; R. ASSUNTO, Il paesaggio e l’estetica, Palermo 1993

Pagano (1973); A. ROGER, Court traité du paysage, Paris 1997; M. SCHWIND - H. LEHMANN - H. LÜTZELER - C. TROLL, L’anima del paesaggio tra estetica e geografia, ed. it. a cura di L. Bonesio - M. Schmidt di Friedberg, Milano 1999; CONSIGLIO D’EUROPA, Convenzione sul Paesaggio, Firenze 2000; L. BONESIO, Geofilosofia del paesaggio, Milano 20012; P. D’ANGELO, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Roma-Bari 2001; R. MILANI, L’arte del paesaggio, Bologna 2001; M. VENTURI-FERRIOLO, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano, Roma 2002; A. VALLEGA, Geografia culturale. Luoghi, spazi, simboli, Torino 2003; L. BONESIO, Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Casalecchio 2004; R. COLANTONIO VENTURELLI - K. TOBIAS (a cura di), La cultura del paesaggio. Le sue origini, la situazione attuale e le prospettive future, Firenze 2005; M. JAKOB, Paesaggio e letteratura, Firenze 2005; C. RAFFESTIN, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio, Firenze 2005; M. VITTA, Il paesaggio. Una storia fra natura e architettura, Torino 2005. ➨ AMBIENTE; ARCHITETTURA; BELLO; ECOLOGIA; ESTETICA; ESTETICA AMBIENTALE; FRONTIERA; GEOFILOSOFIA; GIARDINO; LUOGO; NATURA; POSTMODERNO; SUBLIME; TERRITORIO.

PAGANINI, CARLO PAGANO. – Rosminiano, Paganini n. a Lucca nel 1818, m. a Pisa nel 1889. Per trent’anni professore di Filosofia razionale all’università di Pisa, vi insegna soprattutto le teorie filosofiche di Rosmini, che difende in numerose opere. Tra queste: Sul domma dell’immortalità dell’anima umana: lettere, Lucca 1854; Sulle più riposte armonie della filosofia naturale colla filosofia soprannaturale, Pisa 1861; Dello spazio, ivi 1862; Della natura delle idee secondo Platone, ivi 1863; Forza e materia, ivi 1869; Chiose a luoghi filosofici della Divina Commedia, Città di Castello 1894 (postuma). D. Morando

PAGANO, FRANCESCO MARIO. – Pensatore Pagano politico, n. a Brienza (Basilicata) l’8 dic. 1748, m. impiccato a Napoli il 29 ott. 1799. Fu allievo di Genovesi, dal quale imparò ad amare Vico. Esercitò con successo l’avvocatura e insegnò, all’università di Napoli, prima Filosofia Morale e poi Diritto criminale. Imprigionato nel 1796 per motivi politici, fu liberato nel 1798 ed emigrò, ritornando sei mesi più tardi, alla proclamazione della Repubblica. Per incarico del governo provvisorio, che si era costituito e del quale faceva parte, compilò un progetto di costituzione repubblicana. Poi, fu una delle vittime della reazione borbonica. La 8235

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Pagano sua opera più importante sono i Saggi politici. Del civile corso delle nazioni, ossia de’ principii, progressi e decadenza delle società, 2 voll., Napoli 1783-85 (II ed. in 3 voll., corretta, 1792; varie rist. fino al 1848; ed. F. Collotti, Bologna 1936). In essi Pagano fonde in una costruzione personale, non sempre molto coerente, Vico e Rousseau, l’idealismo platonico e il sensismo illuministico. Dopo avere esaltato con Rousseau lo stato di natura come stato di piena indipendenza individuale, seguendo il Vico, considera lo sviluppo storico dell’umanità non una caduta, ma un progresso; mentre fa dipendere il passaggio dallo stato di natura allo stato sociale dalla natura stessa dello spirito ch’egli concepisce, seguendo il Turgot e il Condorcet, come libera attività e perfettibilità, afferma poi che l’uomo è spinto alla società da una forza meccanica e fatale come quella di gravità. Tuttavia l’uomo per Pagano tende a ritornare all’indipendenza dello stato di natura e perciò le società tutte, egli dice, senza esterne cagioni, per ingenito principio, si disciolgono e si corrompono. L’organismo politico quindi, come quello individuale, ha un proprio sviluppo, una perfezione e una finale dissoluzione. Pagano non ha fiducia nel dispotismo illuminato e sostiene con Vico che la legge non deve togliere all’uomo la libertà e che stato perfetto è quello in cui la libertà è garantita dalla legge. Questo si può avere con la repubblica come con la monarchia: le forme di governo sono contingenti e per Pagano, come per Fontenelle, Fénelon e Montesquieu, dipendono anche dai fattori climatici. Anche in estetica Pagano concilia idee di Vico con altre tratte dalle dottrine sensistiche (cfr. Discorso sull’origine e natura della poesia; Del gusto e delle belle arti; contenuti nella I ed. dei Saggi politici, poi a parte o con altre opere). Nel primo scritto Pagano riprende la teoria vichiana della precedenza della poesia sulla prosa. Nella poesia distingue, dalla materia, una forma interna ed una forma esterna. La prima consiste in quel fantastico furore che nasce nell’uomo primitivo per il prevalere delle forze del corpo su quelle dello spirito per cui, insieme ai sensi, si sviluppano quelle facoltà dello spirito che più sono legate alle potenze corporee e cioè la memoria e la fantasia, o memoria attiva, che costituisce la facoltà poetica. La forma estrinseca, che è come la corteccia della poesia, consiste invece nell’armonia del verso e 8236

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del canto alla cui origine è lo stato d’animo commosso. Inerente alla forma estrinseca della poesia è il linguaggio che per Pagano, come per Vico, non è una produzione convenzionale, ma è creazione spontanea e inconsapevole dei popoli primitivi la cui origine si spiega con l’onomatopea. Nel saggio Del gusto e delle belle arti, Pagano distingue il gusto o sentimento della bellezza, dalla riflessione; mentre questa infatti considera le idee per scoprirne la verità, il gusto le considera per vederne l’ordine, la bellezza e il rapporto che hanno col piacevole. Frutto del gusto è la realizzazione dell’idea del bello, la sola realizzazione, dice Pagano, possibile all’uomo che in questa manifestazione creativa si avvicina a Dio ed è superiore al filosofo. Nell’età della perfezione l’arte, da imitazione, diventa creazione; il che precede di poco l’età della filosofia, cioè della compiuta perfezione della società, età in cui l’arte non ha più per scopo soltanto il diletto, ma anche l’utile sociale. Si vedano, per l’aspetto filosofico, le Opere filosofiche, politiche ed estetiche, Lugano 1831 (Capolago 1837). Cfr. L. Actis Perinetti (a cura di) Gli illuministi italiani, Torino 1960; Illuministi italiani, V, a cura di F. Venturi, MilanoNapoli 1962, pp. 834-937; «Grande Antologia filosofica», XV, pp. 1167-1197; XVI, pp. 516517. M. Baravelli BIBL.: G. OTTONE, Mario Pagano e la tradizione vichiana in Italia, Milano 1897; B. CROCE, Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, Bari 1910 (19545), pp. 383-387; G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meridionale nei secc. XVIII e XIX, Bari 1922 (19462), pp. 77-86; G. SOLARI, Vico e Pagano. Per la storia della tradizione vichiana in Napoli nel sec. XVIII, in «Rivista internazionale di Filosofia del Diritto», 1925, pp. 320-347; G. SOLARI, Le opere di Mario Pagano. Ricerche bibliografiche, in «Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino», 1936; R. LAPORTA, Mario Pagano e il pensiero del sec. XVIII, Lanciano 1930; F. COLLOTTI, Saggio sul pensiero filosofico e civile di F.M. Pagano, Firenze 1939; A. TEDESCHI, Il pensiero filosofico e sociale di M. Pagano e le sue concezioni giuridiche fondamentali, Milano 1948; F. PATERNOSTER, Francesco Mario Pagano, Roma 1951; L. GRANATA, Studi sul criminalista [...] Mario Pagano, in «Rivivista penale», 1961, pp. 165-176; G. DEL VECCHIO, Effetti psicologici del terremoto secondo F.M. Pagano (pubbl. nel 1914), in Contributi alla storia del pensiero giuridico, Milano 1963, pp. 286-304; G. SOLARI, Studi su F.M. Pagano, a cura di L. Firpo, Torino 1963; VENTURI, Introduzione a «Grande Antologia filosofica», XV, pp. 785-833.

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PAIDEIA (paideiva). – In origine «educazioPaideia ne», tecnica che prepara il fanciullo alla vita. Ma «paideia» giunse a esprimere l’ideale greco della perfezione umana, conseguita tramite la pratica di arti, lettere e scienze. Ruolo pedagogico aveva l’aedo omerico, deputato a cantare «ciò che era, è, sarà» e a trasmetterlo tramite l’oralità ritmica della poesia mandata a memoria, quale sorta di «enciclopedia tribale» (Havelock). Il mezzo scritturale dell’alfabeto fonetico greco articola la comunicazione pedagogica, favorendo la nascita di nuovi saperi (storia, geometria, medicina, geografia) e la loro democratizzazione. La polis ritiene suo compito base la paideia dei cittadini e, pur mancando di apparati pedagogici istituzionali, amplia e codifica il momento educativo nelle assemblee, nel teatro, nei simposi, nei riti religiosi. Ruolo pedagogico volto alla formazione dei futuri uomini politici hanno i sofisti, ma Socrate e Platone criticano le modalità educative tradizionali («musica», cioè letteratura, e ginnastica): essi mettono a punto la ricerca filosofica entro la scuola come momento di formazione globale, volto non solo al conoscere, ma a conseguire felicità (Hadot). I latini (Cicerone, Varrone) tradussero paideia con humanitas, significando i valori che nobilitano la natura umana e la sottraggono alla ferinitas. In età ellenistica paideia significa già civiltà e cultura, ideale di formazione umana, non come quantità di sapere (equivalente tedesco è oggi Bildung, non Kultur), assumente via via senso religioso: la civiltà ellenistica vi vide un’anticipazione della vita beata, una via all’immortalità. L. Napolitano BIBL.: J. STENZEL, Platon den Erzieher, Berlin 1930, tr. it., Bari 1936; W. JAEGER, Paideia, Die Formung des griechischen Menschen, Berlin-Leipzig 1934-47, tr. it., Firenze 1983; W. JAEGER, Early Christianity and Greek Paideia, Cambridge 1961, tr. it., Firenze 1966; H.I. MARROU, Histoire de l’éducation dans l’Antiquité, Paris 1948, tr. it., Roma 1950; E.A. HAVELOCK, Cultura orale e civiltà della scrittura, Da Omero a Platone, tr. it., Roma-Bari 19832 (ed. orig. Cambridge [Massachusetts] 1963); A. QUACQUARELLI, Introduzione a Le fonti della paideia antenicena, Brescia 1967; J.P. LYNCH, Aristotle’s School. A Study of a Greek Educational Institution, Berkeley - Los Angeles - London 1972; W.H. HARRIS, Lettura e istruzione nel mondo antico, Harvard 1989, tr. it., Roma-Bari 1991 (bibl. pp. 379-409 per l’alfabetizzazione); M. DETIENNE (a cura di), Sapere e scrittura in Grecia, Roma-Bari 1997; P. HADOT, Che

Paine cos’è la filosofia antica?, tr. it., Torino 1998 (ed. orig. Paris 1995).

PAINE, THOMAS. – Rivoluzionario e scrittore Paine politico anglo-americano, n. a Thetford (Inghilterra) nel 1737, m. a New York (USA), nel 1809. Di famiglia piccolo borghese – il padre è un artigiano quacchero – Paine si trasferisce dalla natia Inghilterra al Nord America nel 1774, lavorando a Philadelphia come giornalista. Diviene presto famoso, anche all’estero, con il primo grande pamphlet, Common Sense (London 1776), pubblicato prima della dichiarazione di indipendenza, che vende oltre 120.000 copie in sei mesi. Rivolgendosi ai coloni inglesi del Nord America, Paine denuncia l’oppressione delle colonie da parte della madrepatria, distinguendo rigorosamente fra società e governo. Mentre la società nascerebbe dagli stessi interessi economici degli individui, il governo assolverebbe solo a funzioni di ordine interno e di difesa esterna. Anche nel caso migliore – la repubblica – il governo sarebbe dunque solo un male necessario; nel caso peggiore – la monarchia (inglese) – esso diverrebbe un male intollerabile. Dopo una fugace carriera politica negli Stati Uniti, Paine torna in Inghilterra, da dove allaccia relazioni con i sostenitori francesi dell’indipendenza americana. Quando scoppia la Rivoluzione Francese, ed escono le Reflections on the Revolution in France (London 1790) di Edmund Burke, egli risponde con il suo secondo grande pamphlet, intitolato The Rights of Man (London 1791-92). In quest’opera, Paine non difende solo la Rivoluzione Francese, considerata come ideale prosecuzione della Rivoluzione Americana, ma prende posizione contro la concezione particolaristica inglese dei diritti, a favore della concezione universalistica francese e nordamericana. Grazie alle sue relazioni francesi, Paine finisce per trasferirsi in Francia, dove collabora alla fondazione della prima repubblica e viene eletto deputato alla convenzione. Qui, peraltro, si aliena ben presto le simpatie della maggioranza giacobina, dalla quale lo dividono l’atteggiamento politico liberale e l’inclinazione religiosa deista. Arrestato durante il Terrore, e successivamente liberato, scrive contro i progetti giacobini di scristianizzazione e a favore del deismo il suo terzo grande pamphlet, intitolato The Age of Reason (London 1793-95). Tornato negli Stati Uniti nel 1802, vi morirà 8237

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Paisij quasi dimenticato, qualche anno dopo; in seguito, diverrà oggetto di studi in gran parte apologetici, solo parzialmente rinnovati, più di recente, dalla riscoperta del repubblicanesimo. M. Barberis BIBL.: Collected Writings, a cura di E. Foner, New York 1995. Su Paine: G. CLAEYS, Thomas Paine Social and Political Thought, Boston 1989; J. KEANE, Tom Paine. A Political Life, London 1995.

PAISIJ Paisij (Pëtr ‘Ivànovic Velickòvskij). – Archimandrita ortodosso, n. a Poltava nel 1722; m. a Njamec, in Valacchia, il 15 nov. 1794. Avviato al sacerdozio, Paisij lo lasciò per seguire la sua vocazione alla vita monacale e passò quindi un periodo di altissima iniziazione mistica e contemplativa al Monte Athos. Qui lavorò anche scientificamente e tradusse in slavo alcune delle fondamentali opere di pietà e di pensiero ortodosso, tra cui la Filocalia (San Pietroburgo 1793, col titolo Dobrotoljubie), che diventò testo-base della formazione cristiana dei Russi. Ma ancor più importante per la storia della cultura spirituale russa è la ripresa, ad opera di Paisij, dello «starcestvo», l’antica forma della direzione religiosa e morale per mezzo degli starezi (vegliardi), persone che nei monasteri russi facevano da guida spirituale, non per incarico ufficiale, ma in forza della loro riconosciuta santità. Il più famoso di tali centri di spiritualità fu la «Optina Pustyn’», dove cercarono consiglio ed aiuto spirituale anche uomini come Vl. Solov’ëv, L. Tolstoj, F. Dostoevskij, il quale lasciò poi in I fratelli Karamazov la celebre immagine dello starez Zosima. L. Gancikov BIBL.: B. PENEV, Paisij Hilenderski, Sofia 1918; A.M. AMMAN, Storia della Chiesa russa e dei paesi limitrofi, Torino 1943, pp. 416-417.

PAJON, CLAUDE. – Teologo protestante, n. a Pajon Romorantin nel 1626, m. a Carré il 27 sett. 1685. Compiuti gli studi di teologia a Saumur, nel 1650 divenne pastore di Marchenoir e nel 1665 fu designato alla cattedra di teologia di Saumur. Nel 1666, dopo la rinuncia all’insegnamento in seguito ai sospetti di eterodossia, riprese il ministero pastorale a Orléans. In linea con gli orientamenti dell’accademia di Saumur, la sua riflessione si incentra sulla grazia e 8238

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la sua trasmissione agli uomini. Con i maestri Amyraut e Cameron ritenne che l’adeguazione tra ragione e rivelazione fosse il fondamento di ogni apologetica, insistendo sul ruolo salvifico della Parola, intesa non solo come lume naturale, ma come Verbo, Dio incarnato. In contrasto con la dottrina della grazia immediata, nel Traité de l’opération de l’Esprit en la conversion de l’homme (1684) accentuò la dimensione razionale del processo di conversione, sottolineando il compito essenziale svolto dall’intelletto e la dipendenza della volontà da esso. Nel 1677 le sue tesi circa l’azione dello Spirito Santo nell’opera della salvezza furono condannate come intrise di pelagianesimo e arminianesimo. Determinanti per la condanna furono le divergenze dottrinali con Jurieu, espresse da questi nel Traité de la nature et de la grâce (1688). E. Rapetti BIBL.: S. LACHERET, Claude Pajon: sa vie et sa doctrine, Genève 1882; E.A. MAILHET, La théologie protestante au XVIIe siècle: Claude Pajon, Paris 1883; O. FATIO, Claude Pajon et les mutations de la théologie réformée à l’époque de la Révocation, in AA.VV., La Révocation de l’Édit de Nantes et le protestantisme français en 1685, Paris 1986, pp. 209-227; M. SINA, Il tema della libertà divina in alcuni documenti inediti dell’epistolario di Claude Pajon e di Jean-Robert Chouet, in «Rivista di Storia della Filosofia», 57 (2002), pp. 99-141.

PAKISTAN JOURNAL Pak. philos. PHILOSOPHICAL J. (THE). – Rivista trimestrale pubblicata a partire dal luglio 1957 per iniziativa del Pakistan Philosophical Congress (università del Punjab, Lahore), di cui è l’organo ufficiale. Le lingue ufficiali sono inglese e urdu. M. Bastianelli

PALACIOS, LEOPOLDO EULOGIO. – Letterato Palacios e pensatore spagnolo, n. a Madrid il 31 genn. 1912, ivi morto nel 1981. Professore di logica all’università di Madrid. Dopo un periodo di attività letterario-poetica si orientò verso gli studi di filosofia, aderendo strettamente all’indirizzo tomistico. Opere: La prudencia política, Madrid 1945 (19573); El mito de la nueva cristiandad, ivi 1951; Ideología pura y fenomenología pura, ivi 1952; Filosofía del saber, ivi 1962. Di preferenza ha studiato temi di etica, manifestando un vivo sebbene polemico interesse per la problematica etica e politica di Maritain. Cfr. M.F. Sciacca, La filosofia oggi: dalle origini

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Paleario

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

romantiche della filosofia contemporanea ai problemi attuali, Milano 19736 (1945), 2 voll, II, pp. 319-320; Leopoldo Eulogio Palacios bibliogafía, in «Revista de filosofía» II serie, n. 10, 1997, pp. 241-248. Red.

PALACKÝ, FRANTIŠ EK. – Storico, pensatore e Palacký politico ceco, n. a Hodslavice il 14 giu. 1798, m. a Praga il 26 magg. 1876. Proveniente da una devota famiglia protestante e destinato ad essere predicatore della sua chiesa, subì l’influsso del pensiero filosofico tedesco contemporaneo. Due celebri prediche latine sulla relazione fra religione e scienza rappresentano la sua professione di fede teistica. Lasciati gli studi ecclesiastici, per vari anni fu precettore in diverse famiglie nobili. Nel 1838 fu nominato a Praga storiografo ufficiale del regno di Boemia. Ebbe parte importante nella vita politica come deputato e «padre del popolo». Opere principali: Geschichte von Böhmen, Prag 1836-67, 5 voll.; Dejiny národu ceského v Cechách a v Morave (Storia del popolo ceco in Boemia e Moravia), ivi 1848-67, 5 voll. Un elenco degli altri scritti in lingua ceca si trova nell’introduzione alla III edizione della sua Storia (1876); la lista dei lavori tedeschi fu pubblicata nel 1877 a cura della Reale società delle scienze di Praga. Il suo pensiero filosofico è affidato ad alcuni articoli: Prehled dejin krasovedy a její literatury (Compendio di storia dell’estetica e della sua bibliografia), in «Krok», 1823; Povš echné zkoumání ducha cloveccího v jeho cinnostech (Studi generali sull’animo umano e sulle sue attività), in «Krok», 1823; O krasovede (Estetica), nella rivista del museo ceco «C. C. Muzeum», 1824; O krasocitu (Senso del bello), ibi 1829; O puvodu komicnosti a tragicnosti (Origine del comico e del tragico), ibi 1830. T. Spidlík BIBL.: T. HLOBIL, On the Historiography of Aesthetics: B.J. Koller and F. Palacký, in «British Journal of Aesthetics», 41 (2001), pp. 178-191.

PALAZZOLO, VINCENZO. – Filosofo del diritPalazzolo to, n. a Lercara Friddi il 30 genn. 1913 e m. a Pisa il 10 giu. 1989. Professore all’università di Camerino e di Pisa. Dopo vari scritti di carattere teorico e storico, tra i quali si segnalano quelli sulla filosofia giuridica tedesca, anche per l’anticonformismo testimoniato dalla scelta di dedicare una monografia a Gustav Radbruch in pieno fasci-

smo, e una a Julius Binder negli anni (e nel clima) del dopoguerra (ripubblicate in La filosofia del diritto di Gustav Radbruch e di Julius Binder, Milano 1983), in Contributo allo studio dei rapporti tra economia e diritto (Roma 1953) offrì una rilettura della filosofia giuridico-politica moderna nella chiave, allora inusitata, della critica ideologica, pervenendo a un’originale riformulazione del nesso tra economia e diritto come espressione della dimensione sociale comune a entrambi. Notevole influenza, soprattutto per la lettura critica di Hans Kelsen che vi era contenuta, ebbe su molti giuristi Scienza e epistemologia giuridica (Padova 1957), cui fecero seguito numerosi saggi, frutto di un’appassionata riflessione su alcune questioni nodali della civiltà contemporanea, via via raccolti in vari volumi. E. Ripepe BIBL.: G. MARINI, Vincenzo Palazzolo, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 67 (1990), pp. 312; E. RIPEPE, Prefazione, a V. PALAZZOLO, Economia e diritto, Milano 1985, pp. 7-27.

PALEARIO, AONIO (Antonio della Paglia). – Paleario Poeta e filosofo, n. a Veroli (Frosinone) nel 1503, m. a Roma, sul rogo, nel 1570. Formatosi a Perugia, Padova e Siena, insegna eloquenza a Lucca (dal 1546) e letteratura greca e latina a Milano (dal 1555); conosce Bembo, Sadoleto e Maffei. Sostenitore del movimento riformato in Italia, a Siena scrive l’Actio in pontifices Romanos et eorum asseclas (postumo), in cui sostiene la necessità del rinnovamento della chiesa; in seguito redige il poema in tre libri De animorum immortalitate (Lugduni 1536), in forma lucreziana, che canta la presenza divina in tutto il creato e presenta una psicologia platonica. Paleario prova l’esistenza di Dio e la creazione dell’anima a sua immagine; sostiene l’immortalità dell’anima, prefigurando godimento e pena eterni, e sostiene la tesi che il mondo sia governato dalla sapienza divina. Pubblicate le opere (Basileae 1566), viene processato e condannato. M. Laffranchi

BIBL: Opera, Amsterdam 1696; Benefizio della morte di Cristo, Firenze 1849; Atto di accusa contro i papi di Roma e i loro seguaci, Torino 1871; ripr. Livorno 1973; nuova rist. anast., Foggia 1998; Dell’economia o vero del governo della casa, ed. a cura di S. Caponetto, Firenze 1983; Carmina, ed. a cura di D. Sacré, in «Humanistica 8239

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Paleoantropologia Lovaniensia», 34 (1985), pp. 209-227; De animorum immortalitate libri III, ed. a cura di D. Sacré, Brussel 1992. Su Paleario: F. MATTONE-VEZZI, Aonio Paleario e la riforma religiosa in Italia, in «Miscellanea Storica della Valdelsa», 51 (1943), pp. 5-36; 56 (1949-50), pp. 90-113; 58 (1952), pp. 6-40, 5960; 59 (1955), pp. 82-101; S. CAPONETTO, Aonio Paleario (1503-1570) e la riforma protestante in Toscana, Torino 1979; L. KOSUTA, Aonio Paleario et son groupe humaniste et réformateur à Sienne (1530-1546), in «Lias», 7 (1980), pp. 1-59; E. GALLINA, Aonio Paleario, Sora 1989, 3 voll.; A. DAL CANTO, Aonio Paleario: un martire del libero pensiero, 1910 Roma; rist. anast. Foggia 1995.

PALEOANTROPOLOGIA (paleanthropology; Paleoantropologia Paläoanthropologie; paléoanthropologie; paleoantropología). – Con questo termine viene designato lo studio dell’uomo antico (da palaios, antico; anthropos, uomo; logos, discorso). Nello studio vengono quindi inclusi l’uomo fossile e in generale di epoche passate, le sue origini, lo sviluppo nel tempo, il rapporto con l’ambiente. Per tali studi ci si basa sui reperti scheletrici, ma anche su ciò che li accompagna e manifesta il suo comportamento, la cui conoscenza è fondamentale per conoscere l’uomo, i vari aspetti della sua evoluzione, particolarmente nei rapporti con l’ambiente che si sono stabiliti attraverso la cultura. La paleoantropologia potrebbe quindi essere intesa come una paleontologia umana allargata (cfr. Y. Coppens, Lezione inaugurale della cattedra di Paleoantropologia e Preistoria al Collège de France, in H. Breuil - A. Leroi-Gourhan - Y. Coppens, Le grandi tappe della preistoria e della paleoantropologia. Lezioni inaugurali al Collège de France, Milano 1987, pp. 47-68). L’uso del termine paleoantropologia è da intendersi in un’accezione più ampia rispetto alla paleontologia umana, fiorita in ambiente francese nella metà del secolo XIX e legata essenzialmente allo studio dei fossili umani considerati nel loro contesto geologico. Secondo E.T. Hamy (Précis de paléontologie humaine, Paris 1870) la paleontologia umana è lo studio dell’uomo fossile e si estende dalle origini all’epoca dei monumenti megalitici. La ricerca delle origini e delle ramificazioni filetiche del gruppo umano ha caratterizzato gli studi di paleontologia umana a opera di insigni studiosi, da Marcelin Boule a Henri Vallois, a Jean Piveteau nell’intento di ricostruire la storia natura8240

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le dell’uomo integrando quest’ultimo in una scienza e in una evoluzione dell’universo (cfr. Jean Piveteau, Vers la forme humaine, le problème biologique de l'homme, les époques de l'intelligence: primates, paléontologie humaine, in Traité de paléontologie, vol. VII, Paris 1957). Secondo André Leroi-Gourhan (cfr. A. Leroi-Gourhan [a cura di], Dictionnaire de la préhistoire, Paris 1988) la paleontologia umana studia l’evoluzione del genere Homo. Il suo campo di studio si arresta convenzionalmente con il Neolitico o la prima età dei metalli. Più ampio si è venuto configurando il campo della paleoantropologia che si estende fino alle epoche storiche (cfr. G.F. Debetz, Paleoantropologiya SSSR [Paleoantropologia nell’U RSS ], Moscou 1948) e comprende vari aspetti del comportamento umano specialmente nel suo rapporto con l’ambiente. Secondo A. Thoma (Eléments de paléoanthropologie, Louvain-La-Neuve 1985) la paleoantropologia comprende «lo studio dei resti fossili e degli uomini subfossili» e diventa conoscenza dell’etnogenesi. Yves Coppens (op. cit.) ha osservato che sotto la sua egida si allineano spesso la paleontologia umana, la paleoecologia, che fa a sua volta appello alla paleoclimatologia e alla paleontologia animale e vegetale, ma si allinea anche la preistoria. Anche secondo Ph. Tobias (cfr. Paleoantropologia, Milano 1992, p. 16) la paleoantropologia nella sua forma più semplice abbraccia le origini e l’evoluzione degli ominidi e utilizza metodi e intuizioni che provengono da altri campi di studi (archeologia, paleoecologia, paleodemografia, paleoetologia, tafonomia). Va riconosciuto che vi sono campi di interesse che hanno assunto una loro autonomia anche disciplinare (p. es. paleoecologia, ecologia preistorica, paletnologia, preistoria, bioarcheologia ecc.), ma la paleoantropologia può considerarsi una scienza di sintesi nello studio dell’uomo fossile o del passato, di cui considera prioritariamente gli aspetti morfologici, metrici e funzionali e i rapporti stabiliti con l’ambiente attraverso la cultura. La storia evolutiva dell’uomo è affrontata dalla paleoantropologia e include sia le forme che hanno preceduto e preparato la comparsa dell’uomo sia quelle dell’umanità preistorica. La sua estensione nel tempo rimane convenzionale. In ogni caso si preferisce parlare di antropologia storica per i reperti di epoca storica. Lo sviluppo delle ricerche paleoantropologiche segue lo sviluppo delle scoperte che negli

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ultimi 150 anni si sono intensificate nelle varie regioni del mondo. Nella prima metà dell’Ottocento vengono ricordati alcuni fossili come il cranio di Engis (Belgio) trovato nel 1833 o di Gibilterra nel 1848, ma è con la scoperta dell’uomo di Neanderthal nella grotta Feldhofer, nelle vicinanze di Düsseldorf, che si è imposto all’attenzione il problema dell’uomo fossile. Altri resti di tipo neanderthaliano sono stati segnalati nella seconda metà del secolo XIX. Alla fine del secolo la scoperta dei pitecantropi di Giava (1891 e anni seguenti) imprimeva una forte accelerazione agli studi sull’evoluzione umana. È del 1925 la segnalazione, da parte di R. Dart, del bambino di Taung, nel Sudafrica, la prima forma di australopiteco a cui negli anni quaranta seguirono altri rinvenimenti. Le scoperte si sono moltiplicate negli ultimi cinquant’anni nell’Africa orientale, dalla gola di Olduvai (Tanzania), alla valle di Omo (a nord, a ovest e a est del lago Turkana), all’Afar (Etiopia), al Chad. Intanto anche in Asia continuavano le segnalazioni di pitecantropi a Giava e nel 1929 veniva annunciata la scoperta del Sinantropo di Pechino a Chou-kou-tien. Numerose le località asiatiche, dalla Palestina all’Iraq, all’India, alla Cina, all’Indonesia che hanno fornito reperti di interesse paleoantropologico. Recentemente il sito di Dmanissi, in Georgia, ha dischiuso interessante materiale della fase umana arcaica. Non è la sede per tracciare la storia delle scoperte di ominidi fossili che hanno interessato i vari continenti e arricchiscono le conoscenze sull’uomo preistorico. Parallelamente alle scoperte si sono ampliate e affinate le metodologie di studio sia per l’apporto delle scienze che possono essere considerate ausiliarie (ad esempio per la datazione assoluta dei reperti, per la ricostruzione dell’ambiente ecc.) sia per le metodologie di studio dei reperti. Oltre alle analisi dell’antropologia classica, fondate sugli aspetti morfologici e metrici dei reperti, si sono sviluppate nuove indagini sui reperti, volte alla ricostruzione del comportamento, delle condizioni di vita e di salute; analisi di indicatori scheletrici morfofunzionali per ricostruire lo stile di vita; studio della morfologia dentaria e degli elementi in traccia nelle ossa per la ricostruzione della dieta; analisi tafonomiche; analisi del DNA per ricostruire i rapporti filetici tra i gruppi umani. I campi di indagine si sono allargati e consentono di portare luce sulle popolazioni

Paleoantropologia culturale del passato non solo per quanto si riferisce alle relazioni filetiche, ma anche in ordine alla conoscenza delle attività svolte in vita, allo sviluppo della cultura e al rapporto con l’ambiente. Si sono anche sviluppate nuove metodologie di studio delle faune, del clima, della vegetazione (palinologia), delle industrie litiche (tracce di uso, materia prima ecc.) che consentono di ricostruire l’ambiente della evoluzione umana. Rientrano negli studi della paleoantropologia le origini dell’uomo, la sua diffusione sulla terra, le trasformazioni che hanno portato alla forma moderna (Homo sapiens), i rapporti tra le popolazioni, il rapporto con il territorio, il comportamento dell’uomo sotto il profilo del rapporto con l’ambiente. Gli aspetti che più specificamente incrociano le attività culturali nell’evoluzione delle popolazioni formano oggetto della paleoantropologia culturale (cfr. F. Facchini, Premesse per una paleoantropologia culturale, Milano 1992). La cultura infatti non può essere disgiunta dalla storia evolutiva dell’uomo. Le sue manifestazioni incominciano con l’uomo, con i prodotti della tecnologia strumentale, essenziale per una economia di sussistenza basata sulla caccia e per l’organizzazione del territorio. F. Facchini BIBL.: M. SERRES (de), Note sur la paléontologie humaine, C.R. Acad. Sc., XXXVII, 1853, 518; E. DUBOIS, Pithecanthropus erectus, eine menschenaehnliche Uebergangsform von Java, Batavia 1894; R. DART, Australopithecus africanus: the Man-ape of South Africa, in «Nature», 115 (1925), pp. 195-199; M. BOULE, Les hommes fossils, Paris 1946; J. PIVETEAU, Origine et destinée de l'homme, Paris 1973, 19832; M.H. DAY, Guide to Fossil Man, London 1986; J. PIVETEAU, L'apparition de l'homme, Paris 1986, tr. it. di A. De Lorenzi, La comparsa dell'uomo, Milano 1994; Y. COPPENS, Préambules. Les premiers pas de l'homme, Paris 1988, tr. it. di E. Picotti, Pre-amboli, Milano 1990; F. FACCHINI, (a cura di, con la collaborazione di A. Beltran e A. Broglio), Paleoantropologia e preistoria. Dizionario enciclopedico, Milano 1993; F. FACCHINI, Il cammino dell'evoluzione umana, Milano 1994. ➨ EVOLUZIONE UMANA; OMINIZZAZIONE; PALEOANTROPOLOGIA CULTURALE.

PALEOANTROPOLOGIA CULTURALE Paleoantropologia culturale (cultural palaeoanthropology; Paleoanthropologie; paléoanthropologie culturelle; paleoantropologia cultural). – Lo studio dell’uomo preistorico riguarda sia i processi evolutivi che hanno portato alla forma umana sia le manifestazioni del 8241

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Paleografia comportamento umano che esprimono la sua cultura. Varie discipline affrontano questi aspetti di ordine morfologico-evolutivo e di ordine culturale: la paleontologia umana, la paleoantropologia, la paletnologia, l’archeologia preistorica, la bioarcheologia, l’ecologia preistorica. Le interazioni fra i diversi aspetti biologici e culturali non sono ignorate, ma, particolarmente per i periodi recenti della preistoria, quando le manifestazioni culturali si fanno più intense, la maggiore attenzione si concentra sugli aspetti culturali e vengono meno considerati i rapporti con l’evoluzione biologica. È avvertita l’opportunità di uno studio specifico delle interazioni tra biologia e cultura nella preistoria, riguardanti non solo il rapporto con l’ambiente, ma anche il reciproco influsso tra condizioni e stili di vita ed evoluzione biologica, tra comportamento umano e rapporto con l’ambiente, tra sistemi simbolici di comunicazione e vita sociale. In particolare lo studio della cultura dell’uomo preistorico, anche nelle più antiche manifestazioni dell’epoca paleolitica, e del suo rapporto con l’ambiente e con il processo della ominizzazione, cioè il raggiungimento della forma umana moderna, può essere affrontato in un orizzonte specifico che si è proposto di chiamare paleoantropologia culturale (Facchini, 1992). Non si tratta di descrivere le culture preistoriche, compito che rientra propriamente nella paletnologia, ma di coglierne il significato e l’importanza in ordine al successo evolutivo dell’uomo, sia nelle strategie adattative messe in atto nelle diverse epoche della preistoria, sia nel processo di umanizzazione che ha caratterizzato la ominizzazione a partire dalla comparsa dell’uomo. Per umanizzazione può intendersi l’opera dell’uomo stesso nel rendere l’ambiente adatto alla specie umana e nel fare progredire le tecnologie e i sistemi simbolici di comunicazione che stanno alla base della vita sociale (Martelet, 2003; Facchini, 2002). Le metodologie, anche per le epoche più antiche, possono essere analoghe a quelle che si utilizzano per le epoche più recenti. A titolo di esempio i campi di interesse della paleoantropologia culturale possono essere i seguenti: evoluzione somatica ed evoluzione culturale, evoluzione culturale e relative modalità e ritmi; rapporti fra fonti di sussistenza ed economia; caratteristiche morfo-funzionali e comportamento umano; biodemografia dei gruppi 8242

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preistorici (fecondità, durata della vita); aspetti paleobiologici, comportamento e malattie; culture litiche, insediamenti e dimensioni del gruppo; organizzazione dell’attività socioeconomica; dimensioni e ruoli dell’aggregato familiare; diffusione, trasformazione ed estinzione delle culture, specialmente nei periodi di transizione; diffusione delle culture e migrazioni umane. F. Facchini BIBL.: F. FACCHINI, Premesse per una paleoantropologia culturale, Milano 1992; G. MARTELET, Evolution et création. Sens ou non-sens de l’homme dans la nature?, Paris 1998, tr. it. di E. Picotti, Evoluzione e creazione. Dall’origine del cosmo alle origini dell’uomo, Milano, 2003; F. FACCHINI, Origini dell’uomo ed evoluzione culturale. Profili scientifici, filosofici e religiosi, Milano 2002. ➨ PALEOANTROPOLOGIA.

PALEOGRAFIA (palaeography; Paläographie; Paleografia paléographie; paleografía). – Studio delle antiche scritture con lo scopo primario di decifrarle e leggerle esattamente, riconoscerne l’epoca e il luogo di origine, analizzarne le tecniche d’esecuzione; poi identificarne il testo, l’ambito culturale dello scrivente, le motivazioni e la finalità dello scritto, la ricezione da parte dei lettori. Obbiettivo finale è ricostruire la «storia della cultura scritta», prendendo in considerazione «tutte le testimonianze scritte di una determinata tradizione culturale» (A. Petrucci, Prima lezione di paleografia, Roma-Bari 2002, pp. V-VI). Secondo l’area geografica si ha perciò paleografia greca, paleografia latina, paleografia slava, paleografia ebraica ecc. La paleografia latina comprende i territori dove nel Medioevo il latino era lingua della scuola e del culto religioso e dove l’alfabeto latino era usato per scrivere anche le lingue parlate (neolatine, germaniche, alcune lingue slave): corrisponde alla moderna Europa occidentale e parte dell’Europa centro-orientale. La scrittura è un sistema convenzionale di segni visibili permanenti che esprimono linguaggio, rappresentandone il concetto (scritture ideografiche) o il suono (scritture fonetiche); l’alfabeto è una particolare scrittura fonetica, adattata nel I millennio a. C. a varie lingue, fra cui il greco e il latino. La scrittura è tracciata su un supporto, con uno strumento, e ha una forma. Lo studio dei supporti (tavolette, pietra, metallo, papiro, pergamena, carta, fino alla struttura tecnicamente complessa del libro/codice) ha

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sviluppato come specializzazione la codicologia o archeologia del libro. La comparazione delle varie forme o tipi di scrittura ha permesso di denominarle, fissare le tappe dei mutamenti (per il latino p. es. capitale, carolina, gotica), datarle e localizzarle. Nel Medioevo, negli scriptoria (centri di scrittura) i testi antichi e nuovi furono trascritti dai copisti, che così ne garantirono la trasmissione. Una vasta circolazione era possibile poiché in larga parte d’Europa il sistema scolastico era condiviso e i libri usati erano i medesimi. Dapprima i monasteri, poi i frati predicatori e le università produssero e, con le loro biblioteche, conservarono i codici attraverso i secoli. La tradizione scritta e la sua sopravvivenza si ricostruiscono anche con la storia delle biblioteche e la catalogazione dei manoscritti conservati in tutto il mondo. Un ramo specifico è la paleografia musicale, rilevante per la storia della liturgia, che prende in esame i testi con notazione musicale, nei quali una indicazione visiva guida alla esecuzione musicale. Il termine paleografia fu inventato per i manoscritti greci dal maurino B. de Montfaucon, Palaeographia graeca (Paris 1708), ma già J. Mabillon, De re diplomatica libri VI (Paris 1681-1704) aveva applicato un sistema classificatorio alle scritture latine. L’idea vincente dell’evoluzione continua della scrittura latina, dall’età classica alle varietà medievali, è di Scipione Maffei, Istoria diplomatica (Mantova 1727). Nell’Ottocento L.V. Delisle (1826-1910) e L. Traube (1861-1907) individuarono gli scriptoria medievali e il loro ruolo come centri di trasmissione del sapere antico; Traube coniugò la paleografia con la filologia, indirizzo che fu continuato dalla scuola di Monaco di Baviera durante tutto il Novecento. Con l’atteggiamento positivistico riguardo alla documentazione e con il nuovo mezzo tecnico della fotografia furono prodotte, fra fine Otto e Novecento, molte collezioni di facsimili (album e riproduzioni integrali di codici). Più avanti nel Novecento, quando nella storia si svilupparono gli studi di «storia materiale», si rafforzò l’interesse verso i supporti e la tecnica di fabbricazione dei codici. Da ultimo, in parallelo con le ricerche letterarie rivolte a individuare il «pubblico», si è posto l’accento sulla ricezione della scrittura e sulle modalità di lettura. Nuova attenzione alle civiltà extraeuropee ha portato a studiare la scrittura come fenomeno antropologico della cultura mondiale, i suoi sviluppi autoctoni e la

Paletnologia comunicazione dei sistemi di scrittura tra paesi diversi. Il lavoro di catalogazione dei manoscritti medievali oggi persegue quasi dappertutto anche la finalità di rendere disponibili in rete web descrizioni e immagini. M. Ferrari BIBL.: G. BATTELLI, Lezioni di paleografia, Città del Vaticano 19993 (1949); R. DEVREESSE, Introduction à l’étude des manuscrits grecs, Paris 1954; D. DIRINGER, L’alfabeto nella storia della civiltà, Firenze 19692 (1935); B. BISCHOFF, Paläographie des römischen Altertums und des abendländischen Mittelalters, Berlin 19862 (1979), tr. it. a cura di G.P. Mantovani e S. Zamponi, Paleografia latina: antichità e Medioevo, Padova 1992; A. PETRUCCI, La scrittura: ideologia e rappresentazione, Torino 1986; A. GAUR, A History of Writing, London 1987; G. CAVALLO (a cura di), Le biblioteche del mondo antico e medievale, Roma-Bari 1988; P. CANART, Paleografia e codicologia greca, Città del Vaticano 1991; G. CENCETTI, Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna 1997; G. CAVALLO - R. CHARTIER (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale, Roma-Bari 1998; L.E. BOYLE, Paleografia latina medievale, Roma 1999; A. PETRUCCI, La descrizione del manoscritto, Roma 2001. ➨ CODICE; CULTURA; SCRITTURA; TESTO; TRADIZIONE.

PALETNOLOGIA (paleoethnology; PalethnoloPaletnologia gie; paléoethnologie; paletnología). – Lo studio della preistoria ha avuto il suo sviluppo intorno alla metà del sec. XIX in ambiente francese e italiano. L’occasione era fornita dalla scoperta sia di reperti scheletrici e litici sia di incisioni e pitture riferibili a epoche antichissime. Edoardo Lartet nel 1831 segnalava il ritrovamento dei resti di Pliopiteco, vissuto nell’era terziaria, e nel 1852 ritrovava nella grotta di Aurignac, nel Périgord, la successione stratigrafica del Paleolitico e Neolitico. Intanto strumenti litici antichi venivano pure segnalati. Una classificazione del Paleolitico in base alle faune fu proposta da Lartet (inferiore, con l’ippopotamo; medio, con l’orso delle caverne; superiore, con la renna). Ma è a Gabriel De Mortillet (1821-1896) che si deve nel 1865 la fondazione della rivista «Matériaux pour l’histoire positive et philosophique de l’Homme», il cui titolo fu cambiato nel 1869 da Emile Cartaillac (1845-1921) in «Matériax pur l’histoire primitive et naturelle de l’Homme». La rivista continuò fino al 1888 quando si fuse con l’«Anthropologie». A De Mortillet si deve la suddivisione del Paleolitico in inferiore (chelleano), medio (musteriano) e superiore (solutreano, auri8243

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Paletnologia gnaziano, maddaleniano) sulla base della tipologia dei manufatti. Nello stesso anno della fondazione della rivista «Matériaux...», nel 1865, John Lubbock (1834-1913) pubblicava Prehistoric Times, volume in cui venivano utilizzate le denominazioni di Paleolitico e Neolitico. Le scoperte di grotte con arte parietale o mobiliare, come Altamira in Spagna, i Balzi Rossi in Liguria, o di sepolture con corredi funerari allargavano l’interesse degli studi preistorici che si incrementavano parallelamente agli studi sui reperti umani fossili. Le ricerche sull’arte preistorica si intensificarono con le scoperte di nuove grotte e con gli studi dell’abbé Henri Breuil (1877-1961), vero maestro e padre della preistoria, che cercò di applicare i metodi delle scienze naturali allo studio delle culture preistoriche. A lui si devono studi sull’arte parietale delle più note grotte della Francia e della Penisola Iberica. Nel 1901 fondò la «Revue de sinthèse». In Italia l’attenzione alla preistoria e protostoria si sviluppa nella seconda metà del sec. XIX a opera di vari studiosi, fra i quali ricordiamo Giovanni Gozzadini (1810-1887), Gaetano Chierici (1816-1886), Giuseppe Scarabelli (18201905), Bartolomeo Gastaldi (1818-1879), Pellegrino Strobel (1821-1895), Edoardo Brizio (1846-1907), Luigi Pigorini (1842-1925). Nel 1865 in una riunione di scienziati svoltasi a La Spezia viene deciso di chiamare paleoetnologia (in seguito abbreviata come paletnologia) lo studio delle antichità preistoriche. Una data storica è da considerarsi il 1871 con la celebrazione del quinto Congresso internazionale di antropologia e archeologia preistorica a Bologna, che vide la partecipazione dei maggiori studiosi italiani e di varie nazioni europee. Per quella occasione Pigorini compilò una Bibliografia paletnologica italiana dal 1850 al 1871. Si posero le basi per lo sviluppo della paletnologia in Italia. Nel 1875 Pigorini, insieme a Chierici e Strobel, fondano il periodico «Bollettino di Paletnologia Italiana». L’interesse per la preistoria non si sviluppa solo nel centro e nel nord Italia (Emilia, Lombardia, Veneto, Lazio), ma anche al sud, specialmente per l’impulso di Giustiniano Nicolucci, professore di Antropologia a Napoli. Nel 1875 viene istituito a Roma il Museo preistorico che prenderà in seguito il nome di L. Pigorini e nel 1877 viene fondata nell’università di Roma la prima cattedra di Paletnologia 8244

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che sarà tenuta dal Pigorini per circa quarant’anni. Nel primo Novecento la paletnologia italiana vanta illustri nomi, oltre a quelli sopra ricordati. Ricordiamo Ugo Alberto Rellini (1870-1943), Aldobrandino Mochi (18741931), Gian Alberto Blanc (1879-1966), ma si registrano anche polemiche, come quelle sul Paleolitico superiore per la grotta Romanelli (Puglia), che portò alla istituzione del Comitato per le Ricerche di Paleontologia Umana da parte di Mochi e di Blanc. Nei paesi anglosassoni il cammino delle scienze preistoriche appare variamente intrecciato con quello dell’antropologia sociale e culturale e con l’etnologia, identificandosi di fatto nell’archeologia preistorica. Gli studi moderni delle culture preistoriche hanno risentito fortemente delle idee di Gordon Childe, di origine australiana, titolare della cattedra di archeologia nel 1927 nella università di Edinburgo. La particolare attenzione che diede alle culture della valle del Danubio e alle civiltà orientali del Neolitico portò Childe a sviluppare i concetti di rivoluzione neolitica e rivoluzione urbana. Nel suo modo di vedere egli dava un’interpretazione funzionale della cultura intesa «non come un morto raggruppamento di fossili e curiosità, bensì come un organismo funzionale e vitale» e considerava la cultura materiale come il principale mezzo di adattamento dell’uomo all’ambiente. Come riferisce Alessandro Guidi, secondo Childe l’archeologia doveva essere considerata come «parte integrante della scienza dell’uomo». Childe ha proposto di inquadrare i fenomeni culturali in tre categorie: l’economia, la sociologia, l’ideologia, una classificazione largamente accolta nei paesi anglosassoni. Intorno alla metà del sec. XX si accresce con J.B. Clark l’interesse dell’approccio economico (insediamenti e relativi reperti) in una visione funzionalistica per lo studio delle società preistoriche e del loro adattamento ambientale. In Francia l’arte preistorica continua a giovarsi delle competenze dell’abbate Breuil; con Francois Bordes e Georges Laplace si sviluppano le analisi quantitative dei manufatti e con André Leroi-Gourhan si accresce l’interesse per gli aspetti etnografici e tecnologici nelle antiche culture. In Italia Paolo Graziosi si afferma come studioso dell’arte preistorica: nel 1946 fonda la «Rivista di Scienze Preistoriche» e nel 1954, a seguito del trasferimento a Roma dell’Istituto Italiano

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di Paleontologia Umana, promuove a Firenze l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. Luigi Bernabò Brea, Renato Peroni, Salvatore Puglisi, Antonio Radmilli appartengono ormai alla storia contemporanea. Va infine segnalato lo sviluppo della New Archaeology in ambiente anglo-americano e nord-europeo con i suoi paradigmi in cui si ritrovano l’approccio funzionalistico, le interrelazioni tra sviluppo socioeconomico, ambiente naturale e cultura, l’approccio quantitativo e sistemico, specialmente nello studio della preistoria recente. Vanno ricordati alcuni nomi illustri, quali Lewis Binford, Marshall Sahlins, Elman Service, David L. Clarke, C. Renfrew. F. Facchini BIBL.: L. PIGORINI, Bibliografia paletnologica italiana dal 1850 al 1871, Parma 1871; L. PIGORINI, La scuola paletnologica italiana, in «Nuova Antologia», vol. XLV, s. II, 1 giugno (1884), pp. 435-436; G. DE MORTILLET - A. DE MORTILLET, Le Préhistorique. Origine et antiquité de l’homme, Paris 1900; G.V. CHILDE, The Dawn of European Civilization, London 1925; U.A. RELLINI, Le origini della civiltà italica, Roma 1929; H. BREUIL, Les peintures rupestres, Lagny 1933, 2 voll.; G.V. CHILDE, New Light on Most Ancient East: the Oriental Preludy to European Prehistory, London 1934; G. PATRONI, La preistoria, Milano 1937; J.G.D. CLARK, Archaeology and Society, London 1939; P. GRAZIOSI, L’arte dell’antica età della pietra, Firenze 1956; A. LAMING-EMPEREUR, Origine de l’Archéologie préhistorique en France, Paris 1964; A. LEROI-GOURHAN - G. BAILLOUD - J. CHAVAILLON - A. LMING EMPEREUR, La Préhistoire, Paris 1966; D.L. CLARKE, Models in Archaeology, London 1972; C. RENFREW, The Emergence of Civilization, The Cyclades and the Aegean in the Third Millennium, London 1972; L.R. BINFORD, An Archaeological Perspective, New York 1978; A. GUIDI, Storia della Paletnologia, Roma-Bari 1988; A.M. GROENER, Pour une histoire de la préhistoire, Grenoble 1994. ➨ ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA DELLA; PALEOANTROPOLOGIA; PALEOANTROPOLOGIA CULTURALE; PREISTORIA.

PALEY, WILLIAM. – Teologo anglicano n. nel Paley lug. 1743 a Peterborough (è documentata la data del battesimo, 30 ag. 1743), m. il 25 magg. 1805 a Lincoln. Studiò a Cambridge dove fu fellow e poi tutor al Christ College per nove anni; in seguitò ricoprì diversi incarichi ecclesiastici. The Principles of Moral and Political Philosophy ([London 1785], a cura di D. Le Mahieu, Indianapolis 2002) precedette di poco l’opera più nota di Jeremy Bentham. La dottrina di Paley fu una prosecuzione della via aperta da Ri-

Paley chard Cumberland, guidata dalla preoccupazione di stabilire un criterio della virtù senza ricorrere a uno speciale senso morale. Il postulato del consequenzialismo teologico è che Dio ha scelto di emanare certe leggi in modo non arbitrario, ma razionale, laddove si intendeva per razionale un calcolo della quantità di bene portata dall’applicazione di queste leggi: «Le azioni possono essere valutate secondo la loro tendenza a promuovere felicità. Tutto ciò che è vantaggioso è giusto. È solo la convenienza [expediency] di qualsiasi norma morale ciò che ne determina il carattere di obbligo» (ibi, p. 62). Ma è Dio che opera il calcolo, e l’obbligazione trae origine dalla sua volontà e capacità di esercitare sanzioni garantendo la felicità eterna a chi è virtuoso. Il bene a sua volta si risolve nella «felicità», cioè in «ogni condizione in cui l’ammontare o l’aggregato di piacere eccede quello di dolore; e il grado di felicità dipende dalla quantità di questo eccesso. E la sua più grande quantità, ordinariamente raggiungibile nella vita umana, è ciò che intendiamo per felicità» (ibi, p. 18). Da queste premesse Paley fece discendere una contestazione della legittimità della proprietà privata affermando: se si vedesse in uno stormo di piccioni il «novantanove per cento di loro accumulare tutto ciò che hanno preso, tenendo per sé solo gli scarti e tenendo ciò che hanno accumulato per uno che è il più debole e forse il peggiore piccione dello stormo [...] non vedresti nulla più di ciò che viene praticato e stabilito quotidianamente fra gli uomini» (ibi, p. 90). Tuttavia la proprietà privata, benché «paradossale e innaturale» è giustificata dai vantaggi che porta. Non va sottovalutato il carattere di rottura dell’affermazione; gli amici di Paley predissero – a ragione – che la pubblicazione di questo passo gli sarebbe costata la nomina a vescovo. Un argomento parallelo veniva svolto a proposito della «origine del governo civile», dichiarato anch’esso illegittimo in linea di principio; ma anche qui la mancanza di legittimità del governo vale come argomento contro ogni innovazione nella «costituzione» britannica, perché ogni innovazione ne avrebbe diminuito la stabilità, legata alla sola forza della consuetudine, portando più svantaggi che vantaggi (cfr. ibi, l. II, cap. 6). Un ampio capitolo è dedicato all’economia politica, riprendendo nozioni diffuse nel mondo inglese prima di Adam Smith (si noti che le lezioni di Paley rielaborate nel volume erano 8245

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Paley state tenute a Cambridge prima del 1776) ma tenendo conto probabilmente di alcune idee di An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (London 1776, tr. it. a cura di A. Bagiotti - T. Bagiotti, Ricchezza delle nazioni, Torino 2001). Un tema cui Paley dedicò notevole attenzione è la popolazione, sulla quale riprese le dottrine pre-malthusiane che legano crescita della popolazione e sviluppo e le collegò con il suo consequenzialismo che portava a fare della crescita della popolazione un bene in sé, non soltanto in vista della potenza dello stato: dato che il fine della «politica razionale» è la produzione della «massima quantità di felicità» ma dato che non esiste la felicità delle comunità, la quantità di felicità può essere accresciuta soltanto accrescendo il numero di coloro che hanno percezioni o la piacevolezza delle percezioni stesse. Dopo la pubblicazione di An Essay on the Principle of Population (London 1798, tr. it. a cura di G. Maggioni, Saggio sul principio di popolazione, Torino 1978) di Malthus, Paley ammise le sue buone ragioni e ritrattò la propria dottrina. La trattazione di Paley del problema della popolazione comunque comprende una complessa teoria del rapporto fra popolazione, consumo, crescita economica, occupazione, dove trova posto una funzione per il consumo di lusso come fattore che, se spinto fino a e non oltre un punto ottimale, ha più effetti benefici che dannosi sulla crescita. Partendo da queste idee Thomas R. Malthus sviluppò la sua teoria sulla funzione dei ceti medi improduttivi e non a caso John Maynard Keynes, che in Paley scoprì un proprio precursore, lo dichiarò il primo degli economisti di Cambridge. Le altre opere principali furono opere di «teologia fondamentale»: Horae Paulinae (London 1790) è dedicata alla verità del cristianesimo, trattando la questione dell’attendibilità del Nuovo Testamento come documento storico. A View of the Evidences of Christianity ([London 1794], Farnborough 1977, 2 voll.), altra opera di apologetica, risponde alla critica alla possibilità del miracolo di Hume rovesciando il suo argomento dell’improbabilità: se si parte dall’ammissione della possibilità che Dio abbia destinato le creature a uno stato futuro di felicità e che voglia rendere noto questo destino alle sue creature, allora la possibilità del miracolo deve essere garantita e la verità del cristianesimo dipende dall’autenticità dei suoi miracoli. Partendo dal carattere improbabile 8246

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del cristianesimo se ne fa una ragione a favore della sua verità in quanto lo si usa per escludere la possibilità della falsificazione deliberata da parte dei primi testimoni, testimoni che l’argomento di Hume dichiarava inattendibili, in quanto la loro testimonianza andava contro l’esperienza comune; il requisito di Hume viene dichiarato troppo forte, in quanto un miracolo deve essere per definizione un’eccezione all’esperienza universale. Natural Theology, or Evidences of the Existence and Attributs of the Deity (London 1802, tr. it. Teologia naturale o sia prove della esistenza e degli attributi della divinità, Roma 1808; a cura di M.D. Eddy e D. Knight, Oxford 2006) riprende, senza alcun riconoscimento (come d’altronde Paley fece costantemente nelle sue altre opere con altri autori), idee di Jacob Nieuwenhuis (teologo olandese seguace di Karl Krause), in cui ha un posto centrale lo Argument from Design. Gli organismi viventi sarebbero la prova per eccellenza, più che i fenomeni astronomici e quelli chimici, dell’esistenza di un autore della natura così come l’esistenza di un orologio è prova dell’esistenza di un orologiaio. Il punto decisivo dell’argomentazione è la legittimità di considerare parti della natura come meccanismi, legittimità che era stata contestata da Hume nei Dialogues concerning Natural Religion (London 1779, tr. it. a cura di M. Dal Pra, Dialoghi sulla religione naturale, Bari 1963) pubblicati nel 1779, che Paley non sembra conoscere dato che – diversamente che sui miracoli – non risponde a Hume. Il problema della teodicea viene risolto sulla base della considerazione che certe parti della creazione sono state create in modo tale da funzionare beneficamente, e inoltre dal fatto che la divinità ha aggiunto alle sensazioni degli esseri che rientrano nel calcolo morale (fra i quali gli animali) il piacere, in una misura che va oltre il necessario, anche quando lo stesso scopo avrebbe potuto essere ottenuto attraverso il dolore. Paley fu per decenni il portavoce della via media di Cambridge, una posizione latitudinaria in religione e whig in politica, sostenitrice dei diritti innati dell’individuo (va ricordato il suo impegno per l’abolizione della tratta degli schiavi). Alcune opere furono tradotte in tedesco (i Principles da Christian Garve), francese, spagnolo, italiano e i Principles furono l’opera canonica di etica e politica in Inghilterra fino al 1845, quando apparvero The Elements of Morality, including Polity (London 1845) di Wil-

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liam Whewell che presentavano un’etica intuizionista alternativa a quella consequenzialista di Paley. S. Cremaschi BIBL.: The Works, 7 voll, ed. a cura di E. Paley, London 18252. Su Paley: D.L. LE MAHIEU, The Mind of William Paley, a Philosopher of his Age, Lincoln (Nebraska) 1976; J. SCHNEEWIND, Sidgwick’s Ethics and Victorian Moral Philosophy, Oxford 1977; A.M.C. WATERMAN, A Cambridge via media in Late Georgian Anglicanism, in «Journal of Ecclesiastical History», 42 (1991), pp. 419-436; A.M.C. WATERMAN, Why William Paley was «the first of the Cambridge economists», in «Cambridge Journal of Economics», 20 (1996), pp. 673-686.

PALIARD, JACQUES. – Filosofo francese, n. a Paliard Saint-Étienne il 26 mar. 1887, m. a Aix-en-Provence il 10 giu. 1953. Fu alunno di M. Blondel ad Aix (1908-09). Professore dal 1911 (e «Docteur ès lettres» nel 1925), insegnò nei licei, poi alle università di Marsiglia ed Aix (titolare dal 1940). Discepolo di Blondel, influenzato da Maine de Biran e Malebranche, Paliard é tuttavia pensatore di profonda originalità. Il suo tema centrale è lo studio della coscienza, non in quanto conoscenza, ma in quanto soprattutto coscienza concreta e interiorità spirituale, pensiero e vita, azione e riflessione. Secondo Paliard la coscienza può conoscere se stessa solo in modo indiretto, riflessivo poiché essa ha ed è una struttura riflessiva che implica una distanza di sé da sé. Essa è retrospezione che rinvia a una prospezione o aspirazione che è dell’ordine vitale ed esistenziale. La coscienza non si possiede: tra l’elemento vitale e l’elemento spirituale, tra pensiero e azione, tra il dinamismo della riflessione e la sua presa, vi è una frattura, vi sono «delle profondità di esistenza e delle profondità di chiarezza». In che modo adeguare movimento riflessivo e movimento aspirativo e comporre l’unità della coscienza con se stessa? In finissime analisi, Paliard mostra che la «presentazione coscienziale», comportando la distanza tra l’affermazione e l’affermato, si riferisce sempre a una realtà più profonda e che la dialettica della coscienza, nelle sue implicazioni e nei suoi movimenti, nel suo intreccio di ritmo «affettivo» e di ritmo riflessivo, tende alla sua promozione in vita spirituale. Il che non avviene senza difficoltà. Per giungere all’interiorizzazione dello spirito, infatti, sono necessari la purificazione

Palingenesi e il superamento delle molteplici forme dell’illusione (immaginazione, passione, sentimento...), poiché l’essenziale si ottiene con l’eliminazione di ciò che lo simula e lo dissimula. Contemplazione estetica delle cose, attività artistica, sapere puro e la stessa ascesi purificatrice non colmano in unità la distanza della coscienza da sé a sé. L’unità si ricompone solo nell’esperienza mistica, cioè nella partecipazione a una coscienza perfetta, per cui l’intelletto diventa amore e l’anima luce. F. Weber BIBL.: opere principali: Intuition et réflexion. Esquisse d’une dialectique de la conscience, Paris 1925; Le raisonnement selon Maine de Biran, Paris 1925; Le monde des idoles. Fragments, Paris 1934; Le monde des idoles. Connaissance de l’illusion, Paris 1936; Théorème de la connaissance, Paris 1937; Pensée implicite et perception visuelle, Paris 1949; Maurice Blondel ou le dépassement chrétien, Paris 1950; La pensée et la vie. Recherche sur la logique de la perception, Paris 1951; Profondeur de l’âme, Paris 1954. Su Paliard: M.M. BOUET, Le spiritualisme chez Jacques Paliard, in «Etudes Philosophiques», 1951, pp. 141148; AA.VV., n. mon. «Etudes Philosophiques», ott.dic. (1954), dedicato a Paliard; A. FOREST, La pensée de Jacques Paliard, in «Études Blondéliennes», 3 (1954), pp. 133-141 (con bibliografia); J. TROUILLARD, La pensée et la vie selon Jacques Paliard, in «Teoresi», 1956, pp. 114-118; H. DUMÉRY, Regards sur la philosophie contemporaine, Tournai-Paris 1956, pp. 101106; P. MASSET, La dialectique de la conscience chez Jacques Paliard, Paris 1959; P. MASSET, Genèse et développement de la philosophie de Jacques Paliard, in «Teoresi», 33 (1978), pp. 167-176.

PALINGENESI (gr. paliggenesiva, «rigeneraPalingenesi zione»; Cicerone [De natura deorum, II, 118] traduce con «renovatio mundi» - palingenesis; Palingenese (Wiedergeburt); palingénésie; palingenesía). – È il concetto di rinnovamento, del mondo o dell’uomo, nato dall’osservazione dell’avvicendarsi delle stagioni, del corso del sole, dei mutamenti ciclici naturali. La palingenesi è stata concepita nella filosofia antica in riferimento al ritmo della vita umana e cosmica; nel pensiero cristiano, indicherà la rigenerazione resa possibile dalla grazia di Dio. Nel pensiero presocratico e orfico, pur non essendo attestata la parola, è presente l’idea: ad es. secondo Eraclito (Plutarco, De E apud Delphos, 389 A) l’universo sottostà a cicli che lo vedono risolversi nel fuoco per poi rinascere. Gli orfici vedono negativamente il «ciclo della generazione» (O. Kern [a cura di], Orphicorum 8247

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Palingenio Stellato fragmenta, Berlin 1972, 24) a cui l’anima può sfuggire quando riesce a purificarsi. Secondo Plutarco (De esu carnium, I, 996 C), il mito orfico di Dioniso dilaniato dai Titani e risuscitato simboleggia, appunto, la palingenesi cosmica (su di esso cfr. le tesi opposte di R. Edmonds, in «Classical Antiquity», 18, 1999, pp. 35-73, che contesta l’antichità del mito, e A. Bernabé, in «Revue de l’Histoire des Religions», 219, 2002, pp. 401-433, che la difende). In Platone (Men., 81 a; Phaed., 72 b; Pol., 274 d), la palingenesi è, come nei pitagorici, il ciclo delle rinascite, che pone in evidenza l’analogia fra il destino del mondo e il destino dell’uomo. Platone vede nella palingenesi la caratteristica essenziale della realtà fisica, condannata a un perpetuo divenire; la prova dell’immortalità dell’anima fondata sui contrari, per cui nulla di vivo può rinascere da ciò che è morto (Phaed., 70 d-e), dimostra che il ritmo di nascita e morte sarebbe impossibile se non ci fosse un’entità vivente di per sé e immortale, ossia l’anima, superiore a questo ciclo. Soprattutto nel tardo platonismo, «palingenesi» indicherà la metempsicosi. Nella prospettiva immanentistica e monistica dello stoicismo (cfr. H. von Arnim [a cura di], Stoicorum Veterum Fragmenta, Leipzig 1901-05, II, 110, 599, 613, 624 ecc.; Marco Aurelio, Ricordi, XI, 1, 3; Seneca, Naturales quaestiones, III, 30), la palingenesi, dotata di una forte impronta eraclitea, riveste un’importanza e una centralità uniche nella storia della filosofia: il cosmo nasce dal fuoco, e, al termine del suo ciclo di vita – essendo concepito organicamente, come un vivente – si risolve nel fuoco, per poi rinascere di nuovo secondo la legge del Fato: il periodo cosmico in questione è chiamato aijwvn. In questa prospettiva, la palingenesi si connette strettamente all’«apocatastasi», ossia «restaurazione, ricostituzione», indicante il ristabilimento di tutto, all’inizio di ogni ciclo cosmico, nella stessa situazione in cui era all’inizio del precedente (cfr. H. von Arnim, op. cit., II, 623-632). Nel suo significato naturalistico la palingenesi è contrastata dal pensiero cristiano (cfr. Agostino d’Ippona, De civitate Dei, XXII, 28): nella sua accezione greca, infatti, essa implica un «tempo ciclico» che non conosce progresso, né rigenerazione spirituale, ma appare come un eterno ritorno che porta anche, specialmente in ambito stoico, gravi problemi teoretici rispetto alla questione del libero arbitrio 8248

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umano (cfr. solo S. Bobzien, Determinism and Freedom in Stoic Philosophy, Oxford 1998). Anche nei culti misterici il fine è quello di liberare per sempre l’anima dalla «ruota della generazione» (in questo senso Dioniso è detto Lièo o Lisio, cioè liberatore: cfr. Olimpiodoro, In Platonis Phaedrum, ed. Norvin, 87, 23), la sua palingenesi rimane ancora dentro le coordinate di una dottrina cosmologica e naturalistica. La palingenesi di cui parlano il Nuovo Testamento, dai Vangeli a Paolo di Tarso (Tt 3, 4-5; Rm 6, 3-4; 2 Pt 1; Mt 19, 28; Gv 3, 3-4), e poi i Padri, ha essenzialmente due accezioni: indica o la rigenerazione dell’anima, operata dal battesimo, che è rinascita a una nuova vita, oppure la ricostituzione di tutti gli uomini e di tutte le realtà in Dio alla fine dei tempi, dottrina particolarmente presente ed enfatizzata soprattutto in Origene, nel quale forma tutt’uno con quella della salvezza universale, e in Gregorio di Nissa. I. Ramelli BIBL.: A. HARNACK, Die Terminologie der Wiedergeburt und verwandten Erlebnisse in der ältesten Kirche, Leipzig 1918; O. PROKSCH, Wiederkehr und Wiedergeburt, in R. FELKE (a cura di), Das Erbe Martin Luthers und die gegenwärtige theologische Forschung. Festschrift für Ludwig Ihmels, Leipzig 1928; W. LUTOSLAWSKI, The Knowledge of Reality, Cambridge 1930; A.-J. FESTUGIÈRE, La révélation d’Hermès Trismégiste, vol. IV, Paris 1954, pp. 200-267; E. PAX, s. v. Wiedergeburt, in J. HÖFER - K. RAHNER (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg im Breisgau 1957-682, vol. X, coll. 1100-1102; M.P. NILSSON, Geschichte der griechischen Religion, vol. II, München 19612; G. REALE, Storia della filosofia greca e romana, vol. X, Milano 2004, pp. 104, 266; I. RAMELLI, La coerenza della soteriologia origeniana: dalla polemica contro il determinismo gnostico all’universale restaurazione escatologica, in Pagani e cristiani alla ricerca della salvezza. «Atti del XXXIV Incontro di Studiosi dell’Antichità Cristiana, Roma, Augustinianum 5-7 maggio 2005», Studia Ephemeridis Augustinianum, Roma 2006, pp. 661-688. ➨ APOCATASTASI; ECPYROSI; ETERNO RITORNO; EVO.

PALINGENIO STELLATO, MARCELLO (Pier Palingenio Stellato Angelo Manzoli o Manzolli). – Poeta didascalico, n. a La Stellata (Ferrara) fra il 1500 e il 1503, m. ivi intorno al 1543. Della sua vita ben poco ci è noto, anche perché egli si celò dietro un nome fittizio (identificato solo nel 1725). Fu sospettato di luteranesimo, tanto che i suoi resti furono esumati e bruciati. È noto per un poema didascalico, lo Zodiacus vitae, edito dal veneziano Bernardino Vitale

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anteriormente al 1537. Vi si trovano, accanto a minuziosi precetti educativi, consigli di natura pratica (concernenti il matrimonio, i rapporti sociali, la psicologia dell’infanzia ecc.), intercalati qua e là da elogi della sapienza e da assai aspre invettive contro il clero e contro il dogmatismo dell’aristotelismo scolastico. Il pensiero filosofico è frammentario e divagante, ma è sulla linea della posteriore filosofia rinascimentale. A. Gonzales BIBL.: E. TROILO, Un poeta filosofo del Cinquecento: Marcello Palingenio Stellato, Roma 1912; G. BORGIANI, Marcello Palingenio Stellato e il suo poema, lo «Zodiacus vitae», Città di Castello 1913; B. CROCE, Lo «Zodiacus vitae» del Palingenio, in La letteratura italiana per saggi storicamente disposti, vol. I: Dal Duecento al Cinquecento, Bari 1963; Poeti e scrittori del pieno e del tardo Rinascimento, Bari 1970, vol. III; L. KELLER, Palingène, Ronsard et Du Bartas, Bern 1974; F. BACCHELLI, Note per un inquadramento biografico di Marcello Palingenio Stellato, in «Rinascimento», 25 (1985), pp. 275-292; C. MORESCHINI, Satira e teologia nello «Zodiacus Vitae» di Marcello Palingenio Stellato, in «Studi umanistici piceni», 6 (1986); Motivi della filosofia antica nello «Zodiacus Vitae» di Marcello Palingenio Stellato, in «Studi umanistici piceni», 7 (1987); N. SAPEGNO (a cura di), Storia della letteratura italiana, vol II: Il Cinquecento, Milano 1988; F.S. RYLE, Fate, Free Will and Providence in the «Zodiacus Vitae» of Marcello Palingenio Stellato, in L. ROTONDI SECCHI TARUGI (a cura di), L’uomo e la natura nel Rinascimento, Milano 1996, pp. 209-226.

PALLAVICINO, SFORZA. – Filosofo e teologo, Pallavicino n. a Roma il 18 nov. 1607, m. ivi il 5 giu. 1667. Gesuita (1637) e cardinale (1659), è noto non soltanto per la Istoria del Concilio di Trento (Roma 1656-57, in due tomi; edizione rielaborata, in 3 volumi, 1664; v. ora: Storia del Concilio di Trento ed altri scritti, a cura di M. Scotti, Torino 1962; edizione accresciuta 19742), ma anche per taluni scritti di contenuto vario (Fasti cristiani, Camerino 1636; la tragedia Ermenegildo martire, Roma 1644; Trattati diversi, ivi 1649; Arte della perfezione cristiana, ivi 1665) e per alcune opere di argomento filosofico ed estetico: Del bene (Roma 1644; in latino: Philosophia moralis, Coloniae Ubiorum 1646); Trattato dello stile e del dialogo (Roma 1662; Modena 1994), preceduto nel 1646 dalle più brevi Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo. Cfr. Opere, Milano 1834, 2 voll.; Lettere, a cura di O. Gigli, Roma 1848, 4 voll.; Trattatisti e narratori del

Pallavicino Seicento, a cura di E. Raimondi, Milano-Napoli 1960, pp. 191-262. I dialoghi Del bene trattano della vera felicità. Dopo un esame della tradizionale distinzione tra bene onesto, utile e dilettevole, e delle relazioni tra senso e intelletto, Pallavicino espone i tre modi di conoscenza intellettiva: intuizione immediata o simplex apprehensio, giudizio e ragionamento. Giudizio e ragionamento riposano su proposizioni che, pur richiamando il principio di causalità, sono innate e, in quanto tali, giustificano la conoscenza dell’universale. Pallavicino riconosce che solo la fantasia o «prima apprensione» (che nulla afferma sulla verità o falsità dell’oggetto) è peculiare dell’arte, e pone come fine della poesia il far immaginare vivamente e con diletto oggetti meravigliosi, descritti nei minimi particolari. La poesia è il regno dell’intuizione e dell’immaginazione, prima dell’intervento del giudizio. Per questo Pallavicino ammette l’uso di metafore, di epiteti, di similitudini, di prosopopee e d’«altre figure ben espressive e pompose», che, dando al racconto somiglianza del vero, fanno, in realtà, apprendere più efficacemente il finto. Questi stessi principi ispirano il Trattato dello stile e del dialogo, in cui Pallavicino insegna a scrivere con eleganza di qualsivoglia argomento scientifico o letterario. Anche qui egli nota che grande ornamento dello stile sono le arguzie (cioè i «concetti» o «acutezze») meravigliose e leggiadre, e rileva che il parlare elegante altro non è che «una moltitudine di minute figure, e principalmente di metaforette prese da materia sensibile». La poesia è vivace imitatrice di «cose mirabili e immaginabili», suscitate dall’attività fantastica, e atte ad appagare con la verisimiglianza gli intelletti comuni; suo scopo precipuo è il diletto, determinato dalla meraviglia, quale mezzo idoneo a far apprendere poi più agevolmente l’insegnamento del vero. M. Pecoraro - M. Longo BIBL.: I. AFFÒ, Memorie della vita e degli studi del cardinale Sforza Pallavicino, Parma 1794; C. MARROCCO, Un precursore dell’estetica moderna: il cardinale Pallavicino Sforza, Palermo 1930; L. PALLAVICINO MOSSI, Sforza Pallavicino, Bologna 1933; M. COSTANZO, Critica e poesia del primo Seicento, Roma 1970; E. BELLINI, Linguistica barberiniana: lingua e linguaggi nel «Trattato dello stile e del dialogo» di Sforza Pallavicino, in «Studi secenteschi», 35 (1994), pp. 57-104; C. CARMINATI, Il carteggio tra Virgilio Malvezzi e Sforza Pallavicino, in «Studi secenteschi», 41 (2000), pp. 352-429; M.L.

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Palmer ALTIERI BIAGI, Il «Dialogo» di Galileo e l’«Arte del dialogo» di Sforza Pallavicino, in «Lingua e stile», 37 (2002), pp. 65-71.

PALMER, ELIHU. – Pensatore americano, n. a Palmer Canterbury (Connecticut) il 7 ag. 1764, m. a Filadelfia il 7 apr. 1806. Fu dapprima ministro presbiteriano, poi, sospeso a causa della sua eterodossia, passò alla chiesa universalista. Costretto a fuggire da Filadelfia a causa di un sermone contro la divinità di Cristo, fece per alcuni anni l’avvocato e poi divenne predicatore deista. Fondò a New York una società deista, i cui aderenti, noti col nome di Filantropi, si diffusero ben presto anche in altre città americane. Pubblicò un giornale: «The Temple of Reason», e un settimanale: «The Prospect, a View of the Moral World» a sostegno della sua dottrina, e tentò, senza riuscirvi, l’istituzione di una chiesa deista. Opere principali: The Examiners Examined, Being a Defense of the Age of Reason, New York 1794; An Enquiry Relative to the Moral and Political Improvement of the Human Species, ivi 1797; Principles of Nature, or a Development of the Moral Causes of Happiness and Misery among the Human Species, ivi 1802. Palmer non fu pensatore originale, ma un abile e appassionato divulgatore. La sua predicazione contro la Bibbia, contro le religioni positive, le profezie e i miracoli, pur servendosi degli schemi abituali alla polemica antireligiosa, segnò il culmine della fortuna del deismo in America. Palmer auspicò una religione e un’educazione razionaleggianti, e una politica liberale e rivoluzionaria. N. Bosco BIBL.: V.L. PARRINGTON, Main Currents in American Thought: an Interpretation of American Literature from the Beginnings to 1920, I: The Colonial Mind, 16201800, New York 1927; G.A. KOCH, Republican Religion, the American Revolution and the Cult of Reason, New York 1933; A. KRONT, s. v. in «Dictionary of American Biography», vol. XIII, New York 1946; H. SCHNEIDER, Storia della filosofia americana, tr. it., Bologna 1963, pp. 89-90.

PALMER, GEORGE H ERBERT. – Pensatore Palmer americano, n. a Boston il 19 mar. 1842, m. a Harvard il mag. 1933. Dal 1879 al 1913 fu professore a Harvard, dove insegnò successivamente greco, storia della filosofia, religione naturale, filosofia morale e politica civile. Fu scrittore fecondissimo. Citia8250

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mo: The New Education, Boston 1885; Self-Cultivation in English, ivi 1887; The Field of Ethics, ivi 1901; A Study of Self-Sacrifice, ivi 1902; The Nature of Goodness, ivi 1903; The Ideal Teacher, ivi 1910; The Problem of Freedom, ivi 1911; Altruism, Its Nature and Varieties, New York 1920; The Autobiography of a Philosopher, Boston 1930. Tra i suoi allievi furono Royce, Santayana, Münsterberg ed altri noti filosofi. Dopo un periodo di giovanile entusiasmo per J.S. Mill, Palmer si accostò a Hegel sotto la guida di E. Caird a Glasgow. Benché non si considerasse un creatore di nuovi concetti ma un espositore e un critico, Palmer operò una sintesi originale di puritanesimo e di hegelismo. La sua «etica sociale» sorse, infatti, in polemica con l’estremo individualismo puritano, da un lato, e contro il tentativo hegeliano di sommergere la persona nelle istituzioni, dall’altro. N. Bosco BIBL.: J. ROYCE, In Honor of Prof. Palmer, in «Harvard Graduates Magazine», 1911, giugno; W.H. HOCKING, Prof. Palmer Teacher, in «New York Times», 1933, 8 maggio; W. HAMMOND, s. v. in «Dictionary of American Biography», XIII, New York 1946.

PALMIERI, DOMENICO. – Filosofo e teologo, Palmieri gesuita, n. a Piacenza il 4 lug. 1829, m. a Roma il 25 magg. 1909. Insegnò filosofia e teologia a Fermo, Spoleto, al Collegio Romano (1863-79), e sacra scrittura a Maastricht (1880-87). Nell’ambito filosofico fu allievo di S. Tongiorgi; abbandonò alcune tesi del tomismo in ambito fisico-metafisico: sostituì l’ilemorfismo dei corpi (di questa dottrina scriveva: «inextricabilibus obnoxia est difficultatibus») con una concezione dinamicistica dei «punti di forza», sulla falsariga delle posizione di Boscovich e di Storchenau. Rifiutò l’astrazione e le specie intelligibili, ritenendo sufficiente alla conoscenza il contatto immediato dell’oggetto sensibile assimilato direttamente dall’anima sensitivo-intellettiva, la quale esiste soltanto come elemento di ordine metafisico superiore, e non è forma sostanziale. Perciò, al momento della restaurazione tomistica leoniana venne esonerato dall’insegnamento della filosofia e inviato a Maastricht. Lasciati gli studi filosofici Palmieri diede prova del suo ingegno e della sua apertura in ambito teologico, soprattutto con un ingegnoso commento alla Commedia dantesca, nel quale si riscontra una notevole finezza di analisi teologica (egli negò le radici tomistiche

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del pensiero dantesco, sostenute da G.M. Cornoldi). L. Malusa BIBL.: Institutiones philosophiae, Roma 1874-76, 3 voll.; De Romano Pontifice cum Prolegomeno de Ecclesia, Roma 1877 (Roma 19314); Commento alla Divina Commedia, Prato 1898, 3 voll.; Il progresso dogmatico nel concetto cattolico, Roma 1910; Tractatus de creatione et de praecipuis creaturis, Prato 1910 (la prima ed., 1878, portava come titolo: De Deo creante et elevante). Su Palmieri: [P. PIRRI], L’Università Gregoriana del Collegio Romano nel I secolo della restituzione, Roma 1924, pp. 170-173; G. VAN RIET, L’épistémologie thomiste, Louvain 1946, pp. 82-83, 93-98; E. HOCEDEZ, Histoire de la théologie au XIXe siècle, Bruxelles 1947, vol. III, pp. 371-372; G. FILOGRASSI, Teologia e filosofia nel Collegio romano dal 1824 ad oggi (Note e Ricordi), in «Gregorianum», 25 (1954), pp. 518 e 532; L. MALUSA, Neotomismo e intransigentismo cattolico, vol. I: Il contributo di Giovanni Maria Cornoldi per la rinascita del tomismo, Milano 1986, pp. 61-65, 322-324; P. BONATTI, Domenico Palmieri (1829-1909), con prefazione di G. Velocci, Milano 1998.

PALMIERI, LUIGI. – Fisico e filosofo, n. a FaicPalmieri chio (Benevento) il 21 apr. 1807, m. a Napoli il 9 sett. 1896. Successe a P. Galluppi nella cattedra di Filosofia presso l’università di Napoli nel 1847. Nel 1861 lasciò questa cattedra per assumere quella di Fisica terrestre, contemporaneamente alla direzione della specola universitaria e dell’Osservatorio vesuviano. La sua attività filosofica si svolse nell’ambito del sistema giobertiano, ritenuto erede degli aspetti migliori del sistema di Galluppi. Nella prolusione sull’indirizzo da dare alle università italiche, letta nell’inaugurare la cattedra di Scienze della Terra, Palmieri espresse le sue idee relativamente alla necessità di seguire una linea filosofica «nazionale», basata sulle dottrine di Galluppi, Rosmini e Gioberti. Questa presa di posizione suscitò la reazione di B. Spaventa, il quale concepì proprio contro Palmieri la sua nota prolusione sulla nazionalità della filosofia. Palmieri restò sempre, anche dopo diversi anni dall’affermazione in Napoli dell’hegelismo, favorevole a una prospettiva antisensista, antiidealista e pure antiscientista. L. Malusa BIBL.: G. PASTORE, L’attività filosofica di Luigi Palmieri, Cerreto Sannita 1942; G. DE CRESCENZO, La fortuna di Vincenzo Gioberti nel Mezzogiorno d’Italia, Brescia

Palmieri 1964, pp. 138-146; L. MALUSA, La storiografia filosofica in Italia nella prima metà dell’Ottocento, in G. SANTINELLO - G. PIAIA (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. IV/2: L’età hegeliana. La storiografia filosofica nell’area neolatina, danubiana e russa, Padova 2004, pp. 296-298, 325 (bibliografia).

PALMIERI, MATTEO. – Umanista, n. a Firenze Palmieri nel 1406, m. ivi (o a Roma) nel 1475. Conosce G. Argiropulo e L. Bruni, P. Bracciolini e L. Dati. Il suo dialogo La vita civile (1431-1438) tratta del cittadino perfetto: l’educazione (I), le virtù (II-III), l’utile e le ricchezze (IV). L’uomo è l’autore responsabile del proprio destino. La Vita Nicolai Acciaioli insiste sul tema della gloria, che rende giustizia agli uomini degni. La Historia Florentina (1429-74), raccoglie i fatti del tempo; la Historia Concilii Florentini, perduta, riportava probabilmente l’esperienza di legato, vissuta dal Palmieri; nel De captivitate Pisarum si esprime una normativa di vita; il De temporibus traccia una storia dell’umanità, rifacendosi ad Eusebio e Gerolamo. Il poema Città di Vita (1465) medita sulla sorte dell’uomo e offre spunti neoplatonici ed ermetici. Per le dottrine ivi contenute si diffuse sul Palmieri il sospetto di eresia. M. Laffranchi BIBL.: Liber de temporibus, ed. a cura di G. Scaramella, «Rerum Italicarum Scriptores», vol. XXVI, t. 1, Città di Castello 1906-1915 (contiene in appendice gli Annales o Historia Florentina); Libro del poema chiamato Città di vita composto da Matteo Palmieri Florentino, a cura di M. Rooke, Northampton (Massachusetts)-Paris 1926-28, 2 voll.; Protesto, ed. a cura di G. Belloni, in «Studi e Problemi di Critica Testuale», 16 (1978), pp. 27-48; Vita civile, ed. a cura di G. Belloni, Firenze 1982; Ricordi fiscali (1427-1474), ed. a cura di E. Conti, Roma 1983; La presa di Pisa, ed. a cura di A. Mita Ferraro, Bologna 1995; La vita di Niccolò Acciaioli, ed. a cura di A. Mita Ferraro, Bologna 2001. Su Matteo Palmieri: F. SARRI, La religione di Matteo Palmieri, in «Città di Vita», 1 (1946), pp. 301-323; A. BUCK, Matteo Palmieri als Repräsentant des Florentiner Bürgerhumanismus, in «Archiv Kulturgeschichte», 47 (1965), pp. 77-95; G.M. CARPETTO, The Humanism of Matteo Palmieri, Roma 1984; C. FINZI, Matteo Palmieri: dalla «vita civile» alla «città di vita», Milano 1984; G. TANTURLI, Sulla data e la genesi della «Vita civile» di Matteo Palmieri, in «Rinascimento», 36 (1996), pp. 3-48.

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Palotai

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PALOTAI, JÓZSEF (József Purgstaller). – FilosoPalotai fo ungherese, appartenente all’ordine dei Padri scolopi, n. nel 1806, m. nel 1867. Professore universitario e membro dell’Accademia ungherese delle scienze. Fra le principali opere filosofiche si ricordano: Bölcsészet elemei (Lineamenti di filosofia), Buda 1843, 6 voll.; Szépészet azaz aesthetica (Dottrina del bello o Estetica), Pest 1850; Philosophiai propaedeutika (Propedeutica filosofica), ivi 1851. T. Hanak

PANCALISMO (pancalism; Pankalismus; panPancalismo calisme; pancalismo). – Termine foggiato sul greco to; kalo;n pa'n «il tutto bello» da James M. Baldwin nella sua opera Genetic Theory of Reality: Being the Outcome of Genetic Logic as Issuing in the Aesthetic Theory of Reality Called Pancalism (New York 1915), e riprodotto a cura dello stesso nell’Encyclopedia of Religion and Ethics (ed. a cura di J. Hastings, Edinburgh 197479, vol. IX). Secondo Baldwin la considerazione pancalistica della realtà è già in Aristotele: la realtà estetica, percepita nella contemplazione del bello, è onnicomprensiva e assoluta; il vero e il bene, la suprema verità e il bene più alto sono uniti nella divina contemplazione dell’universo come opera d’arte. Baldwin ritrova questa stessa concezione di una profonda e onnicomprensiva armonia nella dottrina di Immanuel Kant e di Friedrich W. Schelling. Il sentimento, nell’immaginazione artistica, diviene organo di una genuina penetrazione del reale: nell’opera d’arte, le richieste dell’intelletto per la verità, e quelle della moralità per il bene, trovano una piena, totale e armonica soddisfazione in una sintesi onnicomprensiva. La dottrina pancalistica, opponendosi al panlogismo, si propose di rivalutare il sentimento come organo di conoscenza e come strumento per attingere, nel bello, l’assoluto reale: tale atteggiamento può essere avvicinato a quello di molte filosofie dei valori sorte in Europa e in America. C. Rosso BIBL.: A. LALANDE, Le pancalisme, in «Revue philosophique», 11 (1915), pp. 481-512; J.C. LOREDO - J.C SÁNCHEZ, James Mark Baldwin’s Pancalism: Aesthetics, Psychology and Constructivism, in «Estudios de psicología», 3 (2004), pp. 315-329.

PANCKOUCKE, ANDRÉ-JOSEPH. – Editore e Panckoucke pubblicista, n. a Lilla nel 1700, m. ivi il 17 lug. 1753. 8252

Personalità complessa e dissimulatrice, apparentemente giansenista, Panckoucke è autore di numerose opere. Tra esse, gli Essais sur les philosophes, ou les Égarements de la raison sans la foi (Amsterdam 1743) si presentano come una violenta requisitoria contro i filosofi pagani, inevitabilmente destinati – poiché privi della grazia – all’idolatria e al disorientamento. Nondimeno, ne L’art de desoppiler la rate, sive de modo C. prudenter. En prenant chaque feuillet pour se T. le D. Entremêlé de quelques bonnes choses (A Gallipoli de Calabrie [falso luogo di stampa] l’an des folies 175884 [ma 1754]; più volte riedito, spesso con vaste modifiche) Panckoucke offre uno zibaldone satirico, spesso anti-clericale, nel quale nasconde una Notice des écrits les plus célèbres, tant imprimés que manuscrits, qui favorisent l’incrédulité, et dont la lecture est dangereuse aux esprits les plus foibles: una bibliografia di opere «sovversive» e anti-religiose. M. Forlivesi BIBL.: S. TUCOO-CHALA, Charles-Joseph Panckoucke et la librairie française, 1736-1798, Pau 1977; G. SANTINELLO (a cura di), Storia delle storie generali della filosofia, vol. III: Il secondo illuminismo e l'età kantiana, Padova 1988, p. 213; G. ARTIGAS-MENANT, Questions sur la «Notice des écrits les plus célèbres, tant imprimés que manuscrits qui favorisent l’incrédulité, et dont la lecture est dangereuse aux esprits les plus foibles», in «La Lettre clandestine», 2 (1993), pp. 35-50.

PANENTEISMO (gr. pa'n ejn qew', «tutto in Panenteismo Dio» - panentheism; Panentheismus; panenthéisme; panenteísmo) . – Termine coniato da K.Ch.F. Krause per indicare il concetto fondamentale della sua filosofia, secondo cui né Dio trascende assolutamente il mondo come un totalmente altro da esso (teismo), né vi si identifica per natura e sostanza sino ad essere una sola cosa con esso (panteismo). Nella sua intenzione originaria, sistematicamente elaborata sin dal 1828 nelle Vorlesungen über das System der Philosophie (vol. I, pp. 313 ss.) e nelle Vorlesungen über die Grundwahrheiten der Wissenschaft (Göttingen 1829), la visione di Krause non intende porsi semplicemente come un compromesso o una mediazione fra teismo e panteismo, ma ambisce a una nuova e diversa comprensione del reale che possa rendere ragione a un tempo della trascendenza di Dio e della sua immanenza nel mondo: dire che Dio «è» nel mondo non significa identificarlo con questo (come invece avviene nell’errore radi-

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Panezio di Rodi

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cale del panteismo in tutte le sue forme, da quello sostanzialistico di Spinoza a quello logico di Hegel), ma parlare di una presenza del creatore nella creatura che del primo non contraddice in alcun modo la trascendenza e l’alterità. Peculiare del pensiero di Krause, solo impropriamente il concetto di panenteismo è stato applicato ad altre filosofie; benché un presagio di esso possa cogliersi già in Novalis, in un testo che peraltro era a Krause ignoto, cioè nei Politische Aphorismen (Novalis, Schriften, a cura di P. Klukhohn e R. Samuel, Stuttgart 1960 ss., 1981-833, vol. II, p. 503, tr. it. a cura di G. Moretti e F. Desideri, Torino 1993, vol. I, p. 447). M. Ravera

Il termine, nell’uso che ne fece Krause e in quelli successivi, realizza una sorta di compromesso fra trascendenza teistica e panteismo, in quanto Dio, pur eccedendo l’universo, coincide pur sempre, almeno in parte, con esso, se non altro perché fra Dio e l’universo esisterebbe una relazione necessaria di reciprocità. Probabilmente già presente nella filosofia di Eraclito, di Plotino e dello pseudo-Dionigi, il panenteismo ritorna nel pensiero di Spinoza e di Spencer, è stato spesso accostato alla filosofia induista dei Veda ed è riproposto in alcune forme della filosofia del processo. Forme spiritualistiche di panenteismo si possono forse riconoscere nel neo-vitalismo cosmico della gnosi di Princeton e forme, invece, materialistiche in talune interpretazioni del principio antropico. A. Cardin - D.M. Cosi BIBL.: R. GARCIA MATEO, Panentheismus als Wissenschaftssystem bei Karl Christian Friedrich Krause, Frankfurt am Main 1982. ➨ DIO; PANTEISMO; TEISMO; TRASCENDENZA.

PANEZIO RODI. – Stoico n. intorno al Panezio diDI Rodi 180 a. C. e m. verso il 109, studiò grammatica con Cratete di Mallo, poi fu discepolo di Diogene di Babilonia e Antipatro di Tarso; divenne scolarca intorno al 129. Posidonio di Apamea fu il più noto dei suoi discepoli, ma si ricordano Mnesarco e Dardano, ateniesi, Stratocle ed Ecatone di Rodi. Soggiornò per lunghi periodi a Roma, dove allacciò rapporti di amicizia con il cosiddetto «circolo degli Scipioni». Le sue opere principali furono il trattato morale Peri; tou' kaqhvkonto", da cui Cicerone attinse per la composizione dei primi due libri del De officiis; un Peri; pronoiva", un Peri; filiva", un

Peri; pevnqou", dedicato a Quinto Tuberone; un Peri; eujqumiva", da cui trasse ispirazione Plutarco nel suo De tranquillitate animi. Panezio fu uno dei primi autori a comporre un’opera dal titolo Sulle scuole filosofiche (Peri; aiJrevsewn); redasse anche una biografia socratica e coltivò anche interessi astronomici e geografici. Panezio occupa un posto di rilievo nella storia della Stoa per il fatto che la sua opera innovatrice ha indotto gli storici a indicarlo come l’iniziatore di una fase «medio-stoica», intermedia tra quella antica e la Stoa di età romana. In realtà, elementi nuovi trapelano già con l’opera dei suoi predecessori, Diogene e Antipatro; ma con Panezio si assiste a un forte recupero di linee di pensiero risalenti al platonismo e all’aristotelismo sia in ambito morale che in quello psicologico, e che prepara in certa misura quella confluenza di stoicismo e tradizione accademico-peripatetica che prevarrà nel I secolo a. C. I tratti che distinguono il suo insegnamento da quello della Stoa antica possono così riassumersi: nella dottrina morale, Panezio conferisce notevole importanza a quelle «propensioni» naturali alla virtù, che egli chiama ajformaiv, secondo un termine già in uso presso la scuola, ma di cui cambia radicalmente il significato. Le ajformaiv sono attitudini alla virtù fornite dalla natura e che l’educazione affina in modo tale che ogni uomo possa eccellere in una più che nelle altre. Panezio non ammette la visione dell’antica Stoa secondo cui il possesso di una virtù implica il possesso perfetto di tutto il complesso delle virtù, ma preferisce differenziare gli uomini secondo attitudini personali. La dottrina cosmologica di Panezio è improntata all’aristotelismo, con la negazione della teoria della periodica conflagrazione. In ambito psicologico, se da un lato Panezio conserva il materialismo dei maestri e considera l’anima un composto di aria e fuoco, destinato a dissolversi dopo la morte del corpo (è probabile che non ammettesse una sopravvivenza temporanea dell’anima dopo il decesso, come alcuni suoi predecessori), dal punto di vista della teoria dell’impulso egli non conserva il tenore intellettualistico della psicologia della scuola, per conferire una maggiore autonomia agli impulsi irrazionali, che debbono essere ricondotti alla ragione ma non possono essere «sradicati» o «estirpati» dall’animo come voleva Crisippo, il quale reputava il pavqo" un «giudizio distorto», 8253

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Panfilo di Cesarea un errore della ragione, non una autonoma componente dell’uomo. F. Alesse BIBL.: M. VAN STRAATEN, Panaetii Rhodii fragmenta, Leiden 19623; F. ALESSE, Panezio di Rodi. Testimonianze, Napoli 1997; E. VIMERCATI, Panezio. Testimonianze e frammenti, Milano 2002. Su Panezio: M. VAN STRAATEN, Panétius, sa vie, ses écrits et sa doctrine, avec une édition des fragments, Amsterdam 1946; A. GRILLI, Studi paneziani, in «Studi italiani di Filologia classica», 29 (1957); M. POHLENZ, L’ideale di vita attiva secondo Panezio nel De officiis di Cicerone, tr. it., Brescia 1970; F. ALESSE, Panezio di Rodi e la tradizione stoica, Napoli 1994; E. LEFÈVRE, Panaitios’ und Ciceros Pflichtenlehre, Stuttgart 2001; E. VIMERCATI, Il Mediostoicismo di Panezio, Milano, 2004.

PANFILO Panfilo di Cesarea DI CESAREA (santo). – Prete di Cesarea, n. a Beirut (Libano) nella seconda metà del III secolo, m. martire il 26 febbr. 310. Aprì a Cesarea una scuola per riprendere la tradizione di Origene e si occupò della ricca biblioteca cristiana da lui fondata, attese a studi critici dei testi biblici e curò una classificazione delle opere di Origene. È noto soprattutto per essere stato il maestro dello storico Eusebio di Cesarea, che per riconoscenza ne assunse il nome (Eusebio di Panfilo) e gli fu compagno quando Panfilo fu messo in carcere, nel 307 durante la persecuzione di Massimino Daia, collaborando anche all’Apologia di Origene, in 5 libri (ne rimane soltanto uno, nella traduzione latina di Rufino), allora scritta da Panfilo, cui Eusebio ne aggiunse poi un sesto. In essa egli si mostra fedele seguace di Origene, che difende dalle accuse di eresia, pur riconoscendo la temerarietà di alcune sue affermazioni, presentate tuttavia da Origene, secondo Panfilo, soltanto come ipotesi. Nella sua difesa Panfilo cita ampiamente Origene, così che diventa un’importante fonte indiretta dei suoi testi perduti. F. Corvino BIBL.: J.-P. MIGNE, Patrologiae cursus completus, Series I: [Patres] Ecclesiae Grecae, Paris 1857-66, vol. XVII, coll. 541-616. Su Panfilo di Cesarea: G. BARDY, s. v. in A. VACANT E. MANGENOT - É. AMANN (a cura di), Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris 1909-47, vol. XI, coll. 1839-1841; G. MERCATI, Un preteso frammento di san Panfilo martire, in Nuove note di letteratura biblica e cristiana antica, «Studi e testi», vol. XCV, Città del Vaticano 1941, p. 91 e passim.; H. CROUZEL, L’école d’Origène a Césarée, in «Bulletin de Littérature Ec-

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clésiastique», 71 (1970), pp. 15-27; E. JUNOD, L’auteur de l’Apologie pour Origène traduite par Rufin. Les témoignages contradictoires de Rufin et de Jérôme à propos de Pamphile et d’Eusèbe, in A. DUPLEIX (a cura di), Recherches et tradition: mélanges patristiques offerts à Henri Crouzel, «Théologie historique», vol. LXXXVIII, Paris 1992, pp. 165-179; C. MORESCHINI - E. NORELLI, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, Brescia 1995, vol. I, pp. 442-443.

PANIKKAR, RAIMON. – N. a Barcellona nel Panikkar 1918, da padre indiano e madre catalana, è prete cattolico, laureato in chimica, filosofia e teologia. Professore presso la University of California, ha fondato a Tavertet (Barcellona), il centro-studi Vivarium. Al centro della sua opera è il tema del dialogo inter-religioso, con particolare attenzione al rapporto tra il pensiero occidentale e quello asiatico. Il risultato è la formulazione di una «spiritualità cosmoteandrica», legata a una fede originaria che l’autore, polemico verso gli esiti desacralizzanti della secolarizzazione illuminista, collega alla riscoperta del «mito». Opere principali: The Unknown Christ of Hinduism, London 1964; The Vedic Experience, Los Angeles - London 1977; Myth, Faith and Hermeneutics, New York 1979; La realtà cosmoteandrica. Dio-Uomo-Mondo, a cura di M. Carrara, Milano 2003. Partendo dall’idea che le varie religioni sono espressioni di una stessa religiosità umana fondamentale Panikkar, per il quale l’elemento storicodogmatico non è la nota dominante del cristianesimo, è venuto teorizzando una concezione «relazionale», cosmoteandrica, che, distinguendosi dalla visione monistica come da quella dualistica, in sintonia con l’esperienza a-dualista o advaita della mistica indiana, afferma l’interdipendenza di Dio-uomo-mondo. «Tanto Dio, quanto il Mondo o l’Uomo presi separatamente, o a sé, senza le relazioni con le altre dimensioni della realtà sono semplici astrazioni della nostra mente» (La realtà cosmoteandrica, cit., p.16). Dalla percezione vissuta di questa interdipendenza sorge una religione che unisce naturalmente gli uomini al divino e alla materia, capace di risolvere la scissione propria del moderno: «L’abisso tra il materiale e lo spirituale e, con esso, fra il secolare e il sacro, l’interno e l’esterno, il temporale e l’eterno» (ibi, pp. 243-244). M. Borghesi BIBL.: R. SMET, Essai sur la pensée de R. Panikkar, Louvain La Neuve 1981; A. ROSSI, Pluralismo e armo-

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Pannenberg

ENCICLOPEDIA FILOSOFICA

nia. Introduzione al pensiero di R. Panikkar, Città di Castello 1990; L.A. SAVARI-RAY, A New Hermeneutic of Reality: R. Panikkar’s Cosmotheandric Vision, New York 1998.

PANLOGISMO (dal gr. pa'n «tutto» e lovgo" Panlogismo «ragione» - Panlogismus; panlogism; panlogisme; panlogismo). – Come categoria storiografica, il termine panlogismo venne determinato da J.E. Erdmann sin dal 1853 per definire la filosofia hegeliana, in quanto essa «non pone nulla di reale se non la ragione; all’irrazionale non accorda che un’esistenza transitoria, che si sopprime da se stessa» (cfr. Geschichte der neueren Philosophie, Riga-Leipzig 1853, vol. III/2, p. 853; ma anche il Grundriss der Geschichte der Philosophie, Berlin 1866, vol. II, pp. 581 ss.). Non c’è dubbio che tale termine, da Erdmann peraltro usato in modo neutrale per caratterizzare la natura più propria del pensiero hegeliano, ne esprima il vero nucleo: si tratta di un razionalismo metafisico in cui la realtà intera è identificata con la ragione – col lovgo" – e ne rappresenta lo svolgimento necessario in tutte le sue forme e in tutti i suoi momenti, e in cui il divino stesso non è se non la vita e il processo dell’autodispiegamento della ragione. Se ora Erdmann, quale seguace di Hegel, forniva appunto una connotazione neutrale del concetto di panlogismo, va tuttavia ricordato che sia il termine sia il concetto erano già stati usati in un’accezione polemica dagli avversari dello hegelismo, che nella risoluzione al concetto logico dell’intera realtà, e soprattutto di Dio, vedevano una nuova forma di monismo spinoziano e, conseguentemente, una filosofia della necessità universale che negava la trascendenza e la personalità di Dio. Già Schelling nelle Lezioni Monachesi attacca il Dio-concetto di Hegel definendolo incapace di render ragione della realtà concreta: tale Dio non può essere libero, poiché egli stesso «si implica in un processo dal quale non può liberarsi, di fronte al quale non ha alcuna libertà, nel quale per così dire è implicato irrimediabilmente» (cfr. Werke, a cura di M. Schroeter, München 192754, vol. V, p. 229, tr. it. a cura di G. Durante, Lezioni Monachesi, Firenze 1950, p. 188). Tale visione permane nelle fasi successive del pensiero di Schelling, con la distinzione tra la filosofia «negativa», capace di cogliere solo le forme logiche e necessarie del reale e non la sua vita concreta e libera (e che appunto Hegel assolutizza a «monismo logico»), e la filosofia

«positiva» (della mitologia e della Rivelazione) come pensiero della realtà e della libertà. In una simile accezione polemica il concetto di panlogismo (come «panteismo logico») è usato contro Hegel anche dagli esponenti del cosiddetto «Teismo speculativo», come I.H. Fichte e C.H. Weisse: cfr., del primo, soprattutto i Beiträge zur Charakteristik der neueren Philosophie, Sulzbach 1841 (rist. Aalen 1968), pp. 849-978, ove si riflette come in Hegel la soluzione panlogistica sia inevitabile in quanto, nel suo pensiero religioso, la creazione non appare se non come l’autooggettivazione di un Dio impersonale. Concordemente usato, dunque, per connotare il sistema di Hegel, solo raramente e successivamente il termine panlogismo è stato esteso ad altre filosofie: come fece per esempio L. Couturat utilizzandolo per definire il pensiero di Leibniz (La logique de Leibniz, Paris 1901). M. Ravera BIBL.: K. LEESE, Philosophie und Theologie im Spätidealismus, Berlin 1929; M. CRISTALDI, Panlogismo, in «Teoresi», 15 (1960), pp. 60-65; A. BAUSOLA, Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling, Milano 1965; A. GURVITSCH, Leibniz. Philosophie des Panlogismes, Berlin 1974; C. TUOZZOLO, Schelling e il «cominciamento» hegeliano, Napoli 1995; M. VETO, De Kant à Schelling. Les deux voies de l’Idéalisme allemand, Grenoble 2000, vol. II, pp. 400-435.

PANMETODISMO (panmethodism; PanPanmetodismo methodismus; panméthodisme; panmetodismo). – Il termine indica, secondo P. Natorp, il carattere fondamentale del neokantismo della Scuola di Marburgo, o idealismo metodico: compiuto svolgimento del metodo trascendentale kantiano (ad es. di H. Cohen), così da risolvere tutta la filosofia in logica pura. Il testo dove si trova la principale esposizione tematica del panmetodismo è di P. Natorp, Kant und die Marburger Schule (in «Kant-Studien», 17, 1912, pp.193-221). G. Di Salvatore ➨ MARBURGO, SCUOLA DI.

PANNENBERG, WOLFHART. – N. a Stettino Pannenberg nel 1928. Studiò teologia all’università di Basilea dove insegnava K. Barth e si addottorò a Heidelberg con una dissertazione su Duns Scoto. Compì anche studi filosofici a Basilea con N. Hartmann e con Jaspers, e poi a Heidelberg con Löwith. Dopo un periodo di insegnamento a Mainz, dal 1968 è stato professore di 8255

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Pannenberg teologia sistematica all’università di Monaco, dove ha diretto anche l’Istituto per la ricerca ecumenica. Pannenberg è un teologo luterano che ha elaborato un sistema teologico ricco di contenuti filosofici, anche per l’esigenza di conciliare la razionalità moderna con la tradizione teologica cristiana, cosicché la sua teologia può essere considerata una «teologia della ragione», come ha affermato R.J. Neuhaus nell’introduzione allo scritto di Pannenberg Theology and the Kingdom of God (Philadelphia [Pennsylvania] 1969). Già una delle prime opere, Offenbarung als Geschichte (Göttingen 1961, tr.it. di B. Baroffio, Rivelazione come storia, Bologna 1969), scritta in collaborazione con R. Rendtorff, T. Rendtorff e U. Wilckens, la quale ha un carattere programmatico rispetto all’intera elaborazione teologica di Pannenberg, mostra delle esplicite implicanze filosofiche. In essa viene preferita l’idea di rivelazione «indiretta» che si realizza attraverso gli accadimenti storici, a quella di rivelazione diretta come parola o ispirazione. Questo concetto di rivelazione indiretta come autocomunicazione di Dio nella storia implica la metafisica della storia dell’idealismo tedesco, come lo stesso Pannenberg esplicitamente afferma nella introduzione di Offenbarung als Geschichte (cit., p. 20). W. Kasper ha sostenuto, nel volume Das Absolute in der Geschichte dedicato all’ultima filosofia di Schelling, la stretta affinità della posizione di Pannenberg con quella schellinghiana, però questi preferisce richiamarsi a Hegel nell’indicare i propri presupposti storici, anche se poi sottopone a una riforma il sistema hegeliano, soprattutto nel senso di aprirlo alla dimensione del futuro, correggendo la tendenza hegeliana all’affermazione di un compimento storico. In questa prospettiva il concetto diventa anticipazione di un evento futuro: «Ogni concetto – scrive Pannenberg – resta qui mera prolessi» (Gottesgedanke und menschliche Freiheit, Göttingen 1972, p. 111). Per questo orientamento all’evento futuro la posizione di Pannenberg può esser fatta rientrare nella teologia della speranza, però un hegelismo così modificato, con l’attribuzione al concetto di un valore ipotetico, non può più pretendere a una deduzione logico-dialettica assoluta, e infatti Pannenberg opta per una logica di tipo ermeneutico che ha il compito di inserire il singolo in un contesto globale, e che procede quindi secondo lo schema, in qualche modo ancora 8256

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dialettico, della correlazione fra parte e tutto. Tuttavia, egli non rinuncia alla metafisica della storia, come appare dalla polemica con Gadamer. Questi aveva sostenuto che nell’interpretazione avviene una fusione di orizzonti fra l’orizzonte presente dell’interprete e quello passato del testo da interpretare: ora per Pannenberg questa fusione di diverse dimensioni temporali implica l’accesso alla storia globale e quindi alla totalità storica, alla storia universale, al di là della particolarità della prospettiva ermeneutica (cfr Hermeneutik und Universalgeschichte, in Grundfragen systematischer Theologie, Göttingen 1971, pp. 116-117). Insomma, Pannenberg difende l’imprescindibilità dell’impegno metafisico del filosofare, e anche del fondamento metafisico della teologia, non solo nei confronti di Gadamer, ma anche mediante un deciso distanziamento dal discorso heideggeriano della fine e del superamento della metafisica. Tuttavia, egli introduce, a sua volta, la distinzione fra Dio come concetto della filosofia della religione e l’uno assoluto come concetto della metafisica (cfr. il volume Metaphysik und Gottesgedanke, Göttingen 1988), il che potrebbe far pensare all’influenza della distinzione heideggeriana fra Dio e l’essere. Egualmente significativo è il contributo di Pannenberg alla discussione della «nuova antropologia filosofica», una impostazione di pensiero sorta nel 1928 con gli scritti di Scheler e di Plessner e poi ulteriormente sviluppata da Gehlen e che tendeva a confrontare l’uomo e l’animale sulla base delle ricerche biologiche sul comportamento animale in rapporto all’ambiente (soprattutto quelle di J. von Uexküll). L’interesse di Pannenberg per l’antropologia filosofica è motivato dalla convinzione che l’accesso filosofico a Dio debba seguire una via antropologica e non cosmologica, che è poi la via indicata anche da Hegel. Nel volume Anthropologie in theologischer Perspektive (Göttingen 1983, tr. it. di G. Francesconi, Antropologia in prospettiva teologica, Brescia 1987), egli riconsidera l’intera problematica sviluppata dalla nuova antropologia filosofica e si propone di contribuire agli esiti di essa. Scheler ha posto il carattere distintivo dell’uomo nella apertura al mondo (Weltoffenheit), che gli consente di percepire la realtà circostante anche indipendentemente dagli interessi vitali, e ha poi ricondotto tale carattere allo spirito che è presente nell’uomo. Gehlen ha criticato

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la concezione di Scheler sia perché il concetto di spirito è metafisico e quindi non verificabile, sia perché ripropone in forma nuova il dualismo cartesiano di pensiero ed estensione, come scissione fra lo spirito, che è sovratemporale, e la vita. Per Gehlen invece l’apertura dell’uomo al mondo è da ricondursi alla carenza istintuale dell’uomo che viene compensata dall’azione che crea la cultura. Ora, Pannenberg fa osservare che il concetto di azione presuppone quello di soggetto e che quindi Gehlen cade nell’aporia di un soggetto che sorge solo come risultato del processo della propria attività, e che al tempo stesso è principio e presupposto di tale processo. Pannenberg ripropone il concetto di spirito, però nella forma dello spirito oggettivo hegeliano, che sfugge al dualismo di coscienza e realtà, e in generale egli cerca di distinguere nettamente il concetto di spirito da quello di coscienza o di autocoscienza. Ad approfondire il rapporto fra filosofia e teologia Pannenberg è tornato anche in anni più recenti, così nel volume Teologie und Philosophie (Göttingen 1966), in cui egli non solo ricostruisce con finezza la storia di tale rapporto ma cerca di prospettare anche linee di sviluppo della filosofia contemporanea. Per Pannenberg il sistema hegeliano è l’ultimo di quei sistemi che, a partire da Descartes, hanno fornito un sostegno culturale alla religione (ibi, pp. 295-296). Per questo egli trova che le interpretazioni, anche teologiche, della sinistra hegeliana si allontanano dalla realtà storica del pensiero del maestro, tanto più che la stessa accusa di panteismo non è poi molto fondata, poiché Hegel cercava di evitare una rappresentazione unilaterale di Dio, il quale deve comprendere in sé anche la contrapposizione fra finito e infinito. Il limite del sistema hegeliano sta invece nel «panlogismo», nella necessità della deduzione logico-dialettica. Riprendendo un argomento critico contro Hegel che si trova già in Schelling e nei teisti speculativi (Fichte figlio e Weisse), secondo il quale neppure l’idea assoluta può essere in sé conchiusa poiché ha bisogno della natura per realizzarsi, Pannenberg ribadisce il carattere ipotetico del concetto. Dopo Hegel comincia una svolta antropologica del filosofare che attraverso la sinistra hegeliana conduce all’ateismo di Nietzsche, ed esplica i suoi ultimi effetti anche nella separazione heideggeriana dell’ontologia dalla teologia. Un recupero del-

Panofsky la metafisica si ha solo con Bergson e con Whitehead, che sono filosofi del processo – del flusso interiore il primo, delle cose come eventi il secondo – che Pannenberg mette in parallelo con la visione storica di Dilthey, esprimendo così l’esigenza di unire processualità e metafisica. Il pensiero teologico di Pannenberg ha avuto ampi sviluppi sistematici nell’opera Systematische Theologie (Göttingen 1988-93, 3 voll., tr. it. a cura di D. Pezzetta, Teologia sistematica, Brescia 1990-96, 3 voll.). P. De Vitiis BIBL.: J. ROHLS - G. WENZ (a cura di), Vernunft des Glaubens, Göttingen 1988 (scritti in onore per il sessantesimo compleanno); H. SPRINGHORN, Immanenz Gottes und Traszendenz der Welt, Hamburg 2001.

PANOFSKY, E RWIN . – Critico e storico Panofsky dell’arte, n. a Hannover nel 1892, m. a Princeton il 14 mar. 1968. Formatosi alla scuola di Alois Riegl, profondamente influenzato dal criticismo kantiano e dal pensiero di Cassirer, lavorò dapprima nell’ambito dell’Istituto Warburg di Amburgo, diretto da Fritz Saxl, specializzandosi nelle ricerche iconologiche e approfondendo sempre più i rapporti tra la storia delle immagini e gli altri fenomeni culturali. Costretto dal nazismo ad abbandonare la patria, emigrò negli Stati Uniti dove insegnò a Princeton. Tra le sue opere principali, Idea (Leipzig 1924, tr. it. di E. Cione, Idea, Firenze 1973) rappresenta un fondamentale contributo alla definizione del concetto di «manierismo», mentre Die Perspektive als «symbolische» Form (Leipzig 1924-25, 1927, tr. it. di di G. Neri, La prospettiva come «forma simbolica», Milano 1973) si allinea tra gli studi più importanti sull’argomento. In Der Begriff des Kunstwollens, un saggio del 1920 (tr. it. con La prospettiva, cit.), elabora uno dei cardini della sua metodologia d’indagine storica. Il concetto di «volere artistico», già trattato da Riegl, viene qui definito come «senso ultimo e definitivo, riscontrabile in vari fenomeni artistici, indipendentemente dalle stesse decisioni coscienti e attitudini psicologiche dell’autore». Questo «volere artistico» è spogliato da Panofsky da ogni sospetto psicologistico (così come da interpretazioni idealistiche che ne facciano la manifestazione di uno Zeitgeist), ed è visto piuttosto in senso «trascendentale» kantiano. Nell’introduzione alla raccolta di studi Meaning of Visual Arts, del 1955 (tr. it. a cura di E. Castelnuovo e M. Ghelardi, Il significato delle 8257

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Panpsichismo arti visive, Torino 1999), Panofsky pubblica un saggio del 1938, The History of Art as a Humanistic Discipline, in cui espone il metodo critico delle discipline umanistiche: la ricerca umanistica è «organica» nel senso che l’osservazione e l’analisi presuppongono sempre la conclusione; ricreazione interpretativa del tutto e ricerca archeologica del particolare si implicano e correggono a vicenda, in un «circolo» che richiama quello spitzeriano. U. Eco BIBL.: oltre ai testi sopra citati: Dürers Kunsttheorie, Berlin 1915; Studies in Iconology, New York 1939; Abbot Suger in the Abbey Church of St. Denis and Its Art Treasures, Princeton 1939; Gothic Architecture and Scholasticism, London 1951; Galileo as a Critic of Visual Arts, New York 1954; Pandora’s Box, New York 1956; Renaissance and Renascences in the Western Art, Stockholm 1956. Su Panofsky: A. DORNER, Die Erkenntnis des Kunstwollens durch die Kunstgeschichte, in «Zeitschrift für Aesthetik und allgemeine Kunstwissenschaft», 16 (1920); G.D. NERI, Il problema dello spazio figurativo e la teoria artistica di E. Panofsky, prefazione a E. PANOFSKY, La prospettiva come «forma simbolica», Milano 1973. Cfr. inoltre G. MORPURGO-TAGLIABUE, L’esthétique contemporaine, Milano 1960; G. MORPURGOTAGLIABUE, Les tendances esthéyiques, in AA.VV., Les grands courants de la pensée mondiale contemporaine, a cura di M.F. Sciacca, parte II: Les tendances principales, Milano-Paris 1961, p. 1945; M.A. HOLLY, Panofsky and the Foundations of Art History, Ithaca 1985; S. FERRETTI, Cassirer, Panofsky, Warburg: Symbol, Art and History, New Haven 1989; I. LAVIN (a cura di), Meaning in the Visual Arts: View from the Outside. A Centennial Commemoration of Erwin Panofsky (1892-1968), Princeton 1995.

PANPSICHISMO (dal gr. pa'n «tutto» e yuchv Panpsichismo «anima» - panpsychism; Panpsychismus; panpsychisme; panpsiquismo). – Letteralmente indica ogni dottrina filosofica secondo la quale tutta la realtà sarebbe animata. Va però distinto da ilozoismo, che denomina quelle dottrine che pongono nella materia un principio attivo non spirituale, ma di ordine puramente biologico; il termine panpsichismo invece indica quei sistemi filosofici che attribuiscono a tutta la materia un’attività analoga all’attività psichica umana e perciò, soprattutto, la «coscienza». Il panpsichismo si distingue dall’animismo: infatti, mentre quest’ultimo non supera una posizione pluralistica, il panpsichismo si caratterizza più decisamente in direzione pan8258

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teistica. Un carattere panpsichistico ebbe spesso la concezione dell’anima del mondo. Qui ricorderemo soltanto quelle teorie che hanno più rilevanti i caratteri distintivi del panpsichismo. Un accenno a una concezione panpsichistica c’è in Eraclito, come appare da una testimonianza di Diogene Laerzio (IX, 1): «tutto è pieno di anime e di demoni». Ancora più inconfondibile è l’intonazione panpsichistica di una nota testimonianza relativa a Empedocle: «tutte le cose partecipano del pensiero» (Teofrasto, De sensu, 23; Aristotele, De an., I, 3, 406 b 15; Empedocle, in DK 31 B 103 1). In forma più sensibile l’idea di un’universale vita psichica e la convinzione ferma che la natura non potesse essere interpretata se non mediante una spesso fantastica spiritualizzazione (che fa larga accoglienza alla magia), inizialmente caratterizzano in gran parte il pensiero rinascimentale. Tuttavia l’intuizione magica cedette a poco a poco alla più seria tesi di un’universale simpatia tra le cose, e in particolare la medicina ispirò a siffatto principio le sue indagini: sia sufficiente menzionare in proposito le dottrine di Teofrasto Bombast, detto Paracelso (1493-1541), e dei suoi seguaci G.B. Van Helmont (1577-1644) e R. Fludd (15741637). Con maggior approfondimento speculativo Francesco Patrizi (1529-1597), nella Nova de universis philosophia, e precisamente nella parte che porta il titolo di Panpsychia (Ferrara 1591, Venezia 1593, nuova ed. Firenze 1993, pp. 45-66), difende la tesi di una completa analogia tra soggetto e oggetto. Anche la teoria dell’universo di Girolamo Cardano (1501-1576) è panpsichistica. Egli distingue tre principi nell’universo: lo spazio, la materia, l’anima del mondo. Quest’ultima è, nella natura, la stessa cosa che è l’anima particolare nell’uomo, cioè intelligenza; le anime particolari sono potenzialmente contenute nell’anima universale, come i numeri nella decade, e analogamente tutte le cose sono sorrette, organizzate, vivificate dal principio psichico universale: «Anima est ergo quae non solum principium est omnium, sed etiam primum et verum subiectum» (Theonoston seu de animi immortalitate, in Opera omnia, a cura di C. Spon, vol. II, Lyon 1663 [rist. Hildesheim 1967], p. 439). I grandi pensatori platonici del Rinascimento sentirono molto viva la seduzione del motivo panpsichistico: la natura per Telesio, Bruno e Campanella è una natura che ha in sé non solo

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il moto o la vita, ma il senso, il pensiero e la virtù (cfr. G. Gentile, Il pensiero italiano nel Rinascimento, Firenze 1940). La natura per Telesio è animata dallo stesso divino alito vibrante nell’umano pensiero. Nel II dialogo del De la causa, principio et uno Bruno si esprime così: «il spirto, la anima, la vita si ritrova in tutte le cose, e secondo certi gradi empie tutta la materia, viene certamente ad essere il vero atto, e la vera forma de tutte le cose. L’anima dumque del mondo è il principio formale constitutivo de l’universo, e di ciò che in quello si contiene; dico che se la vita si trova in tutte le cose, l’anima viene ad esser forma di tutte le cose» (in Opere italiane di Giordano Bruno, testi critici e nota filologica di G. Aquilecchia, introduzione e coordinamento generale di N. Ordine, vol. I, Torino 2002, p. 663). Non meno accentuata intonazione panpsichistica troviamo nel naturalismo di T. Campanella (cfr. Del senso delle cose e della magia, l. I, cap. 1, Soveria Mannelli 2003). Pur apparendo in incoerente connubio con la prevalente tendenza al sensismo e al materialismo del movimento illuministico francese, la presenza di motivi panpsichistici si ritrova in Diderot, in Maupertuis, in Deschamps, in Robinet. La ripresa spiritualistica romantica si nutrì largamente nelle sue manifestazioni liriche e speculative di fede panpsichistica. Basterebbe citare, tra i letterati, Goethe e Herder, e, tra i filosofi, Schelling. Di quest’ultimo è da ricordare la simpatia per Giordano Bruno e il passo del dialogo intitolato al Nolano: «L’anima è invece il concetto della cosa, che considerato in maniera finita, è destinato ad essere anche soltanto l’anima della singola cosa esistente. Dell’universo, pertanto, nell’anima di ogni cosa cade anche solo quel tanto che la cosa ha esibito di esso» (Bruno oder über das göttliche und natürliche Princip der Dinge. Ein Gespräch, Berlin 1802, ed. it. a cura di C. Tatasciore, Bruno ovvero sul principio divino e naturale delle cose. Un dialogo, Firenze 2000, p. 59). Né tra i movimenti speculativi che reagirono all’indirizzo idealistico questa nota scompare: panpsichistica è la dottrina di A. Schopenhauer. Il volere, per quanto non sia accompagnato dalle facoltà intellettuali, è tuttavia una facoltà psichica che Schopenhauer, per così dire, metafisicizza e cosmicizza: «Un tal nome [volontà] designa l’essenza in sé di ogni cosa nel mondo e la sostanza ultima di tutti i

Panpsichismo fenomeni» (Die Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig 18593, tr. it. di N. Palanga, Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano 1982, p. 156). Sul fondamento di presupposti e di esigenze ben differenti, anche gli spiritualisti italiani del sec. XIX, A. Rosmini e V. Gioberti, hanno riaffermato le ragioni del panpsichismo. Spiccatamente Gioberti, nella Protologia, riprendendo motivi neoplatonici, sostiene la tesi di un principio intelligente di animazione nell’universo, come negli animali e nelle piante; per lui l’anima dell’universo è la metessi, principio vitale del tutto e delle parti: «L’universo è reso intelligibile a sé mediante gli spiriti che lo abitano e in cui esso è intelligente. Non v’ha una sola anima creata del mondo, ma tante quanti sono gli spiriti. [...] Il sensibile è simbolo naturale dell’idea; dunque ha una parentela con esso. La teologia o sistema delle prove delle cause finali, è una prova delle “mentalità” del sensibile [...]. La vita è una e universale. Tutte le parti dell’universo hanno vita comune; ogni parte vive la vita del tutto» (ibi, II, pp. 58-59); e più oltre (ibi, II, p. 412): «La psiche, o anima cosmica degli antichi è la metessi universale. II mondo, come ogni forza, è anima; e quindi ha intelletto, volere e arbitrio, immaginazione, memoria, affetto, e tutte le potenze dell’anima umana [...]. La natura è la veglia dell’anima cosmica. Le sue forze ne sono l’interiorità. L’ordine è la ragione; la contingenza, l’arbitrio; la periodicità, la memoria; la forza motrice, la volontà, l’attenzione, l’affinità, l’amore ecc.» (cfr. Nuova Protologia, brani scelti da tutte le sue opere e ordinati da G. Gentile, parte II, Bari 1912, p. 343). Anche la filosofia di R.H. Lotze e di E. von Hartmann ha tinte panpsichistiche. La riduzione lotziana degli atomi alle monadi di tipo leibniziano, la tesi di Hartmann di una riduzione della materia a spirito e idea, sono la prova più chiara dell’assunto. Uguale constatazione è possibile nella linea di pensiero che muove da Maine de Biran, e, attraverso il pensiero di F. Ravaisson, raggiunge la più alta manifestazione nella dottrina dell’élan vital di H. Bergson. D’altra parte, non deve sorprenderci la presenza degli stessi motivi in un cero filone dell’evoluzionismo: seguendo la scia di T. Fechner, che aveva formulato la legge psicofisica secondo la quale i fenomeni psichici si determinano in rapporto all’intensità dello stimolo, W. Wundt sviluppa il motivo del parallelismo tra l’ordine 8259

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Pansofia naturale e l’ordine psicologico; ma nel porsi il problema dell’unica realtà che sottende la duplice serie, Wundt, rifacendosi all’immediatezza intuitiva dell’esperienza psicologica, scopre, sulle orme di Schopenhauer, a fondamento unitario del parallelismo, l’esistenza di una volontà generale, realizzantesi nell’azione comune delle volontà dei singoli. Non diversamente F. Paulsen, associando a un’interpretazione psico-biologica dell’apriori, l’idealistica tesi della risoluzione della realtà fisica in realtà spirituale, concludeva sfociando in una forma di volontarismo metafisico di tipo schopenhaueriano. Tra le affermazioni del panpsichismo rimane caratteristica la dottrina di E. Haeckel (Natürliche Schöpfungsgeschichte, Berlin 1868; e Die Welträtsel, Bonn 1899). Per Haeckel i due principi primitivi di ogni esistenza sono la forza e la materia, nella loro inscindibile unione. Nei suoi singoli atomi la natura è animata, anzi ogni unità atomica, come centro di forza, è dotata di un’anima costante, che si esprime in sensibilità e movimento. Dalle combinazioni degli atomi (fortuitamente aggregantisi) derivano le anime-molecole, di natura inorganica, quelle dei protoplasmi molecolari, di natura organica, e infine le anime-cellule: la stessa anima umana è l’insieme delle elementari anime-cellule, e Dio stesso è la somma di tutte le infinite realtà psichiche che costituiscono l’universo. Anche secondo questa direzione il panpsichismo, sopprimendo ogni differenza e distinzione fra gli esseri, finisce per coincidere col panteismo. G. Martano BIBL.: E. CASSIRER, Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, Leipzig 1927, tr. it. di F. Federici, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, Firenze 1977; J. MOREAU, L’âme du monde de Platon aux Stoïciens, Hildesheim 1965 (Paris 1939); R. HECKMANN - H. KRINGS - R.W. MEYER (a cura di), Natur und Subjektivität: zur Auseinandersetzung mit der Naturphilosophie des junges Schelling, Stuttgart 1985; I. VOLPICELLI, Schopenhauer. La natura vivente, Milano 1988; P. EDWARDS (a cura di), s. v. in The Encyclopedia of Philosophy, London - New York 1967, vol. VI, pp. 22-31 (esposizione critica; bibliografia). ➨ ANIMA; ANIMA DEL MONDO; ANIMISMO; ILOZOISMO; MACROCOSMO; MAGIA; MATERIA; METESSI; MICROCOSMO; MONDO; PANTEISMO; PSICHE; SPIRITO.

PANSOFIA (pansophia; Pansophie; pansophie; Pansofia pansofía). – Termine con cui Comenio denomina il suo tentativo di esposizione enciclopedi8260

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ca di tutte le scienze umane in armonia col pensiero cristiano (Pansophiae prodromus, London 16392 [1638]; Schola pansophica, Sarospatak 1651). In seguito però fu usato da Leibniz, nel senso della tradizionale scientia generalis o metodo omnes alias scientias ex datis sufficientibus inveniendi et demonstrandi (Opera philosophica quae extant Latina Gallica Germanica omnia, ed. a cura di J.E. Erdmann, Berolini 1840, pp. 86 a, 162 a, b, 163), e da Kant (Logik, Einleitung) nel senso di un sapere razionale, risultante dalla sintesi di polistoria e di polimatia. F. Borgato BIBL.: P. ROSSI, Le origini della pansofia e il lullismo del sec. XVII, in Umanesimo ed esoterismo, n. mon.«Archivio di Filosofia», Padova 2-3 (1960), pp. 199-216.

PANTEISMO (dal gr. pa' n «tutto» e qeov " Panteismo «Dio» - pantheism; Pantheismus; panthéisme; panteísmo). – Dottrina secondo la quale tutto ciò che è, è Dio. «Pantheist» si chiamò per primo, nel suo Socinianism Truly Stated (London 1705), J. Toland, che più tardi intitolò Pantheisticon il suo ultimo scritto (1720). Il termine «panteismo» si trova per la prima volta nella Defensio religionis (1709) del suo oppositore J. Fay (cfr. E. Boehmer, De pantheismi nominis origine et usu et notione, Halle 1851). SOMMARIO: I. Il panteismo orientale e greco. - II. Motivi del panteismo neoplatonico nel pensiero cristiano e nel Rinascimento. - III. Il panteismo nel pensiero moderno e contemporaneo. - IV. Critica del panteismo. I. IL PANTEISMO ORIENTALE E GRECO. – La dottrina è molto più antica del nome che la distingue. Una vena panteistica, e spesso più che una vena, si trova in molte filosofie orientali, che non hanno il concetto di un Dio personale e intendono Dio come l’unica realtà, di cui il mondo è un’apparenza, destinata ad esserne reintegrata. Spesso, in testi indiani (Veda e dottrine derivate), si trova l’immagine, cara in ogni tempo al panteismo, del mare, di cui gli esseri particolari non sono che increspature o, al più, insenature, sempre comunicanti con la totalità. Nella filosofia greca presocratica un’impostazione panteistica è comune a dottrine che pure, per altri aspetti, fra loro si oppongono, come quelle di Parmenide e di Eraclito. Non manca certo la distinzione tra gli esseri particolari e l’essere come tale: ma quest’ultimo non vi si pone mai di fronte come un’altra sostanza, si trova piuttosto in essi come la loro sostanza. E quando, nell’eleatismo, si giunge

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all’essere per una via puramente logica che scarta gli esseri particolari, questi divengono una «apparenza» il cui rapporto con la realtà non s’intende chiaramente, ma che, in ogni caso, non può considerarsi come una realtà autonoma. Una prima via per dar rilievo alla realtà, sia pure subordinata, degli esseri particolari rispetto alla realtà divina è aperta da Platone, grazie alla trascendenza delle idee rispetto al mondo sensibile (essendo le idee forme pure e le cose sensibili imitazioni o partecipazioni delle idee in una materia o cwvra) e del bene rispetto alle stesse idee; e da Aristotele, grazie al principio che sarà detto dell’«analogia dell’essere» e alla distinzione tra il modo d’essere divino, che è atto puro, e quello delle realtà particolari, che sono atto e potenza. Ma la dottrina veramente capace di contrapporsi al panteismo sorge in tutt’altro clima spirituale, attraverso la concezione di un Dio personale presentata dalla Bibbia e ripresa, poi, dalla tradizione cristiana. Nel mondo greco, infatti, anche dopo Aristotele, l’inclinazione al panteismo perdura. Al Liceo il successore di Teofrasto, Stratone, ritiene, secondo la testimonianza di Cicerone (De natura deorum, I, 12, 35), «che ogni forza divina sia posta nella natura: in essa si troverebbero le cause del generarsi, del crescere e del diminuire, ma mancherebbe ogni sensibilità». E gli stoici, secondo la loro tendenza un po’ artificiosamente arcaicizzante, concepiscono la divinità come la materia finissima che anima il grande organismo del cosmo, che viene, dunque, ad essere come il corpo di Dio. Il politeismo, sia pure tenuto su un piano subordinato, non contrasta con questa concezione, poiché gli «dei» possono distinguersi dagli altri enti e tra loro senza che la realtà tutta insieme si distingua da «Dio». Tutt’altra forma, non più materialistica e arcaicizzante ma emanatistica e orientaleggiante, assumerà il panteismo neoplatonico, spesso chiamato anche «alessandrino», che ammette una gerarchia di gradi di realtà, ma sembra sempre portato a pensare che la realtà dei gradi inferiori sia la stessa realtà dei gradi superiori, solo diminuita, benché, come sottolinea Etienne Gilson, «in una dottrina dell’uno è [...] un principio generale che l’inferiore non è che in virtù di ciò che il superiore non è; infatti il superiore non dà mai ciò che non ha, perché per poter donare questa cosa, bisogna che esso sia al di sopra di essa» (L’être et l’essence, ed. riveduta e aumenta-

Panteismo ta, Paris 19722, tr. it. di L. Frattini e M. Roncoroni, L’essere e l’essenza, Milano 1988, p. 35). Il pensiero greco manca insomma degli strumenti concettuali necessari per pensare coerentemente la realtà del mondo come autonoma, per quanto sia altra rispetto alla realtà divina: esso riesce a pensare la differenza essenziale, ma non quella esistenziale tra Dio e il mondo, mentre il pensiero cristiano può elaborare la nozione di quest’ultima mediante l’affermazione della personalità di Dio e il concetto di creazione ex nihilo. La forma di panteismo che più facilmente ritorna nella tradizione occidentale anche dopo la fine del mondo antico è quella neoplatonica. Anche quando si torna a parlare di «anima del mondo», se ne parla più in senso neoplatonico che in senso stoico (cfr. M. Spanneut, Permanence du stoïcisme, Gembloux 1973, pp. 157-161). Se si volesse infatti accettare la distinzione, che alcuni pongono, tra panteismo «acosmistico» e panteismo «ateistico», si potrebbe accostare la forma neoplatonica al primo, e la forma stoica al secondo, accomunando a quest’ultima ogni panteismo «naturalistico», «materialistico» ecc. Per il primo tipo di panteismo, infatti, il mondo è uno sviluppo, o un «processo», della divinità; per il secondo, la divinità non è altro che il principio organico, tutto immanente, di quell’unica realtà che è il mondo. Se, tuttavia, s’intende in senso proprio l’ateismo come negazione della divinità, l’identificazione di panteismo e di ateismo, che pure si trova in pensatori quali Ch. Renouvier (cfr. Les dilemmes de la métaphysique pure, Paris 1901, p. 233) e J. McTaggart (cfr. Studies in Hegelian Cosmology, Cambridge 1901, pp. 9394), non può significare altro che questo: che il panteismo è un’affermazione di ateismo surrettizia o dissimulata. Rigorosamente parlando, però, è chiaro che panteismo e ateismo, a meno che si voglia sostenere un nichilismo assoluto, si trovano in contraddizione, per cui, quando una dottrina naturalistica o materialistica sia formulata con intenzione ateistica, sarebbe improprio collocarla con quelle concezioni che nella natura vedono la divinità: si potrà, semmai, ma solo in sede di critica, mostrare che perfino il sostenitore di quella dottrina ateistica finisce, contro le sue intenzioni, con l’attribuire alla natura o alla materia caratteri che ne fanno una sorta di divinità. II. MOTIVI DEL PANTEISMO NEOPLATONICO NEL PENSIERO CRISTIANO E NEL RINASCIMENTO. – Le teorie della 8261

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Panteismo natura formulate con intenzione panteistica risentono, spontaneamente, della concezione neoplatonica. Così noi troviamo una vena panteistico-neoplatonica nelle opere dello pseudo-Dionigi Aeropagita e in quelle del suo traduttore, Giovanni Scoto Eriugena, che chiama Dio «omnium essentia» (De divisione naturae, I, 3, in Migne PL, 122, col. 443 b), «totum omnium» (I, 74, ibi, 520 a) ecc. A distanza di secoli troviamo espressioni non molto dissimili in Meister Eckhart, e in un pensatore di mentalità molto diversa da quelli citati, però influenzato anche lui dal neoplatonismo, Cusano. Questi, nel De docta ignorantia, afferma: «Maximum itaque absolutum unum est, quod est omnia, in quo omnia, quia maximum» (ibi, I, 2); e ancora: «Tolle Deum a creatura, et remanet nihil» (ibi, III, 5). Tuttavia queste espressioni, che specialmente se staccate dal contesto, possono dare un suono panteistico, riguardano il rapporto per cui Dio è «essentia omnium essentiarum» e non implicano necessariamente un’interpretazione panteistica. Tra coloro i quali, nel Medioevo, hanno affermato il panteismo, sono da ricordare soprattutto Davide di Dinant, il quale identificò Dio con la materia dell’universo, e Amalrico di Bène, che considerò Dio come l’essere formale di ogni cosa. Nel Rinascimento, il panteismo si presenta in un diverso clima naturalistico (sia pure sempre con influenze neoplatoniche) che, a parte ogni considerazione di ordine intellettuale, induce a sentire Dio come l’universale animazione della natura, e quindi non a negarlo, ma a identificarlo con la stessa «natura naturante». L’espressione «unomnia» riferita a Dio si trova, p. es., in F. Patrizi; la qualifica di «anima universalis» nel Cesalpino; quella di «monas monadum» in Bruno, che di questa corrente di panteismo naturalista è l’esponente più celebre. III. IL PANTEISMO NEL PENSIERO MODERNO E CONTEMPORANEO. – A partire dal cartesianesimo, una vena vagamente panteistica può trovarsi in quegli sviluppi occasionalistici che negano ogni capacità di agire autonomamente alle creature, facendo della «natura» un nome vuoto di significato: come accade, p. es., in J.Ch. Sturm. Ma la formulazione esplicita e intenzionale del panteismo (anche se ancora non ne è nato il nome) non si ha tuttavia che con Spinoza. In lui confluiscono tutti i motivi panteistici precedenti, e particolarmente neoplatonici, attraverso la qabbalah: ma da tutti egli si distingue per il rigore razionale con cui vuol fon8262

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dare la sua dottrina. Il senso mistico dell’unotutto, quello naturalistico dell’animazione universale ecc., non mancano: ma, nel nuovo clima razionalistico, ogni sforzo di Spinoza è volto a trovare i motivi concettuali che obbligano a identificare la totalità dell’essere con Dio. La concezione del Dio persona, il pensiero che Dio agisca intenzionalmente sul mondo come su un «altro» posto di fronte a lui, l’ammissione di sostanze finite accanto all’unica sostanza infinita ecc. sono sottoposte da Spinoza a una critica serrata, che nei propositi dell’autore dovrebbe lasciare aperta una sola via: quella di pensare ogni «conatus» finito come un puro e semplice «modo» dell’unica sostanza divina. Per tutte queste ragioni il termine «panteismo», non molto tempo dopo esser nato, diverrà un sinonimo di «spinozismo», e viceversa. Non appena il senso di repulsione suscitato in un primo tempo dal sistema di Spinoza si sarà attenuato, e i «liberi pensatori» avranno diffuso l’abitudine della critica razionalistica in materia di religione, i sostenitori del panteismo riconosceranno in Spinoza il più valido campione delle loro ragioni, mentre i teisti si accorgeranno che, per difendere il concetto del Dio persona, proprio con Spinoza è necessario fare i conti. Precisamente una disputa sulla dottrina di Spinoza è il cosiddetto: Pantheismusstreit, accesosi negli ultimi decenni del sec. XVIII. Moses Mendelssohn nel suo Jerusalem (Berlin 1783) aveva sostenuto che il panteismo, se inteso opportunamente, non è inconciliabile con la moralità e con la religione, e a sostegno di queste tesi aveva portato anche l’opinione dell’amico Lessing. Che Lessing, in fondo, fosse uno spinoziano affermava anche Jacobi, nelle sue lettere a Mendelssohn Sulla dottrina di Spinoza (Über die Lehre des Spinoza, in Briefen an den Herrn Moses Mendelssohn, Breslavia 1785), deprecando, però, che così fosse. Pertanto Mendelssohn ritenne di dover difendere l’amico con lo scritto An die Freunde Lessings, che fu pubblicato postumo da Engel (Berlin 1786). Jacobi rispose (F. H. Jacobi wider Mendelssohns Beschuldigungen in dessen Schreiben an die Freunde Lessings, Leipzig 1786), e lo scambio epistolare che ne seguì contribuì a portare l’attenzione del mondo colto del tempo sul problema del panteismo (cfr. Die Hauptschriften zum Pantheismusstreit zwischen Jacobi und Mendelssohn, ed. critica a cura di H. Scholz, Berlin 1916). Così Jacobi, che aveva sperato di

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soffocare il diffondersi del panteismo, ottenne invece il risultato opposto, di interessare a quella dottrina molte menti che, nel nuovo clima che stava maturando, si sentivano ad essa congeniali. Mentre Kant, in cui Jacobi sperava di trovare un alleato, occupato da altri interessi, si asteneva dal prendere posizione (cfr. F.H. Jacobi, Werke, Leipzig 1812-27, 6 voll. [rist. Darmstadt 1968], vol. IV, pp. 89 e 114), Goethe si schierava decisamente in favore di Spinoza, che nella lettera a Jacobi del 9 giugno 1785 giunge a definire «theissimum et christianissimum» (Briefwechsel zwischen Goethe und Jacobi, ivi 1847, p. 75). Il panteismo di Goethe aveva motivi diversi da quello spinoziano, ma costituiva uno degli aspetti più caratteristici della sua concezione della natura, concepita come «l’abito variopinto della divinità». Herder, poi, nel suo dialogo Gott (Gotha 1787), discutendo l’alternativa fondamentale teismo-panteismo, afferma che, se si segue il primo, si può argomentare solo indirettamente la natura sconosciuta di Dio da quella del mondo, mentre, accettando il secondo, il mondo diviene uno specchio vivente della divinità: anziché una creazione, esso viene a costituire una «rivelazione» o «esibizione» in cui si realizza la divinità, e la varietà del suo manifestarsi si potrebbe spiegare con la gradualità del processo infinito di realizzazione di Dio. L’anello di congiunzione del panteismo con il romanticismo e anche, in parte, con il nuovo idealismo è rappresentato da Schleiermacher, che nei due scritti Spinozismus e Darstellung des spinozistischen Systems (cfr. in Sämmtliche Werke, serie III: Philosophie, vol. IV, Berlin 1839, pp. 283-311), afferma che ogni finito esiste e vive nell’infinito fin dall’eternità, e che il «noumeno», di cui parla Kant, è, in realtà, la causa infinita del mondo sensibile, nello stesso senso in cui la sostanza spinoziana è causa immanens delle cose finite. I Discorsi sulla religione (Über die Religion. Reden an die Gebildeten unter ihren Verächtern, ivi 1799), che influiscono sulla concezione religiosa del primo Schelling, interiorizzano in qualche modo questa concezione panteistica, portando l’attenzione non su Dio (che ben di rado è nominato: si parla più volentieri di «infinito», di «tutto», di «universo»), bensì sul senso del divino presente in noi. Quando Fichte avrà fatto cadere le barriere che tenevano il criticismo kantiano nei limiti della finitezza, l’idealismo avrà aperta la via per congiungere motivi kantiani e spinoziani, nono-

Panteismo stante il loro originario confliggere, in una sintesi nuova, che del panteismo conserva i tratti fondamentali. Schelling, fino a che non assume, nell’ultima fase della sua speculazione, il punto di vista della «filosofia positiva», si professa panteista, se per panteismo si intende l’inclusione di tutte le cose in Dio. Ogni suo sforzo è teso a salvare, nonostante ciò, le individualità finite. Fin da principio Schelling pone come compito precipuo della filosofia intendere come dall’assoluto si enuclei il finito; ma solo più tardi egli capisce che tale finito si deve eminentemente caratterizzare come individualità libera. Si sforza, allora, nelle Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit und die damit zusammenhängenden Gegenstände, del 1809, di fondare la libertà pur senza uscire dal panteismo. Considerato che, «se Dio ritirasse la sua potenza per un istante, [...], l’uomo cesserebbe di esistere», egli afferma: «Contro questa argomentazione si dà un’altra via d’uscita, e cioè di salvare l’uomo con la sua libertà, nella misura in cui questa è impensabile in opposizione all’onnipotenza, all’interno della stessa essenza divina» (Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti ad essa connessi, ed. it. con testo tedesco a fronte a cura di G. Strummiello, Milano 1996, p. 83). Per Schelling il panteismo non rende impossibile la libertà, almeno in senso formale, e se Spinoza è «fatalista», dev’esserlo per un’altra ragione. Schelling giustifica ciò, dicendo che il rapporto d’identità tra Dio e le cose non è un rapporto d’identità statica, come quello tra due concetti astratti (A = A), bensì il rapporto vivo e creativo che lega il principio con ciò di cui esso è principio. Egli cerca di definire tale rapporto per mezzo di una dottrina che fa perno sulla distinzione tra Dio e «l’intimo fondamento della sua esistenza»: questo, in quanto fondamento, «precede» Dio «come esistente», mentre per un altro verso «Dio è ancora il prius del fondamento, in quanto il fondamento, anche come tale, non potrebbe essere se Dio non esistesse in atto (actu)» (ibi, pp. 117-119). Si distinguono così divinità e Dio. Il fondamento, per un lato, è Dio in potenza, e deve tendere alla realizzazione piena di Dio; ma per un altro, non appena raggiunto un grado parziale di realizzazione, rimane attaccato ad esso, senza più procedere oltre, e dà luogo, così, agli esseri particolari di natura, alla separazione da Dio, e al male (necessario af8263

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Panteismo finché, da ultimo, lo stesso bene si realizzi nell’unificazione delle individualità). Queste escogitazioni, benché acute, sono viziate da una concezione ambigua del concetto di Dio, per quanto la distinzione di potenza e di atto toglie la semplicità dell’atto divino. Esse, tuttavia, indicano che Schelling è consapevole di quali siano i punti deboli del panteismo – i problemi del male, delle persone finite e della libertà – e che fa ogni sforzo per superarli. Il non esservi riuscito indurrà Schelling ad abbandonare il panteismo, tanto che nel 1841 sarà chiamato a Berlino per reagire al panteismo hegeliano che aveva dominato quella università. Hegel, al contrario, non abbandonò mai il panteismo, sebbene ne rifiutasse il nome, in quanto preso in un significato per lui inaccettabile. Egli era solito dire che non si può cominciare a filosofare se non con Spinoza, ma che con lui non si può continuare. L’assunto di Spinoza di veder le cose dal punto di vista dell’infinito è infatti, per Hegel, il solo filosoficamente possibile, anche se poi egli intende svolgerlo diversamente. Mostrare che ogni determinazione, in quanto razionale, si riconduce a Dio, si può dire che rappresenti, per Hegel, lo scopo stesso della filosofia: sempre che per Dio s’intenda l’idea attuantesi logicamente attraverso tutti i gradi del suo sviluppo dialettico. Ma per far ciò occorre anzitutto liberarsi da un panteismo inteso come vuota e astratta identificazione di Dio con le cose, come sembravano pensare coloro che accusavano di panteismo la nuova filosofia. «In particolare la pietà, [...] si lascia andare – d’accordo con la vuota filosofia dell’intelletto [...] – all’asserzione che la filosofia è la dottrina dell’uno-tutto, o panteismo [...]. L’accusa di panteismo in luogo di quella di ateismo, contro la filosofia, ricorre soprattutto nella cultura moderna, nella nuova pietà e nella nuova teologia, per la quale la filosofia ha troppo di Dio». Ciò che provoca però tale accusa di panteismo è solo «l’assenza di pensiero personale» e una «falsificazione dei concetti»: si comincia con l’immaginare una «universalità astratta, all’infuori della quale cade ogni determinatezza», e si fa della determinatezza «soltanto il non-divino, l’esistenza mondana delle cose». Poi si conclude che il solo modo di rendere determinata l’universalità è quello di identificarla con le cose: «fanno così di tale universalità quella che viene chiamata l’universalità panteistica, 8264

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secondo la quale tutto – vale a dire le cose empiriche indiscriminatamente, senza distinguere le più elevate dalle più triviali – è, possiede sostanzialità, e questo essere delle cose mondane è Dio» (Enzyklopädie, § 573, tr. it. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, parte III: Filosofia dello spirito, a cura di A. Bosi, Torino 2000, pp. 426-428). Che coloro che accusavano la «filosofia» (cioè lo hegelismo) di panteismo si facessero sempre davvero del panteismo una rappresentazione di stile stoico così volgare, è dubbio: ma Hegel ha interesse a rifiutare una rappresentazione falsa del panteismo (astratta identità Dio-mondo), perché vuol difendere il concetto che egli ritiene vero, e che, in realtà, è panteistico esso stesso, sebbene d’un panteismo molto più acutamente fondato. Le cose non sono Dio immediatamente, ma sono Dio se viste nella loro razionalità; allora, infatti, esse sono i momenti del pensiero dialettico in cui si attua l’idea. Identificare astrattamente le cose con l’idea è la meno filosofica delle posizioni, perché abolisce quella mediazione razionale in cui consiste la filosofia. Tale mediazione, però, è tutta interna all’idea e la costituisce, come la sua necessaria determinatezza. Sicché lo hegelismo cerca di rispondere proprio a quell’esigenza a cui un panteismo meno profondamente pensato non riusciva a dare soddisfazione. Dopo Hegel la dottrina panteistica non ha più compiuto progressi sostanziali. Un’accusa di panteismo è stata fatta al pensiero di Rosmini, come pure, soprattutto, all’ontologismo di Gioberti. Vi sono stati studiosi del panteismo, p. es. G. Weissenborn che (teista egli stesso) distingue varie forme di panteismo: meccanicistico, ontologico, dinamico-psicologico, etico e logico (Vorlesungen über Pantheismus und Theismus, Halle 1850). Altri, a cominciare da Ch. Weisse, ha preferito qualificare la propria dottrina come «panenteismo»; oppure ha escogitato un panteismo «parziale», ammettendo che una parte della divinità sia ciò che si fa mondo (cfr. M. Carrière, Die sittliche Weltordnung, Leipzig 1877, 18912, p. 384; C. Planck, Testament eines Deutschen, Tübingen 1881, p. 467). Le diverse forme di monismo che si sviluppano nel clima romantico dell’Ottocento possono dirsi anch’esse panteistiche in senso lato, anche se il problema specifico del panteismo non si trova, di regola, al centro del loro interesse. Con il tramonto del romanticismo

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però, l’atteggiamento panteistico in filosofia passa di moda. L’irriducibilità della persona singola, la contingenza degli eventi, l’attualità del male, il problema della libertà ecc., diffusamente (anche se variamente) sentiti e problematizzati, sono tutti ostacoli che impediscono l’accettazione del pensiero panteistico. Nel Novecento le forme più vive di idealismo sono state impostate personalisticamente, e pertanto, è stato più facile un loro accordo con il teismo che con il panteismo. Un terreno più propizio il panteismo potrebbe trovare nel naturalismo, ma più come sentimento panico della natura che come elaborazione concettuale: perché anche qui le cautele «antiriduzionistiche», e la percezione dei salti qualitativi che si trovano nel reale, impediscono un ritorno al monismo ottocentesco. Un seguace, in certo senso, del panteismo in campo neorealista è stato Samuel Alexander (sebbene ammetta una trascendenza relativa della «divinità», come qualità sempre superiore alla più alta qualità già realizzata): «Teismo e panteismo, trascendenza e immanenza sono due estremi nella concezione del divino, che di rado si trovano perfettamente puri [...]. Essi rappresentano due caratteri essenziali che Dio condivide con le altre cose: l’essere anima e corpo. Dio è immanente quanto al suo corpo, ma trascendente quanto alla sua divinità» (Space, Time and Deity, London 1920, 19343, vol. II, p. 396). IV. CRITICA DEL PANTEISMO. – In sede di critica del panteismo, è opportuno rifarsi alla sua forma più fortemente e profondamente elaborata, per vedere come, ciononostante, essa non vinca le difficoltà che impediscono di accettarne la dottrina. Hegel non solo ha elaborato il tipo di panteismo razionalmente meglio fondato (pur rifiutando di chiamarlo con quel nome), ma ha anche portato in favore del panteismo l’argomento più forte. Egli critica la teologia razionale, che pretende di «addurre un fondamento oggettivo dell’essere di Dio, il quale diventa perciò qualcosa di mediato da un altro», e afferma: «Questo dimostrare, [...], non è in grado di superare la difficoltà che consiste nel passare dal finito all’infinito. Perciò delle due l’una: o non è riuscito a liberare Dio dalla finitezza – destinata a permanere positivamente – del mondo esistente, per cui ha dovuto necessariamente definire Dio come la sostanza immediata del mondo (panteismo) oppure Dio è rimasto come un oggetto di fronte al sogget-

Panteismo to, e, quindi, come qualcosa di finito (dualismo)» (Enzyklopädie, § 36, tr. it., Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, parte I: La scienza della logica, a cura di V. Verra, Torino 1981, p. 184). Il panteismo si fa forte dell’infinità divina, che non può essere limitata da nulla, e non può avere, perciò, nulla di fronte a sé. Divinizzare però, per questa ragione, la natura finita porta altre difficoltà, senza risolvere quella per cui a tale espediente si fa ricorso. In tal modo, infatti, si fa dell’infinito qualcosa che si attua attraverso le forme di realtà che noi conosciamo, che sono finite, e che non possono essere concepite in nessun modo come irrilevanti rispetto alla realtà infinita, se si suppone che le appartengano. Allora però anche quest’ultima, dell’infinità, non conserva più che il nome: poiché sarebbe contraddittorio pensare come infinita un’essenza che si attui in forme affette da tante manchevolezze. L’essenza divina a cui la soluzione panteistica mette capo non è più dunque quella stessa che, con la sua infinità, sembrava giustificare il porsi sulla strada del panteismo. Hegel prende atto di ciò, e sostiene che a Dio appartengono le cose, non in quanto finite, bensì in quanto momenti necessari dell’assoluto. Ma resta con ciò da vedere se davvero tutto possa concepirsi come momento necessario dell’assoluto. Hegel ha compiuto lo sforzo più potente in questo senso, non negando la contraddizione che si trova nel concepire come infinite nella loro essenza le cose particolari, bensì accettandola, per poi «superarla» attraverso il movimento della dialettica. La cosa, che, in quanto particolare, non può essere l’assoluto, attraverso il processo dialettico, perderebbe la sua particolarità per divenire un momento necessario dell’idea. Ma ciò implica la necessità di dialettizzare e «dedurre» ogni minima cosa o determinazione particolare: necessità che, infatti, Hegel non nega in linea di principio, e a cui cerca di soddisfare ponendo come intrinsecamente logico e necessario anche il momento che si oppone dialetticamente alla logica: il momento della negazione, della alienazione del logo nella natura. Tuttavia, ancora in questa prospettiva, non solo è ovvia l’impossibilità di fatto di condurre a termine il processo di dialettizzazione di tutti i minimi particolari empirici, ma rimane, anche in linea di diritto, la necessità di ammettere in essi un residuo «accidentale» indeducibile: perché soltanto grazie ad esso la natura è natura, cioè 8265

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Pantelismo opposizione al logo, e l’opposizione è necessaria perché il logo si concretizzi nello spirito. Se togliamo l’accidentale, togliamo ciò che fa della natura un momento di negazione necessario a concretare il logo; se lo ammettiamo, escludiamo che la natura sia un puro e semplice momento dialettico dell’assoluto. Anche il panteismo dialettico dunque, che rifiuta il panteismo immediato, non supera tuttavia la difficoltà. Né il panteismo toglie soltanto a Dio quell’infinità che vuol difendere: esso toglie anche alle cose ciò che più le rende divine, e cioè l’autonomia della loro esistenza. Ciò che la natura ha di divino non è il costituire un momento dialettico dell’assoluto, ma l’essere, pure nella sua dipendenza di cosa creata, a suo modo intrinsecamente produttiva e inventiva. Ora, il panteismo è costretto a negare che le cose naturali posseggano ciò in proprio (sia pure senza esserselo date da sé): perché fa di esse mere manifestazioni, o modi, o «momenti» che non hanno la loro verità in sé, ma solo nel tutto. Ciò ha conseguenze particolarmente gravi nel caso dell’uomo, la cui libertà diviene, in questa prospettiva, necessariamente illusoria, mancandole il fondamento su cui instaurarsi. Alle ragioni positive che il panteismo può invocare in proprio favore si dovrà dunque cercare di soddisfare per altra via, dato che la via del panteismo porta piuttosto a distruggerle. La difficoltà di ammettere esistenze finite accanto all’infinito dovrà piuttosto indurre a riflettere sul senso di questo «accanto». Non può trattarsi del medesimo senso in cui sono l’una accanto all’altra le cose finite, perché manca un orizzonte reale più comprensivo entro cui tale relazione possa svilupparsi: senza dubbio non si può fare del mondo e di Dio «due» cose in quel senso, perché non è possibile collocarli nell’ambito di una medesima classe. Se, invece, si tiene presente la radicale differenza del modo (analogo) di essere dell’infinito e del finito, vengono meno le ragioni di quella specie di «invidia divina» che al panteismo fa concepire un Dio intollerante di altre esistenze all’infuori della sua: l’esistenza finita nulla può togliere all’infinita, come nulla le può aggiungere, perché somma e sottrazione sono possibili solo dove vi sia omogeneità. L’infinità divina non costringe, dunque, a concepire il finito come la manifestazione diretta dell’infinito, ma piuttosto come qualcosa che, 8266

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pur in una totale diversità rispetto ad esso, ha in sé un carattere che all’infinito rimanda. A. Guzzo - V. Mathieu - P. Gilbert BIBL.: A. MACINTYRE, Pantheism, in Encyclopedia of Philosophy, a cura di P. Edwards, New York 1967, pp. 31-35; ST. BRETON, Du principe, Paris 1971, pp. 204232; M. CAMPANINI, L’infinito e la filosofia naturale in Giordano Bruno, in «Acme», 31 (1980), pp. 339-369; W. GAVIN, Panthéisme pluraliste et possibilité actuelle, in «Archives de Philosophie», 47 (1984), pp. 557568; J. FREUDIGER, Der Pantheismusstreit – eine Bestandaufnahme, in «Kriterion», 5 (1993), pp. 39-48; M.P. LEVINE, Pantheism. A non-theistic concept of Deity, London 1994; J.M. VAYSSE, Totalité et subjectivité, Paris 1994; P.H. TAVOILLOT, Le crépuscule des Lumières. Les documents de la querelle du panthéisme, Paris 1995; M. VALSANIA, Mater materia. Materialismo, panteismo e anti-umanesimo nella filosofia britannica del Settecento, Napoli 1997; G. SACCANO DEL BUFFO, Alle origini del panteismo. Genesi dell’Ethica di Spinoza e delle sue forme di argomentazione, Milano 2004. ➨ ALESSANDRINISMO; ATEISMO; DIO; DIVINO; ESSERE; IMMANENTISMO; IMMANENZA; MONISMO; NATURA; NEOPLATONISMO; SPINOZISMO; TEISMO; TRASCENDENZA; UNO-TUTTO; VEDA.

PANTELISMO. – Questa parola può risalire Pantelismo a due diverse etimologie, e avere quindi due significati senza nesso tra loro. 1) Derivando dal geco pa'n «tutto» e tevlo" «scopo», pantelismo (pantelism; Pantelismus; pantélisme; pantelismo) designa una dottrina della finalità universale, secondo cui tutto ciò che è esiste, e ha quella forma determinata, in quanto è indirizzato a un certo fine. Più propriamente per pantelismo deve intendersi, però, un’applicazione illimitata del concetto di causa finale, sì da presumere di «inferire» (dedurre) un determinato fine anche là dove nulla permette di inferirlo. Un finalismo di tal genere si incontra, p. es., in Bernardin de Saint-Pierre, o in quell’abate Pluche (criticato da Voltaire, che pure sostiene il finalismo), il quale, nel suo Spectacle de la nature (Paris 1732-50) affermava che vi sono maree perché le navi possano più facilmente entrare nei porti ecc. (cfr.: Voltaire, Causes finales, in Dictionnaire philosophique portatif, London [recte: Genève] 1764, tr. it. di R. Lo Re e L. Sosio, Cause finali, in Dizionario filosofico, Milano 2000, pp. 224-226). 2) Derivando dal greco pa`n ed ejqevlw «voglio», pantelismo (panthelism; Panthelismus; panthélisme; pantelismo) designa un volontarismo universale come quello di Schopenhauer, secon-

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Paolo da Pyskowic

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do cui la radice del mondo è una volontà, intesa però non come proposito deliberato e indirizzato a un fine, bensì come un impulso prerazionale. Per evitare l’equivoco con il significato precedente, il pantelismo nel secondo senso può essere anche chiamato, seguendo Überweg, pantelematismo (cfr. M. Brasch, Die Welt- und Lebensanschauung Fr. Überwegs, Leipzig 1889). Per J.-M. Guyau (L’irréligion de l’avenir, Paris 1886) una forma di pantelismo è il feticismo, che attribuisce una volontà alle cose naturali, e gli eventi naturali a una volontà. V. Mathieu ➨ FETICISMO; FINALISMO; TELEOLOGIA.

PANTENO (Pavntaino"; santo). – Pensatore Panteno del II secolo d. C., nato forse in Sicilia, legato alla Scuola cristiana di Alessandria. L’antica dossografia (particolarmente Eusebio, Historia ecclesiastica, V, 10) riferisce che Panteno, dapprima seguace dello stoicismo, successivamente convertitosi al cristianesimo, viaggiò fino all’India a scopo catechetico; recatosi poi ad Alessandria insegnò nel Didascaleio, ove fu maestro di Clemente Alessandrino. Pur non possedendo nessuno scritto di lui, conosciamo, soprattutto attraverso il suo grande discepolo, le linee fondamentali del suo orientamento speculativo: possiamo leggere solo due frammenti, in Clemente, Estratti profetici, 56, 2 (sull’uso del tempo presente da parte dei profeti) e in Massimo il Confessore (frammento 48 di Clemente, ed. a cura di O. Stählin, Die griechischen christlichen Schriftseller der ersten drei Jahrhunderte, vol. III, Berlin 1970, p. 224: «Dio conosce le cose sensibili, ma sotto forma di volontà propria, avendole create con la propria volontà»), come ricordato in C. Moreschini - E. Norelli, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, Brescia 1995, vol. I, p. 359. Panteno, all’interno del cristianesimo, fu animato da quella stessa esigenza di conciliazione e di sintesi tra filosofia greca e Rivelazione espressa ed attuata, nel giudaismo, da Aristobulo e da Filone. Pertanto la sua posizione filosofica è costituita da un tentativo di armonizzare le dottrine greche (particolarmente stoiche e platoniche) con il messaggio evangelico. Ma sono da tener presenti la scarsezza e la poca coerenza dei dati che su di lui ci sono pervenuti. M. Schiavone - A. Ghisalberti Colombo BIBL.: E. DE FAYE, Clément d’Alexandrie. Étude sur les rapports du christianisme et de la Philosophie grecque au IIe siècle, Paris 19062; ripr. Frankfurt 1967; M. POH-

LENZ, Klemens von Alexandreia und sein hellenisches Christentum, vol. III, Göttingen 1943; V. VÖLKER, Der wahre Gnostiker nach Clemens Alexandrinus, «Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur», vol. LVII, Berlin et al. 1952; E. PETERSON, s. v. in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948-54, vol. IX, coll. 693-694 (fortemente critico); J. QUASTEN, Patrology, vol. I: The Beginnins of Patristic Literature, Utrecht et al. 1950-60, tr. it. di N. Beghin, Patrologia, vol. I: Fino al Concilio di Nicea, Torino-Genova 1967-2000, pp. 286-287, 297.

PANUNZIO, SERGIO. – Filosofo del diritto, n. a Panunzio Molfetta il 20 lug. 1886, m. a Roma l’8 ott. 1944. Studiò a Napoli dove ottenne la laurea in diritto (1908) e in filosofia (1911). Libero docente in Filosofia del Diritto (1914), incaricato nell’università di Ferrara, venne in seguito chiamato alla cattedra di Dottrina dello Stato nella Facoltà di Scienze Politiche dell’università di Roma. L’opera Il diritto e l’autorità (Torino 1912) è un’esposizione critica delle principali dottrine del diritto. Panunzio considera il momento giuridico come un momento distinto dall’economia e dall’etica, termine medio tra l’una e l’altra. Red. BIBL.: Il concetto della guerra giusta, Campobasso 1917; Diritto, forza, violenza, Bologna 1921; Il sentimento dello stato, Roma 1929; Teoria generale dello stato fascista, Padova 1937 (2a ed. aggiornata 1939); Motivi e metodo della codificazione fascista, Milano 1942. Su Panunzio: A.J. GREGOR, S. Panunzio: il sindacalismo e il fondamento razionale del fascismo, Roma 1978; S. NISTRI DE ANGELIS, S. Panunzio: quarant’anni di sindacalismo, Firenze 1990.

PANVITALISMO (panvitalism; Panvitalismus; Panvitalismo panvitalisme; panvitalismo). – Concezione metafisica, per cui tutta la realtà è vita. Vi rientrano quindi anzitutto l’ilozoismo, poi l’animismo e il panpsichismo, ma non soltanto questi: una metafisica panvitalistica sta alla base, p. es., dell’evoluzione creatrice di H. Bergson. Red. ➨ ANIMISMO; EVOLUZIONE; ILOZOISMO; PANPSICHISMO.

PAOLO PYSKOWIC. – Filosofo e teoloPaolo daDA Pyskowic go polacco, n. a Pyskowice verso il 1396, m. a Cracovia verso il 1470. Fece i suoi studi all’Università di Cracovia; maestro nelle Arti nel 1423 e in teologia nel 1445, lasciò, insieme ad altri scritti teologici, un commento alle Sentenze, conservato ms. nella Biblioteca Jagellonica (Cracovia). Nella prepa8267

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Paolo della Pergola razione di quest’opera Paolo da Pyskowic si è servito di una raccolta di questioni, anonime, intitolate dal loro inizio: Utrum Deus gloriosus, molto usate nell’Università Jagellonica nella prima metà del XV secolo. Queste questioni presentano un agostinismo influenzato da elementi nominalistici. Z. Wlodek BIBL.: Z. WLODEK, Pawel z Pyskowic (Paolo da Pyskowic), in «Materialy i Studia Zakladu Historii Filozofii Starozytnej i Sredniowiecznej», vol. V, Wroclaw-Warszava-Kraków 1965, pp. 142-168; S. SWIEZAWSKI, Notes sur le contenu philosophique des questions anonymes «Utrum Deus gloriosus», in «Mediaevalia Philosophica Polonorum», 12 (1966), pp. 8-15.

PAOLO DELLA PERGOLA. – Filosofo e tePaolo della Pergola ologo veneziano, appartenente ad una famiglia proveniente da Pergola (Pesaro-Urbino) e stabilitasi a Venezia negli ultimi decenni del XIV secolo, m. a Venezia il 30 lug. 1455. Studiò a Padova sotto Paolo Veneto probabilmente addottorandosi in artibus intorno al 1420. Nel 1430 era anche theologiae professor. Dal febbraio 1421 al luglio 1454 insegnò nella scuola fondata a Venezia nel 1408 presso la chiesa di San Giovanni Elemosinario, nella zona di Rialto. Frate Giovanni Antonio, suo entusiasta discepolo, ha lasciato memoria della molteplice e intensa attività didattica del maestro e del successo da lui riportato. Pare che abbia tentato di dare alla scuola di Rialto uno status giuridico simile a quello della facoltà patavina delle Arti, ma nel 1445 il Consiglio dei Dieci stabilì che Padova dovesse essere l’unico Studio dello stato veneto. La scuola di Rialto, spesso in contrasto con la scuola di umanità presso la Cancelleria, a San Marco, ebbe vita abbastanza lunga, frequentata dai giovani patrizi che sotto la guida di dotti maestri, anch’essi appartenenti per lo più al patriziato veneto, si preparavano a conquistare i gradi accademici a Padova. Purtroppo, dell’operosità scientifica di Paolo della Pergola non ci restano che alcuni trattati di logica, i quali, tuttavia, ebbero nel XV secolo una considerevole fortuna, come dimostra la loro diffusione sia manoscritta che a stampa: Dubia super Consequentias Strodi; De sensu composito et diviso ad Petrum de Guidonibus (ed. a cura di M.A. Brown, «Franciscan Institute Publications», vol. XIII, New York, 1961); In regulas insolubilium ad Hieronymum; Logica (Venetijs 1510; ed. a cura di M.A. Brown, cit.). Tali 8268

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trattati erano dedicati al nuovo genere di logica che, portato a Padova da Paolo Veneto al suo ritorno da Oxford, riscosse successo tra i suoi alunni e continuatori: Gaetano Thiene, Paolo della Pergola, Pietro da Mantova, Alessandro Sermoneta, Bernardino Landucci, Battista da Fabriano, Antonio Fraganzan e Benedetto Vittori. Tale fu l’importanza attribuita a queste dispute, che a Padova fu perfino istituita una speciale cattedra di sophistaria. Paolo della Pergola fu a suo tempo celebre anche per le sue tesi di filosofia naturale, tuttavia di esse nulla è giunto fino a noi. M. Forlivesi BIBL.: B. NARDI, La Scuola di Rialto e l’Umanesimo veneziano, in V. BRANCA (a cura di), Umanesimo europeo e Umanesimo veneziano, «Civiltà europea e civiltà veneziana», vol. II, Firenze 1963, pp. 93-139; I. BOH, The Four Phases of Medieval Epistemic Logic, in «Theoria. A Swedish Journal of Philosophy», 66 (2000), pp. 129-144; S.E. LAHEY, Paul of Pergula, in J.J.E. GRACIA T.B. NOONE (a cura di), A Companion to Philosophy in the Middle Ages, «Blackwell Companions to Philosophy», vol. XXIV, Malden (Massachusetts) 2003, pp. 481-482.

PAOLO TARSO (santo). – Visse tra gli ulPaolo diDITarso timi anni del I secolo a. C. e la fine degli anni 50 (o la metà degli anni 60) del I secolo d. C. Sull’autenticità delle 13 lettere che recano il suo nome si fa sempre più grande la distinzione tra quelle sicuramente scritte da lui (1 Ts, 12 Cor, Fil, Fm, Gal, Rm) e altre provenienti probabilmente da suoi discepoli (2 Ts, Col, Ef, 1-2 Tm, Tt. Per le questioni introduttorie ai singoli scritti cfr. R.E. Brown, An Introduction to the New Testament, New York 1997, tr. it. a cura di G. Boscolo, Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia 2001; D. Marguerat [a cura di], Introduction au Nouveau Testament, Genève 2000, tr. it. di S. Frache, a cura di Y. Redalié, Introduzione al Nuovo Testamento, Torino 2004). SOMMARIO: I. La teologia razionale. - II. L’antropologia. - III. L’etica. - IV. Relazioni di Paolo con la filosofia del suo tempo. I. LA TEOLOGIA RAZIONALE. – Tra gli aspetti filosofici della dottrina di Paolo, uno dei più importanti riguarda la dimostrabilità razionale dell’esistenza di Dio. Il testo principale si trova in Rm 1, 18-23: «La collera di Dio si manifesta dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia di quegli uomini che in ingiustizia ritengono prigioniera la verità; perché ciò che si può conoscere di Dio [mediante la ragione] è [di fatto] in essi manife-

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sto: Dio infatti lo ha ad essi manifestato. Infatti dalla creazione del mondo sono chiaramente vedute, in quanto scoperte con l’intelligenza attraverso le opere, le cose invisibili di lui, cioè la sua eterna potenza e divinità, cosicché essi sono inescusabili, poiché avendo conosciuto Dio non lo hanno onorato come Dio né gli hanno reso grazie». Qui Paolo stabilisce due fatti: i pagani hanno la possibilità naturale di conoscere Dio dalle opere della creazione e in realtà lo hanno conosciuto, ma nella loro condotta sono caduti nell’idolatria e nella corruzione morale (cfr. Rm 1, 24-32); infatti, nei vv. 21b-32 prosegue mostrando le tenebre e il vaneggiamento, come effetto della ripulsa della luce offerta dalla creazione; alla degradazione dell’intelligenza, che si mostra soprattutto nell’idolatria, fa seguito la degradazione morale. Un punto di contatto e forse anche di dipendenza rispetto alla filosofia del tempo si riscontra nel tema della conoscenza naturale di Dio basata sull’osservazione dell’universo (cfr. Cicerone, Tusculane, I, 28, 68-70; De natura deorum, II, 6, 16; III, 10, 25-26; Aezio, Placita, I, 6; H. von Arnim [a cura di], Stoicorum veterum fragmenta, Stutgardiae 1964, vol. II, n. 1009; Filone, Legum allegoriae, III, 97-99; De specialibus legibus, I, 30-31; anche Pseudo-Aristotele, De mundo 6; Dione di Prusa, Orationes, XII, 39-61. Cfr. inoltre S. van den Broek - T. Baarda - J. Mansfeld [a cura di], Knowledge of God in the Graeco-Roman World, Leiden 1988). Nella teologia giudaica di Alessandria, oltre che in Filone, troviamo il tema in Sap 13, 1-9. Al mondo giudaico, magari sotto l’influsso del platonismo, appartengono espressioni come «dalla creazione», «le cose invisibili» (cfr. M. Pohlenz, Paulus und die Stoa, Darmstadt 1954, pp. 71-72), e il tema della inescusabilità dei pagani (cfr. Sap 13-15; Filone, De Abrahamo, 69; De specialibus legibus, I, 54; altri riferimenti in M. Pohlenz, op. cit., p. 72 nota 8); il catalogo dei vizi (Rm 1, 29-32) non sembra neppure esso sotto uno specifico influsso stoico (negato da Pohlenz [op. cit., p. 73], con A. Bonhöffer [Epiktet und das Neue Testament, Giessen 1911, ripr. 1965, pp. 157-67]), ma ha dei paralleli per es. in Filone, De sacrificiis Abelis et Caini, 32; finalmente a presupposti chiaramente giudaicoveterotestamentari appartiene la menzione della «collera» di Dio (cfr. Sap 12, 26; 16, 1). Un altro testo è il discorso all’Areopago di Atene in At 17, 22-31 (che però proviene dalla penna non di Paolo bensì di Luca). Qui Paolo

Paolo di Tarso annunzia che il Dio ignoto onorato dagli Ateniesi è il Dio creatore di tutto, che dà a tutte le cose vita e respiro, che non abita in templi, non è servito da mani umane, e da un solo principio ha fatto discendere tutte le razze umane. Loro scopo è di cercare Dio, anche se ciò avviene a tentoni, pur non essendo egli lontano da ciascuno di noi; in lui infatti viviamo, ci muoviamo e siamo. Paolo conferma il suo discorso con la citazione di un poeta greco: «Di lui infatti noi siamo stirpe» (cfr. Arato, Fenomeni, v. 5; Cleante, Inno a Zeus, v. 4). In questo discorso le somiglianze col pensiero stoico sono numerose, come con Posidonio (cfr. M. Pohlenz, op. cit., p. 95; K. Reinhardt, Poseidonios, München 1921, pp. 239 ss.), con Seneca (Epistulae Morales, 95, 47-50), Dione di Prusa (Orationes, XII, 27-39), Cicerone (De natura deorum, II, 33-34, 86; De divinatione, I, 49, 110), Epitteto (Opere, I, 14, 6), Plutarco (De tranquillitate animi, 20 [=Moralia, 477 c]: «Il cosmo è il tempio più sacro»). La differenza fondamentale tra Paolo e la filosofia stoica è che egli parte da un presupposto monoteistico e creazionista, che perciò, privo dell’idea di un’intelligenza universale e immanente, implica una assoluta distinzione tra Dio e il mondo. II. L’ANTROPOLGIA. – Sono importanti i termini «carne» (savrx), «corpo» (sw'ma), «anima» (yuchv), «spirito» (pneu'ma), «mente» (nou'") (cfr. R. Jewett, Paul’s Anthropological Terms, Leiden 1971). La terminologia è fondamentalmente ebraica. Le due parole savrx e sw'ma rappresentano un comune originale ebraico basar, che non corrisponde alle categorie elleniche (né a «corpo» né a «carne»). Per Paolo, come nell’Antico Testamento, la savrx non è una parte dell’uomo, ma l’intero individuo umano, considerato dal punto di vista della sua esistenza fisica, debole e mortale, in netto contrasto con Dio; essa non è opposta allo «spirito» secondo il pensiero greco, come parte materiale dell’uomo in contrasto con quella spirituale (cfr. Gal 5, 1921 ove anche manifestazioni psichiche sono dette opere della carne; e le espressioni «vivere secondo la carne», «aspirazioni della carne», «opere della carne» in Rm 8, 4-14 significano tutto ciò che è peccato, in opposizione alla legge di Dio. Cfr. A. Sand, Der Begriff «Fleisch» in den paulinischen Hauptbriefen, Regesburg 1967). Sw'ma, meno frequente di savrx, le è in parte identico; indica la presenza dell’uo8269

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Paolo di Tarso mo nel mondo (cfr. 2 Cor 10, 10): non qualcosa che l’uomo ha, ma qualcosa che l’uomo è (cfr. Ef 5, 28-29; 1 Cor 6, 13-20 [i vostri corpi= le vostre persone: vv. 15-19]; 1 Cor 12, 27 [«voi»], perifrasi o equivalenza col pronome personale, anche in 2 Cor 4, 10-12); a differenza di savrx, però, non indica l’uomo in contrasto con Dio, ma anzi è detto fatto per Dio (1 Cor 6, 13) e per la risurrezione (Rm 8, 11). Yuchv non significa «anima» nel senso greco, non essendo mai distinta dal sw'ma. Secondo l’ebraico nepheš , può stare per il pronome personale (cfr. 2 Cor 12, 15 = voi), per l’intero uomo (Rm 13, 1), l’essere animato (1 Cor 15, 45), la vita (Rm 16, 4). Pneu'ma assai raramente indica la parte intelligente dell’uomo, la sostanza pensante (1 Cor 2, 11). Il termine nou'", invece, che non ha equivalenti ebraici ma proviene dall’ellenismo, significa intelligenza, sentimento, giudizio pratico, pensiero, giudizio, decisione. Mentre il pneu'ma è aperto al soprannaturale, il nou'" vi rimane estraneo, anche se ha la capacità di riconoscere le esigenze di Dio. Una questione particolare è se Paolo insegni una «tricotomia», cioè la divisione dell’uomo in spirito, anima e corpo (cfr. 1 Ts 5, 23). L’analisi dei termini mostra che il linguaggio paolino è di ispirazione biblica, non greca. Quanto alla libertà, i termini ejleuqeriva-ejleuvqero" sono usati non nel senso di libero arbitrio, ma nel senso di libertà dalla legge di Mosé, dal peccato e simili (Rm 7, 3-6; 1 Cor 7, 39). Però la teologia di Paolo suppone il libero arbitrio: l’uomo è responsabile delle sue azioni buone o cattive, deve renderne conto a Dio giudice (Rm 2, 12-16; 2 Cor 5, 10); è detto «inescusabile» (Rm 1, 20; 2, 1); la fede è una obbedienza, l’incredulità una disobbedienza (Rm 6, 17; 2, 8); l’uomo può operare la propria salvezza (Fil 2, 12). Su un confronto del concetto di libertà presso gli stoici (vedi Epitteto, Opere, I, 14, 16, 17; 4, 3, 9; 3, 24, I7. Inoltre Filone, De sacrificiis Abelis et Caini, 127; De somniis, II, 100) e in Paolo, va osservato che per l’Apostolo la libertà non è quella acquisita dal «saggio», ma è quella dalla legge-peccato-carne, che viene da Cristo e rende possibile l’amore vicendevole (cfr. S. Vollenweider, Freiheit als neue Schöpfung. Eine Untersuchung zur Eleutheria bei Paulus und in seiner Umwelt, Göttingen 1989). Paolo suppone anche la distinzione tra la conoscenza e la volontà. ´Epivgnwsi"-gnw'si" riprendono il senso ebraico del «conoscere Dio» esprimente tutta l’attitudine religiosa del 8270

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vero israelita, l’adesione al Dio dei padri e l’osservanza della sua volontà formulata nella legge. Paolo usa in questo stesso senso la frase «conoscere Dio» e la trasferisce a Cristo (cfr. J. Dupont, Gnosis. La connaissance religieuse dans les épîtres de st Paul, Louvain-Paris 1949). III. L’ETICA. – Dottrina fondamentale è innanzitutto l’esistenza di una legge e di una coscienza morale. «Quando infatti i gentili, che non hanno la legge [di Mosè], adempiono le cose della legge [i precetti morali] con la natura [guidati dal suo lume; servendosi di essa come di norma], essi sono a se stessi legge, pur non avendo la legge. Essi infatti mostrano che l’opera della legge [le opere che prescrive la legge mosaica] essi l’hanno iscritta nel loro cuore; la loro coscienza rende insieme testimonianza, in quanto i pensieri [la voce della coscienza] a volta a volta li accusano o li difendono» (Rm 2, 14-15). A proposito dei concetti di fuvsi" e novmo", bisogna notare che per gli stoici la fuvsi" è la più alta istanza, anche in questioni morali; la legge per tutta l’umanità è la ragione radicata nella natura (cfr. Stoicorum veterum fragmenta, cit., vol. III, n. 323, pp. 79, 40-41; Filone, De migratione Abrahami, 130). Per Paolo la legge, anche quella dei pagani, è la legge data da Dio, rivelata ai giudei col decalogo e ai gentili col venir scritta nei cuori. Apparentemente per Paolo non si dà una morale autonoma «naturale», come non si dà una legge indipendente da Dio: la fuvsi" come «ordine della natura» è sempre supposta creata da Dio (cfr. Rm 1, 26; 1 Cor 11, 14; cfr. in specie R.A. Horsley, The Law of Nature in Philo and Cicero, in «Harvard Theological Review», 71, 1978, pp. 35-59); tuttavia, in Rm 2, 7-10, sembra supporsi un «operare il bene» anche da parte dell’uomo naturale (vedi anche Fil 4, 8). La «coscienza» è un concetto comune agli stoici: così Cicerone (De legibus, I, 40) si appella alla coscienza per provare contro gli epicurei che il diritto e la moralità sono dalla natura; ma anche la teologia giudaica conosceva tale dimostrazione (cfr. Filone, Quod deteriurs potiori insidiari soleat, 23; Quod Deus sit immutabilis, 182 ss.). Il termine suneivdhsi" (di uso quasi esclusivamente paolino nel Nuovo Testamento) è ciò che dà una testimonianza interna e certa su un fatto o disposizione dell’uomo (Rm 9, 1; 2 Cor 1, 12) o sulla bontà o meno dell’azione (Rm 2, 15), il giudizio che la coscienza porta sulla condotta altrui (2 Cor 4, 2; 5, 11; 1 Cor 10, 29),

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la regola soggettiva che illumina sulla moralità dell’azione e fa presente il dovere di compierla o lasciarla (1 Cor 10, 25-27; Rm 13, 5. Cfr. H.-J. Eckstein, Der Begriff Syneidesis bei Paulus, Tübingen 1983). Di questo concetto, che nell’Antico Testamento greco compare appena (cfr. Sap 17, 11; Qo 10, 20), e che Paolo non ha certo attinto da Filone, da cui non ha subito alcuna diretta influenza (v. infra), Paolo è piuttosto debitore della filosofia popolare ellenistica (epicurea, cinica, stoica), viva specialmente a partire dal I secolo a. C., e a noi nota soprattutto attraverso gli scrittori latini (cfr. p. es. Cicerone, De natura deorum, III, 35, 85; Pro Cluentio, 159; Seneca, Epistulae morales, 97, 13). Un’applicazione del concetto di coscienza si ha nella dottrina politica di Paolo, esposta in Rm 13, 1-7: «Ogni persona sia sottomessa alle autorità (civili) che presiedono. Infatti non vi è autorità se non da Dio, e le autorità che esistono sono state costituite da Dio. Perciò chi resiste alle autorità, si rivolta contro l’ordine stabilito da Dio; e quelli che si rivoltano, attirano su se stessi una sentenza di condanna». Dopo questi versetti, in cui ripone l’origine dell’autorità civile in Dio stesso secondo un diffuso topos elllenistico e non solo biblico (cfr. per es. Dione di Prusa, Orationes, I, 45: «I re hanno da Zeus il potere e il governo»), Paolo continua parlando del potere di infliggere pene, onde l’obbedienza ha anche a motivo il timore oltre che la coscienza (vv. 3-5); perciò bisogna pagare le imposte (vv. 6-7). Eco di queste asserzioni è in 1 Tm 2, 1-2 e Tt 3, 1. La sottomissione al potere civile era stata già insegnata da Gesù (Mt 22, 17-22). Da un punto di vista più generale, un confronto tra l’etica di Paolo e quella della filosofia popolare ellenistica, soprattutto di tipo stoico, conduce alle seguenti conclusioni. Vi sono delle notevoli affinità di lessico, come si vede nell’ideale dell’autárcheia (cfr. Fil 4, 11 e Crisippo in Stoicorum veterum fragmenta, cit., vol. III, fr. 272) e nelle cosiddette «lettere pastorali» (affinità con Plauto, Polibio, Cicerone, Seneca, Epitteto, Quintiliano, Plutarco, sono state notate da C. Spicq, Les Pastorales, Paris 1947, p. CXLII; sul ritratto del vescovo cfr. ibi, pp. 234240); lo stesso dicasi delle immagini prese dalle gare e dai giochi (cfr. ibi, pp. 151-162). Sono inoltre comuni allo stoicismo e a Paolo alcuni caratteri generali dell’etica (cfr. M. Pohlenz, Paulus und die Stoa, in «Zeitschrift für Neutestamentliche Wissenschaft», 42, 1949, pp. 64-

Paolo di Tarso 104; più in breve, Id., Die Stoa. Geschichte einer geistigen Bewegung, Göttingen 1948-49, 19643, vol. I, pp. 402-403; T. Engberg-Pedersen, Paul and the Stoics, Louisville 2000; A.J. Malherbe, Paul and the Popular Philosophers, Minneapolis 1989; in specie J.N. Sevenster, Paul and Seneca, Leiden 1961). Le differenze sono però profonde. A parte i termini caratteristici dell’etica stoica (cfr. ajpavqeia, ajtaraxiva, eujdaimoniva) che in Paolo non ci sono o non hanno tale senso, per lo stoico conta la scienza di ciò che è bene e ciò che è male; per Paolo conta la fede, che lo separa fondamentalmente da ogni filosofia greca e in particolare dalla Stoa. Per lo stoico non esiste un Dio personale cui si debba riverenza e amore; essere figlio di Dio è solo parteciparne la vita razionale contemplando nelle opere dell’universo gli atti della divina provvidenza (cfr. M.S. Enslin, The Ethics of Paul, New York-London 1930, p. 24); per lo stoico perciò non vi è una coscienza di peccato, di offesa a Dio-padre: si parla piuttosto di non andare contro le leggi dell’universo, di un errore di giudizio (cfr. Epitteto, Opere, I, 11, 35; 18, 4; Marco Aurelio, Ricordi, II, 1; VII, 22, 63; XI, 18). Anche l’attitudine verso gli altri è profondamente diversa nei suoi motivi: lo stoico non ama la folla, fugge le passioni della gioia e del pianto, perché tutto ciò è indegno dell’uomo, contrario alla ragione e turba la serenità; il cristiano invece, secondo Paolo, è per l’amore del fratello e la comunione reciproca (anche se l’idea di chiesa «corpo di Cristo» può avere qualche nesso con l’idea stoica della società come ingens animal). Sulla base di queste somiglianze e divergenze, si può concludere che Paolo conobbe in certo modo la morale stoica, ma non per una diretta conoscenza delle opere letterarie, né per un consapevole attingervi, ma piuttosto attraverso il linguaggio comune del suo tempo. Le somiglianze si spiegano col fatto che Paolo nacque a Tarso, terreno fertile dello stoicismo, e poi vi dimorò da adulto per alcuni anni (At 9, 30; 11, 25; cfr. H. Böhlig, Die Geisteskultur von Tarsos im augusteischen Zeitalter mit Berücksichtigung der paulinischen Briefe, Göttingen 1913). Egli dovette avere in una certa misura un’educazione greca, come giudeo di lingua greca e di condizione elevata; visse poi nel mondo ellenistico, e dovendo predicare il Vangelo ai gentili dovette adattarne l’esposizione alla mentalità di quelli. Le forme fondamentali 8271

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Paolo di Tarso del suo pensiero rimangono tuttavia giudaiche e cristiane. IV. RELAZIONI DI PAOLO CON LA FILOSOFIA DEL SUO TEMPO. – Questo problema che è stato già via via introdotto, si pone ora espressamente, e sotto due aspetti: l’atteggiamento dottrinale di Paolo verso la sofiva e la filosofia del suo tempo, e il fatto, sul terreno storico, della dipendenza del suo linguaggio da quello della filosofia. Per il primo aspetto, è da esaminare anzitutto 1 Cor 1, 18-23 in cui Paolo sembra condannare la «sapienza» (sofiva) dei Greci. Ma ciò che Paolo condanna non è lo sforzo di speculazione e di ricerca della verità, neppure la vera eloquenza, bensì una certa retorica che aveva infestato la filosofia, facendola diventare «sofistica». Soprattutto egli condanna l’attitudine dell’anima o del pensiero che ha la pretesa di bastare a se stesso per risolvere da solo i problemi del suo destino e del fine del mondo, che pretende trovare in sé la norma suprema e non si piega davanti a Dio, anche quando lo trova per via speculativa. Paolo sostituisce a questa sapienza verbale e carnale la sapienza di Dio, in una conoscenza soprannaturale, per fede, che salva l’uomo, mettendolo in contatto con la persona di Gesù Cristo e la sua croce. L’altro testo, «nessuno faccia preda di voi, mediante la filosofia» (Col 2, 8), fa meno difficoltà: si tratta dell’errore che minaccia la comunità di Colosse, e che si presenta col nome di «filosofia» (secondo il senso molto largo che la parola aveva di «tutto ciò che era teoria su Dio, sul mondo e il senso della vita umana»; cfr. Ch. Masson, Épître aux Colossiens, NeuchâtelParis 1950, p. 121 nota 6). Non si tratta di un disprezzo di Paolo verso i grandi sistemi filosofici dell’antichità, né contro la speculazione umana in genere. Quanto al problema più ampio delle relazioni del linguaggio di Paolo con l’ellenismo in generale, e in specie col sistema gnostico e con Filone, è impossibile offrirne qui una presentazione completa; nel Grande lessico del Nuovo Testamento (Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, a cura di G. Kittel e G. Friedrich, Stuttgart 1933-79, 10 voll., ed. it. a cura di F. Montagnini, G. Scarpat, O. Soffritti, Grande lessico del Nuovo Testamento, Brescia 1963-92, 16 voll.) ogni articolo in merito non manca di notare gli eventuali paralleli (cfr. anche F.G. Downing, Cynics, Paul and the Pauline Churches, London-New York 1988; T. Engberg-Pe8272

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dersen, Paul in His Hellenistic Context, Edinburgh 1994; J.P. Sampley, Paul in the Greco-Roman World. A Handbook, New York 2003). Le posizioni più solide, allo stato attuale degli studi, sull’attitudine di Paolo verso l’ellenismo e verso il movimento di filosofia religiosa chiamato «gnosi», sembrano potersi riassumere nelle note che seguono. Lo studio dell’ambiente letterario che sta all’origine dei temi e vocaboli usati nel Nuovo Testamento ha portato a ritrovare le fonti del linguaggio di Paolo piuttosto nel giudaismo che nell’ellenismo (un esempio, e proprio riguardante il vocabolario della gnosi, in J. Dupont, op. cit.); per cui, per spiegare la lingua del Nuovo Testamento, soprattutto per ciò che riguarda i concetti religiosi e morali, bisogna ricorrere anzitutto ai Settanta, ai concetti giudaici e all’originalità creatrice del cristianesimo (cfr. R. De Langhe, Judaïsme ou hellénisme, in AA.VV., L’attente du Messie, Paris 1954, pp. 154-183). L’ellenismo non viene tuttavia estromesso: si può parlare di espressioni ellenistiche già adottate e assimilate dal giudaismo (e dal cristianesimo prepaolino) e perciò di una dipendenza di Paolo dall’ellenismo soprattutto indiretta, attraverso il vocabolario fissato già nel giudaismo e nel cristianesimo primitivo (cfr. J. Dupont, Su;n Cristœ: l’union avec le Christ suivant st Paul, vol. 1: «Avec le Christ» dans la vie future, Bruges-Louvain 1952, p. 78). Non si può infatti dubitare che il giudaismo palestinese del tempo di Paolo fosse già ellenizzato (cfr. W.L. Knox, Some Hellenistic Elements in Primitive Christianity, Londra 1944, p. 2; S. Liebermann, Hellenism in Jewish Palestine, Studies in the Literary Transmission Beliefs and Manners of Palestine in the I Century B.C.E. - IV Century C.E., New York 1950; T. Engberg-Pedersen [a cura di], Paul Beyond the Judaism/Hellenism Divide, Louisville-London 2001). Paolo si trovò a contatto con l’ellenismo già nella sua educazione giudaica; vi si trovò poi durante il suo apostolato. Non è necessario supporre una formazione letteraria ellenista propriamente detta, né un contatto diretto con gli uomini del pensiero o con i loro scritti, una dipendenza letteraria diretta da essi. Paolo ha potuto esprimere il fatto religioso che ha ricevuto per tradizione dalla comunità primitiva, o ha vissuto nella propria esperienza, con le categorie religiose dei suoi contemporanei, col vocabolario allora diffuso nello stesso mondo culturale giudaico.

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Quel che vale in genere dei contatti di Paolo con l’ellenismo, vale ancor più per lo gnosticismo. Alcuni studiosi hanno parlato di uno gnosticismo giudaico o di un giudaismo gnosticizzato, come sembrerebbe dai «manoscritti del Mar Morto» (cfr. H. J. Schoeps, Das Gnostische Judentum in den Dead Sea Scrolls, in «Zeitschrift für Religions- und Geistesgeschichte», 6, 1954, pp. 276-279; K.G. Kuhn, Die in Palästina gefundenen hebräischen Texte und das Neue Testament, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche», 47, 1950, pp. 192-211 [in particolare p. 211]). Altri segnalano in Paolo e in genere nel Nuovo Testamento paralleli con gli scritti gnostici extragiudaici, in particolare mandei (cfr. L. Cerfaux, Gnose préchrétienne et biblique, in Dictionnaire de la Bible. Supplément t. III, Paris 1938, coll. 690-701; J. Schmitt, Mandéisme, in Dictionnaire de la Bible. Supplément t. V, Paris 1954, coll. 786-787). In ogni caso, il fatto che ci siano dei paralleli, delle coincidenze di espressione, non significa che si tratti di fonti: bisogna ricordare che la letteratura gnostica presuppone il pensiero cristiano e la tradizione gnostico-cristiana (cfr. K.-W. Tröger [a cura di], Gnosis und das Neue Testament, Berlin 1973). Anche tra Paolo e Filone vi sono interessanti paralleli, ma nessuna prova convincente di un debito diretto del primo verso il secondo (cfr. B.W. Winter, Philo and Paul among the Sophists, Cambridge 1997). Parzialmente diverso è il caso della Lettera agli Ebrei il cui autore sembra influenzato dal filonismo (cfr. un’ampia dimostrazione in C. Spicq, L’Épître aux Hébreux, Paris 1952, vol. I, pp. 39-91). S. Zedda - R. Penna BIBL.: Sul pensiero di Paolo in generale, oltre alla classica opera di F. PRAT, Théologie de st Paul, Paris 1908-12, 2 voll. (molte edizioni, tra cui 192714 per il vol. I e 192512 per il vol. II; nuova ed. 1961), tr. it. di G. Albera, La teologia di San Paolo, Torino 1928, esistono ora: J. BECKER, Paulus, der Apostel der Völker, Tübingen 1989, tr. it. di E. Gatti, Paolo, l’apostolo dei popoli, Brescia 1996; J.D.G. DUNN, The Theology of Paul the Apostle, Edinburgh 1998, tr. it. di F. Ronchi, La teologia dell’apostolo Paolo, Brescia 1999; G. BARBAGLIO, La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare, Bologna 1999. Non si riportano qui i commenti alle lettere. Sulle relazioni di Paolo con la filosofia cfr. in particolare: H.ST.J. THACKERAY, The Relation of St. Paul to Contemporary Jewish Thought, London 1900; H. BÖHLIG, Die Geisteskultur von Tarsos im augusteischen Zeitalter mit Berücksichtigung der paulinischen Briefe, Göttingen 1913; K. DEISSNER, Paul und Seneca, Gütersloh 1917; P. BENOIT, Sénèque et st Paul,

Paolo di Vladimiro in «Revue biblique», 55 (1946), pp. 15-35; P. ROSSANO, L’ideale dell’assimilazione a Dio nello stoicismo e nel Nuovo Testamento, Alba 1954, pp. 7-71. Sulle relazioni tra Paolo, la gnosi, il giudaismo (in particolare Qumran) e l’ellenismo: R.M. WILSON, The Gnostic Problem, A Study between Hellenistic Judaism and the Gnostic Heresy, London 1958; J. COPPENS, Le «mystère» dans la théologie paulinienne et ses parallèles qumrâniens, in A. DESCAPS (a cura di), Littérature et théologie pauliniennes, Bruges 1960, pp. 142-165. L’inserimento di motivi o l’accentuazione di temi in una lettera non implicano necessariamente una dipendenza (contro le esagerazioni di G. BORNKAMM, Das Ende des Gesetzes, 9. Die Häresie des Kolosserbrief, München 1958, pp. 139-156 e W. SCHMITHALS, Die Gnosis in Korinth. Eine Untersuchung zu den Korintherbriefen, Göttingen 1956); cfr. ancora la bibl. e le osservazioni di J. VAN DER PLOEG, Six années d’études des manuscrits du désert de Juda (1952-1958), in La Secte de Qumrân et les origines du christianisme, Bruges 1959, pp. 11-84 (specialmente pp. 60-65); e L. CERFAUX, Influence de Qumrân sur le Nouveau Testament, in La Secte de Qumrân et les origines du christianisme, Bruges 1959, pp. 233-244 (specialmente pp. 243-244); G. SCARPAT, Cultura ebreo-ellenistica e Seneca, in «Rivista biblica», 13 (1965), pp. 3-30; R. PENNA, Le notizie di Dione di Prusa su Tarso e il loro interesse per le lettere di S. Paolo, in Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, Cinisello Balsamo 2001, pp. 255-274; R. PENNA, Aperture universalistiche in Paolo e nella cultura del suo tempo, in Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, Cinisello Balsamo 2001, pp. 323-364.

PAOLO VLADIMIRO (Paulus Vladimiri o Paolo diDI Vladimiro Wladimiri; Pawel Wlodkowic). – Canonista polacco della famiglia dei Dotega, n. nel 1370 ca. presso Dobrzyn, m. nel 1435. Nel 1403-04 fu a Padova per proseguire gli studi di diritto canonico iniziati a Praga, rientrando in patria probabilmente nel 1410. Dal 141415 fu rettore all’Università di Cracovia. Interessanti per le anticipazioni di tendenze moderne, sono i suoi scritti sulle controversie di frontiera tra la Polonia e l’Ordine dei Cavalieri Teutonici, che giustificavano il loro operato con i privilegi ottenuti da papi e imperatori. Nel 1415 presentò ai membri delle «nazioni» del Concilio di Costanza, ov’era ambasciatore della Polonia, due trattati su tale questione, in cui, trasferendo la vertenza dal piano contingente a quello dei principi, negava il diritto papale ed imperiale di autorizzare spedizioni contro gli infedeli (eccetto per la Terra Santa) o di distribuire le terre. I cinquantadue articoli 8273

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Paolo di Vladimiro del sommario di tali trattati costituiscono una sorta di codificazione. Basandosi sulla dottrina più tardi detta del diritto naturale, e adottando la formula del suo maestro Zabarella che ogni potere di un uomo su di un altro deriva o da ordine espresso di Dio (come il potere del papa) o dal consenso (elezione) o dalla forza, Paolo di Vladimiro nega la legittimità di quest’ultima; del pari nega la validità delle cessioni territoriali fatte ai Teutonici dai sovrani polacchi, giacché un monarca non può (in conformità al diritto canonico) disporre dei territori appartenenti al suo regno, perché egli ne è non proprietario, ma amministratore, e non può sottomettere gli abitanti di tali territori al potere di altri senza accordarsi con essi. Altri promemoria seguirono negli anni successivi. Da ultimo, in una lettera indirizzata da Padova nel 1432 al vescovo di Cracovia, dopo un nuovo attacco armato dell’Ordine Teutonico contro la Polonia, Paolo di Vladimiro, cercando un mezzo per mettere definitivamente fine a queste lotte, rifiuta sia la guerra, che, per quanto giusta, porta sempre grandi sofferenze, sia un accordo negoziato che avrebbe significato l’abbandono ingiustificato dei diritti della Polonia e che l’Ordine non avrebbe rispettato (come già aveva violato quelli conclusi fino ad allora), e indica come via giusta, rapida e sicura di composizione pacifica, quella giudiziaria. Cfr.: H.-D. Kahl, Die völkerrechtliche Lösung der «Heidenfrage» bei Paulus Vladimiri von Krakau (gest. 1435) und ihre problem-geschichtliche Einordnung, in «Zeitschrift für Ostforschung», 7-II (1958), pp. 161-209. L. Ehrlich BIBL.: H. VON DER HARDT (a cura di), Corpus Actorum et Decretorum Magni Constantiensis Concilii de Ecclesiae Reformatione Unione ac Fide, Frankfurt-Leipzig 1699, vol. III; A.T. DZIALYNSKI (a cura di), Lites ac res gestae inter Polonos ordinemque cruciferorum, Posnaniae 1855-1880, vol. III; Tractatus de Annatis camerae apostolicae solvendis, ed. a cura di M. Bobrzynski, «Starodawne prawa polskiego Pomniki» (Antichi monumenti di diritto polacco), vol. V, Kraków 1878, pp. 299-312; Scriptum denunciatorum errorum Satyrae, ed. a cura di S. Belch, in «Sacrum Poloniae Millennium», 2 (1955). Cfr. inoltre: L. EHRLICH, Pawel Wlodkowic i Stanislaw ze Skarbimierza, Warszawa 1954; L. EHRLICH, Rektor Pawel Wlodkowic rzecznik obrony przeciw Krzyzakom (Il rettore Paolo Vladimiro contro i cruciferi), Kraków 1963; L. EHRLICH, Pisma wybrane Pawel Wlodkowic, Warszawa 1966-69, 3 voll.: Ad aperiendam pregnantem materiam, vol. I, pp. 144259; vol. II, pp. 2-167; Tractatus de protestate et impe-

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ratoris respectu infidelium, vol. I, pp. 2-98; Tractatus de ordine Crociferorum et de bello Polonorum contra dictos fratres, vol. II, pp. 216-398; Ad videndum, vol. III, pp. 91-194; Opinio Hostiensis, ed. a cura di E. WEISE, Die Staatsschriften des Deutschen Ordens in Preussen im 15. Jahrundert, Göttingen 1970, vol. I, pp. 130-149. Su Paolo di Vladimiro: S.F. BELCH, Paulus Vladimiri and His Doctrine Concerning International Law and Politics, London-The Hague-Paris 1965, 2 voll.; J.W. WOS, Le opere di Paulus Wladimiri, Milano 1970; J.W. WOS, De potestate papae et imperatoris apud Paulum Wladimiri. Contributo alla conoscenza di un personaggio che fu presente al Concilio di Pisa del 1409, in «Bollettino Storico Pisano», 39 (1970), pp. 55-67; J.W. WOS, Appunti per la biografia di Paulus Wladimiri, canonista polacco del secolo XV, in «Studi Senesi», 83 (1971), pp. 57-124; J.W. WOS, Paulus Wladimiri e le origini dell’idea di tolleranza in Polonia, in «Sapienza», 25 (1972), pp. 430-451; J.W. WOS, Dottrina e prassi politica nelle opere di Paulus Wladimiri de Brudzen, in «Nuovi Studi Politici», 3-4 (1973), pp. 129143; J.W. WOS, Prolegomeni allo studio di Paulus Wladimiri di Brudzen canonista polacco, in «Rivista di Letteratura e di Storia Ecclesiastica», 5 (1973), pp. 43-64; J.W. WOS, Un document indédit sur la vie de Paulus Wladimiri, in «Sapienza», 26 (1973), pp. 232234; J.W. WOS, Un débat ouvert: Paulus Wladimiri et Francisco de Vitoria, in «Mediaevalia Philosophica Polonorum», 21 (1975), pp. 85-88; H. BOOCKMANN - J. FALKENBERG, Der deutsche Orden und die polnische Politik, «Veröffentlichungen des Max Plance Institut für Geschichte», vol. LXV, Göttingen 1975; J.W. WOS, Paulus Wladimiri aus Brudzen: Vorläufer oder Fortsetzer?, in «Zeitschrift für Ostforschung», 25 (1976), pp. 438-61; J.W. WOS, Dispute giuridiche nella lotta tra la Polonia e l’Ordine teutonico: introduzione allo studio di Paulus Wladimiri, Firenze 1979; P.W. KNOLL, The University of Cracow in the Conciliar Movement, in J.M. KITTELSON - P.J. TRANSUE (a cura di), Rebirth, Reform, and Resilience: Universities in Transitio 13001700, Columbus 1984, p. 194; J. WYROZUMSKI, L’idée de tolérance à l’université de Cracovie dans la première moitié du Xe siècle, in S. WLODEK (a cura di), Société et Église: textes et discussions dans les Universités d’Europe centrale pendant le moyen âge tardif, «Actes du Colloque international de Cracovie, 14-16 juin 1993, organisé par la Société Internationale pour l’Étude de la Philosophie Médiévale», Turnhout 1995, pp. 133-143; P. SCHULTHESS - R. IMBACH, Die Philosophie im lateinischen Mittelalter, Zürich-Düsseldorf 1996, pp. 536-537; J. KOPIEC, s. v. in W. KASPER (a cura di), Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg i. B. 1993-20013, vol. VII, col. 1529; S. RUSSOCKI, s. v. in G. AVELLA-WIDHALM et al. (a cura di), Lexikon des Mittelalters, Stuttgart-Weimar 1999, vol. VIII, coll. 18031804.

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PAOLO WORCZIN (Worczyn, Wurzen). – Paolo diDI Worczin Filosofo polacco, del quale dubbie sono le date di nascita e di morte (1380?-1430?) e il luogo di origine (Wurzen, presso Lipsia). Studiò a Praga, Lipsia e Cracovia. Qui fu professore dapprima di filosofia, almeno fino al 1424, e verso il 1427 di teologia. Opere filosofiche (mss. alla Biblioteca Jagellonica di Cracovia): Quaestiones sul De anima, ed. a cura di Z. Kuksewicz, in «Materialy do Historii Filozofii Sredniowiecznej», 10 (1969), pp. 35-221; Quaestiones sull’Etica Nicomachea, ed. a cura di Z. Kuksewicz, ibi, 6 (1973), pp. 70-118; glosse a Etica, Politica (ed. a cura di P. Czartoryski, Wczesna Recepcja «polityki» Arystotelesa na Uniwersytecie Krakowskim, Wroklaw-WarschauKrakau 1963) e Economica (ed. a cura di A. Slomczynska, Krakowskie komentarze z XV wieku do Ekonomiki Arystotelesa, «Monografie z Dziejów Nauki i Techniki», vol. CXVIII, Wroklaw 1978, pp. 127-164) di Aristotele (del 14151416), questioni a Parva naturalia, Meteora, Gen. et corr. (del 1422-23, tutte inedite), ed Etica (del 1424). Quest’ultimo scritto, oltre ad essere il più ampio (547 questioni), è anche il più importante; l’autore vi espone le sue idee nel campo della filosofia pratica, che costituiva il suo principale interesse. Paolo di Worczin preparò i suoi commenti in base sia alla «via moderna» (Buridano, Enrico di Oyta) sia all’«antiqua» (Alberto Magno, Tommaso); ammette due fini supremi dell’uomo: «ultimus finis humanus», e «ultimus finis supernaturalis», il primo proprio dell’etica, il secondo della teologia. L’etica è posta al di sopra della fisica, della matematica, non giovando queste al conseguimento della felicità, e persino della metafisica, che, quando si occupa degli angeli, è certo inutile all’attività morale dell’uomo. Tutto il pensiero di Paolo di Worczin è retto da un vivo senso pratico, in un atteggiamento nettamente utilitaristico, cosicché egli ritiene, per es., che allo stato servono più i giuristi che i teologi, e che debbano essere allontanati dalla società i Certosini, che, come ordine contemplativo, sono ad essa inutili. L’esperienza, più che l’autorità, costituisce spesso per lui il più importante argomento. Nella Biblioteca Schottenkloster di Vienna si trovano le questioni al De anima, del 1417. J. Rebeta BIBL.: J. REBETA, Pawel z Worczyna, in «Materialy i Studia Zakladu Historii Filozofii Starozytnej i Sredniowiecznej», 3 (1964), pp. 120-156; O. PLUTA, Kri-

Paolo Persiano tiker der Unsterblichkeitsdoktrin in Mittelalter und Renaissance, Amsterdam 1986, pp. 47-48; CH. FLÜELER, Rezeption und Interpretation der Aristotelischen «Politica» im späten Mittelalter, «Bochumer Studien zur Philosophie», vol. XIX, Amsterdam-Philadelphia 1992, vol. II, pp. 2, 25, 40; P. SCHULTHESS - R. IMBACH, Die Philosophie im lateinischen Mittelalter, ZürichDüsseldorf 1996, p. 536.

PAOLO GUASTAFERRIS DI PERUGIA Paolo Guastaferris di Perugia (Perusinus). – Teologo carmelitano, m. verso il 1344 a Parigi. Insegnò come baccelliere a Parigi. Scrisse: Lectura in I-IV Sententiarum (Bologna, Archiginnasio, ms. lat. A, 941; Mantova, Biblioteca comunale, ms. G, III, 3; Vaticano, ms. Chigiano B, VI, 97). In filosofia ha un atteggiamento eclettico: come i nominalisti esalta il singolare; dà poco valore agli argomenti dell’esistenza di Dio e della spiritualità e immortalità dell’anima; nega che il nostro intelletto possa attingere con evidenza le sostanze; come gli agostiniani afferma l’attività delle potenze dell’anima e il primato della volontà; come i tomisti difende la distinzione reale delle varie entità metafisiche, quali atto e potenza, esistenza ed essenza, nonché la funzione delle diverse specie nella conoscenza. Red. BIBL.: B.M. XIBERTA, De baccalario Paulo Perusino, in De scriptoribus scholasticis saeculi XIV ex ordine Carmelitarum, «Bibliothèque de la Revue d’Histoire Ecclésiastique», vol. VI, Louvain 1931, pp. 285-316; W.J. COURTENAY, Adam Wodeham. An Introduction to His Life and Writings, «Studies in Medieval and Reformation Thought», vol. XXI, Leiden 1978, pp. 131, 139; TH. KÄPPELI, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, vol. III, Roma 1980, p. 205; J. ETZWILLER, The Nature of Theological Knowledge According to Paulus of Perugia O. Carm. (m. 1344), in «Carmelus», 34 (1987), pp. 135-175; M. LAARMANN, s. v. in W. KASPER (a cura di), Lexikon für Teologie und Kirche, Freiburg i. B. 1993-20013, vol. VII, col. 1526.

PAOLO PERSIANO (Paolo di Bassora; Paolo Paolo Persiano di Nisibi). – Nestoriano, fiorì verso il 570; ha composto un trattato sulla logica aristotelica in persiano, oppure in siriaco, dedicato a Cosroe, re di Persia. G. Furlani BIBL.: A. BAUMSTARK, Geschichte der syrischen Literatur mit Ausschluss der christlich-palästinensischen Texte, Bonn 1922, p. 121; ripr. Berlin 1968; K. GEORR, Les Catégoriesd’Aristote dans leurs versions syro-arabes, Beirut 1948, pp. 15-16.

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Paolo Veneto PAOLO VENETO. – Paolo Nicoletti Veneto, Paolo Veneto dell’Ordine eremitario di Sant’Agostino (n. a Udine nel 1369, m. a Padova nel 1429) studiò a Padova e Oxford. Insegnò a Padova, Siena, Perugia, e ancora Padova. Tra le sue opere: Logica Parva (Venetiis 1544); Logica Magna (Venetiis 1499; è in corso l’ed. critica a cura della British Academy); Summa naturalium, del 1408 (Venetiis 1503); commento alla Fisica, del 1409 (Venetiis 1499); commento al De anima (1415-20 ca.; Venetiis 1504); Quaestio de universalibus e commento alla Metafisica (1420-24 ca.; mss.); i commenti a Isagoge, Categorie e Liber sex principiorum, del 1428 (Venetiis 1494). Paolo Veneto è il più importante pensatore italiano della fine del Medioevo. Le sue teorie filosofiche, culminanti in una metafisica delle essenze che sancisce il primato ontologico e gnoseologico delle nature universali rispetto ad ogni altro tipo di entità, possono considerarsi come il risultato finale dell’intera tradizione realista medievale. Egli portò infatti a compimento la nuova forma di realismo avviata da Wyclif e perfezionata dai suoi seguaci oxoniensi alla fine del Trecento; rinnovò gli attacchi di W. Burley alle concezioni di stampo nominalista (nelle sue opere spesso critica le principali tesi sostenute da Ockham, Buridano e Marsilio di Inghen); e tenne in considerazione le posizioni più qualificanti del realismo moderato proprio di Alberto Magno, Tommaso d’Aquino ed Egidio Romano, i cui scritti utilizza ampiamente. In effetti Paolo Veneto, sulla scia di Wyclif, riprende criticamente alcune tesi di Duns Scoto e le sviluppa nel senso di un più marcato realismo e di un approfondimento delle conseguenze logicamente derivabili dai suoi principali presupposti metafisici, che egli fa parzialmente suoi: univocità dell’ente, sebbene intesa in senso lato (commento alla Metafisica, op. cit., l. IV, tr. 1, cap. 1; commento all’Isagoge, op. cit., cap. de specie); esistenza reale degli universali, concepiti come nature comuni realmente identiche e formalmente distinte dai propri individui (commento alla Fisica, op. cit., prologo; commento alla Metafisica, op. cit., l. VII; Quaestio de universalibus, op. cit.; commento all’Isagoge, op. cit., prologo; commento alle Categorie, op. cit., cap. de substantia); identità reale e distinzione formale di essenza ed essere (Summa naturalium, op. cit., pars VI, cap. 1; commento alla Metafisica, op. cit., l. IV, tr. 1, cap. 2; l. VI, cap. 1; Quaestio de universalibus, op. cit.; commento alle Categorie, 8276

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op. cit., cap. de substantia); parziale rifiuto della materia come principio di individuazione e sua identificazione in una forma sui generis, simile alla scotista haecceitas, che Paolo Veneto chiama «ratio suppositalis», che contrae la natura specifica, portandola dal piano dell’essere indeterminato a quello dell’esistenza propriamente detta (Summa naturalium, op. cit., pars VI, cap. 5; Quaestio de universalibus, op. cit.; commento all’Isagoge, op. cit., cap. de specie; commento alle Categorie, op. cit., cap. de substantia); distinzione formale (commento alla Metafisica, op. cit., l. V, tr. 2, cap. 3; commento alle Categorie, op. cit., cap. de relativis); divisione della predicazione reale in identica e formale (Summa naturalium, op. cit., pars VI, cap. 2; Quaestio de universalibusi, op. cit.). Sino a non molti anni fa erroneamente considerato un averroista convinto in psicologia e gnoseologia (così Nardi, Ruello, Kuksewicz), Paolo Veneto fu in realtà un aristotelico moderato ed eclettico, lontano dalle posizioni di Averroè su numerosi punti significativi delle teorie dell’anima e della conoscenza: infatti, per quel che concerne l’anima, ammette che essa è forma del corpo; che l’intelletto possibile è moltiplicato nei vari individui umani, con i quali si unisce in qualità di forma essenziale e non semplicemente di principio dell’operare; e che l’intelletto agente è unico per tutti gli uomini e si identifica con Dio stesso (Summa naturalium, op. cit., pars V, capp. 1, 36, 37; commento al De anima, op. cit., l. III, tr. 1; commento alla Metafisica, op. cit., l. XII, tr. 1, cap. 3). Per quel che riguarda la conoscenza, sostiene che ben tre specie intenzionali differenti per tipo sono presenti nei sensi esterni, in quelli interni e nell’intelletto; che l’individuo è per noi oggetto proprio di conoscenza; e che la medesima specie intelligibile che ci fa conoscere l’essenza sostanziale ci fa conoscere anche il singolare che quell’essenza entra a costituire (Summa naturalium, op. cit., pars V, cap. 28; commento al De anima, op. cit., l. III, t.c. 11). A.D. Conti BIBL.: F. RUELLO, Paul de Venise thélogien «averroiste»?, in J. JOLIVET (a cura di), Multiple Averroès, «Actes du Colloque international, Paris, 20-23 septembre 1976», Paris 1978, pp. 257-272; Z. KUKSEWICZ, Paolo Veneto e la sua teoria dell’anima, in L. OLIVIERI (a cura di), Aristotelismo veneto e scienza moderna, «Atti del XXV anno accademico del Centro per la storia della tradizione aristotelica nel Veneto», Padova 1983, vol. I, pp. 130-164; A.R. PERREIAH, Paul of Veni-

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ce: A Bibliographical Guide, «Bibliographies of Famous Philosophers», Bowling Green 1986; A.D. CONTI, Il problema della conoscibilità del singolare nella gnoseologia di Paolo Veneto, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 98 (1992), pp. 323-382; A.D. CONTI, Esistenza e verità: forme e strutture del reale in Paolo Veneto e nel pensiero filosofico del tardo Medioevo, «Nuovi studi storici»,vol. XXXIII, Roma 1996.

PAP, Pap ARTHUR. – Epistemologo, n. a Zurigo nel 1921, m. negli Stati Uniti nel 1959. Emigrato negli Stati Uniti all’età di 19 anni, compì i suoi studi prima alla Columbia University e poi a Yale, dove fu allievo di E. Cassirer. Progressivamente prese le distanze dall’idealismo e dal neokantismo cassireriano, avvicinandosi alla filosofia analitica e all’empirismo di tipo neopositivistico. Si addottorò con Th. Nagel, discutendo la tesi dal titolo The A priori in Physical Theory (New York 19682 [1946]), dove si propone di difendere un’«interpretazione funzionale dell’a priori» fortemente influenzata dalle idee di C.I. Lewis, di J. Dewey e di V. Lenzen. Nella formulazione e nello sviluppo delle teorie fisiche quelli che a un certo stadio evolutivo si danno come «risultati dell’esperienza» si trasformano in uno stadio successivo in «“condizioni costitutive” dell’esperienza» stessa (A. Pasquinelli, premessa all’edizione italiana di A. Pap, An Introduction to the Philosophy of Science, New York 1962, tr. it. di G. Mucciarelli - A. Roatti, Introduzione alla filosofia della scienza, Bologna 1967, p. 8). Insegnò a Chicago, dove entrò in contatto con R. Carnap. Dopo un periodo trascorso in Europa, fu chiamato a insegnare a Yale. Appartengono a questi anni le sue opere più ampie e più note: Analytische Erkenntnistheorie (Wien 1955); Semantics and Necessary Truth (New Haven 1958); An Introduction to the Philosophy of Science (op. cit.). P. Parrini BIBL.: B. BLANSHARD, Epilogue in A. Pap. An Introduction to the Philosophy of Science, New York 1962, tr. it. G. Mucciarelli - A. Roatti, Introduzione alla filosofia della scienza, Bologna 1967, pp. 13-19; A. PASQUINELLI, premessa all’edizione italiana di An Introduction to the Philosophy of Science, New York 1962, tr. it. di G. Mucciarelli - A. Roatti, Introduzione alla filosofia della scienza, Bologna 1967, pp. 7-11.

PAPADÓPULOS, CHRISTOS . – Pensatore Papadópulos greco, n. ad Adrianopoli nel 1835, m. ad Atene nel 1906.

Papanutsos Compie gli studi filosofici in Germania e successivamente insegna a lungo nella scuola teologica del Patriarcato di Costantinopoli, diventando, dal 1881 fino alla morte, ordinario di filosofia all’università di Atene. Seguace della scuola herbartiana, cui era stato iniziato da M.W. Drobisch a Lipsia, Papadópulos ne diffonde le teorie senza particolare originalità. Opere (in greco): Psicologia empirica, Atene 1887; Elementi di logica, ivi 1888; Dell’imitazione, ivi 1898; Etica filosofica, ivi 1901. F. Weber

PAPANUTSOS, EVANGHELOS. – filosofo grePapanutsos co (Pireo 27 lug. 1900 - Atene 2 magg. 1982). Dopo aver studiato filosofia e teologia ad Atene, in Germania (Berlino e Tubinga) e Parigi, insegnò filosofia nell’Athenaion, libero istituto superiore di Atene e ricoprì diverse cariche istituzionali, soprattutto nell’ambito dell’istruzione; fu anche deputato (1974-77) e dottore onorario di diritto dell’università di St. Andrews (1965). Si interessò molto di pedagogia e fu co-fondatore (1952) e direttore della rivista «Paideia e Vita». In ambito filosofico ebbe molteplici interessi, riassunti sotto un punto di vista che definì «critico», ossia basato sul criterio autonomo della ragione e su un metodo dialettico di conoscenza: costitutiva è la dualità (essere-conoscenza, natura-storia, a priori - a posteriori, dogmatismo-relativismo ecc.) da risolvere in una sintesi che converta l’opposizione in complementarietà, con un continuo movimento dall’uno all’altro dei poli antitetici, secondo l’aspirazione umana di dare ordine all’incoerente flusso del reale. La filosofia, che in senso lato è ricerca dei principi fondanti le varie sfere della realtà e comporta la divisione in discipline determinate, nel suo senso più stretto è la triplice indagine: estetica, etica e gnoseologica. Arte, morale e scienza sono, infatti, le tre attività dello spirito e le modalità di affermazione dell’uomo nella sua conquista, mai definitiva, della libertà spirituale. Insieme con esse la religione, che trascende le capacità teoretiche e i cui valori sfuggono al sapere, e su cui quindi una filosofia critica non può pronunciarsi. La religione è però insostituibile, perché esprime l’aspirazione alla santità, necessario coronamento dell’attività dello spirito. Opere principali (tutte in greco, laddove non citate in originale) sono: La filosofia di H. Bergson, Alessandria 1924; Das religiöse Erlebnis bei Platon, Tubingen 1926; In8277

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Pape-Carpentier troduzione alla filosofia della religione, Alessandria 1927; Elementi di psicologia, ivi 1940; Il mondo dello spirito, vol. I: Estetica, ivi 19563, vol. II: Etica, ivi 19562; vol. III: Gnoseologia, ivi 19733; La «catharsis» des passions d’après Aristote, ivi 1953; Filosofia e pedagogia, ivi 1958; Istruzione: il nostro problema principale, Atene 1976; La crisi della nostra civiltà, ivi 1978; Ephemera, Presente e passato, ivi 1980. F.V. Tommasi BIBL.: G.P. HENDERSON, Evanghelos P. Papanutsos, Boston 1983; N. GEORGOPOULOS, Arts and Emotion: The Aesthetics of Evanghelos P. Papanutsos, New York - Bern 1989.

PAPE-CARPENTIER, MARIE. – Educatrice Pape-Carpentier francese, n. a La Flèche (Sarthe) il 10 sett. 1815, m. a Parigi il 30 lug. 1878. Cooperò allo sviluppo dei metodi didattici ed educativi fondati sull’intuizione. Applicò i principi di Pestalozzi agli asili da lei diretti e, nel 1867, tenne alla Sorbona cinque conferenze sul «metodo naturale», per estendere tali principi anche alla scuola primaria. In esse Pape-Carpentier precorre la teoria dei centri di interesse di Decroly, come appare dagli argomenti trattati: 1) le lezioni di cose; 2) un es.: il pane; 3) un altro es.: il vestito; 4) i bisogni, il disegno; 5) un ultimo es.: la casa. M. Sancipriano BIBL.: Conférences pédagogiques faites aux instituteurs réunis à la Sorbonne, Paris 1867, tr. it. di C. Gargiolli, Del metodo naturale, Firenze 1879; Conseils pour la direction des salles d’asile, Paris 1845. Scrisse anche opere per i bambini, indugiando talvolta in spiegazioni simboliche. Su Pape-Carpentier: F. GUEX, Histoire de l’instruction et de l’éducation, Lausanne 1906, tr. it. di G. Vidari, Storia dell’istruzione e dell’educazione, Torino 1924, vol. II, pp. 180-184.

PAPI, Papi FULVIO. – Filosofo e romanziere, n. a Trieste il 16 ag. 1930. Allievo di A. Banfi ed erede della sua prospettiva di «razionalismo critico», docente di Filosofia teoretica all’università di Pavia, ha dato luogo a una sintesi di temi provenienti dal neokantismo di E. Cassirer, dallo storicismo hegelo-marxista e dalla fenomenologia husserliana. Ha identificato il compito della filosofia nella ricostruzione dei caratteri di razionalità intrinseci alle pratiche culturali dell’uomo, siano esse scientifiche, artistiche o politiche. Questo compito va perseguito, da un lato, attraverso 8278

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l’analisi di struttura e procedimenti delle singole pratiche, dall’altro, attraverso la riflessione della filosofia sulla propria stessa pratica. Per il primo aspetto, Papi ha svolto ricerche sull’espressione artistica, in particolare in poesia e nell’arte figurativa, e ha prodotto romanzi, novelle e testi teatrali. Per il secondo aspetto, ha messo al centro il concetto di pratica, inteso – con espressione ispirata al modo della creazione artistico-figurativa – come «configurazione di mondo» da parte dell’uomo. La «configurazione di mondo», che consiste essenzialmente in un’opera di scrittura, si costruisce sempre attraverso l’articolazione di una determinata esperienza del tempo, anche laddove quest’ultima non assuma le modalità di quella storica. S. Borutti BIBL.: opere principali: Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno, Firenze 1968; La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte, Milano 1992; Teoremi di stelle truccate, Como 1993; Il sogno filosofico della storia. Interpretazioni sull’opera di Marx, Milano 1994; Philosophia imago mundi, Comano 1994; La passione della realtà, Milano 1998; Figure del tempo, Milano 2002. Su Papi: C. SINI - M. MOCCHI, Problemi teorici della ricerca filosofica in Italia, in L. GEYMONAT (a cura di), Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. XI, Milano 1996, cap. V, § VII; S. BORUTTI (a cura di), Memoria e scrittura della filosofia, Milano 2000, parte I.

PAPIAS. – Grammatico dell’XI secolo, forse Papias pavese. Secondo alcuni il nome sarebbe da connettere all’origine pavese, secondo altri, invece, sarebbe adattamento del greco demotico medievale «pappías», «papías», «zio» e in senso lato «istitutore», «precettore». È autore del Vocabularium o Elementarium doctrinae rudimentum, composto intorno al 1053, nel quale raccoglie locuzioni o frasi di prevalente contenuto filosofico e giuridico, tratte particolarmente dagli autori cristiani presenti in manuali o enciclopedie tardo antiche e carolinge. L’opera fu molto diffusa (fra le stampe, Venezia 1474, Milano 1476 [ripr. Venezia 1491; Torino 1966]). A oggi non esiste ancora una edizione critica moderna dell’intera opera, che viene letta nelle edizioni cinquecentesche: dell’edizione a cura di V. de Angelis (Milano 1977-80, Testi e documenti per lo studio dell’antichità, 58) sono usciti i primi volumi. C. Vasoli - A. Ghisalberti Colombo BIBL.: G. MANACORDA, Storia della scuola in Italia, Palermo 1916, vol. I, pp. 247-250; M. MANITIUS, Geschi-

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chte der lateinischen Literatur des Mittelalters, «Handbuch der klassischen Altertums-Wissenschaft in systematischer Darstellung», vol. IX, tt. 1-2, München 1923-31, vol. I, pp. 134, 137; vol. II, pp. 717-724; vol. III, pp. 191 ss.; ripr. 1959.

PAPIN, ISAAC. – Teologo, n. a Blois il 27 mar. Papin 1657, m. a Parigi il 19 giu. 1709. Studiò filosofia a Ginevra, allievo del cartesiano Chouet, e teologia ad Orléans, sotto la guida dello zio Claude Pajon, condividendone le tesi sulla grazia e la tolleranza religiosa. Scrisse La vanité des Sciences, ou Réflexions d'un philosophe chrétien sur le véritable bonheur (Amsterdam 1688), La Foi réduite à ses véritables principes et renfermée dans ses justes bornes (Rotterdam 1687) e gli Essais de Théologie sur la Providence et la Grâce (ivi 1687). Muovendo dal confronto critico con le dottrine di Cartesio, Malebranche e Spinoza, cercò di mostrare l’accordo tra conoscenza metafisica e fede religiosa. La convinzione della razionalità della fede cristiana e la fiducia nell’uso della metafisica in questioni teologiche lo sorressero nel ripensamento delle dottrine calvinistiche: contro le tesi volontaristiche di alcuni teologi (Pierre Jurieu in particolare) affermò il ruolo primario dell’intelletto nelle scelte umane e rivendicò il valore della libera indagine razionale in campo religioso. Le sue tesi furono condannate al sinodo di Bois-le-Duc. Convertitosi nel 1690, compose numerosi scritti in favore del cattolicesimo. Fu pubblicato postumo il Recueil des ouvrages composés par le feu M. Papin en faveur de la religion (Paris 1723). E. Rapetti BIBL.: R. ZUBER, Spinozisme et tolérance chez le jeune Papin, in «Dix-huitième siècle», 4 (1972), pp. 217227; R. ZUBER, Isaac Papin lecteur de Spinoza, in «Bulletin de l’Association des Amis de Spinoza», 11 (1983), pp. 1-14; M.C. PITASSI, L’écho des discussions métaphysiques dans la correspondance entre Isaac Papin et Jean Le Clerc, in «Revue de Théologie et de Philosophie», 114 (1982), pp. 259-275; L. SIMONUTTI, Questioni di filosofia nel carteggio di due teologi protestanti: Jean Leclerc e Isaac Papin, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia», serie III, vol. XII, 1 (1982), pp. 269-358; M. SINA, Metafisica cartesiana e teologia nell’epistolario di Jean Le Clerc, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 93 (2001), pp. 167-190; M. SINA, Metafisica e teologia in alcune lettere inedite di Isaac Papin, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 94 (2002), pp. 89134 e 491-558.

Papini PAPINI, GIOVANNI. – Letterato, poeta e filoPapini sofo italiano, n. il 9 genn. 1881 a Firenze, m. ivi l’8 lug. 1956. Di famiglia modesta, si diplomò come maestro. Critico del positivismo e del ristagno in cui gli sembrava giacere l’accademia italiana, promosse un’opera di ringiovanimento della cultura. Influenzato da Bergson, Pareto e Nietzsche, aderì inizialmente al pragmatismo e, rifiutando ogni forma di pensiero schematico, propugnò una filosofia dell’azione con elementi volontaristici o persino di irrazionalismo. Partecipò in questa fase a movimenti d’avanguardia e collaborò a diverse riviste: fondò con l’amico Prezzolini e altri (1903) il «Leonardo», con Amendola (1911) «L’anima» e assieme a Soffici (1913) «Lacerba», con la quale aderì all’interventismo (anche se aveva rifiutato il nazionalismo «militaresco» e «commerciale») e al futurismo (ma si distaccherà presto da Boccioni e Marinetti: cfr. L’esperienza futurista, Firenze 1919); nel frattempo era stato redattore de «Il Regno» di Corradini e direttore de «La Voce». Rivestì quindi un ruolo di primo piano nella cultura italiana di inizio novecento, che in Firenze trovava un centro attivissimo. Polemista vigoroso, di questo periodo sono testimonianza: Il crepuscolo dei filosofi (Milano 1906), Parole e sangue (Napoli 1912), Un uomo finito (Firenze 1913), Stroncature (ivi 1916), Polemiche religiose (Lanciano 1917). Questi testi, spesso autobiografici, presentano uno stile acceso, con un forte gusto del paradosso e del fantastico; si trovano però anche punte «strapaesane» e di riflusso malinconico. Costante è comunque l’insoddisfazione per la realtà, cui si aggiunge quella per la mancanza di un criterio di oggettività. Papini si convertì poi al cattolicesimo (cfr. Storia di Cristo, Firenze 1921), e trasferì nelle opere ispirate dalla fede il suo tono oratorio, non privo però di vene di lirismo (cfr. Pane e vino, Firenze 1929; S. Agostino, ivi 1929; Gog, ivi 1931; Dante vivo, ivi 1933; Il diavolo, ivi 1953; La felicità dell’infelice, ivi 1956; Il giudizio universale, ivi 1957, postumo). Aderì inoltre al fascismo e dopo aver partecipato alla rivista cattolica «Frontespizio» (dal 1927), fu professore di Letteratura italiana a Bologna (1935), ma dovette rinunciare per la mancanza di vista (più tardi perse anche la parola e la mobilità, ma non smise mai di lavorare); Accademico d’Italia (1937), diresse (193844) il nuovo Istituto nazionale di studi sul Rinascimento con la annessa rivista «La Rinascita». 8279

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Papirologia Dopo la guerra tenne la rubrica Schegge sul Corriere della sera. Molto noto e apprezzato anche all’estero, ha curato o tradotto opere di Bergson, Berkeley, Bruno, Galilei, Campanella, Guicciardini, James, Sarpi, Verri. L’epistolario con Prezzolini è nei due voll. di Storia di un’amicizia (Firenze 1966-68), mentre il Carteggio generale è in quattro volumi (Roma 1999-2003). L’opera completa è raccolta in dieci volumi (Tutte le opere di Giovanni Papini, Milano 1959-66). C. Bo, in Io Papini (Firenze 1967), ha curato un’antologia di suoi scritti. F.V. Tommasi BIBL.: V. HORIA, Giovanni Papini, Roma 1972; M. ISNENGHI, Papini, Firenze 1972; S. GENTILI (a cura di), Giovanni Papini: atti del convegno di studio nel centenario della nascita, Milano 1983; R. RIDOLFI, Vita di Giovanni Papini, Roma 1987; S. GENTILI - G. MANGHETTI (a cura di), Inventario dell’archivio Papini, Roma 1998; C. DI BIASE, Giovanni Papini: l’anima intera, Napoli 1999.

PAPIROLOGIA (papyrology; Papyruskunde; Papirologia papyrologie; papirología). – Scienza nata nel XIX secolo in seguito alla scoperta in Egitto – e alla pubblicazione – di documenti in lingua greca, e in minor misura latina, risalenti al periodo compreso fra la metà del sec. IV a. C. e il sec. IX d. C. Il materiale scrittorio prevalente è la carta di papiro, ma si trovano anche scritti su cocci (ostraca), tavolette lignee, pergamene, stoffe. Sono stati editi finora decine di migliaia di pezzi e moltissimi ancora attendono di essere pubblicati. Si tratta per la maggior parte di documenti relativi alla vita quotidiana (petizioni, contratti, ricevute di tasse, lettere private, conti ecc.) e all’amministrazione tolemaica, romana e bizantina, ritrovati sia in villaggi abbandonati nell’antichità e ricoperti dalle sabbie del deserto, sia nelle tombe, non solo come corredo funebre, ma soprattutto nei cartoni che rivestivano le mummie, per i quali si utilizzavano papiri scritti da cestinare. Il clima secco dell’Egitto ne ha permesso la conservazione. In minor misura sono stati ritrovati papiri anche in zone con clima simile a quello egiziano: Dura Europos (antica Mesopotamia), Palestina, Petra (Giordania) e Qasr Ibrim (Nubia). Al materiale in lingua greca, finora predominante (il greco fu in Egitto la lingua ufficiale dalla conquista macedone alla conquista araba), si aggiungono testi in altre lingue: egizia8280

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na (geroglifico, ieratico, demotico, copto), ebraica, aramaica, siriaca, nubiano-meroitica, pehlevi e araba. Una piccola parte del materiale (circa un decimo del totale) è costituita da papiri di carattere dotto, testimonianza della cultura nei piccoli centri dell’Egitto. Più antichi dei manoscritti medievali, e alcuni addirittura anteriori alla revisione dei testi letterari operata dai grammatici alessandrini, i papiri letterari hanno conservato, fra gli autori noti, soprattutto Omero (Iliade più dell’Odissea), Esiodo, Euripide, Demostene. Alcuni autori ci sono giunti solo attraverso i papiri d’Egitto: Alcmane, Bacchilide, Timoteo, Menandro ed Eronda; di altri autori i papiri hanno conservato opere non pervenute attraverso la tradizione medievale, fra cui Pindaro (poesia religiosa), Aristotele (Athenaion politeia), Callimaco (Aitia). Per quanto riguarda più particolarmente i papiri di argomento filosofico, è in preparazione un Corpus dei papiri filosofici greci e latini (CPF), di cui sono già stati editi a Firenze alcuni volumi: Testi e lessico nei papiri di cultura greca e latina, parte I: Autori noti, vol. 1* (1989), 1 ** (1992), 1*** (1999), in due tomi; parte III: Commentari (1995); parte IV: 1. Indici, I. 1 (2002); parte IV: 2. Tavole (2002). Prima della scoperta e della pubblicazione dei papiri d’Egitto, si conoscevano già i papiri semicarbonizzati di Ercolano, ritrovati a partire dal 1752 e contenenti testi di Epicuro e della sua scuola (principalmente Filodemo di Gadara). In Egitto si sono conservati soprattutto testi relativi a platonismo, aristotelismo, stoicismo, neoplatonismo pagano e cristiano, e a due dottrine eretiche diffuse nel cristianesimo egiziano: manicheismo e gnosticismo (a Nag Hammadi furono scoperti in una giara ben tredici codici contenenti opere gnostiche in copto). Un elenco aggiornato dei papiri letterari è disponibile sui siti internet dell’università di Liegi (Cedopal) e dell’università di Lovanio (LDAB – Leuven Database of Ancient Books). C. Balconi BIBL.: E.G. TURNER, Greek Papyri, Oxford 1968, ed. it. a cura di M. Manfredi, Papiri greci, Roma 20042; O. MONTEVECCHI, La Papirologia, Milano 19882; M. CAPASSO, Manuale di papirologia ercolanese, Galatina (Lecce) 1991; H.-A. RUPPRECHT, Kleine Einführung in die Papyruskunde, Darmstadt 1994, ed. it. a cura di L. Migliardi Zingale, Introduzione alla Papirologia, Torino 2000.

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[Par] PARABOLA (gr. parabolhv, da parabavllw, Parabola «pongo accanto, a confronto»). – Nella Rhetorica di Aristotele, la parabola o «paragone» rientra negli argomenti comuni di persuasione, e precisamente nella classe dell’«esempio» (paravdeigma), accanto al fatto storico e all’apologo o favola (ajpovlogo"; Rhet., II, 20). Aristotele ricorda i paragoni socratici, esempi tratti dalla vita quotidiana e da lui utilizzati nei ragionamenti, quale il seguente: i magistrati non devono essere estratti a sorte, così come atleti e piloti non si sorteggiano, ma si scelgono accuratamente in base alla capacità. La parabola, come pure la favola, secondo Aristotele, persuade meno dell’esempio storico, ma può essere costruita come si vuole, purché si sappiano cogliere i rapporti che uniscono realtà diverse, abilità che la filosofia aiuta ad acquisire. Aristotele raccomanda inoltre di non usare gli esempi da soli, se non in mancanza di meglio, poiché non hanno di per sé un valore dimostrativo. Essi equivalgono, infatti, a induzioni, che, in materia non teoretica, non portano a conclusioni certe, date le istanze in contrario che possono sempre sorgere dalla varietà dei casi umani. Gli esempi, piuttosto, e quindi le parabole, funzionano perfettamente come conferme di argomenti di ragione, avendo valore di testimonianze, le quali hanno sempre notevole forza probativa. Anche un solo esempio basta, se supporta un argomento di ragione, così come basta un testimone degno di fede; se invece sono i soli ad essere usati, è necessario apportarne più d’uno. Nella tradizione cristiana, le parabole evangeliche, che esprimono verità etiche e teologiche per mezzo di situazioni e fatti presi dalla vita quotidiana, esempi appunto, sono alla base delle interpretazioni patristiche, più o meno allegoriche, lungo i secoli. Ad es., nell’esegesi di Giovanni Crisostomo, la parabola è intesa come una similitudine, un discorso figurato o una prefigurazione, insomma come una forma di narrazione enigmatica e difficile in quanto finalizzata a scuotere l’ascoltatore (cfr. S. Zincone, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», 20, 1996, pp. 685-690).

Dalla latinizzazione del greco, parabola, derivò l’italiano parola, e da parabolare l’italiano parlare (cfr. M. Van Uytfanghe, in G.J.M. Bartelink A. Hilhorst - C.H. Kneepkens [a cura di], Eulogia: mélanges offerts à Antoon A.R. Bastiaensen à l’occasion de son soixante-cinquième anniversaire, Steenbrugge - The Hague 1991, pp. 385-393). Parabola può anche assumere, in latino, il significato di «indovinello», come accade nella Historia Apollonii regis Tyri, cap. 41 (C. Braidotti, in «Scholia» 4, 2002, pp. 9-19). I. Ramelli BIBL.: V. FUSCO, Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, Roma 1983; R. FICARRA, La parabola del fattore infedele in Gaudenzio da Brescia, in «Annali di Storia dell’Esegesi», 12 (1995), pp. 347-359; E. SCHWEIZER, Gesù, la parabola di Dio, tr. it. di G. Montaldi, Brescia 1996; M.-L. RIGATO, «Mosè e i profeti» in chiave cristiana, in «Rivista Biblica» 45 (1997), pp. 143-177.

PARACELSUS (pseudonimo di Philippus AuParacelsus reolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim). – Chimico, medico, filosofo della natura, cosmologo, teologo, occultista, n. a Eiensiedeln nel 1493 ca. (o l’1 magg. 1494?), m. a Salisburgo, il 24 sett. 1541. Paracelso fu personaggio complesso e ambiguo che ha esercitato un enorme fascino non solo sui suoi contemporanei, ma anche sugli storici, che hanno espresso in proposito i pareri più discordi, chi facendone un grande filosofo mistico, un grande naturalista e il primo sistematore della chimica, chi invece definendo la sua opera oscura, superstiziosa e priva di ogni valore scientifico. Attualmente è al centro di un processo di revisione delle interpretazioni sulla nascita della scienza moderna che alcuni studiosi (Pagel, Yates, Webster) stanno tentando basandosi sull’analisi della persistenza durante tutto il XVII secolo di temi di derivazione paracelsiana anche in personaggi assolutamente centrali nella genesi della scienza moderna, come Newton. In Paracelso si vede un pensatore che ha avuto un’influenza assai duratura, ma non solo questo: con la sua furiosa battaglia contro la cultura del passato 8285

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Paracelsus egli avrebbe dato inizio alla «rivoluzione scientifica», in particolare criticando a fondo la medicina galenica. Figlio di un medico che dal 1502 praticò la professione a Villach, in Carinzia, centro minerario e metallurgico che costituì una palestra educativa di grande importanza per lui, Paracelso dall’età di 15 anni iniziò a muoversi per l’Europa, studiando medicina in varie università dell’Austria e della Germania e, forse, completò i propri studi accademici addottorandosi a Ferrara nel 1515. Per un decennio viaggiò ancora molto, mettendo a rischio la propria fama di medico con la pratica della disprezzata chirurgia nelle armate di Carlo V. Quando nel 1512 si stabilì a Strasburgo per praticare la medicina era circondato dalla fama di essere un mago. Tuttavia, chiamato a consulto a Basilea, salvò la vita dell’influente umanista Johannes Froben, cosa che gli valse anche l’amicizia di Erasmo e, grazie a queste due influenti personalità, ottenne il posto di medico municipale e professore di medicina a Basilea. Questa sistemazione durò poco: le lezioni tenute in tedesco anziché in latino, il rifiuto delle teorie canoniche di Avicenna e Galeno, la denuncia dei farmacisti, il rogo pubblico dei lavori di Avicenna gli attirarono molte antipatie e alla morte dei suo protettore Froben dovette lasciare la città. Dal 1528 fino alla morte si spostò in continuazione, terminando la propria vita errabonda a Salisburgo, probabilmente a causa di un cancro, forse per avvelenamento da metalli. Scrisse molti libri su argomenti svariati ruotanti attorno al tema unificante del rapporto tra uomo (microcosmo) e natura (macrocosmo). I più importanti sono Archidoxis (1524 ca.), Opus paragranum (1529 ca.), Opus paramirum (1530 ca.), Philosophia sagax (1536 ca.), Labyrinthus medicorum (1538). Negli scritti di Paracelso si manifesta una grande passione per il nuovo, una furia iconoclasta per il vecchio, una grande fiducia nell’esperienza mistica quale rivelatrice di verità. Egli attacca esplicitamente la ragione opponendole la magia, la chiave d’accesso ai segreti dell’esperienza; la magia ha il potere di sperimentare e immaginare cose inaccessibili alla ragione umana, è una grande saggezza segreta e ingiuste e senza fondamento alcuno sono le accuse di stregoneria. Tuttavia la filosofia di Paracelso è una combinazione di tradizionalismo e di innovazione. I suoi elementi 8286

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medioevali sono individuabili nell’alchimia e nella cabala, con i loro legami con il neoplatonismo ellenistico, il pensiero ermetico e lo gnosticismo. Queste tradizioni occultistiche condividono il concetto di creazione attraverso la decomposizione, la credenza in un universo bisessuale, omogeneo, ilozoistico, una teoria ciclica del tempo, tutti temi che si ritrovano in Paracelso. La sua visione della natura combinava i quattro tradizionali elementi aristotelici con i tre principi chimici del sale (solidità), dello zolfo (infiammabilità, malleabilità) e del mercurio (fluidità, densità e natura metallica). Sale, zolfo e mercurio rappresentavano anche le tre componenti metafisiche di ogni corpo esistente: corpo, anima e spirito. I metalli avevano una speciale importanza poiché da essi si potevano separare con facilità gli elementi. L’alchimia medioevale impiegava la mitologia semitica e greco-romana come uno schermo per escludere i non illuminati e come mezzo di comunicazione comprensibile solo agli adepti. Paracelso si considerava un adepto, ma abbandonò la tradizione esoterica eliminando la maggior parte del simbolismo mitologico e cercando di compiere un’opera di chiarificazione delle idee alchemiche. La sua opera alchemica è ricca di riferimenti alla pratica tecnologica e per molti aspetti si presenta come un tentativo di fornire strumenti teorici e pratici all’attività industriale nel campo minerario e metallurgico. In quanto cabalista e alchimista, Paracelso credeva che la decomposizione fosse l’inizio di ogni nascita. La natura emerge mediante separazioni: innanzitutto la materia prima si separa dalla materia ultima (chiamata anche yliaster o mysterium magnum) che è eterna e, paradossalmente, immateriale. Dio ha separato dall’ultima materia la prima, materia degli oggetti individuali, una matrice acquosa che feconda continuamente la natura, perennemente riconvertibile in materia ultima. L’attività umana nell’arte alchemica o in farmacologia ripete l’atto primario, l’uomo, simile a Dio, opera separando piuttosto che combinando. L’alchimia è l’arte di portare alla fine ció che alla fine non è giunto, di estrarre i metalli dai loro minerali, di completare l’opera di Dio in quanto in natura nulla vi è di pienamente fatto. L’alchimista porta a compimento l’opera di Dio conducendo la materia alla sua forma ultima tramite le varie procedure di distillazione, riverberazione, sublimazione ecc.,

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prepara l’impuro attraverso il fuoco e lo rende puro. Paracelso era convinto che lo studio del microcosmo uomo permettesse lo studio dell’universo, per una piena corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo. Chiamava lo studio della natura e della medicina «astronomia» e sosteneva che ogni medico fosse un astronomo, cioè che studiasse gli astri. Con questo termine egli non designava tanto i corpi celesti e le loro influenze sugli oggetti sublunari (così importanti nella tradizione astrologica), ma piuttosto le virtù essenziali e le funzioni di oggetti individuali e le loro corrispondenze con tutti i regni della natura, comprese le stelle. In medicina Paracelso rovesciò la tradizionale concezione di malattia fondata sul bilanciamento e lo sbilanciamento o la putrefazione degli umori, sostanzialmente dovuta a cause interne dipendenti dalla costituzione dell’individuo. Paracelso sottolineò l’importanza delle cause esterne della malattia, la sua localizzazione tanto nel mondo esterno quanto nel corpo. Egli vedeva le cause delle malattie risiedere principalmente nel mondo minerale e nell’aria; la malattia era portata da enti reali, la stessa malattia era un ente, determinata da agenti specifici esterni al corpo che prendono possesso di una delle sue parti. La sua nuova idea di malattia lo portò a nuovi modi di terapia, diretti specificatamente contro gli agenti del morbo. R. Maiocchi BIBL.: per le opere di Paracelso, cfr.: K. SUDHOFF, Theophrast von Hohenheim, genannt Paracelsus Sämtliche Werke, München 1922-33, 14 voll.; indice di quest’opera in M. MÜLLER, Registerband zu Sudhoffs Paracelsus Gesamtausgabe, Einsiedeln 1960; A.E. WAITE, The Hermetic and Alchemical Writings of Aureolus Philippus Theophrastus Bombast of Hohenheim, Called Paracelsus the Great, London 1894, 2 voll. Su Paracelso: K. SUDHOFF, Paracelsus: ein deutsches Lebensbild aus den Tagen der Renaissance, Leipzig 1936; F. JAEGER (a cura di), Theophrastus Paracelsus (1493-1541), Salzburg 1941; K. BITTEL, Echte und unechte Paracelsus-Bildnisse, «Paracelsus-Dokumentation», vol. B1, Stuttgart 1942; F. PARENTI, Paracelso: medico e magia, Milano 1962; K.-H. WEIMANN, Paracelsus-Bibliographie 1932-1960, «Kosmosophie», vol. II, Wiesbaden 1963; W. PAGEL - P. RATTANSI, Vesalius and Paracelsus, «Filosofia della scienza», vol. XXIV, Torino 1966; A.G. DEBUS, The English Paracelsians, «Oldbourne History of Science Library», London 1965; S. BALOSSI, Paracelso, «Scientia veterum»,

Paradigma vol. CIII, Pisa 1967; W. PAGEL, Paracelsus, in C. COULSTON GILLISPIE (a cura di), Dictionary of Scientific Biography, vol. X, New York 1974, pp. 304-313; W. PAGEL, Paracelsus: An Introduction to Philosophical Medicine in the Era of the Renaissance, Basel-New York 19822, tr. it. di M. Sampaolo, Paracelso: un’introduzione alla medicina filosofica nell’età del Rinascimento, «La cultura», vol. XCIII, Milano 1989; P. MANOLINO, Paracelso: alchimista, medico, mago, «Mondi sconosciuti», vol. XIII, Padova 1984; S.C. WEBSTER, From Paracelsus to Newton: Magic and the Making of Modern Science, «The Eddington Memorial Issue», 1980, Cambridge 1984, tr. it. di P. Corsi, Magia e scienza da Paracelso a Newton, «Intersezioni», vol. VII, Bologna 1989; M.L. BIANCHI, Signatura rerum: segni, magia e conoscenza da Paracelso a Leibniz, «Lessico intellettuale europeo», vol. XLIII, Roma 1987; M.L. BIANCHI, Lessico del Paragranum di Theophrast von Hohenheim detto Paracelsus, «Lessico intellettuale europeo», vol. XLVII, Roma 1988; J. TELLE (a cura di), Parerga paracelsica: Paracelsus in Vergangenheit und Gegenwart, «Heidelberger Studien zur Naturkunde der frühen Neuzeit», vol. III, Stuttgart 1992; E. STAHL, Paracelsus: weisse und schwarze Magie, Wien 1992, tr. it. di F. Frangini, Paracelso: medico, filosofo, mago, «Profili», Genova 1995; S. GOLOWIN, Paracelsus: Mediziner-Heiler-Philosoph, München 1993; P. MEIER, Paracelsus, Arzt und Prophet: Annäherungen an Theophrastus von Hohenheim, Zürich 19933, tr. it. a cura di M.P. Scialdone, Paracelso: medico e profeta. Avvicinamenti a Theophrast von Hohenheim, «Profili», nuova serie, vol. XXVII, Roma 2000; J. TELLE, Analecta Paracelsica, Stuttgart 1994; M.L. BIANCHI, Introduzione a Paracelso, Roma 1995; A.G. DEBUS, Paracelso e la tradizione paracelsiana, «Il pensiero e la storia», Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, vol. XIX, Napoli 1996; M. KUHN, De nomine et vocabulo: der Begriff der medizinischen Fachsprache und die Krankheitsnamen bei Paracelsus, «Germanistische Bibliothek», serie III, «Untersuchungen», vol. XXIV, Heidelberg 1996; H. SCHOTT - I. ZINGER (a cura di), Paracelsus und seine internationale Rezeption in der frühen Neuzeit: Beiträge zur Geschichte des Paracelsismus, «Brill’s Studies in Intellectual History», vol. LXXXVI, Leiden-Boston 1998; O.P. GRELL (a cura di), Paracelsus: the Man and His Reputation, His Ideas and Their Transformation, «Studies in the History of Christian Thought», vol. LXXXV, LeidenBoston-Köln 1998.

PARADIGMA (gr. parav d eigma «modello, Paradigma esemplare» - paradigm; Paradigma; paradigme; paradigma). – È l’idea platonica, che fa da modello originario alle cose sensibili. Ha perciò il medesimo significato di archetipo (cfr. Tim., 5, 28 a, b, c; Resp., IX, 13, 592 b). Paradigma logico 8287

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Paradigmi poi è ogni modello in forma schematica, di cui si vale la didattica per dare al discente una visione rapida e immediata di ciò che è essenziale a un oggetto di studi particolarmente complesso. Nel Novecento il termine ha incontrato una grande fortuna nel campo della riflessione filosofica sulla scienza per via dell’opera di Thomas Kuhn, il quale in The Structure of Scientific Revolutions (Chicago 1962) ha sostenuto una visione dell’impresa scientifica nella quale la nozione di paradigma (che Kuhn ha poi riqualificato come matrice disciplinare) svolge un ruolo centrale. Secondo Kuhn la scienza matura si caratterizza per l’esistenza di un paradigma, ossia un insieme di esempi di effettiva prassi scientifica riconosciuti come validi dalla comunità degli scienziati, esempi che comprendono leggi, teorie, applicazioni e strumenti, e che forniscono modelli che danno origine a particolari tradizioni di ricerca con una loro coerenza. Per chi accetta un paradigma, consapevolmente o meno, i problemi della scienza diventano semplici «rompicapo», poiché il paradigma sembrerebbe assicurare l’esistenza delle soluzioni, e le difficoltà che si incontrano sono attribuite all’incapacità dei ricercatori, non al paradigma. A volte questa attività «normale» di soluzione di rompicapo entra in una situazione di «crisi» in cui diventa eccessiva la pressione di evidenze in contrasto con il paradigma accettato, crisi che può sfociare in una «rivoluzione», ossia nella sostituzione del paradigma dominante con un altro. R. Maiocchi BIBL.: M. BUZZONI, Semantica, ontologia ed ermeneutica nella conoscenza scientifica. Saggio su Thomas Kuhn, Milano 1986; R. LANFREDINI, Oggetti e paradigmi. Per una concezione interattiva della conoscenza scientifica, Roma-Napoli 1988; E. GIORDANO, Tra paradigmi e rivoluzioni. Thomas Kuhn, Soveria Mannelli 1997; A. BIRD, Thomas Kuhn, Princeton 2000.

PARADIGMI. – Rivista fondata da G. SemeParadigmi rari nel 1983, e attualmente diretta da F. Bianco. Segnata in profondità dalla personalità del fondatore, si caratterizza per l’ampiezza degli interessi e per la varietà delle tematiche affrontate. Nell’editoriale del primo numero sono richiamati gli obiettivi fondamentali: 1. la realtà plurale della filosofia, all’insegna di una fondamentale dialetticità; 2. l’interazione e scambio tra ricerca teoretica e storiografica; 3. l’importanza costante del rapporto tra filosofia 8288

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e scienze; 4. l’attenzione alle nuove forme di sapere. Ne consegue l’intenzione programmatica della rivista di divenire palestra di «libere analisi e critiche sperimentazioni di “paradigmi”». Nel corso del tempo si è qualificata anche per l’attenzione dedicata ai rapporti tra università e scuola secondaria. A. Allegra

PARADOSSI CONFERMA. – Paradossi dellaDELLA conferma «Confermare» deriva dal latino confirmare, composto di con- e firmare, che può venire tradotto con «rafforzare». Nel gergo degli scienziati, e piuttosto spesso anche nel linguaggio comune, i termini «conferma» e «confermare» vengono usati con un significato molto vicino alla radice etimologica. Si dice, infatti, che l’evidenza empirica e conferma l’ipotesi h nel caso in cui e rafforza la plausibilità di h, cioè la nostra fiducia che h sia vera, o almeno vicina alla verità. Per riferirci a tale circostanza possiamo utilizzare anche espressioni essenzialmente equivalenti a «e conferma h», quali «e sostiene h», «e corrobora h» ed «e è favorevole ad h». A partire dalle ricerche condotte da Carl G. Hempel (Studies in the Logic of Confirmation, in «Mind», 54, 1945, pp. 1-26 e 97-121, ristampato in Aspects of Scientific Explanation, New York 1965, pp. 3-51, tr. it. di A. Gargani, in Aspetti della spiegazione scientifica, Milano 1986), il concetto di conferma è stato sottoposto ad approfondite analisi, nel tentativo di stabilire esattamente in quali condizioni un’ipotesi viene confermata dall’evidenza empirica. Tali ricerche hanno permesso, fra l’altro, di scoprire che alcuni principi di conferma dotati di grande plausibilità intuitiva conducono a insidiosi paradossi. Qui sotto verrà anzitutto illustrata la funzione del concetto di conferma nell'analisi del metodo scientifico (cap. I). Successivamente, si prenderanno in esame un certo numero di principi di conferma proposti nella letteratura (cap. II). Infine, si considereranno tre importanti paradossi, vale a dire il paradosso della transitività e quello dei corvi, scoperti da Carl G. Hempel (capp. III-IV), e il paradosso degli smeraldi, formulato da Nelson Goodman (capp. V). SOMMARIO: I. La funzione del concetto di conferma nell’analisi del metodo scientifico. - II. Principi di conferma: 1. Principi generali di conferma. - 2. Principi di conferma per le ipotesi universali - III. Paradosso della transitività. - IV.

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Paradosso dei corvi. - V. Paradosso degli smeraldi. I. L A FUNZ IONE DEL CONCETTO DI CONFERMA NELL’ANALISI DEL METODO SCIENTIFICO. – Il concetto intuitivo di conferma appare necessario all’analisi di molti problemi filosofici. Tra questi, Hempel (Studies...) menziona anzitutto il problema della caratterizzazione degli enunciati empirici, cioè dell’individuazione delle caratteristiche specifiche di tali enunciati, che li differenziano da quelli delle scienze formali (logica e matematica) e della metafisica. A tale riguardo, occorre ricordare che, negli anni venti del Novecento, il problema del significato degli enunciati empirici aveva acquisito particolare rilievo nell’ambito del tentativo, attuato dal movimento neoempirista, di comprendere la peculiare natura della conoscenza scientifica, demarcandola sia dalla pseudoscienza sia dalla metafisica. Nel decennio successivo i neoempiristi avviarono la cosiddetta liberalizzazione del criterio verificazionista di significato, che era stato proposto agli esordi del movimento. Nell’ambito delle ricerche ispirate da questo progetto di liberalizzazione, l’attenzione di alcuni fra i maggiori esponenti neoempiristi, a partire da Rudolf Carnap (Testability and Meaning, in «Philosophy of Science», 3, 1936, pp. 419-471, e in «Philosphy of Science», 4, 1937, pp. 1-40), si rivolse al concetto di conferma. Carnap osserva che il problema del significato (in quali condizioni un enunciato è dotato di significato fattuale?) è strettamente connesso al problema della verità (come stabiliamo se un dato enunciato è vero o falso?). Infatti, un enunciato è dotato di significato fattuale solo se possiamo determinarne la verità o la falsità. D’altra parte, non possiamo identificare, in generale, la determinazione della verità o della falsità di un enunciato con la sua verificazione o falsificazione assoluta. Infatti, se per verificazione s’intende una dimostrazione assoluta di verità, allora nessun enunciato universale, quale una legge fisica o biologica, potrà mai essere verificato. L’impossibilità di verificare una legge universale, come la legge di gravitazione, dipende dalla circostanza che, anche se si supponesse verificabile ogni singolo caso della legge, le nostre osservazioni, che sono di numero finito, non potrebbero mai conclusivamente verificare la legge, che si riferisce a un’infinità di potenziali esempi. Mentre non possiamo verificare una legge universale in maniera assoluta, siamo in grado di

Paradossi della conferma controllarla, controllando gli enunciati particolari che derivano dalla legge e da altri enunciati precedentemente stabiliti. Se, nel corso di una lunga serie di controlli, tutti gli enunciati particolari derivati dalla legge vengono verificati e nessuno di essi viene falsificato, allora gradualmente si accresce la nostra fiducia nella legge, cioè si accresce la conferma della legge. Nella prospettiva carnapiana, la nozione di conferma è strettamente connessa a quella di significato empirico, poiché un enunciato è dotato di significato empirico se e solo se è controllabile ed è controllabile se e solo se conosciamo un procedimento osservativo o sperimentale che può consentirci di confermare, o disconfermare, l’enunciato. Ciò significa che le nozioni di controllabilità e significato empirico possono venire precisamente definite sulla base di un’adeguata nozione di conferma. Occorre tuttavia notare che, in Testability and Meaning, Carnap non introduce alcuna nozione formale di conferma, ma si limita ad applicare un concetto qualitativo di conferma, caratterizzato mediante considerazioni informali, nella definizione di svariate altre nozioni, a partire da quelle di controllabilità e significato empirico. Altre due applicazioni del concetto di conferma nell’analisi filosofica, menzionate da Hempel (Studies...), riguardano la chiarificazione della nozione di evidenza rilevante e il tradizionale problema dell’induzione enumerativa. Quello di evidenza rilevante sembra essere un concetto relativo, nel senso che i dati empirici possono definirsi rilevanti o irrilevanti solo con riferimento a una data ipotesi. Più precisamente, possiamo affermare che il risultato sperimentale e è rilevante per l’ipotesi h se e solo se e conferma o disconferma h. Ciò significa che una precisa definizione della nozione di evidenza rilevante presuppone il ricorso alle nozioni di conferma e disconferma. Per quanto riguarda, invece, il problema dell’induzione enumerativa, si deve notare che tale forma di induzione viene comunemente presentata come un metodo che procede da casi specifici a un’ipotesi generale h della quale ciascuno dei casi specifici è un «esempio», nel senso che esso «si conforma» ad h, così da costituire evidenza confermante per h. Ciò significa che il concetto di conferma viene richiesto anche nell’analisi dell’induzione enumerativa. Il tentativo di specificare una nozione formale di conferma non è motivato solo dalle applica8289

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Paradossi della conferma zioni filosofiche della conferma, sulle quali ci siamo appena soffermati, ma anche dall’intrinseco interesse del concetto di conferma, dovuto al fatto che esso viene ampiamente, anche se spesso tacitamente, impiegato nella vita quotidiana e nella pratica scientifica. Il nostro concetto intuitivo di conferma è costituito, in un certo senso, dal complesso di intuizioni circa la conferma che emergono in questi due ambiti. È del tutto ragionevole pensare che tali intuizioni, o almeno gran parte di esse, dovrebbero venire catturate da un’adeguata nozione formale di conferma. Nella pratica scientifica i giudizi circa il carattere confermante o disconfermante dei dati sperimentali ottenuti nel controllo di un’ipotesi vengono spesso effettuati senza esitazione e con un ampio consenso di opinioni. Tuttavia il tentativo di definire un’adeguata nozione formale di conferma è molto meno semplice di quanto potrebbe apparire a prima vista, poiché l’ampio e spesso immediato consenso nel riconoscere il carattere (dis)confermante dell’evidenza empirica per una data ipotesi dipende quasi sempre da criteri intuitivi taciti e inconsapevoli, che vengono raramente formulati in termini generali. Hempel (Studies...) riconosce che non sarebbe privo d’interesse disporre di una nozione «quantitativa» di conferma, in base alla quale stabilire in quale misura un’ipotesi h è confermata da determinati dati e. D’altra parte egli ritiene, non senza ragione, che l’introduzione di una nozione «qualitativa» di conferma costituisca una condizione preliminare anche per l’analisi del grado di conferma delle ipotesi; di conseguenza, in Studies in the Logic of Confirmation, egli analizza unicamente la nozione qualitativa di conferma. Più precisamente, egli si propone di definire il significato delle espressioni «e conferma h», «e disconferma h» ed «e è neutrale nei riguardi di h». Gli studiosi che, a partire da Hempel, si sono occupati della nozione qualitativa di conferma di solito procedono in due tappe. In primo luogo, viene specificato un insieme di condizioni di adeguatezza che dovrebbero venire soddisfatte da qualunque nozione di conferma; tali condizioni – che potremmo chiamare «principi di conferma» – dovrebbero offrire una rappresentazione formale delle nostre intuizioni circa la conferma. In secondo luogo, si tenta di elaborare una definizione di conferma che soddisfi tutti i principi di conferma che sono stati ac8290

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cettati e, in aggiunta, sia caratterizzata dalla massima semplicità. Nel prossimo capitolo ci limiteremo a considerare alcuni fra i più noti principi di conferma introdotti nella letteratura, senza esaminare da vicino nessuna specifica nozione di conferma. Questa scelta è suggerita dal fatto che i paradossi non dipendono da particolari nozioni di conferma, ma vengono generati direttamente dall’adozione di un determinato insieme di principi di conferma che, presi uno a uno, appaiono del tutto plausibili. II. PRINCIPI DI CONFERMA. – Considereremo dapprima alcuni principi generali di conferma, applicabili a qualunque tipo di ipotesi (§ 1), e poi alcuni principi di conferma per le ipotesi universali, applicabili a ipotesi del tipo «Tutti gli A sono B» (§ 2). Nella formulazione e nell’esame dei principi di conferma converrà indicare i connettivi «non», «e», e «oppure» con i consueti simboli logici vale a dire, rispettivamente, con « ¬ », « ∧ », e « ∨ ». Così, per esempio, dati gli enunciati a e b, « ¬a » starà per «non a» (cioè «Non si dà il caso che a»), « a ∧ b » per «a e b» e, infine, « a ∨ b » per «a oppure b». Si noti che « ∨ » va interpretato in senso inclusivo, cosicché « a ∨ b » è falso nel caso in cui sia a sia b sono falsi, ed è vero in tutti gli altri casi. 1. Principi generali di conferma. – Alcuni principi generali di conferma riguardano le relazioni tra i concetti di conferma, disconferma e neutralità. In particolare, i seguenti due principi sono costituiti dalle definizioni di «disconferma» e «neutralità» nei termini della relazione di conferma: (DefD) e disconferma h se e solo se e conferma ¬h . (DefN) e è neutrale nei riguardi di h se e solo se e né conferma né disconferma h. Un principio di conferma estremamente plausibile è il seguente principio di equivalenza: (E)(i) Se e conferma h e h' è logicamente equivalente ad h, allora e conferma h'; (ii) se e conferma h ed e' è logicamente equivalente a e, allora e' conferma h. Poiché due enunciati logicamente equivalenti dicono, seppure in modi diversi, le stesse cose sul mondo, (E) equivale a richiedere che la conferma di un’ipotesi da parte dell’evidenza sia indipendente dai particolari enunciati utilizzati per esprimere l’ipotesi o evidenza. Il seguente principio di negazione ci dice cosa accade alle relazioni «e conferma h», «e disconferma h», ed «e è neutrale nei riguardi di h» quando sostituiamo e con la sua negazione ¬e :

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(Neg) (i) Se e conferma h, allora ¬e disconferma h. (ii) Se e disconferma h, allora ¬e conferma h. (iii) Se e è neutrale nei riguardi di h, allora ¬e è neutrale nei riguardi di h. Un principio di conferma universalmente accettato è il principio di non-banalità il quale esclude la possibilità che qualunque evidenza confermi qualunque ipotesi: (NB) Esiste almeno una coppia di enunciati e e h tali che e non conferma h. Il seguente principio di implicazione afferma che l’evidenza e conferma ogni sua conseguenza logica, cioè che e conferma ogni ipotesi h deducibile da e: (I) Se e implica h, allora e conferma h. Per riferirci alla circostanza che e conferma h sulla base di (I), cioè in ragione del fatto che e implica h, diremo che e «conferma per implicazione» h. Il principio di conferma deduttiva ci dice che h viene confermata da qualunque sua conseguenza e: (CD) Se h implica e, allora e conferma h. (CD) è noto anche come principio di «implicazione inversa», con riferimento alla circostanza che – diversamente da quanto accade in (I) – la direzione della conferma (e conferma h) è inversa a quella dell'implicazione (h implica e). Per riferirci alla circostanza che e conferma h sulla base di (CD), cioè in ragione del fatto che h implica e, diremo che e «conferma deduttivamente» h. Il principio di disconferma deduttiva ci dice che h viene disconfermata dalla negazione di qualunque sua conseguenza e: (DD) Se h implica e, allora ¬e disconferma h. (DD) è noto anche come «regola di falsificazione», con riferimento alla circostanza che, per la legge logica di contrapposizione, affermare che h implica e equivale ad affermare che ¬e implica ¬h o, in altre parole, che ¬e falsifica h. (DD) può quindi venire così riformulato: un’ipotesi h viene disconfermata da qualunque evidenza che la falsifica. È interessante notare che, se si accettano i principi di implicazione (CD) e di negazione (Neg), allora (DD) perde il suo status di requisito indipendente. Infatti, se h implica e allora, grazie a (CD), e conferma h; ne segue, grazie a (Neg)(i), che ¬e disconferma h, come richiesto da (DD). Affermando che l’enunciato e è una «conseguenza empirica» dell’ipotesi h intendiamo riferirci alla circostanza che (i) h implica e, e (ii) il valore di verità di e, cioè il fatto che e sia vero

Paradossi della conferma oppure falso, può venire accertato attraverso appropriati esperimenti o osservazioni. L’importanza dei principi (CD) e (DD) dipende, in gran parte, proprio dal fatto che essi forniscono una semplice rappresentazione della conferma e disconferma di un’ipotesi h sulla base del controllo delle sue conseguenze empiriche. Tuttavia, proprio in ragione della loro grande semplicità, i principi (CD) e (DD) non sono in grado di riflettere pienamente i dettagli della pratica scientifica. Infatti, la previsione di uno specifico risultato sperimentale e normalmente richiede, in aggiunta all’ipotesi h sottoposta a controllo, anche l’assunzione che valgano determinate condizioni iniziali. Per esempio, non possiamo dedurre la previsione e che la cometa di Halley tornerà ad apparire nei nostri cieli in un determinato istante futuro semplicemente sulla base della teoria newtoniana h; possiamo invece dedurre e a partire dalla congiunzione h ∧ c , dove c descrive le condizioni iniziali in cui si trovano ora, o si trovavano in un dato istante del passato, la cometa di Halley e l’intero sistema solare. Queste considerazioni suggeriscono le seguenti «versioni condizionali» di (CD) e (DD): (CD-c) Se h ∧ c implica e allora, dato c, e conferma h, (DD-c) Se h ∧ c implica e allora, dato c, ¬e disconferma h. Presi assieme, i principi di conferma (CD) e (DD) – assieme alle loro versioni condizionali (CD-c) e (DD-c) – costituiscono il famoso «metodo ipotetico-deduttivo» o, almeno, il nocciolo di tale metodo. Di conseguenza essi sono stati incorporati, con qualche piccola correzione, anche nell’ambito dell’approccio bayesiano e di altre teorie metodologiche sviluppate con l’intento di generalizzare il metodo ipotetico-deduttivo, incorporandone i principi fondamentali. Se si accetta (CD) occorrerà accettare anche due principi che conseguono da (CD), vale a dire il principio di rafforzamento dell’ipotesi (RI) e quello di indebolimento dell’evidenza (IE): (RI) Se h implica e, allora e conferma qualunque ipotesi h* più forte di h. In altri termini: se h implica e e h* implica h allora e conferma h*. (IE) Se h implica e, allora h viene confermata da qualunque evidenza e* più debole di e. In altri termini: se h implica e e e implica e* allora e* conferma h. 8291

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Paradossi della conferma Per quanto riguarda la derivazione di (RI) da (CD), si noti che, se h implica e e h* implica h allora, per la transitività dell’implicazione, h* implica e cosicché, grazie a (CD), e conferma h*. Analogamente, per quanto riguarda la derivazione di (IE) da (CD), si noti che, se h implica e ed e implica e* allora, per la transitività dell’implicazione, h implica e* cosicché, in accordo con (CD), e* conferma h. (RI) può dar conto di diversi casi tratti dalla pratica scientifica dove, se l’evidenza e conferma deduttivamente una generalizzazione o teoria di basso livello h, allora si ritiene comunemente che e dovrebbe confermare anche una teoria di alto livello h* dalla quale h può venire dedotta. D’altra parte, occorre ricordare che ai principi (RI) e (IE) sono state rivolte obiezioni che hanno sollevato dubbi non solo sulla plausibilità di tali principi, ma anche su quella di (CD), dal quale essi derivano, e più in generale sulla plausibilità del metodo ipoteticodeduttivo, di cui (CD) rappresenta un ingrediente fondamentale. In particolare, nei riguardi di (RI), è stata rivolta la cosiddetta «obiezione della congiunzione irrilevante» (C.G. Hempel, Studies...), secondo la quale una conseguenza inaccettabile di (RI) è che, in base a tale principio, se h implica e allora e conferma h ∧ h ’, per qualunque h' – dato che h ∧ h ’ implica h. Quindi, per esempio, qualunque evidenza e che confermi l’ipotesi h, rappresentata dalla legge di Hooke, confermerà anche la congiunzione h ∧ h ’, dove h' sta per «La luna è fatta di formaggio». Un’obiezione in qualche modo simile, nota come «obiezione della disgiunzione irrilevante», è stata rivolta nei riguardi di (IE) (Th.R. Grimes, Truth, Content, and the Hypothetico-deductive Method, in «Philosophy of Science», 57, 1990, pp. 514-522). Tale obiezione consiste nell’osservare che (IE) ha l’inaccettabile conseguenza che, se h implica e allora e ∨ e ’ confermerà h, per qualunque e' – dato che e implica e ∨ e ’. Quindi, per esempio, data un’evidenza e che confermi l’ipotesi h, rappresentata dalla legge di Hooke, tale ipotesi verrà confermata anche dalla disgiunzione e ∨ e ’, dove e' indica l’osservazione «C’è una moneta da due euro nella tasca sinistra della mia giacca». Il seguente principio di conseguenza dell’ipotesi – comunemente noto come «condizione speciale di conseguenza», dal termine usato da Hempel (Studies...) – riguarda la conferma delle conseguenze logiche di un’ipotesi: 8292

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(CI) Se e conferma h, allora e conferma anche ogni conseguenza logica di h. In altri termini: se e conferma h e h implica h* allora e conferma h*. L’intuizione che sta alla base di (CI) può venire espressa dicendo che ogni conseguenza logica h* di un’ipotesi h esprime una parte del contenuto di h, cosicché h* viene confermata da qualunque evidenza e che confermi h, cioè l’intero contenuto di h. Mentre Hempel (Studies...) argomenta a favore dell’adozione di (CI), tale principio viene rifiutato da diversi altri autori, a partire da Rudolf Carnap (The Logical Foundations of Probability, Chicago 1962 [1950], § 87). Chi ritiene che (CI) non sia generalmente valido deve comunque rendere conto, in qualche modo, del fatto che, nel controllo di certe complesse ipotesi teoriche, gli scienziati sembrano tacitamente assumere almeno una versione indebolita di (CI) secondo la quale, se un’ipotesi h è (altamente) confermata dall’evidenza e, anche alcune conseguenze empiriche non ancora osservate di h sono (altamente) confermate da e. Si consideri, per esempio (cfr. M. Hesse, The Structure of Scientific Inference, Berkeley 1974, p. 143), la teoria della gravitazione di Newton (h), che è altamente confermata dall’evidenza e relativa alle orbite planetarie e alla caduta dei corpi. La teoria prevede altri fenomeni, finora non osservati, relativi alle orbite delle comete e dei satelliti spaziali. Vi è largo consenso tra gli scienziati sul fatto che e conferma non solo h, ma anche le previsioni derivate da h circa le comete e i satelliti. Un’adeguata analisi della conferma dovrebbe presumibilmente rendere conto della pratica scientifica in casi come questo. 2. Principi di conferma per le ipotesi universali. – Con riferimento all’ipotesi universale «Tutti gli A sono B», che chiameremo h, possiamo distinguere tre tipi di oggetti: gli oggetti di tipo A ∧ B , cioè gli oggetti che godono sia di A sia di B, i quali vengono chiamati «esempi positivi» di h; gli oggetti di tipo A ∧ ¬B , cioè gli oggetti che godono di A ma non di B, i quali vengono chiamati «controesempi» di h; infine, gli oggetti di tipo ¬A cioè gli oggetti appartenenti a uno dei sottotipi ¬A ∧ B e ¬A ∧ ¬B , per i quali non esiste un nome standard. I principi di conferma per le ipotesi universali, che formuleremo tra poco, stabiliscono in che modo l’osservazione di oggetti appartenenti ai tre ti-

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pi appena menzionati confermi, disconfermi, o sia neutrale nei riguardi di h. Poiché h afferma che tutti gli A sono B, appare ragionevole affermare che h viene confermata dall’osservazione che qualche oggetto di tipo A è in possesso di B. Questa intuizione viene espressa dal seguente principio di generalizzazione: (G) L’osservazione di uno o più esempi positivi di h, cioè di uno o più oggetti di tipo A ∧ B , conferma h. Poiché l’affermazione che tutti gli A sono B viene falsificata dall’osservazione che qualche oggetto di tipo A non è in possesso di B, cioè dall’osservazione di uno o più oggetti di tipo A ∧ ¬B , sembra ragionevole accettare il seguente principio di falsificazione: (F) L’osservazione di uno o più controesempi di h, cioè di uno o più oggetti di tipo A ∧ ¬B , disconferma h. I principi (G) e (F) offrono una rappresentazione piuttosto precisa del tradizionale metodo dell’induzione enumerativa. È interessante osservare che (G) e (F) possono venire intesi come casi particolari dei principi generali di conferma (CD-c) e (DD-c). Infatti, se si considerano l’ipotesi h e la condizione iniziale c = «Questo individuo è A», si nota che h ∧ c implica la previsione e = «Questo individuo è B». Di conseguenza possiamo affermare, in accordo con (CD-c), che, dato c, e conferma h, cioè che, data l’osservazione «Questo individuo è A», l’ulteriore osservazione «Questo individuo è B» conferma h. Tale affermazione è essenzialmente equivalente a (G). Analogamente, possiamo affermare, in accordo con (DD-c), che, dato c, ¬e disconferma h, cioè che, data l’osservazione «Questo individuo è A», l’ulteriore osservazione «Questo individuo non è B» disconferma h. Tale affermazione è essenzialmente equivalente a (F). Il fatto che (G) e (F) possano venire intesi come casi particolari di (CD-c) e (DD-c) appare di notevole interesse poiché, come si è visto nel precedente paragrafo, (CDc) e (DD-c) sono ingredienti fondamentali del metodo ipotetico-deduttivo e di qualunque altra teoria metodologica che – come nel caso dell’approccio bayesiano – generalizza il metodo ipotetico-deduttivo. Questo significa che i principi di conferma (G) e (F), dovrebbero essere accettati non solo da chi applica l’induzione enumerativa, ma anche dai sostenitori del metodo ipotetico-deduttivo, dell’approc-

Paradossi della conferma cio bayesiano e di diverse altre teorie metodologiche. Dato che h non dice nulla circa gli oggetti di tipo ¬A , si potrebbe pensare che l’osservazione di oggetti di questo tipo, cioè di oggetti appartenenti a uno dei sottotipi ¬A ∧ B e ¬A ∧ ¬B , sia neutrale nei confronti di h. Questa intuizione viene espressa dal seguente principio di neutralità: (N) (i) L’osservazione di uno o più oggetti di tipo ¬A ∧ B è neutrale nei riguardi di h; (ii) l’osservazione di uno o più oggetti di tipo ¬A ∧ ¬B è neutrale nei riguardi di h. Presi assieme, i principi (G), (F) e (N) costituiscono il cosiddetto «criterio di Nicod», formulato da Jean Nicod (Foundations of Geometry and Induction, London 1930, p. 219). III. PARADOSSO DELLA TRANSITIVITÀ. – Secondo Richard M. Sainsbury (Paradoxes, Cambridge 1988, p. 1), ci troviamo di fronte a un paradosso quando: (a) una conclusione apparentemente inaccettabile (b) viene derivata mediante un ragionamento apparentemente accettabile, (c) a partire da premesse apparentemente accettabili. In tal caso le apparenze devono ingannare, poiché qualcosa di accettabile non può condurre, sulla base di un ragionamento accettabile, a qualcosa di inaccettabile. Una soluzione del paradosso consiste, allora, nel mostrare che si verifica almeno una di queste tre possibilità: (a') la conclusione non è davvero inaccettabile; (b) il ragionamento nasconde qualche falla; (c') almeno una delle premesse va considerata, a un’attenta analisi, inaccettabile. Mostreremo ora che questa nozione di paradosso si applica pienamente ai paradossi. In questo capitolo considereremo il cosiddetto paradosso della transitività, generato da alcuni principi generali di conferma; nei due capitoli che seguono ci occuperemo invece del paradosso dei corvi (cap. V) e di quello degli smeraldi (cap. VI), generati dai principi di conferma per le ipotesi universali. Prima di illustrare il paradosso della transitività conviene riflettere brevemente sulla transitività della conferma. Si consideri il seguente principio generale di transitività: (T) Se e conferma h e h conferma h*, allora e conferma h*. (T) non può costituire un principio universale di conferma poiché è in forte conflitto con le nostre intuizioni. Uno degli innumerevoli controesempi a (T) è il seguente. Immaginiamo di assumere, come sembra piuttosto ragionevo8293

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Paradossi della conferma le, che e = «Tizio è stato strangolato» confermi h = «Tizio è stato assassinato» e che h confermi h* = «Tizio è stato colpito da un proiettile». Tale assunzione non ci porta affatto a ritenere che l’evidenza che Tizio è stato strangolato conferma l’ipotesi che Tizio è stato colpito da un proiettile. Anche se la forma «forte» di transitività espressa da (T) non può venire accettata, possiamo notare che certe forme «deboli» di transitività sono assicurate da due dei principi di conferma introdotti nel precedente paragrafo. La prima forma debole di transitività è garantita dal principio di conferma deduttiva (CD) e, più precisamente dal principio di rafforzamento dell’ipotesi (RI) che, come si è visto, segue da (CD). Utilizzando il concetto di conferma deduttiva, introdotto con (CD), il principio (RI) può venire riformulato come un principio di transitività: (RI-T) Se e conferma deduttivamente h e h conferma deduttivamente h*, allora e conferma h*. (RI-T) esprime una forma debole di transitività, poiché garantisce la transitività della conferma solo nel caso speciale in cui entrambe le relazioni di conferma assunte nella premessa sono relazioni di conferma deduttiva. Un’altra forma debole di transitività viene garantita dal principio di conseguenza dell’ipotesi (CI) che, utilizzando il concetto di conferma per implicazione, introdotto con (I), può venire riformulato come un principio di transitività: (CI-T) Se e conferma h e h conferma per implicazione h*, allora e conferma h*. (CI-T) esprime una forma debole di transitività poiché garantisce la transitività della conferma solo nel caso speciale in cui la seconda delle due relazioni di conferma assunte nella premessa è una relazione di conferma per implicazione. Il cosiddetto paradosso della transitività, chiaramente individuato da Hempel (Studies..., tr. cit., p. 32), deve il suo nome a Mary Hesse (op. cit., p. 143). Tale paradosso consiste nel fatto che due principi apparentemente accettabili quali il principio di conferma deduttiva (CD) – e, quindi, anche il principio di transitività (RIT) che ne segue – e il principio di conseguenza dell’ipotesi (CI) o, equivalentemente, il principio di transitività (CI-T), danno luogo, se li si adotta entrambi, a una conseguenza intuitivamente inaccettabile. Consideriamo, infatti, due enunciati qualunque, e e h; per esempio, h 8294

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potrà indicare la teoria di Newton ed e l’enunciato osservativo «C’è una mela verde su questo tavolo». Poiché la congiunzione e ∧ h implica e possiamo affermare, in accordo con (CD), che e conferma e ∧ h . Di conseguenza, dato che e ∧ h implica h, possiamo affermare, in accordo con (CI), che e conferma h. Ma affermare che, dati due qualsivoglia enunciati e e h, e conferma h, equivale ad asserire che qualunque evidenza e conferma qualunque ipotesi h; così, nel nostro particolare esempio, l’osservazione di una mela verde su questo tavolo conferma la teoria di Newton. Sfortunatamente tale conclusione è in conflitto – e proprio qui sta il paradosso – con il principio di non-banalità (NB) secondo il quale esistono coppie di enunciati e e h tali che e non conferma h. L’interesse del paradosso della transitività per l’analisi della conferma sta nella sua grande generalità. Esso, infatti, deriva semplicemente dall’adozione dei principi di conferma (NB), (CD) e (CI). Anche se tutti e tre questi principi appaiono intuitivamente plausibili, il paradosso della transitività mostra che essi sono incompatibili. L’estrema semplicità del ragionamento utilizzato per la derivazione del paradosso ci porta ad escludere che esso nasconda qualche falla. Restano dunque aperte solo due strade per la soluzione del paradosso: (1) mostrare che la violazione di (NB) è, dopo tutto, tollerabile, oppure (2) mostrare che almeno uno dei principi (CD) e (CI) è inaccettabile. Poiché appare impensabile rinunciare a (NB), non sorprende che la discussione si sia concentrata sulla scelta di quale, fra i principi (CD) e (CI), occorra abbandonare. Hempel (Studies...), per esempio, propone di abbandonare (CD), mentre altri autori, a partire da Rudolf Carnap (Logic Foundation of Probability, Chicago 1950, § 87), propongono di abbandonare (CI). Appare anche ragionevole sostenere (cfr. H. Smokler, Conflicting Conceptions of Confirmation, in «Journal of Philosophy», 65, 1968, pp. 301-312, e I. Niiniluoto - R. Tuomela, Theoretical Concepts and Hypothetico-Inductive Inference, Dordrecht 1973, cap. 1) che il paradosso suggerisce la possibilità di introdurre diverse nozioni qualitative di conferma: alcune soddisferanno solo (CD) e altre solo (CI). Possiamo notare, per esempio, che la nozione bayesiana di conferma basata sulla rilevanza positiva, secondo la quale e conferma h se e solo se p(h,e) > p(h) bayesiano soddisfa (CD), ma viola (CI).

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IV. PARADOSSO DEI CORVI. – Il paradosso dei corvi trae il proprio nome dall’ipotesi universale «Tutti i corvi sono neri», utilizzata nelle sue prime formulazioni e nella discussione che ne è seguita. Nella derivazione del paradosso, oltre ai principi di conferma (G), (N)(ii) ed (E)(i), si assume il cosiddetto principio delle leggi scientifiche (LS), il quale non è un principio di conferma, bensì un principio, apparentemente molto plausibile, che concerne, per così dire, la semantica delle leggi scientifiche (cfr. R.G. Swinburne, An Introduction to Confirmation Theory, London 1973, p. 54): (LS) Date due proprietà A e B, le ipotesi «Tutti gli A sono B» e «Tutti i ¬B sono ¬A » sono logicamente equivalenti. Disponiamo ora di tutti gli elementi per derivare il paradosso dei corvi. Date le proprietà C e N, che stano per «corvo» e «nero», si considerino le ipotesi h = «Tutti i C sono N» e h' = «Tutti i ¬N sono ¬C» (vale a dire «Tutti gli oggetti non-neri sono non-corvi»). Allora, in accordo con (G), l’osservazione di un oggetto di tipo ¬C ∧ ¬N, cioè di un non-corvo non-nero, confermerà h'. Poiché, in base a (LS), h' è logicamente equivalente ad h, tale osservazione confermerà, in accordo con (E)(i), anche h. Tuttavia, affermare che l’osservazione di un oggetto di tipo ¬C ∧ ¬N conferma h costituisce una violazione del principio (N)(ii), in base al quale tale osservazione dovrebbe essere neutrale nei riguardi di h. Abbiamo così ottenuto un paradosso, poiché (a) una conclusione apparentemente inaccettabile, cioè la violazione di (N)(ii), (b) viene derivata mediante un ragionamento apparentemente accettabile, (c) a partire da premesse apparentemente accettabili, vale a dire dai principi (G), (E)(i) e (LS). Il paradosso dei corvi mostra che, se accettiamo i principi (G), (E)(i) e (LS), che appaiono in perfetto accordo con le nostre intuizioni e con la pratica scientifica, allora siamo costretti a violare sistematicamente un principio altrettanto plausibile, vale a dire (N)(ii), con conseguenze che appaiono estremamente bizzarre. Infatti, l’osservazione di qualunque non-corvo non nero – per esempio, per restare nel regno animale, di un canarino giallo, di un’aringa rossa o di una balena bianca – confermerà l’ipotesi che tutti i corvi sono neri. In linea di principio, si possono esplorare tre strategie per risolvere il paradosso: (a') si potrebbero indicare buone ragioni per rifiutare

Paradossi della conferma (N)(ii); (b) si potrebbe sostenere che il ragionamento utilizzato nella derivazione del paradosso nasconde qualche falla; (c') infine, si potrebbero indicare buone ragioni per rinunciare almeno a uno dei principi (G), (E)(i) e (LS). La maggior parte delle soluzioni proposte nella ormai vasta letteratura sul paradosso dei corvi si basano sul rifiuto di uno o entrambi i principi (N)(ii) e (G). In particolare, alcune soluzioni fanno uso della nozione bayesiana di conferma, secondo la quale: (1) l’evidenza e conferma l’ipotesi h nel caso in cui la probabilità finale p(h,e) di h, determinata sulla base di e, è maggiore della sua probabilità iniziale p(h), mentre e è neutrale nei riguardi di h nel caso in cui p(h,e) = p(h); (2) il grado di conferma c(h, e) che h riceve da e viene identificato con la differenza p(h,e) – p(h). Per esempio, la soluzione del paradosso dei corvi proposta da Henry G. Alexander (The Paradoxes of Confirmation, in «British Journal for the Philosophy of Science», 9, 1958, pp. 227233) e poi sviluppata da John L. Mackie (The Paradoxes of Confirmation, in «British Journal for the Philosophy of Science», 13, 1963, pp. 265-277) si basa sull’idea che, nella determinazione del grado di conferma dell’ipotesi h = «Tutti i C sono N», sulla base dell’osservazione di diversi tipi di oggetti, ci si debba basare sulla propria conoscenza di sfondo relativa alla frequenze relative dei corvi (fr(C)) e a quella degli oggetti neri (fr(N)) nell’universo U, ove U potrebbe essere costituito dall’insieme di tutti gli uccelli – o, forse, da quello di tutti gli animali, o di tutti gli oggetti di media grandezza – esistenti sul pianeta. Più precisamente, Alexander e Mackie assumono quanto segue: (AM.1) in base alla propria conoscenza di sfondo, uno scienziato X è convinto che l’ipotesi h potrebbe essere vera; poiché h implica che l’insieme dei corvi è incluso nell’insieme degli oggetti neri, ciò significa che X ritiene che ci siano meno corvi che oggetti neri, vale a dire che fr(C) < fr(N); (AM.2) X è convinto che le frequenze relative dei corvi e degli oggetti neri siano entrambe molto piccole e che, di conseguenza, la frequenza relativa dei corvi sia di gran lunga inferiore alla frequenza relativa degli oggetti non-neri; in altri termini, X è convinto che fr(C) < 1 – fr(N). In primo luogo, Alexander e Mackie dimostrano che, a dispetto di (N)(ii), per qualunque valore di fr(C) e fr(N) l’evidenza consistente nell’osservazione di un oggetto di tipo ¬C ∧ ¬N conferma, sia 8295

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Paradossi della conferma pur debolmente, h. Già questo risultato può venire inteso come una soluzione del paradosso dei corvi poiché indica buone ragioni, relative alle conoscenze di sfondo normalmente disponibili nelle indagini su ipotesi universali, per rifiutare (N)(ii). Tuttavia, Alexander e Mackie non si limitano a mostrare perché un principio di conferma apparentemente molto plausibile, come (N)(ii), dovrebbe essere abbandonato; essi riescono anche individuare il «grado di verità» contenuto in (N)(ii), così da spiegare perché, normalmente, vi riponiamo molta fiducia. Infatti, essi ottengono anche il seguente risultato. Indicando con e ed e’ due diverse evidenze consistenti, rispettivamente, nell’osservazione di un oggetto di tipo C ∧ N e in quella di un oggetto di tipo ¬C ∧ ¬N, si può dimostrare che, se valgono le assunzioni fr(C) < fr(N) e fr(C) < 1 – fr(N), operate in (AM.1) e (AM.2), allora la probabilità p(h,e') è molto più alta di p(h,e). Ne segue che il grado di conferma c(h, e) = p(h,e) – p(h) ha un valore molto più alto di c(h, e) = p(h,e') – p(h), cioè che l’osservazione di un corvo nero conferma h in misura molto superiore rispetto all’osservazione di un non-corvo non-nero. Tale conclusione offre una spiegazione piuttosto convincente delle nostre radicate intuizioni a sostegno di (N)(ii). Essa mostra, infatti, che l’osservazione di un non-corvo non-nero è «sostanzialmente neutrale» nei confronti di h, cioè che tale osservazione conferma h in misura estremamente ridotta rispetto all’osservazione di un corvo nero. Si potrebbe osservare che la conoscenza di sfondo normalmente disponibile nelle indagini su ipotesi del tipo «Tutti gli A sono B» non ha le caratteristiche descritte da Alexander e Mackie, poiché non include alcuna informazione circa le frequenze relative di A e B nell’intero universo U preso in esame. Di solito tale conoscenza è molto più modesta, e include soltanto informazioni circa la frequenza relativa di A e B nella totalità degli oggetti di U finora osservati. Analizzando la conferma di ipotesi universali con riferimento a una conoscenza di sfondo modesta, del tipo appena descritto, alcuni autori sono giunti alla sorprendente conclusione che, in certi casi, h può venire disconfermata non solo dall’osservazione di oggetti di tipo ¬A ∧ ¬B , ma persino da quella di oggetti di tipo A ∧ B (cfr. I.J. Good, The Paradox of Confirmation, in «British Journal for the Philosophy of Science», 11, 1960, pp. 145-149; Id., 8296

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The Paradox of Confirmation (II), in «British Journal for the Philosophy of Science», 12, 1961, pp 63-64, e R.G. Swinburne, An Introduction to Confirmation Theory, London 1973, pp. 159-171). Questa conclusione suggerisce una soluzione del paradosso dei corvi basata sul rifiuto di entrambi i principi (N) e (G). Vedremo ora che la pretesa che (G) sia un principio universalmente accettabile viene messa a dura prova anche, e soprattutto, dal paradosso degli smeraldi. Poiché (G) costituisce, come si è già osservato nel cap. II.2, un importante ingrediente dell’induzione enumerativa, del metodo ipotetico-deduttivo, dell’approccio bayesiano e di altre teorie metodologiche ampiamente accettate, sembra evidente che i paradossi dei corvi e degli smeraldi, suscitando forti dubbi sulla validità di (G), costituiscono una seria sfida per ogni adeguata analisi del metodo scientifico. V. PARADOSSO DEGLI SMERALDI. – Tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta del secolo scorso, Nelson Goodman (Fact, Fiction, and Forecast, Cambridge [Massachusetts], 19834 [1954]) sottopose a una penetrante critica l’idea, espressa da (G), che qualsiasi ipotesi universale sia confermata dall’osservazione di uno o più esempi positivi. I problemi messi in luce da Goodman possono venire presentati nella forma di un vero e proprio paradosso, noto come paradosso degli smeraldi. Nella formulazione del paradosso, Goodman utilizza il bizzarro predicato grue, ottenuto dalla combinazione di green e blue, che verrà qui tradotto con «vlu», ottenuto in maniera del tutto simile, combinando «verde» e «blu». Possiamo definire «vlu» con riferimento a un particolare istante t, in modo tale che un oggetto a è vlu se e solo se: (i) a è verde ed è stato esaminato prima di t, oppure (ii) a è blu ed è stato esaminato a partire da t. Supponiamo ora che l’evidenza e a disposizione di uno scienziato X nell’istante t dica che tutti e cento gli smeraldi da lui esaminati, ovviamente prima di t, sono verdi; ne seguirà, sulla base di (G), che e conferma l’ipotesi h = «Tutti gli smeraldi sono verdi». Dato che la definizione di «vlu» implica che qualunque smeraldo verde esaminato prima di t è vlu, e risulta logicamente equivalente all’enunciato e' il quale dice che tutti gli smeraldi esaminati da X sono vlu. Poiché e' conferma, in accordo con (G), l’ipotesi h' = «Tutti gli smeraldi sono vlu», dall’equivalenza logica di e ed e' segue, grazie al principio di

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equivalenza (E)(ii), che h' verrà confermata anche da e. Ciò significa che l’osservazione di cento smeraldi verdi prima di t confermerà l’ipotesi h', la quale asserisce che tutti gli smeraldi sono vlu, cioè che tutti gli smeraldi esaminati prima di t sono verdi e tutti gli smeraldi esaminati a partire da t sono blu. Tale conclusione, ottenuta a partire dai principi di conferma (G) ed (E)(ii), non può che apparire intuitivamente inaccettabile. Per quale motivo, infatti, l’osservazione di cento smeraldi verdi prima di t dovrebbe accrescere la nostra fiducia in un’ipotesi la quale afferma che tutti gli smeraldi che osserveremo da quel momento in poi saranno blu? La riluttanza ad accettare la conclusione del paradosso degli smeraldi sembra indicare che, dopo tutto, la nostra fiducia nell’universale applicabilità del principio di generalizzazione (G) si arresta quando ci troviamo di fronte a «strane» ipotesi come h', cioè a ipotesi formulate facendo uso di predicati bizzarri come «vlu». In questi casi, infatti, le nostre intuizioni ci dicono che l’ipotesi non può venire confermata dai suoi esempi positivi. In accordo con queste intuizioni, Goodman propone di risolvere il paradosso degli smeraldi restringendo il campo di applicazione di (G), sulla base di un’appropriata distinzione tra generalizzazioni «legisimili» e «accidentali», e dell’assunzione che solo le prime possono venire confermate dai loro esempi positivi. L’esperienza quotidiana, prima ancora di quella scientifica, sembra indicare la necessità di una distinzione di questo genere. Per esempio, tutti noi siamo disposti ad ammettere che l’osservazione che un dato pezzo di rame è conduttore di elettricità conferma l’ipotesi che tutti i pezzi di rame sono conduttori, ma non siamo affatto disposti a concedere che il fatto che un determinato individuo, che si trova ora in questa sala, abbia due fratelli maggiori, conferma l’ipotesi che tutte le persone in questa sala hanno due fratelli maggiori. Anche se le nostre intuizioni su svariati casi particolari di ipotesi suscettibili di venire confermate, oppure no, dai loro esempi positivi, sono piuttosto nitide, la formulazione di un criterio generale per distinguere tra ipotesi legisimili (confermabili) e accidentali (non confermabili) rappresenta un compito estremamente arduo, al quale Goodman si riferirà con la famosa espressione «nuovo enigma dell’induzione».

Paradossi della conferma Il nuovo enigma individuato da Goodman colma una lacuna nell’analisi humeana dell’induzione. Infatti, il «vecchio» enigma dell’induzione, scoperto da David Hume, consisteva nella richiesta di giustificare l’induzione cercando di rispondere alla domanda «Perché gli esempi positivi di un’ipotesi h dovrebbero accrescere la nostra fiducia che h sia vera e, più specificamente, che le osservazioni future forniranno ulteriori esempi positivi di h?» Tale richiesta potrebbe venire interpretata come una richiesta di giustificare il principio di generalizzazione (G). Tuttavia, prima di giustificare (G), occorre distinguere i casi in cui (G) è applicabile da quelli in cui non lo è, cercando di rispondere alla domanda «Quali ipotesi vengono confermate dai loro esempi positivi?». Non si può affermare che Goodman abbia avuto pieno successo nel tentativo di risolvere il nuovo enigma dell’induzione da lui scoperto. Infatti le sue proposte su come tracciare la distinzione tra generalizzazioni legisimili e accidentali sono ben lungi dall’essere universalmente accettate; si deve anzi aggiungere che nessuno dei criteri di legisimiglianza finora proposti sembra godere di largo consenso. Alcune interessanti soluzioni del paradosso degli smeraldi sono state formulate facendo uso della nozione bayesiana di conferma. Seguendo Elliot Sober (No Model, No Inference: a Bayesian Primer on the Grue Problem, in D. Stalker [a cura di], Grue! The New Riddle of Induction, Chicago 1994, pp. 220-240), supporremo che, prima dell’istante t, uno scienziato X abbia esaminato n smeraldi per scoprirne il colore, ottenendo l’evidenza e, la quale afferma che tutti gli n smeraldi sono verdi. Occorre notare che, se e è stata ottenuta in questo modo, allora entrambe le ipotesi h = «Tutti gli smeraldi sono verdi» e h' = «Tutti gli smeraldi sono vlu» implicano logicamente e. Possiamo ragionevolmente assumere che la conoscenza di sfondo sulla cui base X specifica le proprie probabilità possa venire così caratterizzata: (S.1) X non è completamente certo né della verità né della falsità di h, cosicché 0 < p(h) < 1; (S.2) pur attribuendo a h una probabilità iniziale enormemente superiore a quella di h', X non è completamente certo della falsità di h' poiché, dopo tutto, non può escludere con certezza che, per qualche misteriosa causa, tutti gli smeraldi cambino improvvisamente colore a partire dall’istante t; ciò significa che 0 < p(h') < 1; (S.3) prima di osservare gli n smeral8297

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Paradossi della predicazione di, X non è del tutto certo che essi saranno tutti verdi; in termini probabilistici, ciò significa che p(e) < 1. Poiché la nozione bayesiana di conferma soddisfa la regola di Huygens, secondo la quale, se h implica e allora e conferma h, alla sola condizione che 0 < p(h) < 1 e p(e) < 1 bayesiano, le assunzioni (S.1)-(S.3) implicano che e conferma sia h sia h'. L’idea intuitiva che e non possa in nessun caso confermare h' si rivela, dunque, erronea. In realtà, e confermerà h' in tutti quei casi in cui la probabilità iniziale attribuita a h' è superiore, anche se di pochissimo, a zero e, naturalmente, inferiore a uno. Tuttavia, secondo Sober, l’idea che e non conferma h' è parzialmente giustificata dal fatto che, a partire dalla disuguaglianza tra p(h) e p(h') in (S.2), si può dimostrare che il valore del grado di conferma c(h', e) è di gran lunga inferiore a quello di c(h, e), il che significa che h' viene confermata da e in misura molto minore di quanto venga confermata h. Tale conclusione mostra, inoltre, che la rigida distinzione tra le ipotesi confermabili dai loro esempi positivi e quelle che non lo sono va sostituita con una semplice differenza di grado; più precisamente, secondo Sober, la «confermabilità» di un’ipotesi cresce al crescere della sua probabilità iniziale, ed è quindi molto piccola per le ipotesi «strane», dato che ad esse viene attribuita una minuscola probabilità iniziale. R. Festa BIBL.: I. SCHEFFLER, The Anatomy of Inquiry, New York 1966; B. SKYRMS, Choice and Chance. An Introduction to Inductive Logic, Belmont (California) 19863, tr. it. a cura di M.C. Galavotti, Introduzione alla logica induttiva, Bologna 1974; D. STALKER (a cura di), Grue! The New Riddle of Induction, Chicago 1994; R. FESTA, Cambiare opinione. Temi e problemi di epistemologia bayesiana, Bologna 1996. ➨ LOGICA INDUTTIVA.

PARADOSSI DELLA PREDICAZIONE. – Paradossi della predicazione Nei termini di paradossi della predicazione si intendono coppie di proposizioni autocontraddittorie le quali, analogamente ai paradossi della teoria degli insiemi e della verità, sono derivate attraverso ragionamenti non erronei dal punto di vista logico. Piuttosto concorre in maniera evidente, anche se non esclusiva, alla formazione di tali paradossi la ricchezza espressiva del linguaggio corrente, in particolare il fatto che esso consenta la costruzione di espressioni autoreferenziali. Nei paradossi del8298

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la predicazione infatti si formula una definizione attraverso una predicazione e ci si domanda se la definizione ottenuta possa essere a sua volta soggetto della predicazione in questione. Alternativamente si definisce un predicato e ci si domanda se il predicato possa essere soggetto della predicazione di se medesimo. Analoga struttura è esibita dai paradossi della verità e per questa ragione entrambi furono caratterizzati in Ramsey (The Foundation of Mathematics, in «Proceedings of the Mathematical Society», [2], 25, 1926, pp. 338-384, tr. it. di E. Belli-Nicoletti - N. Valente, I fondamenti della matematica e altri scritti di logica, Milano 1964) come paradossi epistemologici o semantici onde distinguerli dai paradossi della teoria degli insiemi o logici. A differenza di questi ultimi i paradossi epistemologici o semantici non possono essere formulati in puri termini logici in quanto «contengono un certo riferimento a pensiero, linguaggio, simbolismo» e non possono essere riprodotti all’interno di sistemi formali. Russell per contro intese paradossi semantici e logici come affini e ne propose una soluzione congiunta nei Principia Mathematica (B. Russell - A.N. Whitehead, Principia Mathematica, Cambridge 1910-13, tr. it. a cura di P. Parrini, Introduzione ai Principia Mathematica, Firenze 1977). Qui si illustreranno i principali paradossi della predicazione, quindi si faranno alcuni cenni alla teoria (ramificata) dei tipi logici. Prototipo dei paradossi in questione è il seguente aneddoto del barbiere del villaggio, attribuito da Russell nel 1918 a una fonte ignota. Il barbiere del villaggio può essere plausibilmente definito nei termini di colui che deve radere tutti coloro che non si radono da soli. Ora accade che, per un’ordinanza del sindaco, si debbano radere tutti gli abitanti maschi del villaggio. Se il barbiere rade se stesso o meno è una questione problematica. Se il barbiere si rade, allora non è più il barbiere, stante la definizione di sopra. Se il barbiere non si rade, il barbiere non rade più tutti gli uomini che non si radono da soli e, di nuovo, non è più il barbiere. S OMMARIO : I. Paradosso di Richard - Berry (1905-1906). - II. Paradosso di Zermelo - König (1905). - III. Paradosso di Grelling (1908). - IV. Ricezione dei paradossi della predicazione: interpretazione del loro significato e reazioni. I. PARADOSSO DI RICHARD - BERRY (1905-1906). – Riguarda la nozione di definibilità finitaria, qui esemplificata in forma leggermente differente da quella originaria e facendo riferimento

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all’italiano quale lingua avente un alfabeto, un vocabolario e una grammatica predefinita. Si concepisca l’alfabeto come costituito dalla spaziatura bianca (per separare le parole tra di loro), da 21 lettere in carattere latino e dalla virgola. La nozione di espressione della lingua italiana può essere definita esattamente come sequenza finita dei 23 simboli in questione non iniziante con uno spazio bianco. È possibile enumerare, attraverso gli strumenti abitualmente in uso in matematica, tutte le espressioni della lingua italiana, cioè definire una corrispondenza biunivoca tra la collezione di tutte le espressioni e l’insieme dei numeri naturali di modo che a ogni espressione sia assegnato un unico numero naturale e viceversa. Tra le espressioni della lingua italiana numerate occorrono anche definizioni di funzioni aritmetiche a una sola variabile, ovvero funzioni definite su un numero naturale avente un numero naturale come valore. Eliminando dall’enumerazione delle espressioni della lingua italiana tutte quelle che non sono definizioni di una funzione aritmetica a un solo valore, otteniamo un’enumerazione (E0 , E1, ...) delle espressioni che definiscono tali funzioni (le funzioni enumerate siano, ad esempio, le seguenti: ƒ0 (n), ƒ1(n),...). Si consideri ora la seguente espressione: «la funzione il cui valore, per un dato numero naturale come argomento, è uguale a un numero in più rispetto al valore, per quel dato numero naturale come argomento, della funzione che corrisponde a quel numero naturale nella enumerazione delle espressioni della lingua italiana che sono definizioni di funzioni aritmetiche a un solo valore». Tale espressione è la definizione di una funzione aritmetica a un solo valore (esattamente, della funzione ƒn (n) +1) ed è un’espressione della lingua italiana. Eppure, per definizione, la funzione definita dall’espressione in questione deve essere differente da tutte le funzioni che possono essere definite attraverso un’espressione della lingua italiana. La formulazione originale del paradosso di Richard mostra evidenti analogie con la dimostrazione cantoriana della non-numerabilità dei numeri reali: fu in effetti presentata da Richard in riferimento alla definizione di numero reale in forma decimale e in parallelo con la dimostrazione del teorema di Cantor sulla non numerabilità dei numeri reali. Nota è anche la riformulazione della medesima antinomia, attribuita

Paradossi della predicazione in Russell (Les paradoxes de la logique, in «Revue de métaphysique et de la morale», 14, 1906, pp. 627-50, tr. ingl. a cura di D. Lackey, On «Insolubilia» and Their Solution by Symbolic Logic, London 1973) a G.G. Berry. Si consideri l’espressione della lingua inglese: the least integer not nameable in fewer than nineteen sillabes. Tale espressione nomina il numero intero in questione con diciotto sillabe! La formulazione originaria di Berry, del 1904 ma non pubblicata, è la seguente: «il più piccolo ordinale non definibile in un numero finito di parole» è un’espressione che definisce tale ordinale in un numero finito di parole! II. PARADOSSO DI ZERMELO - KÖNIG (1905). – Pubblicato da König non come paradosso ma come obiezione all’affermazione di Zermelo che il continuo reale può essere ben ordinato. Benché riguardi una nozione insiemistica, quello in questione è un paradosso della predicazione essendo formulato come segue. I numeri reali definibili con un numero finito di parole sono numerabili. Dato che il continuo reale non è numerabile ci deve essere un numero reale x che non può essere definito in un numero finito di parole. Se il continuo fosse ben ordinabile ci sarebbe un tale x minimo, il che è una contraddizione. III. PARADOSSO DI GRELLING (1908). – Concerne la nozione di aggettivo autologico/eterologico dove un aggettivo è definito autologico/eterologico se può/non può essere predicato di se stesso. Gli aggettivi «polisillabico», «predicabile» sono autologici; «bianco», «allegro» ecc. sono aggettivi eterologici. Ci si domandi ora se l’aggettivo «eterologico» sia eterologico o no. Supposto che sia eterologico, esso è autologico; analogamente se l’aggettivo «eterologico» è autologico allora è predicabile di se stesso ma la proprietà che esso si attribuisce è di essere eterologico. IV. RICEZIONE DEI PARADOSSI DELLA PREDICAZIONE: INTERPRETAZIONE DEL LORO SIGNIFICATO E REAZIONI. – Nella trattazione dei paradossi della teoria degli insiemi s’è accennato al fatto che l’assiomatizzazione della teoria degli insiemi risolva la questione dei paradossi in maniera pragmatica caratterizzando una nozione matematica di insieme che non permette l’insorgenza di paradossi. Conformemente alla concezione iterativa la collezione di tutti gli insiemi che non contengono se stessi come elemento, ad esempio, non può essere considerata un insieme, perché per contenere se medesima, do8299

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Paradossi della predicazione vrebbe essere formata, quale insieme, prima di se stessa, il che è impossibile. D’altra parte la nozione di insieme di tutti gli insiemi, per restare all’esempio, considerata logicamente quale estensione del concetto «essere un insieme» sembra reclamare un senso preciso, allo stesso modo che le nozioni, qui considerate, «essere definibile», «essere nominabile», «essere auto/eterologico». La constatazione di tale affinità è alla base della trattazione congiunta di entrambi i generi di paradossi, sia quanto alla loro natura che quanto alle modalità in cui evitarne l’insorgenza, proposta in Russell, Mathematical Logic as Based on the Theory of Types, in «American Journal of Mathematics», 30 (1908), pp. 222-2621, e Russell - Whitehead, op cit., nei termini, rispettivamente, del vicious circle principle (VCP) e della teoria dei tipi (qui si illustrerà la teoria dei tipi ramificata proposta quale tentativo di soluzione unica dei paradossi logici e semantici). Benché l’autoreferenzialità del linguaggio corrente sia causa evidente dell’insorgere dei paradossi della predicazione, fare riferimento solo ad essa, con la conseguente prescrizione di bandire proprosizioni autoreferenziali dall’ambito della legittimità logica, pare però una mossa insufficiente e insoddisfacente: non solo proposizioni autoreferenziali usate correntemente sono del tutto innocue (ad esempio: «questa proposizione è formulata in italiano») ma l’uso di proposizioni autoreferenziali occorre in argomenti formali legittimi, ad esempio nella prova del teorema di incompletezza dell’aritmetica di Gödel. Con il VCP Russell intese appunto formulare un’analisi più precisa dell’origine dei paradossi della predicazione e mostrarne l’affinità coi paradossi della teoria degli insiemi: entrambi i generi di paradossi sarebbero conseguenze della violazione del principio in questione che prescrive che nessuna totalità possa essere concepita come tale da includere membri che siano definibili solo in termini della totalità in questione o che implichino o presuppongano tale totalità. La procedura attraverso cui si definisce qualcosa nei termini di una totalità a cui appartiene è detta in logica impredicativa: il VCP bandisce dall’ambito della legittimità logica tali procedure di definizione. Il VCP rappresentò il motivo ispiratore della teoria dei tipi proposta da Russell quale teoria formale attraverso cui ricostruire la matematica classica su basi logiche evitando l’insorgenza di paradossi. La teoria 8300

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dei tipi divide l’universo del discorso in una gererachia: individui (tipo 0), proprietà di individui (tipo 1), proprietà di proprietà di individui (tipo 2) ecc. Ben formate sono esclusivamente le formule aventi la forma y(x) per x del tipo n e y del tipo n+1. La formula « x ∈ x » non è una formula ben formata della teoria dei tipi, quindi la proprietà di essere membro di se stesso non può essere espressa e il paradosso di Russell non torna a riproporsi. La teoria dei tipi ramificata distingue altresì, all’interno di ciascun tipo maggiore di 0 degli ordini. Così, all’interno del tipo 1, all’ordine 0 appartengono proprietà definite non coinvolgendo alcuna totalità mentre proprietà definite in riferimento alla totalità delle proprietà di un dato ordine appartengono all’ordine immediatamente superiore. In queste circostanze l’insieme dei numeri naturali diviene predicativo nel contesto della teoria dei tipi. Il concetto di numero naturale sia definito in accordo con la definizione fregeana classica per cui x è un numero naturale se x ha ogni proprietà P posseduta da 0 e tale che se P(n) allora P(n+1). Se la proprietà P, implicita in tale definizione è specificata in maniera tale da potere avere come raggio d’azione un determinato ordine, la proprietà di essere un numero naturale diviene dell’ordine immediatamente superiore a quello di P. La teoria dei tipi, qui illustrata, incorre però nella fondamentale difficoltà di non sapere riprodurre al suo interno procedure (impredicative) innocue di fatto indispensabili in matematica, non solo in analisi ma anche in aritmetica. Onde fare della teoria dei tipi ramificata lo strumento di una possibile ricostruzione della matematica classica in termini logici, fu introdotto in Russell - Whitehead, op. cit., l’assioma di riducibilità che afferma l’esistenza, per una proprietà di ordine superiore al minimo, di una proprietà coestensiva di ordine 0 (ovvero, per ogni definizione impredicativa all’interno di un dato ordine ve ne è una predicativa coestensiva, cioè posseduta dagli stessi oggetti). A ogni modo, l’assioma di riducibilità, dato il suo carattere palesemente ad hoc, non parve una soluzione accettabile agli inconvenienti della teoria dei tipi, che, a sua volta, non riuscì a divenire strumento del programma logicista. T. Arrigoni BIBL.: S.C. KLEENE, Introduction to Metamathematics, Amsterdam 1952; S. HAACK, Philosophy of Logic, Cambridge 1978.

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Paradossi della teoria degli insiemi

PARADOSSI Paradossi della teoria degliDELLA insiemi TEORIA DEGLI INSIEMI. – Nei termini di paradossi della teoria

esista un u ∈ x ’ tale che u